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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di MARZO 2014

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aggiornamento al 26.03.2014

aggiornamento al 22.03.2014

aggiornamento al 18.03.2014

aggiornamento all'11.03.2014

aggiornamento al 06.03.2014

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 26.03.2014

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IN EVIDENZA

La 1^ sentenza (a noi nota) circa il ripristino di edifici crollati o demoliti, dopo la riformulazione dell'art. 3, comma 1, lett. d), del DPR n. 380/2001 ad opera della Legge 09.08.2013 n. 98.

     La norma novellata così recita: "d) "interventi di ristrutturazione edilizia", gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l’eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente;"
     La sentenza spiega come interpretare la novità legislativa che, sicuramente, fa storcere il naso agli Uffici Tecnici Comunali ...
26.03.2014 - LA SEGRETERIA PTPL

EDILIZIA PRIVATA: In tema di <ricostruzione dei ruderi> ai fini della sussistenza dei presupposti per la demolizione e ricostruzione (come “ristrutturazione edilizia”) è necessario che l’edificio esista, con strutture perimetrali, orizzontali e di copertura, con il risultato che si ha invece intervento di “nuova edificazione” in caso di ruderi, allorquando non si disponga di elementi attuali sufficienti a dimostrare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare.
--------------
Circa la nuova disciplina introdotta del decreto-legge n. 69/2013 (convertito in legge n. 98/2013) è vero che la nuova disciplina della <ricostruzione dei ruderi>, sposta fattispecie che in passato sono state fatte rientrare negli interventi di “nuova edificazione” nell’ambito delle “ristrutturazione edilizia”; tuttavia ciò avviene a precise condizioni previste dalla norma e cioè laddove si voglia ricostruire un immobile crollato o demolito del quale “sia possibile accertare la preesistente consistenza”.
Dunque non è sufficiente che si dimostri che un immobile è esistito e che attualmente risulta crollato per potere accedere alla sua ricostruzione come “ristrutturazione edilizia”, ma è necessario che in concreto si dimostri non solo il profilo dell’an (che un certo immobile attualmente crollato è esistito) ma anche quello del quantum (che cioè si dimostri l’esatta consistenza dell’immobile preesistente del quale si richiede la ricostruzione); il risultato è che se invece si riesce solo a dimostrare che in un certo luogo vi era in passato un immobile oggi demolito, ma non si riesce a dimostrarne la consistenza, la sua rinnovata edificazione deve essere inquadrata come “nuova costruzione”.
Dimostrare la “preesistente consistenza” vuol dire, come anche parte ricorrente ammette, dar conto della “destinazione d’uso e [del]l’ingombro planivolumetrico complessivo del fabbricato crollato”, profilo quest’ultimo che richiede certezza in punto di murature perimetrali e di strutture orizzontali di copertura, ai fini del calcolo del volume preesistente occupato dal fabbricato crollato.
--------------
Nel caso in esame elementi fattuali aventi un qualche grado di certezza sull’effettivo ingombro planivilumetrico dell’edificio preesistente non ci sono. Nel ricorso e nella relazione tecnica allegata all’istanza di permesso di costruire si dice apertamente che l’immobile che si intende ricostruire non solo è crollato, ma è “non più identificabile dai resti”.
La documentazione che parte ricorrente ha prodotto in sede procedimentale e anche quella aggiuntiva prodotta in giudizio, se danno conto della certa preesistenza dell’immobile di cui si chiede la ricostruzione non consentono di ritenere accertata la sua effettiva consistenza; se dubbi suscita l’individuazione delle dimensioni in pianta dell’edificio, che dovrebbero ricavarsi da una vecchia mappa catastale e da un estratto del c.d. Catasto Leopoldino (atti che non consentono di ricavare elementi quantitativi certi), sicuramente inidoneo risulta il calcolo dell’altezza dell’edificio crollato.
Quest’ultimo elemento (altezza dell’edificio) è infatti ricavato da parte ricorrente applicando, ad una foto aerea del 1965, la c.d. “teoria delle ombre”, cioè uno studio che stima le altezze degli immobili dal confronto tra le ombre dei vari edifici, ricavabili dalla foto, alcuni dei quali ancora esistenti: come l’Amministrazione ha ben argomentato nella relazione tecnica presentata, si tratta di calcoli con margine di errore molto alto (sino a 8 metri) e quindi con attendibilità assai ridotta, stante il fatto che si utilizza una foto scattata a 2.800 metri di quota e in scala 1: 20.000, con il risultato che essa non risulta idonea ad integrare la previsione normativa che richiede che sia “accertata” la preesistente consistenza dell’immobile.
In tema di <ricostruzione dei ruderi> la Sezione si è recentemente espressa con la sentenza n. 1560 del 12.11.2013, nella quale è stato richiamato l’orientamento giurisprudenziale prevalente secondo cui, ai fini della sussistenza dei presupposti per la demolizione e ricostruzione (come “ristrutturazione edilizia”), è necessario che l’edificio esista, con strutture perimetrali, orizzontali e di copertura, con il risultato che si ha invece intervento di “nuova edificazione” in caso di ruderi, allorquando non si disponga di elementi attuali sufficienti a dimostrare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare.
Nella presente controversia, tuttavia, parte ricorrente richiama la nuova disciplina introdotta del decreto-legge n. 69 del 2013 (convertito in legge n. 98 del 2013), che ha sul punto modificato l’art. 3, comma 1, lett. d), del DPR n. 380 del 2001, cioè la norma che definisce l’istituto della <ristrutturazione edilizia>; a seguito di tale modifica rientrano nella ristrutturazione edilizia anche gli interventi edilizi “volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”; parte ricorrente ritiene che nella specie sussistano i presupposti per assentire l’intervento edilizio richiesto alla luce della nuova definizione normativa della ristrutturazione edilizia.
Ma la tesi di parte ricorrente non convince.
Da un primo punto di vista è vero che la nuova disciplina della <ricostruzione dei ruderi>, sposta fattispecie che in passato sono state fatte rientrare negli interventi di “nuova edificazione” nell’ambito delle “ristrutturazione edilizia”; tuttavia ciò avviene a precise condizioni previste dalla norma e cioè laddove si voglia ricostruire un immobile crollato o demolito del quale “sia possibile accertare la preesistente consistenza”.
Dunque non è sufficiente che si dimostri che un immobile è esistito e che attualmente risulta crollato per potere accedere alla sua ricostruzione come “ristrutturazione edilizia”, ma è necessario che in concreto si dimostri non solo il profilo dell’an (che un certo immobile attualmente crollato è esistito) ma anche quello del quantum (che cioè si dimostri l’esatta consistenza dell’immobile preesistente del quale si richiede la ricostruzione); il risultato è che se invece si riesce solo a dimostrare che in un certo luogo vi era in passato un immobile oggi demolito, ma non si riesce a dimostrarne la consistenza, la sua rinnovata edificazione deve essere inquadrata come “nuova costruzione”.
Dimostrare la “preesistente consistenza” vuol dire, come anche parte ricorrente ammette, dar conto della “destinazione d’uso e [del]l’ingombro planivolumetrico complessivo del fabbricato crollato”, profilo quest’ultimo che richiede certezza in punto di murature perimetrali e di strutture orizzontali di copertura, ai fini del calcolo del volume preesistente occupato dal fabbricato crollato.
Nel caso in esame elementi fattuali aventi un qualche grado di certezza sull’effettivo ingombro planivilumetrico dell’edificio preesistente non ci sono. Nel ricorso e nella relazione tecnica allegata all’istanza di permesso di costruire (doc. 2 dell’Amministrazione) si dice apertamente che l’immobile che si intende ricostruire non solo è crollato, ma è “non più identificabile dai resti”.
La documentazione che parte ricorrente ha prodotto in sede procedimentale e anche quella aggiuntiva prodotta in giudizio, se danno conto della certa preesistenza dell’immobile di cui si chiede la ricostruzione non consentono di ritenere accertata la sua effettiva consistenza; se dubbi suscita l’individuazione delle dimensioni in pianta dell’edificio, che dovrebbero ricavarsi da una vecchia mappa catastale e da un estratto del c.d. Catasto Leopoldino (atti che non consentono di ricavare elementi quantitativi certi), sicuramente inidoneo risulta il calcolo dell’altezza dell’edificio crollato; quest’ultimo elemento (altezza dell’edificio) è infatti ricavato da parte ricorrente applicando, ad una foto aerea del 1965, la c.d. “teoria delle ombre”, cioè uno studio che stima le altezze degli immobili dal confronto tra le ombre dei vari edifici, ricavabili dalla foto, alcuni dei quali ancora esistenti: come l’Amministrazione ha ben argomentato nella relazione tecnica del 27.02.2014 (doc. 13 del deposito dell’Amministrazione), si tratta di calcoli con margine di errore molto alto (sino a 8 metri) e quindi con attendibilità assai ridotta, stante il fatto che si utilizza una foto scattata a 2.800 metri di quota e in scala 1: 20.000, con il risultato che essa non risulta idonea ad integrare la previsione normativa che richiede che sia “accertata” la preesistente consistenza dell’immobile (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 21.03.2014 n. 567 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

NOVITA' NEL SITO

Inserito il nuovo bottone: dossier ABBAINO.

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Oggetto: ambito soggettivo ed oggettivo di applicazione delle regole di trasparenza di cui alla legge 06.11.2012, n. 190 e al decreto legislativo 14.03.2013, n. 33: in particolare, gli enti economici e le società controllate e partecipate (circolare 14.02.2014 n. 1/2014).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI SERVIZI: G. P. Belloni, Alcune questioni operative afferenti il ciclo dei rifiuti: ambiti territoriali ottimali, affidamenti della gestione, obbligo di associazione per i piccoli comuni (25.03.2014 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Fusioni, 3 mandati.
Un sindaco che ha già espletato due mandati consecutivi in un ente che si è fuso con altri enti in un unico comune, può ricandidarsi alla carica sindacale nel nuovo ente?

Il divieto del terzo mandato, disciplinato dall'art. 51 del decreto legislativo n. 267/2000, opera solo se la candidatura a sindaco viene presentata dall'interessato nello stesso comune dove già ha ricoperto la medesima carica per due mandati consecutivi. Poiché nel caso di specie gli enti che si sono fusi sono estinti e hanno dato origine ad un nuovo comune, in tale specifica ipotesi non è applicabile il divieto del terzo mandato (articolo ItaliaOggi del 21.03.2014).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum per le sedute.
Ai fini del calcolo del quorum necessario per la validità delle sedute del consiglio comunale, deve essere computato anche il sindaco?

L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, ha demandato alla fonte regolamentare, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, il funzionamento dei consigli e, in particolare, la determinazione del numero legale per la validità delle sedute, con il limite che detto numero non può, in ogni caso, essere inferiore al «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tal fine il sindaco».
Nel caso di specie, il regolamento che disciplina il funzionamento del consiglio comunale, nel prevedere il quorum strutturale, non precisa se nel novero dei consiglieri assegnati debba essere computato o meno il sindaco.
In merito alla computabilità del sindaco ai fini della definizione del quorum strutturale delle adunanze consiliari, non si riscontrano univoci orientamenti giurisprudenziali (cfr. Tar Puglia sent.1301/2004, Tar Lazio, sez. II-ter, sentenza n. 497/2011, Tar Lombardia sentenza n. 1109/2005 e n.1604/2011 e Tar Campania Salerno, sez. II, 20/05/2002, n. 373).
Ciò considerato, in base al principio generale secondo cui, nelle ipotesi in cui l'ordinamento non ha inteso annoverare il sindaco o il presidente della provincia nel quorum richiesto per la validità di una seduta lo ha indicato espressamente, usando la formula «senza computare a tal fine il sindaco e il presidente della provincia», si ritiene che, nella fattispecie, sia legittimo includere nel calcolo dei consiglieri anche il sindaco (articolo ItaliaOggi del 21.03.2014).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONENon sono incentivabili le funzioni attribuite ad un organo di alta vigilanza comunale –nei confronti dei soggetti attuatori o in affiancamento al RUP nominato dai medesimi privati- che vigili sulla progettazione ed esecuzione dei lavori e su tutte le clausole pattizie attinenti ai lavori, contenute nella convenzione, relative alle opere che verranno a far parte del patrimonio indisponibile del Comune, dopo l’esito favorevole del collaudo.
Infatti, non si comprendono le ragioni per le quali detto incentivo debba essere riconosciuto per un’attività di vigilanza che il Comune avrebbe intenzione di far volgere esclusivamente sulla progettazione ed esecuzione dei lavori affidati a dei concessionari esterni, definiti dallo stesso richiedente come “soggetti attuatori di progetti esecutivi”.
Ad avviso di questa Sezione, pertanto, mancherebbe il presupposto necessario al riconoscimento dell’incentivo di cui al comma 6, ossia l’attività di redazione di un atto di pianificazione, posto che l’attività di vigilanza dell’istituendo organo, per espresso riferimento dell’ente richiedente, avrebbe come oggetto l’attività di progettazione e di esecuzione dei lavori da parte di soggetti attuatori di opere di attuazione degli strumenti urbanistici e che, quindi, verrebbe a collocarsi in un momento successivo e distinto da quello della pianificazione urbanistica, comunque intesa.

Il Sindaco del Comune di Verona, con la nota indicata in epigrafe, ha posto un quesito in ordine al riconoscimento dell’incentivo alla pianificazione previsto dall’art. 92, comma 6, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti).
In particolare, il Comune di Verona espone che ritiene necessario procedere, per via regolamentare, alla attivazione di una più stretta sorveglianza sulle procedure che gli operatori economici, soggetti attuatori dei piani urbanistici esecutivi, pongono in atto nelle vesti di stazione appaltante, prevedendo l’istituzione di uno specifico organo di alta vigilanza (come previsto anche dall’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici – deliberazione 11.03.2010 AG 2/2010) nominato dal concedente. Si tratterebbe di una figura che esercita, a cura del concedente stesso, una funzione di vigilanza sulla progettazione e sulla esecuzione dei lavori, oltre a tutte le eventuali ulteriori funzioni, riconosciutegli in apposita convenzione.
Tutto ciò premesso, il Sindaco chiede se, ai sensi dell’art. 92, comma 6, del D.Lgs. 163/2006, sono incentivabili le funzioni attribuite ad un organo di alta vigilanza comunale –nei confronti dei soggetti attuatori o in affiancamento al RUP nominato dai medesimi privati- che vigili sulla progettazione ed esecuzione dei lavori e su tutte le clausole pattizie attinenti ai lavori, contenute nella convenzione, relative alle opere che verranno a far parte del patrimonio indisponibile del Comune, dopo l’esito favorevole del collaudo, e più precisamente:
a) le opere di urbanizzazione primaria e secondaria a scomputo;
b) le opere funzionali alla realizzazione degli interventi di trasformazione, anche eccedenti gli scomputi (art. 20, comma 17, ed art. 160, comma 4, della NTO del PI);
c) le opere pubbliche non direttamente funzionali alla realizzazione degli interventi di trasformazione, ma previste a carico del soggetto attuatore nell’ambito di accordi ex art. 6 o 7 della L.R. 11/2004 per le finalità di cui all’art. 157 della NTO del PI o ad esse assimilabili.
Nella richiesta di parere viene altresì specificato che, per le funzioni attribuite a detto organo di alta vigilanza, il fondo è calcolato nella misura del 10% di quello previsto per analoga opera pubblica a favore del RUP comunale; che il medesimo fondo è inserito nel quadro economico (spese tecniche) del progetto e che è integralmente finanziato dal soggetto attuatore privato, in attuazione della convenzione urbanistica.
Infine, viene precisato che la liquidazione del compenso incentivante all’organo di alta vigilanza avverrebbe in conformità alle norme previste dal regolamento per il RUP, in quanto applicabili, dopo il versamento a favore del Comune del corrispondente importo da parte del soggetto attuatore privato, conformemente alle clausole convenzionali ed al quadro economico di progetto.
...
L’ambito di applicazione dell’incentivo per la redazione di un atto di pianificazione urbanistica di cui all’art. 92, comma 6, del D.Lgs. 163/2006 (che prevede che “il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5, tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”) è stato oggetto di una serie di pronunce da parte di questa Sezione, alcune delle quali richiamate anche nella stessa richiesta.
Tali interventi hanno avuto come oggetto sia le implicazioni che l’applicazione di tale incentivo può avere in ordine al trattamento economico del personale dipendente dell’ente; sia l’ambito dei soggetti legittimati a riceverlo; sia i presupposti necessari al suo riconoscimento e, cioè, cosa debba essere ricompreso nell’ambito di “atto di pianificazione comunque denominato”, per la cui redazione (o partecipazione all’attività di redazione) viene riconosciuto l’incentivo in argomento.
A questo riguardo, è opportuno segnalare che con
parere 21.01.2014 n. 6 della Sezione regionale di controllo per la Liguria è stata rimessa alle Sezioni delle Autonomie una questione di massima sulla necessaria inerenza o meno dell’atto di pianificazione –la cui redazione darebbe luogo all’incentivo in questione– alla realizzazione di opere pubbliche (vedi ad es. il caso di redazione di atti di pianificazione generale non necessariamente connessi ad un’opera pubblica).
Chiarito che sulla portata interpretativa della norma in questione si attende una pronuncia delle Sezione delle Autonomie, questo Collegio deve rilevare che nel quesito, così come formulato dal Sindaco di Verona, risulta improprio il richiamo all’incentivo di cui al comma 6, dell’art. 92 del Codice dei contratti. Infatti,
non si comprendono le ragioni per le quali detto incentivo debba essere riconosciuto per un’attività di vigilanza che il Comune avrebbe intenzione di far volgere esclusivamente sulla progettazione ed esecuzione dei lavori affidati a dei concessionari esterni, definiti dallo stesso richiedente come “soggetti attuatori di progetti esecutivi”.
Ad avviso di questa Sezione, pertanto,
mancherebbe il presupposto necessario al riconoscimento dell’incentivo di cui al comma 6, ossia l’attività di redazione di un atto di pianificazione, posto che l’attività di vigilanza dell’istituendo organo, per espresso riferimento dell’ente richiedente, avrebbe come oggetto l’attività di progettazione e di esecuzione dei lavori da parte di soggetti attuatori di opere di attuazione degli strumenti urbanistici e che, quindi, verrebbe a collocarsi in un momento successivo e distinto da quello della pianificazione urbanistica, comunque intesa (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 20.03.2014 n. 219).

ENTI LOCALIRicapitalizzazione illegittima senza l'ok del ragioniere capo. Corte dei conti. Rapporti finanziari con le aziende.
La delibera consiliare con la quale l'ente locale autorizza l'assemblea dei soci alla ricapitalizzazione societaria non è configurabile come mero atto di indirizzo, quindi è necessario che il responsabile del servizio interessato e il responsabile del servizio finanziario esprimano i pareri previsti dall'articolo 49, comma 1, del Dlgs 267/2000. La ricapitalizzazione per perdite produce infatti conseguenze dirette o indirette sulla situazione economico-finanziaria o patrimoniale dell'ente, anche in funzione degli obblighi di futuro consolidamento dei conti.
Con il parere 05.03.2014 n. 96 la sezione regionale di controllo della Corte dei Conti della Lombardia esprime perplessità sulla ricapitalizzazione di società finalizzata alla mera liquidazione dell'attivo e non al rilancio strategico delle attività.
Prodromica a qualunque valutazione è la verifica dei riflessi sul bilancio locale derivanti dal sostenimento di oneri correnti per la copertura di perdite e degli effetti indiretti e futuri che potrebbero scaturire in conseguenza di previsioni poco attendibili.
Resta immutato il vincolo di finanza pubblica recato dall'articolo 6, comma 19, del Dl 78/2010 e sintetizzato nel principio del divieto di soccorso finanziario. Non sono pertanto ammissibili interventi a fondo perduto per il ripiano di perdite strutturali, non supportati da idonei piani industriali basati su una prospettiva di rilancio economico-finanziario di medio-lungo periodo.
Il richiamo operato all'articolo 2447, comma 19 del Codice civile rappresenta norma di coordinamento tra la disciplina pubblicistica e quella societaria. Poiché, come anche chiarito dalla Cassazione, la riduzione del capitale al di sotto del limite legale produce automaticamente lo scioglimento della società, ne deriva che la mancata adozione da parte dell'assemblea dei provvedimenti di azzeramento e ripristino del capitale o di trasformazione sociale non esonera gli amministratori dalla responsabilità conseguente al proseguimento dell'attività di impresa in violazione del divieto di nuove operazioni.
L'amministrazione che non intendesse procedere allo scioglimento dovrebbe motivare adeguatamente la scelta, valutando il piano industriale e, nel caso di società di interesse generale, il relativo contratto di servizio, attraverso cui regolare le condizioni di efficienza della gestione e di equilibrio economico-finanziario nel tempo.
In questa prospettiva, sostengono i magistrati contabili, la perdita in sé potrebbe non rappresentare fatto negativo, in quanto connessa a fasi di rilancio dell'attività o connaturata alla natura di servizi poco remunerativi, quali, in certi casi, il trasporto pubblico locale
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.03.2014).

CONSIGLIERI COMUNALIAltro stop ai contributi dei sindaci «autonomi». Corte conti Liguria. Non dovuti agli amministratori che continuano a lavorare.
Nell'arco di due mesi arriva il terzo parere della Corte dei conti in materia di contributi a carico degli enti locali per gli amministratori che siano lavoratori autonomi. Dopo la Basilicata (deliberazione 15.01.2014 n. 3) e Lombardia (parere 05.03.2014 n. 95) si è pronunciata la Corte ligure (05.03.2014 n. 16).
Finora la contribuzione è stata versata dagli enti nei confronti degli amministratori locali che non sono lavoratori dipendenti e che rivestono le cariche di sindaci, presidenti di provincia, comunità montane, unioni di comuni e di consorzi fra enti locali, assessori provinciali nonché dei comuni con oltre 10mila abitanti, presidenti dei consigli comunali con oltre 50mila abitanti nonché di quelli dei consigli provinciali.
Infatti l'articolo 86 del Testo unico enti locali prevede che a tali figure l'amministrazione provveda al pagamento di una cifra forfettaria annuale, stabilita con il decreto ministeriale 25 maggio 2001 in coerenza con quanto previsto per i lavoratori dipendenti, da conferire alla forma pensionistica presso la quale l'amministratore è iscritto alla data dell'incarico. Il pagamento scatta sia che il lavoratore autonomo prosegua o meno la sua attività durante l'incarico presso l'ente.
Invece per gli amministratori che sono lavoratori dipendenti non in aspettativa la contribuzione non è dovuta: l'obbligo scatta in capo all'ente solo se il lavoratore decide di dedicarsi esclusivamente all'attività per la quale è stato eletto.
La problematica è legata al fatto che i lavoratori autonomi non possono godere di periodi di aspettativa. Secondo la Corte dei conti gli autonomi devono dichiarare l'esplicita e totale rinuncia, durante il mandato, all'attività professionale espletata.
In caso contrario, ritiene la Corte, si creerebbe una situazione di disparità di trattamento tra lavoratori dipendenti e non dipendenti perché questi ultimi verrebbero a cumulare due benefici che il legislatore, per i dipendenti ritiene incompatibili, cioè l'indennità di funzione in misura piena e il versamento dei contributi sostitutivi. Urge un'interpretazione autentica per togliere gli uffici degli enti dall'impasse
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.03.2014).

NEWS

APPALTI - EDILIZIA PRIVATADurc consultabile on-line. Il certificato di regolarità visibile sul web da chi ne ha interesse.
L'Esecutivo Renzi rilancia il Durc dematerializzato. Nel decreto legge 34/2014, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 66 del 20 marzo e in vigore da ieri, tra le varie misure urgenti per semplificare gli adempimenti a carico delle aziende viene rimessa in gioco la possibile trasformazione del Durc.
Si tratta di un progetto, in realtà più volte caldeggiato, che dovrebbe convertire il documento unico di regolarità contributiva in una semplice interrogazione che ognuno potrà eseguire dal proprio computer. La chiave risiede nell'apertura delle banche dati in cui sono memorizzate le informazioni che servono a verificare se un determinato soggetto è in regola con i vari versamenti. Si tratta di un ulteriore passo avanti per il miglioramento delle procedure.
L'attuale tentativo di semplificazione segue, a ruota, lo sdoganamento definitivo della regolamentazione che consente alle aziende che hanno dei debiti nei confronti degli istituti previdenziali e assicurativi nonché verso le Casse edili ma, contemporaneamente, vantano crediti nei riguardi delle pubbliche amministrazioni, di richiedere, comunque, la certificazione (Dm 13.03.2013).
La visualizzazione della regolarità contributiva, secondo quanto indicato all'articolo 4 del decreto, consisterà nella verifica, in tempo reale, della posizione dei contribuenti nei riguardi di Inps e Inail; a questi si aggiunge, per i datori di lavoro interessati, anche la Cassa edile. Al momento, in realtà, nulla di operativo ma solo la previsione di una regolamentazione affidata a un decreto che i ministri del Lavoro e dell'Economia e delle finanze dovranno adottare, sentiti Inps e Inail, entro 60 giorni che decorrono dal 21.03.2014.
Se e quando il decreto attuativo andrà a regime, chiunque vi abbia interesse potrà verificare in tempo reale e online la regolarità contributiva. L'esito varrà 120 giorni e le sue risultanze sostituiranno a ogni effetto il Durc, in tutti i casi in cui lo stesso è previsto, a eccezione delle ipotesi di esclusione individuate dal decreto.
La verifica online della regolarità riguarderà i pagamenti scaduti sino all'ultimo giorno del secondo mese antecedente a quello in cui si effettua la verifica stessa, a patto che sia scaduto anche il termine di presentazione delle relative denunce retributive e comprende sia la situazione dei lavoratori subordinati che dei collaboratori (cococo/cocopro).
Attraverso l'inserimento del codice fiscale del soggetto da verificare, sarà possibile far partire un controllo che andrà a scandagliare gli archivi degli enti interessati (Inps, Inail e Casse edili). Avvalendosi della procedura telematica che verrà realizzata, sarà possibile anche venire a conoscenza delle tipologie di pregresse irregolarità di natura previdenziale e in materia di tutela delle condizioni di lavoro che sono di ostacolo al godimento dei benefici normativi e contributivi (condizione voluta dall'articolo 1, comma 1175, della legge 296/2006).
La visualizzazione online, servirà anche a effettuare le necessarie verifiche disposte, in materia, dal vigente Codice dei contratti pubblici e, in particolare, di quanto previsto dal comma 1, lettera i), dell'articolo 38, del decreto legislativo 163/2006. Tale disposizione stabilisce l'esclusione dalle gare di affidamento delle concessioni, degli appalti nonché dei subappalti, dei soggetti che hanno commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali.
Per il futuro, per accertare l'assenza di tali elementi inficianti, ci si baserà solo ed elusivamente sui dati emersi dalle verifiche online.
Il decreto interministeriale potrebbe essere sottoposto a revisione ogni anno per adeguarlo alle eventuali modifiche delle norme e dei sistemi telematici
 (articolo Il Sole 24 Ore del 22.03.2014).

ENTI LOCALI - VARI: Il comune stabilisce la multa. Sosta oltre orario, nel regolamento la somma da pagare. STRISCE BLU/ Tesi dell'Anci in contrasto col ministero. Ma Lupi: il caso è chiuso.
All'automobilista che parcheggia con ticket scaduto nei parcheggi a pagamento in cui non sono imposte limitazioni temporali per la sosta (strisce blu) si applica una sanzione che deve essere definita dal regolamento comunale.
Lo ha precisato l'Anci con il comunicato 21.03.2014.
Giovedì scorso (si veda ItaliaOggi di ieri) il governo, nella risposta all'interrogazione parlamentare 5/02362, fornita dal sottosegretario alle Infrastrutture e trasporti Umberto Del Basso de Caro, ha preso posizione sulla questione delle sanzioni per il ticket scaduto. Il dicastero ha ribadito più volte nel corso degli ultimi anni, con una serie di pareri, che negli stalli blu in cui non sono imposti limiti temporali la sosta protratta oltre l'orario per cui è stato pagato il ticket non comporta l'applicazione di sanzioni del codice della strada, ma configura soltanto un'inadempienza contrattuale; in tal caso si deve procedere a recuperare le somme non corrisposte (con maggiorazione per penali e rimborso spese), ai sensi dell'art. 17, c. 132, della legge 127/1997.
Negli ultimi anni anche il l'Interno ha emesso nel 2007 e 2010 alcuni pareri che si pongono in linea con le indicazioni del Mit. Secondo tale interpretazione, per recuperare i mancati pagamenti le amministrazioni locali possono affidare al gestore del servizio le azioni necessarie al recupero delle evasioni tariffarie e dei mancati pagamenti, ivi compresi il rimborso delle spese e le penali. Ora, con il comunicato diffuso ieri, l'Anci offre un'interpretazione innovativa e ancor più particolareggiata, affermando che se la sosta si protrae oltre l'orario per cui è stata pagata la tariffa dovuta, si applica la disposizione sanzionatoria prevista dalla disciplina della sosta, anche in relazione a quanto disposto dalla legge 127, ovvero quella prevista dal regolamento comunale. In sostanza, per il ticket scaduto negli stalli blu, in cui non sono imposte limitazioni temporali per la sosta, la sanzione da applicare deve essere stabilita dai regolamenti comunali.
In serata la (dura) risposta del ministro delle infrastrutture e trasporti Maurizio Lupi: «La questione è semplice, se ho pagato la sosta e poi sto 10 minuti in più, non posso ricevere la multa, ma dovrò pagare la differenza e il tempo in più. Ai comuni chiediamo di rispettare le regole che il codice della strada prevede. Non serve una norma, perché abbiamo verificato che l'interpretazione della norma è chiara e quindi il caso è chiuso. Per una volta non complichiamo la vita ai cittadini» (articolo ItaliaOggi del 22.03.2014).

EDILIZIA PRIVATACampi elettrici accatastati. Dm in G.U..
Istituito il catasto nazionale delle sorgenti dei campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici e delle zone territoriali interessate al fine di rilevare i livelli di campo presenti nell'ambiente.

Lo prevede il dm ambiente 13.02. 2014 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale serie generale n. 58 dell'11/03/2014.
Il provvedimento (in vigore dall'11.03.2014) è emanato ai sensi della legge 36/2001. L'attività di realizzazione e gestione del catasto nazionale è svolta dal ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare che a tal fine si avvale dell'istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale.
Il catasto nazionale permette la produzione di informazioni per le attività di monitoraggio e controllo ambientale necessarie a costituire supporto informativo utile per la valutazione d'impatto di nuove singole sorgenti o per la pianificazione complessiva dell'installazione di nuove sorgenti e fornire supporto alle pubbliche amministrazioni in fase di procedimenti autorizzativi in materia di edilizia (articolo ItaliaOggi del 22.03.2014).

APPALTI SERVIZIStandard per le imprese di recupero. Rifiuti urbani, raccolta a punti.
Raccolta differenziata oltre il «mono materiale», mezzi di trasporto con verifica dei rifiuti caricati, apertura centri di stoccaggio anche nel fine settimana. Queste, insieme a promozione di autocompostaggio e campagne informative ad hoc per la cittadinanza, le caratteristiche oramai necessarie per aggiudicarsi la gestione dei rifiuti urbani.

A sancirlo è il nuovo dm Minambiente 13.02.2014 (G.U. dell'11.03.2014, n. 58), che nello stabilire i nuovi «criteri ambientali minimi» per poter partecipare agli appalti in parola prevede dei paralleli «criteri premianti» che permetteranno alla pubblica amministrazione di attribuire punteggi aggiuntivi alle imprese concorrenti più eco-virtuose.
I super standard. A godere dei «punti premio» saranno le aziende che promettono di raccogliere separatamente presso l'utenza gli imballaggi in vetro chiaro da quelli in vetro scuro.
In relazione alla movimentazione, una corsia preferenziale sarà invece data alle imprese munite della seguente flotta di automezzi: oltre il 40% a motorizzazione pari o superiore ad Euro 5 (o alimentati da elettricità, gpl o propulsione ibrida); almeno il 50% dotata di vasche di carico monomateriale o altri dispositivi di lettura automatica dell'utenza conferente.
Saranno poi premiate le imprese che promettono, andando ben oltre le 12 ore settimanali previste dai criteri base, di tenere i centro di raccolta aperti il sabato per l'intera giornata e la domenica per almeno la metà.
Ad accrescere le possibilità di aggiudicazione sarà anche la distribuzione di compostiere domestiche (in comodato gratuito o altra forma vantaggiosa) alle utenze con giardini ed orti, previa realizzazione di seminari informativi sul loro uso e successivo controllo sul loro operato. Costituirà infine ulteriore criterio premiante lo sviluppo, lungo l'intera durata del contratto di servizio, di sessioni informative rivolte alla cittadinanza (componente studentesca inclusa) su riduzione e corretta gestione dei rifiuti.
Le nome di riferimento. I nuovi criteri ambientali stabiliti dal dm Minambiente 13.02.2014 si inseriscono nel più generale quadro normativo costituito dal dlgs 163/2006 sugli appalti pubblici (che impone alla p.a. di fondare le gare di appalto su criteri ambientali «ogniqualvolta sia possibile») (articolo ItaliaOggi del 22.03.2014).

ENTI LOCALI - VARI: Sosta oltre orario, niente multe. Solo inadempienza contrattuale se non si paga il ticket. Il sottosegretario al ministero dei trasporti ha risposto a un'interrogazione parlamentare.
Niente multa per chi prolunga la sosta nelle strisce blu oltre l'orario per il quale ha regolarmente pagato.
È quanto precisa il ministro delle infrastrutture e dei trasporti a seguito di un'interrogazione parlamentare a cui ha risposto il sottosegretario Umberto Del Basso De Caro (risposta 20.03.2014 ad interrogazione in Commissione n. 5/02362).
Il parere del dicastero guidato da Maurizio Lupi è che, nel caso di sosta illimitata tariffata, il pagamento in misura insufficiente non costituisca violazione di una norma di comportamento, ma configuri unicamente una «inadempienza contrattuale». Pertanto, nei casi di pagamenti in misura insufficiente, l'inadempienza implica il saldo della tariffa non corrisposta.
Niente multa, quindi -spiega il ministero (si veda quanto pubblicato su ItaliaOggi del 14 marzo scorso)- perché «in materia di sosta, gli unici obblighi previsti dal Codice sono quelli indicati dall'articolo 157, comma 6, e precisamente l'obbligo di segnalare in modo chiaramente visibile l'orario di inizio della sosta, qualora questa sia permessa per un tempo limitato, e l'obbligo di mettere in funzione il dispositivo di controllo della durata della sosta, ove questo esista; la violazione di tali obblighi comporta la sanzione prevista dal medesimo articolo 157, comma 8, del Codice medesimo».
Alcuni Comuni obiettano che un parere del ministero dell'Interno del 2003 dice il contrario. Ma il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti risponde: «Non risulta alcuna situazione di conflitto interpretativo con il ministero dell'interno: quest'ultimo, infatti, in seguito a un riesame della propria posizione espressa nel 2003, ha successivamente (nel 2007) condiviso la disamina della tematica svolta dal Mit ed emesso (nel 2010) una serie di pareri in tal senso», pareri condivisi dal Servizio della Polizia stradale del Dipartimento di Pubblica sicurezza.
Per recuperare i mancati pagamenti, le amministrazioni locali possono affidare al gestore del servizio le azioni necessarie al recupero delle evasioni tariffarie e dei mancati pagamenti, ivi compresi il rimborso delle spese e le penali, da stabilire con apposito regolamento comunale, secondo le indicazioni e le limitazioni fornite dal Codice civile e dal Codice del consumo (articolo ItaliaOggi del 21.03.2014).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALIP.a., trasparenza senza riserve. Incarichi e contributi in chiaro. Anche nelle partecipate. Con un anno di ritardo la circolare della Funzione pubblica sul decreto 33/2013.
Alle società partecipate dalle amministrazioni pubbliche si applicano le disposizioni sulla trasparenza, con l'eccezione delle società quotate.

La Funzione pubblica ha elaborato la circolare 14.02.2014 n. 1/2014 (in ritardo di un anno) sull'applicazione del dlgs 33/2013 alle partecipate, che avevano manifestato molte resistenze, trincerandosi su una presunta non estendibilità piena della disciplina alla loro fattispecie.
Regime applicativo. La circolare, non ancora numerata, sostanzialmente estende gli obblighi di trasparenza a tutto il panorama delle partecipate, ma anche agli enti privati in controllo pubblico, come ad esempio associazioni e fondazioni. Esiste, tuttavia, un regime differenziato per società ed enti di diritto privato solo partecipati, non in controllo pubblico, o nei quali la pubblica amministrazione abbia una partecipazione minoritaria. In questo caso, il dlgs 33/2013 non si applica, salvo il caso in cui svolgano attività di pubblico interesse e limitatamente a tali attività.
La circolare, poi, chiarisce che “le società partecipate da amministrazioni pubbliche che emettono strumenti finanziari, quotati in mercati regolamentati, pur non espressamente richiamate dal dlgs. n. 33 del 2013, non possono ritenersi soggette agli obblighi di trasparenza indicati dal d.lgs. n. 33 del 2013, per evidenti ragioni di pubblico interesse e di coordinamento con le disposizioni di cui al dlgs 39 del 2013 (nel quale sono espressamente indicate), al pari delle società partecipate quotate in mercati regolamentati e delle loro controllate”.
Concetto di p.a. La circolare, dunque, fornisce, ai fini della trasparenza e dell'anti corruzione, un'accezione molto ampia di pubblica amministrazione. La sfera di applicazione della normativa riguarda “tutti quei soggetti che, indipendentemente dalla loro formale veste giuridica, perseguono finalità di interesse pubblico, in virtù di un affidamento diretto o di un rapporto autorizzatorio o concessorio (e che, proprio in ragione di tale rapporto privilegiato con la pubblica amministrazione, possono vantare una posizione differenziata rispetto agli altri operatori di mercato) e che gestiscono o dispongono di risorse pubbliche”.
Oggetto della trasparenza. Le informazioni da caricare sui portali non riguardano l'attività commerciale o “di mercato” degli enti privati. Oggetto delle informazioni, infatti sono organizzazione ed attività limitatamente alla cura di interessi pubblici. In particolare, spiega Palazzo Vidoni, per attività di pubblico interesse si intende “l'esercizio di funzioni amministrative, attività di produzione di beni e servizi a favore delle amministrazioni pubbliche, di gestione di servizi pubblici o di concessione di beni pubblici”.
Programma triennale e responsabile. Individuato il piano di applicazione soggettivo ed oggettivo, la circolare chiarisce quali sono gli specifici ambiti del dlgs 33/2013 che anche enti e società partecipate debbono applicare. In particolare, sono soggetti, come le PA, ad adottare il piano triennale della trasparenza e a nominare il responsabile.
L'organo di governo deve incaricare un responsabile apicale, potendo, motivatamente, decidere di attribuire la funzione di responsabile anticorruzione ad un soggetto diverso, motivando tale scelta. Il responsabile della trasparenza è chiamato ad assicurare il cosiddetto “accesso civico”, che si applica anche a società ed enti.
Organizzazione ed organi. Al pari delle PA, enti e società partecipate debbono pubblicare tutti i dati organizzativi. Si applica anche l'articolo 14 del d.lgs 33/2013, che impone la pubblicazione della situazione patrimoniale. Secondo Palazzo Vidoni, sicuramente tale pubblicazione riguarda presidente e componenti dei Cda designati dalle pubbliche amministrazioni di riferimento. Per gli altri componenti di designazione “privata”, la circolare ritiene che la pubblicazione dei dati sia solo “auspicabile”.
Altri oneri di pubblicità. Enti e società partecipate, ancora, non possono sottrarsi alle forme di pubblicità previste dal dlgs 33/2013 per incarichi a dirigenti, consulenti e collaboratori, per l'erogazione di contributi e sussidi a terzi, per le procedure di concorso finalizzate alle assunzioni e per gli appalti. Sono, dunque, da applicare integralmente gli articoli 15, 26, 27, 37, 38 del decreto sulla trasparenza e l'articolo 1, comma 32, della legge 190/2012.
Partecipazioni. Obbligatorio che enti e società partecipate pubblichino anche i dati relativi alle loro partecipazioni in altri enti “di secondo grado”. Per questi ultimi, secondo la circolare, potrebbero anche “promuovere” la pubblicazione, da parte loro, delle eventuali ulteriori partecipazioni (articolo ItaliaOggi del 21.03.2014).

APPALTIAuthority appalti sotto assedio. Rischio soppressione. Competenze alle Infrastrutture. Il piano Cottarelli prevede anche il depotenziamento dell'AvcPass per i controlli contributivi.
Autorità di vigilanza sui contratti pubblici sotto assedio: il ministro delle infrastrutture ha annunciato che le competenze dell'organismo di vigilanza dovrebbero essere ricondotte presso il dicastero di Porta Pia; nel «piano Cottarelli» per la spending review si ipotizza la soppressione dell'organismo di vigilanza; l'AvcPass viene depotenziato per quel che riguarda i controlli sulla regolarità contributiva dei concorrenti.

È questo il quadro generale all'interno del quale, non senza qualche difficoltà, l'autorità presieduta da Sergio Santoro continua a operare sia per quel che riguarda i costi standard per la sanità, sia per i bandi-tipo per i lavori e i servizi, sia ancora per la messa a punto definitiva del sistema dell'AvcPass, lo strumento informatico di controllo dei requisiti dei concorrenti alle gare di appalto che entrerà in vigore il 1° luglio.
Intanto il decreto legge sul lavoro, nel semplificare gli accertamenti sulla regolarità contributiva, prevede che l'accertamento sulla regolarità contributiva del concorrente non debba più essere compiuto tramite l'AvcPass ma direttamente presso gli enti competenti (Inps, Inail, Casse edili) in modalità informatica per ottenere un documento, sostitutivo del Durc, con validità di quattro mesi.
La norma bypassa quindi lo strumento gestito dall'Avcp, anche se sarà necessario un decreto attuativo da emanarsi nei due mesi successivi alla pubblicazione del decreto-legge.
Nel frattempo, però, sul ruolo dell'Authority era stato ministro Maurizio Lupi in persona, intervenendo l'11 marzo presso la Commissione ambiente, territorio e lavori pubblici della camera, ha porre in discussione l'attuale autonomia dell'Authority di via di Ripetta, affermando che «per quanto concerne l'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici necessariamente tale organismo va portato all'interno delle competenze del dicastero delle infrastrutture consentendo in tal modo un contenimento dei costi e una diretta correlazione tra procedure contrattuali e interventi infrastrutturali».
Una presa di posizione molto forte che, ovviamente, non potrà che essere discussa e approfondita in sede parlamentare, ma in ogni caso mette in discussione apertamente anche l'autonomia dell'organismo di vigilanza.
L'annuncio di Lupi è stato appoggiato anche da UnionSoa che dopo l'avvio da parte della procura di Roma dell'indagine giudiziaria su 26 Soa, ha puntato il dito proprio sui controlli che l'organismo di vigilanza è competente a svolgere sulle società organismo di attestazione.
Come se non bastasse è poi arrivato, mercoledì, anche il «piano Cottarelli» che nell'elenco di diversi enti da sopprimere, Cnel in primis, inserisce anche l'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici.
In realtà va però sottolineato come nello stesso documento, Cottarelli sembra invece presupporre la permanenza dell'organismo di vigilanza laddove auspica che sia del tutto accessibile la banca dati nazionale sui contratti pubblici dell'Authority. In questo clima certamente non facile l'Autorità di controllo sui contratti pubblici ha ormai in cantiere il varo dei bandi-tipo sui lavori e sui servizi di ingegneria che entro maggio dovrebbero vedere la luce (articolo ItaliaOggi del 21.03.2014 - tratto da www.centroctudicni.it).

ENTI LOCALI - VARILupi: i finti autovelox sono pericolosi e inutili.
I finti autovelox sono pericolosi e inutili.

Lo ha dichiarato ieri sul suo portale il ministro dei trasporti Maurizio Lupi.
La questione dei box autovelox che stanno spuntando in tutte le strade come funghi non incontra molti limiti operativi a parere dei tecnici ministeriali. Fino a ieri, infatti, con ripetuti pareri è stato sempre specificato che nessuna disposizione normativa limita l'impiego di questi dissuasori di velocità. I dispositivi elettronici omologati, specifica per esempio il dipartimento per i trasporti terrestri con il parere n. 1561/2013, possono essere installati anche solo saltuariamente nei box.
In centro abitato questi sistemi possono però essere resi operativi solo con la necessaria presenza del vigile nelle immediate vicinanze, prosegue il parere. Ma non serve che l'agente sia visibile a fianco del box. Spiega infatti il ministero che l'obbligo di visibilità deve essere soddisfatto dalla postazione e dal relativo segnale di avvertimento sia preventivo sia posizionato a ridosso del misuratore.
A causa dell'eccessivo proliferare di installazioni però alcuni cittadini hanno evidenziato l'inutilità di tanti manufatti posizionati dalle amministrazioni comunali anche in posizioni pericolose e per questo si è scatenata una campagna mediatica contro tutti gli armadietti porta autovelox. E il ministro è arrivato al punto di dichiarare guerra al proliferare di questi armadietti di foggia e colorazione diversa.
A parere di Lupi i finti autovelox usati dai comuni non sono in regola e possono costituire un pericolo. I cosiddetti finti autovelox, specifica il ministro, sono dispositivi costituiti da contenitori vuoti in materiale prevalentemente plastico di varia foggia e colorazione che vengono posti a margine della strada con il dichiarato intento di condizionare la velocità dei veicoli.
Per il ministero dei trasporti questi manufatti «non sono inquadrabili in alcuna delle categorie di dispositivo o di segnaletica previste dal vigente codice della strada e pertanto non sono suscettibili né di omologazione né di approvazione o autorizzazione. Dal ministero si aggiunge che i finti autovelox possono anche costituire un pericolo. La loro eventuale dislocazione a bordo strada dovrebbe considerare la possibilità che tali manufatti possano costituire ostacolo fisso, ancorché posti al di fuori della carreggiata» (articolo ItaliaOggi del 21.03.2014 - tratto da www.centroctudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGOGiro di vite sui compensi d'oro. Solo gli emolumenti occasionali sono esclusi dal tetto. Circolare della Funzione pubblica. Il divieto di cumulo si applica anche ai vitalizi elettivi.
Giro di vite sui compensi d'oro dei dipendenti pubblici. Il tetto massimo, pari quest'anno a 311.659 euro, si applica anche al personale di authority e amministrazioni non statali. Nel tetto va compreso in pratica tutto ciò che, per lavoro o consulenza, rappresenta il compenso di una p.a., restando fuori i compensi occasionali, quelli cioè non superiori a 5 mila euro e relativi a rapporti di durata fino a 30 giorni nell'anno solare.
Tuttavia questo riferimento dell'occasionalità al regime delle mini co.co.co. appare discutibile, perché il dlgs n. 276/2003 non si applica al settore pubblico. Infine il divieto di cumulo pensione-redditi, introdotto dalla legge di stabilità 2014, si applica a tutte le pensioni tranne quelle integrative (cioè dei fondi pensione) e compresi i vitalizi elettivi. A tal fine gli interessati sono tenuti a rilasciare un'autodichiarazione e le p.a. ad effettuare controlli congiunti con gli enti di previdenza.

È quanto spiega il ministro per la p.a., Maria Anna Madia, nella circolare 18.03.2014 n. 3/2014.
Il tetto agli stipendi
La circolare illustra le novità in materia di limiti alle retribuzioni (dl n. 201/2011, riforma Monti) e divieto di cumulo con le pensioni, introdotte dalla legge di stabilità 2014 (legge n. 147/2013).
Sul limite ai trattamenti economici precisa che quest'anno il tetto è pari a 311.658,53 euro e che, ai fini del raggiungimento, si tiene conto degli emolumenti derivanti da rapporti di lavoro dipendente o autonomi: stipendi, indennità, voci accessorie, remunerazioni per consulenze, per collaborazioni e per incarichi aggiuntivi conferiti da p.a., anche se diverse da quelle di appartenenza.
La circolare precisa inoltre che a seguito della legge di stabilità: la limitazione retributiva si applica anche al personale delle autorità amministrative indipendenti nonché a quello delle amministrazioni diverse da quelle statali; che nel limite rientrano gli emolumenti degli organi di amministrazione, direzione e controllo delle p.a.; che la limitazione si applica anche alle regioni, ferma restando per loro la possibilità di adeguare la normativa entro il 01.07.2014.
La legge di Stabilità 2014, ancora, esclude dal tetto retributivo «i compensi percepiti per prestazioni occasionali». Per individuare tali compensi la circolare fa riferimento all'art. 61, comma 2, del dlgs n. 276/2003 (riforma Biagi) che definisce occasionali i rapporti di durata complessiva non superiore a 30 giorni nel corso dell'anno solare con lo stesso committente, salvo che il compenso percepito nello stesso anno solare sia superiore a 5 mila euro.
Tuttavia, il citato dlgs non si applica al settore pubblico, rendendo conseguentemente dubbio il riferimento ministeriale.
Il divieto di cumulo per la pensione
La legge di Stabilità 2014 ha introdotto, dal 1° gennaio, un parziale divieto di cumulo della pensione con i redditi conseguiti nel settore pubblico. Il pensionato, in pratica, non può intascare un trattamento economico d'importo tale che, sommato alla pensione, ecceda 311.658,93 euro.
Nelle pensioni soggette al cumulo sono compresi i vitalizi conseguenti a funzioni pubbliche elettive ed escluse le pensioni integrative. Per la gestione del nuovo divieto, la circolare stabilisce che all'atto dell'assunzione o conferimento d'incarico, la p.a. deve far sottoscrivere all'interessato una dichiarazione che indichi la pensione eventualmente in godimento, al netto del contributo di solidarietà (se pagato). In assenza di tale dichiarazione, precisa la circolare, l'incarico non deve essere perfezionato. Infine, il ministro dà mandato alle p.a. di procedere ad opportune verifiche con gli enti previdenziali (articolo ItaliaOggi del 20.03.2014).

ATTI AMMINISTRATIVIRitardi Pa, indennizzi automatici. Per il pagamento non è necessario provare danno subito o dolo e colpa dell'ufficio. Adempimenti. Pubblicata in «Gazzetta Ufficiale» la direttiva applicabile ai procedimenti avviati dopo il 21.08.2013.
Sì all'indennizzo da ritardo della Pubblica amministrazione nella conclusione dei procedimenti attivati a istanza di parte: in questa eventualità è previsto il pagamento di una somma pari a 30 euro per ogni giorno di ritardo, sino a un massimo di 2.000 euro.
Con la firma del ministro per la Pubblica amministrazione e la semplificazione, Gianpiero D'Alia, è stata pubblicata in «Gazzetta Ufficiale» (la 59 dello scorso 12 marzo) la Direttiva 09.01.2014 contenente le "Linee Guida" per l'applicazione di tale strumento, come previsto dall'articolo 28 del "Decreto del fare" (Dl 69/2013), atte a fungere da ulteriore deterrente contro la cronica lentezza dell'Amministrazione.
La disposizione, valida per ora 18 mesi e confermabile a seguito di monitoraggio sulla effettiva applicazione, si applica ai procedimenti avviati a istanza di parte per i quali sussiste un obbligo della Pa di pronunziarsi, con esclusione delle ipotesi dei concorsi e di quelle di silenzio assenso e silenzio rigetto; la Direttiva precisa anche espressamente che essa non è applicabile nelle ipotesi di Denunzia di inizio di attività e di Segnalazione certificata di inizio di attività (la "Scia").
Va poi chiarito che questo indennizzo è fattispecie diversa da quella del risarcimento del danno ingiusto cagionato dalla Pa in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, prevista dall'articolo 7, comma 1, lettera c), della legge 69/09. Quest'ultima misura, infatti, presuppone l'avvenuta prova: a) dell'esistenza stessa del danno; b) del comportamento colposo o doloso dell'Amministrazione; c) dell'esistenza di un nesso di causalità tra il danno lamentato e la condotta posta in essere dall'Amministrazione.
L'indennizzo da ritardo, ora introdotto, prescinde invece dalla dimostrazione dell'esistenza di un danno,quindi il pagamento della somma di cui si tratta è dovuto anche nel caso in cui la mancata emanazione del provvedimento sia riconducibile a un comportamento scusabile, e astrattamente lecito, dell'Amministrazione.
È bene rammentare ancora, in via preliminare, che esso è dovuto esclusivamente per i procedimenti avviati successivamente, o contestualmente, al 21.08.2013, data della teorica applicazione della disposizione.
La misura dell'indennizzo è liquidata dall'Amministrazione procedente, o, in caso di procedimenti complessi in cui intervengono più amministrazioni, da quella che, non rispettando il termine alla stessa assegnato, ha causato la mancata emanazione, nei termini prescritti, del provvedimento finale richiesto.
La somma va corrisposta in modo automatico e forfetario, prescindendo, come detto, da verifiche circa comportamenti dolosi e/o colposi della Pa: l'attività istruttoria, dunque, sarà circoscritta alla verifica della violazione del termine di conclusione del procedimento.
Gli importi liquidati vanno comunque detratti da quelli eventualmente corrisposti a titolo di risarcimento.
Il pagamento dell'indennizzo da ritardo non fa comunque venire meno l'obbligo di concludere il procedimento amministrativo, restando salva l'applicabilità delle sanzioni previste dall'ordinamento per dette ipotesi.
Se il titolare del potere sostitutivo non dovesse emanare il provvedimento nel termine, né provvedesse alla liquidazione delle somme previste, l'istante potrà fare ricorso al giudice amministrativo (articolo 117 del Codice del processo amministrativo) o chiedere un'ingiunzione di pagamento (articolo 118).
Ove il ricorso sia dichiarato inammissibile o infondato, il giudice condannerà il ricorrente, con pronuncia immediatamente esecutiva, a versare al resistente una somma da 2 a 4 volte il contributo unificato; in caso di condanna dell'Amministrazione, invece, la sentenza sarà comunicata alla Corte dei Conti per gli opportuni provvedimenti a carico dei responsabili del riconosciuto ritardo
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAClimatizzatori, pronti nuovi modelli per i libretti.
Pronti i nuovi modelli per il libretto di impianto per la climatizzazione invernale ed estiva degli edifici e per il rapporto di efficienza energetica.

A partire dal 01.06.2014 gli impianti termici devono essere muniti del nuovo libretto e per i controlli di efficienza energetica devono essere utilizzati i nuovi modelli.
I modelli, completi di istruzioni e note per la compilazione e l'utilizzo, sono stati emessi dal ministero dello sviluppo economico in attuazione del dpr n. 74 del 2013 e pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale del 05.03.2014 n. 55. Il provvedimento consentirà nel tempo di contenere i consumi di energia negli edifici per effetto dell'ampliamento della platea degli impianti da sottoporre a verifica e controllo dell'efficienza energetica e di avere un quadro sempre aggiornato su caratteristiche e dimensioni del parco nazionale degli impianti per la climatizzazione invernale ed estiva. Il libretto di impianto per gli impianti di climatizzazione invernale e/o estiva è disponibile in forma cartacea o elettronica.
Nel primo caso viene conservato dal responsabile dell'impianto o eventuale terzo responsabile, che ne cura l'aggiornamento dove previsto o mettendolo a disposizione degli operatori di volta in volta interessati. Il libretto di impianto elettronico è conservato presso il catasto informatico dell'autorità competente o presso altro catasto accessibile all'autorità competente, e viene aggiornato di volta in volta dagli operatori interessati, che possono accedere mediante una password personale al libretto. Il libretto di impianto è obbligatorio per tutti gli impianti di climatizzazione invernale e/o estiva, indipendentemente dalla loro potenza termica, sia esistenti che di nuova installazione.
Se un edificio è servito da due impianti distinti, uno per la climatizzazione invernale e uno per la climatizzazione estiva, che in comune hanno soltanto il sistema di rilevazione delle temperature nei locali riscaldati e raffreddati, sono necessari due libretti di impianto distinti; in tutti gli altri casi è sufficiente un solo libretto di impianto (articolo ItaliaOggi del 19.03.2014).

EDILIZIA PRIVATAAntincendio per campeggi e villaggi.
Redatte le regole tecniche di prevenzione incendi per la progettazione, la costruzione e l'esercizio delle strutture turistico-ricettive in aria aperta (campeggi, villaggi turistici ecc.) con capacità ricettiva superiore a 400 persone.

Lo prevede il decreto del ministero dell'Interno 28.02.2014 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 61 del 14 marzo scorso.
Ai fini della prevenzione incendi, allo scopo di raggiungere i primari obiettivi di sicurezza relativi alla salvaguardia delle persone e alla tutela dei beni contro i rischi di incendio, le strutture turistico-ricettive in aria aperta, sono realizzate e gestite in modo da: minimizzare le cause di incendio, garantire la stabilità delle strutture portanti al fine di assicurare il soccorso agli occupanti, limitare la produzione e la propagazione di un incendio all'interno della struttura ricettiva, limitare la propagazione di un incendio a edifici o aree limitrofe e garantire la possibilità per le squadre di soccorso di operare in condizioni di sicurezza (articolo ItaliaOggi del 19.03.2014).

EDILIZIA PRIVATA«Mini-caldaie» a ostacoli. Il passaggio dal centralizzato è possibile solo se si dimostrano i vantaggi. Riscaldamento. La trasformazione va supportata da una diagnosi o da un attestato di prestazione energetica.
Per chi abita in condominio la tentazione di passare al riscaldamento autonomo, anche se è dimostrato che –eccetto rarissimi casi– si tratta di uno spreco energetico, rimane sempre forte.
Sono in molti a voler regolare da soli la temperatura i casa ma a rifiutare i contabilizzatori di calore e a "pretendere" la caldaietta. Le norme, però, rendono estremamente difficoltosa questa scelta. Vediamo come procedere.
Il Codice civile
L'impianto di riscaldamento, se esistente dalla costruzione del condominio e salvo che il titolo non disponga diversamente, è di proprietà comune, ai sensi dell'articolo 1117 del Codice civile. Quindi la soppressione è di per sé vietata, se non con il consenso di tutti i condomini, come conseguenza dell'articolo 1120, ultimo comma, dello stesso Codice, che vieta le innovazioni che rendano alcune parti comuni inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino. Una delibera di soppressione, infatti, non comporta una semplice modifica, ma una radicale trasformazione della cosa comune nella sua destinazione strutturale ed economica, pregiudizievole per tutte le unità immobiliari già allacciate all'impianto centralizzato.
Le leggi successive
Sul Codice civile è intervenuta in seguito la legge 10/1991, il cui articolo 26, comma 2, prevedeva una maggioranza speciale per favorire gli interventi sugli edifici e sugli impianti volti al contenimento dei consumi energetici. La formulazione originaria della norma stabiliva una maggioranza agevolata per gli interventi su parti comuni di edifici diretti al contenimento del consumo energetico, e quelli indicati all'articolo 8 della stessa norma. Tra questi ultimi era espressamente prevista proprio la «trasformazione di impianti centralizzati di riscaldamento in impianti unifamiliari a gas». In pratica, la legge 10/1991 autorizzava gli interventi che l'articolo 1120 vietava.
Nel 2006 (con il Dlgs 311), però, l'articolo 26 della legge 10/1991 veniva cambiato e perdeva il riferimento alla trasformazione da centralizzato in autonomo. Non solo: gli interventi sugli edifici e sugli impianti, per godere della maggioranza agevolata (cioè quella degli intervenuti che rappresenti almeno 1/3 dei millesimi), devono essere individuati attraverso un attestato di prestazione energetica o una diagnosi energetica realizzata da un tecnico abilitato. Quindi, ora, ci si chiede se sia o meno ancora possibile sopprimere il riscaldamento centralizzato e prevedere l'installazione di impianti autonomi.
La situazione attuale
Lo stesso legislatore del 2006, che ha modificato il richiamo all'articolo 8 della legge 10/91, non ha infatti modificato le definizioni contenute nel Dlgs 192/2005. Qui, all'allegato A, numero 43, viene considerato «ristrutturazione di un impianto termico» l'insieme di opere che comportano la modifica sostanziale sia dei sistemi di produzione sia di quelli di distribuzione ed emissione del calore, precisando che rientrano in questa categoria anche la trasformazione di un impianto termico centralizzato in impianti termici individuali.
Si consideri però che il Dlgs 115/2008, all'allegato II, punto 4, comma 2, nel dettare disposizioni in materia di contratto di servizio energia, vieta espressamente (ma solo in questo caso) la trasformazione di un impianto di climatizzazione centralizzato in impianti di climatizzazione individuali. Sembrerebbe, quindi, che vietando espressamente questa possibilità nel caso del contratto energia sia da ritenersi non vietata la trasformazione dell'impianto centralizzato in impianti autonomi negli altri casi.
La stessa trasformazione, però, va supportata da una diagnosi energetica o da un attestato di prestazione energetica (articolo 26, comma 2, della legge 10/1991). Nel caso in cui questa diagnosi o attestazione dovesse dimostrare che l'intervento vada a contenere i consumi energetici (il che è molto difficile, a meno che si tratti di un vecchissima ed energivora), il passaggio dal centralizzato all'autonomo potrà essere validamente deliberato dall'assemblea con la maggioranza prevista dalla riforma del condominio (legge 220/2012), cioè la maggioranza degli intervenuti, che rappresenti almeno 1/3 del valore dell'edificio. In questo senso si è pronunciato anche il Tribunale Palermo, sezione II con sentenza del 29.03.2012.
Naturalmente, bisogna tenere conto delle norme regionali (si veda l'articolo nella pagina), che a volte rendono di fatto impossibile in ogni caso la delibera.
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Da alcune Regioni arriva lo stop alla modifica. Le scelte. Vincolo di stabilità.
La soppressione dell'impianto centralizzato è teoricamente possibile (se si dimostra che si realizza un risparmio energetico attestato da diagnosi o attestazione) ma a livello locale le cose sono più complicate.
Le leggi regionali del Piemonte e dell'Emilia Romagna, per esempio, vietano di dotare i palazzi composti da oltre 4 unità immobiliari (indipendentemente dal numero dei condomini) di riscaldamento diverso dal centralizzato.
Inoltre, il Dpr del 02.04.2009, all'articolo 4, comma 9, prevede che «In tutti gli edifici esistenti con un numero di unità abitative superiore a 4, e in ogni caso per potenze nominali del generatore di calore dell'impianto centralizzato maggiore o uguale a 100 kW, appartenenti alle categorie E1 ed E2, così come classificati in base alla destinazione d'uso all'articolo 3, del decreto del Presidente della Repubblica 26.08.1993, n. 412, è preferibile il mantenimento di impianti termici centralizzati laddove esistenti; le cause tecniche o di forza maggiore per ricorrere a eventuali interventi finalizzati alla trasformazione degli impianti termici centralizzati ad impianti con generazione di calore separata per singola unità abitativa devono essere dichiarate nella relazione di cui al comma 25».
Non vi è insomma, nel Dpr del 2009, un divieto assoluto di trasformazione, ma la possibilità viene subordinata alla produzione di una perizia tecnica che ne attesti l'impossibilità della conservazione. Ma questo articolo 4 sarà abrogato dall'entrata in vigore dei decreti attuativi conseguenti all'approvazione della legge 90/2013.
Va poi ricordato che il Dpr 59/2009, attuativo del Dlgs 192/2005 e che regola la prestazione energetica degli edifici, non trova applicazione nelle Regioni (tra le quali la Lombardia) che abbiano autonomamente provveduto a recepire la Direttiva europea 2002/91/CE. E sul punto nulla dice la nuova delibera di Giunta della Regione Lombardia, n. X 1118/2013 pubblicata a fine dicembre 2013.
Ne consegue che, nei limiti previsti dalle eventuali legislazioni regionali (come in Piemonte ed Emilia Romagna) il riscaldamento in impianti autonomi sarebbe possibile, con la maggioranza degli intervenuti in assemblea che rappresentino almeno 1/3 dei millesimi, se supportata da diagnosi energetica o da Attestato di Prestazione energetica.
Questi documenti dovrebbero di fatto dimostrare che il miglior impianto centralizzato progettato per consentire al massimo, in base allo stato della scienza e della tecnica, il contenimento dei consumi energetici, consumerebbe maggior energia dell'insieme degli impianti autonomi a parità di funzionamento.
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Lombardia, obbligo di contabilizzazione. Scadenze lunghe. Proroga fino al 2017.
In Lombardia, una legge molto bene ispirata mette assieme la termoregolazione e la contabilizzazione del calore negli impianti di riscaldamento centralizzati. L'articolo 26, quinto comma, della legge 10/1991 prevede infatti che «per le innovazioni relative all'adozione di sistemi di termoregolazione e di contabilizzazione del calore e per il conseguente riparto degli oneri di riscaldamento in base al consumo effettivamente registrato, l'assemblea di condominio decide a maggioranza, in deroga agli articoli 1120 e 1136 del Codice civile».
Se la legge nazionale ha agevolato l'adozione della contabilizzazione, la Regione Lombardia la ha dunque resa addirittura obbligatoria, sia pure con deroghe per le situazioni di eccessiva difficoltà tecnica. È prevista una complessa decorrenza del l'obbligo. La delibera di giunta regionale del 23.05.2012 (IX/3522) ha modificato e prorogato sino al primo agosto del 2014 l'obbligatorietà per gli impianti per i quali il cambio di combustibile sia avvenuto dopo il 01.08.1997, per quelli che si siano collegati a reti di teleriscaldamento dopo il 01.08.1997 e per quelli i quali venga approvato un progetto di ristrutturazione complessiva che consenta un miglioramento dell'efficienza energetica non inferiore al 40% rispetto al rendimento dell'impianto originario. Successivamente, la legge regionale 5 del 31.07.2013 ha sostanzialmente stabilito che sino al primo gennaio 2017 non si applichino sanzioni per i trasgressioni.
Ne è derivato un quadro estremamente complesso, che suggerisce tre succinti chiarimenti. In primo luogo, va detto che i rapporti tra condomini in tema di spese sono disciplinati dalla legge dello Stato e non possono essere in alcun modo incisi dalle norme regionali. Pertanto, dove il condominio abbia realizzato termoregolazione e contabilizzazione, ogni condomino ha titolo per esigere l'applicazione integrale dell'articolo 26 legge 10/1991, che prevede la suddivisione delle spese «in base al consumo effettivamente registrato». In secondo luogo, l'assemblea ha titolo per determinare la quota di consumi che trova ragione nella stessa esistenza dell'impianto e che quindi non è soggetta ad alcuna misurazione (si vedano le previsioni rese pubbliche nel febbraio 2013 con la recente revisione della norma UNI CTI 10200).
Infine, occorre considerare la posizione di chi, essendo in posizione sfavorita (esposto a nord, oppure sopra un piano a pilotis o all'ultimo piano) teme di rimanere da solo a sostenere i costi per resistere alle temperature più rigide e alla inefficiente coibentazione dell'edificio condominiale: ove possibile, meglio tentare di migliorare le caratteristiche di isolamento dell'edificio, che sono la premessa per la corretta contabilizzazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.03.2014).

INCARICHI PROFESSIONALIAvvocati, velocità e qualità premiate (o punite) in parcella. Gli effetti dei meccanismi deflattivi introdotti dal decreto Orlando sui parametri.
Causa che pende non rende più. È sanzionato, infatti, l'avvocato che ostacola la definizione dei procedimenti in tempi ragionevoli, così come chi intenta liti temerarie. Premiato, invece, il professionista veloce e di qualità: se cioè raggiunge una transazione o una conciliazione giudiziale o «stravince» la causa.

Sono alcuni dei meccanismi deflattivi introdotti dal decreto parametri, firmato nei giorni scorsi dal ministro della giustizia, Andrea Orlando, e in corso di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. In pratica, il regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense (ai sensi dell'art. 13 comma 6 della legge n. 247/2012), introduce una serie di premi e sanzioni sul compenso che il giudice deve liquidare all'avvocato, con l'obiettivo di incentivare la deflazione dei processi.
Attività giudiziale. Ai fini della liquidazione del compenso dell'avvocato il giudice deve tenere conto di una serie di fattori: caratteristiche, urgenza e pregio dell'attività prestata; importanza, natura, difficoltà e valore dell'affare. Ma anche condizioni soggettive del cliente, risultati conseguiti, numero e complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate. In ordine alla difficoltà dell'affare, secondo il decreto, si tiene particolare conto dei contrasti giurisprudenziali, e della quantità e del contenuto della corrispondenza che risulta essere stato necessario intrattenere con il cliente e con altri soggetti. Rispetto ai valori medi delle tabelle ministeriali, il giudice può, di regola, aumentare il compenso fino all'80%, o diminuirlo fino al 50%. Per la fase istruttoria l'aumento è di regola fino al 100% e la diminuzione di regola fino al 70%.
Incentivi. Il regolamento introduce una sorta di incentivo «deflattivo», premiando la rapida soluzione processuale e la professionalità dell'avvocato. Nel dettaglio, al legale che raggiunge una transazione o una conciliazione giudiziale sarà liquidato un compenso aumentato, di regola, fino a un quarto rispetto a quello altrimenti liquidabile per la fase decisionale, fermo quanto maturato per l'attività precedentemente svolta. Viene introdotta anche la cosiddetta «soccombenza qualificata»: la disposizione prevede un incremento fino a un terzo del compenso a favore dell'avvocato vittorioso che nel corso del giudizio sia stato capace di far emergere la manifesta fondatezza della propria pretesa nei confronti della controparte costituita. Il compenso è inoltre elevato fino al triplo nel caso di class action, in considerazione della particolare natura di tali cause.
Sanzioni. Allo stesso modo, il regolamento sanziona l'abuso del ricorso alla giurisdizione. Così, costituisce elemento di valutazione negativa, in sede di liquidazione giudiziale del compenso, l'adozione di condotte abusive tali da ostacolare la definizione dei procedimenti in tempi ragionevoli. Nel caso di responsabilità processuale ai sensi dell'art. 96 cpc, ovvero, comunque, nei casi d'inammissibilità o improponibilità o improcedibilità della domanda, il compenso dovuto all'avvocato del soccombente è ridotto del 50% rispetto a quello altrimenti liquidabili, ove concorrano gravi ed eccezionali ragioni esplicitamente indicate nella motivazione.
Altri aumenti-diminuzioni in parcella. Quando in una causa l'avvocato assiste più soggetti aventi la stessa posizione processuale, il compenso unico può di regola essere aumentato per ogni soggetto oltre il primo nella misura del 20%, fino a un massimo di dieci soggetti, e del 5% per ogni soggetto oltre i primi dieci, fino a un massimo di venti. Questa disposizione si applica quando più cause vengono riunite, dal momento dell'avvenuta riunione e nel caso in cui l'avvocato assiste un solo soggetto contro più soggetti. Nel caso in cui l'avvocato assista i due coniugi nel procedimento per separazione consensuale e nel divorzio a istanza congiunta, il compenso è invece liquidato di regola con una maggiorazione del 20% su quello altrimenti liquidabile per l'assistenza di un solo soggetto. Nell'ipotesi in cui, ferma l'identità di posizione processuale dei vari soggetti, la prestazione professionale nei confronti di questi non comporta l'esame di specifiche e distinte questioni di fatto e di diritto, il compenso altrimenti liquidabile per l'assistenza di un solo soggetto è di regola ridotto del 30%.
Attività penale. Per quanto riguarda l'attività penale, il regolamento stabilisce che, ai fini della liquidazione del compenso, il giudice deve tenere conto, tra l'altro: delle caratteristiche, dell'urgenza e del pregio dell'attività prestata, dell'importanza, della natura, della complessità del procedimento, della gravità e del numero delle imputazioni, del numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate, dei contrasti giurisprudenziali, dell'autorità giudiziaria dinanzi cui si svolge la prestazione, della rilevanza patrimoniale, del numero dei documenti da esaminare.
I valori medi delle tabelle ministeriali possono, di regola, essere aumentati fino all'80%, o diminuiti fino al 50%. Anche nell'attività penale, quando l'avvocato assiste più soggetti aventi la stessa posizione processuale, il compenso unico può di regola essere aumentato per ogni soggetto oltre il primo nella misura del 20%, fino a un massimo di dieci soggetti, e del 5% per ogni soggetto oltre i primi dieci, fino a un massimo di venti.
Attività stragiudiziale. Per l'attività stragiudiziale si tiene invece conto delle caratteristiche, dell'urgenza, del pregio dell'attività prestata, dell'importanza dell'opera, della natura, della difficoltà e del valore dell'affare, della quantità e qualità delle attività compiute, delle condizioni soggettive del cliente, dei risultati conseguiti, del numero e della complessità delle questioni giuridiche e in fatto trattate. I valori delle tabelle possono, di regola, essere aumentati fino all'80%, o diminuiti fino al 50%.
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Con il nuovo dm compensi in aumento. E ritorna il rimborso forfettario delle spese. Costi prevedibili per il cliente.
Stop alla imprevedibilità dei costi del servizio legale. In generale i compensi sono ritoccati in aumento e torna il rimborso forfettario delle spese generali, escluso nel dm 140/2012 (primo decreto sui parametri dopo l'abolizione delle tariffe), ma previsto dalla legge di riforma della professione forense. Si tratta comunque di un quadro certo: i nuovi parametri non servono solo ai giudici, ma servono anche a regolare i rapporti tra avvocato e cliente. Anche se non contengono cifre inderogabili. Il cliente e l'avvocato possono concordare liberamente il costo del servizio, e in quel caso il contratto è svincolato da qualsiasi parametro. In mancanza si fa riferimento al nuovo decreto.
Nuovo decreto che, come spiega la relazione illustrativa, da un lato rimane coerente con il sistema dei «vecchi» parametri (cessati dopo circa un anno e mezzo di vita), proprio nella parte in cui subordina il ricorso ai parametri alla mancanza di accordo tra le parti; ma dall'altro lato si registra uno stacco perché il ricorso ai parametri non è più limitato ai casi di liquidazione del compenso da parte del giudice, ma è previsto anche in altri casi: quando il compenso non è stato determinato in forma scritta; in ogni caso di mancanza di accordo; nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell'interesse di terzi; per prestazioni d'ufficio previste dalla legge. Il parametro, quindi, non è più destinato solo ai giudici, ma anche al cliente dell'avvocato. Ma vediamo i punti salienti, cercando le novità e registrando le conferme.
Tornano le spese generali. Il decreto prevede che oltre al compenso per la prestazione professionale e al rimborso delle spese documentate, all'avvocato è dovuto anche un rimborso forfetario per «spese generali».
Dopo la parentesi del dm 140/2012, che aveva accantonato il recupero delle spese generali, il nuovo decreto ha previsto un rimborso quantificato nella misura percentuale del 15% del compenso: la disposizione dà attuazione all'articolo 13, comma 10, della legge 247/2012 che rimette proprio al dm la determinazione della misura massima del rimborso delle spese forfetarie.
In dettaglio l'articolato stabilisce che oltre al compenso e al rimborso delle spese documentate in relazione alle singole prestazioni, all'avvocato è dovuta, in ogni caso e anche in caso di determinazione contrattuale, una somma per rimborso spese forfettarie di regola nella misura del 15% del compenso totale per la prestazione.
Il rimborso va a coprire quelle voci di spesa (ad esempio quelle relative alla gestione dello studio) che sono effettive, ma non documentabili.
Le spese forfettarie sono calcolate sul compenso totale e non con riferimento a ogni singola fase. Le parti possono, comunque, stabilire diversamente: azzerare il rimborso o determinarlo in percentuale differente dal 15%.
Le fasi. Qui abbiamo una conferma. Ormai è stato abbandonato il sistema del calcolo del compenso per singola attività (ad esempio singola udienza) e per ciascuna fase è indicato il compenso medio della prestazione. Le fasi individuate sono: studio della controversia, introduttiva del giudizio, istruttoria, decisionale. A queste si aggiungono le fasi proprie del procedimento esecutivo: quella di studio e introduttiva e quella istruttoria e di trattazione.
Valore della causa. Il compenso per fasi è a sua volta articolato a seconda del valore della causa. La struttura del nuovo decreto è uguale a quella dei parametri del 2012, ma cambiano gli scaglioni.
Il valore della causa è stato suddiviso in scaglioni progressivi, secondo quanto previsto per il contributo unificato. Per ogni scaglione è indicato, in corrispondenza di ciascuna fase della attività difensiva, il costo medio rispetto al quale sono previsti aumenti o riduzioni. Naturalmente il minimo è derogabile, e la soglia minima indicata, si legge nella relazione, è la misura al di sotto della quale «non sarebbe opportuno andare» al fine di assicurare il rispetto dei principi costituzionali di proporzionalità della retribuzione e di dignità del lavoratore.
Conciliazione. Anche qui si tratta di una conferma dell'impostazione del dm 140/2012. Nell'ipotesi di conciliazione giudiziale o transazione della controversia, la liquidazione del compenso sarà di regola aumentato fino a un quarto. È lo strumento scelto per incentivare la soluzione transattiva o la conciliazione giudiziale della controversia, con un premio per la rapida soluzione processuale.
Viene anche premiato con un incremento del compenso l'avvocato vittorioso che nel corso del giudizio sarà stato capace di far emergere la manifesta fondatezza della propria pretesa nei confronti della controparte.
Bacchettata per chi abusa del processo. Il decreto sanzionare l'abuso del ricorso alla giurisdizione. Mentre costituisce elemento di valutazione negativa, in sede di liquidazione giudiziale del compenso, l'adozione di condotte abusive tali da ostacolare la definizione dei procedimenti in tempi ragionevoli. Inoltre nel caso di lite temeraria o, comunque, nei casi d'inammissibilità o improponibilità o improcedibilità della domanda, il compenso dovuto all'avvocato del soccombente sarà ridotto, per gravi ed eccezionali ragioni esplicitamente indicate nella motivazione, del 50%.
Ma si paga di più. Il un compenso medio dei nuovi parametri è più alto di quelli del dm 140/2012. Nel corso dell'approvazione i valori hanno subito un saliscendi, ma i parametri numerici indicati nella Tabelle hanno un valore incrementato rispetto a quello delle Tabelle del dm 140/2012.
Società professionale. Il decreto prevede l'ipotesi di pluralità di difensori, distinguendo la fattispecie di compenso dovuto dal cliente (ogni avvocato avrà diritto al compenso per la attività da lui effettivamente svolta), da quella di compenso della parte vittoriosa a carico del soccombente, prevedendo che quest'ultimo sarà gravato delle spese processuali come se vi fosse un solo difensore.
Nel caso di incarico professionale conferito a una società di avvocati, si applica il compenso spettante a un solo professionista anche se la prestazione è stata svolta da più soci.
Praticanti abilitati al patrocinio. Il compenso spettante al praticante abilitato al patrocinio è stabilito nella misura della metà rispetto a quello spettante all'avvocato.
Da quando si parte. Il nuovo decreto si applica alle liquidazioni successive alla entrata in vigore del medesimo. I parametri, quindi, devono essere applicati ogni qual volta la liquidazione giudiziale interviene in un momento successivo alla entrata in vigore del decreto e si riferisce a un compenso spettante al professionista che a quella data non ha ancora completato la propria prestazione professionale, ancorché tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta quando ancora era in vigore la precedente normativa (articolo ItaliaOggi Sette del 17.03.2014 - tratto da www.centroctudicni.it).

TRIBUTIRifiuti speciali senza la Tari. Assimilati: esonero per chi dimostra l'avviato recupero. Non sono soggette al pagamento dell'imposta le superfici in cui vengono prodotti gli scarti.
Non sono soggette al pagamento della Tari le superfici in cui vengono prodotti rifiuti speciali. Nella determinazione della superficie tassabile, però, non si calcola solo quella parte dove si formano questi rifiuti in modo continuativo e prevalente, al cui smaltimento sono tenuti a provvedere a proprie spese i produttori. Il tributo non è dovuto neppure per le quantità di rifiuti assimilati agli urbani che il produttore dimostri di aver avviato al recupero.

È quanto prevede l'articolo 1, commi 649 e 661, della legge di Stabilità (147/2013) in seguito alle modifiche apportate dall'articolo 2, comma 1, lettera e) del dl sulla finanza locale (16/2014).
Rifiuti speciali. La formulazione letterale del comma 649 è tutt'altro che un esempio di chiarezza, in quanto fa già discutere e può generare contenzioso nella parte in cui richiede la produzione di rifiuti speciali «in via continuativa e prevalente» al fine di ottenere l'esonero dal prelievo. Il dubbio che si pone è se qualora sussista il requisito della continuità e prevalenza non possono essere tassate integralmente le superfici in cui si producono anche rifiuti speciali oppure se il beneficio rimane sempre circoscritto alla parte della superficie interessata e l'esonero è parziale. Già è stata fornita da una parte della dottrina un'interpretazione che non è in linea né con la lettera né con la ratio della norma.
È stato infatti affermato che in presenza dei requisiti della continuità e prevalenza nella produzione di rifiuti speciali, non sia tassabile l'intera superficie dell'immobile. Si ritiene, invece, che nonostante l'infelice formulazione della disposizione di legge, l'agevolazione fiscale sia sempre limitata alla parte dell'immobile interessata dalla formazione di questi rifiuti e non si estende all'intera superficie, vale a dire a quella in cui si producono rifiuti ordinari. La novità rispetto al passato, infatti, è che una «parte di essa» può essere esclusa dalla tassazione solo a condizione che la produzione di rifiuti speciali risulti continuativa e prevalente.
Nel caso in cui sussista questa condizione allo smaltimento dei rifiuti sono tenuti a provvedere a proprie spese i produttori. Ma l'esclusione dell'obbligo di conferirli al servizio pubblico si ha solo nei casi in cui sia fornita dimostrazione del loro autosmaltimento e a condizione che l'avvenuto trattamento venga effettuato in conformità alla normativa vigente. Inoltre, spetta al contribuente provare quale parte dell'immobile non sia soggetta alla tassa.
Il comma 682, lettera a), numero 5) della legge di Stabilità attribuisce al comune anche la facoltà di concedere con regolamento una riduzione tariffaria in caso di autosmaltimento. In particolare, l'amministrazione comunale può individuare categorie di attività produttive di rifiuti speciali alle quali applicare, nell'obiettiva difficoltà di delimitare la parte ove si formano questi rifiuti, percentuali di riduzione rispetto all'intera superficie su cui l'attività viene svolta.
Rifiuti assimilati. Il dl sulla finanza locale ha risolto la questione dei rifiuti speciali assimilati agli urbani, a causa della confusione che era emersa dal testo dell'articolo 1 della legge di Stabilità (147/2013). Nonostante il Ministero dell'ambiente fosse intervenuto nelle settimane scorse con una circolare per fornire dei chiarimenti, sussisteva un contrasto insanabile tra i commi 649 e 661 che affermavano regole diverse. In base a quanto disposto dall'articolo 1, comma 649, erano soggette alla Tari le superfici produttive di rifiuti speciali assimilati agli urbani.
In questo caso l'amministrazione comunale poteva prevedere riduzioni tariffarie proporzionali alle quantità di rifiuti che le imprese produttrici dimostrassero di avviare al recupero. L'agevolazione fiscale non si applicava alla quota fissa, ma solo alla parte variabile della tariffa. Mentre, per gli stessi rifiuti il comma 661 stabilisce che il tributo non è dovuto se il produttore dimostri di avviarli al recupero. Era del tutto evidente il conflitto tra le due norme. La seconda disposizione, in realtà, sottrae al comune qualsiasi potere decisionale riconosciuto dalla prima in ordine alla concessione dell'eventuale riduzione tariffaria, tra l'altro ex lege limitata solo alla parte variabile della tariffa.
L'articolo 2, comma 1, lettera e) del dl 16/2014 ha abrogato il secondo periodo del comma 649, non riconoscendo al comune alcun potere decisionale sulla scelta di concedere la riduzione tariffaria. Viene invece mantenuta ferma la previsione contenuta nel comma 661, in base al quale il tributo non è dovuto per la quantità di rifiuti assimilati che il produttore dimostri di avviare al recupero (articolo ItaliaOggi Sette del 17.03.2014).

EDILIZIA PRIVATAFine lavori con certificati variabili. Conformità impianti sempre necessaria - Per archiviare gli interventi pesanti occorre l'agibilità.
Titoli abilitativi. La documentazione da presentare al Comune dopo la chiusura del cantiere cambia in base all'inquadramento delle opere.

Certificati, documenti, nulla osta. La "battaglia" con la burocrazia per chi avvia interventi edilizi non finisce con il via libera ai lavori. Una parte, spesso trascurata, di adempimenti arriva alla fine, a opere concluse.
Nel caso di una nuova costruzione o di una ristrutturazione di un edificio esistente, ad esempio, una volta terminati i lavori è necessario chiedere al Comune il rilascio del certificato di agibilità che attesta «la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati». L'agibilità rappresenta una sorta di "libretto di circolazione" dell'edificio.
Entro 15 giorni dalla fine dei lavori, pena la sanzione di 256 euro, deve essere presentata la richiesta del certificato corredata da:
- richiesta di accatastamento dell'edificio, o variazione catastale nel caso di opere su edifici esistenti;
- dichiarazione dell'impresa installatrice degli impianti elettrico, idrico, gas, condizionamento ed elevatori che ne attesti la conformità;
- certificazione energetica;
- certificato di prevenzione incendi o documento analogo previsto dalla normativa rispetto alla classe dell'edificio o delle opere;
- collaudo statico (nel caso di nuovi edifici o di rilevanti opere sulle strutture);
- dichiarazione di conformità alla normativa sulle barriere architettoniche in caso di interventi sulle parti comuni;
- parere, sul progetto, della azienda sanitaria locale (Asl), nel caso in cui la verifica in ordine alla conformità igienico-sanitaria comporti valutazioni tecnico-discrezionali. Per l'edilizia residenziale la conformità viene attestata nell'ambito del progetto edilizio e il parere non è quindi richiesto.
Buona parte di questi documenti sono quelli che separate normative impongono di ottenere al fine di assicurare la presenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, tramite la dimostrazione che nelle esecuzione delle opere sono state rispettate le specifiche normative e i progetti presentati.
La mancata produzione dei singoli documenti è sanzionata:
- il mancato accatastamento causa l'incommerciabilità del bene oltre che l'eventuale evasione fiscale;
- il mancato rilascio della conformità impianti è punito con una sanzione da cento a mille euro per l'impresa installatrice;
- la mancanza della certificazione energetica è punita con una ammenda da 3mila a 18mila euro (si veda l'articolo a fianco);
- la mancanza della dichiarazione di conformità alle norme sulle barriere architettoniche non è sanzionata mentre lo è, per i tecnici, la non rispondenza delle opere alla normativa (da 5mila a 25mila euro);
- la mancanza del certificato di prevenzione incendi e del collaudo statico comportano sanzioni penali.
- La mancanza della conformità igienico-sanitaria comporta l'impossibilità di dare avvio alle attività lavorative, sempre che essa comporti valutazioni discrezionali.
Pur in presenza di tali sanzioni, stranamente, il mancato ottenimento dell'agibilità comporta solo una sanzione da 77 a 464 euro (di norma si applica la minima) mentre, normativamente, nulla osta agli atti di trasferimento.
Il silenzio assenso
Trascorsi 60 giorni dal completamento della documentazione o 30 giorni nel caso di parere Asl, l'agibilità s'intende attestata per silenzio-assenso.
In questo caso sarebbe preclusa la possibilità di rilasciare un certificato e non esiste quindi un documento rilasciato dal Comune, ma in molte amministrazioni comunali è prassi rilasciare, su istanza che citi gli atti della domanda di agibilità, una dichiarazione con le quale si attesta la maturazione del silenzio-assenso.
I vecchi edifici
Un problema particolare è quello degli immobili privi di agibilità rilasciata e costruiti prima dell'entrata in vigore del silenzio-assenso (Dpr 425/1994).
In questo caso in alcuni Comuni (sicuramente Milano e Firenze) è in atto una procedura di rilascio "ora per allora" secondo le nuove modalità condizionata alla presentazione della documentazione prescritta dal Dpr 380/2001.
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Gli altri adempimenti. Quando la rendita va aggiornata. Passaggio al Catasto per tutte le opere minori.
La richiesta di agibilità può riguardare anche opere di minor rilievo rispetto ad una nuova costruzione o una ristrutturazione, ma che comportano modifiche delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico dell'edificio o della parte di edificio sulla quale si è intervenuti. In questo caso la procedura e la documentazione sono le stesse degli interventi maggiori, ma se si rientra nell'agibilità parziale si dovrà anche allegare una attestazione circa la presenza delle opere di urbanizzazione primaria e i certificati degli impianti relativi alle parti comuni nonché, se dovuto, il collaudo delle parti strutturali.
Ma nel caso di opere più ridotte quali sono gli adempimenti con i quali si può considerare correttamente conclusa un'attività edilizia? Non esiste una casistica unitaria perché gli obblighi cambiano a seconda del tipo di titolo edilizio con il quale sono state intraprese le opere (si veda la scheda sopra). L'adempimento che non può mai essere omesso é quello legato all'imposizione fiscale e cioè la variazione catastale. Ma la variazione catastale è obbligatoria solo nel caso in cui le opere comportino una modifica della rendita dell'unità: aumenti o diminuzioni delle superfici (anche accessorie), fusioni e/o frazionamenti, introduzione di migliorie sostanziali (ad es. realizzazione di un nuovo bagno), non è invece necessaria se si effettuano solo degli spostamenti di pareti interne per ridefinire i locali.
Se si è ottenuto un permesso di costruire è necessario comunicare la fine dei lavori e, entro 15 giorni, richiedere l'agibilità. Nel caso si proceda attraverso una Dia oltre all'obbligo di comunicare la fine dei lavori, ed eventualmente richiedere l'agibilità, deve essere anche presentato un certificato di collaudo finale da parte del progettista o anche da un altro tecnico abilitato, che attesti la conformità delle opere al progetto (comprese eventuali varianti). Analoghi obblighi dovrebbero sussistere, in linea di principio, anche per la Scia (segnalazione certificata di inizio attività), per la quale si applicano in buona parte le norme procedimentali della Dia, ma non esiste una norma esplicita in proposito.
Caso diverso è invece quello dell'attività edilizia libera (articolo 6 Dpr 380/2001) soggetta all'obbligo della comunicazione d'inizio lavori asseverata da un tecnico, la cosiddetta Cia (o Cila o Cial). In questo caso è doverosa una premessa: l'attività edilizia libera è definita come intervento eseguito senza alcun titolo abilitativo quindi ad essa non si applicano le prescrizioni che riguardano i titoli edilizi, salvo quanto previsto dall'articolo stesso cioè comunicazione dell'inizio dei lavori, asseverazione tecnica e aggiornamento catastale.
Non è quindi prescritto il collaudo e nemmeno la comunicazione di fine lavori, resteranno invece obbligatori gli adempimenti previsti, separatamente, dalle norme tecniche: certificazione energetica (se del caso) e conformità impianti.
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La novità. L'ultima modifica per edifici «incompleti». Strada più semplice con l'abitabilità parziale.
Il certificato di abitabilità/agibilità, giungendo alla fine anche di attività complesse come le ristrutturazioni, rischia spesso di venire tralasciato. In più nei grandi Comuni capita di non riuscire a reperire questa certificazione, specialmente per gli edifici più vecchi.
L'obbligo di richiedere/certificare l'abitabilità dell'edificio è stato introdotto dal Testo unico delle leggi sanitarie del 1934; quindi gli immobili realizzati prima non devono essere dotati della certificazione. Questa situazione può creare problemi nel caso in cui, nell'ambito dei trasferimenti degli immobili o della apertura di mutui, venga comunque richiesto il certificato.
Negli ultimi decenni la normativa ha subito importanti innovazioni:
- a partire dal 1994 (con il Dpr 425) il rilascio della certificazione di abitabilità/agibilità è sottoposto al silenzio-assenso;
- con il Dpr 380/2001 (Tu edilizia) l'obbligo di ottenere questa certificazione è stato esteso anche agli interventi sugli edifici esistenti che possano influire sulle condizioni di condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico;
- con il decreto del Fare (Dl 69/2013) è possibile richiedere l'agibilità anche per «per singoli edifici o singole porzioni della costruzione, purché funzionalmente autonomi» o «per singole unità immobiliari» a determinate condizioni.
È ora possibile conseguire un'agibilità parziale in un edificio nel quale non tutte le unità immobiliari siano state completate, ma non si esclude il caso che una singola unità con mutate condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico, possa conseguire un'autonoma agibilità.
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Detrazioni fiscali. Niente sconti senza bollino «verde».
Fra i documenti da produrre alla fine dei lavori in casa è una novità degli ultimi anni. L'attestato di prestazione energetica (Ape), la targa verde che fotografa la performance di un edificio per coprire il fabbisogno necessario al riscaldamento, raffrescamento e alla produzione di acqua calda sanitaria, figura –in molte situazioni differenti– come uno degli adempimenti necessari per poter chiudere una pratica edilizia o per ottenere l'accesso alle detrazioni previste dallo Stato, in caso di interventi di risparmio energetico. A prescindere dalla successiva vendita o locazione dell'immobile.
Per i privati, l'Ape è sempre obbligatorio non solo in caso di nuova costruzione, ma anche di «ristrutturazione importante». La casistica è ampia, specie dopo le modifiche introdotte al Dlgs 192/2005 dal Dl 63/2013. Se in passato, infatti, l'obbligo di dotazione dell'attestato scattava esclusivamente per immobili di superficie utile superiore ai mille mq, oggetto di restyling integrale o di demolizione e ricostruzione, oggi è richiesto per tutti gli interventi di recupero edilizio che riguardano più del 25% della superficie dell'involucro dell'intero edificio. Comprese le manutenzioni straordinarie e ordinarie o i risanamenti conservativi, che nel Testo unico per l'edilizia sono esclusi dalla definizione di ristrutturazione.
A mettere in luce le differenze dal “prima” al “dopo” è la stessa guida al rilascio dell'Ape diffusa dal Consiglio nazionale del notariato dopo l'entrata in vigore del Dl 63/2013. Che spiega come la ristrutturazione rilevante ai fini energetici –così come individuata dalla nuova formulazione del Dlgs 192/2005– non coincida con quella che rileva ai fini edilizi e urbanistici. «Addirittura –scrivono i notai– può verificarsi che interventi totalmente liberi sotto il profilo edilizio, come le ordinarie manutenzioni, una volta eseguiti facciano, invece, sorgere la necessità di preparare un attestato di prestazione energetica».
Tirando le somme, l'Ape sarà dunque fra i documenti da produrre per ogni intervento significativo, compresi il rifacimento di pareti esterne di un immobile, di intonaci interni, del tetto o della impermeabilizzazione delle coperture. La targa dei consumi, rilasciata da tecnico abilitato (secondo il Dpr 75/2013 o altro sistema regionale), dovrà essere prodotta a cura di chi ristruttura, sia esso un committente privato o una società edile.
L'Ape è indispensabile anche quando, eseguiti lavori per il risparmio energetico, si desidera accedere alle detrazioni che, in questo momento e fino a dicembre 2014 (giugno 2015 per i condomìni), permettono un recupero fino al 65% della spesa sostenuta, con tetti diversi a seconda della tipologia di opere.
Ciò vale sia nei casi in cui l'intervento coincide con le ristrutturazioni importanti, sia ad esempio per l'installazione di una caldaia a biomassa o la sostituzione degli infissi per tutto il palazzo. Non vale, invece, per opere ritenute minori, come il cambio di finestre in un singolo appartamento, la posa di pannelli solari o la sostituzione dell'impianto di climatizzazione invernale con caldaia a condensazione.
L'Ape –che se esisteva per l'edificio già prima dell'intervento dovrà essere redatto di nuovo a fine lavori- deve essere semplicemente conservato. Insieme all'attestato di qualificazione energetica e alla scheda informativa dell'intervento, da inviare all'Enea, entro 90 giorni dalla chiusura del cantiere. La spesa per la compilazione della targa verde può essere inserita fra i costi da detrarre
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.03.2014).

ENTI LOCALIIl revisore «paga» l'elusione dal Patto. Finanza pubblica. Condanna per danno.
Pesanti conseguenze in caso d'irregolare esclusione di spese rilevanti ai fini del patto di stabilità.

La Corte conti Campania ha sanzionato revisori e responsabile del servizio finanziario di un Comune che, a seguito di un'ispezione della Ragioneria generale, risulta aver rispettato il Patto 2003 grazie alla mancata inclusione nei saldi di spese non escludibili. In specie, non risultano nei saldi le spese di gestione degli uffici giudiziari, per il fondo nazionale affitti, per il fondo nazionale politiche sociali, per i referendum a carico dello Stato che, invece, avrebbero dovuto essere conteggiate (articolo 29 della legge 289/2002).
Il danno è stato quantificato partendo dalle spese effettuate nel 2004 grazie all'illegittima violazione dei divieti che non avessero rispettato i vincoli dal patto. Si tratta di assunzioni di personale, contrazione di mutui e mancata effettuazione delle dovute riduzioni di spesa.
L'importo così determinato, tuttavia, anche tenendo presente l'utilitas delle spese eseguite e l'impossibilità di quantificare in misura esatta il danno, è stato ridotto dai giudici in modo consistente (il 7,6% di quello complessivamente arrecato).
La sentenza, che s'inserisce in una corrente che va consolidandosi (ad esempio, sezione Piemonte 6/2013), va segnalata per tre aspetti.
1) Il ruolo dei revisori in materia di certificazione del patto non è una mera presa d'atto dei dati e della qualificazione contabile delle poste forniti dalla Pa. Al contrario, i revisori devono vigilare sulla corretta qualificazione contabile e finanziaria delle voci ai fini del patto stesso.
2) La Pa danneggiata dalla condotta illecita, nel caso di specie, va individuata in egual misura nello Stato e nell'ente locale;
3) L'impossibilità di ricalcolare i dati finanziari dell'anno 2001 che sono il parametro di calcolo per accertare il rispetto del patto 2003 (nota Rgs n. 2994/2003). I dati degli anni precedenti, infatti, secondo quanto previsto dell'articolo 29 della legge 289/2002, avrebbero un carattere fisso e stabile. A questi devono fare riferimento gli enti negli anni seguenti, senza possibilità di invocarne l'erroneità, poiché sono da considerarsi vincolanti.
I tre principi enunciati chiaramente valgono non solo per il Patto 2003, ma anche per le versioni successive, ponendosi come regole generali di condotta in caso di raggiungimento degli obiettivi del patto mediante errata o omessa imputazione delle poste
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.03.2014).

APPALTIGare, istanze all'Authority anche dalle associazioni. Contratti pubblici. Prevenzione delle controversie.
Le associazioni e i comitati portatori di interessi diffusi possono richiedere all'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici un parere di risoluzione delle controversie insorte in una procedura di gara, al pari delle stazioni appaltanti e degli operatori economici.
L'ampliamento dei soggetti che possono sollecitare l'intervento di precontenzioso dell'Avcp è una delle numerose novità introdotte dal nuovo regolamento approvato dall'organismo di vigilanza sugli appalti pubblici.
Il nuovo complesso di regole è reso applicabile (articolo 13) anche alla fase dell'esecuzione del contratto, nell'ambito della quale la stazione appaltante o l'esecutore possono richiedere un parere non vincolante: la previsione consente di ipotizzare un intervento (su richiesta) dell'Autorità su controversie insorte su riserve, varianti, problematiche legate alla corretta esecuzione dell'appalto.
La nuova disciplina chiarisce il rapporto con le procedure di contenzioso in sede giurisdizionale, specificando (articolo 5, comma 6) che l'istanza diviene improcedibile in caso di sopravvenienza di una qualunque pronuncia giurisdizionale emessa in primo grado (ad esempio una sentenza del Tar).
L'istanza per il parere può essere presentata anche dopo l'aggiudicazione definitiva (articolo 4, comma 3), delineandosi come procedura di garanzia prima della stipula del contratto. È ammesso anche il riesame delle questioni, ma solo quando siano documentate sopravvenute ragioni di fatto e/o di diritto (articolo 12).
Per rendere temporalmente efficace l'intervento dell'Autorità rispetto agli sviluppi delle procedure di gara per cui sia richiesto il parere, il regolamento prevede anche (articolo 10, comma 5) un nuovo termine di conclusione per l'emissione della pronuncia, fissato in 90 giorni (sospendibile per un periodo limitato solo per la presentazione di memorie e controdeduzioni).
Il procedimento deve essere avviato da uno dei soggetti interessati producendo un'ampia serie di documenti (articolo 5), per garantire all'Avcp la disponibilità di tutte le informazioni.
Nel corso dell'istruttoria la stessa Autorità può richiedere ulteriori informazioni ed elementi (articolo 6, comma 3), mentre le parti interessate possono presentare memorie (entro dieci giorni dalla comunicazione di avvio del procedimento) e repliche (entro i dieci giorni successivi). Inoltre, l'Avcp può richiedere un'audizione dei soggetti coinvolti, qualora lo ritenga opportuno (articolo 9).
Il regolamento evidenzia inoltre come il parere non escluda (articolo 10, comma 4) l'intervento dell'Autorità nell'esercizio dei suoi poteri di vigilanza, qualora rilevi dalla controversia elementi in tal senso significativi
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Sui criteri per istituire il canone previsto dal Codice della Strada (ex art. 27 del Dlgs. 30.04.1992 n. 285, per l'uso o l'occupazione delle strade comunali in particolare per la posa delle reti per servizi pubblici.
L'imposizione di prestazioni patrimoniali sui servizi a rete non deve trasformarsi in un dazio che ostacola e rende più onerosa la circolazione delle merci (v. art. 120 Cost.). L'eventuale previsione di un canone per l'uso o l'occupazione delle strade comunali strutturato come tributo ambientale violerebbe inoltre i principi comunitari.
Per evitare la qualificazione come tributo ambientale, il canone deve essere riferito a un uso particolare di uno specifico bene pubblico. Occorre inoltre che tale uso non sia già remunerato mediante altre prestazioni patrimoniali, perché se il canone costituisse mera duplicazione di queste ultime non potrebbe che essere considerato, per residualità, come tributo ambientale.
Se l'atto di concessione del servizio prevede il pagamento di un canone, come nel caso della distribuzione del gas, il canone per l'uso o l'occupazione delle strade comunali può essere considerato assorbito solo se sia stato preso in considerazione come voce a sé dell'offerta (sotto forma di somma in aumento nella parte economica dell'offerta, o come equivalente monetario di prestazioni accessorie di manutenzione della rete stradale descritte nell'offerta tecnica).
Diversamente, vi sono ancora margini per esigere un corrispettivo per l'uso particolare delle strade comunali; occorre però differenziare il canone dalla TOSAP/COSAP, che ha come presupposto l'occupazione di spazi pubblici. Non è sufficiente il fatto che la TOSAP/COSAP sia parametrata sul numero di utenze (v. art. 63, c. 2-f, del Dlgs. 15.12.1997 n. 446), né la mera sottrazione della TOSAP/COSAP al canone, ma è necessario individuare per quest'ultimo un'autonoma "base imponibile".
I criteri per questa operazione sono contenuti nell'art. 27 c. 8 del codice della strada, la cui attuazione, mancando le direttive nazionali ex 67, c. 5, del DPR 495/1992, è rimessa all'iniziativa dei singoli enti proprietari delle strade. I criteri sono le soggezioni che derivano alla strada, il valore economico risultante dal provvedimento che autorizza l'occupazione, e il vantaggio che l'utente ne ricava.
In sostanza sembra necessario individuare una quota del costo di manutenzione delle strade che possa essere riferita all'esclusivo vantaggio dei gestori dei servizi a rete e una quota dell'utile di questi ultimi (per l'attività di distribuzione svolta sul territorio comunale) che possa essere destinata a remunerare l'uso particolare delle strade, tenendo conto del risparmio conseguito rispetto alla collocazione delle reti al di fuori del tracciato stradale (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, ordinanza 21.03.2014 n. 156 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

LAVORI PUBBLICI: Sull'istituto del project financing.
In materia di finanza di progetto, la procedura di scelta del promotore presenta caratteri peculiari, in quanto è volta alla ricerca non solo di un 'contraente' ma di una 'proposta', che integri l'individuazione e la specificazione dell'interesse pubblico. Il legislatore, nel disciplinare l'istituto del project financing, ha invero distinto le fasi in cui si articola il complesso procedimento volto alla realizzazione di opere pubbliche senza oneri finanziari da parte della amministrazione. La legge prevede in particolare che, in seguito alla presentazione di una proposta da parte dei soggetti cui è riconosciuta detta facoltà, l'amministrazione deve operare una valutazione della medesima a sua volta propedeuetica all'indizione delle procedure di gara per l'aggiudicazione della concessione.
La fase di valutazione della proposta era nel caso di specie ratione temporis disciplinata dall'art. 37-ter della l. n. 109/1994, che, nella formulazione allora vigente, prevedeva che "entro il 31 ottobre di ogni anno la amministrazioni aggiudicatrici valutano la fattibilità delle proposte presentate ... verificano la assenza di elementi ostativi alla loro realizzazione e, esaminate le proposte stesse anche comparativamente, sentiti i promotori che ne facciano richiesta, provvedono ad individuare quelle che ritengono di pubblico interesse". Quindi, alla verifica della fattibilità del progetto e dell'assenza di elementi ostativi alla realizzazione dell'opera, doveva necessariamente seguire la individuazione della proposta di pubblico interesse e solo a seguito di tale individuazione le amministrazioni avrebbero potuto procedere alla indizione della gara di cui all'art. 37-quater, co. 1, lett. a), della l.n. 109/1994 ed alla successiva aggiudicazione della concessione mediante una procedura negoziata, da svolgersi tra il soggetto che avesse presentato la proposta progettuale iniziale (cd promotore) e i soggetti presentatori delle due migliori offerte della gara in precedenza indetta.
In materia di "project financing", anche nella vigenza della precedente disciplina di cui agli art. 37-bis, ter e quater della cit. l. n. 109/1994, l'amministrazione -una volta individuato il promotore e ritenuto di pubblico interesse il progetto dallo stesso presentato (dichiarazione nella fattispecie non intervenuta ), non era tenuta a dare corso alla procedura di gara, essendo libera di scegliere -attraverso valutazioni attinenti al merito amministrativo e non sindacabili in sede giurisdizionale- se, per la tutela dell'interesse pubblico, fosse più opportuno affidare il progetto per la sua esecuzione ovvero rinviare la sua realizzazione ovvero non procedere affatto.
L'amministrazione è titolare del potere, riconosciuto dall'art. 21-quinquies della legge n. 241 del 1990, di revocare, per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di una nuova valutazione dell'interesse pubblico originario, un proprio precedente provvedimento amministrativo quando ciò avvenga prima del consolidarsi delle posizioni delle parti (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 20.03.2014 n. 1365 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: In caso di ati costituenda la garanzia provvisoria deve essere intestata alla capogruppo e a tutte le partecipanti all'associazione.
In caso di a.t.i. costituenda la garanzia dev'essere intestata a tutte le associande, atteso che il soggetto da garantire non è l'a.t.i. nel suo complesso, non ancora costituita, né la sola capogruppo, ma tutte le imprese associande che durante la gara operano individualmente e responsabilmente negli impegni connessi alla partecipazione alla gara stessa, ivi compreso, in caso di aggiudicazione, quello di conferire mandato collettivo alla capogruppo che stipulerà il contratto con l'Amministrazione.
Principio, questo, per il quale non occorre espressa previsione nella lex specialis di gara e la cui inosservanza non abbisogna di essere sanzionata con esplicita clausola di esclusione, discendendo da regole generalissime desumibili dall'art. 75 del D.Lgs. n. 163/2006 (codice dei contratti), nonché dall'intero contesto della normativa in materia di procedure ad evidenza pubblica (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 20.03.2014 n. 1364 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATAL’approdo interpretativo ultimo in materia di denuncia di inizio attività include la DIA (ora SCIA) tra i moduli di liberalizzazione dell'attività privata, escludendo che la stessa costituisca provvedimento tacito direttamente impugnabile.
Gli interessati possono quindi agire sollecitando l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31 c.p.a. ovvero impugnare i "provvedimenti espressi" adottati dall'amministrazione su sollecitazione degli stessi controinteressati.

L’approdo interpretativo in materia di denuncia di inizio attività -da ultimo definitivamente avallato dallo stesso legislatore con le modifiche introdotte all’art. 19, comma 6-ter, della Legge n. 241 del 1990 dal decreto legge 13.08.2011, n. 138, convertito in legge n. 148 del 2011– include la DIA (ora SCIA) tra i moduli di liberalizzazione dell'attività privata, escludendo che la stessa costituisca provvedimento tacito direttamente impugnabile.
Gli interessati possono quindi agire sollecitando l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31 c.p.a. ovvero impugnare i "provvedimenti espressi" adottati dall'amministrazione su sollecitazione degli stessi controinteressati (cfr. Cons. St., sez. IV 10.07.2013, n. 3666; TAR Napoli sez. II 21.06.2013 n. 3195) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 20.03.2014 n. 481 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di abbaini muniti di finestra sul tetto trattasi di opera:
a) che determina un aumento di volumetria e che incide sulla sagoma dell'edificio;
b) che, quindi, rientra nella tipologia della ristrutturazione "con mutamento di sagoma", subordinata a permesso di costruire ai sensi dell'art. 10, comma 1, lettera "c" del D.P.R. n. 380/2001;
c) che, infine, fuoriuscendo dalla sagoma preesistente della copertura del tetto, è da considerarsi "costruzione" -agli effetti delle distanze previste dall'art. 873 del Codice Civile e dalle norme dei regolamenti integrativi della disciplina codicistica- come tale dovendosi intendere, secondo consolidato indirizzo giurisprudenziale, qualsiasi opera non completamente interrata, avente i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente, e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell'opera stessa, dai suoi caratteri e dalla sua destinazione.

Quanto alla realizzazione degli abbaini muniti di finestra sul tetto dei fabbricati, va condivisa la conclusione cui perviene la relazione del 07.09.2010 secondo cui trattasi di opera:
a) che determina un aumento di volumetria e che incide sulla sagoma dell'edificio (TAR Napoli, sez. VII, 09.06.2010, n. 13309; TAR Veneto, sez. II, 07.03.2003, n. 1692; Cons. St., sez. V, 14.06.1996, n. 689);
b) che, quindi, rientra nella tipologia della ristrutturazione "con mutamento di sagoma", subordinata a permesso di costruire ai sensi dell'art. 10, comma 1, lettera "c" del D.P.R. n. 380/2001;
c) che, infine, fuoriuscendo dalla sagoma preesistente della copertura del tetto, è da considerarsi "costruzione" -agli effetti delle distanze previste dall'art. 873 del Codice Civile e dalle norme dei regolamenti integrativi della disciplina codicistica- come tale dovendosi intendere, secondo consolidato indirizzo giurisprudenziale, qualsiasi opera non completamente interrata, avente i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente, e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell'opera stessa, dai suoi caratteri e dalla sua destinazione (Cass. civ. sez. II, 03.01.2013, n. 72; id., sez. II, 22.02.2011, n. 4277; id., sez. II, 04.10.2005, n. 19350)
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 20.03.2014 n. 481 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sull'applicazione dell'art. 38, c. 1, lett. c), d.lgs. n. 163/2006, in caso di cessione di ramo d'azienda.
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L'integrazione dei requisiti minimi di capacità imposti dall'amministrazione aggiudicatrice può essere dimostrata, sia utilizzando l'avvalimento frazionato che l'avvalimento plurimo.

La dichiarazione circa l'insussistenza di sentenze di condanna passate in giudicato (o di decreti penali di condanna irrevocabili, o di sentenze di applicazione della pena su richiesta) per determinati reati nei confronti di amministratori e direttori tecnici, prevista dall'art. 38 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (codice degli appalti pubblici), va resa, a pena di esclusione, in caso di cessione d'azienda in favore del concorrente nel triennio anteriore al bando (un anno, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 12.07.2011, n. 106), anche con riferimento agli amministratori ed ai direttori tecnici che hanno operato presso la impresa cedente nell'ultimo triennio (nell'ultimo anno, a seguito delle suddette modifiche)".
Se la cessione del ramo d'azienda non determina di per sé una discontinuità nella gestione tale da sottrarre gli amministratori e direttori tecnici dell'impresa ceduta agli obblighi dichiarativi di cui all'art. 38, c. 1, lett. c), d.lgs. n. 163/2006, qualora ciò avvenga per il tramite di una procedura di concordato preventivo, e salvo che non sia desumibile da ulteriori elementi un intento elusivo della prescrizione ivi contenuta, non può ritenersi che l'impresa cessionaria concorrente nella procedura di gara sia tenuta a rendere le dichiarazioni in questione.
La cessione dell'azienda o del ramo d'azienda a seguito del concordato preventivo determina, infatti, una cesura nella gestione dei beni dell'impresa, tale da escludere un'influenza dei comportamenti degli amministratori e dei direttori tecnici della cedente, senza che risulti rilevante che quest'ultimi ex art. 2487-bis, terzo comma c.c., avvenuta l'iscrizione nel registro delle imprese dei liquidatori, a differenza di quanto accade per gli amministratori, non cessino dalla carica.
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L'integrazione dei requisiti minimi di capacità imposti dall'amministrazione aggiudicatrice può essere dimostrata, sia utilizzando l'avvalimento frazionato che l'avvalimento plurimo, poiché ciò che rileva è la dimostrazione da parte del candidato o dell'offerente, che si avvale delle capacità di uno o di svariati altri soggetti, di poter disporre effettivamente dei mezzi di questi ultimi che sono necessari all'esecuzione dell'appalto.
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Nelle gare d'appalto, l'art. 38 D.L.vo 12.04.2006, n. 163, nella parte in cui elenca i soggetti tenuti ad effettuare le dichiarazioni di sussistenza dei requisiti morali e professionali ha come destinatari dell'obbligo non soltanto coloro che rivestono formalmente le cariche di amministratori, ma anche coloro che, in qualità di procuratore ad negotia, abbiano poteri di rappresentanza dell'impresa e possono compiere atti decisionali (c.d. amministratori di fatto), con l'avvertenza che qualora la lex specialis non contenga al riguardo una specifica comminatoria di esclusione, quest'ultima può essere disposta non già per la mera omessa dichiarazione, ma solo quando sia effettivamente riscontrabile l'assenza del requisito in questione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.03.2014 n. 1327 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI FORNITURE SERVIZI: La Pa può recedere se il servizio è «caro». Spending review. La gestione dei contratti alla luce del Dl 95/2012.
Prime applicazioni della spending review nei contratti della pubblica amministrazione (articolo 1, comma 13, Dl 95/2012).
Un servizio prestato al ministero per i Beni culturali, con oneri economici superiori a quelli previsti dalla Consip (centrale acquisti) è giunto nelle aule del Consiglio di Stato, che nella sentenza 17.03.2014 n. 1312 fornisce una serie di indicazioni. Da gennaio 2013, infatti, forniture e servizi vedono la Pa autorizzata sostituire in corsa l'impresa aggiudicataria, anche se il contratto è già stato stipulato e l'erogazione è in corso: basta che vi siano condizioni economiche più vantaggiose per l'ente pubblico.
I parametri di convenienza sono offerti dalle convenzioni Consip: se nel corso dell'esecuzione della fornitura o del servizio il corrispettivo supera i parametri della Centrale acquisti, l'ente pubblico si deve attivare per cambiare il contratto. Spetta poi all'aggiudicataria valutare se accettare le nuove condizioni economiche o subire il recesso. L'impresa ha 15 giorni di tempo per decidere, potendo scegliere se accettare il recesso (con indennizzo pari a un decimo dell'utile sulle prestazioni non ancora eseguite) oppure abbassare il prezzo del servizio o della fornitura ai parametri Consip.
Il meccanismo previsto dall'articolo 1, comma 13, del Dl 95/2012, secondo la sentenza del Consiglio di Stato, colloca sullo stesso piano le pubbliche amministrazioni e i privati, in un rapporto di tipo civilistico in cui l'amministrazione non si svincola affermando esigenze di interesse pubblico, ma esercita quel diritto di recesso che ogni privato può utilizzare quando lo ritenga opportuno, a norma dell'articolo 1671 del Codice civile.
La norma del Codice civile impone che l'esecutore sia tenuto indenne dalle spese sostenute, dai lavori eseguiti e del mancato guadagno; in precedenti regimi, il contenzioso amministrativo rendeva possibili (Consiglio di Stato 662/2012) richieste di maggior calibro, come il 2% del valore dell'appalto o il danno curriculare (perdita di qualificazione). Se oggi l'amministrazione si può comportare come un privato, il giudice competente non è più quello amministrativo, bensì quello dei privati, e cioè il tribunale ordinario.
Ciò genera un notevole snellimento delle liti perché dinanzi al giudice amministrativo si discuteva ad ampio spettro, ad esempio verificando motivi di interesse pubblico che potevano fondare la scelta dell'importo da pagare: ad esempio, dietro un particolare costo economico della fornitura, vi poteva essere un vantaggio all'indotto, o una particolare qualità del servizio, oppure un'esigenza di incentivo.
Tutto ciò poteva essere fatto valere sotto forma di difetto di motivazione del recesso, innescando un contenzioso in cui l'importo economico regrediva ad elemento secondario, per di più cristallizzato con riferimento all'epoca della gara. Ora che Consip redige parametri di costo per categorie omogenee, basta uno scostamento da tali parametri per obbligare la Pa (se si tratta di acquisto di beni, per i servizi è invece una facoltà) a recedere dal contratto, se il fornitore non accetta i parametri Consip.
Nel caso specifico esaminato dalla sentenza 17.03.2014 n. 1312 del Consiglio di Stato, Sez. VI, si discuteva di un servizio di gestione della sicurezza sui luoghi di lavoro, prestazioni che Consip offriva, attivando economie di scala, con un contenimento di spesa di 5 milioni in tre anni. Oggi basta questo risparmio per innescare il meccanismo di recesso, offrendo al contraente l'alternativa tra adeguarsi ai costi Consip o abbandonare il servizio (o la fornitura) ottenendo il pagamento di un decimo degli utili futuri. Non conta più aver vinto una gara contro altri agguerriti concorrenti: basta il sopravvenire di più vantaggiosi parametri Consip per consentire a un soggetto pubblico di sostituire il prestatore di servizi
 (articolo Il Sole 24 Ore del 23.03.2014).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Sulla ratio dell'art. 1, c. 13, del d.l. n. 95/2012, che consente alle stazioni appaltanti il recesso unilaterale dai contratti di fornitura o di servizi per ragioni di riduzione della spesa.
L'art. 1, c. 13, del d.l. 06.07.2012, n. 95, conv. dalla l. 07.08.2012, n. 135, attribuisce alle amministrazioni pubbliche, "che abbiano validamente stipulato un autonomo contratto di fornitura o di servizi […] il diritto di recedere in qualsiasi tempo dal contratto, previa formale comunicazione all'appaltatore, con preavviso non inferiore a quindici giorni e previo pagamento delle prestazioni già eseguite, oltre al decimo delle prestazioni non ancora eseguite"; quanto sopra, quando "i parametri delle convenzioni stipulate da Consip s.p.a., ai sensi dell'art. 26, c. 1, della l. 23.12.1999, n. 488, successivamente alla stipula del predetto contratto, siano migliorativi rispetto a quelli del contratto stipulato e l'appaltatore non acconsenta ad una modifica delle condizioni economiche, tale da rispettare il limite, di cui all'art. 26, c. 3, della l. 23.12.1999, n. 488".
Nella medesima disposizione è anche precisato che il diritto di recesso di cui trattasi "si inserisce automaticamente nei contratti in corso, ai sensi dell'art. 1339 del Cod. civ.". L'art. 1, c. 13, del d.l. n. 95/2012 cit. non attribuisce una potestà, che consenta all'Amministrazione -già parte di un rapporto contrattuale a regolazione civilistica- di intervenire ab extra sul rapporto stesso in forma e modalità autoritativa, in modo tale da svincolarsi dagli obblighi contrattuali assunti per affermate esigenze di interesse pubblico.
Non confermano tale indirizzo, infatti, né il testo, né la ratio della norma in esame: il primo, in quanto assegna in modo esplicito all'Amministrazione un "diritto" di recesso e la seconda (coincidente con la possibilità di ottenere prestazioni "migliorative", in base ai parametri delle convenzioni stipulate da Consip), poiché detta finalità viene perseguita con una fattispecie di recesso unilaterale del contratto, che costituisce mera specificazione di quanto comunque consentito al committente, nell'ambito dei contratti di appalto, a norma dell'art. 1671 Cod. civ..
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Dalla norma ricognitiva del diritto in questione (lex specialis rispetto al citato art. 1671 Cod. civ.), sono assicurate le finalità di interesse pubblico al perseguimento di economie di scala ed alla omogeneità dei costi delle forniture e dei servizi, commissionati da pubbliche amministrazioni tramite un centro specializzato per i loro approvvigionamenti con inerente contrattazione centralizzata, in capo a una figura, organizzativa (oggi la Consip s.p.a.) istituita per un tale scopo.
Una volta formalizzate le convenzioni, che dovrebbero assicurare detti parametri di maggiore convenienza, ogni altra forma di contrattazione è dichiarata nulla (art. 1, c. 1, d.l. n. 95 del 2012) e solo in via transitoria -per i contratti stipulati prima della data di entrata in vigore del ricordato d.l. n. 95 del 2012 (conv. dalla l. 07.08.2012, n. 135)- si attribuisce appunto al contraente pubblico il diritto di recesso in questione, con successiva adesione alla convenzione Consip, ove l'appaltatore non acconsenta a modificare in senso conforme le condizioni contrattuali (con pagamento comunque, in caso di non adesione di detto appaltatore, delle prestazioni già eseguite e di un decimo di quelle da eseguire: art. 1 cit., comma 13).
Costituisce, pertanto, esercizio di un potere a carattere contrattuale dell'Amministrazione -in forza di una clausola contrattuale inserita ex lege, a norma dell'art. 1339 Cod. civ.- e non espressione di una potestà pubblica, che sarebbe in sé estrinseca al sinallagma contrattuale, l'esercizio del diritto di recesso, che la legge riconosce nella situazione anzidetta.
Ne consegue che, nel caso di specie, l'appello deve essere dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione, ai sensi e per gli effetti dell'art. 11 del Codice del processo amministrativo, con declaratoria della cognizione del giudice ordinario sulla questione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 17.03.2014 n. 1312 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sulle varianti progettuali migliorative nell'appalto integrato.
Con specifico riferimento all'appalto integrato le "varianti progettuali migliorative", qualora ammesse dalla legge di gara, pur incidendo normalmente su aspetti in grado di incidere in maniera rilevante e consistente sulla qualità dell'opera (sul piano strutturale, prestazionale e funzionale), non devono tuttavia alterare l'essenza strutturale e prestazionale, così come fissate dal progetto definitivo, onde non ledere lo stesso interesse della stazione appaltante al conseguimento delle funzionalità perseguite (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 15.03.2014 n. 218 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sull'applicabilità anche alle concessioni di servizi della disciplina ex art. 84, c.10, dlgs. 163/2006.
L'art. 84, c. 10, del d.lgs. n. 163 del 2006 dispone che "la nomina dei commissari e la costituzione della commissione devono avvenire dopo la scadenza del termine fissato per la presentazione delle offerte".
L'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con decisione n. 13 del 2013, ha affermato che, in sede di affidamento di una concessione di servizi con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, sono applicabili, tra l'altro, le disposizioni di cui al citato art. 84, c. 10, in quanto espressive dei principi di trasparenza e di parità di trattamento, richiamati dall'art. 30, c. 3, del medesimo decreto legislativo.
Nel caso di specie, riguardante una procedura di gara, con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, per l’affidamento del servizio di somministrazione di alimenti e bevande tramite distributori automatici, l'atto di appello non contesta, in punto di fatto, il momento temporale di nomina della commissione ma si è limitato ad affermare che il citato art. 84, c. 10, non può trovare applicazione.
Pertanto, una volta ritenuto, alla luce dell'orientamento interpretativo espresso dall'Adunanza plenaria, che tale norma trova, invece, applicazione, ne discende l'infondatezza dell'appello (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 14.03.2014 n. 1296 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATAEdifici vincolati, dialogo Pa-privati. Tar Toscana. Serve il contradditorio.
Maggiore collaborazione tra privato e Pa quando occorre recuperare immobili vincolati: questo è l'auspicio del Tar di Firenze, decidendo le sorti di un ex cinema destinato a profumeria.
La vicenda riguarda una delle più belle vie di Lucca (il cosiddetto Fillungo) e, lungo tale direttrice, uno dei locali più rappresentativi (un ex cinema teatro), le cui sorti sono state affidate alla sentenza 12.03.2014 n. 487 del TAR Toscana, Sez. III.
In particolare, recuperando i locali, si era previsto l'inserimento di un ascensore interno, un breve camminamento orizzontale "a sbalzo" in acciaio e una serie di strutture leggere metalliche a gradini. Ciò, secondo la Soprintendenza beni architettonici di Lucca e Massa Carrara, avrebbe prodotto un totale stravolgimento dell'ex cinema teatro, aggravato da un parziale mutamento di destinazione. Per i proprietari, la situazione era meno problematica di quanto apparisse alla Soprintendenza, in quanto il cambio di destinazione riguardava solo platea e galleria dell'ex cinema, mentre già dal 1948 la struttura teatrale e i suoi apparati erano stati abbattuti.
Ora il Tar media tra le posizioni, con un orientamento che si presta ad applicazioni generali: si afferma infatti che l'intervento della Soprintendenza (articoli 21 e 22 del Dlgs 42 del 2004 codice Urbani), può (e deve), contemperare gli interessi pubblici con quelli privati, tendendo alla bilanciata soddisfazione sia delle esigenze di tutela di detti beni, sia dell'interesse del privato proprietario.
Questo equilibrio impone un contraddittorio procedimentale, senza generici dinieghi. Ciò perché entrambi i valori in campo (tutela dei beni storici e della proprietà privata) sono assistiti da garanzia costituzionale. Il secondo comma dell'articolo 9 della Carta contempla il primo di essi, il secondo comma dell'articolo 42 della stessa contempla il secondo, prevedendo che la legge possa porre limiti alle facoltà del proprietario, assicurando la funzione sociale di ciò che è privato.
In questo quadro, i provvedimenti con cui l'amministrazione esercita il potere-dovere di garantire la conservazione dei beni storico-culturali, non hanno necessariamente un contenuto vincolato e limitativo, ma attraverso valutazioni ampiamente discrezionali sulla compatibilità dell'intervento edilizio progettato rispetto alla natura del bene tutelato devono consentire al privato proprietario un'utilizzazione economica.
Di qui la necessità del contraddittorio procedimentale, in rapporto alla discrezionalità valutativa attribuita all'amministrazione che decide, dal momento che in una sorta di colloquio con il privato l'amministrazione può vagliare con attenzione le ragioni addotte dall'istante e di evidenziare o specificare gli elementi di fatto e di diritto che possano condurre a una valutazione sfavorevole dell'istanza.
La sentenza conclude quindi in senso sfavorevole alla Soprintendenza, annullando il diniego alla modifica dei locali, ma lascia all'amministrazione la possibilità di adottare ulteriori legittimi e motivati provvedimenti. Ciò pone in condizione il privato di far presenti gli elementi a favore della ristrutturazione, concordandone la portata
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA L'abuso edilizio in centro non sempre va demolito. L'ente può irrogare sanzioni pecuniarie e deve comunque motivare le scelta. Consiglio di Stato. Intervento in zona storica («A») qualificato come ristrutturazione.
Abusi edilizi non sempre demoliti nei centri storici: lo afferma il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 10.03.2014 n. 1084 relativa a un intervento a Roma.
Il problema è particolarmente sentito in quanto fino ad oggi si è considerata la "riduzione in pristino" (cioè la demolizione dell'abuso) come strumento normale per «riportare lo stato di fatto a quanto previsto per lo sviluppo edilizio del territorio» (Consiglio di Stato, n. 1793 del 27.03.2012), tanto più che gli interventi nei i centri storici (zone «A» dei piani urbanistici), sono soggetti al severo parere della Soprintendenza.
Di qui l'importanza del caso deciso, che riguarda il mutamento di destinazione d'uso e l'accorpamento di locali interrati, l'ampliamento di tre bocche di lupo, una nuova finestra e una nuova scala di un ristorante. Questi interventi innanzi tutto sono stati qualificati come «ristrutturazione edilizia» e non valutati come interventi singoli. Questa qualificazione rende più grave la sanzione, perché in caso di ristrutturazione con trasformazione dell'organismo edilizio è irrogabile la sanzione demolitoria (che invece per gli abusi singoli minori si può evitare).
Secondo il giudice amministrativo, l'insieme delle opere descritte comporta una ristrutturazione in quanto le opere, anche se realizzate singolarmente, sono tali da correlarsi in un palese effetto di pur parziale trasformazione dell'organismo edilizio preesistente. L'autore dell'abuso correrrebbe quindi il rischio di una riduzione in pristino. Invece, a suo favore, il Consiglio di Stato ipotizza una via di uscita di carattere generale: si afferma infatti che è sempre necessario scegliere tra sanzione demolitoria e quella pecuniaria, anche se la demolizione è usuale.
Per giungere a questa conclusione, il Consiglio di Stato richiama l'articolo 33, comma 4, del testo unico sull'edilizia 380/2001, secondo cui l'ufficio richiede all'amministrazione competente alla tutela dei beni culturali e ambientali apposito parere vincolante circa la restituzione in pristino o la irrogazione della sanzione pecuniaria di cui al precedente comma. Se il parere non viene reso entro 90 giorni dalla richiesta «...qualora le opere siano state eseguite su immobili, anche se non vincolati, compresi nelle zone omogenee A, di cui al decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, il dirigente o il responsabile provvede autonomamente».
Esiste quindi una certa elasticità e quindi il legislatore ha ritenuto che in ordine alla sanzione va prioritariamente effettuata una scelta tra la restituzione in pristino e il pagamento di una sanzione pecuniaria (mantenendo i luoghi modificati dall'abuso). Anche quando la Soprintendenza non si pronuncia, quindi, il Comune può procedere, ma l'espressione «autonomamente», riferita alla scelta del Comune, presuppone che l'ente locale possa effettuare una scelta simile a quella che spetta (entro 30 giorni) alla Soprintendenza. Chi compie un abuso, quindi, ha sempre diritto a una scelta motivata, che a sua volta può graduarsi in funzione del peso dell'abuso rispetto alla situazione da tutelare.
Si aggiunge quindi un altro tassello al rapporto tra amministrazione che gestisce il territorio (Comune) e Soprintendenza, accentuando l'onere di motivazione quando il soggetto pubblico decide di demolire. Ad esempio, il privato potrebbe proporre opere di mitigazione (come in materia paesaggistica: Tar Brescia 317/2008), sfuggendo così a una sanzione demolitoria, di recente nella sua severità giunta anche all'attenzione (senza esito) della Corte di giustizia comunitaria (06.03.2013 in causa C-206/13), su una demolizione che il Tar Palermo riteneva eccessivamente punitiva.
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La giurisprudenza
01|LA MESSA IN PRISTINO
L'esistenza di un vincolo su un immobile, che risulti di pregio specifico, può far ritenere la riduzione in pristino come la misura principale da adottare laddove alla sanzione pecuniaria l'Amministrazione può ricorrere, previa adeguata e specifica motivazione, solo in via sussidiaria, quando il ripristino non possa avvenire senza pregiudizio della parte conforme - Consiglio di Stato, 27.03.2012 n. 1793
02|LA SANZIONE PECUNIARIA
Considerato dunque che la restituzione in pristino costituisce lo strumento normale per «riportare lo stato di fatto al paradigma legittimamente delineato per lo sviluppo edilizio del territorio», nella specie si deve ritenere, secondo la ratio propria della norma, che nel provvedimento sanzionatorio debba risultare comunque valutata l'ipotesi del ricorso alla sanzione pecuniaria, in assenza del relativo parere dell'organo preposto alla tutela dei beni culturali e ambientali - Consiglio di Stato 10.03.2014 n. 1084
03|FASCIA DI RISPETTO
Si ritiene che il ricorso meriti accoglimento in via parziale, limitatamente alla necessità che la demolizione quale ordinata con i gravati provvedimenti venga circoscritta alla porzione di fabbricato rientrante nella fascia di rispetto dei 5 metri - Tar Valle Aosta 53/2003
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.03.2014).

INCARICHI PROFESSIONALIAvvocati lenti a bocca asciutta. Niente onorari a chi chiede continui rinvii dell'udienza. CASSAZIONE/ Il legale paga in prima persona se il cliente ha subito dei danni.
L'avvocato che chiede continui rinvii delle udienze danneggiando gli interessi del cliente perde il diritto all'onorario.

Lo ha stabilito la III Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 07.03.2014 n. 5410.
I giudici di Piazza Cavour si sono espressi su un caso che vedeva un soggetto privato della possibilità di vendere alcuni locali di sua proprietà alla ditta che li occupava, nonostante la parte conduttrice avesse iniziato dei lavori di adeguamento: dapprima per la richiesta di compenso per una prestazione svolta da un altro professionista, poi per le continue domande di slittamento delle udienze ed altre varie lungaggini imputabili all'avvocato al quale si era rivolto, il quale aveva un atteggiamento ingiustificatamente attendista.
È noto che a carico del professionista legale vi sono una serie di obblighi informativi, essendo costui tenuto, nel rispetto del principio di trasparenza, a rendere noto al cliente il livello della complessità dell'incarico e degli oneri conseguentemente ipotizzabili, dal momento del conferimento alla conclusione dell'incarico. L'avvocato, pertanto, sarà chiamato a effettuare una valutazione ex ante dell'impegno che richiederà lo svolgimento della prestazione e degli oneri ipotizzabili, comunicando il tutto al suo assistito e cercando anche nel concreto di non perdersi in lungaggini.
Secondo il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati, nel caso di specie si trattava solo di «qualche lieve leggerezza» che poteva essere imputabile all'avvocato, escludendo una negligenza consapevole, «essendo del tutto notorio che tali rinvii sono sempre fisiologici e dovuti alle enormi pendenze giudiziarie che non consentono le trattazioni dei processi in corso di una o al più di due udienze».
Secondo il soggetto danneggiato però, anche una negligenza inconsapevole è grave e dannosa per il cliente, pertanto si rivolge ai supremi giudici che gli danno ragione (articolo ItaliaOggi Sette del 17.03.2014).

APPALTI: La stazione appaltante che opera nei settori speciali, seppur non vincolata all'applicazione delle norme non espressamente indicate dall'art. 206 del D.Lgs. n. 163/2006, deve conformare la disciplina di gara ai principi fondamentali in materia di appalti.
La stazione appaltante che opera nei settori speciali, seppur non vincolata all'applicazione delle norme non espressamente indicate dall'art. 206 del D.Lgs. n. 163 del 2006, deve tuttavia conformare la disciplina di gara, nell'esercizio della facoltà discrezionale alla stessa riconosciuta, coerentemente con i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, in modo da dettare una disciplina congrua con l'oggetto della gara e con le relative caratteristiche, non potendo la mera riconducibilità dell'oggetto ai settori esclusi giustificare l'applicazione della disciplina derogatoria a discapito degli ulteriori principi, immanenti in materia di appalti, del favor partecipationis, di non discriminazione, della concorrenza e della economicità, quest'ultimo costituente articolazione del principio generalissimo di buon andamento, non essendo la scelta del contraente finalizzata all'esclusivo interesse dell'Amministrazione, ma volta anche alla tutela degli interessi degli operatori a poter concorrere per il mercato e a potervi accedere.
L'art. 27 del D.Lgs. n. 163 del 2006 delinea, infatti, attraverso l'indicazione dei principi fondamentali, la disciplina generale degli appalti pubblici, che costituisce parametro di legittimità delle relative procedure, anche con riferimento ai settori speciali, in relazione ai quali occorre comunque verificare se ricorra lo scopo di tutela sotteso alla disciplina speciale e se la riconosciuta non applicabilità di determinate disposizioni del Codice sia coerente e compatibile con l'interesse sotteso alla gara.
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L'art. 206 del D.Lgs. n. 163 del 2006 presenta, in tema di cauzioni, un 'vuoto normativo' nell'escludere dalle disposizioni applicabili ai settori speciali l'art. 75 del D.Lgs. n. 163 del 2006, conseguentemente potendo le gare in tali settori anche prescindere del tutto dalla necessità della cauzione a garanzia dell'offerta.
Ne discende che essendo rimessa alla lex specialis di ogni singolo appalto la predisposizione della normativa al riguardo, tale facoltà deve essere esercitata nel rispetto del nesso di necessarietà della deroga rispetto all'oggetto dell'appalto e del principio di proporzionalità, da coniugarsi con il perseguimento della tutela della concorrenza e del principio di massima partecipazione, dovendo la stazione appaltante stabilire le modalità di prestazione della cauzione ed il relativo ammontare in modo coerente con la natura e l'oggetto dell'appalto, dovendo garantire ai partecipanti analoghe -rispetto a quelle dei settori classici- condizioni di accesso alla gara laddove la stessa non abbia quel carattere di specificità che ne giustifica la deroga alla disciplina generale.
Se, quindi, l'art. 75 cit. non trova applicazione nei settori esclusi e la stazione appaltante è libera di determinarsi in merito, potendo addirittura escludere del tutto legittimamente che venga prestata una cauzione, la stessa stazione appaltante, nella determinazione della lex specialis, deve orientare l'esercizio del proprio potere discrezionale in senso coerente con i principi che presiedono alle gare, la cui razionalità intrinseca è soggetta al sindacato di legittimità (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 05.03.2014 n. 2550 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Committente pubblico con solidarietà limitata. Appalti. Nessuna corresponsabilità sugli adempimenti previdenziali.
Il Dl 76/03, come ha ricordato una recente sentenza 05.03.2014 n. 1033 della Corte d'appello di Milano (si legga anche il Sole 24 Ore di ieri), ha previsto che le norme della legge Biagi non si applicano ai contratti d'appalto stipulati dalle pubbliche amministrazioni.
Tale esclusione comporta significative differenze con riferimento al regime di responsabilità solidale applicabile se il committente è privato o pubblico.
Per i contratti di appalto stipulati da un committente privato, la legge prevede la responsabilità solidale del committente per i crediti di lavoro dei dipendenti impiegati nell'appalto, maturati dall'impresa appaltatrice (e dalle eventuali subappaltatrici) in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, entro il limite di due anni dalla cessazione di quest'ultimo; tale solidarietà comprende i trattamenti retributivi (comprese le quote di Tfr), nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi.
Il regime solidaristico è derogabile ad opera della contrattazione collettiva, ma soltanto per i trattamenti retributivi; la deroga è, infatti, esclusa con riferimento ai contributi previdenziali e assicurativi.
Il quadro della responsabilità solidale è completato dalla previsione di cui all'articolo 35, comma 28, della legge 248/2006 che disciplina l'ambito fiscale, coobbligando in solido l'appaltatore e il subappaltatore, nel limite del corrispettivo dovuto, per le ritenute sui redditi da lavoro dipendente dovute da quest'ultimo.
Il committente non è responsabile in solido ma soggiace a sanzioni amministrative per una sorta di culpa in vigilando; dal regime solidaristico è escluso il versamento dell'Iva a carico del subappaltatore e dell'appaltatore.
Il quadro normativo muta qualora il committente dell'appalto sia una Pubblica amministrazione; in questo caso, infatti, con l'introduzione del del Dl 76/2013 l'unica forma di solidarietà sussistente tra committente e appaltatore è quella contenuta nell'articolo 1676 del codice civile, la quale soffre di significative limitazioni rispetto a quella contenuta nella legge Biagi, in quanto non solo l'oggetto è circoscritto esclusivamente al trattamento economico dovuto dall'appaltatore ai propri dipendenti, con conseguente esclusione degli adempimenti previdenziali, ma la quantificazione del debito solidale si riferisce solo alla somma ancora dovuta dal committente all'appaltatore al momento della domanda dei lavoratori.
Con riferimento, invece, al regime di solidarietà applicabile all'appaltatore e al subappaltatore di un appalto pubblico, l'articolo 118 del Dl 163/2006 sancisce la responsabilità solidale dell'affidatario in merito all'osservanza del trattamento economico e normativo stabilito dai contratti collettivi da parte dei subappaltatori nei confronti dei loro dipendenti per le prestazioni rese nell'ambito del subappalto
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIPer il pubblico solidarietà nelle gare fino a luglio 2013. L'obbligo è venuto meno solo con l'arrivo del Dl 76/2013. Appalti. La Corte d'appello di Milano sulla responsabilità per i crediti dei lavoratori.
Il regime della responsabilità solidale negli appalti previsto dalla legge Biagi (articolo 29, comma 2, decreto legislativo 276/03) si applica anche nelle ipotesi in cui il committente dell'appalto di servizi sia un ente pubblico, quanto meno per i periodi antecedenti l'approvazione del Dl 76/2013.
Lo ha stabilito la Corte d'appello di Milano, con sentenza 05.03.2014 n. 1033, con la quale ha respinto l'appello dell'Inpdap (oggi Inps), committente nell'ambito di un appalto di servizi, condannata in primo grado al pagamento delle differenze retributive e del Tfr dei dipendenti dell'appaltatore, in solido con quest'ultimo.
L'Istituto appellante lamentava l'erroneità della decisione del Tribunale di Milano per non avere quest'ultimo interpretato correttamente l'articolo 1 del Dlgs 276/2003, che esclude l'applicabilità del decreto legislativo alle pubbliche amministrazioni e al suo personale.
La Corte d'appello di Milano ha respinto questo argomento, sostenendo che l'articolo 29, comma 2, del Dlgs 276/03, disciplina un regime unitario di responsabilità solidale tra appaltatore e committente, senza operare alcuna distinzione tra committente pubblico e committente privato, né tra contratto pubblico di appalto di servizi e contratto di appalto di diritto comune.
Secondo la Corte, la norma invocata dall'ente pubblico (articolo 1, comma 2, Dlgs 276/2003) si limita ad escludere l'appplicabilità della riforma Biagi ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle Pa; il legislatore delegato, quindi, con tale norma si è limitato ad escludere l'applicazione della riforma al personale delle Pa.
La norma, aggiunge la sentenza, esclude dal campo di applicazione del Dlgs 276/2003 le pubbliche amministrazioni solo quando operano come datori di lavoro; nessuna esclusione, invece, viene sancita per l'attività contrattuale degli operatori, che sono considerati come tutti gli altri agenti contrattuali.
In virtù di tali considerazioni, la Corte conclude per la sussistenza della responsabilità solidale anche per l'ente pubblico che ha stipulato un appalto di servizi.
La Corte esclude, inoltre, la possibilità di applicare al caso sottoposto al suo esame la riforma legislativa contenuta nell'articolo 9 del Dl 76/1913. Questa norma, dopo avere esteso il regime di solidarietà di cui all'articolo 29 anche ai trattamenti retributivi dei lavoratori autonomi, esclude l'applicabilità di tale regime ai contratti di appalto stipulati dalle Pa.
Per la Corte di Milano, tuttavia, tale chiarimento non ha natura interpretativa, posto che la stessa non si esprime in termini di chiarificazione di una precedente statuizione legislativa, e quindi è destinato a valere solo per i rapporti contrattuali instaurati o comunque proseguiti dopo la sua entrata in vigore, mentre non ha alcun impatto per i rapporti iniziati e conclusi prima
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.03.2014).

EDILIZIA PRIVATAE' legittimo il diniego all'installazione di tre impianti pubblicitari da posizionare su un terreno di proprietà laddove “l’impianto di cui all’istanza ricade in area, classificata nel vigente Piano di Governo del Territorio ad ambito agricolo e, di conseguenza, non è ammissibile autorizzazione in base alle disposizioni di cui agli artt. 51 e 52 delle norme di attuazione dello stesso Piano di Governo del Territorio”.
D’altronde, va detto per completezza che anche gli artt. 59 e ss. della L.r. n. 12/2005, espressamente richiamati dal comma 12 dell’art. 51 delle citate norme di attuazione, considerano ammissibili, negli ambiti agricoli, solo le opere realizzate in funzione della conduzione del fondo e destinate alle residenze dell'imprenditore agricolo e dei dipendenti dell'azienda, nonché alle attrezzature e infrastrutture produttive necessarie per lo svolgimento delle attività di cui all’articolo 2135 del codice civile quali stalle, silos, serre, magazzini, locali per la lavorazione e la conservazione e vendita dei prodotti agricoli.

Con ricorso depositato in data 31.05.2013 il sig. G.D’A., in qualità di rappresentante legale della ditta Roflex, chiedeva l’annullamento dei provvedimenti di cui in epigrafe.
Nello specifico, premetteva di avere richiesto al comune convenuto l’autorizzazione all’installazione di tre impianti pubblicitari da posizionare su un terreno di proprietà della predetta Roflex e di avere ricevuto un diniego alle proprie istanze sulla base della seguente motivazione: “l’impianto di cui all’istanza ricade in area, classificata nel vigente Piano di Governo del Territorio ad ambito agricolo e, di conseguenza, non è ammissibile autorizzazione in base alle disposizioni di cui agli artt. 51 e 52 delle norme di attuazione dello stesso Piano di Governo del Territorio”.
Il ricorrente deduceva l’illegittimità del provvedimento impugnato per difetto di motivazione e falsa applicazione degli artt. 51 e 52 sopra citati. L’amministrazione si costituiva, eccependo preliminarmente l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse, e la causa passava in decisione alla pubblica udienza del 12.02.2014.
Il ricorso è manifestamente infondato, in relazione a quanto espressamente disposto dalle norme richiamate dall’amministrazione a sostegno del proprio provvedimento di diniego, norme che peraltro non sono state impugnate dal ricorrente.
Gli artt. 51 e 52 delle NTA del Piano di Governo del Territorio del comune di Nerviano impongono, infatti, una destinazione principale (agricoltura) e una destinazione integrativa (servizi pubblici), che appaiono incompatibili con l’installazione di impianti pubblicitari e, inoltre, consentono un’edificazione -cui può senz’altro ritenersi assimilabile anche il tipo di attività perseguita dal ricorrente– strettamente legato all’attività agricola, o comunque “finalizzato alla salvaguardia e alla valorizzazione del paesaggio agro-forestale”.
D’altronde, va detto per completezza che anche gli artt. 59 e ss. della L.r. n. 12/2005, espressamente richiamati dal comma 12 dell’art. 51 delle citate norme di attuazione, considerano ammissibili, negli ambiti agricoli, solo le opere realizzate in funzione della conduzione del fondo e destinate alle residenze dell'imprenditore agricolo e dei dipendenti dell'azienda, nonché alle attrezzature e infrastrutture produttive necessarie per lo svolgimento delle attività di cui all’articolo 2135 del codice civile quali stalle, silos, serre, magazzini, locali per la lavorazione e la conservazione e vendita dei prodotti agricoli.
Il provvedimento dell’amministrazione resistente è dunque legittimo, in relazione alla normativa in esso richiamata, e congruamente, seppur sinteticamente, motivato, trovando la sua espressa ragion d’essere in una strutturale incompatibilità tra attività richiesta e destinazione dei fondi (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 28.02.2014 n. 575 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

SICUREZZA LAVOROSicurezza, non è responsabile il dirigente senza fondi. Organizzazione. Assolto chi ricopre la posizione di vertice solo formalmente.
Non è da considerare automaticamente responsabile per la mancata adozione di misure di sicurezza colui cui sia attribuita, solo formalmente, la posizione di vertice della sicurezza. Ai fini della responsabilità per quelle omissioni non va trascurato, infatti, se alla posizione apicale corrisponda o meno anche una effettiva disponibilità di risorse finanziarie.
Questo il principio espresso dalla sentenza 11.02.2014 n. 6370 della Corte di Cassazione, Sez. III penale (tratto da www.ilsole24ore.com).
Il caso riguarda due dirigenti comunali, responsabili in tempi diversi del settore manutenzione anche di edifici scolastici e condannati per aver omesso di sistemare impianti elettrici e altre parti di una scuola. Nella sentenza di merito, in particolare, si sostiene che la successione nella carica non esclude la responsabilità di entrambi, che il primo dirigente, incaricato più a lungo nel ruolo, avrebbe dovuto chiudere la scuola dato l'evidente rischio per gli alunni, e che il secondo, pur nominato per breve tempo, non ha adempiuto in tempo alle prescrizioni degli ispettori. I due ricorrono per Cassazione, sostenendo, tra l'altro, che la responsabilità riguardasse solo il datore di lavoro del periodo in questione e che la ritardata osservanza delle prescrizioni ispettive fosse colpa di altri organi comunali.
Per la Cassazione, i giudici di merito non hanno tenuto presente l'obiezione, mossa dal secondo dirigente, per cui la qualifica di datore di lavoro per la sicurezza era attribuita, nel periodo delle inosservanze, ad altra persona; né hanno considerato che il primo dirigente non aveva appreso le prescrizioni di regolarizzazione, perché non più responsabile, al tempo dell'ispezione, del settore.
La pronuncia di merito ha poi un errore ancora più grave: non valuta che i due dirigenti non avevano poteri di spesa e, di conseguenza, ha trascurato se, all'attribuzione formale di datore di lavoro, corrispondesse o no un'effettiva disponibilità di risorse finanziarie nell'ambito del piano economico di gestione. La Cassazione, pertanto, annulla senza rinvio la decisione di merito perché il fatto contestato non è ascrivibile agli imputati.
La Cassazione puntualizza così l'interpretazione della nozione di datore di lavoro pubblico per la sicurezza (articolo 2, comma 1, lettera b, del Dlgs 81/2008), ribadendo che il titolare di ruolo debba essere dotato di poteri di spesa. La pronuncia è significativa anche per le imprese, confermando la giurisprudenza per cui il responsabile del servizio manutenzione e quello di reparto non sono datori di lavoro se sono privi di poteri di spesa.
Infine, su un piano operativo e organizzativo, la sentenza induce a verificare la struttura per la sicurezza di medie imprese, società e Comuni, verificando che i formali datori di lavoro per la sicurezza siano effettivamente dotati dei poteri previsti per essi dalla legge
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI SERVIZI: Contratti di appalto di servizi - Violazione degli obblighi assunti - Inadempimento di un contratto con la Pubblica Amministrazione - Frode nelle pubbliche forniture - Elementi per la configurabilità - Natura - Giurisprudenza.
Ai fini della configurabilità del delitto di frode nelle pubbliche forniture non è sufficiente il semplice inadempimento del contratto, richiedendo la norma incriminatrice un "quid pluris" che va individuato nella malafede contrattuale, ossia nella presenza di un espediente malizioso o di un inganno, tali da far apparire l'esecuzione del contratto conforme agli obblighi assunti (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 36567 del 09/05/2001; Sez. 6, Sentenza n. 11144 del 25/02/2010; Sez. 6, Sentenza n. 5317 del 10/01/2011).
Quanto all'elemento soggettivo, esso è costituito dalla consapevolezza di effettuare una prestazione diversa per quantità e qualità da quella dovuta, a meno che vengano scoperti ed allegati ulteriori elementi che attribuiscano all'oggettivo inadempimento una valenza colposa (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 34952 del 23/05/2003). La giurisprudenza non è, invece, univoca nella affermare se si tratti di reato di evento, ritenendo tale anche il mero pericolo, (Cass. Sentenza n. 16428 del 05/12/2007) ovvero di pura condotta: in tale secondo caso, non è ipotizzabile in relazione ad esso una responsabilità da causalità omissiva (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 771 del 31/10/2006).
Inadempimento di un contratto e frode nelle pubbliche forniture - Natura civile e penale dell'inadempimento - Elementi per la configurabilità.
Nella accezione civilistica del termine per inadempimento contrattuale si intende la mancata esecuzione della prestazione da cui dipende la realizzazione del diritto del creditore. La prestazione potrà dirsi esattamente eseguita in quanto realizzata in conformità del contenuto dell'obbligazione descritta nel contratto ed il diritto del creditore sia integralmente e tempestivamente soddisfatto.
In generale, l'inadempimento può essere anche parziale, allorquando la prestazione venga resa in modo difforme da come dovuto e con realizzazione di una frazione più o meno limitata dell'interesse del creditore. In tal caso occorrerà valutare l'importanza dell'inadempimento in relazione all'incidenza che abbia avuto sul piano della realizzazione dello jus credendi ed andrà quindi esclusa la rilevanza penale di quelle condotte che, quantunque integrative di una inesatta prestazione contrattuale, abbiano però consentito al committente una pur imperfetta, ma sostanziale soddisfazione del bisogno cui è finalizzato l'obbligo di fare del contratto di fornitura.
Di sicuro, poi, l'inadempimento rilevante è solo quello privo di giustificazioni. Lo stesso deve, invece, escludersi quando la prestazione del privato sia divenuta impossibile per caso fortuito o forza maggiore, ovvero per altra causa non imputabile al debitore, secondo la formula dell'ad 1256 cc. (Cass. Sentenza n. 1174 del 17/11/1998). D'altra parte, la fattispecie penalistica, attraverso il richiamo che l'art. 356 cp. fa al precedente articolo 355, descrive l'inadempimento penalmente rilevante nella condotta in conseguenza della quel vengano a mancare cose o opere che siano necessarie ad uno stabilimento pubblico o ad un pubblico servizio.
Il requisito della necessità delle cose od opere deve essere inteso in senso assoluto: le cose od opere sono quelle che in via immediata soddisfano le necessità del pubblico servizio (Cass. Sentenza n. 9525 del 19/06/1998). Ciò fa sì che rientri nell'alveo della fattispecie incriminatrice non qualsiasi difficoltà operativa ma ciò che rende inattingibile lo scopo cui Il servizio era demandato. Non ogni inesatto adempimento o ritardo vale a concretare un fatto lesivo, dovendosi invece determinare un rapporto di congruità offensiva tra inadempimento ed il venir meno delle opere necessarie per la PA.
Da un punto di vista squisitamente penalistico, v'è da aggiungere che la giurisprudenza sul 356 cp. indica un criterio rigoroso di valutazione dell'inadempimento: si richiede una speciale intensità lesiva dell'interesse del creditore.
Occorre, quindi, una valutazione sulla intensità lesiva dell'inadempimento. Dev'esservi una intollerabilità verificando che l'inadempimento deve tener conto anche della natura del contratto in questione.
Clausole generali di buona fede - Prestazione divenuta inesigibile - Artt. 1175, 1256, 1218 e 1375 c.c..
Non può dirsi sussistente un'ipotesi di inadempimento, neppure colposo, a ragione dell'impossibilità sopravvenuta della prestazione (artt. 1256 e 1218 c.c.) o -quanto meno- della sua inesigibilità da parte del presunto creditore committente alla stregua delle clausole generali di buona fede e di doverosa collaborazione del creditore artt. 1175 e 1375 c.c.).
Infatti, gli artt., 1175 e 1375 cc. spiegano con chiarezza, che è contraria alla correttezza la pretesa del creditore di voler ottenere l'inadempimento anche quando la prestazione è divenuta inesigibile (Cass. 2007 n 26958; n 21994/20121; Cost. 19/1994).
Contratto di appalto e quello di trasporto - Differenze.
Il discrimen tra il contratto di appalto e quello di trasporto prevede che il primo ha per oggetto il risultato di un facere, il quale può concretarsi nel compimento di un'opera o di un servizio che l'appaltatore assume verso il committente dietro corrispettivo; esso, inoltre, è contrassegnato dall'esistenza di un'organizzazione d'impresa presso l'appaltatore e dal carico esclusivo del rischio economico nella persona del medesimo; invece, si ha contratto di trasporto, quando un soggetto si obbliga nei confronti di un altro soggetto a trasferire persone e cose da un luogo ad un altro mediante una propria organizzazione di mezzi e di attività personali e con l'assunzione a suo carico del rischio esclusivo del trasporto e della direzione tecnica dello stesso (Cassazione 17.10.1992 n. 11430; Cass.: 16.10.1979 n. 539) (TRIBUNALE di Napoli, Sez. V, sentenza 10.02.2014 n. 16316 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Reato di abuso d'ufficio - Elementi per l'integrazione - C.d. "doppia ingiustizia".
Ai sensi dell'art 323 cp, il reato di abuso d'ufficio non può configurarsi se non "in presenza di una violazione di norma di legge o di regolamento", (ovvero di una omissione del dovere di astenersi ricorrendo un interesse proprio dell'agente o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti) (requisito sub A). Ne consegue che é stata espunta dall'area della rilevanza penale ogni ipotesi di abuso dei poteri o di funzioni non concretantesi nella formale violazione di norme legislative o regolamentari o del dovere di astensione.
Inoltre, l'ingiustizia del vantaggio -che prima rientrava tra le finalità che l'agente doveva proporsi nel momento della condotta, in tal modo delineando una figura di reato a dolo specifico- rappresenta, in virtù della richiamata modifica normativa, l'evento del reato, contribuendo a configurare l'elemento oggettivo della fattispecie astratta (Cass. 6561/1998) (requisito sub B).
Sicché, ai fini dell'integrazione del reato di abuso d'ufficio, é necessario che sussista la c.d. "doppia ingiustizia", nel senso che ingiusta deve essere la condotta, in quanto connotata da violazione di legge, ed ingiusto deve essere l'evento di vantaggio patrimoniale, in quanto non spettante in base al diritto oggettivo regolante la materia (Cass. II n. 2754 del 21.01.2010).
Abuso d'ufficio - Svolgimento della funzione amministrativa del pubblico ufficiale - Artt. 323 e 110 cp..
In tema di abuso d'ufficio, nella formulazione dell'art. 323 cp, l'uso dell'avverbio "intenzionalmente", per qualificare il dolo ha voluto limitare il sindacato del giudice penale a quelle condotte del pubblico ufficiale dirette, come conseguenza immediatamente perseguita, a procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad arrecare un ingiusto danno.
Ne deriva che, qualora nello svolgimento della funzione amministrativa il pubblico ufficiale si prefigga di realizzare un interesse pubblico legittimamente affidato all'agente dall'ordinamento (non un fine privato per quanto lecito, non un fine collettivo, né un fine privato di un ente pubblico e nemmeno un fine politico), pur giungendo alla violazione di legge e realizzando un vantaggio al privato, deve escludersi la sussistenza del reato (Cass. n. 18149 del 16.05.2005, n. 33068 del 05.08.2003, n. 42839 del 18.12.2002, n. 38498 del 18.11.2002).
Inoltre, quando, come nel caso di specie, é ipotizzato il concorso del privato, é necessaria la dimostrazione certa della collusione tra il pubblico ufficiale e il richiedente l'atto illegittimo, la quale deve risultare dal contesto fattuale che dimostri che la richiesta -coincidente col provvedimento adottato- é stata preceduta, accompagnata o seguita da un'intesa con il pubblico funzionario o, comunque, da sollecitazioni poste in essere dal privato per l'ottenimento del provvedimento favorevole (Cass. VI 11.10.2007 n. 37531, Cass. 21/10/2004 n. 43205, Cutino; 14/10/2003 n 43020). Inoltre, può concorrere nel reato proprio di abuso d'ufficio, ex art. 110 cp, anche la persona che non abbia la qualità soggettiva pubblica, quando conosca la qualità dell'"intraneo" e pone in essere una condotta che contribuisca alla realizzazione dell'evento (Cass. sez. VI, 11.02.1999).
Ma perché possa configurarsi un contributo efficiente, idoneo a fondare la responsabilità concorsuale, occorre che il privato abbia posto in essere una condotta tale da avere svolto un ruolo causalmente rilevante nella realizzazione della fattispecie criminosa (Cass. VI pen. 29/05/2000).
Pertanto, quando, come nel caso di specie, é ipotizzato il concorso del privato, é necessaria la dimostrazione della collusione tra il pubblico ufficiale e il richiedente l'atto illegittimo. La prova che un atto amministrativo sia il risultato di collusione tra privato e pubblico funzionario, non può essere dedotta di per sé sola dalla mera coincidenza tra la richiesta del primo ed il provvedimento posto in essere dal secondo, essendo invece necessario che il contesto fattuale sia desunto, al di là dei rapporti personali tra le parti, da un quid pluris il quale dimostri che la presentazione della domanda è stata preceduta, accompagnata o seguita da un'intesa col pubblico funzionario o, comunque, da sollecitazioni poste in essere dal privato per l'ottenimento del provvedimento favorevole (Cass. 21/10/2004 n. 43205, Cutino; 14/10/2003 n 43020) (TRIBUNALE di Napoli, Sez. V, sentenza 10.02.2014 n. 16316 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVISpese compensate in casi limite. La Cassazione: decisione da motivare in dettaglio.
La condanna al pagamento delle spese processuali di chi soccombe nel giudizio tributario è una forma di tutela della parte vittoriosa, che ha fatto valere in sede giudiziale le proprie ragioni e ha tutto l'interesse a recuperare, in tutto o in parte, i costi sostenuti. La compensazione delle spese deve essere limitata a casi eccezionali ed esige un'adeguata motivazione. Quindi, il giudice tributario non può limitarsi nella sentenza a compensare in tutto o in parte le spese per giusti motivi. Si tratta di una formula criptica che viola il diritto di difesa perché non consente alle parti di esaminare le ragioni poste a base della decisione.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con l'ordinanza 14.01.2014 n. 766.
Secondo la Cassazione, la compensazione delle spese giudiziali per giusti motivi è una formula «del tutto criptica e non consente il controllo sulla motivazione e sulla congruità delle ragioni poste dal giudice a fondamento della sua decisione». In effetti l'obbligo di motivare la sentenza, che già era richiesto in passato, a maggior ragione è imposto dopo la riforma del processo civile (legge 69/2009). Il giudice è tenuto a porre a carico della parte soccombente l'onere di pagare le spese processuali, salvo casi eccezionali che devono essere motivati. Del resto la nuova disposizione, che si applica al processo tributario, è stata introdotta anche per deflazionare il contenzioso.
Secondo la commissione tributaria regionale di Catanzaro (sentenza 495/2009), la condanna alle spese di giudizio costituisce l'ipotesi ordinaria, legata al fatto stesso della soccombenza, a maggior ragione dopo la modifica dell'articolo 92 del codice di procedura civile che ammette la compensazione delle spese solo per ragioni o eventi eccezionali. Anche la commissione tributaria regionale di Roma (sentenza 488/2012) ha sostenuto che commette una violazione di legge il giudice che compensa le spese giudiziali senza motivare le ragioni poste a base della decisione.
Vero è che la soccombenza in giudizio del contribuente o del fisco non comporta l'automatica condanna a pagare le spese processuali. Infatti, come posto in rilievo dalla commissione tributaria regionale di Milano, sezione XXX, con la sentenza n. 103 del 02.07.2013, la novità delle questioni trattate, la loro complessità o le contrastanti prese di posizione della giurisprudenza su determinate materie possono spingere una delle parti a proporre azione giudiziale e, in caso di esito negativo, il giudice può decidere di non addebitare i costi del processo.
Dunque, secondo la Ctr di Milano, se le questioni che formano oggetto di contenzioso innanzi al giudice tributario sono dubbie, le spese processuali possono essere compensate tra le parti «in dovuta considerazione della controversialità delle questioni proposte». In questi casi non va sanzionato il comportamento di chi ha dato luogo al processo, non essendo pacifica la soluzione che il giudice può dare alla questione sottoposta al suo esame. Vanno addebitate le spese, invece, quando il processo può essere evitato usando l'ordinaria diligenza.
Anche all'amministrazione pubblica che adotti un provvedimento di autotutela, in presenza di un vizio dell'atto impositivo o di un errore, devono essere addebitati i costi sostenuti dal contribuente. Del resto, la Cassazione (sentenza 14563/2008) ha affermato che qualora l'azione giudiziaria intrapresa dal contribuente risulti totalmente fondata, la sua difesa sarebbe compromessa se fosse tenuto a pagare le spese di giustizia (legali e fiscali).
Soccombenza e spese giudiziali. Prima delle riforma del processo tributario del 1992 era esclusa l'applicazione degli articoli da 90 a 97 del codice di procedura civile. Questa regola faceva venire meno il principio della responsabilità delle parti per le spese e i danni processuali. Nella disciplina attuale, invece, la parte soccombente è condannata a rimborsare le spese del giudizio che sono liquidate con la sentenza. E il giudice tributario, in seguito alla riforma del processo civile, non ha più il potere di compensare le spese per motivi di opportunità, ma solo per ragioni o eventi eccezionali.
Cosa vuol dire soccombenza? La Cassazione ha affermato che per soccombenza in senso oggettivo deve intendersi la difformità tra la domanda della parte e la pronuncia; invece, per soccombenza in senso causale si intende la difformità tra la pronuncia e la pretesa della sola parte che abbia reso necessario il processo, altrimenti evitabile. In quest'ultimo caso è necessario che la parte venga sanzionata.
Non c'è dubbio che la possibilità di conseguire la ripetizione delle spese processuali dà alla parte vittoriosa maggiori garanzie per la difesa della propria posizione processuale. Soprattutto dopo che è stato introdotto l'obbligo della difesa tecnica. I contribuenti devono rivolgersi a un professionista abilitato (avvocato, dottore commercialista, ragioniere e così via) se la controversia è di valore non modesto. È evidente che se l'interessato si rivolge a un professionista lievitano i costi del processo.
E non va dimenticato che dal 2011, per adire la commissione tributaria, si paga anche il contributo unificato. Il ricorso deve essere sottoscritto dal difensore del ricorrente, fatte salve le ipotesi in cui il contribuente può difendersi personalmente. Ciò è consentito, però, solo se il valore della causa sia inferiore a 2.582,28 euro. Va precisato che per valore della lite si intende l'importo del tributo al netto degli interessi e delle sanzioni irrogate con l'atto impugnato. Se vengono contestate le sanzioni, il valore è costituito dalla somma di queste (articolo ItaliaOggi Sette del 17.03.2014).

URBANISTICA: PGT: l'approvazione di un documento unitario contenente le norme tecniche non implica di per sé l’illegittimità dell’intero PGT.
Il TAR Lombardia-Milano, si pronuncia in punto formalità degli atti costituenti il Piano di Governo del Territorio, affermando che la scelta di riunire le norme tecniche in un documento unitario non viola il disposto dell'art. 7 della L.R. 12 del 2005.
Nel ricorso avverso il PGT del Comune di Bulciago (Lc), si censurava la circostanza di avere il PGT riunite in un unico atto le norme tecniche di attuazione comuni ai tre atti nei quali, secondo l’art. 7 della LR 12/2005, si articola il PGT stesso, vale a dire il documento di piano, il piano dei servizi ed il piano delle regole. L’unità delle norme di attuazione, secondo il ricorrente, "finirebbe per snaturare il contenuto e le funzioni che ciascuno dei tre atti costituenti il PGT deve assolvere, ai sensi di legge".
Afferma il TAR che -al di là del fatto che nel caso di specie pur all'interno del medesimo documento le norme sono state distinte in relazione al contenuto ed agli scopi dei tre atti nei quali si articola il documento di piano- "la semplice approvazione di un documento unitario contenente le norme tecniche non implica di per sé l’illegittimità dell’intero PGT, dovendosi invece valutare in concreto le singole norme, per accertare se il contenuto delle medesime si ponga in contrasto con le superiori previsioni della legge regionale".
La sentenza conferma poi che l'individuazione nel Documento di Piano degli “Ambiti di trasformazione”, all’interno dei quali gli interventi avvengono mediante i Piani attuativi comunali non equivale a inserire previsioni avente efficacia diretta sul regime dei suoli, essendo queste affidate ai piani citati (commento tratto da e link a http://studiospallino.blogspot.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.01.2014 n. 280 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento di demolizione, in quanto atto vincolato -al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia- non richiede una specifica motivazione, posto che, ai fini dell’accertamento della sua legittimità, sono indifferenti le ragioni in virtù delle quali l’amministrazione è giunta alle determinazioni finali, in quanto ciò che rileva e che può essere verificato senza preclusioni è se tali determinazioni, in presenza dei necessari presupposti, siano conformi o meno alle norme applicate; né una valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati.
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La disciplina di settore (id est art. 27 del d.p.r. 380/2001) sanziona con la demolizione la realizzazione senza titolo di nuove opere in zone vincolate e siffatta misura resta applicabile sia che venga accertato l’inizio che l’avvenuta esecuzione di interventi abusivi, come si evince dall’inequivoco tenore letterale della disposizione, specificamente modificata sul punto dall’art. 32 d.l. n. 269 del 2003, ove si fa riferimento alle ipotesi di “inizio o... esecuzione di opere eseguite”, e non vede la sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta.
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Il provvedimento di demolizione, in quanto atto vincolato -al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia- non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati.
Infatti, "…presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l’accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi”.
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In presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all’autorità comunale, prima di emanare l’ordinanza di demolizione, di verificare la sanabilità ai sensi dell’art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001.
Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n. 380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l’abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette all’esclusiva iniziativa della parte interessata l’attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato.

2. Con un secondo ordine di censure la ricorrente si duole della carenza di motivazione e di istruttoria del provvedimento sanzionatorio impugnato.
La censura di difetto di motivazione non può essere accolta, atteso che il provvedimento di demolizione, in quanto atto vincolato -al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia- non richiede una specifica motivazione, posto che, ai fini dell’accertamento della sua legittimità, sono indifferenti le ragioni in virtù delle quali l’amministrazione è giunta alle determinazioni finali, in quanto ciò che rileva e che può essere verificato senza preclusioni è se tali determinazioni, in presenza dei necessari presupposti, siano conformi o meno alle norme applicate; né una valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati (tra le molte, Cons. Stato, sez. II, 07.11.2007; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 29.01.2009, n. 501).
3. Deve, inoltre, essere respinta la censura con la quale viene fatta valere la violazione e falsa applicazione dell’art. 27 d.P.R. 380/2001 in quanto l’amministrazione avrebbe dovuto applicare l’art. 31 d.P.R. 380/2001, in relazione alla circostanza che le opere abusive realizzate, al momento dell’accertamento da parte di verbalizzanti, erano già complete in tutti i loro elementi essenziali e in tutte le loro parti.
Invero, la disciplina di settore (id est art. 27 del d.p.r. 380/2001) sanziona con la demolizione la realizzazione senza titolo di nuove opere in zone vincolate e siffatta misura resta applicabile sia che venga accertato l’inizio che l’avvenuta esecuzione di interventi abusivi, come si evince dall’inequivoco tenore letterale della disposizione, specificamente modificata sul punto dall’art. 32 d.l. n. 269 del 2003, ove si fa riferimento alle ipotesi di “inizio o... esecuzione di opere eseguite”, e non vede la sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta (TAR Campania, questa sesta sezione, sentenze n. 3372 del 23.06.2011, n. 2076 del 21.04.2010 e n. 1775 del 07.04.2010 e sezione terza, 11.03.2009, n. 1376).
Deve, inoltre, essere respinto anche il profilo della doglianza con la quale la ricorrente sostiene la realizzabilità degli interventi a mezzo di semplice denuncia di inizio attività e la conseguente illegittimità della sanzione ripristinatoria ingiunta, tanto più che non risulta allegata e neppure provata la conformità degli interventi agli strumenti urbanistici vigenti, ai regolamenti edilizi e alla disciplina urbanistico-edilizia vigente, come richiesto dall’art. 22 d.P.R. 380/2001 per la riconducibilità dell’opera alla sfera di operatività della denuncia di inizio attività.
4. Né può essere accolta la censura di difetto di motivazione e di assenza di valutazione dell’interesse pubblico, articolata con il quarto motivo di doglianza, atteso che il difetto in questione non solo non è ravvisabile dalla piana lettura dell’atto all’esame, ma il provvedimento di demolizione, in quanto atto vincolato -al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia- non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati (tra le molte TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 19.04.2013, n. 992, TAR Campania, Napoli, sez. VII, 10.04.2013, n. 1906, sez. IV, 08.04.2013, n. 1821 e sez. VIII, 29.01.2009, n. 501).
Infatti, come costantemente affermato dalla giurisprudenza di questo Tribunale, condivisa da questo Collegio: “…presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l’accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi” (fra molte, TAR Campania Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n. 1999).
5. Deve essere respinto anche l’ultimo mezzo di ricorso, con il quale la ricorrente sostiene che l’amministrazione avrebbe violato l’art. 36 d.P.R. 380/2001, giacché, prima di ingiungere la demolizione, avrebbe dovuto valutare la sanabilità dell’opera.
Come costantemente affermato dalla giurisprudenza “…in presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all’autorità comunale, prima di emanare l’ordinanza di demolizione, di verificare la sanabilità ai sensi dell’art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001. Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n. 380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l’abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette all’esclusiva iniziativa della parte interessata l’attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato” (TAR Campania, Napoli, sez. IV, 06.07.2007 n. 6552) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 09.01.2014 n. 123 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordine ripristinatorio, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può legittimare, salvo peculiari situazioni legate alla comprovata realizzazione delle opere da lungo tempo.
Quanto alla carenza di motivazione, ci si richiama al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale “l'ordine ripristinatorio, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può legittimare, salvo peculiari situazioni legate alla comprovata realizzazione delle opere da lungo tempo” (cos’, da ultimo, TAR Lombardia, Milano, 19.04.2013, n. 992, nello stesso senso ex multis, TAR Campania Napoli, sez. VII, 10.04.2013, n. 1906, sez. IV, 08.04.2013, n. 1821, sez. III, 02.03.2010 , n. 1235) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 09.01.2014 n. 112 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: A seguito dell'entrata in vigore della l. 28.01.1977 n. 10, che ha previsto la vincolante obbligatorietà degli ordini di demolizione degli edifici abusivi, non è più necessaria l'acquisizione del parere della Commissione Edilizia Comunale ai sensi dell'art. 32, comma 3, l. 17.08.1942 n. 1150.
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In presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001.
Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n. 380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato.
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Il provvedimento di demolizione, in quanto atto vincolato -al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia- non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati.
Dalla vincolatezza del provvedimento demolitorio di un abuso edilizio, infine, discende l'inapplicabilità delle garanzie partecipative e in particolare dell'invio della comunicazione di avvio del procedimento, la cui omissione è stata censurata con il quarto ed ultimo motivo di doglianza.

Va in primo luogo respinto il primo motivo di doglianza, con il quale i ricorrenti hanno sostenuto l’illegittimità del provvedimento gravato in quanto assunto senza aver prima acquisito il parere della sezione urbanistica regionale o degli enti a questa succeduti.
Deve, per contro, osservarsi come a seguito dell'entrata in vigore della l. 28.01.1977 n. 10, che ha previsto la vincolante obbligatorietà degli ordini di demolizione degli edifici abusivi, non è più necessaria l'acquisizione del parere della Commissione Edilizia Comunale ai sensi dell'art. 32, comma 3, l. 17.08.1942 n. 1150 (cfr., da ultimo, TAR Campania, Napoli, sez. VI, 06.06.2013 n. 2980).
Né può condividersi la censura articolata con il secondo motivo di doglianza, con il quale la ricorrente ha sostenuto l’illegittimità del provvedimento gravato per non avere il comune valutato la sanabilità dell’opera ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 380/2001, prima di ordinarne la demolizione.
Come costantemente affermato in giurisprudenza, “… in presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001. Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n. 380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato” (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 21.11.2013, n. 5226, sez. IV, 06.07.2007, n. 6552).
Né può essere accolta la censura di difetto di motivazione, articolata con il terzo motivo di doglianza, atteso che il provvedimento di demolizione, in quanto atto vincolato -al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia- non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati (ex multis TAR Campania Napoli, sez. VIII, 29.01.2009, n. 501).
Dalla vincolatezza del provvedimento demolitorio di un abuso edilizio, infine, discende l'inapplicabilità delle garanzie partecipative e in particolare dell'invio della comunicazione di avvio del procedimento, la cui omissione è stata censurata con il quarto ed ultimo motivo di doglianza (cfr., da ultimo TAR Campania, Napoli, sez. VII , 14/10/2013, n. 4587) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 09.01.2014 n. 111 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione della domanda di condono edilizio, successivamente alla impugnazione dell'ordinanza di demolizione, produce l'effetto di rendere improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, l'impugnazione stessa.
Ed invero, il riesame dell’abusività dell'opera al fine di verificarne la eventuale sanabilità -provocato dall'istanza degli interessati- comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito (di accoglimento o di rigetto), che vale, comunque, a superare il provvedimento tacito di diniego oggetto del presente ricorso.

Posto che, in data 10.12.2004, è stata presentata, con riguardo alle opere realizzate abusivamente di cui all’impugnato provvedimento sanzionatorio, domanda di condono ai sensi della legge n. 326/2003, osserva il Collegio che la giurisprudenza amministrativa ha già avuto modo di rilevare come la presentazione di tali domande, successivamente alla impugnazione dell'ordinanza di demolizione, produca l'effetto di rendere improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, l'impugnazione stessa (cfr. ex multis, TAR Campania, Sez. VI, TAR Napoli Campania sez. VI, 06.02.2013, n. 757, 05.12.2012, n. 4924, 11.07.2007, n. 7129 sez. I, 18.05.2006 n. 4743).
Ed invero, il riesame dell’abusività dell'opera al fine di verificarne la eventuale sanabilità -provocato dall'istanza degli interessati- comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito (di accoglimento o di rigetto), che vale, comunque, a superare il provvedimento tacito di diniego oggetto del presente ricorso (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 09.01.2014 n. 107 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: «Scegliere» la lite porta alla condanna. Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Cause inutili.
Se l'avvocato deve diventare sempre più un gestore del conflitto, anche alla luce del riconoscimento d'ufficio del ruolo di mediatore, allora la strada del contenzioso davanti al giudice non può più essere considerata l'unica. Altrimenti il rischio concreto è quello di essere condannati a una somma aggiuntiva.
È quello che è successo, stando almeno a quanto si legge nell'ordinanza 24.12.2013 del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere.
Il caso portato davanti all'autorità giudiziaria è vecchio come il condominio: un problema di infiltrazioni da un appartamento a un altro.
Peccato che una delle parti, invece di affrontare la questione attraverso un semplice accertamento tecnico (che nella valutazione del giudice avrebbe probabilmente contribuito a risolvere il contenzioso), come sollecitata dalla controparte, abbia scelto di andare in giudizio.
Una decisione che non è stata apprezzata dal giudice che, oltre a respingere nel merito le su tesi sull'attribuzione di responsabilità, ha anche proceduto a una sanzione aggiuntiva di 1.200 sulla base dell'applicazione dell'articolo 96, comma 3, del Codice di procedura civile, che contribuisce a colpire le liti temerarie.
Il giudice ha corroborato la sua valutazione sostenendo che la condotta della parte è stata ispirata a un'ottica conflittuale che ormai è lontana dalla stessa prospettiva del legislatore che, anche con il decreto “del fare” dell'estate scorsa ha reintrodotto la mediazione obbligatoria attribuendo al difensore «un ruolo centrale, prima ancora che nel giudizio, nell'attività di mediazione delle controversie».
Sino a spingersi, sottolinea ancora la pronuncia, ad assegnare agli avvocati, dopo le modifiche introdotte in sede di conversione, il ruolo di conciliatori di diritto assistendo obbligatoriamente la parte durante tutto il procedimento di mediazione delle controversie, «prospettiva che tende sempre di più ad individuare nel ricorso al tribunale l'extrema ratio per la soluzione della quasi totalità delle controversie civili»
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.03.2014).

AGGIORNAMENTO AL 22.03.2014

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SINDACATI & ARAN

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: D.L. 101/2014: la disciplina della stabilizzazione di LSU-LPU (CGIL-FP di Bergamo, nota 17.03.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOFoglio excel per la gestione delle risorse decentrate del fondo per la contrattazione integrativa del comparto Regioni ed Autonomie locali (28.02.2014 - link a Www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: GUIDA OPERATIVA - Personale dei comparti: Modalità di calcolo del monte ore dei permessi sindacali di spettanza delle organizzazioni sindacali rappresentative e della RSU nei luogo di lavoro (ARAN, novembre 2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: I permessi brevi (art. 20 del CCNL del 06.07.1995 del personale del comparto Regioni e Autonomie locali) (ARAN, luglio 2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: I permessi retribuiti (art. 19 del CCNL del 06.07.1995) - Comparto Regioni e Autonomie locali (ARAN, luglio 2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L’aspettativa per motivi personali (artt. 11 e 14 del CCNL del 14.09.2000 del personale del comparto Regioni e autonomie locali) (ARAN, marzo 2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La procedura della contrattazione decentrata integrativa - Comparto Regioni e Autonomie locali (ARAN, marzo 2013).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 20.03.2014 n. 66 "Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese" (D.L. 20.03.2014 n. 34).
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Di interesse si legga:
Art. 4. - Semplificazioni in materia di documento di regolarità contributiva

PATRIMONIO: G.U. 18.03.2014 n. 64 "Definizione di poteri derogatori ai sindaci e ai presidenti delle province interessati che operano in qualità di commissari governativi per l’attuazione delle misure urgenti in materia di riqualificazione e di messa in sicurezza delle istituzioni scolastiche statali" (D.P.C.M. 22.01.2014).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 11 del 14.03.2014, "Trasmissione informatizzata della notifica e del piano per i lavori di bonifica dei manufatti contenenti amianto (artt. 250 e 256 d.lgs. 81/2008) e delle relazioni annuali (art. 9 l. 257/1992)" (decreto D.G. 04.03.2014 n. 1785).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: A. Mancini, L’attestato di prestazione energetica negli interventi edilizi, nei trasferimenti e nelle locazioni immobiliari (Bollettino di Legislazione Tecnica n. 3/2014).

EDILIZIA PRIVATA: P. de Paolis, Le distanze legali tra pareti finestrate con particolare riguardo al computo di balconi e sporgenze (Bollettino di Legislazione Tecnica n. 3/2014).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: A. Sagna, SULL'AMMISSIBILITA' DEL RIMBORSO DELLE SPESE LEGALI SOSTENUTE DAGLI AMMINISTRATORI DI ENTI PUBBLICI NEI PROCEDIMENTI PENALI DEFINITI CON FORMULA ASSOLUTORIA (luglio 2001 - link a www.diritto.it).).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Nuove disposizioni in materia di limiti alle retribuzioni e ai trattamenti pensionistici - Articolo 1, commi 471 ss., della legge 27.12.2013, n. 147 (legge di stabilità per il 2014) (circolare 18.03.2014 n. 3/2014).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Attività di bonifica amianto: invio di notifiche e piani tramite applicativo Ge.M.A. (ANCE Bergamo, circolare 21.03.2014 n. 69).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Modalità operative in materia di paesaggio da utilizzarsi nella progettazione di impianti idroelettrici (MIBACT Veneto, circolare 18.03.2014 n. 18/2014).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: VALDOBBIADENE (Treviso) - Area tutelata ai sensi della Parte III del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, con decreto del Ministero dei beni e delle attività culturali 30.09.2010, recante "Dichiarazione di notevole interesse pubblico dell'area prealpina e collinare dell'alta Marca Trevigiana, compresa tra i comuni di Valdobbiadene e Segusino"- Quesito (MIBACT Veneto, nota 11.03.2014 n. 4339 di prot.).
...
Con nota prot. 4652 del 14.02.2014, codesto Comune si è interrogato (i) sulla necessità dell'autorizzazione paesaggistica di cui all'art. 146 del d.lgs. 42/2004 per interventi di allaccio alle infrastrutture a rete e (ii) sulla portata della prescrizione di cui alla lettera m) del decreto ministeriale in oggetto, relativa al divieto di installazione di cartelli pubblicitari. (... continua).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: RIMBORSABILITÀ SPESE LEGALI EX AMMINISTRATORE.
Sono rimborsabili -a un ex amministratore e a un dipendente comunale- le spese legali sostenute dagli stessi per un procedimento penale a loro carico per il reato di cui all’articolo 323 del codice penale (abuso d’ufficio) conclusosi con decreto di archiviazione del Gip, procedimento avviato a seguito dell’invio degli atti alla Procura della Repubblica da parte dello stesso Comune?
NO
In merito a quanto prospettato nel quesito,
non esiste una disposizione che obblighi il Comune a tenere indenni gli amministratori delle spese processuali sostenute in giudizi penali concernenti imputazioni oggettivamente connesse all’espletamento dell’incarico, espressamente prevista, invece, per i dipendenti comunali.
In via generale occorre sottolineare che la disposizione di cui all’articolo 28 del Ccnl dei dipendenti degli Enti locali del 14.09.2000 è stata considerata dalla giurisprudenza «applicabile in via retroattiva ed anche in via estensiva agli amministratori e non solo ai dipendenti pubblici, ma si è ritenuta limitata ai procedimenti giurisdizionali, senza che ciò escluda tuttavia la rimborsabilità delle spese sopportate in sede di indagine penale, potendosi fare ricorso all’azione di ingiustificato arricchimento» (si veda Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza n. 5367/2004).
Tale estensione è stata giustificata «in considerazione del loro status di pubblici funzionari».
In forza di tale norma, «... hanno titolo al rimborso delle spese legali il dipendente e quindi l’amministratore locale, sottoposti a giudizio penale per fatti o atti direttamente connessi all’espletamento del servizio e all’adempimento dei compiti d’ufficio, sempreché il giudizio non si sia concluso con una sentenza di condanna e non vi sia conflitto di interessi con l’amministrazione di appartenenza…» (si veda Consiglio di Stato, sezione V, sentenza n. 3946/2001).
Altra parte della giurisprudenza (si veda Consiglio di Stato, sezione V, sentenza n. 2242/2000), non condividendo il suddetto indirizzo, ha applicato l’analogia iuris tramite il richiamo all’articolo 1720, comma 2, codice civile, in base al quale «… il mandante deve inoltre risarcire i danni che il mandatario ha subito a causa dell’incarico».
Nella medesima decisione, il Consiglio di Stato ha comunque evidenziato la sostanziale eccezionalità del rimborso delle spese legali e ha ribadito, con richiamo alla giurisprudenza ordinaria che, ai fini del rimborso, è necessario accertare che le spese siano state sostenute a causa e non semplicemente in occasione dell’incarico e sempre entro il limite costituito dal positivo e definitivo accertamento della mancanza di responsabilità penale degli amministratori che hanno sostenuto le spese legali.
Il giudice ordinario ha, peraltro, chiarito ulteriormente tale concetto precisando che il rimborso previsto dalla citata norma del codice civile «concerne solo le spese sostenute dal mandatario in stretta dipendenza dall’adempimento dei propri obblighi. Più esattamente, esso si riferisce alle sole spese effettuate per espletamento di attività che il mandante ha il potere di esigere.
Perciò, il Legislatore del 1942 ha sostituito l’espressione “a causa” all’espressione “in occasione dell’incarico”, contenuta nell’articolo 1754 codice civile 1865. In tal modo, si è precisato, il Legislatore si è riferito a spese che, per la loro natura, si collegano necessariamente all’esecuzione dell’incarico conferito, nel senso che rappresentino il rischio inerente all’esecuzione dell’incarico. L’ipotesi, si è chiarito, non si verifica quando l’attività di esecuzione dell’incarico abbia in qualsiasi modo dato luogo a un’azione penale contro il mandatario, e questi abbia dovuto effettuare spese di difesa delle quali intenda chiedere il rimborso ex articolo 1720 citato. Ciò è evidente nel caso in cui l’azione si riveli, a esito del procedimento penale, fondata, e il mandatario-reo venga condannato, giacché la commissione di un reato non può rientrare nei limiti di un mandato validamente conferito (articoli 1343 e 1418 codice civile). Ma il verificarsi dell’ipotesi non è possibile neppure quando il mandatario-imputato venga prosciolto, giacché in tal caso la necessità di effettuare le spese di difesa non si pone in nesso di causalità diretta con l’esecuzione del mandato, ma tra l’uno e l’altro fatto si pone un elemento intermedio, dovuto all’attività di una terza persona, pubblica o privata, e dato dall’accusa poi rivelatasi infondata.
Anche in questa eventualità non è dunque ravvisabile il nesso di causalità necessaria tra l’adempimento del mandato e la perdita pecuniaria, di cui perciò il mandatario non può pretendere il rimborso
». (si veda Corte suprema di cassazione, sezione I civile, sentenza del 20.12.2007, depositata il 16.04.2008, n. 10052).
Alla luce degli orientamenti giurisprudenziali della Cassazione e del Consiglio di Stato,
le spese legali possono essere rimborsate solo qualora vi sia una sentenza definitiva che abbia escluso la responsabilità del dipendente o dell’amministratore con una pronuncia di assoluzione nel merito dalle imputazioni contestate.
Tale pronuncia, va da sé, esclude un eventuale conflitto di interesse con l’Ente locale.
A ciò si aggiunge che, ai fini del rimborso, occorre ravvisare il nesso di causalità necessaria tra l’adempimento del mandato e la perdita pecuniaria.
Occorre evidenziare, però, come
non sia sufficiente che il processo penale per fatti connessi all’espletamento di compiti d’ufficio si sia concluso con l’assoluzione, ma debba coesistere l’ulteriore condizione della mancanza di conflitto di interessi con l’ente (si veda Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale della Liguria, sentenza n. 580 del 13.10.2008) condizione che, nel caso in questione, sembra possa escludersi, considerato che il procedimento penale è stato avviato a seguito dell’invio degli atti alla Procura della Repubblica da parte dell’amministrazione di appartenenza.
È ormai opinione dominante nell’ambito della giurisprudenza contabile che
per non configurare conflitto di interessi occorra una sentenza emessa con la formula più ampia possibile, tale da far ritenere il comportamento degli amministratori e/o dipendenti improntata al rispetto del principio cardine dell’articolo 97 Costituzione.
In questo scenario,
nel caso in esame non è possibile rimborsare le spese legali sia all’ex amministratore che al dipendente comunale in quanto, seppur per i medesimi risulti il decreto di archiviazione, la necessità di effettuare le spese di difesa non si pone in nesso di causalità diretta con l’esecuzione del mandato.
A ciò si aggiunga che
non risulta vi sia stato, nel caso in esame, il coinvolgimento iniziale dell’ente nella scelta del difensore, che deve essere scelto preventivamente e concordemente tra le parti (si veda sentenza del Consiglio di Stato, sezione V, n. 552/2007) (Guida agli Enti Locali n. 3-4/2012).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: La tamponatura con materiale vario di una precedente tettoia con correlato aumento di volumetria deve essere qualificata, ai sensi del t.u. dell’edilizia, come ristrutturazione edilizia in quanto comporta, in conseguenza dell’aumento di volumetria correlata, la realizzazione di un organismo diverso dal precedente per struttura e destinazione; e tale intervento, che non può considerarsi quale attività libera, doveva perciò essere autorizzato con un titolo edilizio che l’interessato non ha mai richiesto.
La nozione di costruzione, ai fini della necessità del rilascio di un adeguato titolo edilizio, si configura, invero, in presenza di opere che attuino una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi, a prescindere dal fatto che essa avvenga mediante realizzazione di opere murarie.

Relativamente a quanto costruito al primo piano, sopra descritto alla lettera a), ha dedotto che tale manufatto era stato oggetto di due istanze di condono presentate nel 1986 e nel 1994, per cui il Comune non avrebbe potuto ordinarne la demolizione.
Sul punto va, però, osservato che dagli atti versati in giudizio dallo stesso ricorrente emerge che con le predette istanze di condono si era inteso sanare la costruzione di una tettoia sita al primo piano, mentre con l’atto impugnato è stato contestato il fatto che tale tettoia era stata tamponata e suddivisa in più ambienti con pannellature di materiale ligneo e materiali di recupero.
Tale ulteriore attività costruttiva non può non essere ritenuta abusiva. Infatti, la tamponatura con materiale vario di una precedente tettoia con correlato aumento di volumetria deve essere qualificata, ai sensi del t.u. dell’edilizia, come ristrutturazione edilizia in quanto comporta, in conseguenza dell’aumento di volumetria correlata, la realizzazione di un organismo diverso dal precedente per struttura e destinazione; e tale intervento, che non può considerarsi quale attività libera, doveva perciò essere autorizzato con un titolo edilizio che l’interessato non ha mai richiesto. La nozione di costruzione, ai fini della necessità del rilascio di un adeguato titolo edilizio, si configura, invero, in presenza di opere che attuino una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi, a prescindere dal fatto che essa avvenga mediante realizzazione di opere murarie.
Di qui la legittimità della prescrizione demolitoria irrogata con il provvedimento impugnato, che involge esclusivamente la tamponata e la suddivisione della struttura in più ambienti con pannellature di materiale ligneo e materiali di recupero
(TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 14.03.2014 n. 118 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli interventi consistenti nell’installazione di tettoie o di altre strutture, che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi e non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito, possono ritenersi sottratti al regime del permesso di costruire soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) dell’immobile cui accedono.
Invece, tali strutture non possono, ritenersi installabili senza titolo edilizio quando abbiano dimensioni tali da arrecare una visibile alterazione del prospetto dell’edificio e ciò anche quando siano facilmente smontabili.

Va, invero, sul punto ricordato che -secondo quanto costantemente precisato dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. da ultimo, Cons. St, sez. VI, 05.08.2013, n. 4086, e sez. V 23.07.2013, n. 3952, e 19.07.2013, n. 3939)- gli interventi consistenti nell’installazione di tettoie o di altre strutture, che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi e non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito, possono ritenersi sottratti al regime del permesso di costruire soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) dell’immobile cui accedono; invece, tali strutture non possono, ritenersi installabili senza titolo edilizio quando abbiano dimensioni tali da arrecare una visibile alterazione del prospetto dell’edificio e ciò anche quando siano facilmente smontabili.
Ciò posto, considerato il reale stato dei luoghi e valutate le caratteristiche anche dimensionali di tali tettoie, sembra evidente che tali manufatti avrebbero potuto essere realizzati solo dopo il previo rilascio di un titolo abilitativo espresso, che il ricorrente non ha di certo richiesto, neanche a sanatoria
(TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 14.03.2014 n. 118 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per un verso il lasso di tempo che fa sorgere in capo all'Amministrazione l’onere di una motivazione rafforzata per l’ingiunzione di demolizione di opera edilizia abusivamente realizzata non è quello che intercorre tra il compimento dell’abuso ed il provvedimento sanzionatorio, ma tra la conoscenza da parte dell’Amministrazione dell’abuso ed il provvedimento sanzionatorio adottato, con la conseguenza che, in mancanza di conoscenza dell’illecito da parte dell'Amministrazione, non può consolidarsi in capo al privato alcun affidamento giuridicamente apprezzabile, il cui sacrificio meriti di essere adeguatamente considerato in sede motivazionale.
Per altro verso
il carattere permanente degli abusi edilizi comporta che il decorso del tempo non spieghi alcuna efficacia sanante nei confronti degli abusi stessi e che, per il principio di legalità, la sanatoria degli abusi può avere luogo solo nei casi previsti dalla legge statale, dato che nessuna disposizione di legge attribuisce al decorso del tempo un rilievo ostativo all’emanazione dei dovuti atti repressivi.

Mentre non può ritenersi che l’atto impugnato doveva essere sorretto da una specifica motivazione in relazione al tempo decorso dal momento in cui gli abusi erano stati commessi, in quanto -come oggi è stato chiarito- per un verso il lasso di tempo che fa sorgere in capo all'Amministrazione l’onere di una motivazione rafforzata per l’ingiunzione di demolizione di opera edilizia abusivamente realizzata non è quello che intercorre tra il compimento dell’abuso ed il provvedimento sanzionatorio, ma tra la conoscenza da parte dell’Amministrazione dell’abuso ed il provvedimento sanzionatorio adottato, con la conseguenza che, in mancanza di conoscenza dell’illecito da parte dell'Amministrazione, non può consolidarsi in capo al privato alcun affidamento giuridicamente apprezzabile, il cui sacrificio meriti di essere adeguatamente considerato in sede motivazionale (Cons. St., sez. V, 09.09.2013, n. 4470); e per altro verso il carattere permanente degli abusi edilizi comporta che il decorso del tempo non spieghi alcuna efficacia sanante nei confronti degli abusi stessi e che, per il principio di legalità, la sanatoria degli abusi può avere luogo solo nei casi previsti dalla legge statale, dato che nessuna disposizione di legge attribuisce al decorso del tempo un rilievo ostativo all’emanazione dei dovuti atti repressivi (Cons. St., sez. VI, 18.09.2013, n. 4651).
Per cui, in definitiva, legittimamente l’Amministrazione comunale ha ingiunto la demolizione della tamponatura del manufatto posto al primo piano e delle due tettoie poste al piano terra
(TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 14.03.2014 n. 118 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACarattere distintivo della ristrutturazione edilizia è la trasformazione anche parziale dell’organismo edilizio, con un “insieme sistematico di opere”, potendo questo “insieme” consistere in un solo complessivo progetto di intervento o in più interventi puntuali e separati, ma correlati e convergenti al medesimo risultato di trasformazione.
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Nella specie, legittimamente l’insieme delle opere eseguite è stato riferito alla nozione di ristrutturazione edilizia poiché, anche se realizzate singolarmente, sono tali da correlarsi in un palese effetto di pur parziale trasformazione dell’organismo edilizio in questione, risultando questo di certo nettamente diverso da quello preesistente, in quanto modificato con l’apertura di tre bocche di lupo disposte sul piano di calpestio della piazza ottenute mediante scavo della stessa, la realizzazione di una scala a tre rampe tra piano interrato e piano terra, in luogo dell’unica preesistente, la realizzazione di una nuova finestra su strada e, insieme con ciò, la realizzazione di un tratto di canna fumaria in rame e di una tenda “che si estende dalla finestra prossima al civico 23 di piazza della Quercia (verso via dei Venti) fin oltre i sesti all’apertura corrispondente al civico 25”.

Non può essere accolta anzitutto la censura di cui sopra, sub 2.a), dovendosi osservare che:
- nell’art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 06.06.2001 n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, in seguito solo testo unico), l’intervento di ristrutturazione è quello comportante la “trasformazione” dell’organismo edilizio mediante “un insieme sistematico” di opere, che possono portare ad un organismo in tutto o “in parte” diverso dal precedente;
- ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. c), cit. testo unico, sono subordinati al permesso di costruire gli interventi di ristrutturazione edilizia “che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino …modifiche dei…prospetti o delle superfici…”;
- carattere distintivo della ristrutturazione edilizia è perciò la trasformazione anche parziale dell’organismo edilizio, con un “insieme sistematico di opere”, potendo questo “insieme” consistere in un solo complessivo progetto di intervento o in più interventi puntuali e separati, ma correlati e convergenti al medesimo risultato di trasformazione;
- il provvedimento impugnato sanziona “la presenza di interventi edilizi abusivi di ristrutturazione in assenza di titolo abilitativo” ed è emanato in applicazione dell’art. 16, legge reg. Lazio 11.08.2008 n. 15 (Vigilanza sull’attività urbanistico–edilizia), relativo agli interventi di ristrutturazione;
- è perciò da accertare se gli interventi censurati in primo grado, pur singoli, concorrano ad un insieme sistematico di opere comportanti la trasformazione anche parziale dell’immobile e se siano stati eseguiti senza titolo abilitativo, risultando in tale caso, in sostanza, l’esecuzione di una ristrutturazione senza titolo.
Il collegio, riservandosi di esaminare in seguito la sussistenza del titolo abilitativo quanto alle opere in questione, ritiene che, nella specie, legittimamente l’insieme delle opere eseguite sia stato riferito alla nozione di ristrutturazione edilizia poiché, anche se realizzate singolarmente, sono tali da correlarsi in un palese effetto di pur parziale trasformazione dell’organismo edilizio in questione, risultando questo di certo nettamente diverso da quello preesistente, in quanto modificato (come specificato, da ultimo, nell’atto di accertamento tecnico n. 12184 del 15.02.2010) con l’apertura di tre bocche di lupo disposte sul piano di calpestio della piazza ottenute mediante scavo della stessa, la realizzazione di una scala a tre rampe tra piano interrato e piano terra, in luogo dell’unica preesistente, la realizzazione di una nuova finestra su strada e, insieme con ciò, la realizzazione di un tratto di canna fumaria in rame e di una tenda “che si estende dalla finestra prossima al civico 23 di piazza della Quercia (verso via dei Venti) fin oltre i sesti all’apertura corrispondente al civico 25” (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.03.2014 n. 1084 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 23, comma 1, testo unico edilizia, dispone che la denuncia d’inizio di attività deve essere “accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie.”.
È prescritto perciò con chiarezza che le opere che si intendono eseguire devono essere tutte specificate nella relazione del progettista; soltanto a questa è, infatti, attribuita la funzione specifica di asseverare la loro conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia, non essendo quindi sufficiente che le opere siano rappresentate negli elaborati progettuali, se di esse non risulti attestata la detta conformità, sotto la formale responsabilità del progettista.
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Anche dopo la scadenza del termine fissato dall’art. 23, comma 6, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, l’amministrazione conserva il potere di verificare se le opere possono essere realizzate sulla base della d.i.a. e può esercitare i poteri di vigilanza e sanzionatori previsti dall’ordinamento.
L’esercizio dei poteri di vigilanza e repressivi rappresenta, in via generale, una delle imprescindibili modalità di cura dell’interesse pubblico affidato all’una od all’altra branca dell’amministrazione ed è espressione del principio di buon andamento, di cui all’art. 97, Cost..
Nella specifica materia dell’attività urbanistico-edilizia, un potere specifico di vigilanza (esercitabile, per la sua stessa natura, anche mediante provvedimenti innominati), vòlto ad assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi, è affidato dalla legge al dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale (art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001).

Neppure può essere accolta la contestazione (comune in particolare alle censure sub 2.b.1, 2 e 3) secondo cui la d.i.a. sarebbe valida anche riguardo a opere non asseverate nella relazione tecnica.
L’art. 23, comma 1, testo unico, dispone, infatti, che la denuncia d’inizio di attività deve essere “accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie.”.
È prescritto perciò con chiarezza che le opere che si intendono eseguire devono essere tutte specificate nella relazione del progettista; soltanto a questa è, infatti, attribuita la funzione specifica di asseverare la loro conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia, non essendo quindi sufficiente che le opere siano rappresentate negli elaborati progettuali, se di esse non risulti attestata la detta conformità, sotto la formale responsabilità del progettista.
A questo riguardo il collegio non ritiene fondata la specifica, correlata doglianza per cui il primo giudice avrebbe ecceduto i limiti del giudizio, con esercizio di un potere di accertamento spettante all’amministrazione, nel momento in cui ha ritenuto la mancanza del titolo abilitativo per le opere di cui si tratta, non indicate nella relazione di asseverazione.
Agli atti del procedimento sono, infatti, acquisiti gli accertamenti tecnici eseguiti (n. 32187/2006 e n. 12184/2010) dai quali emerge con chiarezza che il presupposto per la valutazione di conformità delle opere in questione è la d.i.a. del 2005, con la conseguenza che, evidentemente, nessuna questione si sarebbe posta al riguardo se le opere fossero state tutte sin dall’inizio asseverate nella pertinente relazione.
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Non è fondata, infine, la deduzione per cui, decorso il termine per l’inibizione dell’esecuzione delle opere di cui all’art. 23, comma 6, cit. testo unico, l’amministrazione potrebbe soltanto agire in autotutela, non sanzionando gli abusi edilizi rilevati.
Questo Consiglio di Stato ha infatti chiarito al riguardo, con indirizzo da cui non vi è motivo di discostarsi per il caso all’esame, che “anche dopo la scadenza del termine fissato dall’art. 23, comma 6, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, l’amministrazione conserva il potere di verificare se le opere possono essere realizzate sulla base della d.i.a. e può esercitare i poteri di vigilanza e sanzionatori previsti dall’ordinamento” (sez. IV, sent. 12.02.2010 n. 781), avendo specificato che “l’esercizio dei poteri di vigilanza e repressivi rappresenta, in via generale, una delle imprescindibili modalità di cura dell’interesse pubblico affidato all’una od all’altra branca dell’amministrazione ed è espressione del principio di buon andamento, di cui all’art. 97, Cost.”, e che “nella specifica materia dell’attività urbanistico-edilizia, un potere specifico di vigilanza (esercitabile, per la sua stessa natura, anche mediante provvedimenti innominati), vòlto ad assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi, è affidato dalla legge al dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale (art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001)” (sez. IV, sent. 25.11.2008 n. 5811)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.03.2014 n. 1084 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVII ricorrenti, nipoti della comune dante e chiamati all’eredità a seguito di rinuncia degli stretti congiunti che li precedono in linea di successione, non hanno mai assunto la qualità di eredi, avendo essi stessi rinunciato con atto a rogito del notaio.
Pertanto, è illegittima l'ordinanza adottata nei loro confronti per la messa in sicurezza dell'immobile pericolante.

... per l'annullamento dell’ordinanza n. 32 del 15.04.2013 della Direzione Urbanistica Edilità-Servizio Risanamento Città Vecchia del Comune di Taranto;
...
Il ricorso è fondato.
I ricorrenti, nipoti della comune dante causa, sig.ra A.M.A., deceduta in data 19.01.2012 e chiamati all’eredità a seguito di rinuncia degli stretti congiunti che li precedono in linea di successione, non hanno mai assunto la qualità di eredi, avendo essi stessi rinunciato con atto a rogito del notaio Francesco Pizzuti il 21.06.2013.
Ora, ai sensi dell'art. 459 del c.c., l’eredità si acquista solo con l'accettazione (470 e seguenti c.c.), il cui effetto, retroattivo, risale al momento dell’apertura della successione (456 c.c., 1146 c.c.).
L'accettazione, in particolare, ai sensi dell'art. 474 cc., può essere espressa o tacita: è espressa quando, in un atto pubblico (2699 c.c.) o in una scrittura privata (2702 c.c.), il chiamato all'eredità ha dichiarato di accettarla oppure ha assunto il titolo di erede (2648 c.c.); è, invece, tacita quando il chiamato all'eredità compie un atto che presuppone necessariamente la sua volontà di accettare e che non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede (527 c.c.).
Ora, i ricorrenti in nessuna occasione hanno espresso la volontà di accettare alcuna eredità con atto pubblico o con scrittura privata o né hanno assunto comportamenti che in alcun modo potessero presuppone la volontà di assumere la qualifica di erede della comune ascendente, non acquisendo nemmeno il possesso dell’immobile.
Né vale all’uopo richiamare, al fine di fondarne la legittimazione passiva come fatto dalla difesa dell’ente comunale, il disposto di cui all’art. 460, comma 2, c.c., a norma del quale il chiamato all’eredità (delato) è già titolare di una serie di poteri conservativi, di vigilanza e di amministrazione. Tale disposizione contempla una mera facoltà e non un obbligo in capo al delato, tanto che, in caso di successiva rinuncia, le spese eventualmente sostenute sono a carico esclusivo dell’eredità.
Ciò premesso, deve ritenersi che i ricorrenti, in quanto non proprietari né titolari di altro diritto reale sull’immobile necessitante la messa in sicurezza non possano essere ritenuti legittimi destinatari dell’ordinanza gravata.
Per quanto sopra esposto, il ricorso va accolto, assorbite le ulteriori censure dedotte (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 26.02.2014 n. 672 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICIL’evoluzione subita dall’istituto dell’occupazione acquisitiva e il suo superamento da parte dell’ordinamento portano al risultato che le occupazioni illegittimamente disposte dall’Amministrazione, seppure accompagnate dall’irreversibile trasformazione dei beni occupati, non comportano la perdita della proprietà in capo ai privati e la sua acquisizione alla mano pubblica.
Nell’attuale quadro normativo, l’Amministrazione ha l’obbligo giuridico di fare venire meno, in ogni caso, l’occupazione “sine titulo” e, quindi, di adeguare comunque la situazione di fatto a quella di diritto. In tal senso, la P.A. ha due sole alternative: o deve restituire i terreni ai titolari, demolendo quanto realizzato e disponendo la completa riduzione in pristino allo “status quo ante”, oppure deve attivarsi perché vi sia un titolo di acquisto dell’area da parte del soggetto attuale possessore.
Non è, pertanto, possibile per le Amministrazioni restare inerti a fronte di situazioni di illecito permanente connesso con le occupazioni usurpative. Ne consegue che, in assenza di legittimi provvedimenti ablatori o di contratti di acquisto delle relative aree o di provvedimenti di acquisizione ex art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, deve affermarsi il potere dovere di far luogo alla materiale rimozione delle opere che risultano senza titolo e alla restituzione ai proprietari.
Ciò posto, ferma la natura discrezionale del provvedimento di cui all’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, che ha previsto un meccanismo, postumo, di acquisizione coattiva del bene, per cui è prevista una valutazione degli “interessi in conflitto”, il privato può legittimamente domandare l’emissione del provvedimento di acquisizione o, in difetto, la restituzione del fondo con la sua riduzione in pristino e l’Amministrazione ha, a fronte dell’istanza del privato, l’obbligo di provvedere.
A prescindere dall'esistenza di una specifica disposizione normativa, l'obbligo di provvedere sussiste in tutte quelle fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia ed equità impongano l'adozione di un provvedimento, cioè in tutte quelle ipotesi in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni di quest'ultima.
Ora, essendo trascorsi i termini per la conclusione del procedimento, l’Amministrazione è venuta meno al proprio dovere di concludere il procedimento con atto espresso e motivato come disposto dall’art. 2 della l. n. 241/1990.

... per l'accertamento dell’illegittimità del silenzio serbato dal Comune di Avetrana avverso l'atto di diffida presentato dalla ricorrente in data 03.05.2013 per la restituzione delle particelle del foglio di mappa 26 di cui è proprietaria: ...
...
Il ricorso è fondato.
L'inerzia serbata dal Comune sulla richiesta della ricorrente non risulta giustificata.
L’evoluzione subita dall’istituto dell’occupazione acquisitiva e il suo superamento da parte dell’ordinamento portano al risultato che le occupazioni illegittimamente disposte dall’Amministrazione, seppure accompagnate dall’irreversibile trasformazione dei beni occupati, non comportano la perdita della proprietà in capo ai privati e la sua acquisizione alla mano pubblica (Cass. Civ., II, 14.01.2013, n. 705).
Nell’attuale quadro normativo, l’Amministrazione ha l’obbligo giuridico di fare venire meno, in ogni caso, l’occupazione “sine titulo” e, quindi, di adeguare comunque la situazione di fatto a quella di diritto. In tal senso, la P.A. ha due sole alternative: o deve restituire i terreni ai titolari, demolendo quanto realizzato e disponendo la completa riduzione in pristino allo “status quo ante”, oppure deve attivarsi perché vi sia un titolo di acquisto dell’area da parte del soggetto attuale possessore. Non è, pertanto, possibile per le Amministrazioni restare inerti a fronte di situazioni di illecito permanente connesso con le occupazioni usurpative. Ne consegue che, in assenza di legittimi provvedimenti ablatori o di contratti di acquisto delle relative aree o di provvedimenti di acquisizione ex art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, deve affermarsi il potere dovere di far luogo alla materiale rimozione delle opere che risultano senza titolo e alla restituzione ai proprietari (Cons. St., IV, 26.03.2013, n. 1713).
Ciò posto, ferma la natura discrezionale del provvedimento di cui all’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, che ha previsto un meccanismo, postumo, di acquisizione coattiva del bene, per cui è prevista una valutazione degli “interessi in conflitto”, il privato può legittimamente domandare l’emissione del provvedimento di acquisizione o, in difetto, la restituzione del fondo con la sua riduzione in pristino e l’Amministrazione ha, a fronte dell’istanza del privato, l’obbligo di provvedere.
A prescindere dall'esistenza di una specifica disposizione normativa, l'obbligo di provvedere sussiste in tutte quelle fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia ed equità impongano l'adozione di un provvedimento, cioè in tutte quelle ipotesi in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni di quest'ultima.
Ora, essendo trascorsi i termini per la conclusione del procedimento, l’Amministrazione è venuta meno al proprio dovere di concludere il procedimento con atto espresso e motivato come disposto dall’art. 2 della l. n. 241/1990.
Il ricorso va pertanto accolto e per l’effetto dichiarata l’illegittimità del silenzio serbato dall’Amministrazione comunale (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 26.02.2014 n. 669 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di silos costituisce di per sé intervento di nuova costruzione, soggetto come tale a concessione edilizia, ed ora a permesso di costruire, poiché si tratta, come notorio, di strutture di grandi dimensioni, ancorate in modo stabile al suolo.
La Cassazione ha poi escluso in modo espresso che si possa trattare di volumi tecnici, atteso che questi sono opere edilizie prive di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, volte ad alloggiare impianti serventi di una costruzione principale; quelli sono “autonome costruzioni tecnologicamente predisposte alla conservazione e allo stoccaggio di prodotti alimentari o minerali”.

... per l’annullamento del provvedimento 05.08.2009 prot. n. 3852, notificato il giorno 11.08.2008, con la quale il Responsabile del Servizio edilizia privata del Comune di Piancamuno ha impartito alla Carbofer S.r.l. ordine motivato di non effettuare l’intervento di cui alla denuncia inizio attività – DIA 19.06.2009, consistente nella installazione di nuovi silos presso il compendio sito alla locale via delle Sorti 1, sul terreno distinto al catasto comunale al foglio 3, mappale 256, subalterno 2;
...
Il primo motivo di ricorso, incentrato sulla presunta natura di “volumi tecnici” dei silos per cui è causa, è infondato e va respinto.
Così come ritenuto già da TAR Veneto sez. II 21.11.2003 n. 5840 e da questo TAR con sentenza 10.09.2004 n. 1075, e da ultimo da Cass. civ. sez. II 25.05.2012 n. 6356, la realizzazione di silos costituisce di per sé intervento di nuova costruzione, soggetto come tale a concessione edilizia, ed ora a permesso di costruire, poiché si tratta, come notorio, di strutture di grandi dimensioni, ancorate in modo stabile al suolo.
Cass. civ. sez. III 26.11.2012 n. 20866 ha poi escluso in modo espresso che si possa trattare di volumi tecnici, atteso che questi sono opere edilizie prive di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, volte ad alloggiare impianti serventi di una costruzione principale; quelli sono “autonome costruzioni tecnologicamente predisposte alla conservazione e allo stoccaggio di prodotti alimentari o minerali”.
Nel caso di specie, non constano elementi di fatto volti a sostenere una diversa conclusione (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 26.02.2014 n. 213 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: L’affidamento provvisorio della gestione dei campi da calcio e servizi annessi del capoluogo, per un periodo massimo di mesi tre e senza oneri a carico del Comune, disposto con delibera di Giunta non rientra in alcuna delle ipotesi specificate all’art. 42 (competenze del Consiglio) del né in quelle di cui all’art. 107 (competenze della Dirigenza) con la conseguenza che non può che rientrare nella competenza residuale della Giunta comunale ai sensi dell’art. 48.
... per l'annullamento dell’affidamento provvisorio della gestione dei campi da calcio e servizi annessi del capoluogo, per un periodo massimo di mesi tre e senza oneri a carico del Comune, disposto con delibera di Giunta n. 151 del 28.12.2012 in favore dell’odierna controinteressata;
...
Quanto al dedotto profilo di competenza, la ricorrente allega la violazione degli artt. 42 e 107 del D.Lgs. n. 267/2000 affermando genericamente che la proroga impugnata rientrerebbe nelle competenze del Consiglio comunale o, al più, della dirigenza.
Anche tale secondo motivo è infondato.
Sul punto deve rilevarsi che il provvedimento impugnato non rientra in alcuna delle ipotesi specificate all’art. 42 (competenze del Consiglio) del né in quelle di cui all’art. 107 (competenze della Dirigenza) con la conseguenza che non può che rientrare nella competenza residuale della Giunta comunale ai sensi dell’art. 48 (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 11.02.2014 n. 40 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: La mitigazione del rumore con apposite barriere è una misura di prevenzione materiale degli effetti dell’inquinamento acustico che va applicata secondo scelte tecniche da operare non in ragione del solo costo economico ma anche, nei limiti di ragionevolezza e proporzionalità, degli effetti e della incidenza sugli interessi potenzialmente lesi da quell’inquinamento.
In questo quadro, una barriera di mitigazione materiale del rumore da alta velocità ferroviaria applicata al ricettore anziché –come qui domandato- alla sorgente appare irragionevole e sproporzionata. Essa infatti appare muovere dalla considerazione del fenomeno dell’inquinamento acustico come danno da circoscrivere a un puntuale immobile che ne sia destinatario nella sua oggettiva materialità e nel suo uso dal solo interno, quasi si tratti di un bilaterale rapporto di scontato danno a cose anziché di prevenzione di un effetto diffuso nell’ambiente circostante.
Invece si tratta di contenere l’emissione, piuttosto che prevenire l’immissione, di danni e disagi diffusi, da propagazione in incertam personam, che compromettono beni primari come la salute umana e la qualità della vita (quiete) e la stessa consistenza materiale delle cose altrui. Dunque va considerato che, ai fini dell’abbattimento del rumore ferroviario mediante schermi fonoassorbenti o altri mezzi passivi di contenimento, l’immobile andava seriamente preso in considerazione come un ambiente di vita, con tanto di spazio circostante, dal quale si va e si viene, ed eventualmente (come è qui stato rappresentato) anche di una fonte di reddito d’impresa.
Del resto, lo stesso art. 2, comma 1, della legge 26.10.1995, n. 447 (Legge quadro sull'inquinamento acustico) definisce [lett. a)] “inquinamento acustico” tra l’altro “l'introduzione di rumore nell'ambiente abitativo o nell'ambiente esterno”; e (lett. e)) per “ricettore” non solo l’edificio ma anche “le relative aree esterne di pertinenza” ed altre aree all’aperto. E l’art. 4, comma 2, del d.P.R. n. 459 del 1998 enuncia con evidenza il principio di una preferenza per le opere di mitigazione sulla sorgente che non può, anche ai fini di un’interpretazione costituzionalmente orientata (artt. 3 e 32 Cost.), non essere considerato come tendenzialmente generale.
Perciò, nei termini in cui è materialmente possibile, la mitigazione materiale va senz’altro applicata “a monte”, vale a dire nella maggior prossimità possibile alla sorgente del rumore, in quanto posizione che massimizza l’effetto schermante. A fronte di tali considerazioni circa i beni sostanziali toccati, non appaiono ragionevoli valutazioni restrittive, che possono apparire surrettiziamente tese a mantenere integra, in loro danno, l’esternalizzazione del costo dell’inquinamento.

Vengono in decisione gli appelli proposti da RFI-Rete Ferroviaria Italiana s.p.a. e dal Consorzio Alta Velocità Torino-Milano per ottenere la riforma della sentenza, di estremi indicati in epigrafe, con la quale il Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte ha accolto il ricorso proposto dal signor F.P. e per l’effetto, ha annullato parzialmente, nella parte riferita agli interventi sulla proprietà del ricorrente, la delibera n. 65 del 02.05.2007, con la quale è stata approvata la variante per gli interventi di mitigazione acustica su ricettori isolati lungo la sub tratta AV/AC “Torino-Novara”, della tratta AV/AC “Torino-Milano”.
Con la variante progettuale impugnata, si è prevista la sostituzione di una barriera fonoassorbente-fonoriflettente, inizialmente prevista lungo la linea ferroviaria, con un intervento di mitigazione acustica sull’immobile di proprietà del ricorrente (destinata ad albergo e ad abitazione) e, quindi, esclusivamente sul ricettore.
Secondo il Tribunale amministrativo regionale, tale soluzione non è rispettosa del dettato normativo -art. 11 (Regolamenti di esecuzione) legge 26.10.1995, n. 447 e art. 4 d.P.R. 18.11.1998, n. 459-, che impone le soluzioni di mitigazione acustica da adottare secondo una scala di gerarchia, in base alla quale occorre preliminarmente intervenire sulla sorgente adottando le migliori tecnologie disponibili. La soluzione adottata dall’Amministrazione, al contrario, prevedendo esclusivamente l’intervento sul ricettore non rispetta la scala di priorità normativamente imposta e risulta giustificata da esclusive ragioni economiche che, tuttavia, secondo la sentenza appellata, non sono consentite dalla normativa vigente.
...
Nel merito, gli appelli sono infondati in quanto non può condividersi l’interpretazione, prospettata dagli appellanti RFI-Rete Ferroviaria Italiana s.p.a. e Consorzio Alta Velocità Torino-Milano, dell’art. 4 (Infrastrutture di nuova realizzazione con velocità di progetto superiore a 200 km/h) del d.P.R. 18.11.1998, n. 459 (Regolamento recante norme di esecuzione dell'articolo 11 della legge 26.10.1995, n. 447, in materia di inquinamento acustico derivante da traffico ferroviario), secondo cui valutazioni di opportunità, basate anche solo su mere ragioni di convenienza economica, potrebbero giustificare l’imposizione di soluzioni di mitigazione acustica sul ricettore anziché sulla sorgente del rumore.
Invero, la mitigazione del rumore con apposite barriere è una misura di prevenzione materiale degli effetti dell’inquinamento acustico che va applicata secondo scelte tecniche da operare non in ragione del solo costo economico ma anche, nei limiti di ragionevolezza e proporzionalità, degli effetti e della incidenza sugli interessi potenzialmente lesi da quell’inquinamento.
In questo quadro, una barriera di mitigazione materiale del rumore da alta velocità ferroviaria applicata al ricettore anziché –come qui domandato- alla sorgente appare irragionevole e sproporzionata. Essa infatti appare muovere dalla considerazione del fenomeno dell’inquinamento acustico come danno da circoscrivere a un puntuale immobile che ne sia destinatario nella sua oggettiva materialità e nel suo uso dal solo interno, quasi si tratti di un bilaterale rapporto di scontato danno a cose anziché di prevenzione di un effetto diffuso nell’ambiente circostante. Invece si tratta di contenere l’emissione, piuttosto che prevenire l’immissione, di danni e disagi diffusi, da propagazione in incertam personam, che compromettono beni primari come la salute umana e la qualità della vita (quiete) e la stessa consistenza materiale delle cose altrui. Dunque va considerato che, ai fini dell’abbattimento del rumore ferroviario mediante schermi fonoassorbenti o altri mezzi passivi di contenimento, l’immobile andava seriamente preso in considerazione come un ambiente di vita, con tanto di spazio circostante, dal quale si va e si viene, ed eventualmente (come è qui stato rappresentato) anche di una fonte di reddito d’impresa.
Del resto, lo stesso art. 2, comma 1, della legge 26.10.1995, n. 447 (Legge quadro sull'inquinamento acustico) definisce [lett. a)] “inquinamento acustico” tra l’altro “l'introduzione di rumore nell'ambiente abitativo o nell'ambiente esterno”; e (lett. e)) per “ricettore” non solo l’edificio ma anche “le relative aree esterne di pertinenza” ed altre aree all’aperto. E l’art. 4, comma 2, del d.P.R. n. 459 del 1998 enuncia con evidenza il principio di una preferenza per le opere di mitigazione sulla sorgente che non può, anche ai fini di un’interpretazione costituzionalmente orientata (artt. 3 e 32 Cost.), non essere considerato come tendenzialmente generale.
Perciò, nei termini in cui è materialmente possibile, la mitigazione materiale va senz’altro applicata “a monte”, vale a dire nella maggior prossimità possibile alla sorgente del rumore, in quanto posizione che massimizza l’effetto schermante. A fronte di tali considerazioni circa i beni sostanziali toccati, non appaiono ragionevoli valutazioni restrittive, che possono apparire surrettiziamente tese a mantenere integra, in loro danno, l’esternalizzazione del costo dell’inquinamento.
Il quadro normativo di riferimento imponeva dunque, nel caso di specie, all’Amministrazione di seguire, come bene ritenuto dal Tribunale amministrativo regionale, una linea di priorità volta a privilegiare, sulla base delle tecnologie disponibili, la soluzione meno gravosa per la proprietà e la vita limitrofa.
Poiché tale priorità è stata disattesa senza alcuna plausibile motivazione, la scelta progettuale adottata risulta illegittima. La sentenza appellata merita, quindi, conferma
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.01.2014 n. 35 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In caso di determinazioni amministrative di segno negativo fondate su una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali di per sé idonea a supportare la parte dispositiva del provvedimento, è sufficiente che una sola resista al vaglio giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti indenne.
Tanto è sufficiente per ritenere non illegittimo, rispetto alla censura svolta, l’annullamento in autotutela qui contestato.
La motivazione dell’atto investita dal motivo d’appello finora esaminato è infatti autonomamente in grado di giustificare la determinazione finale, per cui va fatta applicazione del principio, costante nella giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, secondo cui in caso di determinazioni amministrative di segno negativo fondate su una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali di per sé idonea a supportare la parte dispositiva del provvedimento, è sufficiente che una sola resista al vaglio giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti indenne, risultando conseguentemente privo di utilità l’esame delle altre censure (per le più recenti pronunce: Cons. Stato, IV, 05.04.2013, n. 1902; VI, 04.11.2013, n. 5286, 04.10.2013, n. 4901, 16.05.2013, n. 2664, 06.05.2013, n. 2409, 30.04.2013, n. 2360, 30.04.2013, n. 2360)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.01.2014 n. 25 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il preavviso di provvedimento negativo non si applica al subprocedimento di annullamento soprintendentizio, che è volto all’annullamento, in tempi stretti e perentori, dell’autorizzazione paesaggistica sub specie di riesame di quell’atto da parte dell’Autorità statale, che si configura come una fase di riscontro della già ritenuta possibilità giuridica di mutare lo stato dei luoghi.
Si può passare ai motivi di ordine procedimentale, volti a stigmatizzare l’omessa comunicazione di avvio del procedimento di annullamento in autotutela e del preavviso di rigetto.
A questo riguardo, è il caso di richiamare quanto già considerato dalla consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato.
Per quanto concerne la comunicazione di avvio del subprocedimento di annullamento soprintendentizio, vale considerare in punto di fatto che -come bene ha rilevato la sentenza impugnata- la ricorrente ha comunque avuto effettiva conoscenza dell’avvio del procedimento tanto che vi ha partecipato attivamente (ha del resto dato atto con lettera 31.03.2005 che il suo amministratore dott. G.S. aveva partecipato con i funzionari della Soprintendenza al sopralluogo del 10.03.2005, facendo presente “la situazione di lavori di urbanizzazione specificando senza ombra di dubbio che la realizzazione del reticolo stradale era stata già completata con gli interventi del 1989 e del 1997”). Era pertanto stata assicurata, quanto meno in via di fatto, la partecipazione procedimentale del soggetto destinatario del provvedimento finale e raggiunto comunque lo scopo partecipativo che è proprio dell’invocata comunicazione. Il che rende la doglianza comunque non fondata (es. Cons. Stato, IV, 15.12.2011, n. 6618; IV, 18.04.2012, n. 2286.).
Per quanto concerne la pretesa violazione dell’art. 10-bis della l. n. 241 del 1990 (introdotto dalla l. 11.02.2005, n. 15, cioè prima dell’impugnato decreto del 16.03.2005), vale rammentare che il preavviso di provvedimento negativo non si applica a questo tipo di procedimento, che è volto all’annullamento, in tempi stretti e perentori, dell’autorizzazione paesaggistica sub specie di riesame di quell’atto da parte dell’Autorità statale, e che si configura come una fase di riscontro della già ritenuta possibilità giuridica di mutare lo stato dei luoghi (es. Cons. Stato, Ad. plen. 14.12.2001, n. 9; VI, 27.08.2010, n. 5980; VI, 10.12.2010 n. 8704; Cons. Stato, VI, 21.09.2011, n. 5293; VI, 27.11.2012, n. 5977; II, 11.01.2011, n. 4931/09).
Stante il carattere dirimente di queste considerazioni, è dunque appena il caso di rilevare che la pretesa omissione –visto il detto contrasto con la previsione di legge regionale- appare comunque una mera irregolarità formale non invalidante l’atto conclusivo, ai sensi dell'art. 21-octies, comma 2, prima parte della legge n. 07.08.1990, n. 241, perché il contenuto dispositivo di quest’ultimo non avrebbe potuto essere diverso (tra le altre, per il preavviso di rigetto: Cons. Stato, IV, 06.12.2013, n. 5818, 24.09.2013, n. 4693, 04.09.2013, n. 4448, 20.02.2013, n. 1056, 07.12.2012, n. 6265, 16.02.2012, n. 823; Sez. V, 03.05.2012, n. 2548; Sez. VI, 02.02.2012, n. 585; per l’omessa comunicazione di avvio del procedimento: Sez. IV, 26.11.2013, n. 5615, 17.09.2012, n. 4925, 25.06.2013, n. 3458; Sez. V, 26.11.2013, n. 5609, 20.11.2013, n. 5465, 26.09.2013, n. 4764, 15.07.2013, n. 3803; Sez. VI, 04.10.2013 n. 4896)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.01.2014 n. 25 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIE' pacifico il principio che l'organo di Amministrazione attiva nella fase istruttoria del procedimento possa munirsi ai fini del decidere -a sua discrezione ed indipendentemente da espressa previsione normativa- di valutazioni, sotto il profilo tecnico o giuridico, provenienti da altri organi con specifica qualificazione; questi sono quindi chiamati ad esprimere il proprio avviso sull'oggetto del provvedere, che ha natura di parere facoltativo perché non obbligatoriamente previsto da norma di legge o di regolamento e che non vincola l'organo al quale è rilasciato.
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Il potere di autotutela amministrativa mediante annullamento degli atti rappresenta, ai sensi dell’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990, una facoltà attribuita all’Amministrazione in presenza di provvedimenti ritenuti illegittimi, che si esercita previa valutazione delle ragioni di pubblico interesse.
La richiesta avanzata dai privati d’esercizio dell’autotutela è da considerarsi “una mera denuncia, con funzione sollecitatoria, (che) non fa sorgere in capo all’amministrazione alcun obbligo di provvedere”.
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Nel caso in cui il provvedimento amministrativo sia sorretto da più ragioni giustificatrici fra loro autonome è sufficiente a sorreggere la legittimità dell'atto la conformità a legge anche di una sola di esse.

Tale circostanza risulta, peraltro, confermata dalla giurisprudenza che sebbene riferita ad una fattispecie non del tutto analoga, ritiene che “è pacifico il principio che l'organo di Amministrazione attiva nella fase istruttoria del procedimento possa munirsi ai fini del decidere -a sua discrezione ed indipendentemente da espressa previsione normativa- di valutazioni, sotto il profilo tecnico o giuridico, provenienti da altri organi con specifica qualificazione; questi sono quindi chiamati ad esprimere il proprio avviso sull'oggetto del provvedere, che ha natura di parere facoltativo perché non obbligatoriamente previsto da norma di legge o di regolamento e che non vincola l'organo al quale è rilasciato” (Cons. di Stato, Sez. VI, 29.02.2008, n. 754).
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Il Collegio osserva che il potere di autotutela amministrativa mediante annullamento degli atti rappresenta, ai sensi dell’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990, una facoltà attribuita all’Amministrazione in presenza di provvedimenti ritenuti illegittimi, che si esercita previa valutazione delle ragioni di pubblico interesse.
Per quanto si è sin qui esposto e per quanto si dirà in seguito alla lettere e), f) e g), contrariamente a quanto affermato dall’appellante, la nota n. 45248 del 2001 non presenta vizi d’illegittimità.
Ne deriva, quindi, che nel caso di specie non vi era alcun obbligo per l’Amministrazione competente di esercitare il potere di autotutela ad essa attribuito, annullando l’atto dirigenziale n. 45248 del 2001, anche in considerazione del fatto che la richiesta avanzata dai privati d’esercizio dell’autotutela è da considerarsi “una mera denuncia, con funzione sollecitatoria, (che) non fa sorgere in capo all’amministrazione alcun obbligo di provvedere” (Cons. di Stato, Sez. VI, 15.05.2012, n. 2774; Sez. VI, 11.02.2013, n. 767).
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A quanto rilevato va, peraltro, aggiunto che secondo una consolidata giurisprudenza, da cui il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi, “nel caso in cui il provvedimento amministrativo sia sorretto da più ragioni giustificatrici fra loro autonome è sufficiente a sorreggere la legittimità dell'atto la conformità a legge anche di una sola di esse” (Cons. di Stato, Sez. VI, 18.05.2012, n. 2894)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.01.2014 n. 12 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Si ampliano le prospettive di applicazione del Permesso di Costruire in deroga allo strumento urbanistico: nuove opportunità per l’edilizia privata?
Il Permesso di Costruire in deroga va rilasciato anche al privato se sono soddisfatte certe condizioni.

E’ quanto precisato dal
TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 28.11.2013 n. 1287, chiarendo alcuni aspetti relativi al rilascio del Permesso di Costruire in deroga per gli edifici privati, istituto introdotto dal Decreto Sviluppo (D.L. 70/2011, convertito in Legge 106/2011).
Infatti, al fine di rilanciare l’attività edilizia e riqualificare le aree urbane degradate, il Decreto Sviluppo ha stabilito anche per gli edifici privati uno speciale procedimento in deroga alle vigenti norme urbanistiche, anche relativamente alla modifica delle destinazioni d’uso, da attuarsi secondo le previsioni dell’art. 14 del D.P.R. 380/2001.
Il Tribunale amministrativo chiarisce che può essere rilasciato un Permesso di Costruire in deroga per edifici privati quando esista un bilanciamento tra interessi pubblici e la convenienza del privato a riqualificare.
In particolare, si è pronunciato sul ricorso contro una delibera comunale, con cui era stato rilasciato il Permesso di Costruire, in deroga alle disposizioni urbanistiche, per la razionalizzazione di un fabbricato a uso terziario di quattordici piani rimasto incompiuto e abbandonato.
L’autorizzazione prevedeva anche il cambio di destinazione d’uso da terziario a residenziale, a condizione che parte dell’edificio fosse destinato all’edilizia convenzionata.
I Giudici hanno confermato la legittimità del Permesso di Costruire in deroga in quanto compatibile con il rilancio dell’edilizia in modo e con gli obiettivi di razionalizzazione e riqualificazione delle aree degradate.
Alla luce di questa Sentenza (e altre richiamate anche nella stessa), si potrebbero aprire nuove prospettive per il rilancio per l’edilizia privata, con l’opportunità di proporre alle Amministrazioni comunali nuove costruzioni o variazioni di destinazioni d’uso per edifici già esistenti in deroga agli strumenti urbanistici, garantendo l’interesse pubblico, come ad esempio alloggi in edilizia convenzionata, impianti sportivi o più in generale interessi urbanistici, edilizi, paesistici e ambientali (TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, n. 375 del 2011) (commento tratto da www.acca.it).
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Sullo speciale procedimento in deroga alle vigenti norme urbanistiche, anche in punto di modifica delle destinazioni d’uso, da attuarsi secondo le previsioni dell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001, di cui all’art. 5, commi 9 ss., del decreto-legge n. 70 del 2011, convertito in legge n. 106 del 2011.
Si deve nel merito correttamente inquadrare la disposizione di legge in base alla quale è stata approvata la “deroga” in favore dell’immobile de quo.
Si tratta, come detto, dell’art. 5, commi 9 ss., del decreto-legge n. 70 del 2011, convertito in legge n. 106 del 2011, mediante il quale il legislatore d’urgenza, al fine di rilanciare l’attività edilizia in modo compatibile con gli obiettivi di razionalizzazione del patrimonio edilizio già esistente e di riqualificazione delle aree urbane degradate, ha stabilito uno speciale procedimento in deroga alle vigenti norme urbanistiche, anche in punto di modifica delle destinazioni d’uso, da attuarsi secondo le previsioni dell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Come è noto, quest’ultima disposizione, al comma 1, così stabilisce: “Il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali è rilasciato esclusivamente per edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico, previa deliberazione del consiglio comunale, nel rispetto comunque delle disposizioni contenute nel decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, e delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia”. Essa è richiamata, in particolare, dall’art. 5, comma 11, del decreto-legge n. 70 del 2011, convertito in legge n. 106 del 2011.
Il richiamo all’art. 14 del testo unico sull’edilizia veicola, anche per questo speciale procedimento introdotto nel 2011, le caratteristiche generali dell’istituto del “permesso di costruire in deroga”, quali già ricostruite dalla giurisprudenza, che siano compatibili con la nuova disciplina.
Si deve trattare, pertanto, di un intervento edilizio circoscritto e predeterminato, che lasci inalterato l’assetto urbanistico del resto della zona in cui lo stesso è ricompreso ed avente natura discrezionale, in quanto emanato all’esito di una comparazione dell’interesse alla realizzazione (o al mantenimento dell’opera) con ulteriori interessi pubblici, come quelli urbanistici, edilizi, paesistici e ambientali.
La rilevanza dell’interesse pubblico nella complessiva operazione è, pertanto, un elemento essenziale dell’istituto coniato nel 2011, il quale qualifica la deroga pur consentita alle disposizioni urbanistiche vigenti sulla base di una scelta politica di opportunità (nonché di compatibilità con l’esistente) che è dalla legge rimessa al Consiglio comunale.
E’ evidente, peraltro, che tale interesse pubblico deve risultare comunque bilanciato con quello privato alla realizzazione o al mantenimento dell’opera, trattandosi pur sempre di un intervento che –a differenza dell’istituto di cui all’art. 14 d.P.R. n. 380 del 2001– va ad interessare un edificio privato (e non pubblico o di pubblico interesse, come richiesto dalla norma richiamata).
In ciò sta pertanto la differenza tra il nuovo procedimento in deroga introdotto dal legislatore d’urgenza del 2011 e quello già conosciuto ex art. 14 d.P.R. n. 380 del 2001: la natura privata, e non pubblica, dell’edificio oggetto dell’intervento, tale pertanto da richiedere una conformazione, in termini di proporzionalità, del sacrificio imposto al privato proprietario a fronte della concessione della “deroga”.
... per l'annullamento della Deliberazione del Consiglio Comunale n. 1 del 17.01.2013 avente per oggetto: "PRATICA EDILIZIA N. 278/2012 DEL 22.05.2012 PROT. N. 21607/2012. PERMESSO DI COSTRUIRE IN DEROGA AI SENSI DELL'ART. 14 D.P.R. N. 380/2001 E S.M.I. E LEGGE N. 106/2011 E S.M.I. PER CAMBIO DESTINAZIONE D'USO DI FABBRICATO TERZIARIO A RESIDENZA E TERZIARIO SITO IN VIA ANTONELLI N. 12 - PROPRIETA' SOCIETA' METROPOLIS S.R.L. - APPROVAZIONE DEROGA";
...
Il Consiglio comunale di Collegno (TO), nell’adunanza del 17.01.2013, ha approvato una delibera (la n. 1/2013) con la quale è stata approvata una “deroga” –rispetto alle vigenti disposizioni urbanistiche di cui al Piano Regolatore Comunale– in favore di un esistente fabbricato, composto da 14 piani fuori terra ed autorimesse interrate, ubicato in via Antonelli n. 12, di proprietà della società Metropolis s.r.l..
Si tratta di un edificio già autorizzato a destinazione terziaria, la cui costruzione fu iniziata nel quadro di un Piano Esecutivo Convenzionato del 1993, ma poi rimasto incompiuto ed abbandonato. La delibera comunale è stata adottata ai sensi dell’art. 5, commi 9 ss., del decreto-legge n. 70 del 2011, convertito in legge n. 106 del 2011, ossia al fine di recuperare l’edificio per ragioni di “razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente” e per consentire il successivo “rilascio del permesso di costruire in deroga ai sensi dell’art. 14 D.P.R. 380/2001”, con cambio di destinazione d’uso da terziario in terziario-residenziale.
Al contempo è stata però stabilita la condizione che la proprietà destini ad edilizia convenzionata una quota del 50% degli alloggi da realizzare.
Siffatto provvedimento è impugnato dinnanzi a questo TAR dalla società Centro Servizi Sistemi d’Impresa s.r.l. che ne domanda l’annullamento previa sospensione cautelare. La ricorrente riferisce di essere proprietaria di un immobile “contiguo”, ragion per la quale essa sarebbe “legittimata a proporre il presente ricorso”. In diritto il gravame è affidato ad una pluralità di censure, riconducibili ora alla violazione di legge (in particolare, dell’art. 5, commi 9 ss., del citato decreto-legge n. 70 del 2011, e delle norme tecniche di attuazione del PRG comunale), ora all’eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione.
...
Il ricorso non è fondato.
Prescindendosi dall’esame della preliminare eccezione di difetto di interesse –rispetto alla quale, peraltro, va osservato che la ricorrente, pur qualificandosi proprietaria di un immobile “contiguo”, non ha però indicato il pregiudizio concretamente subito per effetto dell’impugnata delibera, così lasciando nell’ombra il pregiudiziale profilo della propria legittimazione ad agir– si deve nel merito correttamente inquadrare la disposizione di legge in base alla quale è stata approvata la “deroga” in favore dell’immobile de quo.
Si tratta, come detto, dell’art. 5, commi 9 ss., del decreto-legge n. 70 del 2011, convertito in legge n. 106 del 2011, mediante il quale il legislatore d’urgenza, al fine di rilanciare l’attività edilizia in modo compatibile con gli obiettivi di razionalizzazione del patrimonio edilizio già esistente e di riqualificazione delle aree urbane degradate, ha stabilito uno speciale procedimento in deroga alle vigenti norme urbanistiche, anche in punto di modifica delle destinazioni d’uso, da attuarsi secondo le previsioni dell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Come è noto, quest’ultima disposizione, al comma 1, così stabilisce: “Il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali è rilasciato esclusivamente per edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico, previa deliberazione del consiglio comunale, nel rispetto comunque delle disposizioni contenute nel decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, e delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia”. Essa è richiamata, in particolare, dall’art. 5, comma 11, del decreto-legge n. 70 del 2011, convertito in legge n. 106 del 2011.
Il richiamo all’art. 14 del testo unico sull’edilizia veicola, anche per questo speciale procedimento introdotto nel 2011, le caratteristiche generali dell’istituto del “permesso di costruire in deroga”, quali già ricostruite dalla giurisprudenza, che siano compatibili con la nuova disciplina.
Si deve trattare, pertanto, di un intervento edilizio circoscritto e predeterminato, che lasci inalterato l’assetto urbanistico del resto della zona in cui lo stesso è ricompreso (così, con riferimento all’istituto ex art. 14 d.P.R. n. 380 del 2001, TAR Campania, Salerno, sez. II, n. 1803 del 2011) ed avente natura discrezionale, in quanto emanato all’esito di una comparazione dell’interesse alla realizzazione (o al mantenimento dell’opera) con ulteriori interessi pubblici, come quelli urbanistici, edilizi, paesistici e ambientali (così, sempre sul permesso di costruire in deroga, TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, n. 375 del 2011).
La rilevanza dell’interesse pubblico nella complessiva operazione è, pertanto, un elemento essenziale dell’istituto coniato nel 2011, il quale qualifica la deroga pur consentita alle disposizioni urbanistiche vigenti sulla base di una scelta politica di opportunità (nonché di compatibilità con l’esistente) che è dalla legge rimessa al Consiglio comunale.
E’ evidente, peraltro, che tale interesse pubblico deve risultare comunque bilanciato con quello privato alla realizzazione o al mantenimento dell’opera, trattandosi pur sempre di un intervento che –a differenza dell’istituto di cui all’art. 14 d.P.R. n. 380 del 2001– va ad interessare un edificio privato (e non pubblico o di pubblico interesse, come richiesto dalla norma richiamata).
In ciò sta pertanto la differenza tra il nuovo procedimento in deroga introdotto dal legislatore d’urgenza del 2011 e quello già conosciuto ex art. 14 d.P.R. n. 380 del 2001: la natura privata, e non pubblica, dell’edificio oggetto dell’intervento, tale pertanto da richiedere una conformazione, in termini di proporzionalità, del sacrificio imposto al privato proprietario a fronte della concessione della “deroga” (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 28.11.2013 n. 1287 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAPer variante allo strumento urbanistico deve intendersi la modifica generale ed astratta della destinazione urbanistica ovvero delle prescrizioni, dei parametri o degli standard, relativa ad un’intera zona territoriale;
Per deroga allo strumento urbanistico deve invece intendersi un mutamento limitato ad un intervento edilizio circoscritto e predeterminato, che lasci inalterato l’assetto urbanistico del resto della zona in cui lo stesso è ricompreso, da realizzare nel più ristretto alveo delle possibilità concesse dall’art. 14 D.P.R. 06.06.2001 n. 380.

I due sostantivi (variante e deroga), che non a caso il legislazione regionale utilizza in forma alternativa nei vari commi di cui si compone l’art. 7, non sono assimilabili tra loro: per variante allo strumento urbanistico deve infatti intendersi la modifica generale ed astratta della destinazione urbanistica ovvero delle prescrizioni, dei parametri o degli standard, relativa ad un’intera zona territoriale; per deroga allo strumento urbanistico deve invece intendersi un mutamento limitato ad un intervento edilizio circoscritto e predeterminato, che lasci inalterato l’assetto urbanistico del resto della zona in cui lo stesso è ricompreso, da realizzare nel più ristretto alveo delle possibilità concesse dall’art. 14 D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (TAR Campania-Salerno, Sez. II, Sez. II, sentenza 09.11.2011 n. 1803 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici - Rilascio al di fuori dei casi previsti dalla legge - Violazione - Normativa antisimica e vincoli paesaggistici - Fattispecie - Artt. 14 e 44, lett. b), D.P.R. n. 380/2001 - Art. 146 D.L.vo n. 42/2004 - Art. 7 D.M. n. 1444/1968.
Il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici è istituto di carattere eccezionale giustificato dalla necessità di soddisfare esigenze straordinarie rispetto agli interessi primari garantiti dalla disciplina urbanistica generale e, in quanto tale, applicabile esclusivamente entro i limiti tassativamente previsti dall'articolo 14 D.P.R. 380/2001 e mediante la specifica procedura.
Tale sua particolare natura porta ad escludere che possa essere rilasciato "in sanatoria" dopo l'esecuzione delle opere.
Nella specie, l'intervento edilizio risultava eseguito sulla base di un permesso di costruire in deroga rilasciato al di fuori dei casi previsti dalla legge, mancanza di autorizzazione dell'ente preposto alla tutela del vincolo paesaggistico e violazione della disciplina antisismica e sul cemento armato.
PRG - Permesso di costruire - Rilascio di permessi in deroga - Limiti - Variante urbanistica - Specifica disciplina - Art. 14 D.P.R. n. 380/2001.
La deroga al permesso di costruire non può incidere sulle scelte di tipo urbanistico, potendo operare solo nel caso in cui l'area sia edificabile secondo le previsioni di piano, con la conseguenza che non può ritenersi ammissibile il rilascio di permessi in deroga, ad esempio, per aree a destinazione agricola o a verde pubblico o privato mancando in tal caso il presupposto dell'edificabilità dell'area necessario non per il rilascio in deroga del permesso di costruire ma per il permesso stesso.
Analogamente, si è escluso che la deroga possa riguardare aumenti di volumetria rispetto a quelli oggetto di pianificazione potendo consentire soltanto, a parità di volume edificabile, che l'intervento si concretizzi, ad esempio, con altezza, superficie coperta, destinazione diverse da quelle previste dal PRG. (Cons. Stato Sez. V n. 46, 11.01.2006; Sez. VI n. 4568, 07.08.2003).
Ne consegue che, al di fuori dei limiti indicati dalla disposizione contenuta nell’art. 14 D.P.R. n. 380/2001, viene a configurarsi un'ipotesi di variante urbanistica la cui approvazione è soggetta alla specifica disciplina.
Difetto di motivazione - Configurabilità.
Il difetto di motivazione integra gli estremi della violazione di legge solo quando l'apparato argomentativo che dovrebbe giustificare il provvedimento o manchi del tutto o risulti privo dei requisiti minimi di coerenza, di completezza e di ragionevolezza, in guisa da apparire assolutamente inidoneo a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dall'organo investito del procedimento (Cass. SS. UU. n. 25932, 26/06/2008, Conf. Cass. Sez. V n. 43068, 11/09/2009) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.04.2011 n. 16591 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli immobili di interesse pubblico possono anche essere di proprietà privata, purché la loro destinazione assolva finalità di interesse pubblico (tra l'altro, è stato affermato che anche le strutture alberghiere rientrano fra gli impianti di interesse pubblico).
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Il permesso di costruire in deroga di cui all’art. 14 del d.p.r. n. 380/2001 non è un atto dovuto a fronte della realizzazione di opere di interesse pubblico, ma costituisce un provvedimento discrezionale, emanato all’esito di una comparazione dell’interesse alla realizzazione (o al mantenimento dell’opera) con ulteriori interessi, come quelli urbanistici, edilizi, paesistici e ambientali.

Come affermato dalla giurisprudenza amministrativa, gli immobili di interesse pubblico possono anche essere di proprietà privata, purché la loro destinazione assolva finalità di interesse pubblico (cfr. Cons. St., IV, n. 7031/2005, in cui si chiarisce che anche le strutture alberghiere rientrano fra gli impianti di interesse pubblico).
Il permesso di costruire in deroga di cui all’art. 14 del d.p.r. n. 380/2001 non è un atto dovuto a fronte della realizzazione di opere di interesse pubblico, ma costituisce un provvedimento discrezionale, emanato all’esito di una comparazione dell’interesse alla realizzazione (o al mantenimento dell’opera) con ulteriori interessi, come quelli urbanistici, edilizi, paesistici e ambientali (cfr. Cons. St., n. 4568/2003) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 11.03.2011 n. 375 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Deve smentirsi l’affermazione circa la presunta inderogabilità assoluta della distanza minima di 10 m. tra fabbricati di nuova costruzione, prevista per le Zone omogenee diverse da quella A.
Come noto, l’ordinamento statale consente deroghe alle distanze minime con normative locali, purché siffatte deroghe siano previste in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio.
Tali principi si ricavano dall’art. 873 c.c. e dall’ultimo comma dell’art. 9, d.m. n. 1444 del 1968 emesso ai sensi dell’art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1941, avente efficacia precettiva ed inderogabile, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale.

In primo luogo deve smentirsi l’affermazione circa la presunta inderogabilità assoluta della distanza minima di 10 m. tra fabbricati di nuova costruzione, prevista per le Zone omogenee diverse da quella A.
Come noto, l’ordinamento statale consente deroghe alle distanze minime con normative locali, purché siffatte deroghe siano previste in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio.
Tali principi si ricavano dall’art. 873 c.c. e dall’ultimo comma dell’art. 9, d.m. n. 1444 del 1968 emesso ai sensi dell’art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1941, avente efficacia precettiva ed inderogabile, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale (cfr. Corte cost., 16.06.2005, n. 232; Cass., sez. un., 22.11.1994, n. 9871) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.03.2007 n. 1206 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le norme in materia di concessioni edilizie in deroga devono essere interpretate restrittivamente, e cioè nel senso:
• che le deroghe al p.r.g. non possono travolgere le esigenze di ordine urbanistico a suo tempo recepite nel piano;
• e che non possono costituire oggetto di deroga le destinazioni di zona che attengono all'impostazione stessa del piano regolatore generale e ne costituiscono le norme direttrici, cosicché rientrano tra le prescrizioni derogabili solo le norme di dettaglio, che non involgono i criteri di impostazione e le linee direttrici dello strumento urbanistico.
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L'adozione di un provvedimento concessorio "in deroga" presuppone una congrua valutazione comparativa tra le "eccezionali" ragioni che potrebbero giustificare la deroga e la situazione di diritto e di fatto sulla quale il provvedimento verrebbe ad incidere. Di tale valutazione deve adeguatamente darsi atto nella motivazione del provvedimento.
Nel caso di specie tale congrua motivazione difetta palesemente, essendosi il Consiglio Comunale limitato ad osservare che <la domanda di concessione edilizia ha per oggetto … la realizzazione di una pista di Kart fuoristrada, struttura idonea a favorire la promozione di attività sportivo-ricreative e pertanto di un’opera “di interesse qualificato dalla sua rispondenza ai fini perseguiti dall’Amministrazione Pubblica>, laddove, era, viceversa richiesta una specifica giustificazione in ordine all’effettiva finalità pubblicistica non già di un consueto impianto sportivo, bensì di una così particolare struttura ricreativo-sportiva.

Invero, come ancora correttamente rilevato dalla citata memoria conclusiva, le norme in materia di concessioni edilizie in deroga devono essere interpretate restrittivamente, e cioè nel senso:
• che le deroghe al p.r.g. non possono travolgere le esigenze di ordine urbanistico a suo tempo recepite nel piano;
• e che (diversamente da quanto opinato nelle premesse della deliberazione consiliare n. 23/2002, sulla scorta del richiamo a risalenti pronunce giurisprudenziali) non possono costituire oggetto di deroga le destinazioni di zona che attengono all'impostazione stessa del piano regolatore generale e ne costituiscono le norme direttrici (cfr. da ultimo: TAR Lombardia, Milano, sez. II, 20.12.2004, n. 6486), cosicché rientrano tra le prescrizioni derogabili solo le norme di dettaglio, che non involgono i criteri di impostazione e le linee direttrici dello strumento urbanistico (Consiglio di Stato, Sez. V, 05.11.1999, n. 1841; Sez. IV, 01.07.1997, n. 1057).
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Costituisce, infatti, principio pacifico in giurisprudenza che l'adozione di un provvedimento concessorio "in deroga" presuppone una congrua valutazione comparativa tra le "eccezionali" ragioni che potrebbero giustificare la deroga e la situazione di diritto e di fatto sulla quale il provvedimento verrebbe ad incidere; e che di tale valutazione deve adeguatamente darsi atto nella motivazione del provvedimento (Consiglio Stato, sez. V, 03.02.1997, n. 132, richiamata anche da parte ricorrente): principio recentemente ribadito dallo stesso Consiglio di Stato (Sez. V, 28.06.2004, n. 4759), con riferimento al rilascio di una concessione in deroga al regime delle distanze come disciplinato dal p.r.g..
Orbene, nel caso di specie tale congrua motivazione difetta palesemente, essendosi il Consiglio Comunale limitato ad osservare che <la domanda di concessione edilizia ha per oggetto … la realizzazione di una pista di Kart fuoristrada, struttura idonea a favorire la promozione di attività sportivo-ricreative e pertanto di un’opera “di interesse qualificato dalla sua rispondenza ai fini perseguiti dall’Amministrazione Pubblica>, laddove, era, viceversa richiesta una specifica giustificazione in ordine all’effettiva finalità pubblicistica non già di un consueto impianto sportivo, bensì di una così particolare struttura ricreativo-sportiva
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 21.06.2006 n. 875 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La possibilità di rilasciare permessi di costruire in deroga anche ai limiti di densità edilizia, quando l’intervento corrisponda ad un interesse pubblico, è stata espressamente confermata dall’art. 14 del t.u. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380, senza, però, la limitazione alle sole ipotesi espressamente previste dal piano regolatore e dal regolamento edilizio, come a suo tempo stabilito dall’abrogato art. 41-quater della legge urbanistica n. 1150/1942, e questa nuova previsione del testo unico prevale, ai sensi del relativo l’art. 2, III comma, anche sulle norme regionali sino a quando non saranno ad esso adeguate.
Orbene, proprio perché il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici vigenti è subordinata ad un discrezionale apprezzamento dell’interesse pubblico che ne giustifica il rilascio, è evidente che la sua valutazione attiene al merito amministrativo.
E’ noto, però, che il merito amministrativo non è sindacabile dal Giudice amministrativo, se non per manifesta erroneità o illogicità, che, ad avviso del Collegio, non sono affatto ravvisabili nel caso in esame: infatti, non è affatto di per sé illogico o manifestamente erroneo ravvisare un effettivo interesse generale della collettività a che siano incrementati i servizi svolti anche da soggetti privati nell’ambito di una zona portuale di notoria rilevanza nazionale e internazionale.
Sussistono, inoltre, ad avviso del Collegio, anche i presupposti indicati nell’art. 11, I comma, della legge n. 241/1990, per l’adozione di un accordo sostitutivo del formale provvedimento altrimenti necessario, cioè la sua discrezionalità e la contemporanea presenza, appunto, di un interesse pubblico.

Dall’esame della deliberazione 27.10.2004 n. 132 del Consiglio comunale di Ancona e dell’allegato schema di convenzione, deduce il Collegio che, in sostanza, il Comune di Ancona ha inteso rilasciare –tramite, appunto, accodo sostitutivo del formale provvedimento amministrativo ai sensi dell’art. 11 della legge n. 241/1990- un permesso di costruire “temporaneo” ed in “deroga” -anche se questa ultima espressione non è espressamente menzionata negli atti sopra indicati– ritenendo ciò possibile per due distinti motivi, cioè l’interesse pubblico insito nella realizzazione del progetto, in quanto diretto ad incrementare i servizi svolti nell’ambito dell’area portuale, e la sua conformità alle previsioni del piano particolareggiato esecutivo del Porto, allo stato solo adottato.
La possibilità di rilasciare permessi di costruire in deroga anche ai limiti di densità edilizia, quando l’intervento corrisponda ad un interesse pubblico, è stata, infatti, espressamente confermata dall’art. 14 del t.u. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380, senza, però, la limitazione alle sole ipotesi espressamente previste dal piano regolatore e dal regolamento edilizio, come a suo tempo stabilito dall’abrogato art. 41-quater della legge urbanistica n. 1150/1942, e questa nuova previsione del testo unico prevale, ai sensi del relativo l’art. 2, III comma, anche sulle norme regionali sino a quando non saranno ad esso adeguate.
Orbene, proprio perché il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici vigenti è subordinata ad un discrezionale apprezzamento dell’interesse pubblico che ne giustifica il rilascio, è evidente che la sua valutazione attiene al merito amministrativo.
E’ noto, però, che il merito amministrativo non è sindacabile dal Giudice amministrativo, se non per manifesta erroneità o illogicità, che, ad avviso del Collegio, non sono affatto ravvisabili nel caso in esame: infatti, non è affatto di per sé illogico o manifestamente erroneo ravvisare un effettivo interesse generale della collettività a che siano incrementati i servizi svolti anche da soggetti privati nell’ambito di una zona portuale di notoria rilevanza nazionale e internazionale.
Sussistono, inoltre, ad avviso del Collegio, anche i presupposti indicati nell’art. 11, I comma, della legge n. 241/1990, per l’adozione di un accordo sostitutivo del formale provvedimento altrimenti necessario, cioè la sua discrezionalità e la contemporanea presenza, appunto, di un interesse pubblico.
Per altro verso, neppure sussiste l’impedimento del pregiudizio ai diritti dei terzi, in quanto questi diritti –proprio perché si tratta di accordo sostitutivo di uno specifico provvedimento amministrativo- sono quelli strettamente connessi alla natura ed alle finalità del permesso di costruire, cioè quelli derivanti dalla piena disponibilità dell’area da parte del richiedente e, di contro, dall’assenza di eventuali limitazioni a favore di terzi e sulla stessa gravanti.
Del resto, ipotizzare che ogni pregiudizio, anche indiretto, possa impedire l’utilizzo dell’accordo sostitutivo di un provvedimento amministrativo, comporta, di fatto, la sua inutilità pratica, dal momento che ogni atto amministrativo arreca, in linea di principio, dei vantaggi per alcuni soggetti e dei pregiudizi per altri soggetti (TAR Marche, sentenza 14.06.2006 n. 441 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASotto il profilo formale, il rilasciato titolo edilizio "in deroga" difetta di idonea motivazione.
Trattandosi, invero, di determinazione in deroga rispetto al regime ordinario di PRG, la stessa avrebbe dovuto essere adeguatamente motivata; non si verte più, infatti, al contrario di quanto dedotto dagli appellati, in tema di atto vincolato, ma, al contrario, di provvedimento caratterizzato proprio dalla più ampia discrezionalità (come osservato dal Comune nelle proprie difese, esso poggerebbe, in effetti, su valutazioni discrezionali e di opportunità; salvo, poi, nelle stesse difese affermarsi che, trattandosi di atto vincolato, lo stesso non avrebbe richiesto motivazione alcuna; ma, se si tratta di atto in deroga basato su scelte discrezionali, non può, poi, logicamente parlarsi di vincolatezza dell’atto medesimo).
Per ciò stesso, tale provvedimento -anche in quanto manifestamente in grado di incidere sugli interessi di altri consociati che, nelle norme sulle distanze, vedono legittimi strumenti di tutela sia sotto il profilo di un dignitoso assetto urbanistico, sia sotto quello della tutela dell’incolumità in zona sismica, sia sotto quello, pure sotteso alla disciplina pianificatoria urbanistica, della tutela igienico-sanitaria- avrebbe richiesto una specifica e puntuale motivazione circa le ragioni giustificatrici della deroga e della prevalenza, in particolare, delle considerazioni relative alla coerenza del tessuto urbano sulle altre ora dette.
Ragioni che, si ripete, avrebbero dovuto estendersi anche a considerare l’interesse di quei soggetti, protetti e tutelati dalla disciplina sulle distanze, che il provvedimento stesso era in grado di sacrificare; soggetti che, anche tenuto conto dei principi enucleabili dalla legge n. 241/1990, avrebbero dovuto, quanto meno, poter conoscere, attraverso idonea motivazione dell’atto discrezionale impugnato, le ragioni specifiche poste a supporto di una deroga siffatta e tali da consentire il legittimo sacrificio dell’interesse tutelato ora detto.
Il provvedimento impugnato, per contro, si limita ad esprimere “parere favorevole in quanto la proposta progettuale rispecchia la caratteristica edilizia ed urbanistica della zona”, laddove, dagli atti istruttori allegati alla pratica edilizia, emergeva chiaramente –e la questione era espressamente rimessa alle valutazioni della Commissione edilizia– la problematica relativa al mancato rispetto delle distanze dalle strade comunali; per converso, non affronta assolutamente la tematica relativa alle posizioni tutelate di altri soggetti e, in particolare, all’eventuale presenza in loco di luci o vedute che, data la notevole ristrettezza del vico comunale, sarebbero state, se direttamente prospicienti, sicuramente sacrificate.
Nel difetto di ogni valida motivazione sul punto in questione, il provvedimento appare, per ciò stesso, illegittimo, non potendo, comunque, la motivazione medesima essere integrata in sede defensionale, né, tanto meno, dal giudice chiamato a pronunciarsi sulla controversia insorta in proposito.
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Sotto il profilo sostanziale, vi è da rilevare che le concessioni in deroga possono essere accordate in casi eccezionali ai sensi del disposto di cui all’art. 41-quater della L.U. n. 1150/1942, secondo cui: “i poteri di deroga previsti da norme di piano regolatore e di regolamento edilizio possono essere esercitati limitatamente ai casi di edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico e sempre con l'osservanza dell'art. 3 della legge 21.12.1955, n. 1357. L’autorizzazione è accordata dal sindaco previa deliberazione del Consiglio comunale”.
Ebbene, nella specie non solo i poteri di deroga non sono contemplati dalla norma di PRG, ma la deroga non consegue neppure a delibera consiliare.
Ritenere, poi, che la deroga sia ammissibile in quanto si tratterebbe, nella specie, di intervento edilizio del tutto residuale in un ambito edilizio già completamente asservito all’edificazione, appare conclusione non corretta, sia perché non sorretta da alcun argomento normativo testuale, sia perché si rivela contraria ad elementari principi della logica e del diritto urbanistico, posto che in tal modo il Comune verrebbe a consentire il libero svolgimento di un’attività edificatoria svincolata da qualunque limite o indice che non sia quello di ordine estetico dell’allineamento dei fabbricati, con intuibili effetti devastanti sul corretto assetto dell’insediamento abitativo.
E ciò non senza considerare, inoltre, che l'articolo 3, primo comma, della legge 21.12.1955, n. 1357, prevede che: "il rilascio di licenza edilizia in applicazione di disposizioni le quali consentono ai Comuni di derogare alle norme di regolamento edilizio e di attuazione dei piani regolatori è subordinato al preventivo nulla osta della Sezione urbanistica regionale….”; e che nella specie non vi è stata alcuna richiesta in tal senso.
Ma vi è anche da notare che l’art. 19 delle NTA del PRG non prevede la possibilità di derogare alle altre disposizioni ivi contenute, se è vero che esso stesso disciplina le distanze dai fabbricati, senza alcun riferimento, per queste, a possibili deroghe; e che, laddove prevede che, in margine allo spazio pubblico, la costruzione di edifici di tipo a cortina (che non rientrano nelle ordinarie caratteristiche di zona, che è caratterizzata da edifici isolati) può essere consentita, ciò fa recando deroga solo per quanto attiene alla distanza dalla strada pubblica o dai confini di proprietà, ma non da altri edifici, ancorché da quella separati; e, inoltre, lo fa solo ai fini del “completamento del contorno di un isolato prevalentemente costruito in tal modo, per evitare l’esposizione di muri nudi di frontespizio”, laddove, nel caso in esame, l’isolato di cui si tratta si estendeva per una lunghezza di circa mt. 32, ma era occupato per una lunghezza di soli mt. 14 e, quindi, non poteva logicamente parlarsi di completamento di un isolato già prevalentemente costruito a cortina, dal momento che l’isolato stesso era, in prevalenza almeno, inedificato.
La norma, in conclusione, vale a consentire, essenzialmente, di derogare alla tipologia edilizia di zona, individuata espressamente nell’edilizia a tipo aperto ad edifici isolati, risolti architettonicamente su tutte le fronti, consentendo, così, di realizzare il completamento di edifici a cortina anche in margine allo spazio pubblico; e se, quindi, consente di derogare alla disciplina relativa alle distanze dal ciglio stradale e dai confini di proprietà, non altrettanto fa, invece, con riguardo alla disciplina sulle distanze rispetto ad altri fabbricati che, nel caso di completamento edilizio, è di mt. 12, mentre in caso di ristrutturazione è di mt. 14.
Né, in contrario, può essere utilmente invocato l’art. 31 del locale regolamento edilizio, che consente l’allineamento con riguardo alle nuove costruzioni previste in aderenza con il suolo pubblico; si tratta, infatti, di una disposizione di carattere generale in grado di operare fino a che non si scontri con altre disposizioni con essa incompatibili, quali quelle di cui si discute; la norma, del resto, appare conforme alla disciplina di PRG sugli edifici a cortina, il cui completamento può avvenire anche lungo la strada pubblica e in deroga, dallo stesso PRG ammessa, alla disciplina sulle distanze dalla strada e dai confini, ma non, come si ripete, alla disciplina sulle distanze da altri fabbricati.

Con la sentenza appellata il TAR ha respinto il ricorso proposto dall’odierna appellante per l’annullamento della concessione edilizia 26.01.1995, n. 16, rilasciata al controinteressato, sig. M.B., dal Comune di Reggio Calabria, per la realizzazione di un edificio di civile abitazione in località Gallico.
Per l’appellante la sentenza sarebbe erronea in quanto il titolo edificatorio sarebbe stato rilasciato in dispregio della disciplina urbanistica di zona e di disposizioni normative che non avrebbero ammesso, contrariamente a quanto ritenuto dai primi giudici, il rilascio di concessione in deroga; inoltre, il titolo in questione, pur derogatorio, non sarebbe stato accompagnato da alcuna valida motivazione.
...
4) - Nel merito, deduce, anzitutto, l’appellante che non sarebbero affatto sussistiti i requisiti per accordare la concessione in regime derogatorio e che, comunque, l’Amministrazione non avrebbe offerto alcuna valida motivazione in merito alle ragioni che supportavano la deroga stessa.
Tali censure appaiono fondate.
Lo stesso TAR, con capo di decisione che non è stato fatto oggetto di gravame incidentale da parte del Comune e del controinteressato, ha riconosciuto che, effettivamente, nella specie si sia derogato al regime delle distanze, così come disciplinato dal PRG con riguardo alla zona in questione (pag. 11 della sentenza appellata: “deve, inoltre, evidenziarsi come la questione sottoposta al Collegio –stante la difformità della costruzione assentita dalle prescrizioni di cui all’art. 19 delle NTA relative alle distanze da osservarsi sia con riguardo agli interventi di completamento edilizio, sia di ristrutturazione– coinvolge l’esame della problematica relativa alla possibilità di rilascio di concessioni edilizie in deroga a dette prescrizioni in relazione alle caratteristiche urbanistiche ed edilizie già impresse alla zona sulla quale va ad incidere l’erigenda costruzione”).
Per tale ragione, essendo mancato ogni motivo d’appello incidentale volto a sindacare il riconoscimento, da parte dei primi giudici (in adesione a quanto dedotto dalla ricorrente con il primo motivo dell’originario ricorso), della violazione del disposto sulle distanze di cui all’art. 19 del PRG, ne discende che sulla violazione di tale norma da parte del Comune, in sede di rilascio del titolo concessorio, non è più possibile discutere.
5) - Il discorso si sposta, allora, sulla legittimità della deroga posta a fondamento del provvedimento impugnato.
Ad avviso del Collegio, il rilascio della concessione in deroga appare viziato sia sotto il profilo formale che sotto quello sostanziale.
5.1) - Sotto il profilo formale, il titolo in questione difetta di idonea motivazione.
Trattandosi, invero, di determinazione in deroga rispetto al regime ordinario di PRG, la stessa avrebbe dovuto essere adeguatamente motivata; non si verte più, infatti, al contrario di quanto dedotto dagli appellati, in tema di atto vincolato, ma, al contrario, di provvedimento caratterizzato proprio dalla più ampia discrezionalità (come osservato dal Comune nelle proprie difese, esso poggerebbe, in effetti, su valutazioni discrezionali e di opportunità; salvo, poi, nelle stesse difese affermarsi che, trattandosi di atto vincolato, lo stesso non avrebbe richiesto motivazione alcuna; ma, se si tratta di atto in deroga basato su scelte discrezionali, non può, poi, logicamente parlarsi di vincolatezza dell’atto medesimo).
Per ciò stesso, tale provvedimento -anche in quanto manifestamente in grado di incidere sugli interessi di altri consociati che, nelle norme sulle distanze, vedono legittimi strumenti di tutela sia sotto il profilo di un dignitoso assetto urbanistico, sia sotto quello della tutela dell’incolumità in zona sismica, sia sotto quello, pure sotteso alla disciplina pianificatoria urbanistica, della tutela igienico-sanitaria- avrebbe richiesto una specifica e puntuale motivazione circa le ragioni giustificatrici della deroga e della prevalenza, in particolare, delle considerazioni relative alla coerenza del tessuto urbano sulle altre ora dette.
Ragioni che, si ripete, avrebbero dovuto estendersi anche a considerare l’interesse di quei soggetti, protetti e tutelati dalla disciplina sulle distanze, che il provvedimento stesso era in grado di sacrificare; soggetti che, anche tenuto conto dei principi enucleabili dalla legge n. 241/1990, avrebbero dovuto, quanto meno, poter conoscere, attraverso idonea motivazione dell’atto discrezionale impugnato, le ragioni specifiche poste a supporto di una deroga siffatta e tali da consentire il legittimo sacrificio dell’interesse tutelato ora detto.
Il provvedimento impugnato, per contro, si limita ad esprimere “parere favorevole in quanto la proposta progettuale rispecchia la caratteristica edilizia ed urbanistica della zona”, laddove, dagli atti istruttori allegati alla pratica edilizia, emergeva chiaramente –e la questione era espressamente rimessa alle valutazioni della Commissione edilizia– la problematica relativa al mancato rispetto delle distanze dalle strade comunali; per converso, non affronta assolutamente la tematica relativa alle posizioni tutelate di altri soggetti e, in particolare, all’eventuale presenza in loco di luci o vedute che, data la notevole ristrettezza del vico comunale, sarebbero state, se direttamente prospicienti, sicuramente sacrificate.
Nel difetto di ogni valida motivazione sul punto in questione, il provvedimento appare, per ciò stesso, illegittimo, non potendo, comunque, la motivazione medesima essere integrata in sede defensionale, né, tanto meno, dal giudice chiamato a pronunciarsi sulla controversia insorta in proposito.
5.2) – Sotto il profilo sostanziale, vi è da rilevare che le concessioni in deroga possono essere accordate in casi eccezionali ai sensi del disposto di cui all’art. 41-quater della L.U. n. 1150/1942, secondo cui: “i poteri di deroga previsti da norme di piano regolatore e di regolamento edilizio possono essere esercitati limitatamente ai casi di edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico e sempre con l'osservanza dell'art. 3 della legge 21.12.1955, n. 1357. L’autorizzazione è accordata dal sindaco previa deliberazione del Consiglio comunale”.
Ebbene, nella specie non solo i poteri di deroga non sono contemplati dalla norma di PRG, ma la deroga non consegue neppure a delibera consiliare.
Ritenere, poi, come fa il TAR, che la deroga sia ammissibile in quanto si tratterebbe, nella specie, di intervento edilizio del tutto residuale in un ambito edilizio già completamente asservito all’edificazione, appare conclusione non corretta, sia perché non sorretta da alcun argomento normativo testuale, sia perché si rivela contraria ad elementari principi della logica e del diritto urbanistico, posto che in tal modo il Comune verrebbe a consentire il libero svolgimento di un’attività edificatoria svincolata da qualunque limite o indice che non sia quello di ordine estetico dell’allineamento dei fabbricati, con intuibili effetti devastanti sul corretto assetto dell’insediamento abitativo (cfr. la decisione della Sezione 30.09.2002 n. 5059).
E ciò non senza considerare, inoltre, che l'articolo 3, primo comma, della legge 21.12.1955, n. 1357, prevede che: "il rilascio di licenza edilizia in applicazione di disposizioni le quali consentono ai Comuni di derogare alle norme di regolamento edilizio e di attuazione dei piani regolatori è subordinato al preventivo nulla osta della Sezione urbanistica regionale….”; e che nella specie non vi è stata alcuna richiesta in tal senso (in punto di illegittimità della deroga in carenza di acquisizione del detto N.O., cfr. la decisione della Sezione 20.06.2001, n. 3254).
Ma vi è anche da notare che l’art. 19 delle NTA del PRG non prevede la possibilità di derogare alle altre disposizioni ivi contenute, se è vero che esso stesso disciplina le distanze dai fabbricati, senza alcun riferimento, per queste, a possibili deroghe; e che, laddove prevede che, in margine allo spazio pubblico, la costruzione di edifici di tipo a cortina (che non rientrano nelle ordinarie caratteristiche di zona, che è caratterizzata da edifici isolati) può essere consentita, ciò fa recando deroga solo per quanto attiene alla distanza dalla strada pubblica o dai confini di proprietà, ma non da altri edifici, ancorché da quella separati; e, inoltre, lo fa solo ai fini del “completamento del contorno di un isolato prevalentemente costruito in tal modo, per evitare l’esposizione di muri nudi di frontespizio”, laddove, nel caso in esame, l’isolato di cui si tratta si estendeva per una lunghezza di circa mt. 32, ma era occupato per una lunghezza di soli mt. 14 e, quindi, non poteva logicamente parlarsi di completamento di un isolato già prevalentemente costruito a cortina, dal momento che l’isolato stesso era, in prevalenza almeno, inedificato.
La norma, in conclusione, vale a consentire, essenzialmente, di derogare alla tipologia edilizia di zona, individuata espressamente nell’edilizia a tipo aperto ad edifici isolati, risolti architettonicamente su tutte le fronti, consentendo, così, di realizzare il completamento di edifici a cortina anche in margine allo spazio pubblico; e se, quindi, consente di derogare alla disciplina relativa alle distanze dal ciglio stradale e dai confini di proprietà, non altrettanto fa, invece, con riguardo alla disciplina sulle distanze rispetto ad altri fabbricati che, nel caso di completamento edilizio, è di mt. 12, mentre in caso di ristrutturazione è di mt. 14.
Né, in contrario, può essere utilmente invocato l’art. 31 del locale regolamento edilizio, che consente l’allineamento con riguardo alle nuove costruzioni previste in aderenza con il suolo pubblico; si tratta, infatti, di una disposizione di carattere generale in grado di operare fino a che non si scontri con altre disposizioni con essa incompatibili, quali quelle di cui si discute; la norma, del resto, appare conforme alla disciplina di PRG sugli edifici a cortina, il cui completamento può avvenire anche lungo la strada pubblica e in deroga, dallo stesso PRG ammessa, alla disciplina sulle distanze dalla strada e dai confini, ma non, come si ripete, alla disciplina sulle distanze da altri fabbricati.
6) – Come deduce l’appellante, la concessione edilizia in esame è illegittima anche per violazione del disposto di cui all’art. 9 del D.M. 02.04.1968, secondo cui: “le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:…….2) - nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti……..Le distanze minime tra fabbricati -tra i quali siano interposte strade destinate al traffico dei veicoli-.…….debbono corrispondere alla larghezza della sede stradale maggiorata di: ml. 5 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7…….”.
Ebbene, è vero, come rilevato dal TAR, che si tratta di disciplina che si applica ai nuovi piani regolatori generali e relativi piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate; non di meno, una volta recepita, come nella specie, nello strumento pianificatorio, essa viene a far parte integrante dello stesso e, come tale, non può essere derogata.
È anche vero, come osservato dal controinteressato nelle proprie difese, che, ai sensi dell’ultimo comma del citato art. 9, “sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”; ma tale facoltà derogatoria, proprio per il carattere di eccezionalità e, quindi, di stretta interpretazione della norma, può essere esercitata solo in tali limitate fattispecie (e proprio in stretta relazione al fatto che la pianificazione di dettaglio può, eccezionalmente, consentire, sulla base di un supporto logico-giuridico adeguato, soluzioni differenti), mentre non può esserne estesa l’operatività anche ad altre e differenti ipotesi che, di fatto, verrebbero a sfuggire illogicamente ad ogni forma pianificatoria.
Può anche convenirsi, con il controinteressato, nel ritenere che, in presenza di interventi edilizi ricadenti in zone già ampiamente urbanizzate può, entro certi limiti e a determinate condizioni, eccezionalmente conseguirsi il rilascio del singolo titolo concessorio anche nell’ipotesi in cui, per la zona stessa, sarebbe richiesta l’approvazione del previo strumento attuativo; ciò, però, non significa affatto che quelle zone debbano, per ciò stesso, ritenersi in tutto e per tutto parificate a quelle dotate di strumento attuativo, così da ammettere la deroga al regime delle distanze perché, al contrario, la disciplina eccezionale di cui si discute postula proprio la presenza concreta dello strumento attuativo.
E, del resto, sarebbe del tutto illogica e incongruente la possibilità di cumulare il regime che ammette la deroga alla disciplina sulle distanze -in quanto intimamente correlata, questa, alla presenza dello strumento attuativo che, in determinati contesti può, per ragioni connesse alle caratteristiche dei luoghi, prevedere distanze minori rispetto a quelle indicate dal citato D.M. del 1968– con l’ulteriore regime derogatorio che consente, nelle zone per le quali è espressamente prevista, dal PRG, la redazione dello strumento attuativo, l’eccezionale realizzazione di edifici anche in presenza di concessione singola, al di fuori dello strumento pianificatorio di dettaglio; in tal caso, infatti, la zona in questione verrebbe, in realtà, ad essere privata di ogni supporto normativo posto a tutela di un ordinato assetto urbanistico con specifico riferimento, almeno per quanto qui interessa, al regime sulle distanze.
8) - Per tali motivi l’appello in epigrafe appare fondato e va accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata e in accoglimento del ricorso di primo grado, deve essere annullata la concessione edilizia in quella sede impugnata (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.06.2004 n. 4759 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla questione se gli alberghi siano o meno qualificabili come opere di interesse pubblico risulta ad oggi risolta in maniera oscillante e non univoca dalla giurisprudenza soprattutto a proposito dell’ammissibilità della concessione edilizia in deroga (ammessa per gli impianti e edifici pubblici o di interesse pubblico).
Anche a voler qualificare gli alberghi, in via di mera ipotesi, come opere di interesse pubblico, tale qualificazione non crea alcun obbligo, per l’amministrazione, né di rilasciare la concessione edilizia in deroga, né di adottare una variante dello strumento urbanistico.
Invero, sia la concessione in deroga, sia la variante dello strumento urbanistico, non sono atti dovuti a fronte di opere di interesse pubblico, ma sono oggetto di poteri discrezionali, che devono comparare l’interesse alla realizzazione dell’opera di interesse pubblico con molteplici altri interessi, quali quello urbanistico, edilizio, paesistico, ambientale.
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L'art. 41-quater della legge 17.08.1942 n. 1150 e l'art. 3 della legge 21.12.1957 n. 1357, che disciplinano la possibilità di rilasciare concessioni edilizie in deroga ai piani regolatori ed alle norme di regolamento edilizio, vanno interpretati restrittivamente, nel senso che tali deroghe non possono travolgere le esigenze di ordine urbanistico a suo tempo recepite nel piano.
Ne consegue che non possono costituire oggetto di deroga le destinazioni di zona che attengono all'impostazione stessa del piano regolatore generale e ne costituiscono le norme direttrici.
Ora, si veda espressamente, l’art. 14, t.u. edilizia secondo cui il permesso di costruire in deroga è ammissibile solo se la deroga riguardi i limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati.

Si può prescindere dalla questione se gli alberghi siano o meno qualificabili come opere di interesse pubblico, risolta sinora in maniera oscillante e non univoca dalla giurisprudenza soprattutto a proposito dell’ammissibilità della concessione edilizia in deroga (ammessa per gli impianti e edifici pubblici o di interesse pubblico) in senso negativo, v.:
Cass., VI, 26.03.1999: <<La ristrutturazione di un albergo non rientra fra le opere pubbliche o di interesse pubblico per le quali, ai sensi dell’art. 1, 1º comma, lett. l), d.l. 04.11.1988 n. 465, conv. con modif. in l. 30.12.1988 n. 556, la dichiarazione di compatibilità con i vincoli ambientali e con gli strumenti urbanistici, ai fini dell’ottenimento del contributo finanziario dello Stato, può essere sostituita da una deliberazione del consiglio comunale, adottata ai sensi dell’art. 1, 4º comma, l. 03.01.1978 n. 1>>.
C. Stato, sez. V, 11.12.1992, n.1428: <<Ai sensi dell’art. 30 l.reg. Puglia 31.05.1980 n. 56, la concessione edilizia in deroga può essere rilasciata «limitatamente ai casi di edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico», tra i quali non può includersi un albergo, atteso che l’espressione impianti «di interesse pubblico», deve essere interpretata in senso restrittivo, facendovi rientrare solo quegli interventi che, seppure eseguiti da privati, corrispondono a compiti assunti direttamente dalla p.a. (quali, per esempio, la realizzazione di una strada o di un acquedotto)>>.
C. Stato, sez. V, 25.11.1988, n.774: <<In forza dell’art.41-quarter, l. 17.08.1942, n. 1150, introdotto con l’art. 16, l. 06.08.1967, n. 765, la deroga alle norme del piano regolatore generale o del regolamento edilizio, può essere esercitata «limitatamente ai casi di edifici ed impianti pubblici o d’interesse pubblico» e non anche per l’ampliamento di un edificio privato con destinazione alberghiera pur se situato in una zona turistica (nella specie, si è ritenuto che l’interesse turistico ad una maggiore ricettività alberghiera non potesse essere preminente rispetto a quello configurato dalle norme del regolamento edilizio>>.
In senso affermativo v.:
C. Stato, sez. IV, 28.10.1999, n. 1641 e C. Stato, sez. V, 15.07.1998, n. 1044: <<L’ampliamento di una struttura alberghiera rientra fra gli impianti di interesse pubblico per i quali è consentito il rilascio di concessione edilizia in deroga ai sensi dell’art. 41-quater l. 17.08.1942 n. 1150>>.
C. Stato, sez. V, 10.11.1992, n. 1257: <<La costruzione da adibire ad esercizio di affittacamere, è annoverabile nell’ambito degli edifici di interesse pubblico, avuto riguardo alla sua natura alberghiera, per cui ben può godere del beneficio previsto dall’art. 80 l.reg. Veneto 27.06.1985 n. 61 (concessione in deroga alle norme e previsioni nello stesso indicate)>>.
C. Stato, sez. IV, 06.10.1983, n. 700: <<Ai sensi dell’art. 16 l. 06.08.1967, n.765, per la qualificazione di edifici ed impianti di interesse pubblico, occorre avere riguardo all’interesse pubblico, inteso nella sua accezione tecnico-giuridica come tipico, qualificato per la sua corrispondenza agli scopi perseguiti dall’amministrazione, a prescindere dalla qualità pubblica o privata dei soggetti che realizzano la costruzione: rientra pertanto nella previsione dell’art. 16 l’edificio alberghiero che, per le sue strutture, realizzi funzionalmente l’interesse turistico, cui la rilevanza pubblica è strettamente connessa>>).
Invero, anche a voler qualificare gli alberghi, in via di mera ipotesi, come opere di interesse pubblico, tale qualificazione non crea alcun obbligo, per l’amministrazione, né di rilasciare la concessione edilizia in deroga, né di adottare una variante dello strumento urbanistico.
Invero, sia la concessione in deroga, sia la variante dello strumento urbanistico, non sono atti dovuti a fronte di opere di interesse pubblico, ma sono oggetto di poteri discrezionali, che devono comparare l’interesse alla realizzazione dell’opera di interesse pubblico con molteplici altri interessi, quali quello urbanistico, edilizio, paesistico, ambientale.
Sin da ora si può osservare, anche al fine dell’esame dei motivi di ricorso relativi al difetto di motivazione degli atti impugnati, quanto segue.
Il progetto di ampliamento e ristrutturazione dell’albergo, nel caso di specie, era in contrasto con la destinazione di zona dell’area secondo il vigente strumento urbanistico del Comune di Peschici.
Sicché, non era ammissibile la concessione edilizia in deroga, consentita dall’art. 41-quater, l. 17.08.1942, n. 1150, per gli edifici e impianti pubblici e di interesse pubblico, purché la deroga non riguardi le destinazioni di zona (in tal senso C. Stato, sez. IV, 01.07.1997, n. 1057: <<L'art. 41-quater della legge 17.08.1942 n. 1150 e l'art. 3 della legge 21.12.1957 n. 1357, che disciplinano la possibilità di rilasciare concessioni edilizie in deroga ai piani regolatori ed alle norme di regolamento edilizio, vanno interpretati restrittivamente, nel senso che tali deroghe non possono travolgere le esigenze di ordine urbanistico a suo tempo recepite nel piano; ne consegue che non possono costituire oggetto di deroga le destinazioni di zona che attengono all'impostazione stessa del piano regolatore generale e ne costituiscono le norme direttrici>>, e, ora, espressamente, l’art. 14, t.u. edilizia, non ancora in vigore, ma che qui si richiama per il suo valore esegetico, secondo cui il permesso di costruire in deroga è ammissibile solo se la deroga riguardi i limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati) (Consiglio di Stato Sez. VI, sentenza 07.08.2003 n. 4568 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 18.03.2014

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IN EVIDENZA

APPALTISulla distinzione tra l’istituto delle passività pregresse e quello del riconoscimento di debiti fuori bilancio.
Le passività pregresse si collocano all’interno di un ordinario procedimento di spesa (art. 183 Tuel): si tratta, infatti, di spese per le quali l’ente locale ha proceduto a un regolare impegno, ma che, per fatti non prevedibili, di norma collegati alla natura della prestazione, hanno dato luogo a un debito non assistito da idonea copertura (art. 191 Tuel), che può rilevare come mancanza o come insufficienza dell’impegno contabile. In tal caso, l’ente locale dovrà adottare i provvedimenti necessari al fine di soddisfare la copertura delle passività (art. 193 Tuel).
I debiti fuori bilancio identificano, invece, obbligazioni assunte in assenza della necessaria preventiva assunzione dell’impegno di spesa: in sostanza, a fronte di un’obbligazione giuridicamente valida dal punto di vista civilistico, difetta il relativo provvedimento di impegno.

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Al fine di evitare l’insorgere di situazioni debitorie non assistite dai relativi impegni, il legislatore ha previsto che solo in alcuni casi tassativi tali debiti possano essere riconosciuti, attraverso il procedimento di riconoscimento di legittimità di debiti fuori bilancio; ciò è infatti possibile solo qualora tali debiti derivino da:
a) sentenze esecutive;
b) copertura di disavanzi di consorzi, di aziende speciali e di istituzioni, nei limiti degli obblighi derivanti da statuto, convenzione o atti costitutivi, purché sia stato rispettato l’obbligo di pareggio del bilancio di cui all’articolo 114 ed il disavanzo derivi da fatti di gestione;
c) ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme previste dal codice civile o da norme speciali, di società di capitali costituite per l’esercizio di servizi pubblici locali;
d) procedure espropriative o di occupazione d’urgenza per opere di pubblica utilità;
e) acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell’articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza (art. 194, comma 1, lett. a)-e), Tuel).

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Il sindaco del Comune di Mozzo, mediante nota n. 13176 del 19.12.2013, chiede se, a fronte di uno stanziamento di bilancio pari ad euro 1.000,00 e ad un onere effettivo pari ad euro 13.736,00, i maggiori esborsi connessi all’adesione, da parte del Comune, alla società Uniacque S.p.A., possano essere considerati quali passività pregresse o se trovi applicazione la disciplina dei debiti fuori bilancio ai sensi dell’art. 194 del d.lgs. n. 267/2000 (Tuel).
...
Con la richiesta di parere in premessa, il Comune di Mozzo chiede di conoscere quale sia la corretta modalità di contabilizzazione degli oneri da sostenere per l’adesione del Comune alla società Uniacque S.p.A.; in particolare, se tali oneri essi possano essere considerati quali passività pregresse o se, invece, debba applicarsi la disciplina dei debiti fuori bilancio di cui all'art. 194 del d.lgs. n. 267/2000 (Tuel).
Il Consiglio comunale aveva deliberato l’adesione del Comune alla società Uniacque S.p.A. (società individuata a livello provinciale quale unico gestore del servizio idrico integrato) con delibera n. 43 del 19.12.2006. La quota di partecipazione del Comune corrispondeva a 808 azioni del valore nominale di 1 euro ciascuna, per un totale -quindi- di 808,00 euro. In bilancio veniva allocata una somma pari a 1.000,00 euro.
Tuttavia, alla delibera consiliare non faceva seguito il versamento del corrispettivo previsto al fine di perfezionare l’adesione del Comune alla società, sicché la somma di 1.000,00 euro veniva riportata a residuo.
Passati alcuni anni -ben sette-, ed essendosi verificato un aumento del capitale sociale, ad oggi l’adesione del Comune alla società Uniacque S.p.A. è condizionata all’acquisizione, da parte del Comune di 13.736 azioni del valore nominale di 1 euro ciascuna, per corrispettivo pari a 13.736,00 euro.
Al fine di valutare quale sia la disciplina applicabile e se tali oneri possano essere considerati quali passività pregresse o se, invece, debba applicarsi la disciplina dei debiti fuori bilancio di cui all’art. 194 del d.lgs. n. 267/2000 (Tuel), occorre ricordare la distinzione tra l’istituto delle passività pregresse e quello del riconoscimento di debiti fuori bilancio.
Le passività pregresse si collocano all’interno di un ordinario procedimento di spesa (art. 183 Tuel): si tratta, infatti, di spese per le quali l’ente locale ha proceduto a un regolare impegno, ma che, per fatti non prevedibili, di norma collegati alla natura della prestazione, hanno dato luogo a un debito non assistito da idonea copertura (art. 191 Tuel), che può rilevare come mancanza o come insufficienza dell’impegno contabile. In tal caso, l’ente locale dovrà adottare i provvedimenti necessari al fine di soddisfare la copertura delle passività (art. 193 Tuel).
I debiti fuori bilancio identificano, invece, obbligazioni assunte in assenza della necessaria preventiva assunzione dell’impegno di spesa: in sostanza, a fronte di un’obbligazione giuridicamente valida dal punto di vista civilistico, difetta il relativo provvedimento di impegno.

Al fine di evitare l’insorgere di situazioni debitorie non assistite dai relativi impegni, il legislatore ha previsto che solo in alcuni casi tassativi tali debiti possano essere riconosciuti, attraverso il procedimento di riconoscimento di legittimità di debiti fuori bilancio; ciò è infatti possibile solo qualora tali debiti derivino da: “a) sentenze esecutive; b) copertura di disavanzi di consorzi, di aziende speciali e di istituzioni, nei limiti degli obblighi derivanti da statuto, convenzione o atti costitutivi, purché sia stato rispettato l’obbligo di pareggio del bilancio di cui all’articolo 114 ed il disavanzo derivi da fatti di gestione; c) ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme previste dal codice civile o da norme speciali, di società di capitali costituite per l’esercizio di servizi pubblici locali; d) procedure espropriative o di occupazione d’urgenza per opere di pubblica utilità; e) acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell’articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza” (art. 194, comma 1, lett. a)-e), Tuel).
Quanto alla tassatività delle fattispecie di cui all’art. 194, comma 1, Tuel), occorre ricordare la parte del principio contabile n. 2 per gli enti locali (“Gestione nel sistema del bilancio”) in base alla quale: “Il debito riconoscibile di cui alla lettera c) dell’art. 194 comma del TUEL è quello derivante da ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme previste dal codice civile o da norme speciali, delle sole società di capitali costituite per l’esercizio di servizi pubblici locali. Il termine ricapitalizzazione identifica un’azione specifica, di ricostituzione del capitale deliberato dai soci per la costituzione della società, normativamente disciplinata e non è suscettibile di interpretazione estensiva ad altre fattispecie di ripianamento di perdile d’esercizio. La posizione debitoria non è riconoscibile nel caso di società di capitali non costituite per l’esercizio di servizi pubblici” (princ. cont. n. 2, cpv. 106).
Inoltre, “La formulazione della lettera c) dell’art. 194 del TUEL comporta che può essere riconosciuta la tipologia di debito fuori bilancio ivi prevista soltanto laddove la reintegrazione del capitale sociale della società di cui l’Ente possiede una quota avvenga nelle forme e nei limiti della disciplina di cui al codice civile o di altre norme speciali cui il legislatore fa espresso rinvio. Il riconoscimento del debito deve prevedere anche una valutazione sulla progettazione e organizzazione dei controlli interni che devono ricomprendere il controllo sugli organismi partecipati e l’organizzazione del monitoraggio sull’andamento gestionale dei medesimi” (princ. cont. n. 2, cpv. 107).
Il Consiglio comunale, verificata la “pertinenza” del titolo (rispetto alle competenze attribuite dalla legge all’ente), la sua “continenza” (relativa all’esercizio delle competenze stesse in modo conforme all’ordinamento), nonché la sussistenza di adeguati mezzi di copertura, adotta un’apposita delibera, con cui riconosce la legittimità dei debiti fuori bilancio (che vengono, così, ricondotti nella contabilità dell’ente).
Occorre, altresì, ricordare che l’art. 23, comma 5, della legge 27.12.2002, n. 289 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2003) ha previsto che “I provvedimenti di riconoscimento di debito posti in essere dalle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, sono trasmessi agli organi di controllo ed alla competente procura della Corte dei conti”.
Premesso quanto sopra, e alla luce degli elementi forniti con la richiesta di parere, si ritiene che
i nuovi e maggiori oneri connessi alla sottoscrizione dell’aumento del capitale sociale non possano essere considerati quali passività pregresse e che non possa neanche applicarsi la disciplina dei debiti fuori bilancio di cui all’art. 194 del d.lgs. n. 267/2000 (Tuel).
In ogni caso, inoltre, v’è da sottolineare che
l’obbligazione pecuniaria nasce nel momento in cui l’ente locale delibera la sottoscrizione di aumento del capitale (e ciò vale anche nel caso in cui grava sull’ente l’obbligo di aderire alla società); alla delibera deve poi seguire l’adozione di un impegno di spesa, relativo all’esercizio cui si riferisce (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 05.02.2014 n. 41).

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSocietà pubbliche - Obbligatori i dipendenti nei C.D.A. (CGIL-FP di Bergamo, nota 05.03.2014).

UTILITA'

ATTI AMMINISTRATIVITutto quello che c’è da sapere sulla firma digitale nello Speciale di BibLus-net.
In allegato proponiamo un documento di approfondimento con tutte le caratteristiche della firma digitale e le risposte alle domande più frequenti (13.03.2014 - link a www.acca.it).

SICUREZZA LAVOROGuida all’elaborazione del DUVRI: schemi, tavole di sintesi, modelli ed esempi di valutazione dei rischi da interferenza.
Il DUVRI è il documento contenente tutte le misure preventive da adottare al fine di prevenire o ridurre i rischi dovuti alle interferenze presenti sul luogo di lavoro.
La redazione del DUVRI (art. 26 del D.Lgs. 81/2008) è sempre obbligatoria in caso di affidamento di lavori, servizi e forniture all’impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi. Anche nel caso in cui non siano presenti rischi dovuti a interferenze, il datore di lavoro committente ha l’obbligo di elaborare il DUVRI, in quanto la compilazione di tale modello testimonia l’avvenuta valutazione dei rischi.
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Sono presenti i diagrammi di flusso relativi all’elaborazione del DUVRI da parte del datore di lavoro committente.
Inoltre, il documento illustra le differenze tra DUVRI e PSC nei cantieri temporanei e mobili e riporta una utile tabella con i principali adempimenti in capo ai vari soggetti coinvolti, evidenziando la necessità o meno della redazione del PSC, del DUVRI o di entrambi i documenti e i riferimenti normativi.
È presente un intero capitolo relativo ai costi della sicurezza (costi speciali e costi ordinari) contenente esempi su come computare i costi della sicurezza da interferenze.
Sono infine presenti:
un modello per la valutazione dei rischi da interferenza
un esempio di valutazione dei rischi da interferenza (13.03.2014 - link a www.acca.it).

INCARICHI PROGETTUALIDecreto Parametri-bis e calcolo dei compensi professionali, ecco un utile strumento per professionisti e RUP.
Il 21.12.2013 è entrato in vigore il Decreto Parametri-bis (D.M. 143/2013) per il calcolo dei compensi professionali per le gare pubbliche.
In base a quanto stabilito dal Decreto, il corrispettivo del professionista sarà ottenuto come somma di
compenso, determinato in base alle singole categorie componenti l'opera, alla complessità e la specificità della prestazione
spese ed oneri accessori, definiti in percentuale rispetto all’importo dell’opera
Recentemente ACCA ha rilasciato in forma gratuita uno strumento utilissimo sia per i RUP che devono determinare i corrispettivi a base di gare che per i professionisti, che a loro volta devono calcolare il corrispettivo per la prestazione da eseguire per l’opera pubblica.
Stiamo parlando di Compensus-LP FREE, il freeware compatibile con PriMus e PriMus-DCF per acquisire automaticamente dal computo l’importo dei lavori previsti dalla prestazione.
In particolare, il corrispettivo è calcolato automaticamente dal software tenendo conto dei parametri stabiliti dal D.M. 143/2013:
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Il corrispettivo può essere ulteriormente dettagliato considerando
● prestazioni a vacazione
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● oneri accessori (13.03.2014 - link a www.acca.it).

SICUREZZA LAVOROSicurezza nei lavori stradali, arrivano nuovi obblighi dal 20.03.2014.
Il Decreto Interministeriale 04.03.2013 relativo alla “Segnaletica stradale per attività lavorative svolte in presenza di traffico veicolare” all’articolo 4 stabilisce che dal 20.03.2014 gli indumenti ad alta visibilità di classe 1 non sono più ammessi.
Gli indumenti ad alta visibilità dovranno avere come minimo le seguenti caratteristiche:
classe 3, o equivalente, per tutte le attività lavorative su strade di categoria A, B, C, e D
classe 2 per le strade E ed F urbane ed extraurbane
Pertanto, entro il 20.03.2014, tutte le aziende interessate devono organizzare quanto necessario per adempiere all’obbligo di
formazione e addestramento sui DPI (Dispositivi di Protezione Individuale)
dotazione DPI ad alta visibilità
Anche i documenti relativi alla sicurezza (DVR, DUVRI o POS) devono riportare le evidenze della relativa valutazione e delle procedure corrette di segnalazione relative ai DPI appropriati.
Da evidenziare che queste norme riguardano tutte le imprese, non solo quelle edili, che svolgono la propria attività esponendo i lavoratori ad interferenze dovute al traffico veicolare su strada (13.03.2014 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATA: EDILIZIA PRIVATA: RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI (Agenzia delle Entrate, febbraio 2014).

EDILIZIA PRIVATA:     VARIBonus mobili ed elettrodomestici: Come e quando richiedere l’agevolazione fiscale (Agenzia delle Entrate, febbraio 2014).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Legislazione nazionale – Nuova delibera 06.02.2014 n. 40/2014 dell’AEEG per gli accertamenti sulla sicurezza degli impianti di utenza gas (ANCE Bergamo, circolare 14.03.2014 n. 66).
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L’AUTORITÀ PER L’ENERGIA ELETTRICA IL GAS ED IL SISTEMA IDRICO con la deliberazione 06.02.2014 n. 40/2014/R/GAS "Disposizioni in materia di accertamenti della sicurezza degli impianti di utenza a gas: modifiche e integrazioni alla deliberazione 18.03.2004, n. 40/04" approva nuove disposizioni (
in vigore dall'01.07.2014) in materia di accertamenti della sicurezza degli impianti di utenza a gas e da avvio alla disciplina degli accertamenti per gli impianti di utenza modificati o trasformati.

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Legislazione nazionale - Nuovi modelli di libretto di impianto per la climatizzazione e di rapporto di efficienza energetica (ANCE Bergamo, circolare 14.03.2014 n. 65).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Recupero rifiuti inerti in procedura semplificata: sentenza n. 534/2014 del TAR Lombardia-Milano (ANCE Bergamo, circolare 14.03.2014 n. 63).

LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Pasticcio all’italiana: subappalti delle categorie super specializzate, si torna alla liberalizzazione. Legge 15/2014: rinvio dell’obbligo centrali di committenza per i piccoli Comuni; sospensione del sistema AVCPass; ripristino temporaneo della soglia di tolleranza dei requisiti per la revisione SOA (ANCE Bergamo, circolare 14.03.2014 n. 60).

EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazioni paesaggistiche: visibili on-line per tutti.
I provvedimenti paesaggistici rilasciati dagli Enti locali, ed inseriti in MAPEL, sono visibili on-line per tutti i cittadini lombardi: http://www.mapel.servizirl.it/viewer255/index.jsp?config=config-mapel-stat.xml
Questa nuova importante iniziativa, ha dichiarato l'Assessore all'Ambiente, Energia e Sviluppo Sostenibile Claudia Maria Terzi, viene lanciata a poche settimane dall'avvio di MAPEL (Monitoraggio Autorizzazioni Paesaggistiche Enti Locali), quale naturale prosecuzione delle azioni di Regione Lombardia a seguito della sottoscrizione del Protocollo d'Intesa tra Regione Lombardia, Direzione regionale del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e Soprintendenze per i beni architettonici e paesaggistici di Brescia e Milano.
Dopo l'eliminazione, dal 01.02.2014, della trasmissione cartacea dei provvedimenti paesaggistici rilasciati dagli Enti locali lombardi questo nuova iniziativa vuole essere un contributo per far crescere una maggior consapevolezza e sensibilità delle comunità lombarde verso i temi della tutela e valorizzazione del paesaggio (11.03.2014 - link a www.regione.lombardia.it).
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Sul MAPEL (Monitoraggio Autorizzazioni Paesaggistiche Enti Locali) si vedano anche:
-1) il sito web dedicato;
-2) la locandina;
-3) il manuale Utente-Operatore per l’applicazione MAPEL;
-4) il PROTOCOLLO D'INTESA tra la Regione Lombardia ed il MIBACT Lombardia, la Soprintendenza di Brescia e la Soprintendenza di Milano.

COMMERCIO - EDILIZIA PRIVATAOggetto: D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 - articolo 21: necessità dell'autorizzazione del Soprintendente per l'occupazione del suolo pubblico (MIBACT, nota 03.03.2014 n. 5817 di prot.).
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Sedie al bar, ok delle Belle arti. Applicazione ampia dell'autorizzazione monumentale. Pronuncia ministeriale. E in Friuli scoppia un caso sull'applicazione del codice Urbani.
La Soprintendenza ha un ruolo fondamentale per il corretto uso del territorio e, di conseguenza, niente tavolini e sedie davanti ai bar senza la previa autorizzazione delle Belle arti.

Il direttore del servizio II della direzione generale per il paesaggio del ministero per i beni culturali (con la nota 03.03.2014 n. 5817 di prot.) mette con le spalle al muro la presidente della regione Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani, che si era rivolta al ministero per ottenere lumi circa la corretta applicazione da dare al codice Urbani, in relazione al fatto che con l'approssimarsi della bella stagione i sindaci dei comuni capoluogo si erano preoccupati dalla chiusura dimostrata dagli uffici periferici del dicastero che hanno imposto una interpretazione restrittiva delle norme.
Essa imporrebbe l'obbligo della cosiddetta autorizzazione monumentale non solo per le opere edilizie realizzate nelle zone soggette a vincolo, ma anche per collocare i normali elementi di arredo davanti ai bar. La tesi del direttore, che ha condiviso in sostanza l'interpretazione della sede regionale è che sia specifiche disposizioni del codice sia la direttiva dell'ottobre 2012 sono orientate a stabilire obblighi di conservazione e protezione dei beni culturali tra i quali rientrano anche le strade e le piazze realizzate da più di settant'anni.
Una interpretazione, tuttavia, che non tiene conto della recente modifica introdotta lo scorso anno dal decreto cultura all'art. 52 del codice che tratta specificatamente la questione relativa al commercio sulle aree di interesse storico e che attribuisce al soprintendente la facoltà di dettare prescrizioni ma non certamente a carattere generale (articolo ItaliaOggi del 14.03.2014).

ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto: D.P.R. 28.12.2000, n. 445 - Art. 38, comma 3-bis - Modalità di invio e sottoscrizione delle istanze (Ministero dello Sviluppo Economico, risoluzione 20.01.2014 n. 8753 di prot.).

ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto: Pratiche trasmesse dalle imprese al SUAP a mezzo PEC - Ammissibilità (Ministero dello Sviluppo Economico, risoluzione 24.12.2013 n. 212434 di prot.).

ENTI LOCALI - VARIOggetto: Comune di Tempio Pausania. Parcheggi a pagamento. Illegittima applicazione delle norme del Codice della Strada (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, nota 05.07.2011 n. 3615 di prot.).

ENTI LOCALI - VARIOggetto: Richiesta di parere in materia di parcheggi a pagamento (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, nota 22.03.2010 n. 25783 di prot.).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA: L. Prati, Messa in sicurezza e misure di prevenzione: cosa può essere richiesto al proprietario o al gestore del sito non responsabili della contaminazione (17.03.2014 - tratto da www.ambientediritto.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: M. Rossi, Reclutamento dei dipendenti pubblici e prevalenza della mobilità pre-concorso sullo scorrimento di una graduatoria concorsuale (marzo 2014 - link a www.lexitalia.it).

APPALTI SERVIZI - PATRIMONIO: S. C. Cereda, I comuni possono vendere le loro reti pubbliche del gas? Disamina della disciplina in Lombardia (03.03.2014 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI SERVIZI - PATRIMONIO: G. Totino, Il servizio pubblico di distribuzione del gas. L'Antitrust ed il Giudice Amministrativo. Nota a margine alla sentenza del Consiglio di Stato n. 6256 del 27.12.2013 (17.02.2014 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI SERVIZI - PATRIMONIO: S. Ferla, Rimborsi ai gestori uscenti, tariffe e gare d'ambito per la distribuzione gas. Note critiche sulla disposizione introdotta dal Decreto “Destinazione Italia” per porre rimedio al differenziale V.I.R./R.A.B. (art. 1, comma 16, d.l. n. 145/2013) (04.02.2014 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 12 del 17.03.2014, "Sostegno ai cittadini per l’abbattimento delle barriere architettoniche negli edifici abitativi privati – Attivazione di una misura sperimentale ai sensi del comma 3-bis della legge regionale 20.02.1989 n. 6 “Norme sulle barriere architettoniche e prescrizioni tecniche di attuazione”" (deliberazione G.R. 13.03.2014 n. 1506).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 15.03.2014 n. 62 "Attuazione della direttiva 2011/65/UE sulla restrizione dell’uso di determinate sostanze pericolose nelle apparecchiature elettriche ed elettroniche" (D.Lgs. 04.03.2014 n. 27).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 15.03.2014 n. 62 "Modifiche ed integrazioni all’allegato al decreto 14.05.2004, recante approvazione della regola tecnica di prevenzione incendi per l’installazione e l’esercizio dei depositi di gas di petrolio liquefatto con capacità complessiva non superiore a 13 m³" (Ministero dell'Interno, decreto 04.03.2014).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 15.03.2014 n. 62 "Modifica del Titolo IV - del decreto 09.04.1994, in materia di regole tecniche di prevenzione incendi per i rifugi alpini" (Ministero dell'Interno, decreto 03.03.2014).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 14.03.2014 n. 61 "Regola tecnica di prevenzione incendi per la progettazione, la costruzione e l’esercizio delle strutture turistico-ricettive in aria aperta (campeggi, villaggi turistici, ecc.) con capacità ricettiva superiore a 400 persone" (Ministero dell'Interno, decreto 28.02.2014).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: G.U. 12.03.2014 n. 59 "Delega al Governo recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita" (Legge 11.03.02014 n. 23).

ATTI AMMINISTRATIVI: G.U. 12.03.2014 n. 59 "Regole tecniche in materia di sistema di conservazione ai sensi degli articoli 20, commi 3 e 5 -bis, 23-ter, comma 4, 43, commi 1 e 3, 44 , 44-bis e 71, comma 1, del Codice dell’amministrazione digitale di cui al decreto legislativo n. 82 del 2005" (D.P.C.M. 03.12.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: G.U. 12.03.2014 n. 59 "Regole tecniche per il protocollo informatico ai sensi degli articoli 40-bis , 41, 47, 57-bis e 71, del Codice dell’amministrazione digitale di cui al decreto legislativo n. 82 del 2005" (D.P.C.M. 03.12.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: G.U. 12.03.2014 n. 59 "Linee guida per l’applicazione «dell’indennizzo da ritardo nella conclusione dei procedimenti ad istanza di parte»" (Dipartimento Funzione Pubblica, direttiva 09.01.2014).

VARI: G.U. 11.03.2014 n. 58 "Attuazione della direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori, recante modifica delle direttive 93/13/CEE e 1999/44/CE e che abroga le direttive 85/577/CEE e 97/7/CE" (D.Lgs. 21.02.2014 n. 21).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 11.03.2014 n. 58 "Istituzione del Catasto nazionale delle sorgenti dei campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici e delle zone territoriali interessate al fine di rilevare i livelli di campo presenti nell’ambiente" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 13.02.2014).

APPALTI SERVIZI: G.U. 11.03.2014 n. 58  "Criteri ambientali minimi per «Affidamento del servizio di gestione dei rifiuti urbani» e «Forniture di cartucce toner e cartucce a getto di inchiostro e affidamento del servizio integrato di ritiro e fornitura di cartucce toner e a getto di inchiostro»" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 13.02.2014).

ENTI LOCALI: G.U. 11.03.2014 n. 58  "Attuazione del comma 19 dell’articolo 31 della legge 12.11.2011, n. 183" (Ragioneria Generale dello Stato, decreto 10.02.2014).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 07.03.2014 n. 55 "Modelli di libretto di impianto per la climatizzazione e di rapporto di efficienza energetica di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 74/2013" (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 10.02.2014).
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Libretto dell’impianto e rapporto di efficienza energetica, ecco i nuovi modelli.
Il libretto dell’impianto costituisce la “carta di identità” di un impianto termico; esso riporta tutti i dati relativi all’installatore, all’utilizzatore, al manutentore e all’eventuale terzo responsabile della gestione.
Sulla Gazzetta Ufficiale n. 55 del 07.03.2014 è stato pubblicato il Decreto Ministeriale 10 febbraio 2014, contenente i modelli di libretto di impianto per la climatizzazione e di rapporto di efficienza energetica di cui al decreto del Presidente della Repubblica 74/2013.
Precisamente, il decreto definisce:
il modello di libretto di impianto per la climatizzazione che dovrà essere utilizzato dal 01.06.2014
i modelli di rapporto di efficienza energetica da utilizzare dal 01.06.2014, in occasione di controlli ed eventuale manutenzione di cui all'art. 7 del D.P.R. 74/2013, sui seguenti impianti termici
     ● impianti di climatizzazione invernale di potenza utile nominale maggiore di 10 kW
     ● impianti di climatizzazione estiva di potenza utile nominale maggiore di 12 kW
con o senza produzione di acqua calda sanitaria (ad esclusione degli impianti termici alimentati esclusivamente con fonti rinnovabili di cui al D.Lgs. 03.03.2011, n. 28, ferma restando la compilazione del libretto).
In ottemperanza a quanto previsto dal D.P.R. 74/2013, i modelli di rapporto sono differenziati in 4 tipologie:
gruppi termici
gruppi frigo
scambiatori
cogeneratori
Inoltre, in allegato al Decreto sono fornite 14 schede di cui è costituito il libretto, da compilare ed aggiornare ad ogni intervento di manutenzione.
Per gli impianti già esistenti al 01.06.2014, sarà necessario comunque allegare ai nuovi modelli il vecchio libretto di impianto (per impianti con potenza termica inferiore a 35 kW) o di centrale (con potenza termica superiore o uguale a 35 kW) (commento tratto da e link a www.acca.it).

SICUREZZA LAVOROLinee guida per l'utilizzo di scale portatili nei cantieri temporanei e mobili (Regione Lombardia, Direzione Generale Salute, decreto D.G. 05.03.2014 n. 1819).
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Lavori in quota e caduta dall’alto, le nuove linee guida e check-list sulle scale portatili.
Nelle numerose analisi statistiche disponibili in letteratura, le cadute dall'alto si attestano sempre tra i primi posti degli infortuni gravi, soprattutto nei cantieri edili.
Al riguardo, la Regione Lombardia ha pubblicato le nuove “Linee Guida per l’utilizzo di Scale Portatili nei cantieri temporanei e mobili” con il Decreto 05.03.2014, n. 1819.
Scopo della Linea Guida è fornire ai diversi soggetti operanti in cantiere uno strumento di semplice consultazione, al fine di prevenire i rischi di caduta.
La parte generale tratta i seguenti argomenti:
definizioni generali
riferimenti normativi
misure generali di sicurezza nell’utilizzo delle scale
concetti di base in materia di sorveglianza sanitaria e idoneità
Sono presenti, inoltre, le “schede di attività” che riguardano i diversi utilizzi in cantiere delle scale portatili:
opere di scavo di pozzi, cunicoli, trincee, etc.
posizionamento di manufatti per il getto di pilastri e travi
superamento di dislivelli per passaggio da solaio a solaio
movimentazione di monoblocchi di cantiere quali baracche, casseri e ferri da armatura
lavori di assistenza ai fini della realizzazione di impianti
esecuzione e manutenzione di impianti
attività di smontaggio e smantellamento di strutture ed impianti. (strip out)
apertura e chiusura della copertura superiore degli automezzi telonati
esecuzione di finiture ed intonaci
posa e disarmo dei casseri di armatura
La pubblicazione è, infine, corredata da una sintetica check-list dedicata all'utilizzo delle scale (commento tratto da e link a www.acca.it).

CORTE DEI CONTI

CONSIGLIERI COMUNALILa p.a. paga i contributi se il sindaco lascia il lavoro.
Gli amministratori locali lavoratori autonomi qualora richiedano il versamento degli oneri previdenziali a carico dell'ente presso cui esercitano il loro mandato, ai sensi dell'articolo 86, comma 2 del Tuel, devono astenersi del tutto dall'attività lavorativa. Tale sospensione deve essere messa nero su bianco in un'apposita certificazione da inoltrare all'ente e all'istituto previdenziale.

È quanto ha osservato la Sez. regionale di controllo della Corte dei conti per la Lombardia, nel testo del parere 05.03.2014 n. 95, confermando le conclusioni cui nei mesi scorsi era pervenuta la sezione regionale della Basilicata (si veda ItaliaOggi del 24 gennaio), in merito al pagamento, da parte degli enti locali, della somma forfetaria annua per oneri previdenziali, assistenziali e assicurativi nel caso di amministratori lavoratori autonomi.
Il casus belli sollevato si fonda sulla presunta diversità di trattamento per gli amministratori lavoratori dipendenti i quali, per aver diritto al pagamento degli oneri da parte dell'ente, devono necessariamente collocarsi in aspettativa non retribuita dal proprio datore di lavoro ed è palese che, nel caso di lavoratori autonomi, tale differenza sia più marcata in quanto non è contemplato, in tali evenienze, l'istituto dell'aspettativa.
Per la magistratura contabile lombarda, l'opzione del collocamento in aspettativa non può essere misurata differentemente per il lavoratore dipendente rispetto a quello autonomo. La ratio dell'articolo 86 Tuel è, infatti, quello di «premiare» l'amministratore che sceglie di non esercitare più il suo lavoro da dipendente o la sua professione, per dedicarsi alle attività politico-istituzionali presso l'ente ove esercita il proprio mandato.
Se si giungesse a una diversa soluzione, si legge nel parere, stabilendo che l'ente sia tenuto a corrispondere gli oneri contributivi dell'amministratore-lavoratore autonomo, si avallerebbe un'interpretazione che faciliterebbe quest'ultimo, aggravando il bilancio comunale di tali oneri senza che, dall'altra parte, ci sia «una corrispettiva dedizione del tempo lavorato ai soli compiti di amministratore locale».
Senza dimenticare che, come ha rilevato anche la Corte dei conti lucana, permettendogli di svolgere ugualmente la sua professione, si finirebbe per consentire l'alterazione delle condizioni di mercato, dal momento che, in questo modo, l'amministratore locale non sarebbe gravato dall'obbligo di versamento degli oneri contributivi e assistenziali.
Pertanto, conclude la Corte, il secondo comma dell'articolo 86 Tuel, può trovare applicazione solo quando il lavoratore autonomo che svolga le funzioni di amministratore locale si astenga del tutto dall'attività lavorativa (articolo ItaliaOggi del 12.03.2014).

INCENTIVO PROGETTAZIONENon pare che la fonte regolamentare dell'incentivo alla progettazione possa stabilire che al di sotto di un determinato ammontare dei lavori non spetti alcun tipo di incentivo, ponendosi in contrasto con la fonte legislativa che pare riconoscere ai dipendenti la spettanza di una somma.
La previsione di legge infatti pur rinviando all’autonomia regolamentare per la determinazione in concreto dell’entità dell’incentivo, prevedendo in particolare la possibilità di una modulazione dello stesso “in rapporto all’entità e alla complessità dell’opera da realizzare”, non pare ammettere un completo azzeramento dello stesso.
Del resto posto che la ratio della previsione di cui all’art. 92, co. 5, del Codice dei contratti pubblici è indubbiamente il contenimento dei costi connessi alla progettazione delle opere pubbliche mediante la valorizzazione delle professionalità interne alla pubblica amministrazione è indubbio che l’introduzione di norme regolamentari volte ad escludere la spettanza dell’incentivo in presenza di lavori aventi importi inferiore ad una determinata soglia apparirebbe in contrasto con la suddetta ratio.
D’altro canto una siffatta previsione regolamentare apparirebbe in contrasto con i principi di ragionevolezza ed imparzialità posto che determinerebbe un trattamento differenziato dei lavoratori dell’amministrazione a fronte dell’espletamento di attività del tutto analoghe (progettazione interna per realizzazione di opera pubblica) in considerazione di un dato in alcun modo significativo ed idoneo a giustificare un trattamento antitetico dei dipendenti.
Del resto innanzi all’eventuale introduzione in sede regolamentare di una previsione che escludesse il diritto al percepimento dell’incentivo per lavori di importi inferiori ad un determinato importo i lavoratori potrebbero insorgere contestando in sede giurisdizionale l’illegittimità della previsione anche sotto il profilo della disparità di trattamento rispetto ad altri dipendenti che si vedessero riconosciuto l’incentivo solo perché coinvolti nella progettazione di un lavoro di importo superiore (anche se di poco) alla soglia.
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L’incentivo alla progettazione non può venire riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione ordinaria/straordinaria su beni dell’ente locale ma solo per lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla cui base vi sia una necessaria attività di progettazione.
Esulano, dunque, tutti quei lavori manutentivi per la cui realizzazione non è necessaria l’attività progettuale richiamata negli articoli 90, 91 e 92 del d.lgs. n. 163/2006.
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L’erogazione dell'incentivo alla progettazione può avvenire solo a favore dei dipendenti che abbiano espletato gli incarichi tassativamente indicati nella norma ovvero: responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori.
La legge prevede quindi che possano essere coinvolti e come tali regolarmente ricompensati altresì i collaboratori che abbiano svolto compiti di ausilio e supporto al personale prettamente tecnico incaricato della predisposizione degli atti tipici, strumentali alla realizzazione dell’opera pubblica.
In proposito la normativa non reca alcuna distinzione né limitazione in ordine ai collaboratori che possono essere remunerati, sicché pare possibile che anche collaboratori amministrativi, a prescindere dalle mansioni proprie dei rispettivi profili professionali, che partecipino in modo effettivo mediante contributo intellettuale e materiale alle attività del responsabile del procedimento, alla realizzazione del progetto del piano di sicurezza, alla direzione lavori ecc… possano essere inclusi nell’ambito del gruppo di lavoro destinatario dell’incentivo di cui al citato art. 92.
Il dirigente preposto alla struttura competente pertanto, dopo aver accertato l’effettivo espletamento delle specifiche attività da parte dei collaboratori amministrativi, potrà corrispondere loro l’incentivo in conformità alle previsioni contenute nel regolamento dell’amministrazione.
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Considerata la sedes materiae della norma sugli incentivi alla progettazione (Codice degli appalti), nonché la ratio della disposizione, secondo quanto affermato da consolidata giurisprudenza, “la norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli Uffici tecnici dell’Ente”.
In relazione specifica poi alla posizione del responsabile del procedimento (r.u.p.), si osserva che questi normalmente, in base alle previsioni contenute nei singoli Regolamenti degli enti, attuativi del citato comma 5 dell’art. 92 del D.lgs. n. 163/2006, prende parte alla ripartizione dell’incentivo in relazione ad atti di progettazione interna collegati alla realizzazione di opere pubbliche.
La partecipazione del responsabile del procedimento al riparto degli emolumenti tuttavia non avviene in ragione della sua qualifica, ma in relazione al complessivo svolgimento interno dell’attività di progettazione. In sostanza, qualora l’attività venga svolta internamente tutti i soggetti che, a qualsivoglia titolo, collaborano hanno diritto, in base alle previsioni del regolamento dell’ente, a partecipare alla distribuzione dell’incentivo.
Viceversa nel caso contrario in cui l’attività venga svolta all’esterno, non sorgendo il presupposto per la ripartizione di un incentivo fra i vari dipendenti dell’ufficio, non vi è neppure un autonomo diritto del responsabile del procedimento ad ottenere un compenso per un’attività che, al contrario, rientra fra i suoi compiti e doveri d’ufficio.
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Nell'ipotesi in cui un privato esegua direttamente le opere di urbanizzazione previste da un piano di lottizzazione a scomputo, totale o parziale, del contributo degli oneri di urbanizzazione la realizzazione delle opere a scomputo prevede la redazione ed approvazione, da parte del soggetto attuatore, di progetti redatti in conformità ai tre livelli di progettazione, le attività di direzione lavori e contabilità, sotto il diretto controllo del Responsabile del procedimento nominato dall'Amministrazione.
I lavori in discorso sono previsti dall’art. 32, lettera g), del Codice dei contratti pubblici e ai soggetti privati ivi indicati, titolari di permesso di costruire, non si applica l’art. 92 del Codice stesso, relativo agli incentivi in trattazione.
In siffatta fattispecie l’Amministrazione non può corrispondere l’incentivo per la progettazione né a favore del responsabile del procedimento né a favore di altro dipendente incaricato di controllare per conto dell’Ente locale le opere oggetto di realizzazione, essendo nella fattispecie ogni onere posto a carico del privato attuatore dell’intervento.

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Con la nota pervenuta in data 24.01.2014 il Sindaco del Comune di Rivoli (TO) ha posto alla Sezione una serie di quesiti in materia di compensi incentivanti ex art. 92 d.lgs. 12.04.2006 n. 163 e s.m.i..
Nello specifico, i quesiti sono stati articolati nei seguenti termini:
Quesito n° 1: il Sindaco del Comune di Grugliasco chiede se l’Ente può porre una soglia minima all’importo dei lavori relativi all’opera pubblica al di sotto della quale non si eroga alcun incentivo, né per la progettazione né per l’eventuale atto di pianificazione che si dovesse rendere necessario per consentire la realizzazione dell’opera stessa;
Quesito n° 2: Viene chiesto se la manutenzione ordinaria deve essere considerata o meno attività soggetta ad incentivi, chiedendo inoltre in caso di risposta affermativa se è necessario che l’attività preveda effettivamente la redazione di progetti preliminari definitivi ed esecutivi comprendenti anche atti tecnici, computo metrici e contabili;
Quesito n° 3: Il Sindaco chiede se tra i collaboratori che partecipano al gruppo di lavoro possono essere inclusi anche collaboratori amministrativi che attraverso prestazioni che non rientrano nelle ordinarie attività d’ufficio insite nei relativi profili professionali partecipano direttamente con contributi di natura materiale ed intellettuale alla realizzazione del progetto, all’attività del responsabile del procedimento, al piano di sicurezza, alla direzione lavori ed alla loro contabilizzazione, nonché agli studi e alle valutazioni di carattere urbanistico e alla redazione di atti di pianificazione.
Quesito n° 4: L’ente domanda inoltre se in caso di progettazione esterna al RUP spetti comunque l’incentivo.
Quesito n° 5: Viene infine richiesto se l’incentivo spetta al dipendente che non svolge funzioni di RUP, non firma progetti, ma è referente dell’impresa con incarico di controllare le opere oggetto di progettazione e realizzazione da parte di soggetti privati mediante scomputo degli oneri di urbanizzazione.
...
Per fornire risposta ai vari quesiti posti dal Comune di Rivoli appare opportuno richiamare la normativa di riferimento e segnatamente l’art. 92, co. 5, d.lgs n. 163/2006 secondo cui “Una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti; limitatamente alle attività di progettazione, l'incentivo corrisposto al singolo dipendente non può superare l'importo del rispettivo trattamento economico complessivo annuo lordo; le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. I soggetti di cui all'articolo 32, comma 1, lettere b) e c), possono adottare con proprio provvedimento analoghi criteri.”
Secondo quanto già chiarito anche recentemente da questa Sezione (cfr.
parere 16.01.2014 n. 8) la norma va letta nel complessivo contesto delle modalità d’affidamento degli incarichi tecnico professionali, previste dalla legislazione in materia di contratti pubblici. Quest’ultima è informata da un principio generale, già codificato dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001, in base al quale i predetti incarichi possono essere conferiti a soggetti esterni alla struttura amministrativa solo se non si disponga di professionalità adeguate nel proprio organico e tale carenza non sia altrimenti risolvibile con strumenti flessibili di gestione delle risorse umane. Tale presupposto mira a preservare le finanze pubbliche oltre che a valorizzare il personale interno alle amministrazioni.
Pertanto,
nelle ipotesi ordinarie in cui gli incarichi tecnici sono espletati da personale interno, ai fini della loro remunerazione, occorre far riferimento alle regole generali previste per il pubblico impiego, il cui sistema retributivo è conformato da due principi cardine, quello di definizione contrattuale delle componenti economiche e quello di onnicomprensività della retribuzione (cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001, nonché Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per la Puglia,
sentenza 20.07.2010 n. 464, sentenza 22.07.2010 n. 475 e sentenza 02.08.2010 n. 487).
Secondo i predetti principi
nulla è dovuto, oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che rientra nei suoi doveri d’ufficio, anche se di particolare complessità. Il c.d. “incentivo alla progettazione”, previsto dal Codice dei contratti pubblici, costituisce uno di quei casi nei quali il legislatore, derogando al principio per cui il trattamento economico è fissato dai contratti collettivi, attribuisce un compenso ulteriore e speciale, rinviando ai regolamenti dell’amministrazione aggiudicatrice, previa contrattazione decentrata, i criteri e le modalità di ripartizione.
L’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006 deroga ai principi di onnicomprensività e determinazione contrattuale della retribuzione del dipendente pubblico e, come tale, costituisce un’eccezione che si presta a stretta interpretazione e per la quale sussiste il divieto di analogia posto dall’art. 12 delle diposizioni preliminari al codice civile
(cfr. Sez. contr. Umbria,
parere 09.07.2013 n. 119, Sez. contr. Marche, parere 04.10.2013 n. 67).
  
I. Come si desume dalla lettura della norma la legge in ordine al quantum dell’incentivo fissa un limite massimo inderogabile al due per cento dell’importo a base di gara, rinviando per la disciplina di dettaglio e segnatamente per i criteri e le modalità di erogazione, nonché per l’entità effettiva della percentuale da ripartire, alla regolamentazione assunta dal singolo ente.
La littera legis è chiara nel disporre che il regolamento debba fissare (entro il citato limite massimo del 2%) la percentuale effettiva della somma destinata ad essere ripartita tra i dipendenti che hanno partecipato alle attività volte alla realizzazione dell’opera pubblica. In forza di tale dato testuale
non pare dunque che la fonte regolamentare possa stabilire che al di sotto di un determinato ammontare dei lavori non spetti alcun tipo di incentivo, ponendosi in contrasto con la fonte legislativa che pare riconoscere ai dipendenti la spettanza di una somma. La citata previsione di legge infatti pur rinviando all’autonomia regolamentare per la determinazione in concreto dell’entità dell’incentivo, prevedendo in particolare la possibilità di una modulazione dello stesso “in rapporto all’entità e alla complessità dell’opera da realizzare”, non pare ammettere un completo azzeramento dello stesso.
Del resto
posto che la ratio della previsione di cui all’art. 92, co. 5, del Codice dei contratti pubblici è indubbiamente il contenimento dei costi connessi alla progettazione delle opere pubbliche mediante la valorizzazione delle professionalità interne alla pubblica amministrazione è indubbio che l’introduzione di norme regolamentari volte ad escludere la spettanza dell’incentivo in presenza di lavori aventi importi inferiore ad una determinata soglia apparirebbe in contrasto con la suddetta ratio.
D’altro canto
una siffatta previsione regolamentare apparirebbe in contrasto con i principi di ragionevolezza ed imparzialità posto che determinerebbe un trattamento differenziato dei lavoratori dell’amministrazione a fronte dell’espletamento di attività del tutto analoghe (progettazione interna per realizzazione di opera pubblica) in considerazione di un dato in alcun modo significativo ed idoneo a giustificare un trattamento antitetico dei dipendenti. Del resto innanzi all’eventuale introduzione in sede regolamentare di una previsione che escludesse il diritto al percepimento dell’incentivo per lavori di importi inferiori ad un determinato importo i lavoratori potrebbero insorgere contestando in sede giurisdizionale l’illegittimità della previsione anche sotto il profilo della disparità di trattamento rispetto ad altri dipendenti che si vedessero riconosciuto l’incentivo solo perché coinvolti nella progettazione di un lavoro di importo superiore (anche se di poco) alla soglia.
Infatti –come già detto– in assenza di un elemento significativo e convincente (che non pare possa essere il diverso importo dei lavori oggetto di realizzazione), atto a giustificare compiutamente il differente trattamento economico,
la decisione dell’amministrazione si configurerebbe in contrasto con il principio di parità di trattamento nei luoghi di lavoro, oggetto di riconoscimento e di tutela sia livello europeo che in sede nazionale quale esplicitazione dei principi della Costituzione.
Va infine rammentato che
il Regolamento della singola amministrazione viceversa potrebbe, come espressamente previsto dalla legge, articolare diversamente la percentuale dell’incentivo da riconoscere ai dipendenti in ragione dell’entità e del diverso grado di complessità delle opere da realizzare, senza giungere ad escludere completamente l’erogazione di alcuna somma.
  
II. Proseguendo nell’esame della normativa in questione occorre evidenziare che come ancora recentemente affermato da questa Sezione (cfr.
parere 16.01.2014 n. 8) “l’incentivo alla progettazione non può venire riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione ordinaria/straordinaria su beni dell’ente locale ma solo per lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla cui base vi sia una necessaria attività di progettazione. Esulano, dunque, tutti quei lavori manutentivi per la cui realizzazione non è necessaria l’attività progettuale richiamata negli articoli 90, 91 e 92 del d.lgs. n. 163/2006.”
La consolidata giurisprudenza della Corte dei Conti ha infatti affermato che l’incentivo alla progettazione non può venire riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione ordinaria/straordinaria su beni dell’ente locale, ma solo per lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla cui base vi sia una necessaria attività di progettazione (cfr. Sez. reg. controllo Lombardia,
parere 15.10.2013 n. 442; parere 06.03.2013 n. 72; Sez. reg. controllo Toscana, parere 19.03.2013 n. 15).
  
III. La norma recata dall’art. 92, co. 5, d.lgs 163/2006, come già accennato, indica le condizioni fondamentali che devono essere rispettate al fine dell’erogazione dell’incentivo; in particolare dalla stessa discende che l’erogazione possa avvenire solo a favore dei dipendenti che abbiano espletato gli incarichi tassativamente indicati nella norma ovvero: responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori.
La legge prevede quindi che possano essere coinvolti e come tali regolarmente ricompensati altresì i collaboratori che abbiano svolto compiti di ausilio e supporto al personale prettamente tecnico incaricato della predisposizione degli atti tipici, strumentali alla realizzazione dell’opera pubblica.
In proposito la normativa non reca alcuna distinzione né limitazione in ordine ai collaboratori che possono essere remunerati, sicché
pare possibile che anche collaboratori amministrativi, a prescindere dalle mansioni proprie dei rispettivi profili professionali, che partecipino in modo effettivo mediante contributo intellettuale e materiale alle attività del responsabile del procedimento, alla realizzazione del progetto del piano di sicurezza, alla direzione lavori ecc… possano essere inclusi nell’ambito del gruppo di lavoro destinatario dell’incentivo di cui al citato art. 92. Il dirigente preposto alla struttura competente pertanto, dopo aver accertato l’effettivo espletamento delle specifiche attività da parte dei collaboratori amministrativi, potrà corrispondere loro l’incentivo in conformità alle previsioni contenute nel regolamento dell’amministrazione.
  
IV. Va inoltre rilevato che, considerata la sedes materiae della norma sugli incentivi alla progettazione (Codice degli appalti), nonché la ratio della disposizione (come già detto contenere i costi connessi alla progettazione delle opere pubbliche valorizzando le professionalità interne alla pubblica amministrazione), secondo quanto affermato da consolidata giurisprudenza, “la norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli Uffici tecnici dell’Ente” (in termini, Sezione contr. Piemonte
, parere 19.12.2013 n. 434; cfr. altresì Sezione contr. Lombardia, parere 30.05.2012 n. 259; parere 06.03.2012 n. 57; Sezione contr. Puglia, parere 16.01.2012 n. 1; Sezione contr. Toscana, parere 18.10.2011 n. 213).
In relazione specifica poi alla posizione del responsabile del procedimento (r.u.p.), si osserva che questi normalmente, in base alle previsioni contenute nei singoli Regolamenti degli enti, attuativi del citato comma 5 dell’art. 92 del D.lgs. n. 163/2006, prende parte alla ripartizione dell’incentivo in relazione ad atti di progettazione interna collegati alla realizzazione di opere pubbliche. La partecipazione del responsabile del procedimento al riparto degli emolumenti tuttavia non avviene in ragione della sua qualifica, ma in relazione al complessivo svolgimento interno dell’attività di progettazione. In sostanza, qualora l’attività venga svolta internamente tutti i soggetti che, a qualsivoglia titolo, collaborano hanno diritto, in base alle previsioni del regolamento dell’ente, a partecipare alla distribuzione dell’incentivo.
Viceversa nel caso contrario in cui l’attività venga svolta all’esterno, non sorgendo il presupposto per la ripartizione di un incentivo fra i vari dipendenti dell’ufficio, non vi è neppure un autonomo diritto del responsabile del procedimento ad ottenere un compenso per un’attività che, al contrario, rientra fra i suoi compiti e doveri d’ufficio
(cfr. Sez. contr. Piemonte, parere 30.08.2012 n. 290).
  
V. Si può infine procedere a prendere in esame l'ipotesi in cui un privato esegua direttamente le opere di urbanizzazione previste da un piano di lottizzazione a scomputo, totale o parziale, del contributo degli oneri di urbanizzazione.
La realizzazione delle opere a scomputo prevede la redazione ed approvazione, da parte del soggetto attuatore, di progetti redatti in conformità ai tre livelli di progettazione, le attività di direzione lavori e contabilità, sotto il diretto controllo del Responsabile del procedimento nominato dall'Amministrazione. I lavori in discorso sono previsti dall’art. 32, lettera g), del Codice dei contratti pubblici e ai soggetti privati ivi indicati, titolari di permesso di costruire, non si applica l’art. 92 del Codice stesso, relativo agli incentivi in trattazione (cfr. sez. contr. Piemonte
, parere 16.01.2014 n. 8).
In siffatta fattispecie l’Amministrazione non potrà corrispondere l’incentivo per la progettazione né a favore del responsabile del procedimento né a favore di altro dipendente incaricato di controllare per conto dell’Ente locale le opere oggetto di realizzazione, essendo nella fattispecie ogni onere posto a carico del privato attuatore dell’intervento (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 28.02.2014 n. 39).

APPALTISulle Centrali di committenza un rinvio che fa chiarezza.
In principio fu il Piemonte, con il parere 06.07.2012 n. 271 con il quale la Corte dei conti della regione definì l'ambito di operatività delle Centrali di committenza cui sono obbligati i piccoli comuni. Per la Corte, anche se in presenza di importi irrisori, resta obbligatorio il ricorso alla Centrale se si tratta di una procedura comparativa tra più soggetti.
Posizione non pienamente accolta dalla Corte dei conti della Lombardia,
col parere 23.04.2013 n. 165, che ha ritenuto di dover escludere dall'obbligatorietà anche il cottimo fiduciario, oltre gli affidamenti diretti. La novella del comma 3-bis dell'art. 33 (art. 1, comma 343, legge n. 147 del 2013) ha chiarito che «le disposizioni di cui al presente comma non si applicano alle acquisizioni di lavori, servizi e forniture, effettuate in economia mediante amministrazione diretta, nonché nei casi di cui al secondo periodo del comma 8 e al secondo periodo del comma 11 dell'articolo 125»: prevale quindi la Corte dei conti del Piemonte: restano esclusi i soli affidamenti diretti.
Altra questione chiarita dalle Corti dei conti è stata la natura dell'accordo consortile. Unanime in questo caso l'orientamento: la dicitura «accordo consortile» non indica un atto istitutivo di un nuovo Consorzio (Umbria,
parere 04.06.2013 n. 112). Infatti la gestione consortile della centrale di committenza non può essere confusa né con l'idea di costituire un consorzio di funzioni tra enti (vietato dalla legge); né con le funzioni associate fondamentali (Lazio parere 26.06.2013 n. 138 e parere 26.06.2013 n. 139).
Il legislatore ha ribadito di non voler sovrapporre l'obbligo delle funzioni associate con l'obbligo di centralizzazione della committenza, rigettando la proposta di emendamento che voleva equiparare l'obbligatorietà della Centrale unica di committenza (Cuc) al completamento (teorico) della gestione associata delle funzioni (31/12/2014). L'accorpamento delle funzioni fondamentali è del resto ben diverso dalla razionalizzazione delle spese attraverso il ricorso alle centrali di committenza.
In definitiva, quindi, il Milleproroghe ha tenuto separati i due processi fissando l'obbligatorietà della Cuc al 30/06/2014. Ultima questione da segnalare è quella della mancata sovrapponibilità delle attività della Centrale di committenza con quelle introdotte dalla legge n. 136/2010 istitutiva delle Stazioni uniche appaltanti (Sua). Come ha ben chiarito la Corte dei conti della Basilicata,
deliberazione 01.07.2013 n. 98, «entrambe le figure organizzative hanno la natura di centrali di committenza (art. 3, n. 34, «Codice»).
Tuttavia, l'una non è perfettamente sovrapponibile in quanto «alla Sua non è consentito rendersi, essa stessa, acquirente di lavori, servizi e forniture destinate ad altre amministrazioni aggiudicatrici, come è consentito alle centrali di committenza previste dall'art. 33 del Codice».
Su questa linea è molto chiara la nuova direttiva appalti dell'Unione europea che disciplina in maniera puntuale l'ambito di operatività e i vantaggi competitivi che possono essere raggiunti attraverso un ricorso diffuso alle centrali di committenza (articolo ItaliaOggi del 14.03.2014).

APPALTI SERVIZI - INCARICHI PROFESSIONALI: Se le spese relative alla predisposizione degli atti di gara e alla successiva gestione della gara stessa per l’affidamento del servizio di distribuzione del gas naturale siano riconducibili nei limiti stabiliti dal decreto legge n. 101/2013 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 125/2013) per studi e incarichi di consulenza.
Per quanto concerne il presupposto che giustifica il conferimento, da parte del Comune, di incarichi di studio e consulenza, occorre rilevare che il ricorso, da parte del Comune, quale stazione appaltante, all’affidamento di incarichi di studio e consulenza necessari alla predisposizione degli atti di gara e alla gestione di questa dovrà in ogni caso avvenire nel rispetto della disciplina (art. 7, comma 6, d.lgs. n. 165/2001) che prevede il ricorso a tali istituti nei soli casi in cui l’amministrazione non disponga, al suo interno, di soggetti dotati delle necessarie professionalità e competenze per l’espletamento degli incarichi.
Nel caso in esame, quindi,
perché il Comune di possa conferire a un soggetto esterno l’attività necessaria alla predisposizione degli atti di gara (comprensiva della valutazione preliminare degli impianti) e alla successiva gestione della gara stessa, occorre che il Comune non disponga di uffici o strutture deputati, tra l’altro, alle attività di valutazione preliminare degli impianti e alla gestione della gara.
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La copertura degli oneri di gara è a carico del gestore aggiudicatario, che è tenuto, al pagamento del corrispettivo una tantum ai sensi dell’art. 8, comma 1, d.m. 12.11.2011, n. 226, e a una serie di altri oneri, compresi quelli connessi agli interventi di efficienza energetica
(art. 8, commi 2-6, d.m. 12.11.2011, n. 226).
Pertanto, tali spese non rientrano nei limiti di cui al decreto legge n. 101/2013 nella misura in cui siano strettamente e imprescindibilmente connesse alla definizione e gestione della gara che il legislatore impone per l’attività di distribuzione del gas naturale (art. 14, comma 1, d.lgs. n. 164/2000) e, in ogni caso, è necessario che oggetto del conferimento dell’incarico da parte del Comune siano attività che non gravino già sul gestore uscente, il quale è tenuto ad adempiere una serie di obblighi nei confronti dell’ente locale
(ad esempio, art. 4, “Obblighi informativi dei gestori”, d.m. 12.11.2011, n. 226).
Naturalmente, tali spese sono soggette al rispetto dei generali criteri della ragionevolezza e della proporzionalità.
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Quanto alla rappresentazione contabile delle somme anticipate dal Comune quale stazione appaltante e, successivamente, corrisposte al Comune dal gestore aggiudicatario a copertura degli oneri della gara, la Sezione concorda sulla necessità che tali somme vengano registrate in un capitolo di spesa ad hoc –diverso dal capitolo “servizi per conto terzi”– e con un’opportuna specificazione relativamente alle modalità e ai tempi del loro “rimborso” al Comune da parte del gestore aggiudicatario.
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Il sindaco del Comune di Brescia, mediante nota n. 126111 del 28.11.2013, chiede se le spese relative alla predisposizione degli atti di gara e alla successiva gestione della gara stessa per l’affidamento del servizio di distribuzione del gas naturale siano riconducibili nei limiti stabiliti dal decreto legge n. 101/2013 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 125/2013) per studi e incarichi di consulenza.
...
L’art. 1, comma 5, decreto legge 31.08.2013, n. 103, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.10.2013, n. 125, dispone limiti alle spese, relativamente agli anni 2014 e 2015, per studi e incarichi di consulenza, incluse quelle relative a studi e incarichi di consulenza conferiti a pubblici dipendenti, sostenute dalle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione e dalle autorità indipendenti.
La ratio della norma, così come di altre simili, previste in precedenti provvedimenti (ad esempio, l’art. 6, comma 7, decreto legge 31.05.2010, n. 78, convertito dalla legge 30.07.2010, n. 122), è quella di operare un consistente contenimento di dette spese, la cui entità ha raggiunto, nel corso degli anni, dimensioni che il legislatore ha valutato esorbitanti rispetto alle effettive esigenze delle amministrazioni.
L’estensione dell’ambito applicativo della norma alle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione rende evidente che anche le autonomie locali sono chiamate a partecipare, nel rispetto degli articoli 117, comma 3, e 119, comma 2, della Costituzione, al raggiungimento degli obiettivi di sana gestione finanziaria pubblica che la Repubblica si è impegnata a realizzare.
L’art. 1, comma 5, decreto legge n. 101/2013 fa espresso riferimento alla spesa annua sostenuta, dalle amministrazioni pubbliche di cui s’è detto, per studi e incarichi di consulenza, conferiti sia a soggetti esterni alla pubblica amministrazione, sia a pubblici dipendenti.
Gli incarichi di studio e consulenza cui la norma si riferisce sono quelli conferiti per approfondire tematiche di interesse dell’amministrazione; si tratta, inoltre, di prestazioni di cui l’amministrazione, nell’esercizio della sua discrezionalità, decide di avvalersi per il conseguimento delle proprie finalità.

Al fine di valutare se le spese relative alla predisposizione degli atti di gara e alla successiva gestione della gara stessa per l’affidamento del servizio di distribuzione del gas naturale, sostenute dal Comune di Brescia quale stazione appaltante, rientrino o meno nei limiti di cui all’art. 1, comma 5, decreto legge n. 101/2013, occorre esaminare il contenuto delle prestazioni professionali oggetto dell’incarico e se i relativi oneri siano determinati da servizi o adempimenti cui l’ente è tenuto per legge (cfr. Corte conti, SS.RR. in sede di controllo, delibera n. 6/CONTR/05).
Nel caso in esame, fra le spese che il comune di Brescia, quale stazione appaltante dell’Atem Brescia 3 Città e impianto di Brescia per la gara unica avente ad oggetto l’affidamento del servizio di distribuzione del gas naturale, si propone di sostenere rientrano quelle di valutazione preliminare degli impianti (di cui, però, la richiesta di parere non specifica in che cosa consistano), oltre alle spese connesse alla gestione della gara (anche in tal caso, su tali spese non sono forniti ulteriori elementi).
Si tratterebbe, nella prospettazione del Comune di Brescia, di spese funzionalmente connesse alla procedura di gara, sia nella fase preliminare al suo svolgimento, sia in quella successiva della gestione della gara.
Per quanto concerne il presupposto che giustifica il conferimento, da parte del Comune di Brescia, di incarichi di studio e consulenza, occorre rilevare che
il ricorso, da parte del Comune, quale stazione appaltante, all’affidamento di incarichi di studio e consulenza necessari alla predisposizione degli atti di gara e alla gestione di questa dovrà in ogni caso avvenire nel rispetto della disciplina (art. 7, comma 6, d.lgs. n. 165/2001) che prevede il ricorso a tali istituti nei soli casi in cui l’amministrazione non disponga, al suo interno, di soggetti dotati delle necessarie professionalità e competenze per l’espletamento degli incarichi.
Nel caso in esame, quindi,
perché il Comune di Brescia possa conferire a un soggetto esterno l’attività necessaria alla predisposizione degli atti di gara (comprensiva della valutazione preliminare degli impianti) e alla successiva gestione della gara stessa, occorre che il Comune non disponga di uffici o strutture deputati, tra l’altro, alle attività di valutazione preliminare degli impianti e alla gestione della gara.
Quanto alla riconducibilità o meno di tali spese nei limiti di cui al decreto legge n. 101/2013, si rileva che le spese vengono anticipate dal Comune, stazione appaltante, per essere poi a questo rimborsate dall’aggiudicatario-gestore mediante un corrispettivo che quest’ultimo dovrà versare al Comune.
L’art. 8, comma 1, del decreto del Ministero dello sviluppo economico 12.11.2011, n. 226 chiarisce, infatti, che “il gestore aggiudicatario della gara corrisponde alla stazione appaltante un corrispettivo una tantum per la copertura degli oneri di gara, ivi inclusi gli oneri di funzionamento della commissione di gara”. Il riferimento alla “copertura degli oneri di gara” appare essere comprensivo di tutte le spese necessarie alla predisposizione e gestione della gara (il legislatore ha, inoltre, specificato che vi rientrano anche gli oneri per il funzionamento della commissione di gara).
La copertura degli oneri di gara è a carico, quindi, del gestore aggiudicatario, che è tenuto, al pagamento del corrispettivo una tantum ai sensi dell’art. 8, comma 1, d.m. 12.11.2011, n. 226, e a una serie di altri oneri, compresi quelli connessi agli interventi di efficienza energetica (art. 8, commi 2-6, d.m. 12.11.2011, n. 226).
Pertanto,
tali spese non rientrano nei limiti di cui al decreto legge n. 101/2013 nella misura in cui siano strettamente e imprescindibilmente connesse alla definizione e gestione della gara che il legislatore impone per l’attività di distribuzione del gas naturale (art. 14, comma 1, d.lgs. n. 164/2000) e, in ogni caso, è necessario che oggetto del conferimento dell’incarico da parte del Comune siano attività che non gravino già sul gestore uscente, il quale è tenuto ad adempiere una serie di obblighi nei confronti dell’ente locale (ad esempio, art. 4, “Obblighi informativi dei gestori”, d.m. 12.11.2011, n. 226).
Naturalmente, tali spese sono soggette al rispetto dei generali criteri della ragionevolezza e della proporzionalità.
Inoltre, nella quantificazione del corrispettivo che il gestore dovrà versare alla stazione appaltante, lo stesso art. 8, comma 1, d.m. 12.11.2011, n. 226 dispone che i criteri per la definizione del corrispettivo siano definiti dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas (l’Autorità vi ha provveduto con delibera 11.10.2012, n. 407/2012/R/gas, “Criteri per la definizione del corrispettivo una tantum per la copertura degli oneri di gara per l’affidamento del servizio di distribuzione del gas naturale”); nello stabilire il quantum del corrispettivo, la stazione appaltante dovrà, quindi, rispettare tali criteri.
Del resto, la verifica di ragionevolezza e proporzionalità delle spese che il Comune si propone di sostenere per la definizione e gestione della gara per l’affidamento dell’attività di distribuzione del gas naturale è funzionale ad evitare che vengano caricati sul gestore oneri ulteriori ed eccedenti a quelli strettamente necessari. In caso contrario, potrebbe verificarsi una traslazione (almeno di parte) degli oneri sostenuti dal gestore sui consumatori, quali utenti tenuti al pagamento del prezzo per il servizio.
Quanto alla rappresentazione contabile delle somme anticipate dal Comune quale stazione appaltante e, successivamente, corrisposte al Comune dal gestore aggiudicatario a copertura degli oneri della gara, la Sezione concorda sulla necessità che tali somme vengano registrate in un capitolo di spesa ad hoc –diverso dal capitolo “servizi per conto terzi”– e con un’opportuna specificazione relativamente alle modalità e ai tempi del loro “rimborso” al Comune da parte del gestore aggiudicatario (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 17.01.2014 n. 23).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità del consigliere comunale.
La circostanza che un incarico professionale, affidato dall'ufficio comune di una associazione intercomunale al consigliere comunale di uno dei comuni associati, venga da costui svolto nei confronti di tutti i Comuni appartenenti all'associazione e, quindi, anche per il Comune presso cui esercita il proprio munus, comporta un potenziale conflitto di interessi tra i due ruoli dallo stesso ricoperti: quello di soggetto controllato, in relazione all'incarico professionale conferitogli e quello di controllore in relazione alla propria appartenenza all'organo consiliare del Comune, con il conseguente sorgere della causa d'incompatibilità di cui all'articolo 63, comma 1, n. 2 del d.lgs. 267/2000.
Il Comune chiede di conoscere se sussistano cause di incompatibilità nel caso in cui al consigliere di un Comune, partecipante a un'associazione intercomunale, venga affidato, con procedura aperta, da un Ufficio comune dell'associazione, un incarico professionale da svolgersi presso i comuni associati.
Esaminato il quadro normativo di riferimento e sentito il Servizio elettorale, si formulano le seguenti considerazioni.
In relazione alla situazione prospettata dall'Ente instante, rilevano le disposizioni di cui all'articolo 63, comma 1, n. 2 del d.lgs. 267/2000 (TUEL).
Tale comma prevede che non può ricoprire la carica di sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale, provinciale o circoscrizionale: '2) colui che, come titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni di diritti, somministrazioni o appalti, nell'interesse del comune o della provincia [...]'.
Nel caso in esame, l'incarico professionale affidato al consigliere può essere ricondotto alternativamente ai 'servizi' o agli 'appalti' contemplati dalla citata norma.
Come affermato dalla Cassazione civile, Sez. I, nella sentenza n. 550 del 16.01.2004, la ratio della causa di incompatibilità di cui all' articolo 63, comma 1, n. 2, del TUEL 'risiede nell'esigenza di impedire che possano concorrere all'esercizio delle funzioni dei consigli comunali soggetti portatori di interessi configgenti con quelli del comune o i quali si trovino comunque in condizioni che ne possano compromettere l'imparzialità'.
In altri termini, la norma è finalizzata ad evitare che la medesima persona fisica rivesta contestualmente la carica di amministratore di un comune e la qualità di titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento di un soggetto che si trovi in rapporti giuridici con l'ente locale, caratterizzati da una prestazione da effettuare all'ente o nel suo interesse, atteso che tale situazione potrebbe determinare l'insorgere di una posizione di conflitto di interessi.
Pertanto, deve sussistere una duplice, concorrente condizione: la prima, di natura soggettiva; la seconda, di natura oggettiva.
È necessario, innanzitutto, che il soggetto -in ipotesi incompatibile all'esercizio della carica elettiva- rivesta una di quelle qualità indicate dalla legge. Come rilevato dalla giurisprudenza nella sentenza citata, tale condizione può essere integrata anche in ipotesi di esercizio di una professione intellettuale; il secondo requisito consiste nel fatto che il soggetto sia parte in servizi o appalti, assunti nell'interesse del comune.
La circostanza che l'incarico professionale in argomento venga svolto nei confronti di tutti i Comuni appartenenti all'associazione intercomunale
[1] in parola e, quindi, anche per il Comune presso cui il consigliere esercita il proprio munus, comporta un potenziale conflitto di interessi tra i due ruoli dallo stesso ricoperti: quello di soggetto controllato, in relazione all'incarico professionale conferitogli e quello di controllore in relazione alla propria appartenenza all'organo consiliare del Comune, con il conseguente sorgere della causa d'incompatibilità prospettata.
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[1] Nelle associazioni intercomunali, costituite ai sensi dell'articolo 22 della lr 1/2006, prive di personalità giuridica, l'ufficio comune svolge le funzioni pubbliche in luogo dei comuni associati che ne rimangono titolari
(14.03.2014 - link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Micro-enti senza giunta. Niente assessori nei centri sotto i mille abitanti. Negli altri casi il numero non deve superare un terzo dei consiglieri.
Quale disposizione normativa regola la composizione numerica della giunta comunale di un ente?

In merito alla composizione della giunta comunale l'art. 47 del dlgs n. 267/2000 stabilisce che il numero degli assessori non deve superare un terzo del numero dei consiglieri, con ciò ancorando ai componenti del consiglio, e quindi al momento della loro determinazione numerica, l'indicazione del numero massimo da parte dello statuto.
Inoltre, l'art. 16, comma 17, del decreto legge n. 138 del 2011, convertito nella legge n. 148 del 2011 non prevede, per i comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti, la figura degli assessori, risultando attribuite solamente al sindaco le competenze della giunta comunale.
L'ente in argomento ha rinnovato i propri organi a seguito delle elezioni amministrative svoltesi a maggio 2012. Considerato che, a tale data, non era ancora stato pubblicato nella gazzetta ufficiale il censimento del 2011, i seggi sono stati assegnati in base ai dati risultanti dall'ultimo censimento ufficiale del 2001, che indicava una popolazione inferiore ai mille abitanti.
Ciò in quanto, ai sensi dell'art. 37, comma 4, del dlgs n. 267 del 2000, la popolazione dell'ente «è determinata in base ai risultati dell'ultimo censimento ufficiale».
Nel caso di specie, alla data del rinnovo elettorale, il numero dei consiglieri è stato stabilito in base all'ultimo censimento, quello del 2001, in quanto a quella data, maggio 2012, non erano ancora disponibili i dati relativi al censimento del 2011.
Infatti, il dpr adottato in data 06/11/2012, recante «determinazione della popolazione legale della repubblica in base al 15° censimento generale della popolazione e delle abitazioni del 09.10.2011», acquisisce la sua efficacia, anche ai fini in argomento, a decorrere dalla data della sua pubblicazione avvenuta sulla G.U. n. 294 del 18.12.2012.
Poiché alla data delle elezioni il comune risultava con popolazione inferiore a 1.000 abitanti, ai fini del quesito posto trova applicazione il citato art. 16, comma 17, del dl n. 138/2011 relativa alla mancata previsione della figura degli assessori (articolo ItaliaOggi del 14.03.2014).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Surroga del Sindaco.
È possibile procedere alla surrogazione del sindaco di un comune, recentemente deceduto, con attribuzione del seggio rimasto vacante, ai sensi degli articoli 53 e 45, comma 1, del dlgs n. 267/2000?

Il caso di specie è disciplinato dall'art. 141, comma 1, lett. b), del dlgs n. 267/2000 secondo cui, in caso di decesso del sindaco, il consiglio comunale viene sciolto con decreto del presidente della repubblica su proposta del ministro dell'interno.
In presenza di tale fattispecie non è possibile procedere alla surroga dei consiglieri, stante l'esplicita previsione in tal senso contenuta nell'art. 38, comma 8, dello stesso decreto legislativo.
A maggior ragione, non è possibile procedere alla surroga del sindaco con la nomina del primo candidato alla carica di consigliere non eletto, in quanto, tra l'altro, l'articolo 45 del dlgs. n. 267/2000, recante la disciplina in materia di surrogazione e supplenza dei consiglieri provinciali, comunali e circoscrizionali, si riferisce esclusivamente alla ipotesi di vacanza del seggio di consigliere e non anche alla diversa fattispecie del decesso del sindaco, disciplinata dall'art. 53 del richiamato decreto legislativo (articolo ItaliaOggi del 14.03.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Nudo proprietario e ristrutturazione edilizia.
In caso di ristrutturazione di un immobile la cui proprietà è suddivisa in usufrutto e nuda proprietà, chi può usufruire della detrazione se la spesa è sostenuta dal nudo proprietario?
La detrazione delle spese di ristrutturazione edilizia può essere usufruita da tutti i soggetti tenuti al pagamento dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, residenti o meno nel territorio dello Stato. In particolare, l’agevolazione spetta ai contribuenti che possiedono o detengono, sulla base di un titolo idoneo, l’immobile sul quale sono effettuati gli interventi (articolo 16-bis del Tuir).
Ha, pertanto, facoltà di usufruire del bonus fiscale anche il nudo proprietario dell’immobile oggetto di ristrutturazione edilizia, qualora ne sostenga le relative spese (circolare 57/E del 1998) (11.03.2014 - link a www.fiscooggi.it).

EDILIZIA PRIVATA: Tettoia ricavata da un pergolato.
Domanda
Si chiede se, in una zona paesaggisticamente vincolata, possa essere sanata, dal punto di vista paesaggistico, una tettoia ricavata su un vecchio pergolato.
Risposta
Già si è avuto modo di scrivere che la Corte di cassazione, con la sentenza del 23.03.2011, numero 25016, ha affermato che nelle zone paesaggisticamente vincolate deve essere inibita ogni modificazione dell'assetto del territorio attuata attraverso lavori di qualsiasi genere, non soltanto edilizi.
Si è detto pure che il Consiglio di stato, sezione IV, con la sentenza del 29.09.2011, numero 5409, ha puntualizzato che la realizzazione di un pergolato, da intendere come un manufatto avente natura ornamentale, realizzato in struttura leggera di legno o altro materiale di minimo peso, facilmente amovibile in quanto privo di fondamenta, che funge da sostegno per piante rampicanti, attraverso le quali realizzare riparo e/o ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni, deve essere subordinato all'autorizzazione paesaggistica di cui all'articolo 145 del decreto legislativo n. 42 del 2004.
Ora la domanda che viene posta dal lettore è se l'abusiva trasformazione in tettoia di un pergolato posa essere sanato con un successivo, e, quindi, postumo, nulla osta paesaggistico.
La Corte di cassazione, sezione III penale, con le sentenze del 10.03.2009, numero 10534, e del 19.05.2008, numero 19973, ha sentenziato che la tettoia aumenta l'abitabilità dell'immobile, dato che essa può essere utilizzata anche come riparo, mente il pergolato costituisce una struttura aperta sia nei lati esterni che nella parte superiore ed è destinato a creare ombra.
Inoltre, il Tribunale regionale amministrativo della Campania (Tar), Sezione Settima, con la sentenza del 22.02.2012, numero 885, ha sottolineato che «l'articolo 146, comma 4, del decreto legislativo numero 42 del 2004, esclude dal divieto di rilasciare l'autorizzazione paesaggistica in sanatoria (ossia successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi) i casi previsti dall'articolo 167, comma 4, del medesimo decreto legislativo, costituiti, oltre che dall'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica e dai lavori comunque configurati quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria, dai lavori realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazioni di superfici utili ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati» (articolo ItaliaOggi Sette del 10.03.2014).

APPALTI: Centrale di committenza.
Domanda
Buongiorno, scrivo dall'Abruzzo e volevo chiedere se è corretto che due Comuni che insieme non arrivano a 2.500 abitanti possono firmare una convenzione ad hoc creando tra loro una centrale di committenza. Se non ho male interpretato la legge del codice degli appalti, all'art. 33, comma 3-bis, parla di minimo 5.000 abitanti.
Faccio presente che i due comuni condividono lo stesso segretario comunale.
Risposta
L'art. 33, comma 3-bis, del dlgs n. 163/2006 stabilisce che: «I Comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti ricadenti nel territorio di ciascuna Provincia affidano obbligatoriamente ad un'unica centrale di committenza l'acquisizione di lavori, servizi e forniture_».
Tale previsione normativa si applica ai Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti indipendentemente dalla distinzione tra Comuni «piccolissimi» (sino a 1.000 abitanti) e «piccoli» (da 1.001 a 5.000 abitanti).
Sotto il profilo territoriale è necessario che si tratti di enti della medesima Provincia essendo esclusa la gestione associata tra amministrazioni limitrofe site in due diversi territori provinciali.
Il legislatore ha introdotto una forma di accentramento della gestione delle gare al fine di eliminare i costi inutili connessi alla frammentazione della fase di acquisizione di lavori, servizi e forniture.
La normativa prevede che i piccoli Comuni debbano effettuare i propri acquisti attraverso una Centrale di Committenza associandosi nell'ambito di una Unione di Comuni o consorziandosi con un apposito accordo consortile. Se le Amministrazioni decidono di stipulare una convenzione ex art. 30 Tuel, per la gestione associata delle funzioni fondamentali, graverà su di esse l'obbligo di stipulare un accordo consortile.
È in capo al Consorzio istituito l'obbligo di dare vita a un proprio ufficio di committenza accentrata o comunque di attribuire tale funzione ad uno dei Comuni consorziati quale «capo-fila». In alternativa è possibile far ricorso a strumenti elettronici, gestiti da altre centrali di committenza, tra i quali la normativa stessa include le convenzioni Consip e il Mercato elettronico della p.a.
Anche le acquisizioni in economia mediante procedura di cottimo fiduciario, che quindi prevedono l'indizione di una gara informale, devono essere effettuate attraverso le centrali di committenza. Possano escludersi, dalla gestione obbligatoria delle Centrali uniche di committenza, le acquisizioni in economia mediante amministrazione diretta e l'affidamento diretto per importi inferiori ai 40 mila euro così come previsto dall'art. 125, commi 8 e 11, del dlgs n. 163/2006 (articolo ItaliaOggi Sette del 10.03.2014).

ATTI AMMINISTRATI: Annullamento in autotutela.
Domanda
Vorrei sapere quali sono i limiti per l'annullamento d'ufficio di un provvedimento amministrativo. Mi chiedo, in particolare, se la pubblica amministrazione possa procedere all'annullamento di un provvedimento che riconosce a un dipendente l'inquadramento, non dovuto, in una categoria superiore. Preciso che l'atto è ancora in corso di esecuzione e sono trascorsi più di due anni dalla sua adozione.
Risposta
L'art. 21-nonies della Legge 241/1990 stabilisce che il provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
L'amministrazione può procedere, al ritiro d'ufficio dell'atto illegittimo, dopo aver verificato che l'interesse pubblico all'annullamento è prevalente rispetto a quello alla conservazione dell'atto, alla luce degli interessi privati coinvolti.
Per quanto riguarda la ragionevolezza del temine il Tar Campania, con sentenza 7503/2006, ha precisato che l'illegittimità della delibera annullata in autotutela e avente a oggetto l'inquadramento, non dovuto, del dipendente in una categoria superiore «...comporta l'indebita erogazione di somme di denaro da parte dell'amministrazione, il che integra un interesse pubblico alla rimozione dell'atto in riferimento al quale l'interesse del privato alla conservazione del provvedimento deve essere valutato con estremo rigore».
Pertanto, a fronte di tale rilevante interesse pubblico e degli effetti dell'illegittimità dell'atto, non può ritenersi che l'annullamento intervenuto a più di due anni di distanza superi il «termine ragionevole», il cui rispetto è previsto dall'art. 21-novies della legge 241/1990.
In ogni caso il provvedimento di annullamento appare legittimo anche alla luce dell'art. 1, comma 136, della legge n. 311/2004 secondo cui, «al fine di conseguire risparmi o minori oneri finanziari per le amministrazioni pubbliche, può sempre esser disposto l'annullamento di ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi, anche se l'esecuzione degli stessi sia ancora in corso» (articolo ItaliaOggi Sette del 10.03.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Convenzione. Uffici comuni e nomina datore di lavoro.
L'art. 3, comma 6, del d.lgs. 81/2008, prevede che, per il personale delle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001, che presta servizio con rapporto di dipendenza funzionale presso altre amministrazioni pubbliche, gli obblighi imposti dal medesimo decreto sono a carico del datore di lavoro designato dall'amministrazione ospitante (nel caso di associazione intercomunale, l'amministrazione presso cui ha sede l'ufficio comune cui viene assegnato il personale).
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla corretta procedura da seguire per la nomina del datore di lavoro, ai sensi del d.lgs. 81/2008, nella fattispecie in cui, nell'ambito della convenzione quadro di un'associazione intercomunale, tre amministrazioni comunali abbiano stipulato una convenzione attuativa che prevede la costituzione di 12 uffici comuni, distribuiti variamente nei tre Comuni interessati. Le predette amministrazioni intendono individuare una figura unitaria di datore di lavoro, anche al fine di evitare la coincidenza di tale figura con il Sindaco oppure di frazionare la figura tra 12 diversi titolari di p.o..
L'Ente istante precisa che intende procedere alla nomina del funzionario in argomento mediante l'adozione di tre decreti sindacali da parte dei rispettivi sindaci, in considerazione del fatto che ognuno dei tre comuni conserva personalità giuridica e costituisce 'autorità ospitante', ai sensi dell'art. 3, comma 6, del d.lgs. 81/2008, del personale che presta servizio presso l'Ente con rapporto di dipendenza funzionale.
L'art. 2 del d.lgs. 81/2008 definisce la figura del 'datore di lavoro' nell'ambito delle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001 (enti locali compresi).
La citata disposizione precisa che, per datore di lavoro, si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall'organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa.
Pertanto, il datore di lavoro, individuato ai sensi e per le finalità della normativa di cui trattasi, è in sostanza il dipendente (dirigente o titolare di p.o.) cui, a termini di regolamento, viene affidata la responsabilità di un determinato ufficio/servizio, all'interno della struttura organizzativa dell'ente
[1].
L'art. 18 del citato decreto elenca esaurientemente gli obblighi organizzativi e gestionali propri del datore di lavoro e dei dirigenti/responsabili che collaborano con lui, vigilando sulla sicurezza dell'attività lavorativa dei rispettivi settori.
Premesso un tanto, si osserva che lo scrivente Ufficio ha in precedenza affrontato problematica analoga a quella prospettata (con riferimento all'individuazione del datore di lavoro nell'ambito di un'associazione intercomunale), nei termini di seguito riportati
[2].
L'art. 3, comma 6, del del d.lgs. 81/2008 prevede che, per il personale delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001 che presta servizio con rapporto di dipendenza funzionale presso altre amministrazioni pubbliche, organi o autorità nazionali, gli obblighi imposti dall'art. 18 del citato decreto sono a carico del datore di lavoro designato dall'amministrazione, organo o autorità ospitante.
Pertanto, nel caso di associazione intercomunale, l'amministrazione ospitante risulta individuata nell'ente locale presso cui ha sede l'ufficio comune e al quale viene assegnato il personale dei Comuni associati, in dipendenza funzionale. Detta amministrazione deve quindi procedere a designare il datore di lavoro responsabile per la sicurezza, ai fini del d.lgs. 81/2008.
Infatti, l'art. 47, comma 1, del CCRL del 07.12.2006 stabilisce che il personale degli enti che costituiscono uffici comuni nell'ambito delle forme associative, ai quali sia affidato l'esercizio delle funzioni pubbliche in luogo degli enti partecipanti all'accordo costitutivo, viene assegnato dagli enti stessi agli uffici comuni.
Come precisato dal successivo comma 2 dell'articolo in esame, detta assegnazione avviene automaticamente in forza della stipula della convenzione attuativa che costituisce l'ufficio della forma associativa.
Il comma 3 del citato art. 47 precisa inoltre che l'assegnazione del personale non comporta la costituzione di un distinto rapporto di lavoro, il vincolo di dipendenza organica permane con l'ente di provenienza, e (ciò che rileva ai fini della questione sottoposta) il rapporto di servizio si svolge nell'ambito dell'ufficio della forma associativa
[3].
Pertanto, appare corretta la procedura indicata dall'Ente, che vede coinvolti, per la designazione del datore di lavoro, i sindaci dei tre comuni in cui hanno sede gli Uffici comuni dell'Associazione.
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[1] L'art. 16 del d.lgs. 81/2008 prevede inoltre che il datore di lavoro possa delegare le proprie funzioni ad altri soggetti, con determinati limiti e condizioni.
[2] Cfr. prot. n. 20833 dell'08.07.2013.
[3] Cfr. anche Comparto unico e contrattazione/Pareri - Convenzioni e forme associative, parere n. 7., consultabile sul sito della regione.fvg.it
(07.03.2014 - link a www.regione.fvg.it).

NEWS

EDILIZIA PRIVATA: Sconti fiscali e cubature per il social housing. Semplificazione. Possibile l'approvazione di piani anche in variante urbanistica, nessun limite minimo per gli alloggi sociali.
Tra le pieghe del decreto Lupi sull'emergenza casa approvato mercoledì scorso spuntano due forti misure per incentivare gli operatori privati (imprese di costruzione, società immobiliari, cooperative edilizie o di abitazione) ad aumentare l'offerta di alloggi sociali, a far cioè decollare finalmente quel social housing di cui si parla dal 2008 senza i massicci risultati sperati.
Si tratta di una maxi-deduzione dai redditi di impresa pari al 40% dei ricavi da canone di locazione per le aziende che costruiscono o recuperano alloggi da destinare a edilizia sociale, e varianti iper-semplificate per riconvertire all'edilizia sociale piani urbanistici già rilasciati al 31.12.2013.
L'obiettivo del governo è sbloccare una buona volta in tempi rapidi gli investimenti del fondo Fia di Cassa Depositi. Gli sconti fiscali si applicheranno per interventi di realizzazione di alloggi sociali, sia di nuova costruzione sia mediante manutenzione straordinaria o recupero di alloggi esistenti. Le imprese che realizzano tali interventi potranno dedurre ai fini Ires e Irap, per un periodo non superiore a dieci anni, il 40% dei redditi da locazione.
Non c'è nessun altro paletto, e dunque lo sconto dovrebbe applicarsi anche agli investimenti già realizzati. L'onere netto per lo Stato è stimato a regime in 15 milioni di euro all'anno. La definizione di «alloggio sociale» è quella del Dm Infrastrutture del 22.04. 2008, molto ampia: tutti gli alloggi dati in locazione (permanente o per almeno 8 anni) o venduti, a condizioni più vantaggiose di quelle di mercato, «alloggi realizzati o recuperati da operatori pubblici e privati, con il ricorso a contributi o agevolazioni pubbliche», quali finanziamenti, esenzioni fiscali, assegnazione di aree o immobili, incentivi urbanistici.
Per spingere l'edilizia sociale il decreto legge consente anche l'approvazione di piani urbanistici in variante, con una norma che si presta ad applicazioni molto flessibili, anche per sbloccare o incentivare operazioni miste di riqualificazione urbana, purché venga inserita una quota minima (non specificata) di edilizia sociale.
In questo caso si parla solo di alloggi in locazione, e «senza consumo di nuovo suolo», dunque solo per operazioni di ristrutturazione edilizia, demolizione e ricostruzione anche con cambio di sagoma o anche diversa localizzazione dell'immobile ricostruito (purché all'interno dello stesso lotto), variazione di destinazione d'uso senza opere. È ammessa anche la «creazione di servizi e funzioni connesse e complementari alla residenza» compreso il commercio (con esclusione delle grandi strutture di vendita), ai fini di «garantire integrazione sociale agli inquilini» (evitare quartieri dormitorio), in misura comunque non superiore al 20% della superficie utile.
Per fare tutto questo è ammesso, su titoli edilizi rilasciati o convenzioni urbanistiche firmate entro il 31 dicembre scorso, fare veloci e rapide riconversioni dei progetti, con convenzioni dirette Comune-operatore anche in variante agli strumenti urbanistici. Sono escluse solo le aree vincolate, quella a inedificabilità assoluta e i centri storici
 (articolo Il Sole 24 Ore del 16.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti elettronici, la differenziata sale a 4 chili per abitante. Ambiente. Il decreto legislativo.
Via libera definitivo del Consiglio dei ministri al nuovo decreto legislativo sui Raee (rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche) che attua la direttiva 2012/19/Ue e archivia, quasi integralmente, il precedente Dlgs 151/2005.
Il testo approvato ieri recepisce molte osservazioni formulate sullo schema preliminare dalle competenti Commissioni di Camera e Senato e dalle Regioni.
Uno degli obiettivi della nuova disciplina risiede nell'incremento dei livelli di raccolta differenziata e recupero. I primi si attestano su almeno 4 chili/abitante fino al 31.12.2015 e all'01.01.2019 l'asticella si alzerà fino al 65%/anno delle apparecchiature nuove immesse sul mercato nei tre anni precedenti oppure l'85% dei Raee prodotti in Italia.
Gli obiettivi di recupero, riciclo e preparazione per il riutilizzo sono ricompresi tra il 50 e l'85% in base alle categorie di Raee e al periodo d'applicazione del nuovo decreto. Infatti, fino al 14.08.2018 il decreto si applica alle apparecchiature elettriche ed elettroniche (Aee) presenti nell'allegato I (che ora comprendono anche i pannelli fotovoltaici). Alcune Aee, come materiali bellici e lampade a incandescenza, sono escluse. Dal 15.08.2018, però, il campo di applicazione si estende a tutte le Aee presenti nell'allegato III e classificate in sei categorie. Il futuro ampliamento non tocca alcune Aee come quelle da inviare nello spazio e quelle mediche, se infette.
Se i Raee potranno essere riutilizzati dovranno andare ai centri accreditati di preparazione per il riutilizzo. Ma occorre aspettare il Dm di cui all'articolo 180-bis comma 2, del "Codice ambientale". Il nuovo decreto introduce il cosiddetto "uno contro zero", che si ha quando il cittadino consegna gratuitamente ad un distributore il proprio Raee con dimensioni esterne inferiori a 25 cm anche senza l'acquisto di una nuova Aee equivalente. Il ritiro è obbligatorio per le superfici di vendita di Aee al dettaglio di almeno 400 mq e facoltativo per le aree minori.
I vari stoccaggi non sono soggetti ad autorizzazione ma (si legge nella relazione al decreto) «i distributori sono comunque tenuti» alla gestione nel rispetto del Codice ambientale. Pertanto, sembra di capire che fino al previsto decreto sulle procedure semplificate, almeno le procedure ordinarie sulla tracciabilità vanno osservate. Per ridurre al minimo l'immissione dei Raee domestici nei cassonetti con i rifiuti urbani misti, i centri di raccolta comunale accettano gratuitamente quelli conferiti da cittadini, distributori, installatori e gestori dei centri di assistenza tecnica prodotti nel territorio ove è ubicato il centro di raccolta (salvo convenzione).
L'indicazione dell'ecocontributo è sempre facoltativa sia sulla fattura tra operatori economici, sia sul prezzo di vendita al consumatore finale. I sistemi individuali opereranno previo riconoscimento ministeriale, mentre quelli collettivi si adegueranno ad uno statuto tipo oggetto di un futuro Dm. I sistemi collettivi assumeranno la forma consortile e saranno partecipati anche da distributori, raccoglitori, trasportatori, riciclatori e recuperatori di Raee, previo accordo con i produttori di Aee. Inoltre, con il rafforzamento dei criteri di qualità voluti dal nuovo decreto, continueranno ad assicurare elevati standard di riciclo e sicurezza.
Contro lo "scippo" di materiali e risorse perpetrato a danno dell'economia nazionale dalle esportazioni di Raee mascherati da Aee usate, l'allegato VI reca i requisiti minimi che il possessore deve dimostrare; in difetto, si presume si tratti di un tentativo di esportazione illegale di Raee per la quale scatta il traffico illecito di rifiuti (si deroga in caso di accordo di trasferimento tra imprese di Aee difettose da restituire o riparare)
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - VARIAutovelox valido solo con segnali giusti. Codice della strada. Sentenza rigorosa sui preavvisi di controllo.
Non basta che l'autovelox sia visibile e presegnalato. E nemmeno che il verbale d'infrazione dia atto dell'esistenza dei cartelli di presegnalazione: per garantire al cittadino il diritto di difesa, l'atto deve anche specificare se la postazione di controllo della velocità e la relativa segnaletica era temporanea o permanente. Cioè se il controllo è stato effettuato da una pattuglia appostata a bordo strada oppure con un apparecchio non presidiato da agenti e come quest'attività era stata resa nota ai guidatori in transito.
Lo ha stabilito la VI Sez. civile della Corte di Cassazione, con la sentenza 14.03.2014 n. 5997.
La pronuncia non è chiarissima. Nella massima, richiama solo l'obbligo di indicare se la postazione era temporanea o permanente. Ma lo fa trattando un motivo d'impugnazione con cui il ricorrente solleva dubbi sulla segnaletica, che peraltro occupa una cospicua parte della motivazione della sentenza, prima che venga enunciata la massima.
Dunque, il principio stabilito dalla Cassazione sembra applicabile anche alla segnaletica e ciò rischia di creare più di un problema alle forze dell'ordine: finora dai verbali era spesso possibile evincere se la postazione fosse temporanea o permanente, ma nulla si poteva capire riguardo alla presegnalazione. Non solo: la stessa segnaletica normalmente è apposta senza distinguere i due tipi di postazione, nonostante già la direttiva sui controlli emanata dal ministero dell'Interno il 14.08.2009 –riprendendo precedenti pareri delle Infrastrutture– al paragrafo 7 stabilisca che i segnali permanenti possono essere usati anche per accertamenti temporanei solo se gli appostamenti sono sistematici. Negli altri casi, le pattuglie dovrebbero ogni volta piazzare cartelli di preavviso mobili (prassi piuttosto rara), per rispettare la direttiva e il principio di credibilità della segnaletica, anche a scapito della praticità e della sicurezza degli operatori.
La Cassazione sembra porsi in linea con questo indirizzo, perché nella sentenza di ieri parte da un'ampia citazione di tutte le norme che impongono di rendere noti i controlli di velocità (legge 168/2002 e Dl 117/2007 che ha aggiunto all'articolo 142 del Codice della strada il comma 6-bis) per concludere che esse sono cogenti e quindi che «la preventiva segnalazione univoca ed adeguata...non può non riverberarsi sulla legittimità degli accertamenti, determinandone la nullità, poiché, diversamente, risulterebbe una prescrizione priva di conseguenze, che sembra esclusa dalla stessa ragione logica della previsione normativa...senza, quindi, lasciare alcun margine di discrezionalità alla pubblica amministrazione».
Frasi nette, che indicano una posizione "rigorista" della Cassazione sulla segnaletica dei controlli di velocità. E che potrebbero probabilmente essere utilizzate per ricorsi che riguardano le svariate altre regole sui segnali per autovelox
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.03.2014).

ENTI LOCALI - VARIAutovelox, sul verbale va segnalato il tipo di postazione. Sentenza della cassazione.
In caso di eccesso di velocità rilevato con dispositivi elettronici l'agente accertatore deve attestare sul verbale di contestazione se la postazione di controllo è temporanea o permanente.

Lo ha stabilito la VI Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 14.03.2014 n. 5997.
L'obbligo della preventiva segnalazione dell'apparecchio di rilevamento della velocità, previsto in un primo momento dall'art. 4 del decreto legge n. 121 del 20.06.2002 (convertito nella legge n. 168 del 2002) per i soli dispositivi di controllo remoto senza la presenza diretta dell'operatore di polizia, è stato successivamente esteso dall'art. 3 del decreto legge n. 117 del 03.08.2007 (convertito nella legge n. 160 del 02.10.2007), a tutti i tipi e modalità di controllo effettuati con apparecchi fissi o mobili installati sulla sede stradale.
Il comma 6-bis dell'art. 142, introdotto dal dl n. 117/2007, dispone che le postazioni di controllo sulla rete stradale per il rilevamento della velocità devono essere preventivamente segnalate e ben visibili. In attuazione di tale disposto, il decreto del ministero dei trasporti del 15.08.2007 ha disciplinato le modalità di segnalazione delle postazioni di controllo, prevedendo anche l'impiego di segnali stradali di indicazione temporanei o permanenti. Come da costante giurisprudenza, il mancato preventivo presegnalamento della postazione determina l'illegittimità dell'accertamento dell'eccesso di velocità effettuato con dispositivi elettronici.
Ma con la sentenza n. 5997 del 14.03.2014, la sesta sezione civile della Cassazione si è espressa in senso ancor più restrittivo, affermando che nel verbale di contestazione deve essere attestata dall'agente accertatore compiutamente la modalità di accertamento e quindi anche il carattere temporaneo oppure permanente della postazione di controllo. Questo per consentire al trasgressore di essere posto nella condizione di poter valutare la legittimità o meno dell'accertamento eseguito in relazione ai prescritti adempimenti normativi e regolamentari (articolo ItaliaOggi del 15.03.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Più controlli sullo smaltimento di pc e tv.
Prevenire o ridurre gli impatti sull'ambiente connessi alla produzione di apparecchiature elettriche ed elettroniche, incrementarne i livelli di raccolta e di recupero, migliorare la qualità del trattamento dei Raee, rafforzare le misure di controllo, ridurre i costi amministrativi mantenendo al contempo un elevato livello di tutela dell'ambiente.

Lo prevede il decreto legislativo approvato ieri dal Governo che recepisce la direttiva 2012/19 con l'obiettivo di prevenire o ridurre gli impatti sull'ambiente connessi ai rifiuti elettrici ed elettronici (Raee).
Varato anche un decreto legislativo recepisce l'articolo 30 della direttiva 2012/18UE in materia di controllo del pericolo di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose; il provvedimento modifica la sezione «prodotti petroliferi» della parte 1 dell'allegato I della direttiva 96/82CE (cosiddetta «Seveso»), aggiungendo gli oli combustibili densi all'elenco delle sostanze pericolose ai fini dell'applicazione delle misure di prevenzione dei rischi. Sul testo sono stati acquisiti i pareri della Conferenza unificata e delle Commissioni parlamentari competenti.
Il Consiglio ha poi deliberato l'approvazione di due regolamenti da emanarsi con decreto del presidente della Repubblica in materia di individuazione delle procedure per l'attivazione dei poteri speciali nei settori dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni, a norma dell'articolo 2, comma 9, del decreto-legge 15.03.2012, n. 21, nonché in materia di individuazione degli attivi di rilevanza strategica nei medesimi settori, a norma del medesimo decreto-legge, articolo 2, comma 1, con l'obiettivo di adeguare la normativa nazionale alle regole e ai principi del diritto europeo in materia di esercizio di poteri speciali da parte del Governo a tutela dei propri asset strategici, in caso ricorra una situazione eccezionale di minaccia effettiva di grave pregiudizio per gli interessi pubblici.
In particolare, per i settori dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni, si è tenuto conto della necessità di tutelare le attività di realizzazione e gestione delle reti energetiche di interesse nazionale, le grandi reti e impianti di trasporto di interesse nazionale, destinate anche a garantire i principali collegamenti trans europei, nonché le attività di realizzazione e di gestione delle reti e degli impianti di comunicazione utilizzati per la fornitura dell'accesso agli utenti finali dei servizi rientranti negli obblighi del servizio universale.
Ilva di Taranto. Approvato il Piano delle misure e delle attività di tutela ambientale e sanitaria riguardante lo stabilimento dell'Ilva di Taranto. Il Piano, con il relativo dpcm, prevede le azioni e i tempi necessari per garantire il rispetto delle prescrizioni di legge e dell'Autorizzazione integrata ambientale (Aia).
Il Piano inoltre modifica l'Aia limitatamente alla modulazione dei tempi di attuazione delle relative prescrizioni, in modo da consentire il completamento degli adempimenti non oltre trentasei mesi dopo l'entrata in vigore della legge n. 61/2013 sul Commissariamento dell'Ilva, approvata il 3 agosto scorso. Il decreto di approvazione del piano, infine, conclude i procedimenti di riesame previsti dall'Aia e ne costituisce integrazione (articolo ItaliaOggi del 15.03.2014).

ATTI AMMINISTRATIVI: Contro la p.a. lumaca è possibile chiedere ai Tar decreti ingiuntivi. In Gazzetta Ufficiale la direttiva che prevede 30 euro d'indennizzo al giorno.
Imprese all'incasso se la p.a. ritarda. Contro gli uffici lumaca è possibile chiedere al Tar un decreto ingiuntivo per ottenere l'indennizzo da ritardo nella conclusione del procedimento.

La direttiva della Funzione pubblica del 09.01.2014 (in G.U. n. 59 del 12.03.2014) fornisce linee guida per l'applicazione sull'applicazione dell'articolo 28 del dl 69/2013, che ha introdotto l'indennizzo da ritardo nella conclusione dei procedimenti ad istanza di parte (si veda ItaliaOggi del 7 marzo scorso).
Peraltro anche per ottenere l'indennizzo bisogna sottostare a vari passaggi burocratici con qualche trabocchetto e comunque si tratta di 30 euro al giorno per un massimo di 2 mila euro.
La novità ha carattere transitorio (18 mesi), riguarda solo le imprese e i procedimenti relativi all'avvio e all'esercizio dell'attività di impresa e solo i procedimenti iniziati a partire dal 21.08.2013. Per i procedimenti a cavallo di quella data l'indennizzo non si applica.
La norma punta a favorire le imprese. L'indennizzo, infatti, viene pagato per il solo fatto che è scaduto il tempo utile all'amministrazione per il compimento del procedimento. In altre parole, non bisogna provare che la pubblica amministrazione è stata negligente e colpevole del ritardo (come, invece, bisogna fare se si richiede il risarcimento dei «danni»). Anche se il ritardo è scusabile o se la p.a. ha agito in buona fede o, ancora, se il ritardo è dovuto a caso fortuito o forza maggiore, nonostante tutto questo l'indennizzo è dovuto.
Bisogna però intendersi sul momento, superato il quale si può pretendere l'indennizzo. Non basta che sia decorso il termine per la conclusione del procedimento, ma occorre avere attivato (entro perentori 20 giorni) l'intervento sostitutivo; e l'indennizzo scatta solo dopo il decorso del termine (la metà di quello ordinario) concesso, per chiudere la pratica, al funzionario, chiamato a sostituire il primo funzionario, rimasto inerte
La circolare spiega il sistema con l'esempio di un'autorizzazione da rilasciare entro 60 giorni; scaduto il 60° giorno l'interessato ha 20 giorni per ricorrere all'intervento sostitutivo (ciascun ente pubblico deve designare i responsabili); a questo punto il secondo funzionario ha 30 giorni di tempo per concludere i procedimento; solo decorso inutilmente quest'ultimo termine è comunque dovuto l'indennizzo da ritardo. Attenzione però: se non si chiede l'intervento sostitutivo, si può dire addio all'indennizzo. Anzi la circolare riferisce che quando si chiede l'intervento sostitutivo l'impresa si deve chiedere anche l'indennizzo da ritardo. Mettiamo poi che, scaduti tutti i termini, l'amministrazione adotti l'atto: non fa niente, l'indennizzo è dovuto lo stesso.
Ancora la circolare stabilisce che una volta scaduto il tempo a disposizione del funzionario sostituto, questi deve liquidare l'indennizzo senza un'ulteriore richiesta dell'interessato.
E se non lo fa l'impresa può andare al Tar e chiedere un decreto ingiuntivo, che ordini il pagamento dell'indennizzo; certo l'impresa ha anche la possibilità di agire contro il silenzio della p.a. al fine di ottenere una sentenza, che la condanni ad adottare il provvedimento. Anzi le due azioni sono cumulabili e, quindi, si può andare contestualmente al Tar per contestare l'inerzia dell'amministrazione e la condanna al pagamento dell'indennizzo.
L'indennizzo da ritardo non è applicabile nelle ipotesi di Denunzia di inizio attività (o di Segnalazione certificata di inizio attività), anche se relative all'esercizio dell'attività di impresa (articolo ItaliaOggi del 15.03.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOP.a., chi non paga non assume. Blocco assunzioni per i ritardi oltre 60 giorni. Ssn escluso. Lo prevede il ddl sui pagamenti dei debiti. Niente premi Patto agli enti lumaca.
Le pubbliche amministrazioni che pagano in ritardo i fornitori non potranno più assumere dipendenti a nessun titolo (co.co.co. compresi) e se hanno in corso procedure di stabilizzazione di precari dovranno interromperle.

La regola, che si applica a tutte le p.a. centrali e locali e prevede solo un'eccezione per gli enti del Servizio sanitario nazionale, è contenuta nel ddl sul pagamento dei debiti p.a. che il consiglio dei ministri ha iniziato a esaminare mercoledì.
In attesa che il governo Renzi sveli definitivamente le carte sulle risorse messe in campo per chiudere gli arretrati del 2012 e iniziare il pagamento dei debiti maturati dalle p.a. nel 2013 (la bozza di ddl abbonda di omissis in proposito e le poche cifre disponibili si ricavano dalla relazione di accompagnamento, si veda ItaliaOggi di ieri), il provvedimento contiene molte norme più strettamente «ordinamentali» volte a prevenire l'accumulo di un ulteriore debito monstre come quello che attualmente Bankitalia stima in 90 miliardi di euro (di cui 22 sono stati pagati per effetto del dl 35/2013).
Tra queste la più dissuasiva è di sicuro quella sul blocco delle assunzioni per gli enti che registreranno ritardi medi nei pagamenti superiori a 60-90 giorni per il 2014 e a 30-60 giorni dal 2015.
La base di partenza per l'accertamento del livello di virtuosità nei pagamenti saranno i prospetti che dovranno essere allegati alle relazioni di accompagnamento ai bilanci consuntivi. Questi prospetti, sottoscritti dal legale rappresentante dell'ente e dal responsabile finanziario, dovranno indicare l'importo dei pagamenti effettuati in ritardo e il tempo medio impiegato per saldare le fatture. In caso di superamento dei termini, la relazione dovrà indicare le misure che l'amministrazione intende adottare per onorare tempestivamente i debiti.
Fermo restando che, se lo sforamento dei tempi previsti dalla normativa europea supera la soglia massima di tollerabilità (90 giorni per quest'anno e 60 a regime), dall'anno successivo a quello in cui si è registrata la violazione, scatterà la sanzione del blocco delle assunzioni «con qualsivoglia tipologia contrattuale, compresi i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e di somministrazione, anche con riferimento ai processi di stabilizzazione in atto». Gli enti non potranno fare i furbi perché sarà vietato accordarsi con i privati per aggirare la norma, per esempio concordando una tempistica di pagamento più lunga.
Gli enti locali avranno poi un incentivo ulteriore a saldare tempestivamente le fatture. Solo le amministrazioni rispettose dei tempi di pagamento potranno infatti beneficiare di sconti sul patto di stabilità.
Obbligo di protocollare le fatture. Dal 1° luglio le p.a. dovranno protocollare le fatture (o le richieste di pagamento) per somministrazioni, forniture, appalti e prestazioni professionali, annotandole entro 10 giorni nel registro fatture. I creditori, dal canto loro, a decorrere dal 01.06.2014, potranno comunicare, mediante la piattaforma elettronica per la certificazione dei crediti, i dati delle fatture emesse dal 1° gennaio.
Entro il 15 di ogni mese le p.a. dovranno comunicare, sempre tramite la piattaforma elettronica gestita dal Mef, i dati relativi ai debiti non estinti, certi, liquidi ed esigibili per i quali siano stati superati i termini di pagamento imposti dall'Europa con conseguente applicazione del tasso di mora previsto dal dlgs 192/2012 (8% più il tasso Bce).
Anticipazioni di tesoreria. Per non rallentare le procedure di pagamento dei debiti arretrati, la bozza di ddl proroga fino a fine anno la possibilità per gli enti locali di fare ricorso ad anticipazioni di tesoreria pari a 5/12 (al posto di 3/12) (articolo ItaliaOggi del 15.03.2014).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Incentivi anche se il Durc è negativo
Stop allo stop agli incentivi se il Durc è negativo. Anche se prive di regolarità contributiva, le imprese avranno comunque diritto alle agevolazioni. Tuttavia, prima di finire nelle casse aziendali, esse serviranno a saldare le scoperture contributive.

È quanto prevede la bozza di decreto legge approvata dal consiglio dei ministri di mercoledì recante «disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell'occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese».
La regolarità contributiva. Per regolarità contributiva s'intende la correntezza nei pagamenti ed adempimenti previdenziali, assistenziali e assicurativi (Inps e Inail, nonché casse edili nel caso di imprese di tale settore) con riferimento ai tutti gli obblighi ricadenti sull'intera situazione aziendale. Il Durc è un certificato che attesta tale regolarità per un'impresa.
La regolarità contributiva (ossia il possesso del Durc da parte dell'azienda) è richiesta in diversi casi: appalti, lavori edili ecc. La Finanziaria 2007 (art. 1, comma 1175, della legge n. 296/2007) ha esteso tale vincolo anche ai benefici normativi e contributivi previsti dalla normativa in materia di lavoro e legislazione sociale, fermo restando il rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali nonché di quelli regionali, territoriali o aziendali.
Il decreto Fare. La legge n. 98/2013 (conversione del dl n. 69/2013) ha previsto che alle erogazioni di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici, di qualunque genere, compresi quelli di cui all'art. 1, comma 553, della legge n. 266/2005 (cioè i benefici e le sovvenzioni comunitarie per la realizzazione d'investimenti), da parte di pubbliche amministrazioni, per le quali e «prevista» l'acquisizione del Durc, si applicano «in quanto compatibili» le previsione del comma 3 dell'art. 31 della stessa legge.
Quest'ultima norma disciplina il c.d. «intervento sostitutivo», vale a dire l'obbligo per le pubbliche amministrazioni di trattenere dal pagamento da fare a un'impresa non in regolarità contributiva, l'importo corrispondente alle inadempienze evidenziate dal Durc. In pratica è previsto che in presenza di un Durc negativo con irregolarità nei versamenti dovuti a Inail, Inps o casse edili, le stazioni appaltanti si sostituiscano all'impresa debitrice (appaltatrice o subappaltatrice avente) e procedano a pagare, in tutto o in parte, il debito contributivo (a Inps, Inail o casse edili) trattenendo il relativo importo dal corrispettivo dovuto in forza dell'appalto.
La legge n. 98/2013, dunque, ha esteso l'utilizzo di questa disciplina (l'intervento sostitutivo) prevedendone l'applicazione «in quanto compatibile» anche alle amministrazioni pubbliche che erogano contributi, sovvenzioni, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici di qualunque genere per i quali sia «prevista» l'acquisizione d'ufficio del Durc.
Le novità. Il dl approvato mercoledì interviene proprio su questa norma della legge n. 98/2013. Due le novità. La prima rende obbligatorio il Durc a tutte le erogazioni di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziarie e vantaggi economici di qualunque genere, compresi benefici e sovvenzioni Ue per la realizzazione d'investimenti. La seconda rende obbligatoria negli stessi casi l'intervento sostitutivo.
La conseguenza più interessante sembra quella a favore delle aziende. Oggi, infatti, è previsto che in caso di Durc negativo l'azienda perda il diritto agli incentivi per un mese ovvero, in caso di Durc positivo, ne abbia diritto per quattro mesi (si veda la recente disciplina dettata dall'Inps a proposito del «Durc interno»). In altri casi, l'assenza di regolarità contributiva nega addirittura l'accesso a un bando di assegnazione di agevolazioni: è il caso, per esempio, dei finanziamenti Inail (Isi).
In questi due esempi, allora, le modifiche del decreto legge dovrebbero comportare che l'azienda sarà comunque e sempre ammessa agli incentivi, cioè anche se in possesso di Durc negativo. Tuttavia, con l'obbligatorietà dell'intervento sostitutivo, Inps o Inail copriranno prima le scoperture contributive e poi potranno erogare gli incentivi all'azienda (articolo ItaliaOggi del 15.03.2014).

VARI: Il bonus mobili diventa grande. L'importo può superare quello della ristrutturazione. PIANO CASA/ Il decreto impone comunque di rispettare il limite dei 10 mila euro.
Bonus mobili riconosciuto anche quando l'importo sostenuto per l'acquisto degli arredi risulta superiore a quello della ristrutturazione edilizia, sempre nel rispetto del limite massimo di 10 mila euro.
Lo prevede il decreto legge in materia di emergenza abitativa (il cosiddetto Piano Casa) approvato mercoledì scorso dal Consiglio dei ministri (si veda ItaliaOggi di ieri).
L'interpretazione fornita chiude una diatriba sorta fin dal momento dell'approvazione del bonus che, come noto, risulta intimamente collegato alle spese di ristrutturazione edilizia, di cui al comma 2, art. 16, dl 04/06/2013 n. 63, convertito nella legge n. 90/2013 come recentemente modificato dal comma 139, dell'art. 1, della legge 147/2013 (Stabilità 2014). Come si evince chiaramente dalla relazione illustrativa al decreto in commento le detrazioni Irpef per l'acquisto di mobili ed elettrodomestici sono fruibili ancorché l'ammontare sia nettamente superiore a quello sostenuto per la ristrutturazione edilizia, di cui al comma 1, dell'art. 16-bis, del dl 63/2013.
In estrema sintesi, tenendo conto che il contribuente può acquistare mobili per un ammontare massimo di 10 mila euro, incamerando un bonus pari al 50% (5 mila euro) da spalmare in 10 anni per abbattere l'Irpef dovuta, il legislatore ha voluto confermare che detta detrazione risulta spendibile anche se le spese per la ristrutturazione edilizia, necessarie anche per l'ottenimento della detrazione sui mobili ed elettrodomestici, risultano sostenute per un ammontare inferiore, per esempio per un ammontare pari a 2 mila euro.
Con riferimento alle norme sul social housing si conferma che il legislatore prevede un riconoscimento di un abbattimento pari al 40% del ricavo da locazione ai fini della determinazione del reddito d'impresa (si tassa il 60% del canone), sia ai fini dell'Irpef che dell'imposta regionale sulle attività produttive (Irap), a decorrere dalla data di fine lavori di costruzione, di manutenzione ordinaria o di recupero dell'alloggio sociale (dm 22/04/2008), sempreché la Commissione europea conceda il via libera per assenza di aiuti di stato mascherati, in ossequio alla clausola «standstill».
Per i conduttori, titolari di contratti di locazione di alloggi di questo tipo, che li utilizzano quale propria abitazione principale, viene riconosciuta una detrazione variabile, ai fini dell'imposizione diretta (900 euro per redditi fino a euro 15.493,71 e 450 euro per redditi maggiori di detto tetto ma non superiori a euro 30.987,41), per il triennio 2014/2015; detta agevolazione, essendo del tutto transitoria (triennio), non sarà inserita all'interno del testo unico delle imposte dirette.
Un'ulteriore agevolazione (si veda ItaliaOggi, 13/03/2014) concerne la possibilità, per il conduttore di un alloggio sociale, di portare in abbattimento, in tutto o in parte, i canoni di locazione, pagati fino al riscatto dell'immobile, dal prezzo finale di acquisto, in relazione alla possibilità concessa di procedere, trascorso un periodo minimo di sette anni, al riscatto dell'unità immobiliare ricevuta in godimento.
Sulla base dei recenti chiarimenti forniti dall'Agenzia delle entrate (parere n. 954-63/2013) per i quali, senza una clausola di trasferimento vincolante per entrambe le parti (proprietario e conduttore), l'affitto di un immobile con opzione all'acquisto da parte del conduttore deve essere trattato fiscalmente, e fino al trasferimento, come una semplice locazione, con imputazione dei canoni in ogni periodo d'imposta, il legislatore ha confermato, nello schema di decreto in commento, che anche in tal caso i corrispettivi delle cessioni degli alloggi si considerano conseguiti alla data dell'esercizio del riscatto dell'unità immobiliare da parte del conduttore:
La conseguenza è che detti ricavi, ai fini fiscali, si considerano realizzati al momento dell'effetto traslativo della proprietà e che le imposte versate sugli acconti prezzo costituiscono un credito d'imposta, da definirsi con un provvedimento interministeriale ad hoc.
Come si legge dalla relazione di accompagnamento, infatti, stante il fatto che le disposizioni in commento vincolano esclusivamente il proprietario dell'unità immobiliare e non anche il conduttore, il quale ha soltanto la facoltà (opzione) di procedere nel riscatto del bene, l'operazione, in completa aderenza alle indicazioni di prassi, è soggetta a un duplice trattamento fiscale disposto da una parte per le locazioni e dall'altra per l'acquisto, con il riconoscimento di un credito d'imposta per gli acconti prezzo versati durante il periodo di locazione (articolo ItaliaOggi del 14.03.2014 - tratto da www.fiscooggi.it).

INCARICHI PROFESSIONALICompensi raddoppiati. La difesa in giudizio costerà fino al 190% in più. AVVOCATI/È questo il primo effetto dei nuovi parametri forensi.
Compensi più che raddoppiati per gli avvocati con i nuovi parametri forensi. Confrontando infatti i valori del dm 140/2012 con quelli contenuti nelle tabelle del regolamento appena emanato dal ministro della giustizia, Andrea Orlando, in fase di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, la differenza è più che evidente.
Il Consiglio nazionale forense ha pubblicato sul proprio sito un raffronto esemplificativo, prendendo in considerazione un giudizio ordinario e sommario di cognizione, per una causa di valore pari a 15 mila euro. Andando per fasi processuali, quella di studio della controversia, con il dm Orlando, è liquidata dal giudice con un compenso superiore del 59,1% rispetto al vecchio decreto parametri. La fase introduttiva passa invece da 300 a 740 euro, con un aumento del 146,7%.
Ancora più elevata la differenza per la fase istruttoria, che sale da 550 euro a 1.600. Mentre quella decisionale passa da 700 a 1.620 euro. In totale, il giudice, con il dm 140/2012, avrebbe dovuto liquidare, in media 2.100 euro. Con il dm Orlando il 130,2% in più, ovvero 4.835 euro. Se invece prendiamo una causa da 75 mila euro, vediamo che per la fase di studio il compenso passa da 1.900 a 2.430 euro, per quella introduttiva da mille euro a 1.550. Netta la differenza per la fase istruttoria, che sale da due mila a 5.400 euro, mentre la fase decisoria passa da 2.600 a 4.050 euro.
Andando a vedere il totale, con il dm parametri il giudice avrebbe dovuto liquidare un compenso intorno ai 7.500 euro. Con il dm Orlando si sale a 13.430 euro, praticamente il doppio (articolo ItaliaOggi del 14.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Il Durc si scarica da internet. Consultazione esclusivamente telematica e in tempo reale. La novità introdotta dal decreto legge in materia di occupazione e semplificazione.
Durc consultabile in tempo reale. Il decreto legge con le «Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell'occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese» approvato mercoledì dal governo, interviene per risolvere uno dei problemi più intricati della burocrazia: l'acquisizione del documento unico di regolarità amministrativa.
Precedenti interventi normativi hanno insistito per la gestione in modalità informatica e telematica del Durc, ma sbagliando regolarmente strada. Infatti, in particolare per le verifiche che le stazioni appaltanti sono chiamate a svolgere sulle autocertificazioni delle imprese, di telematico c'è solo la procedura. Le amministrazioni sono comunque chiamate a «fare istanza», sia pure per via telematica e attendere che entro i successivi 30 giorni Inps, Inail o Cassa edile rispondano, sempre per via telematica. Con il risultato che il lasso di 30 giorni tra richiesta e acquisizione del Durc spesso produce estreme difficoltà a rispettare i tempi di pagamento di 30 giorni.
Il decreto approvato dal governo pone rimedio a questi modi scorretti di interpretare l'utilizzo della telematica. E stabilisce che dalla data di entrata in vigore di un successivo decreto ministeriale attuativo, da adottare entro 60 giorni, «chiunque vi abbia interesse verifica con modalità esclusivamente telematiche e in tempo reale la regolarità contributiva nei confronti dell'Inps, dell'Inail e, per le imprese tenute ad applicare i contratti del settore dell'edilizia, nei confronti delle Casse edili. L'esito dell'interrogazione ha validità di 120 giorni dalla data di acquisizione» e sostituisce ad ogni effetto il Durc, salvo ipotesi di esclusione individuate dal decreto ministeriale citato.
Insomma, si decreta la fine del «diritto di proprietà» sulle informazioni relative al Durc, strenuamente fin qui difeso da Inps, Inail e Cassa edile. Non sarà più necessario «chiedere» e aspettare: basterà solo consultare online i dati che riguarderanno «i pagamenti scaduti sino all'ultimo giorno del secondo mese antecedente a quello in cui la verifica è effettuata, a condizione che sia scaduto anche il termine di presentazione delle relative denunce retributive e comprende anche le posizioni dei lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa anche a progetto che operano nell'impresa».
Il decreto attuativo disporrà che la verifica della posizione contributiva delle imprese avvenga tramite un'unica interrogazione telematica che agirà sugli archivi dell'Inps, dell'Inail e delle Casse edili, utilizzando la «cooperazione applicativa» dei software, per farli comunicare tra loro. Basterà solo indicare il codice fiscale del soggetto da verificare.
Il decreto legge contiene anche un embrione di semplificazione della «banca dati dei contratti pubblici» e di conseguenza nel complessissimo sistema dell'AvcPass. Infatti, stabilisce che dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale attuativo non vi sarà più l'obbligo di verificare la sussistenza del requisito di ordine generale di cui all'articolo 38, comma 1, lettera i), del dlgs 163/2006 (cioè il rispetto delle normative previdenziali) presso la Banca dati nazionale dei contratti pubblici, istituita presso l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori. Del resto, l'accesso online in tempo reale ai dati del Durc renderebbe inutile l'intreccio di scambio dati tra amministrazioni appaltanti, Authority e Inps-Inail-Casse edili.
Un passo avanti ulteriore sarebbe, a questo punto, l'intera revisione dell'AvcPass, che al pari del Durc riformato, dovrebbe essere nulla più di una banca dati da consultare in tempo reale e non la procedura estremamente complessa, la cui farraginosità ha indotto a un rinvio della sua piena operatività al prossimo mese di luglio.
Infine, il decreto rende obbligatorio acquisire il Durc con la nuova modalità anche per le erogazioni di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici, di qualunque genere, sempre a partire dalla vigenza del decreto ministeriale attuativo (articolo ItaliaOggi del 14.03.2014).

ENTI LOCALISalvo l'associazionismo dei piccoli comuni.
Lo stato, per contenere la spesa pubblica, può legittimamente imporre ai piccoli comuni l'obbligo di gestire in forma associata le proprie funzioni e i relativi servizi.

Lo afferma la sentenza 13.03.2014 n. 44 della Corte costituzionale, depositata ieri, con la quale sono state quasi interamente respinte le censure di incostituzionalità mosse da una decina di regioni nei confronti dell'art. 16 del dl 138/2011.
Tale disposizione, poi ampiamente modificata dall'art. 19 della cd spending review (dl 95/2012), ha imposto a tutti i comuni con meno di 5.000 abitanti (limite che scende a 3.000 per quelli appartenenti o appartenuti a comunità montane) di gestire mediante unione o convenzione il proprio «core business», ovvero le funzioni identificate come fondamentali dalla legge statale.
Tale disciplina è stata immediatamente contestata dai sindaci dei mini-enti, che l'hanno considerata come un attentato all'autonomia comunale. Non avendo, peraltro, accesso diretto alla Consulta, essi hanno investito della questione le regioni, che hanno sollevato una lunga serie di questioni di legittimità costituzionale, perlopiù lamentando la lesione delle proprie prerogative (rafforzate dalla vituperata riforma del Titolo V, ora in procinto di essere nuovamente messa in discussione) in materia di ordinamento degli enti locali.
La battaglia, però, è stata perduta quasi su tutta la linea: i giudici delle leggi, infatti, hanno ritenuto la gran parte delle argomentazioni utilizzate dai governatori infondate o inammissibili. Le uniche pronunce di accoglimento hanno riguardato aspetti del tutto marginali, relativi alle procedure (e relative maggioranze consiliari) necessarie per il varo delle forme associative.
Il cuore della motivazione della corposa pronuncia sta nel passaggio in cui la Corte chiarisce che l'associazionismo coatto ha come obiettivo la riduzione della spesa pubblica corrente. In questa prospettiva, esso costituisce un principio fondamentale di «coordinamento della finanza pubblica», legittimamente fissato dalla legislazione statale in un ambito di competenza concorrente ex art. 117, comma 3, Cost..
A questo punto, i piccoli comuni non hanno alternative: per evitare di accorparsi, dovranno ottenere una modifica normativa.
Per ora, l'attività di lobbying ha già prodotto una lunga serie di proroghe dei termini per adempiere, l'ultima delle quali (disposta dalla legge di stabilità) ha individuato due scadenze: 30 giugno per altre 3 funzioni fondamentali (oltre alle 3 già associate entro la fine del 2012), 31 dicembre per le restanti 3.
In mezzo, però, ci sono le elezioni per oltre 4.000 comuni (molti dei quali soggetti all'obbligo) e un ddl (il cd Delrio) che punta a cambiare ancora le regole del gioco: una nuova proroga, quindi, è già nell'aria (articolo ItaliaOggi del 14.03.2014).

LAVORI PUBBLICI: Appalti, si cambia ancora. Lavori specialistici con obbligo di subappalto. Nel Piano casa l'ennesimo colpo di scena (il quarto) sui bandi di gara.
Ennesimo colpo di scena, il quarto, per i bandi di gara per i lavori specialistici pubblicati da inizio 2014, fatti salvi dopo un balletto durato due settimane; entro un anno avverrà la riscrittura delle norme del regolamento del codice sulla qualificazione delle imprese generali e di quelle specialistiche; più spazi per il subappalto da parte delle imprese generali.

È questo il risultato dell'estenuante via vai di soluzioni adottate dal governo per risolvere il rebus della qualificazione da produrre per la realizzazione degli appalti pubblici che hanno a oggetto interventi specialistici e «superspecialistici», materia che era stata affrontata nel decreto legge 151/2013 (il «Salva Roma-bis» poi decaduto un paio di settimane fa).
Adesso, dopo che una soluzione ponte era stata prima inserita nel «Salva Roma-ter» e poi ritirata nel testo pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, è nel decreto legge del «Piano casa», varato dal consiglio dei ministri di mercoledì, che si recupera la soluzione già adottata a fine dicembre 2013, scegliendo una soluzione che cerca di mediare le posizioni dei due fronti (imprese generali e imprese specialistiche). Infatti la mancata conversione in legge del decreto 151 (e del suo articolo 3, comma 9) aveva determinato la perdita di efficacia di tutti gli atti di gara emanati.
La scelta compiuta nel decreto legge del «Piano casa» è quella di sospendere nuovamente (come il decreto 151) gli effetti della cancellazione delle due norme del dpr 207/2010 (l'articolo 107, comma 2 e l'articolo 109, comma 2, oltre all'allegato A) operata dal consiglio di stato con il parere, recepito dal dpr 30.10.2013, a seguito del ricorso straordinario al capo dello stato, rendendo quindi vigente l'obbligo di subappalto e di raggruppamento verticale fra general contractor e imprese specialistiche. Si prevede poi un anno di tempo, a decorrere dall'entrata in vigore del decreto che verrà a breve pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, per sostituire le disposizioni cancellate dal consiglio di stato. Si salvano poi gli effetti dei provvedimenti adottati nella vigenza del decreto 151, con ciò mettendo in sicurezza i bandi pubblicati a gennaio e a febbraio.
Per i nuovi bandi però si dovrà tenere conto di alcune ulteriori scelte effettuate dal decreto che, da subito, elimina sette categorie di interventi a qualificazione obbligatoria e tocca anche le lavorazioni «superspecialistiche» per le quali, in virtù della loro complessità, se superano il 15% del totale dei lavori oggetto dell'appalto, scattano l'impossibilità di subappalto e l'obbligo di associarsi con l'impresa specialistica come raggruppamento di tipo verticale.
In particolare il provvedimento prevede l'eliminazione di sette categorie su un totale di 34. Si tratta delle opere specialistiche n. 9 (segnaletica luminosa e sicurezza del traffico), Os 12B (barriere paramassi, fermaneve e simili), 15 (pulizia acque marine, lacustri e fluviali), 16 (centrali di produzione di energia elettrica), 17 (impianti di telefonia), 19 (reti Telecomunicazioni) e 31 (impianti mobilità sospesa); viene invece inserita la OS 32 (strutture in legno). Sulle «superspecialistiche» invece ne spariscono dieci su 24 e entra sempre la OS 32 (articolo ItaliaOggi del 14.03.2014).

ENTI LOCALI - VARI: Comuni tra l'incudine e il martello sulle multe
È caos multe nei parcheggi a pagamento dopo le ultime indicazioni fornite lunedì scorso dal ministero dei trasporti puntualmente contraddette dalla pratica operativa e da alcune importanti pronunce della giurisprudenza (si veda ItaliaOggi del 11/03/2014). In attesa di un chiarimento definitivo e formale del Viminale, i comuni navigano a vista.

Formalmente per il ministero dei trasporti nel caso in cui la sosta in zona blu è consentita senza limitazioni temporali, se il ticket è stato pagato ed esposto e la sosta si prolunga oltre il termine consentito, non si configura alcuna violazione e sanzione del codice della strada ma solo un'inadempienza contrattuale con recupero delle somme corrisposte a titolo di penali e di rimborso delle spese (da quantificare sulla base di un regolamento comunale), come previsto dall'art. 17, comma 132, della legge n. 127/1997. Le pronunce della Cassazione si pongono in contrasto con la linea interpretativa assunta dal ministero.
Si richiama, per esempio, la sentenza sez. II civ., n. 20308 del 04/10/2011. Secondo la Corte, la sanzione di cui all'art. 157, c. 8, Cds per la violazione dell'art. 157, c. 6, si applica sia quando non si attiva il disco orario sia quando non si mette in funzione il parchimetro a pagamento. Al prolungarsi della violazione oltre le 24 ore, si applica l'art. 7, c. 15 Cds, con una sanzione per ogni periodo in cui si protrae la negligenza. Tale principio è stato ribadito dalla Cassazione, sez. civ., con la sentenza n. 30 del 09.01.2012.
La Corte dei conti, sezione Lazio, nella sentenza n. 888 del 19/09/2012 ha condannato al risarcimento del danno erariale la società concessionaria perché consentiva ai trasgressori, entro 24 ore dall'accertamento effettuato dall'ausiliario del traffico, di regolarizzare il mancato pagamento del ticket della sosta senza procedere alla contestazione della violazione del codice della strada.
Secondo i giudici contabili dalla lettura dell'art. 7 del codice stradale non si evince la possibilità di differenziare e/o graduare le violazioni a seconda che il ticket sia scaduto oppure manchi completamente. E in molti comandi di polizia locale l'attività operativa è orientata in questo senso.
Tuttavia, in considerazione dei profili di responsabilità erariale enunciati dalla sentenza della Corte dei conti n. 888/2012, i comuni potranno almeno richiedere chiarimenti urgenti ai giudici contabili (articolo ItaliaOggi del 14.03.2014).

PATRIMONIO: Gli enti si rifanno le caldaie. Contributi a fondo perduto per sostituire gli impianti. Il Gestore servizi energetici ha pubblicato il bando 2014 per gli interventi oltre i 500 kw.
Gli enti locali possono ottenere un contributo a fondo perduto per la sostituzione di impianti di climatizzazione invernale esistenti. Il Gestore servizi energetici (Gse) ha pubblicato il bando 2014 per la procedura di iscrizione ai registri riservata agli interventi con potenza maggiore di 500 kW e inferiore o uguale a 1.000 kW.

Il bando, disponibile sul sito internet del Gse (www.gse.it), prevede che l'iscrizione sia possibile dal 31.03.2014 alle ore 9 e fino al giorno 29.05.2014 alle ore 21.
Le risorse destinate all'incentivazione degli interventi per i quali ricorre l'obbligo di iscrizione ai registri, definite in termini di spesa cumulata annua, sono pari a 6,91 milioni di euro per gli interventi realizzati dalle amministrazioni pubbliche e a 22,81 milioni di euro per gli interventi realizzati dai soggetti privati.
Contributi per la sostituzione di caldaie. Il bando finanzia la sostituzione di impianti di climatizzazione invernale esistenti con impianti di climatizzazione invernale utilizzanti pompe di calore elettriche o a gas, anche geotermiche con potenza termica utile nominale superiore a 500 kWt e fino a 1000 kWt. Inoltre finanzia la sostituzione di impianti di climatizzazione invernale o di riscaldamento delle serre esistenti e dei fabbricati rurali esistenti con generatori di calore alimentati da biomassa con potenza termica nominale superiore a 500 kWt e fino a 1.000 kWt.
La richiesta di iscrizione, a pena di esclusione, deve essere trasmessa esclusivamente per via telematica, entro e non oltre il termine di chiusura dei registri e prima di realizzare l'investimento, mediante l'applicazione informatica Portaltermico predisposta dal Gse.
L'applicazione è disponibile al sito applicazioni.gse.it, accessibile tutti i giorni del periodo di apertura dei registri, 24 ore su 24, ad eccezione dei giorni di apertura e di chiusura. La graduatoria è redatta applicando, in ordine gerarchico, i criteri di priorità di seguito elencati: minor potenza degli impianti; anteriorità del titolo autorizzativo/abilitativo; precedenza della data della richiesta di iscrizione al registro.
Sempre accessibile il contributo per interventi di potenza fino a 500 kWt. Oltre agli interventi di sostituzione di caldaie, gli enti locali possono finanziare interventi per l'isolamento termico di superfici opache, delimitanti il volume climatizzato e la sostituzione di chiusure trasparenti comprensive di infissi delimitanti il volume climatizzato, nonché l'installazione di sistemi di schermatura e/o ombreggiamento di chiusure trasparenti con esposizione al sole.
Gli enti locali possono accedere al conto termico anche per interventi di piccole dimensioni di produzione di energia termica da fonti rinnovabili e di sistemi ad alta efficienza. L'incentivo spetta anche per l'installazione di collettori solari termici, anche abbinati a sistemi di solar cooling, nonché per la sostituzione di scaldacqua elettrici con scaldacqua a pompa di calore.
Contributo a fondo perduto in due o cinque anni. L'incentivo consiste in un contributo a fondo perduto che viene erogato in rate annuali per un periodo di due o cinque anni a seconda del tipo di intervento. Solo nel caso di incentivo fino a 600 euro l'erogazione è a saldo in un'unica rata. L'entità dell'incentivo varia da tipologia a tipologia.
A titolo esemplificativo, per un generatore di calore a condensazione con potenza maggiore di 35 kWt l'incentivo massimo è del 40% della spesa che non può risultare maggiore di 130 euro/kWt, con un incentivo massimo che può ammontare a 26 mila euro. Se la potenza del generatore si abbassa sotto i 35 kWt, il costo ammissibile è pari a 160 euro/kWt e l'incentivo massimo può ammontare a 2.300 euro.
Per gli scaldacqua a pompa di calore l'incentivo è pari al 40% del costo di acquisto, per un massimo erogabile pari a 400 euro per prodotti con capacità uguale o inferiore a 150 litri e a 700 euro per prodotti con capacità maggiori (articolo ItaliaOggi del 14.03.2014).

VARI: Bonus mobili libero dal «tetto» delle spese di ristrutturazione. Agevolazioni. Scompare il limite massimo pari all'importo dei lavori edili.
Il bonus fiscale per l'acquisto di mobili o elettrodomestici in classe A+ torna a essere slegato dal livello di spesa per il recupero edilizio, com'era prima del pasticcio decadenza del decreto legge Salva Roma bis.
La norma, come anticipato dal Sole 24 Ore di martedì, è contenuta nel decreto legge sull'emergenza casa approvato ieri dal Consiglio dei ministri.
Resta confermato che la detrazione Irpef del 50% (in dieci anni) sulla spesa per i mobili deve essere legata a lavori di recupero edilizio, ma scompare la norma della legge di Stabilità 2014 che imponeva un limite, cioè che la spesa per i mobili non fosse superiore a quella per i lavori edili. Oggi dunque, con il decreto legge, si può ad esempio spendere per i mobili 8mila euro, a fronte di una spesa di recupero edilizio di 5mila. Purché la spesa per i mobili resti entro il tetto massimo di 10mila euro.
Il bonus mobili è stato introdotto dal Dl 63/2013, in vigore dal 6 giugno scorso, senza alcun limite tra l'entità delle due spese. La legge di stabilità, tuttavia, nel prorogare di un anno il bonus al recupero e lo stesso bonus mobili, introduceva il limite di cui sopra.
Ma il governo Letta, subito "pentito" della norma limitativa, la neutralizzava (prima dell'entrata in vigore) con il Dl 151 del 30 dicembre scorso (Salva Roma bis).
Tutto bene, dunque, finché il decreto non è decaduto, il 28 febbraio, riportando in vita il limite di spesa per i mobili (non superiore alle spese edilizie). Ieri l'esecutivo ha rimediato, e dunque il bonus mobili torna, per tutto il 2014, esattamente come l'abbiamo conosciuto nel 2013 e nei primi tre mesi di quest'anno.
Possono utilizzarlo i soggetti (proprietari, titolari di diritti reali o anche inquilini) che usufruiscono sullo stesso immobile del bonus fiscale al recupero, cioè che effettuano in questo periodo interventi edilizi tra quelli rientranti nell'articolo 16-bis del Tuir: manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione edilizia, ricostruzione post-calamità, ristrutturazione di interi edifici effettuata da imprese di costruzione o cooperative (bonus fiscali a beneficio di acquirenti/assegnatari). Sono invece esclusi i mini-interventi non edilizi rientranti nell'articolo 16-bis, come quelli per la prevenzione degli infortuni domestici o di atti illeciti (allarmi, porte blindate, etc..), o quelli di risparmio energetico senza opere edilizie (sostituzione di finestre o caldaie).
Il mobile (o l'elettrodomestico in classe almeno A+, solo A per i forni) può essere destinato anche a una stanza diversa da quella oggetto di lavori (ad esempio: ristrutturo il bagno e compro un divano).
L'acquisto di mobili deve essere effettuato tra il 06.06.2013 e il 31.12.2014, in relazione a interventi edilizi avviati prima di tale acquisto, ma possono essere anche già terminati, ma «entro un lasso di tempo sufficientemente contenuto» (Agenzia Entrate)
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.03.2014).

CONSIGLIERI COMUNALITerzo mandato nei comuni fusi. Nota Viminale. Nel 2014 già 26 fusioni.
I sindaci che hanno alle spalle due mandati presso lo stesso ente possono ricandidarsi se nel frattempo il loro comune si è fuso con altri.

Lo ha chiarito una nota il ministero dell'interno (dipartimento per gli affari interni e territoriali, direzione centrale per gli uffici territoriali), con il parere 21.02.2014.
Quest'ultimo è stato adottato in risposta ad un quesito concernente la possibilità per un sindaco, che ha già espletato due mandati consecutivi in un ente che si è fuso con altri enti in un unico comune, di ricandidarsi alla carica sindacale nel nuovo ente.
Al riguardo, il ministero dell'interno ha chiarito che il divieto del terzo mandato, di cui all'art. 51 del Testo unico sugli enti locali (dlgs 267/2000), opera solo se la candidatura a sindaco viene presentata dall'interessato nello stesso comune dove già ha ricoperto la medesima carica per due mandati consecutivi.
Nel caso di fusione, invece, gli enti che si sono fusi sono estinti e hanno dato origine ad un nuovo comune, per cui, in tale specifica ipotesi, il divieto del terzo mandato non è applicabile.
Ricordiamo che la fusione è disciplinata dagli artt. 15-17 del Tuel e dalle leggi adottate dalle diverse regioni, cui la Costituzione assegna il compito di provvedere alla modifica delle circoscrizioni territoriali dei comuni interessati.
Negli anni passati, le fusioni portate a termine sono state assai poche, ma ultimamente si è registrato un interesse crescente per tale istituto.
Dal mese di gennaio di quest'anno, sono state approvate già 26 fusioni, che hanno portato alla soppressione di ben 62 comuni. Ciò si deve, in parte, agli incentivi messi in campo dallo stato, ma in molti casi si tratta di un tentativo di razionalizzazione delle strutture per renderle più moderne e aderenti ai bisogni delle comunità amministrate e in grado di reggere l'urto delle sempre più pesanti manovre correttive.
La strada della fusione, inoltre, consente ai comuni di uscire per un triennio dal patto di stabilità interno (articolo ItaliaOggi del 13.03.2014).

INCARICHI PROFESSIONALIAvvocati, compensi vecchio stile. Parametri minimi e massimi in base al valore della causa. Debuttano i nuovi importi. Il giudice valuterà anche il comportamento del legale.
Da 630 euro per una causa di valore minimo (fino a 1.100 euro) a 21 mila euro per la controversia che vale tra 260 mila e 520 mila euro.

Sono questi i nuovi parametri in mano al giudice chiamato a liquidare il compenso di un avvocato per l'assistenza prestata, dall'inizio alla fine, in giudizi innanzi al tribunale.
Per le prestazioni di assistenza stragiudiziale si oscilla invece da 270 a 5.870 euro, mentre il compenso di un arbitrato va da 1.620 euro per i procedimenti fino a 26 mila euro, a 16.200 euro se il valore è tra 260 mila e 520 mila euro.
Sono i nuovi parametri forensi, emanati l'altro ieri dal ministro della giustizia, Andrea Orlando, e in attesa di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
Il compenso dell'avvocato sarà liquidato per fasi, generalmente quattro per quanto riguarda l'attività giudiziale. La fase di studio della controversia, che prevede l'esame e lo studio degli atti a seguito della consultazione con il cliente, le ispezioni dei luoghi, la ricerca dei documenti e la conseguente relazione o parere, scritti oppure orali, al cliente, precedenti la costituzione in giudizio. La fase introduttiva del giudizio, che consiste negli atti introduttivi e di costituzione in giudizio e il relativo esame. Si procede con la fase istruttoria, con le richieste di prova, le memorie illustrative o di precisazione o integrazione delle domande o dei motivi di impugnazione. E infine la fase decisionale, che consiste, tra l'altro, nelle precisazioni delle conclusioni e nell'esame di quelle delle altre parti illustrative o conclusionali anche in replica, compreso il loro deposito ed esame, la discussione orale, sia in camera di consiglio che in udienza pubblica.
Il nuovo decreto, inoltre, dà gas alla conciliazione giudiziale, prevedendo, in questo caso, un aumento fino a un quarto del compenso liquidato dal giudice rispetto a quello liquidabile per la fase decisionale. Mentre costituisce elemento di valutazione negativa, in sede di liquidazione giudiziale del compenso, l'adozione di condotte abusive tali da ostacolare la definizione dei procedimenti in tempi ragionevoli. Il compenso da liquidare giudizialmente a carico del soccombente costituito può inoltre essere aumentato fino a un terzo rispetto a quello altrimenti liquidabile quando le difese della parte vittoriosa sono risultate manifestamente fondate (articolo ItaliaOggi del 12.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROFESSIONALIParcelle legali con nuovi parametri. Aumenti sino al 50% - Soddisfazione di Consiglio nazionale forense e Oua. Giustizia. Il decreto firmato dal ministro Orlando - Al 15% la determinazione per il rimborso delle spese generali.
Gli avvocati possono contare sui nuovi parametri per la liquidazione giudiziale dei compensi. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha emanato ieri il regolamento con i nuovi indici di riferimento. Ora il testo del decreto ministeriale dovrà essere pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale».
Per Orlando «l'emanazione del regolamento è il frutto di un costruttivo confronto con il Consiglio nazionale forense che, in particolare, ha visto recepire da parte del ministero la richiesta di una più precisa quantificazione delle spese generali e la valorizzazione di ogni specifica attività dell'avvocato, sia sotto il profilo giudiziale che sotto quello della composizione stragiudiziale delle controversie».
Nel dettaglio dei contenuti e soprattutto delle modifiche introdotte in seguito ai pareri delle commissioni parlamentari e del Consiglio di Stato scende il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri: «importi più elevati, spese generali tendenzialmente fisse al 15% ed eliminazione della riduzione del gratuito patrocinio penale di un terzo ma solo perché è ora prevista da norma primaria della legge di stabilità ultima e per evitare anche il dubbio, affacciato, di una duplicazione delle riduzioni».
Respinte, invece, spiega la relazione al testo, come frutto di «un'ottica tariffaria con la quale non ci si può più confrontare», l'individuazione nell'ambito degli scaglioni di un compenso minimo non inferiore a una determinata somma, la sollecitazione a non ridurre i compensi per le cause di minore valore e di prevedere uno scaglione per determinate cause.
In termini generali, sottolinea ancora la relazione, rispetto alla proposta che era stata messa a punto dal Consiglio nazionale forense, che sin dall'estate del 2012 quando entrò in vigore la versione attuale dei parametri si è mosso per le modifiche, «si è pertanto ritenuto di dover modificare gli importi proposti e ciò si è fatto individuando, per ogni fascia e corrispondente scaglione, la media tra gli importi attuali (ove previsti, ovviamente) e quelli proposti e intervenendo, quindi, sull'importo "medio" con una riduzione del 25%. L'utilizzo di tale criterio ha comportato la individuazione di un compenso medio certamente ridotto rispetto a quello proposto, ma incrementato almeno del 50% rispetto a quello attuale (spesso anche di più)».
Il decreto, osserva il Cnf, si compone di una parte normativa e di tabelle parametriche che per il civile corrispondono ciascuna al tipo di procedimento/giudizio (comprese la materia stragiudiziale, la mediazione, le procedure concorsuali, quelle arbitrali, i processi amministrativi e tributari, i processi davanti alle giurisdizioni superiori) e una per il penale. Ogni tabella è poi divisa per fasi (da quella di studio a quella decisionale, eliminata invece quella post decisionale).
All'interno i parametri sono indicati con una somma fissa che il giudice potrà innalzare fino all'80% o ridurre fino al 50% motivando lo scostamento. Per il Cnf, il decreto del ministero, che conferma l'impianto della proposta del Consiglio «garantisce la prevedibilità dei costi legali, in modo che cittadini e imprese possano valutare economicamente i costi/benefici della prestazione professionale. Contribuisce inoltre alla celerità dei processi in quanto il calcolo dei costi della prestazione è completamente svincolato dal numero di atti legali compiuti durante il giudizio. Favorisce la conciliazione della controversie, con evidente e positivo effetto deflattivo del carico presso i tribunali».
Positivo anche il giudizio dell'Oua. Per il presidente Nicola Marino «Il ministro ha rispettato un impegno frutto dell'incontro della scorsa settimana con l'Oua, il che è profondamente positivo. Tutto ciò grazie alle manifestazioni del 20 febbraio, del corteo e del presidio a Montecitorio, ma anche della capacità di proposta unitaria dell'avvocatura tutta, a livello politico, istituzionale, ordinistico e associativo»
 (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Tassativi i motivi di esclusione da gare pubbliche. Consiglio di Stato. Candidature.
Ancora una volta il Consiglio di Stato cerca di far chiarezza su questioni controverse in tema di appalti pubblici e cioè sui vizi formali e sull'ordine di esame da parte del giudice dei ricorsi proposti dalle parti (Consiglio di Stato, adunanza plenaria 23/2013).
Il caso è uno dei più tipici. L'Autorità portuale di Napoli esclude dalla gara per la concessione in uso di uno specchio d'acqua del porto una ditta perché nelle buste con l'offerta mancava la fotocopia del documento di identità del legale rappresentante. L'impresa, prima nella graduatoria, ritiene irrilevante questo vizio e presenta ricorso al Tar Campania. La seconda in graduatoria propone ricorso incidentale perché la ricorrente doveva essere esclusa anche per un'altra ragione.
In sede di appello contro la sentenza del Tar che ha respinto il ricorso principale, l'Adunanza plenaria fa anzitutto il punto su una novità del Codice dei contratti pubblici: la tassatività delle cause di esclusione (articolo 46, comma 1-bis). La norma restringe i vizi formali rilevanti a un elenco di casi: le clausole dei bandi che ne aggiungono altri sono nulle. Ciò per evitare che siano escluse offerte competitive per qualità e prezzo.
Inoltre la sentenza illustra il principio del "soccorso istruttorio", cioè il dovere della stazione appaltante di consentire la sanatoria delle offerte irregolari. Per i requisiti previsti a pena di esclusione è possibile solo la regolarizzazione di dichiarazioni o documenti già presentati, ma non la produzione di nuovi documenti per completare l'offerta. Ciò violerebbe infatti il principio della parità tra concorrenti.
Il secondo tema riguarda i rapporti tra ricorso principale, proposto nel caso di specie dalla ditta esclusa, e ricorso incidentale del controinteressato, cioè nel caso di specie il secondo classificato. Qui la sentenza procede in modo acrobatico: non smentire un proprio precedente (Consiglio di Stato, adunanze plenarie n. 4/2011) e conformarsi all'orientamento difforme della Corte di Giustizia dell'Unione europea (sentenza Fastweb del 04.07.2013, C-100/12).
Il Consiglio di Stato aveva stabilito infatti che il ricorso incidentale deve essere esaminato sempre per primo e, se accolto, determina l'inammissibilità del ricorso principale, salvaguardando così l'aggiudicazione. Per Corte di Giustizia invece deve essere esaminato anche il ricorso principale, così da tutelare l'interesse alla regolarità complessiva della gara anche a costo di azzerarla del tutto.
Il Consiglio di Stato prospetta ora una distinzione tra fasi interne della procedura e vizi simmetrici rilevati in ciascuna di esse. Il principio della Corte di giustizia si così applica così solo se i vizi dedotti in modo incrociato afferiscono alla stessa fase. Una soluzione sofisticata che ritornerà prima o poi al vaglio della corte europea
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROFESSIONALIOk ai nuovi parametri forensi. Sui compensi armonizzazione con le altre professioni. Il ministro Orlando ha emanato il regolamento che attua l'ordinamento dei legali.
Via libera ai nuovi parametri forensi. Il nuovo ministro della giustizia, Andrea Orlando, ha infatti emanato ieri il regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione di avvocato, in attuazione del nuovo ordinamento forense (legge n. 247/2012).
Il nuovo regolamento. Le modifiche, si legge in una nota diffusa da via Arenula, «hanno riguardato essenzialmente l'armonizzazione al decreto ministeriale n. 140 del 2012, che riguarda i compensi di tutti gli altri professionisti». «L'emanazione del regolamento», ha dichiarato Orlando, «è il frutto di un costruttivo confronto con il Consiglio nazionale forense che, in particolare, ha visto recepire da parte del ministero la richiesta di una più precisa quantificazione delle spese generali e la valorizzazione di ogni specifica attività dell'avvocato, sia sotto il profilo giudiziale che sotto quello della composizione stragiudiziale delle controversie».
«Come ho annunciato nei positivi incontri che si sono tenuti nei giorni scorsi», ha detto ancora il nuovo ministro, «è mia intenzione promuovere un tavolo di lavoro che affronti in modo organico il tema dell'essenziale ruolo dell'avvocatura nel sistema giustizia. Al contempo ribadisco l'intenzione di promuovere un serrato confronto tra tutti i soggetti della giurisdizione per quanto attiene la riforma del processo civile».
La cronistoria. Ricordiamo che fino a oggi gli avvocati sono stati l'unica categoria a non aver beneficiato dei correttivi del ministero della giustizia al dm n. 140/2012, apportati più di un anno fa perché i compensi erano ritenuti troppo bassi. In proposito, nel novembre 2012 l'allora ministro della giustizia, Paola Severino, aveva avviato una trattativa con parte dell'avvocatura per valutare l'ipotesi di emanare un decreto correttivo migliorativo. Strada però che il Consiglio nazionale forense ha deciso di non percorrere per dare attuazione alla riforma forense, entrata in vigore nel gennaio 2013, che dà competenza allo stesso Cnf di elaborare una proposta di decreto.
Nel maggio 2013, il Cnf ha quindi inviato all'ex ministro Anna Maria Cancellieri la bozza di regolamento, che via Arenula ha corretto e, a novembre 2013, reinviato al Cnf e al Consiglio di stato per i relativi pareri. Il decreto è quindi arrivato sulla scrivania delle commissioni Bilancio e Giustizia di Camera e Senato, per gli ulteriori pareri non vincolanti, nel gennaio scorso. Pareri che poi sono stati emanati a fine febbraio.
In proposito, il Consiglio nazionale forense aveva giudicato «condivisibili» le osservazioni del Parlamento, «che vanno nella direzione dei rilievi avanzati dallo stesso Cnf in occasione del proprio parere reso nel novembre scorso». Orlando aveva annunciato giusto settimana scorsa, nel corso dell'incontro che si è tenuto in via Arenula con Cnf e Oua, che avrebbe proceduto celermente all'emanazione dei nuovi parametri forensi, per la cui entrata in vigore non resta quindi che la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
Lo stesso Cnf considera la firma del decreto «un traguardo importante di un lavoro iniziato a maggio 2013 con la proposta avanzata dal Consiglio al Ministero e proseguito con determinazione per ristabilire quella equità e correttezza che si erano persi con il decreto 140/2012 e con il suo sistematico ed ingiustificato abbattimento dei compensi» (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - VARIChi sosta con il ticket scaduto non deve pagare la multa
Chi paga la tariffa base del parcheggio a pagamento e prolunga la sosta abusivamente oltre alla scadenza del tagliando non può essere multato: dovrà pagare solo la tariffa evasa maggiorata dalle spese (importi che possono cambiare da comune a comune). In questo caso si tratta infatti di una semplice evasione tariffaria senza verbali da elevare ai sensi del codice stradale.

Lo ha ribadito ieri il Ministero dei trasporti evidenziando due precedenti specifici pareri già rilasciati sul tema negli anni precedenti (22.03.2010 n. 25783 di prot. e 05.07.2011 n. 3615 di prot.).
I comuni hanno piena facoltà di istituire aree destinate al parcheggio (normalmente illimitato) sulle quali la sosta del veicolo è subordinata al pagamento di una somma, da riscuotere mediante dispositivi di controllo, anche senza custodia. In tal caso l'utente che parcheggia il proprio mezzo ha l'obbligo di corrispondere la tariffa richiesta e di attivare il dispositivo di controllo, pena la sanzione di 41 euro.
Se non viene effettuato il pagamento o si prolunga la sosta oltre al periodo negoziato si configura anche una inadempienza contrattuale che comporta il risarcimento conseguente al mancato introito. Diversamente, prosegue il ministero, se la sosta in zona blu è limitata temporalmente con segnaletica ad hoc l'utente che parcheggia abusivamente sarà soggetto alla multa prevista dall'art. 7/15° del codice della strada di euro 25.
In pratica questa sanzione amministrativa si riferisce alla sosta limitata o regolamentata, qualora la sosta si protragga oltre l'orario consentito, ovvero sia effettuata da diversa categoria di veicoli o di utenti. Questa sanzione è applicata per ogni periodo per il quale si protrae la violazione, essendo implicita la segnalazione dell'orario di inizio della sosta, ovvero la messa in funzione del dispositivo di controllo della durata.
In buona sostanza, conclude il direttore generale della sicurezza stradale Dondolini, se la sosta si protrae abusivamente in area a pagamento senza limite orario o di categoria di veicoli il trasgressore che ha pagato un ticket sarà soggetto solo a una misura punitiva locale. Diversamente se il parcheggiatore abusivo lascia il veicolo nelle rare zone blu con sosta massima consentita sarà soggetto alla sanzione periodica prevista dal codice stradale (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.03.2014).

TRIBUTISulle esenzioni per i rifiuti assimilati. Tari, contenziosi dietro l'angolo.
L'esenzione Tari per i rifiuti assimilati rischia di mettere in difficoltà non pochi comuni. Le amministrazioni, quindi, devono cautelarsi con opportune misure in grado di mettere in sicurezza piani finanziari e bilanci.

Il dl 16/2014 ha stabilito che la nuova tassa sui rifiuti non è dovuta per quelli che il produttore dimostri di avere avviato al recupero, come già previsto dal comma 661 della l. 147/2013. È stata, invece, abrogata la seconda parte del precedente comma 649, che (con una palese contraddizione) lasciava alla discrezionalità dei sindaci l'introduzione e la modulazione dei relativi sconti.
A rigore, la detassazione non compete per tutte le superfici su cui si producono rifiuti assimilati: essa, al contrario, dovrebbe essere proporzionale alla quantità di rifiuti che il produttore smaltisca autonomamente e a proprie spese. Tuttavia, delimitare il suddetto rapporto di proporzionalità è tutt'altro che agevole. Gli enti che applicano il cosiddetto «metodo normalizzato» di cui al dpr 158/1999 possono utilizzare lo stesso criterio suggerito dallo schema di regolamento Tares elaborato dal Mef, ossia confrontando il quantitativo dichiarato dal produttore e quello teoricamente producibile in base al coefficiente Kd (senza più, però, la possibilità di prevedere tetti massimi).
Tutto da inventare, invece, il criterio per chi utilizzata il cosiddetto «metodo semplificato» di cui al comma 652 della stessa legge 147. In ogni caso, occorre che i comuni si preparino ad affrontare numerose richieste di riduzione o esenzione da parte dei contribuenti interessati, cui si accoderanno anche quelli che producono rifiuti speciali non assimilati in via prevalente e non esclusiva e che, a differenza di quanto accadeva in regime Tares, possono anch'essi invocare la detassazione in base alla prima parte del citato comma 649. Ovviamente, il rischio è più elevato laddove vi sia una maggiore incidenza di insediamenti produttivi
In un simile contesto, le contromisure non possono che passare, nell'attuale fase dell'esercizio, attraverso la revisione del piano finanziario definito lo scorso anno, con la redistribuzione del carico sulle utenze diverse da quelle «in odore» di sconti (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.03.2014).

TRIBUTIAree scoperte libere dalla Tasi. Impossibile tassare ciò che non ha una rendita catastale. Immobili: si restringe il campo di applicazione dell'imposta sui servizi comunali indivisibili.
Si restringe il campo di applicazione della Tasi. Non sono più soggette al prelievo le aree scoperte. La nuova imposta sui servizi comunali indivisibili si paga solo sui fabbricati, comprese le abitazioni principali, e le aree edificabili. Esclusi espressamente dall'imposizione anche i terreni agricoli.

Non devono versare l'imposta neppure i titolari degli immobili che sono esonerati dal pagamento dell'Imu. Ai comuni, inoltre, per il 2014 viene consentito di maggiorare dello 0,8 per mille l'aliquota massima (2,5 per mille) stabilita dalla legge, purché concedano per le unità immobiliari destinate a abitazione principale e assimilate detrazioni o qualsiasi altro trattamento agevolato che consenta di ridurre il carico fiscale, così come previsto per l'imposta municipale.
Sono alcune delle novità contenute negli articoli 1 e 2 del dl sulla finanza locale.
Aree scoperte. L'articolo 2 del dl esclude le aree scoperte dal pagamento del tributo. In questo modo il legislatore rimedia all'errore commesso nella legge di Stabilità (147/2013), che aveva assoggettato all'imposta sui servizi le aree scoperte. Considerato che la base imponibile della Tasi è la stessa dell'Imu, ciò porta a escludere che siano soggette al prelievo le aree scoperte, per le quali mancherebbe il criterio per calcolare il tributo. L'articolo 1, comma 669, della legge 147/2013 istitutiva del nuovo balzello, infatti, ricomprendeva nel presupposto della Tasi oltre ai fabbricati e alle aree edificabili anche le aree scoperte. La disposizione contenuta nel nuovo dl, invece, sostituisce il comma 669 e non fa più riferimento alle aree scoperte tra gli immobili soggetti. Vengono tra l'altro esclusi anche i terreni agricoli che, in realtà, già non rientravano nel campo di applicazione dell'imposta.
È impossibile tassare autonomamente le aree scoperte in quanto non hanno una rendita catastale, come i fabbricati, né un valore di mercato, come le aree edificabili. È evidente, quindi, che il legislatore ha fatto confusione poiché ha assoggettato alla Tasi locali e aree che sono tenuti al pagamento della tassa rifiuti (Tari). Questo si evince, tra l'altro, anche dal fatto che il dl sulla finanza locale abroga il comma 670 che esonera le aree pertinenziali di locali tassabili, non operative, e quelle condominiali a meno che non siano occupate in via esclusiva. È l'effetto consequenziale dell'esclusione dall'imposizione delle aree scoperte. Del resto per le aree scoperte cosiddette operative, per i locali in multiproprietà, i centri commerciali integrati e via dicendo, i criteri per calcolare la Tari sono la superficie dell'immobile e la tariffa deliberata dal comune. Mentre, per la Tasi è espressamente stabilito che la base di calcolo del tributo è quella dell'Imu.
Sono soggetti all'imposta sui servizi i fabbricati in generale. Quindi, devono passare alla cassa anche i titolari di immobili adibiti a prima casa. Il tributo è dovuto da chiunque possieda o detenga a qualsiasi titolo fabbricati e aree edificabili. Qualora vi siano più possessori o detentori, tutti sono tenuti in solido all'adempimento dell'obbligazione tributaria. In base a quanto stabilito dal comma 672, se è stato stipulato un contratto di locazione finanziaria il tributo è dovuto dal locatario a partire dalla data di stipula del contratto e per tutta la sua durata. La norma precisa che per durata del contratto si intende il periodo che va dalla data di stipula a quella di riconsegna del bene al locatore, che deve essere comprovata da un apposito verbale.
Agevolazioni fiscali. Il decreto sulla finanza locale nella prima versione limitava l'esenzione dalla Tasi solo per alcuni immobili di proprietà della Santa sede indicati nei Patti lateranensi. In un primo momento, nonostante siano le stesse le modalità di calcolo rispetto all'Imu, l'esenzione Tasi era circoscritta agli immobili della Santa sede disciplinati dal Concordato con l'Italia senza alcun riferimento, per esempio, a quelli adibiti al culto. In sede di approvazione definitiva del testo del dl, l'articolo 1 stabilisce che l'esenzione Tasi si applichi negli stessi casi in cui il beneficio spetti per l'Imu.
Nello specifico, sono esonerati gli immobili posseduti da stato, regioni, province, comuni, comunità montane, consorzi fra detti enti, ove non soppressi, dagli enti del servizio sanitario nazionale, purché destinati esclusivamente ai compiti istituzionali.
Inoltre, le agevolazioni si estendono agli immobili adibiti al culto, a quelli utilizzati dagli enti non commerciali e così via. Per questi ultimi viene ribadito che l'esenzione, totale o parziale, è condizionata dalla destinazione degli immobili allo svolgimento delle attività elencate dall'articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 504/1992, con modalità non commerciali.
Alle agevolazioni fissate dalla legge, poi, si aggiungono quelle che possono deliberare i comuni. Per il 2014 possono anche maggiorare dello 0,8 per mille l'aliquota massima (2,5 per mille) stabilita dalla legge, ma a condizione che concedano per le unità immobiliari destinate a abitazione principale e assimilate detrazioni o altri benefici fiscali tali da ridurre il carico d'imposta come per l'Imu.
Un'attenzione particolare deve essere rivolta ai contribuenti meno abbienti, che hanno una ridotta capacità contributiva misurata anche attraverso l'Isee. Le amministrazioni locali hanno la facoltà di stabilire riduzioni o detrazioni, senza un tetto massimo, e esenzioni. Le agevolazioni possono essere concesse per: abitazioni con unico occupante; abitazioni tenute a disposizione per uso stagionale o altro uso limitato e discontinuo; locali e aree scoperte adibiti a uso stagionale; abitazioni occupate da soggetti che risiedono o hanno la dimora, per più di sei mesi all'anno, all'estero; fabbricati rurali a uso abitativo (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.03.2014).

URBANISTICALottizzazioni ante-2012, proroga ad ampio raggio. Urbanistica. Le disposizioni del decreto «del fare».
Proroga ad ampio raggio anche per i termini indicati nelle convenzioni di lottizzazione stipulate fino al 31.12.2012.
È questa la lettura che pare più condivisibile –in attesa di conferma ufficiale– in relazione alle disposizioni contenute nel decreto "del fare" (Dl 69/2013, convertito dalla legge 98).
Per venire incontro alla crisi che ha colpito anche il settore immobiliare, il legislatore ha introdotto disposizioni volte ad ampliare le tempistiche previste per il completamento degli interventi edilizi già programmati.
Le due «proroghe»
Il decreto, da un lato, con l'articolo 30, comma 3, ha previsto la proroga di due anni –previa comunicazione dell'interessato– dei termini di inizio e ultimazione dei lavori indicati nei titoli edilizi rilasciati o formati prima dell'entrata in vigore del decreto, precisando però che possono essere prorogati i soli termini che non siano già decorsi al momento della comunicazione dell'interessato.
Dall'altro lato, con il comma 3-bis dello stesso articolo (inserito in fase di conversione in legge), ha disposto una generale proroga di tre anni dei termini di validità e dei termini di inizio e fine lavori indicati nel l'ambito delle convenzioni di lottizzazione stipulate fino al 31.12.2012.
A breve distanza dalla sua introduzione, la normativa sta generando notevoli criticità interpretative. E infatti la norma sui termini previsti nell'ambito delle convenzioni di lottizzazione ha una formulazione che lascia ampi margini interpretativi: la disposizione, diversamente da quanto previsto per la proroga dei termini dei titoli edilizi, non contiene alcuna precisazione in merito all'eventuale possibilità di applicare l'estensione ai termini convenzionali che siano già scaduti.
Non è dunque chiaro se la proroga sia efficace anche rispetto ai termini che, al momento dell'entrata in vigore della legge n. 98/2013, erano già scaduti, ma che, proprio in forza della stessa proroga di tre anni, potrebbero tornare in corso di validità. Da notare che il decreto è entrato in vigore il 22.06.2013, mentre la sua legge di conversione il 21 agosto.
La portata dell'estensione
È ben possibile che una convenzione stipulata prima del 31.12.2012 preveda un termine che –anche se già scaduto al momento dell'entrata in vigore della legge n. 98/2013– se venisse prorogato di tre anni, tornerebbe in corso di validità. Si pensi, ad esempio, a una convenzione di lottizzazione stipulata nell'anno 2009 che preveda il completamento delle opere di urbanizzazione entro tre anni e, dunque, entro l'anno 2012.
In relazione a simili fattispecie, ci si domanda se la mancata indicazione nel comma 3-bis dell'impossibilità di applicare la norma stessa ai termini convenzionali di inizio o fine lavori già scaduti sia stata una "svista" del legislatore o se, per contro, la mancata indicazione di questo elemento sia indice della chiara volontà di estendere di tre anni la validità di tutti i termini previsti nelle convenzioni stipulate sino al 31.12.2012, anche se già scaduti.
La scelta interpretativa genera rilevanti effetti in sede applicativa. In particolare, si possono ipotizzare due letture:
- se si ritiene che siano prorogati ex lege i soli termini in corso di validità, la sfera di applicabilità della norma risulta pesantemente ridimensionata. Questa tesi è supportata dall'utilizzo del termine "proroga" che normalmente presuppone la vigenza del termine, dovendosi diversamente far ricorso al l'istituto della rinnovazione degli atti.
- se si ritiene, per contro, che la norma sia applicabile a tutti i termini previsti dalle convenzioni, la disposizione si rivela ininfluente solamente rispetto a quei termini che, anche se prorogati di tre anni, non tornerebbero in corso di validità.
In forza di questa interpretazione, il novero dei procedimenti che giovano della disposizione sarebbe decisamente più ampio e la norma potrebbe persino ripianare situazioni di conflittualità sorte con le Amministrazioni in merito a possibili inadempimenti degli operatori colpiti dalla crisi.
Questa tesi è supportata dal l'evidente diversità nel tenore letterale del comma 3-bis rispetto al precedente comma 3 e dalla chiara finalità perseguita dal legislatore. In questo senso –pur in attesa di un "perfezionamento" del dettato letterale della norma o un'interpretazione autentica– l'interpretazione più largheggiante appare essere quella più corretta.
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Le regole. Decorsi due anni dal termine per completare. Per i piani attuativi scaduti la via del recupero parziale.
Il decreto del Fare (Dl 69/2013, convertito con legge n. 98/2013) ha introdotto una disposizione volta ad ampliare le tempistiche di completamento degli interventi edilizi assoggettati a pianificazione attuativa, prevedendo una proroga di tre anni dei termini di validità e dei termini di inizio e fine lavori nell'ambito delle convenzioni di lottizzazione stipulate sino al 31.12.2012 (si veda l'articolo sopra).
I piani scaduti
Ma cosa accade in relazione ai piani attuativi non completati, i cui termini siano già scaduti e non siano più utilmente prorogabili in forza di questa disposizione?
La giurisprudenza amministrativa sul punto ha più volte affermato che, in applicazione degli articoli 16 e 17 della legge urbanistica (la n. 1150/1942), i piani di lottizzazione devono essere attuati entro il termine di validità decennale, decorso il quale divengono inefficaci per la parte inattuata.
Una volta decorso il termine, il Comune può disciplinare la parte di piano che non ha avuto attuazione mediante un nuovo piano (tra le altre Tar Lombardia-Milano, sezione II, sentenza n. 1979/2011).
Scaduto il piano, il Comune potrà pertanto disciplinare la parte non sviluppata mediante un nuovo piano attuativo.
Questa strada non è però l'unica percorribile per completare l'esecuzione degli interventi.
I sub-comparti
In forza del comma 3, dell'articolo 17 della legge urbanistica, introdotto mediante la legge n. 106/2011, infatti, qualora decorsi due anni dal termine per l'esecuzione del piano particolareggiato non sia stato presentato un nuovo piano relativo alla parte rimasta inattuata, il Comune, limitatamente all'attuazione anche parziale di comparti o comprensori del piano particolareggiato decaduto, accoglie le proposte di formazione e attuazione di singoli sub-comparti, indipendentemente dalla parte restante del comparto, per iniziativa dei privati che abbiano la titolarità dell'intero sub-comparto, purché non modifichino la destinazione d'uso delle aree pubbliche o fondiarie rispettando gli stessi rapporti dei parametri urbanistici dello strumento attuativo decaduti.
I sub-comparti di attuazione non costituiscono variante urbanistica e sono approvati dal Consiglio comunale senza l'applicazione delle procedure dettate per l'approvazione dei piani particolareggiati.
In assenza di un nuovo piano che interessi l'intera area non ancora attuata, i proprietari di singoli sub-comparti inclusi nei piani attuativi decaduti, potranno quindi presentare proposte finalizzate allo sviluppo edilizio della medesima specifica porzione rimasta inattuata
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.03.2014).

GIURISPRUDENZA

AMBIENTE-ECOLOGIA: Cassazione. L'impresa deve limitare i rumori notturni.
Maggiori rischi di sanzioni penali per l'imprenditore che procura rumori molesti negli orari notturni.

È questo il principio espresso dalla sentenza 14.03.2014 n. 12274 della Corte di Cassazione, Sez. I penale, in relazione a rumori molesti emessi da una carpenteria per la lavorazione di materiali pesanti.
Due imprenditori condannati in appello (a una multa di 10.500 euro ciascuno) hanno impugnato la sentenza chiedendo che fosse applicata la semplice sanzione amministrativa per violazione della normativa acustica. La Cassazione ha tuttavia rigettato il ricorso poiché gli imprenditori non solo hanno superato i limiti di normale tollerabilità, ma lo hanno fatto abusando degli strumenti di lavoro, e cioè i rumori sono stati emessi in orario notturno e senza l'assunzione di accorgimenti per evitarne la diffusione.
I ricorrenti, infatti, non avrebbero ponderato che lo svolgimento di attività rumorose all'aperto, in orario notturno, vicino a una zona residenziale, avrebbe potuto determinare il disturbo al riposo delle persone. Tale ipotesi è disciplinata dall'articolo 659 del Codice penale che distingue la punizione di rumori molesti da quelli emessi nell'esercizio di una professione.
La distinzione è rilevante in quanto il reato che scaturisce da rumori emessi nell'esercizio di una professione o di un'impresa, è stato depenalizzato nel 1995 e ha condotto al precetto per cui l'imprenditore o il professionista che produca rumori molesti risponde solo di una mera sanzione amministrativa. Occorre, dunque, valutare se tutti i rumori prodotti nell'esercizio dell'impresa sono esclusi dalla punibilità penale e quindi ricondotti a una mera sanzione amministrativa.
La risposta la fornisce la Cassazione che distingue tra superamento dei limiti massimi o di differenziali di rumore fissati per legge, per i quali non vi è reato (Cassazione 25601/2013, per i rumori emessi da un bar), da quelli commessi con abuso degli strumenti lavorativi. In questa ipotesi, come nel caso esaminato dalla Cassazione del 14 marzo n. 12274/2014, i rumori non solo sono stati molesti, ma sono stati emessi senza l'utilizzo di precauzioni che l'imprenditore accorto avrebbe dovuto assumere vista la vicinanza alle abitazioni, l'orario notturno e le lavorazioni all'aperto
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.03.2014).
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Condannato per avere, nella qualità di titolare e legale rappresentante della ditta di costruzioni, realizzando manufatti di carpenteria metallica pesante, mediante l’abuso di strumenti di lavoro, cagionato e non impedito la diffusione anche di notte di emissioni rumorose gravemente moleste per le persone residenti nella zona circostante lo stabilimento ed, in specie, non impedendo e consentendo la prosecuzione dell’attività lavorativa senza adozione di modalità che limitassero la produzione di rumori.

PUBBLICO IMPIEGOConcussore chi minaccia. Induzione se chi paga ha il suo tornaconto. RIFORMA SEVERINO/ Le motivazioni delle S.u. della Cassazione.
Concussione se c'è minaccia, induzione quando chi paga ha il suo tornaconto. Scatta la vecchia concussione quando il pubblico ufficiale minaccia un danno all'imprenditore qualora questi decida di non pagare la tangente o fargli avere altra utilità: il privato è dunque posto di fronte a un'alternativa secca, tipo bere o affogare.
Si configura invece il nuovo reato di indebita induzione laddove chi esercita una funzione o un servizio pubblici pone sì in essere una condotta di pressione morale sulla parte privata, ma lasciandole comunque un margine decisionale più ampio, tanto che in tal caso l'imprenditore si convince a pagare per la prospettiva di un indebito tornaconto personale e dunque diventa complice dell'altro. La differenza con le fattispecie corruttive è che in queste ultime c'è par condicio fra le parti, con un incontro delle volontà che stavolta risulta assolutamente libero.

Lo precisa la Corte di Cassazione, Sezz. Unite penali, con la sentenza 14.03.2014 n. 12228, che contiene le motivazioni della decisione anticipata il 25 ottobre scorso.
Danno ingiusto
Il collegio esteso «spiega» la legge 190/2012 a 15 mesi dall'entrata in vigore con la sentenza 12228/2014: nella concussione la minaccia che fa il pubblico ufficiale può ben essere implicita ma il reato ex articolo 317 cp si configura ugualmente.
E ciò anche se la capacità di autodeterminazione del destinatario della condotta non risulta del tutto annullata: conta solo che egli sia posto di fronte all'alternativa secca di subire il male prospettatogli, inteso come danno ingiusto, o di evitarlo con la dazione o la promessa dell'indebito, sia denaro o altre utilità.
Sanzione meritata
L'indebita induzione di cui all'articolo 319-quater cp introdotto dalla riforma Severino si distingue perché manca la minaccia: la condotta dell'agente, pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio, si connota come persuasione e suggestione, come una forma di pressione morale o inganno, a patto che quest'ultimo non si risolva in induzione in errore sulla doverosità della dazione: in questa fattispecie, comunque, il comportamento dell'agente condiziona pure la libertà di scelta del destinatario della condotta ma in un modo più tenue rispetto all'ipotesi perseguita dall'articolo 317 cp.
La differenza è che in tal caso il destinatario della (im)moral suasion finisce con il prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, cioè del pagamento della tangente (e così via), ciò che lo rende complice del pubblico agente e dunque meritevole di sanzione penale.
Nei casi ambigui, ad esempio nella «zona grigia» dell'abuso della qualità, bisogna individuare i dati più qualificanti dopo un'approfondita ed equilibrata valutazione complessiva del fatto (articolo ItaliaOggi del 15.03.2014).

PUBBLICO IMPIEGO: REATI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – MODIFICHE INTRODOTTE DALLA LEGGE N. 190 DEL 2012 – DELITTI DI CONCUSSIONE ED INDEBITA INDUZIONE – CRITERI DISCRETIVI.
Le Sezione Unite della Suprema Corte, risolvendo un contrasto interpretativo insorto nella giurisprudenza di legittimità a seguito della riforma dei reati contro la pubblica amministrazione da parte della l. n. 190 del 2012, hanno individuato il discrimine fra il delitto di concussione e quello di indebita induzione, ritenendo, in particolare, che:
• il primo reato sussiste in presenza di un abuso costrittivo del pubblico ufficiale attuato mediante violenza o minaccia, da cui deriva una grave limitazione della libertà di autodeterminazione del destinatario che, senza ricevere alcun vantaggio, viene posto di fronte all’alternativa di subire il male prospettato o di evitarlo con la dazione o la promessa dell’utilità;
• il secondo, invece, consiste nell’abuso induttivo posto in essere dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio che con una condotta di persuasione, suggestione, inganno o pressione morale condizioni in modo più tenue la libertà di autodeterminazione del privato, il quale disponendo di ampi margini decisori, accetta di prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, nella prospettiva di un tornaconto personale;
• nei casi ambigui o di confine, i criteri di valutazione del danno antigiuridico e del vantaggio indebito devono essere utilizzati nella loro operatività dinamica ed all’esito di una complessiva ed equilibrata valutazione del fatto
(Corte di Cassazione, Sezz. Unite penali, sentenza 14.03.2014 n. 12228 - tratto da www.cortedicassazione.it).
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Spacchettamento della concussione: le motivazioni delle Sezioni Unite.
Sono state depositate oggi le 63 pagine di motivazioni della pronuncia numero 12228/2014 delle Sezioni Unite a proposito del cd. spacchettamento della concussione e, prontamente, le pubblichiamo.
E’ ormai noto che la riforma dei reati contro la pubblica amministrazione -legge 190 del 2012– ha dato a luogo a quello che è stato ribattezzato come il cd. “spacchettamento” della concussione, ossia l’aver suddiviso le originarie condotte di “costrizione” e “induzione” in due autonome fattispecie criminose. La legge di riforma ha, in altri termini, eliminato dall’art. 317 c.p. la condotta di “induzione”, lasciando come unica condotta incriminatrice la “costrizione” creando una nuova fattispecie per la condotta di induzione.
Come avevamo anticipato, lo scorso 24 ottobre le Sezioni Unite si erano pronunciate sull’individuazione della precisa linea di demarcazione tra la fattispecie di concussione (prevista dal novellato art. 317 cod. pen.) e quella di induzione indebita a dare o promettere utilità (prevista dall’art. 319-quater cod. pen. di nuova introduzione), affermando il seguente principio di diritto: "
La linea di discrimine tra le due fattispecie ruota intorno al fatto che, nell’induzione indebita prevista dall’articolo 319-quater del Codice Penale, si assiste ad una condotta di pressione non irresistibile da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che lascia al destinatario della stessa un margine significativo di autodeterminazione e si coniuga con il perseguimento di un suo indebito vantaggio. Al contrario, nel reato, più grave, della concussione per costrizione si sarebbe in presenza di una condotta del pubblico ufficiale che limita radicalmente la libertà di autodeterminazione del destinatario".
Oggi sono state depositate le motivazioni.
Le Sezione Unite della Suprema Corte risolvendo un contrasto interpretativo insorto nella giurisprudenza di legittimità a seguito della riforma dei reati contro la pubblica amministrazione da parte della legge n. 190 del 2012, hanno individuato il discrimine fra il delitto di concussione e quello di indebita induzione, ritenendo, in particolare, che:
il delitto di concussione sussiste in presenza di un abuso costrittivo del pubblico ufficiale attuato mediante violenza o minaccia, da cui deriva una grave limitazione della libertà di autodeterminazione del destinatario che, senza ricevere alcun vantaggio, viene posto di fronte all’alternativa di subire il male prospettato o di evitarlo con la dazione o la promessa dell’utilità;
il delitto di indebita induzione, invece, consiste nell’abuso induttivo posto in essere dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio che con una condotta di persuasione, suggestione, inganno o pressione morale condizioni in modo più tenue la libertà di autodeterminazione del privato, il quale disponendo di ampi margini decisori, accetta di prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, nella prospettiva di un tornaconto personale.
Posta in questi termini la distinzione tra “abuso costrittivo” e “abuso induttivo”, la Corte ha anche specificato che, nei casi ambigui o di confine, i criteri di valutazione del danno antigiuridico e del vantaggio indebito devono essere utilizzati nella loro operatività dinamica ed all’esito di una complessiva ed equilibrata valutazione del fatto (commento tratto da e link a www.giurisprudenzapenale.com).

PUBBLICO IMPIEGO: REATI CONTRO L’AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA – OMESSA DENUNCIA DI REATO DA PARTE DEL PUBBLICO UFFICIALE – ACCERTAMENTI DISPOSTI DAL PUBBLICO UFFICIALE PER VERIFICARE L’EFFETTIVA SUSSISTENZA DI UNA “NOTIZIA CRIMINIS”, E NON DI UN MERO SOSPETTO – CONFIGURABILITÀ DEL REATO – ESCLUSIONE.
Non integra il reato di cui all’art. 361 cod. pen. la condotta del pubblico ufficiale che, dinanzi alla segnalazione di un fatto avente connotazioni di possibile rilievo penale, disponga i necessari approfondimenti all’interno del proprio ufficio, al fine di verificare l’effettiva sussistenza di una “notitia criminis”, e non di elementi di mero sospetto (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 13.03.2014 n. 12021 - tratto da www.cortedicassazione.it).

TRIBUTI: C'è l'Ici sui santuari con negozio.
Pagano l'Ici i santuari religiosi che svolgono attività commerciali o comunque di lucro.

È quanto afferma la Corte di Cassazione con l'ordinanza 13.03.2014 n. 5871, pubblicata dalla VI Sez. civile.
Piazza Cavour accoglie il ricorso del Comune di Pompei contro la decisione della Ctr Campania. Il giudice di secondo grado sottolineava che l'atto impositivo emesso nei confronti di un santuario era carente di motivazioni. Infatti, ad avviso della Ctr, non veniva meno l'esenzione che si intende estesa anche a queste precise unità immobiliari, a prescindere dall'attività svolta in concreto e dalla loro destinazione.
Inoltre, il Comune non aveva fornito la prova che su alcuni immobili venissero esercitate attività commerciali dopo la cessazione di quella alberghiera. Ricorre per Cassazione l'ente locale e la tesi fa breccia presso i Supremi giudici. L'esenzione prevista dall'articolo 7 del dlgs n. 504/1992, «è limitata all'ipotesi in cui gli immobili siano destinati in via esclusiva allo svolgimento di una delle attività di religione o di culto indicate nell'articolo 16 della legge n. 222/1985» (articolo ItaliaOggi del 14.03.2014).

ATTI AMMINISTRATIVI: L'adozione nelle more del giudizio contro il silenzio-rifiuto di un provvedimento esplicito fa venire meno i presupposti per la condanna dell'Amministrazione a provvedere sull'istanza, con improcedibilità del ricorso proposto per sopravvenuto difetto d'interesse.
Come è noto, secondo la costante giurisprudenza amministrativa, l'adozione nelle more del giudizio contro il silenzio-rifiuto di un provvedimento esplicito fa venire meno i presupposti per la condanna dell'Amministrazione a provvedere sull'istanza, con improcedibilità del ricorso proposto per sopravvenuto difetto d'interesse (ex multis, Cons. Stato, n. 179 del 2009; Tar Calabria, Catanzaro, n. 1171 del 2013; Tar Umbria, n. 425 del 2013).
Poiché nel caso di specie, il provvedimento richiesto dall’istante è stato adottato dall’Amministrazione provinciale successivamente alla notifica e al deposito del ricorso (ancorché di pochi giorni), il ricorso va dichiarato improcedibile (TAR Abruzzo-L’aquila, sentenza 13.03.2014 n. 227 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 33, comma secondo, del d.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che “qualora, sulla base di motivato accertamento dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile dell'ufficio irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere…”.
La norma costituisce eccezione a quella contenuta nel primo comma dello stesso articolo, il quale sanziona con l’ingiunzione al ripristino la realizzazione di opere di ristrutturazione edilizia in assenza di titolo o in difformità da esso.
La sanzione ordinaria consiste dunque nel ripristino, mentre quella pecuniaria può essere applicata solo al ricorrere di particolari circostanze tali da rendere il ripristino dello stato dei luoghi impossibile.
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Secondo la giurisprudenza, proprio in quanto la demolizione costituisce sanzione principale che l’ente deve comunque in prima battuta irrogare, il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria può essere effettuato soltanto in una fase successiva a quella di emanazione del provvedimento che ingiunge la demolizione stessa, e cioè quando il soggetto privato non abbia ottemperato spontaneamente e l'organo competente, per tale motivo, emetta l'ordine di esecuzione in danno.
Pertanto, soltanto nella predetta seconda fase può formularsi il giudizio di illegittimità dell'ingiunzione a demolire.

Con il quinto motivo, parte ricorrente denuncia la violazione dell’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto l’Amministrazione non avrebbe valutato l’impatto degli interventi di ripristino e la conseguente opportunità di applicare la sanzione pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria.
Anche questa doglianza non può essere condivisa.
L’art. 33, comma secondo, del d.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che “qualora, sulla base di motivato accertamento dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile dell'ufficio irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere…”.
La norma costituisce eccezione a quella contenuta nel primo comma dello stesso articolo, il quale sanziona con l’ingiunzione al ripristino la realizzazione di opere di ristrutturazione edilizia in assenza di titolo o in difformità da esso.
La sanzione ordinaria consiste dunque nel ripristino, mentre quella pecuniaria può essere applicata solo al ricorrere di particolari circostanze tali da rendere il ripristino dello stato dei luoghi impossibile (cfr. TAR Puglia Bari, Sez. III, 04.04.2013 n. 471).
Ciò premesso va osservato che, nel caso concreto, queste speciali circostanze non sembrano ricorrere posto che dalla sostituzione del materiale usato per la copertura della serra e dalla rimozione dell’impianto di condizionamento non pare possa derivare l’assoluta impossibilità di utilizzo del manufatto realizzato.
In ogni caso va osservato che, secondo la giurisprudenza, proprio in quanto la demolizione costituisce sanzione principale che l’ente deve comunque in prima battuta irrogare, il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria può essere effettuato soltanto in una fase successiva a quella di emanazione del provvedimento che ingiunge la demolizione stessa, e cioè quando il soggetto privato non abbia ottemperato spontaneamente e l'organo competente, per tale motivo, emetta l'ordine di esecuzione in danno. Pertanto, soltanto nella predetta seconda fase può formularsi il giudizio di illegittimità dell'ingiunzione a demolire (cfr. TAR Lazio Roma, Sez. I, 04.04.2012 n. 3105; id., 02.03.2012 n. 2165).
Nel caso concreto, la ricorrente ha contestato l’illegittimità dell’ordinanza di ingiunzione alla demolizione indipendentemente dall’emanazione del provvedimento di esecuzione in danno; ed anche per questo motivo la doglianza esaminata non può essere condivisa (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 12.03.2014 n. 628 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: A differenza dal regime in precedenza vigente, alla stregua del quale spettavano all'Autorità regionale, o ad altra da questa delegata, i compiti di amministrazione attiva in materia di gestione dei vincoli paesaggistici, rimanendo alle Soprintendenze solo funzioni di controllo sui provvedimenti autorizzatori, consistenti nella possibilità di procedere al loro annullamento entro il termine perentorio di gg. 60 dal rilascio, qualora fosse stata ravvisata la sussistenza di vizi di legittimità), quello attuale, di cui all'art. 146 dello stesso decreto, delinea una situazione di co-gestione del vincolo, in sede di amministrazione attiva, da parte dell'Autorità regionale (o di quella delegata) e dell'Autorità statale periferica, con una chiara prevalenza delle valutazioni fatte da quest'ultima, sebbene effettuate in sede consultiva.
Sicché l’approvazione del progetto con condizioni o prescrizioni, peraltro pacificamente ammessa anche nel sistema previgente, non trova oggi alcun ostacolo nel disposto in alcuna norma, spettando alla Soprintendenza il potere di vagliare l’inserimento ambientale dell’opera sotto tutti i profili e, se necessario, imporne tutti gli adattamenti necessari per il rispetto dei valori protetti dal vincolo.
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La Soprintendenza non ha fornito alcuna evidenza delle ragioni per le quali l’esigenza di preservare le peculiarità del paesaggio tutelate dal vincolo avrebbero imposto la riduzione delle dimensioni del manufatto, né ha puntualmente spiegato il perché le numerose prescrizioni costruttive già dettate dalla Commissione paesaggistica del Comune al fine di armonizzare l’opera con l’ambiente circostante non possano ritenersi sufficienti allo scopo anche alla luce di un criterio di proporzionalità.
L’autorizzazione paesaggistica deve essere, quindi, annullata.
In esecuzione della presente pronuncia la Soprintendenza, entro 45 giorni dalla comunicazione della presente sentenza, dovrà nuovamente pronunciarsi sulla istanza della ricorrente rivalutandola integralmente e motivando in modo puntuale le sue determinazioni secondo i criteri sopra stabiliti, non ostando la perentorietà del termine previsto dall’art. 146, comma nono, del D.Lgs. 42/2004 alla rinnovazione “ora per allora” del provvedimento annullato.

... per l'annullamento:
- del provvedimento del Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici, Artistici e Etnoantropologici di Arezzo del 30.05.2011, comunicato in data 21.06.2011, prot. P9/221/11 a firma del Soprintendente Arch. Agostino Bureca e del Responsabile del Procedimento Arch. Massimo Bucci, con il quale è stata autorizzata la realizzazione dell’opera di cui alla DIA presentata dal sig. Taddeucci Sassolini al Comune di Castelfranco di Sopra in data 02.04.2011 con la prescrizione, tra le altre, che le dimensioni nette della stessa non potevano essere superiori a metri 4x8;
- della Autorizzazione Paesaggistica n. 7 del 09.06.2011 (P.E.27/11), del Comune di Castelfranco di Sopra, con il quale viene rilasciata autorizzazione paesaggistica con prescrizioni per la realizzazione di piscina e locale tecnico a servizio della stessa da eseguirsi in Loc. San Godenzo nel Comune di Castelfranco di Sopra, nella parte in cui viene limitata la dimensione dell’opera a metri 4x8;
...
FATTO
Il Sig. Taddeucci, premesso di aver presentato al Comune di Castelfranco di Sopra una d.i.a. con la quale annunciava la realizzazione di una piscina ed un locale tecnico al servizio della stessa, di aver altresì richiesto al medesimo comune la prescritta autorizzazione paesaggistica, di aver ottenuto da parte della Commissione per il paesaggio una prima delibazione favorevole del progetto sia pure con prescrizioni, lamenta che la Sopraintendenza ai beni Architettonici e paesaggisti di Arezzo in sede di rilascio del parere previsto dall’art. 146 del D.Lgs. 42/2004 avrebbe assentito l’opera ma imponendo una consistente riduzione delle sue dimensioni.
La prescrizione sarebbe stata recepita nella autorizzazione paesaggistica definitivamente rilasciata dal Comune di Castelfranco di Sopra che il Sig. Taddeucci impugna insieme all’atto soprintendentizio.
A sostegno del gravame il ricorrente pone i vizi di violazione degli artt. 146 e ss. del Codice del paesaggio e dei beni culturali poiché la Soprintendenza, anziché valutare la compatibilità dell’intervento nel suo complesso con il vincolo, sarebbe entrata nel merito tecnico dell’opera da realizzare, e di difetto di motivazione in quanto la prescritta riduzione del manufatto si porrebbe in contrasto con il regolamento edilizio comunale, non sarebbe stata giustificata da alcuna esigenza di rispetto delle caratteristiche ambientali che il vincolo intenderebbe preservare.
DIRITTO
Il primo motivo di ricorso è privo di fondamento.
Occorre in proposito rammentare che, a differenza dal regime in precedenza vigente, alla stregua del quale spettavano all'Autorità regionale, o ad altra da questa delegata, i compiti di amministrazione attiva in materia di gestione dei vincoli paesaggistici, rimanendo alle Soprintendenze solo funzioni di controllo sui provvedimenti autorizzatori, consistenti nella possibilità di procedere al loro annullamento entro il termine perentorio di gg. 60 dal rilascio, qualora fosse stata ravvisata la sussistenza di vizi di legittimità), quello attuale, di cui all'art. 146 dello stesso decreto, delinea una situazione di co-gestione del vincolo, in sede di amministrazione attiva, da parte dell'Autorità regionale (o di quella delegata) e dell'Autorità statale periferica, con una chiara prevalenza delle valutazioni fatte da quest'ultima, sebbene effettuate in sede consultiva (TAR Napoli Campania sez. VII, 12.03.2013 n. 1404).
Sicché l’approvazione del progetto con condizioni o prescrizioni, peraltro pacificamente ammessa anche nel sistema previgente, non trova oggi alcun ostacolo nel disposto in alcuna norma, spettando alla Soprintendenza il potere di vagliare l’inserimento ambientale dell’opera sotto tutti i profili e, se necessario, imporne tutti gli adattamenti necessari per il rispetto dei valori protetti dal vincolo.
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Fondato è, invece, il secondo motivo di ricorso.
La Soprintendenza non ha fornito alcuna evidenza delle ragioni per le quali l’esigenza di preservare le peculiarità del paesaggio tutelate dal vincolo avrebbero imposto la riduzione delle dimensioni del manufatto (TAR Venezia Veneto sez. II, 13.09.2013 n. 1104), né ha puntualmente spiegato il perché le numerose prescrizioni costruttive già dettate dalla Commissione paesaggistica del Comune di Castelfranco di Sopra al fine di armonizzare l’opera con l’ambiente circostante non possano ritenersi sufficienti allo scopo anche alla luce di un criterio di proporzionalità.
L’autorizzazione paesaggistica deve essere, quindi, annullata.
In esecuzione della presente pronuncia la Soprintendenza, entro 45 giorni dalla comunicazione della presente sentenza, dovrà nuovamente pronunciarsi sulla istanza della ricorrente rivalutandola integralmente e motivando in modo puntuale le sue determinazioni secondo i criteri sopra stabiliti, non ostando la perentorietà del termine previsto dall’art. 146, comma nono, del D.Lgs. 42/2004 alla rinnovazione “ora per allora” del provvedimento annullato (Consiglio di Stato sez. V, 17.02.2006 n. 640; Consiglio Stato sez. V 08.07.1995 n. 1034)
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.03.2014 n. 494 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La novazione soggettiva nei rapporti inerenti il titolo edilizio avviene con la voltura non essendo, invece, sufficiente, a realizzare tale effetto il mero acquisito dell’immobile. Tant’è che, secondo la giurisprudenza, del pagamento dei contributi di urbanizzazione risponde direttamente e per intero il titolare della concessione edilizia, essendo i successivi acquirenti estranei al rapporto che al riguardo si è instaurato col Comune.
Peraltro, la titolarità del permesso edilizio incide solo sul profilo passivo della obbligazione relativa al pagamento del contributo ma nulla, invece, ha a che vedere con l’azione di ripetizione dell’indebito.
Questa, infatti, trae fonte dal pagamento di un debito non dovuto ed inerisce esclusivamente al rapporto fra chi lo ha effettuato e chi lo ha ricevuto. Legittimato ad esigere la restituzione è, quindi, il soggetto che ha effettuato (a nome proprio) il pagamento rivelatosi privo di causa.
Nessuna rilevanza assume ai fini della legittimazione ad esercitare l’azione in discorso il fatto che l’onere economico del pagamento indebito sia poi stato trasferito da parte del solvens su un soggetto terzo. Infatti, il presupposto della azione di ripetizione, è esclusivamente quello del pagamento di un debito non dovuto e non quello dell’”arricchimento ai danni di altra persona” che è, invece, proprio della diversa azione di arricchimento senza causa.

... per l'annullamento del provvedimento prot. 61108 del 14.10.2010, notificato al difensore della ricorrente in data 18.10.2010, con il quale il Dirigente del Servizio Urbanistica del Comune di Pistoia ha respinto l’istanza presentata dalla ricorrente per il rimborso degli oneri di urbanizzazione pagati nell’intervento di ristrutturazione p.e. n. 2003/2008 in Pistoia, Viale ..., piano primo (v. DOC.1);
...
La Sig.ra Giuliana Vitale ha acquistato nel 2009 una porzione di fabbricato destinato a civile abitazione nel comune di Pistoia.
La sua dante causa, Sig.ra Vettori Antonella, prima della vendita aveva già presentato al predetto comune una d.i.a. per l’esecuzione di lavori di ristrutturazione e pagato i relativi oneri di urbanizzazione.
I predetti oneri, in forza di apposito patto contrattuale, sono stati poi posti a carico dell’acquirente che ha poi portato a termine i lavori.
La Sig.ra Vitale si è, tuttavia, avveduta che l’ammontare degli oneri di urbanizzazione richiesti dal Comune di Pistoia superava la somma effettivamente dovuta.
In particolare, il predetto ente, in applicazione della delibera consiliare n. 225 del 21/12/2007, aveva calcolato gli oneri sulla base della superficie lorda dell’intero fabbricato anziché prendere a riferimento la sola unità immobiliare interessata dal progetto di ristrutturazione.
Ritenendo, anche sulla scorta di precedenti pronunce di questo Tribunale Amministrativo, tale sistema di calcolo palesemente illegittimo, la Sig.ra Vitale ha intentato azione di ripetizione dell’indebito contro il Comune di Pistoia per ottenere la ripetizione delle somme pagate in eccesso a titolo di oneri di urbanizzazione.
Nel costituirsi in giudizio il Comune di Pistoia ha preliminarmente eccepito la carenza di legittimazione attiva della ricorrente osservando che l’azione di ripetizione potrebbe essere esercitata solo da chi ha eseguito il pagamento non dovuto e, quindi, nella specie, dalla Sig.ra Vettori che ha versato alla tesoreria comunale le somme richieste a titolo di oneri di urbanizzazione.
Al riguardo la ricorrente ha replicato di essere subentrata, per effetto dell’acquisto dell’immobile, in tutti i rapporti attivi e passivi facenti capo al titolo edilizio. Sicché, così come l’obbligo di pagare gli oneri concessori (qualora questi fossero ancora insoluti) si sarebbe trasferito su di lei, allo stesso modo, essa sarebbe divenuta titolare dell’azione di ripetizione di quanto indebitamente corrisposto a tale titolo dalla sua dante causa.
Gli argomenti dedotti dalla ricorrente per contrastare l’eccezione formulata dal Comune non appaiono, tuttavia, convincenti.
Occorre in primo luogo osservare che la novazione soggettiva nei rapporti inerenti il titolo edilizio avviene con la voltura non essendo, invece, sufficiente, a realizzare tale effetto il mero acquisito dell’immobile. Tant’è che, secondo la giurisprudenza, del pagamento dei contributi di urbanizzazione risponde direttamente e per intero il titolare della concessione edilizia, essendo i successivi acquirenti estranei al rapporto che al riguardo si è instaurato col Comune (Cons. Stato, V, 26/06/1996 n. 793).
Peraltro, la titolarità del permesso edilizio incide solo sul profilo passivo della obbligazione relativa al pagamento del contributo ma nulla, invece, ha a che vedere con l’azione di ripetizione dell’indebito.
Questa, infatti, trae fonte dal pagamento di un debito non dovuto ed inerisce esclusivamente al rapporto fra chi lo ha effettuato e chi lo ha ricevuto. Legittimato ad esigere la restituzione è, quindi, il soggetto che ha effettuato (a nome proprio) il pagamento rivelatosi privo di causa (Cassazione civile sez. III, 01.12.2009 n. 25276; TAR Napoli Campania sez. V, 05.04.2011 n. 1916).
Nessuna rilevanza assume ai fini della legittimazione ad esercitare l’azione in discorso il fatto che l’onere economico del pagamento indebito sia poi stato trasferito da parte del solvens su un soggetto terzo. Infatti, il presupposto della azione di ripetizione, è esclusivamente quello del pagamento di un debito non dovuto e non quello dell’”arricchimento ai danni di altra persona” che è, invece, proprio della diversa azione di arricchimento senza causa.
Il ricorso deve essere, quindi, dichiarato inammissibile per difetto di legittimazione attiva (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.03.2014 n. 493 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Il principio del legittimo affidamento può essere invocato a tutela di coloro che, sulla scorta di un atto o di un comportamento della p.a., abbiano in buona fede confidato di poter conservare una determinata situazione di vantaggio rivelatasi a posteriori non conforme a legge.
Il principio del legittimo affidamento può essere invocato a tutela di coloro che, sulla scorta di un atto o di un comportamento della p.a., abbiano in buona fede confidato di poter conservare una determinata situazione di vantaggio rivelatasi a posteriori non conforme a legge.
A prescindere dal problema se il protrarsi dell'inerzia della p.a. nella irrogazione di una sanzione possa considerarsi un comportamento astrattamente suscettibile di ingenerare una legittima aspettativa nel trasgressore, è da escludere che ciò possa avvenire allorché, come accade nella fattispecie in esame, la contestazione del fatto sia stata tempestivamente effettuata e ad essa non abbia fatto seguito la comminazione della misura repressiva.
In tale ipotesi, infatti, il comportamento della p.a. -benché possa qualificarsi come negligente dal punto di vista della tutela dell'interesse pubblico- non lascia adito ad alcun legittimo affidamento (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.03.2014 n. 491 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ricollega alla presentazione dell’istanza di accertamento di conformità la conseguenza processuale di far venir meno l’interesse a coltivare l’impugnativa del pregresso provvedimento di demolizione, dal momento che il riesame dell'abusività dell'opera provocato dall'istanza determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di reiezione, che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'originario ricorso.
Orbene, la giurisprudenza ricollega alla presentazione dell’istanza di accertamento di conformità la conseguenza processuale di far venir meno l’interesse a coltivare l’impugnativa del pregresso provvedimento di demolizione, dal momento che il riesame dell'abusività dell'opera provocato dall'istanza determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di reiezione, che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'originario ricorso (TAR Piemonte–Torino, II, 18.01.2013, n. 48; Consiglio di Stato, IV, 12.05.2010, n. 2844)
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.03.2014 n. 483 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La motivazione esternata dall’amministrazione nel denegare la sanatoria è generica e stereotipata; essa consiste nel rilievo che "i materiali e le forme utilizzate non sono idonei al contesto ambientale tutelato in considerazione dell'impatto negativo creato in un contesto in cui le innumerevoli case rurali distribuite armoniosamente nell'intera zona configurano quadri e scorci panoramici di notevole valore anche da un punto di vista estetico ed ambientale, godibili da vari punti di vista accessibili al pubblico, che con i loro valori tradizionali si ritengono degni di particolare tutela e salvaguardia".
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Pur essendo di indubbia rilevanza il bene paesaggio richiamato nel diniego impugnato, bene cui l’ordinamento appresta particolare tutela e che è provvisto di copertura costituzionale (art. 9, comma secondo, Cost.), è tuttavia necessario che le amministrazioni a vario titolo deputate alla cura di esso tengano conto -nel necessario contemperamento degli interessi pubblici e privati che coesistono e confliggono in ogni situazione in cui un diritto del privato viene inciso da provvedimenti amministrativi- delle facoltà ricomprese nel diritto di proprietà (pure assistito da garanzia costituzionale, ai sensi dell’art. 42 Cost.).
Non può sottacersi, infatti, che rientra nelle facoltà del titolare di un diritto reale, anzi, del diritto reale più pieno, quello dominicale, la possibilità di recintare il proprio fondo con finalità protettive; e, se è vero che l’attività edificatoria a ciò finalizzata deve essere svolta nel rispetto dei vincoli (nella specie paesaggistici) che caratterizzano la zona in cui si trova il bene interessato, è altrettanto vero che non è possibile comprimere del tutto tale facoltà, che può trovare limitazioni nei limiti della necessità effettiva e della ragionevolezza, oltre che con adeguata proporzionalità tra il sacrificio imposto al privato e il beneficio per la collettività e per il pubblico interessa alla tutela del paesaggio.
Proprio per dare conto di questo delicato bilanciamento degli interessi pubblici e privati il provvedimento che esita negativamente l’istanza di accertamento di conformità deve essere congruamente ed esaustivamente motivato, non potendo limitarsi a invocare una generica disarmonia del manufatto con l’ambiente circostante e con i valori che lo connotano, risolvendosi altrimenti in mera tautologia.

Si ritiene fondata l’assorbente censura di difetto di motivazione.
Più precisamente, il Collegio rileva che la motivazione esternata dall’amministrazione nel denegare la sanatoria è generica e stereotipata; essa consiste nel rilievo che "i materiali e le forme utilizzate non sono idonei al contesto ambientale tutelato in considerazione dell'impatto negativo creato in un contesto in cui le innumerevoli case rurali distribuite armoniosamente nell'intera zona configurano quadri e scorci panoramici di notevole valore anche da un punto di vista estetico ed ambientale, godibili da vari punti di vista accessibili al pubblico, che con i loro valori tradizionali si ritengono degni di particolare tutela e salvaguardia".
Pur essendo di indubbia rilevanza il bene paesaggio richiamato nel diniego impugnato, bene cui l’ordinamento appresta particolare tutela e che è provvisto di copertura costituzionale (art. 9, comma secondo, Cost.), è tuttavia necessario che le amministrazioni a vario titolo deputate alla cura di esso tengano conto -nel necessario contemperamento degli interessi pubblici e privati che coesistono e confliggono in ogni situazione in cui un diritto del privato viene inciso da provvedimenti amministrativi- delle facoltà ricomprese nel diritto di proprietà (pure assistito da garanzia costituzionale, ai sensi dell’art. 42 Cost.).
Non può sottacersi, infatti, che rientra nelle facoltà del titolare di un diritto reale, anzi, del diritto reale più pieno, quello dominicale, la possibilità di recintare il proprio fondo con finalità protettive; e, se è vero che l’attività edificatoria a ciò finalizzata deve essere svolta nel rispetto dei vincoli (nella specie paesaggistici) che caratterizzano la zona in cui si trova il bene interessato, è altrettanto vero che non è possibile comprimere del tutto tale facoltà, che può trovare limitazioni nei limiti della necessità effettiva e della ragionevolezza, oltre che con adeguata proporzionalità tra il sacrificio imposto al privato e il beneficio per la collettività e per il pubblico interessa alla tutela del paesaggio.
Proprio per dare conto di questo delicato bilanciamento degli interessi pubblici e privati il provvedimento che esita negativamente l’istanza di accertamento di conformità deve essere congruamente ed esaustivamente motivato, non potendo limitarsi a invocare una generica disarmonia del manufatto con l’ambiente circostante e con i valori che lo connotano, risolvendosi altrimenti in mera tautologia.
Del resto, dalla documentazione fotografica versata in atti è agevole desumere che la recinzione di cui trattasi non ha carattere di stabilità, che è facilmente amovibile e non implicante una trasformazione definitiva e irreversibile del territorio, essendo sostenuta da palificazione in legno
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.03.2014 n. 483 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl Collegio, pur dando conto del contrasto esistente in giurisprudenza circa le conseguenze dell’omissione dell’indicazione degli oneri per i rischi propri all’interno dell’offerta economica, non ravvisa ragione di discostarsi dai propri precedenti, in cui si è aderito all’orientamento che consente l’applicazione del potere di soccorso, a tutela della buona fede dei concorrenti, quando l’omessa indicazione degli oneri per i rischi propri sia imputabile alla stazione appaltante come conseguenza dell’imperfetta redazione della lex specialis, così facendo proprio il principio espresso nella sentenza del Cons. Stato, n. 3706/2013).
Più precisamente, si è affermato che la quantificazione a posteriori degli oneri per i rischi è ammissibile a condizione che i relativi costi siano desumibili in modo oggettivo da documenti predisposti anteriormente alla procedura. In tal caso, la commissione di gara, verificato che tali costi non siano stati sottostimati, deve procedere alla loro aggiunta, fittiziamente, all’offerta economica, così da rideterminare di conseguenza il punteggio.
Ritenuto, dunque, di non abbandonare tale orientamento, anche nel caso in esame si è constatato, in sede cautelare, che il bando di gara richiedeva la formulazione dell’offerta economica al netto dei costi per la sicurezza, nonostante ciò non fosse corretto, essendo gli oneri per i rischi propri una componente necessaria dell’offerta, da scorporare solo per valutarne la congruità. Si è dunque ritenuto che la lex specialis avesse indirizzato erroneamente i concorrenti e che, in ragione di ciò, la commissione di gara fosse tenuta a riesaminare l’offerta della ricorrente, previa convocazione della stessa.

Ritenendo illegittima l’esclusione e gli atti conseguenti, la ricorrente ha dedotto:
1. con riferimento all’esclusione, la violazione della lex specialis, che non solo non conteneva indicazioni sull’obbligo di esporre gli oneri per la sicurezza, ma, al punto 8 del bando, prevedeva che l’offerta economica fosse formulata con il massimo ribasso sull’importo a base di gara “al netto degli oneri per l’attuazione dei piani della sicurezza”;
2. l’illegittimità dell’invito a partecipare rivolto alla controinteressata, in quanto quest’ultima, essendo il gestore uscente, avrebbe dovuto essere pretermessa per il principio di rotazione ex art. 57, comma 6, del Dlgs. 163/2006.
Rispetto al primo profilo, il Collegio, pur dando conto del contrasto esistente in giurisprudenza circa le conseguenze dell’omissione dell’indicazione degli oneri per i rischi propri all’interno dell’offerta economica (cfr. Tar Milano Sez. IV 09.01.2014 n. 36), non ravvisa ragione di discostarsi dai propri precedenti, in cui si è aderito all’orientamento che consente l’applicazione del potere di soccorso, a tutela della buona fede dei concorrenti, quando l’omessa indicazione degli oneri per i rischi propri sia imputabile alla stazione appaltante come conseguenza dell’imperfetta redazione della lex specialis, così facendo proprio il principio espresso nella sentenza del Cons. Stato, Sez. III, 10.07.2013 n. 3706).
Più precisamente, con le sentenze TAR Brescia Sez II 08.05.2013 n. 442 e TAR Brescia Sez. II 13.01.2014 n. 18, si è affermato che la quantificazione a posteriori degli oneri per i rischi è ammissibile a condizione che i relativi costi siano desumibili in modo oggettivo da documenti predisposti anteriormente alla procedura. In tal caso, la commissione di gara, verificato che tali costi non siano stati sottostimati, deve procedere alla loro aggiunta, fittiziamente, all’offerta economica, così da rideterminare di conseguenza il punteggio.
Ritenuto, dunque, di non abbandonare tale orientamento, anche nel caso in esame si è constatato, in sede cautelare (ordinanza n. 45/2014), che il bando di gara richiedeva la formulazione dell’offerta economica al netto dei costi per la sicurezza, nonostante ciò non fosse corretto, essendo gli oneri per i rischi propri una componente necessaria dell’offerta, da scorporare solo per valutarne la congruità. Si è dunque ritenuto che la lex specialis avesse indirizzato erroneamente i concorrenti e che, in ragione di ciò, la commissione di gara fosse tenuta a riesaminare l’offerta della ricorrente, previa convocazione della stessa, determinando a posteriori gli oneri per i rischi propri e valutandone la congruenza, come sopra precisato (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 12.03.2014 n. 250 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl deposito di materiale (in questione) non può ritenersi irrilevante dal punto di vista urbanistico, essendo stato da tempo chiarito che deve essere assentita dal Comune ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, ivi comprese quelle non consistenti in attività di edificazione, ma nella modificazione dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio, in relazione alla sua condizione naturale e alla sua qualificazione.
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Anche l'attività di spargimento di ghiaia, su di un'area che ne era precedentemente priva, è soggetta a concessione edilizia, allorché appaia preordinata alla modifica della precedente destinazione d'uso, nel caso in esame pacificamente agricola.
Detta impostazione <<...sembra, oggi, avere un testuale riscontro nel nuovo Testo unico in materia edilizia … (che non ha certo potenzialità applicativa e di risoluzione del caso in esame, ma che può rappresentare un valido ausilio interpretativo, specie ove "codifica" un orientamento giurisprudenziale pregresso): l'art. 3, in materia di definizione degli interventi edilizi, assoggetta a permesso di costruire -ascrivendole al genus delle nuove costruzioni- "la realizzazione di infrastrutture e di impianti, anche per pubblici servizi, che comporti la trasformazione in via permanente di suolo inedificato" (lett. e. 3) e "la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato" (e. 7); si tratta, come è facile rilevare, di interventi privi di connotazione strettamente edilizia e, nondimeno, assoggettati a titolo abilitativo (oggi permesso di costruire)>>.
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A prescindere dal titolo edilizio valido per richiedere l’assenso all’intervento posto in essere (D.I.A. o domanda di concessione edilizia), decisiva è la circostanza messa in evidenza dalla difesa comunale, ossia la collocazione in zona E1 “agricola produttiva”, ove lo strumento urbanistico per tempo vigente ammetteva esclusivamente la destinazione ad attrezzature di servizio dell’agricoltura e di allevamenti zootecnici, nonché a residenza a servizio dell’azienda agricola.
Pertanto è irrilevante la previsione di uno specifico e puntuale divieto per i depositi, quando l’incompatibilità degli stessi si evince “a contrario” dalla norme pianificatorie evocate dal Comune.
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La tolleranza ventennale non integra un’aspettativa tutelabile alla luce del consolidato orientamento ai sensi del quale gli illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica hanno carattere di illeciti permanenti, che si protraggono nel tempo e vengono meno solo con il cessare della situazione di illiceità, vale a dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni: pertanto il potere amministrativo repressivo può essere esercitato senza limiti di tempo e senza necessità di motivazione in ordine al ritardo nell'esercizio del potere.
In altri termini, l'autorità non emana un atto "a distanza di tempo" dall'abuso, ma reprime una situazione antigiuridica ancora sussistente.
Peraltro, nel caso di specie il Comune ha sottolineato che l’autorizzazione era stata sempre accordata in via provvisoria, e detta “qualità” dei provvedimenti rende non configurabile un affidamento meritevole di protezione giuridica.

... per l'annullamento:
- DEL PROVVEDIMENTO IN DATA 17/07/1996, RECANTE IL PARERE CONTRARIO SULLA D.I.A. PER IL DEPOSITO DI MATERIALE SUL TERRENO DI PROPRIETA’;
- DELL’ORDINANZA 01/10/1996, CHE HA DISPOSTO IL RIPRISTINO DELLO STATO DEI LUOGHI SECONDO L’ACCERTAMENTO EFFETTUATO CON ORDINANZA N. 16/1996;
...
Il thema decidendum del presente gravame verte sulla legittimità dei provvedimenti che hanno dapprima manifestato la contrarietà alla D.I.A. presentata per regolarizzare il deposito di materiale inerte sul terreno di proprietà, e di seguito ordinato il ripristino dello stato dei luoghi.
Il ricorso è infondato e deve essere respinto, per le ragioni di seguito precisate.
1. Anzitutto, osserva il Collegio che il deposito in questione non può ritenersi irrilevante dal punto di vista urbanistico, essendo stato da tempo chiarito che deve essere assentita dal Comune ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, ivi comprese quelle non consistenti in attività di edificazione, ma nella modificazione dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio, in relazione alla sua condizione naturale e alla sua qualificazione (Consiglio di Stato, sez. V – 31/12/2008 n. 6756, che ha rammentato la rilevanza urbanistica anche del solo spianamento di un terreno agricolo con riporto di sabbia e ghiaia, al fine di ottenere un piazzale per deposito e smistamento di autocarri).
2. Secondo un condivisibile indirizzo giurisprudenziale, anche l'attività di spargimento di ghiaia, su di un'area che ne era precedentemente priva, è soggetta a concessione edilizia, allorché appaia preordinata alla modifica della precedente destinazione d'uso, nel caso in esame pacificamente agricola (Consiglio di Stato, sez. V – 27/04/2012 n. 2450, che ha richiamato i propri precedenti sez. V – 22/12/2005 n. 7343 e 11/11/2004 n. 7324). La pronuncia da ultimo citata ha altresì evidenziato come detta impostazione <<...sembra, oggi, avere un testuale riscontro nel nuovo Testo unico in materia edilizia … (che non ha certo potenzialità applicativa e di risoluzione del caso in esame, ma che può rappresentare un valido ausilio interpretativo, specie ove "codifica" un orientamento giurisprudenziale pregresso): l'art. 3, in materia di definizione degli interventi edilizi, assoggetta a permesso di costruire -ascrivendole al genus delle nuove costruzioni- "la realizzazione di infrastrutture e di impianti, anche per pubblici servizi, che comporti la trasformazione in via permanente di suolo inedificato" (lett. e. 3) e "la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato" (e. 7); si tratta, come è facile rilevare, di interventi privi di connotazione strettamente edilizia e, nondimeno, assoggettati a titolo abilitativo (oggi permesso di costruire)>>.
3. In ogni caso, a prescindere dal titolo edilizio valido per richiedere l’assenso all’intervento posto in essere (D.I.A. o domanda di concessione edilizia), decisiva è la circostanza messa in evidenza dalla difesa comunale, ossia la collocazione in zona E1 “agricola produttiva”, ove lo strumento urbanistico per tempo vigente ammetteva esclusivamente la destinazione ad attrezzature di servizio dell’agricoltura e di allevamenti zootecnici, nonché a residenza a servizio dell’azienda agricola. Pertanto è irrilevante la previsione di uno specifico e puntuale divieto per i depositi, quando l’incompatibilità degli stessi si evince “a contrario” dalla norme pianificatorie evocate dal Comune nell’impugnata nota del 17/07/1996, poi chiaramente illustrata dalla difesa comunale nella propria memoria di costituzione.
4. La tolleranza ventennale non integra un’aspettativa tutelabile alla luce del consolidato orientamento ai sensi del quale gli illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica hanno carattere di illeciti permanenti, che si protraggono nel tempo e vengono meno solo con il cessare della situazione di illiceità, vale a dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni: pertanto il potere amministrativo repressivo può essere esercitato senza limiti di tempo e senza necessità di motivazione in ordine al ritardo nell'esercizio del potere. In altri termini, l'autorità non emana un atto "a distanza di tempo" dall'abuso, ma reprime una situazione antigiuridica ancora sussistente (cfr. sentenze sez. I – 21/05/2012 n. 848; 16/01/2012 n. 59 e la giurisprudenza ivi richiamata). Peraltro, nel caso di specie il Comune ha sottolineato che l’autorizzazione era stata sempre accordata in via provvisoria, e detta “qualità” dei provvedimenti rende non configurabile un affidamento meritevole di protezione giuridica.
5. Non è degna di apprezzamento neppure l’ulteriore argomentazione del ricorrente, circa l’avvenuta maturazione del silenzio-assenso, in quanto l’intervento repressivo è comunque intervenuto a distanza di breve tempo (poco più di 1 mese), circostanza che depotenzia l’obbligo di motivazione dell’esercizio del potere di autotutela.
In conclusione il ricorso è privo di fondamento (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 12.03.2014 n. 245 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA L’utilizzo di una DIA ex art. 22, comma 2, del DPR 380/2001 (DIA semplice) per regolarizzare le opere difformi è una strada impercorribile, in quanto, una volta ultimati i lavori, l’unico strumento utilizzabile è l’accertamento di conformità previsto dall’art. 36 del DPR 380/2001.
Oltretutto, l’impiego della DIA semplice è limitato alle opere minori, ossia agli interventi diversi dalla nuova costruzione e dalla ristrutturazione pesante.
Quando la difformità rispetto al titolo edilizio riguardi opere già eseguite che avrebbero potuto essere autorizzate mediante DIA semplice, si applica la speciale sanatoria ex art. 37 del DPR 380/2001.
Nel caso in esame, invece, poiché le difformità riguardano opere inserite in un nuovo edificio, il regime sostanziale è quello della costruzione nel suo complesso. Di conseguenza, le difformità riscontrate possono essere sanate solo nei limiti in cui è ammesso l’accertamento di conformità ex art. 36 del DPR 380/2001.
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L’accertamento di conformità presuppone che le opere rispettino la disciplina urbanistica sostanziale in vigore sia al momento della realizzazione delle stesse sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria (questo secondo riferimento temporale, vista la particolarità della fattispecie, può essere ricondotto al 04.09.2004, data di presentazione della DIA).
Nel definire se un’opera risulti conforme alla disciplina urbanistica vengono in rilievo le norme sulle variazioni essenziali. Se il progetto della nuova costruzione, regolarmente assentito, esauriva in tutto o in parte le facoltà edificatorie, la qualificazione delle opere difformi come variazioni non essenziali estende l’area dell’accertamento di conformità, preservando le opere così qualificabili dalla sanzione della rimessione in pristino, anche se di fatto comportino un incremento degli indici edificatori ammessi;
In altri termini, la qualificazione degli interventi difformi come variazioni non essenziali non fa rientrare i suddetti interventi nella categoria dell’attività edilizia libera ex art. 6 del DPR 380/2001, ma consente di collocarli tra quelli sanabili ai sensi dell’art. 36 del DPR 380/2001 per accessione rispetto alla nuova costruzione (o alla ristrutturazione pesante).
Una precisazione deve essere fatta per il parametro dell’altezza, che svolge anche una funzione di garanzia per i diritti dei terzi. La circostanza che la maggiore altezza sia considerata variazione essenziale solo quando eccede il progetto di oltre un metro (v. art. 54, comma 1.c.1, della LR 11.03.2005 n. 12) non significa che le altezze di zona possano sistematicamente essere sforate di un metro, ma costituisce un canone interpretativo a favore della conservazione di quanto edificato, nel senso che nei casi dubbi (come quello in esame) deve essere preferita la lettura più estensiva delle norme tecniche.

... per l'annullamento dell’ordinanza n. 6 del 27.12.2004, con la quale il responsabile del Settore Edilizia e Urbanistica ha ingiunto la demolizione delle opere realizzate in difformità dalla concessione edilizia n. 17 del 04.10.2001;
...
Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni:
(a) la revoca del provvedimento impugnato determina la sopravvenuta carenza di interesse per la parte impugnatoria del ricorso;
(b) rimane però ferma l’esigenza di una valutazione dei profili urbanistici della vicenda, in quanto occorre decidere sulla domanda risarcitoria e sulle spese di giudizio;
(c) in proposito, si osserva in primo luogo che l’utilizzo di una DIA ex art. 22, comma 2, del DPR 380/2001 (DIA semplice) per regolarizzare le opere difformi è una strada impercorribile, in quanto, una volta ultimati i lavori, l’unico strumento utilizzabile è l’accertamento di conformità previsto dall’art. 36 del DPR 380/2001. Oltretutto, l’impiego della DIA semplice è limitato alle opere minori, ossia agli interventi diversi dalla nuova costruzione e dalla ristrutturazione pesante. Quando la difformità rispetto al titolo edilizio riguardi opere già eseguite che avrebbero potuto essere autorizzate mediante DIA semplice, si applica la speciale sanatoria ex art. 37 del DPR 380/2001;
(d) nel caso in esame, invece, poiché le difformità riguardano opere inserite in un nuovo edificio, il regime sostanziale è quello della costruzione nel suo complesso. Di conseguenza, le difformità riscontrate possono essere sanate solo nei limiti in cui è ammesso l’accertamento di conformità ex art. 36 del DPR 380/2001;
(e) a sua volta, l’accertamento di conformità presuppone che le opere rispettino la disciplina urbanistica sostanziale in vigore sia al momento della realizzazione delle stesse sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria (questo secondo riferimento temporale, vista la particolarità della fattispecie, può essere ricondotto al 04.09.2004, data di presentazione della DIA). Nel definire se un’opera risulti conforme alla disciplina urbanistica vengono in rilievo le norme sulle variazioni essenziali. Se il progetto della nuova costruzione, regolarmente assentito, esauriva in tutto o in parte le facoltà edificatorie, la qualificazione delle opere difformi come variazioni non essenziali estende l’area dell’accertamento di conformità, preservando le opere così qualificabili dalla sanzione della rimessione in pristino, anche se di fatto comportino un incremento degli indici edificatori ammessi;
(f) in altri termini, la qualificazione degli interventi difformi come variazioni non essenziali (qui effettuata direttamente dal Comune con il provvedimento del 24.03.2005) non fa rientrare i suddetti interventi nella categoria dell’attività edilizia libera ex art. 6 del DPR 380/2001, ma consente di collocarli tra quelli sanabili ai sensi dell’art. 36 del DPR 380/2001 per accessione rispetto alla nuova costruzione (o alla ristrutturazione pesante). Una precisazione deve essere fatta per il parametro dell’altezza, che svolge anche una funzione di garanzia per i diritti dei terzi. La circostanza che la maggiore altezza sia considerata variazione essenziale solo quando eccede il progetto di oltre un metro (v. art. 54, comma 1.c.1, della LR 11.03.2005 n. 12) non significa che le altezze di zona possano sistematicamente essere sforate di un metro, ma costituisce un canone interpretativo a favore della conservazione di quanto edificato, nel senso che nei casi dubbi (come quello in esame) deve essere preferita la lettura più estensiva delle norme tecniche;
(g) in contrasto con la tesi dell’attività edilizia libera, è poi evidente che almeno alcune delle opere difformi realizzate dalla ricorrente, se considerate isolatamente, costituiscono veri e propri ampliamenti, come tali assimilabili alle nuove costruzioni ex art. 3, comma 1.e.1, del DPR 380/2001 e sottoposti a permesso di costruire. È questo il caso dell’incremento di volumetria dell’autorimessa (che è solo parzialmente interrata) e della traslazione verso l’alto dell’intero edificio. Inoltre, se si considera l’insieme di queste e delle altre opere difformi (con particolare riferimento a quelle che comportano incremento della superficie residenziale), emerge chiaramente un nuovo disegno edilizio, con utilità aggiuntive, la cui sanabilità deve parimenti essere valutata ai sensi dell’art. 36 del DPR 380/2001;
(h) il fatto che gli interventi difformi siano stati qualificati dal Comune come variazioni non essenziali e la possibilità di interpretare le norme tecniche nel senso dell’osservanza dell’altezza massima di zona sono senz’altro elementi a favore della ricorrente. Si deve però ritenere che l’attività di vigilanza del Comune sia stata correttamente svolta sotto i seguenti profili: (1) nell’individuazione delle difformità rispetto all’originaria concessione edilizia; (2) nel giudizio di inidoneità espresso sulla DIA semplice presentata a lavori conclusi; (3) nell’esclusione delle opere difformi dalla categoria dell’attività edilizia libera. Di conseguenza, anche se l’ordinanza di demolizione è stata adottata prima dello svolgimento della procedura ex art. 36 del DPR 380/2001, non sembra essere sorta alcuna obbligazione risarcitoria in capo al Comune, tenuto conto della tempestività della revoca in autotutela (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 12.03.2014 n. 235 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer il procedimento di condono delle opere realizzate su aree sottoposte a vincolo, la giurisprudenza ha precisato che il parere previsto dall'art. 32 della legge 28.02.1985 n. 47, ha natura e funzioni identiche all'autorizzazione paesaggistica ex art. 7 della legge 29.06.1939 n. 1497, essendo entrambi gli atti il presupposto che legittima la trasformazione urbanistico edilizia della zona protetta, sicché resta fermo il potere ministeriale di annullamento del parere favorevole alla sanatoria di un manufatto realizzato in zona vincolata, in quanto strumento affidato dall'ordinamento allo Stato, come estrema difesa del paesaggio, valore costituzionale primario.
Pertanto, pur essendo l'autorizzazione paesaggistica condizione di efficacia e non di validità del titolo edilizio, ne costituisce tuttavia il presupposto che legittima la trasformazione urbanistico edilizia della zona protetta, con la conseguenza che venuta meno l'autorizzazione paesaggistica, l'Amministrazione deve ordinarne la demolizione delle opere, prive di un titolo sanante che permetta il loro mantenimento.
Nello stesso tempo va anche ribadito come la consolidata giurisprudenza (a partire dalla decisione dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 9 del 14.12.2001, confermata da successive decisioni, si veda, ad esempio, Cons. Stato, 207/2006), ha affermato il principio che il provvedimento statale di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica concessa dalla Regione (ovvero dal Comune delegato dalla medesima) non può basarsi su una propria valutazione tecnico-discrezionale, ma deve trovare il suo presupposto unicamente su riscontrati vizi di legittimità.
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Come è noto, il potere ministeriale di annullamento del nulla osta ambientale è circoscritto ai vizi di sola legittimità: il potere di annullamento dell'Amministrazione statale non comporta un riesame complessivo e la Sovrintendenza non può sovrapporre, o sostituire, il proprio apprezzamento di merito alle valutazioni discrezionali compiute in sede di rilascio del nulla osta da parte dell'ente locale. Il riesame dell'Amministrazione, infatti, è meramente estrinseco ed è diretto all'accertamento dell'assenza di vizi di legittimità comprendenti quello di eccesso di potere nelle diverse forme sintomatiche.
In altri termini, l'Amministrazione non può rinnovare il giudizio tecnico-discrezionale sulla compatibilità paesaggistico-ambientale dell'intervento, che appartiene in via esclusiva all'Autorità preposta alla tutela del vincolo.
L’orientamento giurisprudenziale che si è formato successivamente all’arresto della Plenaria ed ancora oggi viene costantemente confermato dai giudici amministrativi tende a valorizzare la previsione della normativa di settore in base alla quale il potere esercitato dall'Amministrazione statale sull'autorizzazione paesaggistica rilasciata dall'autorità regionale, va definita in termine di "cogestione dei valori paesistici", essendo l'autorità locale deputata alla valutazione della compatibilità paesistica dell'intervento ed il potere di intervento dell'Autorità statale è limitato al solo controllo di legittimità che può comportare l'annullamento dell'atto per tutti i vizi di legittimità, ivi compresi quelli relativi a tutte le figure di eccesso di potere (per sviamento, insufficiente motivazione, difetto di istruttoria, illogicità manifesta).
L'Amministrazione statale deve pertanto limitarsi a verificare dall'esterno la coerenza, la logicità e la completezza istruttoria dell'iter procedimentale seguito dall'Amministrazione emanante, controllando se la motivazione espressa nel rendere il giudizio positivo sia sufficiente.
Nel contempo e in considerazione della tendenziale irreversibilità dell'alterazione dello stato dei luoghi, un'adeguata gestione dei vincoli paesistici impone che l'autorizzazione paesistica rilasciata sia congruamente motivata, esponendo le ragioni di effettiva compatibilità delle opere da realizzare con gli specifici valori paesistici dei luoghi, con la conseguenza che il difetto di motivazione dell'autorizzazione giustifica per ciò solo il suo annullamento in sede di controllo.
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Il provvedimento della Soprintendenza qui oggetto di gravame presenta un contenuto che si pone ad di fuori dei postulati sopra richiamati, essendosi detta Soprintendenza sostituita alla valutazione in termini di compatibilità paesaggistica dell’edificio in questione già espressa, in sede di esercizio del relativo potere valutativo, dal Comune sovrapponendo, rispetto all’esito dell’indagine circa la compatibilità paesaggistica dell’edificio rispetto al quale si chiedeva il condono espresso da quell’ente locale, la formulazione di un opposto giudizio di incompatibilità manifestato in sede di merito e non limitandosi, come avrebbe dovuto, a rilevare una eventuale carenza di motivazione ovvero di indagine istruttoria che rendevano l'avviso dell’ente locale inadeguato rispetto alla corretta espressione del potere in materia di compatibilità paesaggistico ambientale delle opere edilizie realizzate nell’area territoriale di competenza che la normativa gli ha attribuito.
Nel caso di specie, in conclusione, la Soprintendenza ha sovrapposto il proprio autonomo giudizio di compatibilità paesaggistico ambientale dell’edificio abusivo rispetto al quale si chiedeva il condono sovrapponendolo rispetto a quello, favorevole, già espresso dal Comune di Frascati, eccedendo quindi dall’ambito dell’esercizio del potere di annullamento che la normativa di settore le attribuisce.

Va premesso che per il procedimento di condono delle opere realizzate su aree sottoposte a vincolo, la giurisprudenza ha precisato che il parere previsto dall'art. 32 della legge 28.02.1985 n. 47, ha natura e funzioni identiche all'autorizzazione paesaggistica ex art. 7 della legge 29.06.1939 n. 1497, essendo entrambi gli atti il presupposto che legittima la trasformazione urbanistico edilizia della zona protetta, sicché resta fermo il potere ministeriale di annullamento del parere favorevole alla sanatoria di un manufatto realizzato in zona vincolata, in quanto strumento affidato dall'ordinamento allo Stato, come estrema difesa del paesaggio, valore costituzionale primario (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 15.03.2007 n. 1255).
Pertanto, pur essendo l'autorizzazione paesaggistica condizione di efficacia e non di validità del titolo edilizio, ne costituisce tuttavia il presupposto che legittima la trasformazione urbanistico edilizia della zona protetta, con la conseguenza che venuta meno l'autorizzazione paesaggistica, l'Amministrazione deve ordinarne la demolizione delle opere, prive di un titolo sanante che permetta il loro mantenimento.
Nello stesso tempo va anche ribadito come la consolidata giurisprudenza (a partire dalla decisione dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 9 del 14.12.2001, confermata da successive decisioni, si veda, ad esempio, Cons. Stato, Sez. VI, 24.01.2006 n. 207), ha affermato il principio che il provvedimento statale di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica concessa dalla Regione (ovvero dal Comune delegato dalla medesima) non può basarsi su una propria valutazione tecnico-discrezionale, ma deve trovare il suo presupposto unicamente su riscontrati vizi di legittimità.
È anche vero, però, che nella specie la Soprintendenza ha annullato il provvedimento comunale sul presupposto che, tenuto conto delle prescrizioni recate dal P.T.P.R., “il fabbricato, collocato in zona ancora sostanzialmente integra, costituisce un’alterazione negativa e non è conforme alle norme urbanistiche e paesaggistiche. L’intervento pertanto non è da ritenersi conforme alle norme di tutela e compatibile con il contesto paesaggistico tutelato” (così, testualmente, nella motivazione del provvedimento qui impugnato).
Ancor più nello specifico nella presente vicenda si “confrontano” due provvedimenti dall’opposto contenuto:
-A) in primo luogo viene in evidenza la relazione tecnica illustrativa trasmessa dal Comune di Frascati alla Soprintndenza in data 10.03.2011, con la quale, con riferimento al Piano territoriale paesistico si conferma che l’area ove insiste l’edificio abusivo è collocata in ambito territoriale n. 9, zona 4, con la specificazione che si tratta di “Zone agricole non compromesse con modesto valore paesaggistico territoriale, di talché si decretava l’assentibilità del condono purché all’edificio vengano apportate le seguenti modifiche: “l’edificio dovrà essere completamente intonacato e tinteggiato con le coloriture esistenti, la pavimentazione della rampa dovrà essere rivestita con materiale lapideo della zona, le grondaie ed i discendenti dovranno essere tinteggiate con le stesse coloriture esistenti”;
-B) all’opposto la Soprintendenza, nel provvedimento qui impugnato e nella nota prodotta a seguito dell’invito istruttorio espresso dal Tribunale, oppone la non assentibilità del condono con riferimento all’edificio costruito abusivamente “poiché il fabbricato, pur non avendo caratteristiche architettoniche in contrasto con gli edifici esistenti nelle zone a destinazione residenziale, è collocato in una zona in cui il P.R.G. di Frascati ha confermato la destinazione agricola anche a seguito della perimetrazione dei nuclei abusivi; si tratta infatti di una zona ancora sostanzialmente integra, che il PTPR classifica come Paesaggio agrario di valore”.
Come è noto, secondo il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, il potere ministeriale di annullamento del nulla osta ambientale è circoscritto ai vizi di sola legittimità: il potere di annullamento dell'Amministrazione statale non comporta un riesame complessivo e la Sovrintendenza non può sovrapporre, o sostituire, il proprio apprezzamento di merito alle valutazioni discrezionali compiute in sede di rilascio del nulla osta da parte dell'ente locale. Il riesame dell'Amministrazione, infatti, è meramente estrinseco ed è diretto all'accertamento dell'assenza di vizi di legittimità comprendenti quello di eccesso di potere nelle diverse forme sintomatiche.
In altri termini, l'Amministrazione non può rinnovare il giudizio tecnico-discrezionale sulla compatibilità paesaggistico-ambientale dell'intervento, che appartiene in via esclusiva all'Autorità preposta alla tutela del vincolo (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 11.06.2012 n. 3401, 21.09.2011 n. 5192, 03.12.2010 n. 8441, tutte sulla scia della già citata pronuncia dell'Adunanza Plenaria n. 9 del 2001).
L’orientamento giurisprudenziale che si è formato successivamente all’arresto della Plenaria ed ancora oggi viene costantemente confermato dai giudici amministrativi tende a valorizzare la previsione della normativa di settore in base alla quale il potere esercitato dall'Amministrazione statale sull'autorizzazione paesaggistica rilasciata dall'autorità regionale, va definita in termine di "cogestione dei valori paesistici", essendo l'autorità locale deputata alla valutazione della compatibilità paesistica dell'intervento ed il potere di intervento dell'Autorità statale è limitato al solo controllo di legittimità che può comportare l'annullamento dell'atto per tutti i vizi di legittimità, ivi compresi quelli relativi a tutte le figure di eccesso di potere (per sviamento, insufficiente motivazione, difetto di istruttoria, illogicità manifesta).
L'Amministrazione statale deve pertanto limitarsi a verificare dall'esterno la coerenza, la logicità e la completezza istruttoria dell'iter procedimentale seguito dall'Amministrazione emanante, controllando se la motivazione espressa nel rendere il giudizio positivo sia sufficiente.
Nel contempo e in considerazione della tendenziale irreversibilità dell'alterazione dello stato dei luoghi, un'adeguata gestione dei vincoli paesistici impone che l'autorizzazione paesistica rilasciata sia congruamente motivata, esponendo le ragioni di effettiva compatibilità delle opere da realizzare con gli specifici valori paesistici dei luoghi, con la conseguenza che il difetto di motivazione dell'autorizzazione giustifica per ciò solo il suo annullamento in sede di controllo (cfr., ancora, Cons. Stato n. 3401 del 2012, cit.).
Questo essendo il pacifico -e qui condiviso- quadro giurisprudenziale entro il quale operare l'esame delle censure in trattazione, deve convenirsi che il provvedimento della Soprintendenza qui oggetto di gravame presenta un contenuto che si pone ad di fuori dei postulati sopra richiamati, essendosi detta Soprintendenza sostituita alla valutazione in termini di compatibilità paesaggistica dell’edificio in questione già espressa, in sede di esercizio del relativo potere valutativo, dal Comune di Frascati sovrapponendo, rispetto all’esito dell’indagine circa la compatibilità paesaggistica dell’edificio rispetto al quale si chiedeva il condono espresso da quell’ente locale, la formulazione di un opposto giudizio di incompatibilità manifestato in sede di merito e non limitandosi, come avrebbe dovuto, a rilevare una eventuale carenza di motivazione ovvero di indagine istruttoria che rendevano l'avviso dell’ente locale inadeguato rispetto alla corretta espressione del potere in materia di compatibilità paesaggistico ambientale delle opere edilizie realizzate nell’area territoriale di competenza che la normativa gli ha attribuito.
Nel caso di specie, in conclusione, la Soprintendenza ha sovrapposto il proprio autonomo giudizio di compatibilità paesaggistico ambientale dell’edificio abusivo rispetto al quale si chiedeva il condono sovrapponendolo rispetto a quello, favorevole, già espresso dal Comune di Frascati, eccedendo quindi dall’ambito dell’esercizio del potere di annullamento che la normativa di settore le attribuisce.
In ragione delle suesposte osservazioni il ricorso può trovare accoglimento nei termini di cui in motivazione (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 11.03.2014 n. 2771 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAi fini della individuazione del periodo da prendere in considerazione per la determinazione in concreto del danno risarcibile, una volta accertata la sussistenza di un provvedimento illegittimo, la prova del danno subito dal destinatario dello stesso interviene soltanto in base ad una verifica del caso concreto che faccia concludere per la sua "certezza".
Secondo il Consiglio di Stato "il danno, per essere risarcibile, deve essere certo e non meramente probabile, o comunque deve esservi una rilevante probabilità del risultato utile" e ciò è quello che "distingue la chance risarcibile dalla mera e astratta possibilità del risultato utile, che costituisce aspettativa di fatto, come tale irrisarcibile".
In tal senso, la giurisprudenza ha ancorato il risarcimento del danno c.d. "da perdita di chance" a indefettibili presupposti di certezza dello stesso, escludendo il caso in cui l'atto, ancorché illegittimo, abbia determinato solo la perdita di una "eventualità" di conseguimento del bene della vita. Ed infatti, in tale ultimo caso, risulta pienamente esaustiva la tutela ripristinatoria offerta dall'annullamento e dalle sue conseguenze.

Va ribadito che, ai fini della individuazione del periodo da prendere in considerazione per la determinazione in concreto del danno risarcibile, una volta accertata la sussistenza di un provvedimento illegittimo, la prova del danno subito dal destinatario dello stesso interviene soltanto in base ad una verifica del caso concreto che faccia concludere per la sua "certezza".
Secondo il Consiglio di Stato (cfr., ad esempio, Sez. V, 02.02.2008 n. 490) "il danno, per essere risarcibile, deve essere certo e non meramente probabile, o comunque deve esservi una rilevante probabilità del risultato utile" e ciò è quello che "distingue la chance risarcibile dalla mera e astratta possibilità del risultato utile, che costituisce aspettativa di fatto, come tale irrisarcibile".
In tal senso, la giurisprudenza ha ancorato il risarcimento del danno c.d. "da perdita di chance" a indefettibili presupposti di certezza dello stesso, escludendo il caso in cui l'atto, ancorché illegittimo, abbia determinato solo la perdita di una "eventualità" di conseguimento del bene della vita. Ed infatti, in tale ultimo caso, risulta pienamente esaustiva la tutela ripristinatoria offerta dall'annullamento e dalle sue conseguenze (cfr., in tal senso, Cons. Stato, Sez. VI, 23.07.2009 n. 4628; Sez. V, 03.08.2004 n. 5440 e 25.02.2003 n. 1014; Cass. civ., Sez. I, 17.07.2007 n. 15947) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 11.03.2014 n. 2767 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Edilizia, nessun «falso» senza atto di notorietà. Le dichiarazioni dei proprietari. Modelli standard.
Rischi ridotti di sanzioni penali per dichiarazioni inesatte, se redatte su stampati forniti dalla pubblica amministrazione.
È il principio espresso dalla Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.03.2014 n. 11384, in una procedura di sanatoria edilizia.
Le norme che hanno consentito, nel 1985, 1994 e 2004 la sanatoria di manufatti irregolari prevedevano che si dichiarasse l'epoca dell'avvenuto abuso. Dapprima ciò avveniva con dichiarazioni sostitutive dell'atto di notorietà, ma successivamente i Comuni si sono accontentati della compilazione di stampati in cui, in specifiche caselle, si precisava l'anno dell'abuso edilizio. Appunto in uno di questi casi è emersa una dichiarazione non veritiera, che ha fatto scattare per il dichiarante un processo per falso ideologico.
Dopo alcuni anni è giunta l'assoluzione, in quanto non tutte le dichiarazioni false hanno rilevanza penale. La Cassazione precisa che, se si allega alla domanda di sanatoria un allegato fornito dal Comune, che consente di precisare una circostanza, senza tuttavia sottolineare la particolare importanza di tale dichiarazione, il privato non risponde dell'eventuale falso. La compilazione di uno stampato, seppur indirizzato alla Pa, non ha un valore pari all'atto di notorietà. Solo se l'attestazione di un fatto non veritiero avviene nel corpo di una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, vi sarà un illecito penale, poiché si attenta alla pubblica fede. Ma un semplice stampato non fa presumere che la dichiarazione sia destinata a colmare vuoti di conoscenza della Pa, generando responsabilità per il privato.
Ciò significa che sussiste il reato di cui all'articolo 483 del Codice penale nell'ipotesi in cui vengano rese, in una dichiarazione espressamente dichiarata «sostitutiva dell'atto notorio», delle false attestazioni su fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità; la dichiarazione, anche se contenuta in un atto non solenne, si considera come resa a pubblico ufficiale e le dichiarazioni del privato in essa contenute hanno una rilevanza probatoria che integra il contenuto dell'atto stesso e devono quindi corrispondere alla verità. La responsabilità penale vale anche quando la dichiarazione sostitutiva non è autenticata da un pubblico ufficiale, ma il peso della dichiarazione incide su interessi di natura pubblica.
È il caso delle dichiarazioni espressamente sostitutive di atto notorio in materia edilizia. Con l'abrogazione della legge 04.01.1968 n. 15, attuata con legge 445/2000, che attribuisce valenza pubblica ad un atto anche se non autenticato da pubblico ufficiale, l'atto stesso conserva fede pubblica e implica per il privato che attesta il falso una responsabilità penale. Ma ciò, solo se la dichiarazione è destinata a dimostrare la verità dei fatti cui si riferisce
 (articolo Il Sole 24 Ore del 12.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di impianti destinati alla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili il legislatore nazionale, nel dare attuazione alla direttiva comunitaria 2001/77/CE del 27.09.2001 (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità), ha previsto una disciplina legislativa speciale finalizzata a disciplinare uniformemente e ad incentivare tali forme di produzione di energia, anche a mezzo della semplificazione dei procedimenti autorizza tori. Il procedimento autorizzatorio culmina nel rilascio (o nel diniego) della c.d. autorizzazione unica regionale alla realizzazione e all’esercizio dell’impianto (ivi comprese le opere di connessione alla rete elettrica ed ogni altro intervento necessario allo scopo).
La disciplina procedimentale è definita dal richiamato art. 12 del d.lgs. 29.12.2003, n. 387.
Il tratto peculiare di tale disposizione, frutto delle suindicate finalità di semplificazione e di concentrazione del procedimento, consiste nel fatto che la stessa ha individuato nella conferenza di servizi il modulo procedimentale ordinario essenziale alla formazione del successivo titolo abilitativo funzionale alla costruzione e all'esercizio degli impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili.
Questa disciplina –incentrata sulla concentrazione procedimentale in ragione del confronto richiesto dall’approvvigionamento energetico mediante tecnologie che non immettano in atmosfera sostanze nocive, e sul valore aggiunto intrinseco allo stesso confronto dialettico delle amministrazioni interessate– presenta, ratione materiae, un carattere speciale (proprio a causa di quel modulo procedimentale, che altrimenti sarebbe attenuato) anche per ciò che riguarda le valutazioni dell’impatto paesaggistico e ambientale, rispetto a quelle ordinarie: di guisa che il modello procedimentale e provvedimentale legittimante l'installazione di siffatti impianti è esclusivamente quello dell’autorizzazione unica regionale, tipizzato espressamente dal richiamato art. 12 d.lgs. n. 387/2003 (e secondo le previsioni ivi stabilite).
Pertanto, l'organo competente al rilascio dell'autorizzazione unica compie la valutazione comparativa di tutti gli interessi coinvolti, tenendo conto delle eventuali posizioni di dissenso espresse dai partecipanti alla conferenza di servizi.
Stante il rinvio operato dall’art. 12 d.lgs. n. 387 del 2003, alla legge n. 241 del 1990 in tema di conferenza di servizi, ne consegue che, ai sensi dell’art. 14-quater legge n. 241 del 1990, le amministrazioni convocate devono esprimere il proprio eventuale dissenso, a pena di inammissibilità, motivatamente e all’interno della conferenza di servizi. Ove, poi, il dissenso sia espresso, tra l’altro, da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico, sono previste specifiche norme procedurali per il superamento del dissenso.
In particolare, è previsto che ove venga espresso motivato dissenso da parte di un'amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità, la questione, in attuazione e nel rispetto del principio di leale collaborazione e dell'articolo 120 della Costituzione, è rimessa dall'amministrazione procedente alla deliberazione del Consiglio dei Ministri, che si pronuncia entro sessanta giorni, previa intesa con la Regione o le Regioni e le Province autonome interessate, in caso di dissenso tra un'amministrazione statale e una regionale o tra più amministrazioni regionali, ovvero previa intesa con la Regione e gli enti locali interessati, in caso di dissenso tra un'amministrazione statale o regionale e un ente locale o tra più enti locali.
Se l'intesa non è raggiunta entro trenta giorni, la deliberazione del Consiglio dei Ministri può essere comunque adottata. Se il motivato dissenso è espresso da una Regione o da una Provincia autonoma in una delle materie di propria competenza, ai fini del raggiungimento dell'intesa, entro trenta giorni dalla data di rimessione della questione alla delibera del Consiglio dei Ministri, viene indetta una riunione dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con la partecipazione della Regione o della Provincia autonoma, degli enti locali e delle amministrazioni interessate, attraverso un unico rappresentante legittimato, dall'organo competente, ad esprimere in modo vincolante la volontà dell'amministrazione sulle decisioni di competenza.
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E' ravvisabile un’ipotesi di nullità dell’autorizzazione unica regionale (per difetto assoluto di attribuzione o rispettivamente per difetto dell’elemento essenziale dell’assenza di dissensi qualificati nella previa conferenza di servizi), nel caso di sostanziale e radicale pretermissione delle prerogative delle amministrazioni preposte alla tutela paesaggistica e ambientale, e cioè nel caso di mancata applicazione del modulo previsto dall’art. 14-quater della legge n. 241 del 1990 per il superamento del motivato dissenso dell’amministrazione preposta alla tutela degli interessi sensibili ivi indicati.

Anzitutto giova ricordare che in materia di impianti destinati alla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili il legislatore nazionale, nel dare attuazione alla direttiva comunitaria 2001/77/CE del 27.09.2001 (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità), ha previsto una disciplina legislativa speciale finalizzata a disciplinare uniformemente e ad incentivare tali forme di produzione di energia, anche a mezzo della semplificazione dei procedimenti autorizza tori. Il procedimento autorizzatorio culmina nel rilascio (o nel diniego) della c.d. autorizzazione unica regionale alla realizzazione e all’esercizio dell’impianto (ivi comprese le opere di connessione alla rete elettrica ed ogni altro intervento necessario allo scopo).
La disciplina procedimentale è definita dal richiamato art. 12 del d.lgs. 29.12.2003, n. 387.
Il tratto peculiare di tale disposizione, frutto delle suindicate finalità di semplificazione e di concentrazione del procedimento, consiste nel fatto che la stessa ha individuato nella conferenza di servizi il modulo procedimentale ordinario essenziale alla formazione del successivo titolo abilitativo funzionale alla costruzione e all'esercizio degli impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili.
Questa disciplina –incentrata sulla concentrazione procedimentale in ragione del confronto richiesto dall’approvvigionamento energetico mediante tecnologie che non immettano in atmosfera sostanze nocive, e sul valore aggiunto intrinseco allo stesso confronto dialettico delle amministrazioni interessate– presenta, ratione materiae, un carattere speciale (proprio a causa di quel modulo procedimentale, che altrimenti sarebbe attenuato) anche per ciò che riguarda le valutazioni dell’impatto paesaggistico e ambientale, rispetto a quelle ordinarie: di guisa che il modello procedimentale e provvedimentale legittimante l'installazione di siffatti impianti è esclusivamente quello dell’autorizzazione unica regionale, tipizzato espressamente dal richiamato art. 12 d.lgs. n. 387/2003 (e secondo le previsioni ivi stabilite).
Pertanto, l'organo competente al rilascio dell'autorizzazione unica compie la valutazione comparativa di tutti gli interessi coinvolti, tenendo conto delle eventuali posizioni di dissenso espresse dai partecipanti alla conferenza di servizi.
Stante il rinvio operato dall’art. 12 d.lgs. n. 387 del 2003, alla legge n. 241 del 1990 in tema di conferenza di servizi, ne consegue che, ai sensi dell’art. 14-quater legge n. 241 del 1990, le amministrazioni convocate devono esprimere il proprio eventuale dissenso, a pena di inammissibilità, motivatamente e all’interno della conferenza di servizi. Ove, poi, il dissenso sia espresso, tra l’altro, da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico, sono previste specifiche norme procedurali per il superamento del dissenso.
In particolare, è previsto che ove venga espresso motivato dissenso da parte di un'amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità, la questione, in attuazione e nel rispetto del principio di leale collaborazione e dell'articolo 120 della Costituzione, è rimessa dall'amministrazione procedente alla deliberazione del Consiglio dei Ministri, che si pronuncia entro sessanta giorni, previa intesa con la Regione o le Regioni e le Province autonome interessate, in caso di dissenso tra un'amministrazione statale e una regionale o tra più amministrazioni regionali, ovvero previa intesa con la Regione e gli enti locali interessati, in caso di dissenso tra un'amministrazione statale o regionale e un ente locale o tra più enti locali.
Se l'intesa non è raggiunta entro trenta giorni, la deliberazione del Consiglio dei Ministri può essere comunque adottata. Se il motivato dissenso è espresso da una Regione o da una Provincia autonoma in una delle materie di propria competenza, ai fini del raggiungimento dell'intesa, entro trenta giorni dalla data di rimessione della questione alla delibera del Consiglio dei Ministri, viene indetta una riunione dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con la partecipazione della Regione o della Provincia autonoma, degli enti locali e delle amministrazioni interessate, attraverso un unico rappresentante legittimato, dall'organo competente, ad esprimere in modo vincolante la volontà dell'amministrazione sulle decisioni di competenza.
Ciò premesso sul piano del quadro normativo, va aggiunto che secondo la più recente giurisprudenza di questa sezione (formatasi a partire da Cons. St., Sez. VI, 23.05.2012, n. 3039) è ravvisabile un’ipotesi di nullità dell’autorizzazione unica regionale (per difetto assoluto di attribuzione o rispettivamente per difetto dell’elemento essenziale dell’assenza di dissensi qualificati nella previa conferenza di servizi), nel caso di sostanziale e radicale pretermissione delle prerogative delle amministrazioni preposte alla tutela paesaggistica e ambientale, e cioè nel caso di mancata applicazione del modulo previsto dall’art. 14-quater della legge n. 241 del 1990 per il superamento del motivato dissenso dell’amministrazione preposta alla tutela degli interessi sensibili ivi indicati (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.03.2014 n. 1144 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEL'istituto della retrocessione, prima disciplinato dagli artt. 60-63 della Legge n. 2359/1865, è oggi scolpito dagli artt. 46-48 del D.P.R. n. 327/2001 (T.U. Espropriazione per p.u.). Nell'ambito delle procedure di espropriazione per pubblica utilità, l'istituto della retrocessione dà titolo alla restituzione dei beni espropriati ove non sia stata posta in essere o non sia più utilizzabile l'opera alla cui realizzazione gli stessi erano stati destinati dalla dichiarazione di pubblica utilità.
Ricorre in tale evenienza la fattispecie della c.d. “retrocessione totale”, laddove sussiste un vero e proprio diritto soggettivo dell'originario proprietario ad ottenere la restituzione del bene oggetto della procedura ablatoria devoluto alla giurisdizione del Giudice ordinario.
Ulteriore ipotesi normativa si invera allorché, pur essendo stata eseguita l'opera pubblica o di pubblica utilità, emerga che uno o più fondi espropriati non hanno ricevuto, in tutto o in parte, la prevista destinazione: ricorre in tale fattispecie la c.d. “retrocessione parziale”, laddove la posizione soggettiva ha consistenza di interesse legittimo, e la cognizione della stessa pertiene alla giurisdizione amministrativa. Secondo la giurisprudenza di merito, l'ipotesi di retrocessione totale, è contraddistinta dalla mancata realizzazione dell'opera prevista dalla dichiarazione di pubblica utilità: ivi parimenti è compreso il caso della sostituzione con un'opera completamente diversa da quella programmata.
Come ha a più riprese chiarito la giurisprudenza, invece, la retrocessione parziale si ha quando, dopo l'esecuzione totale o parziale dell'opera, alcuni dei fondi espropriati non abbiano ricevuto la prevista destinazione. La posizione giuridica soggettiva attiva nasce solo se e in quanto l'Amministrazione, nel compimento di una valutazione discrezionale in ordine alla quale il privato è titolare di un mero interesse legittimo, abbia dichiarato che quei fondi più non servono all'opera pubblica.

Come è noto, l'istituto della retrocessione, prima disciplinato dagli artt. 60-63 della Legge n. 2359/1865, è oggi scolpito dagli artt. 46-48 del D.P.R. n. 327/2001 (T.U. Espropriazione per p.u.). Nell'ambito delle procedure di espropriazione per pubblica utilità, l'istituto della retrocessione dà titolo alla restituzione dei beni espropriati ove non sia stata posta in essere o non sia più utilizzabile l'opera alla cui realizzazione gli stessi erano stati destinati dalla dichiarazione di pubblica utilità.
Ricorre in tale evenienza la fattispecie della c.d. “retrocessione totale”, laddove sussiste un vero e proprio diritto soggettivo dell'originario proprietario ad ottenere la restituzione del bene oggetto della procedura ablatoria devoluto alla giurisdizione del Giudice ordinario.
Ulteriore ipotesi normativa si invera allorché, pur essendo stata eseguita l'opera pubblica o di pubblica utilità, emerga che uno o più fondi espropriati non hanno ricevuto, in tutto o in parte, la prevista destinazione: ricorre in tale fattispecie la c.d. “retrocessione parziale”, laddove la posizione soggettiva ha consistenza di interesse legittimo, e la cognizione della stessa pertiene alla giurisdizione amministrativa. Secondo la giurisprudenza di merito, l'ipotesi di retrocessione totale, è contraddistinta dalla mancata realizzazione dell'opera prevista dalla dichiarazione di pubblica utilità: ivi parimenti è compreso il caso della sostituzione con un'opera completamente diversa da quella programmata (TAR Campania Napoli Sez. V, 01.06.2011, n. 2937).
Come ha a più riprese chiarito la giurisprudenza, invece, la retrocessione parziale si ha quando, dopo l'esecuzione totale o parziale dell'opera, alcuni dei fondi espropriati non abbiano ricevuto la prevista destinazione. La posizione giuridica soggettiva attiva nasce solo se e in quanto l'Amministrazione, nel compimento di una valutazione discrezionale in ordine alla quale il privato è titolare di un mero interesse legittimo, abbia dichiarato che quei fondi più non servono all'opera pubblica (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.03.2014 n. 1110 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ingiunzione di demolizione, in quanto atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell'opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, è in linea di principio sufficientemente motivata con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera; ma deve intendersi fatta salva l'ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato; ipotesi questa in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato.
Parimenti infondato si appalesa il secondo motivo di appello (già primo motivo del mezzo di primo grado). L'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime del permesso di costruire; nel caso di specie è anche rimasto inimpugnato il diniego di condono: non è dato comprendere qual sorta di “convalescenza” possa ex post vanificare l’abusività dell’avvenuta edificazione della sopraelevazione, mai in passato assentita,ovvero di quale ulteriore motivazione necessitasse il provvedimento, tanto più che era stata espressamente disattesa la domanda di condono.
E’ ben noto al Collegio che recente giurisprudenza abbia fatto presente che (Consiglio di Stato sez. V 15/07/2013 n. 3847) “l'ingiunzione di demolizione, in quanto atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell'opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, è in linea di principio sufficientemente motivata con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera; ma deve intendersi fatta salva l'ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato; ipotesi questa in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato.”.
Sennonché, nel caso di specie, appare evidente che non v’è alcun affidamento da tutelare (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.03.2014 n. 1109 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl collegio non ritiene di doversi discostare dall’indirizzo giurisprudenziale consolidato che individua l’abuso edilizio come illecito permanente, che vincola l’amministrazione a ripristinare lo stato dei luoghi e a sanzionare la condotta contra legem, con impraticabilità di qualsiasi comparazione, al riguardo, fra l’interesse del privato alla conservazione del bene e l’interesse pubblico, sotteso alla garanzia di effettività della disciplina dell’assetto del territorio, a tutela degli interessi collettivi della popolazione.
Il collegio non ritiene di doversi discostare, infine, dall’indirizzo giurisprudenziale consolidato che individua l’abuso edilizio come illecito permanente, che vincola l’amministrazione a ripristinare lo stato dei luoghi e a sanzionare la condotta contra legem, con impraticabilità di qualsiasi comparazione, al riguardo, fra l’interesse del privato alla conservazione del bene e l’interesse pubblico, sotteso alla garanzia di effettività della disciplina dell’assetto del territorio, a tutela degli interessi collettivi della popolazione (cfr. in tal senso, fra le tante, Cons. St., sez. IV, sentt. 27.12.2011 n. 6873 e 08.01. 2013 n. 32; sez. VI, sent. 15.03.2007 n. 1255).
Anche alcuni isolati precedenti giurisprudenziali, che avevano riconosciuto la necessità di detta comparazione, erano per lo più riferiti a situazioni peculiari (come nel caso di manufatti esistenti da tempo immemorabile, la cui stessa irregolarità alla data della relativa edificazione risultava di difficile individuazione): fattispecie non rapportabili al caso in esame (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.03.2014 n. 1104 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza è sempre stata orientata alla tutela dell’insopprimibile funzione agricola del territorio sotto il profilo produttivo, ambientale, paesaggistico ed idrogeologico.
Le normative comunali che ammettono una limitata possibilità di realizzare in zona E3 interventi edilizi devono sempre essere interpretate nel senso che si debba assicurare comunque la tutela del territorio agricolo e alla sua concreta utilizzazione ai fini alimentari, dovendo al contrario ritenersi del tutto inconciliabili con le finalità di una zona agricola, la realizzazione di strutture che ne pregiudichino definitivamente la destinazione naturale del territorio.
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E’ del tutto inconciliabile con la finalità agricola, e non può dunque essere ammissibile, la realizzazione in area agricola di opere di battitura del terreno, riporto di sabbia e di materiali inerti con asfaltatura per la realizzazione di una pavimentazione per uno spessore di circa 50 cm..
La realizzazione del piazzale- deposito altera lo stato dei luoghi e costituisce un intervento di permanente trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio disciplinato dall'art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001 che, essendo subordinato al permesso di costruire, deve necessariamente rispettare le tipologia e le destinazioni d'uso funzionali consentite per la zona agricola.

Si deve ricordare che la giurisprudenza è sempre stata orientata alla tutela dell’insopprimibile funzione agricola del territorio sotto il profilo produttivo, ambientale, paesaggistico ed idrogeologico. Le normative comunali che ammettono una limitata possibilità di realizzare in zona E3 interventi edilizi devono sempre essere interpretate nel senso che si debba assicurare comunque la tutela del territorio agricolo e alla sua concreta utilizzazione ai fini alimentari, dovendo al contrario ritenersi del tutto inconciliabili con le finalità di una zona agricola, la realizzazione di strutture che ne pregiudichino definitivamente la destinazione naturale del territorio (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 04.10.2011 n. 5442; Consiglio di Stato sez. IV 18/03/2010 n. 1624; Consiglio di Stato sez. IV 23/07/2012 n. 4204).
E’ dunque del tutto inconciliabile con la finalità agricola, e non può dunque essere ammissibile, la realizzazione in area agricola di opere di battitura del terreno, riporto di sabbia e di materiali inerti con asfaltatura per la realizzazione di una pavimentazione per uno spessore di circa 50 cm..
La realizzazione del piazzale- deposito altera lo stato dei luoghi e costituisce un intervento di permanente trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio disciplinato dall'art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001 che, essendo subordinato al permesso di costruire, deve necessariamente rispettare le tipologia e le destinazioni d'uso funzionali consentite per la zona agricola.
Nella specie la realizzazione di un parcheggio scoperto è assolutamente fuori dalle ipotesi di legittima utilizzazione che il proprietario ritenga di fare del proprio terreno.
Infatti le NTA del PRG che in “Zona E) "rurale" prevedono che: “Gli interventi in queste zone devono essere rivolti allo sviluppo delle attività agricola - produttive ed alla tutela del territorio non edificato. Sono consentiti esclusivamente le attività di coltivazione agricola, quelle residenziali connesse, nonché le attività di trasformazione e commercializzazione di prodotti agricoli produzione propria. Sono consentiti, altresì, le attività di tipo agrituristico, nel rispetto delle normative vigenti in materia".
In base alla predetta disposizione, l’area in questione non poteva essere assolutamente essere finalizzata alla realizzazione di un piazzale destinato all'attività di deposito giudiziario ed amministrativo di autoveicoli in quanto si risolveva in una sostanziale inammissibile “deruralizzazione” dell’area (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.03.2014 n. 1099 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'istituto dell'avvalimento deve essere pur sempre contemperato con la esigenza di assicurare idonee garanzie alla stazione appaltante per la corretta esecuzione degli appalti.
Pur essendo pacifico in giurisprudenza il carattere generalizzato dell'istituto dell'avvalimento, finalizzato a favorire la massima partecipazione nelle gare di appalto e la effettività della concorrenza secondo i principi di rilievo comunitario, tale istituto deve essere pur sempre contemperato con la esigenza di assicurare idonee garanzie alla stazione appaltante per la corretta esecuzione degli appalti.
Pertanto, nel caso di specie, è illegittima l'ammissione in una gara di appalto di progettazione e di esecuzione lavori di una ati, facente capo alla società che ha fatto ricorso all'istituto dell'avvalimento (art. 49, del d lgs. n. 163/2006), in quanto:
a ) il criterio letterale posto dall'art. 49, per il quale solo "il concorrente" singolo, consorziato o raggruppato può ricorrere all'avvalimento trattandosi di un istituto di soccorso al concorrente in sede di gara per cui va escluso chi si avvale di soggetto ausiliario a sua volta privo del requisito richiesto dal bando;
b) se il progettista indicato non è legato da un vincolo negoziale con la stazione appaltante, a maggior ragione non è legato il suo ausiliario che è soggetto terzo che non può offrire alcuna garanzia alla amministrazione.
Solo il concorrente assume infatti obblighi contrattuali con la p.a. appaltante tanto che l'ausiliario, a mente dell'art. 49, co. 2, lett. d), si obbliga verso il concorrente e la stazione appaltante a mettere a disposizione le risorse necessarie di cui è carente il concorrente mediante apposita dichiarazione; inoltre l'ausiliario diventa ex lege responsabile in solido con il concorrente in relazione alle prestazioni oggetto del contratto (art. 49, co. 4). La responsabilità solidale, che è garanzia di buona esecuzione dell'appalto, può sussistere solo in quanto la impresa ausiliaria sia collegata contrattualmente al concorrente tant'è che l'art. 49 prescrive l'allegazione, già in occasione della domanda di partecipazione, del contratto di avvalimento mentre tale vincolo contrattuale diretto con il concorrente e con la stazione appaltante non sussiste nel caso in cui sia lo stesso ausiliario che ricorre ai requisiti posseduti da terzi.
D'altro canto la estensione della categoria di "concorrente" sino a comprendere l'ausiliario e/o il soggetto indicato dal concorrente per la progettazione, comportando potenzialmente una catena di avvalimenti di "ausiliari dell'ausiliario" non consente un controllo agevole da parte della stazione appaltante in sede di gara sul possesso dei requisiti dei partecipanti (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 07.03.2014 n. 1072 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Sul dolo intenzionale nel reato di abuso d’ufficio.
Nel reato di abuso d’ufficio deve ritenersi configurato il dolo (intenzionale) qualora si accerti che il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio abbia agito con lo scopo immediato e finale di non perseguire, attraverso la condotta posta in essere, una finalità pubblica, il cui conseguimento deve essere escluso non soltanto nei casi nei quali essa manchi del tutto ma anche nei casi in cui rappresenti una mera occasione della condotta illecita, posta in essere invece al preciso scopo di realizzare, in via immediata ed attraverso la violazione di legge o di regolamento o l’omissione del dovere di astensione nei casi prescritti, un danno ingiusto ad altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto per sé o per altri.
La qualificazione del dolo intenzionale come scopo finale dell’evento perseguito implica, quindi, che la realizzazione del fatto di reato costituisca la finalità immediata dell’agente ed esige che, quanto al reato di abuso d’ufficio in cui l’interesse pubblico riveste un ruolo assolutamente centrale nell’economia della fattispecie, la rappresentazione e la volizione dell’evento di danno (altrui) o di vantaggio patrimoniale (proprio o altrui) sia una conseguenza diretta ed immediata della condotta dell’agente e costituisca l’obiettivo primario da questi perseguito.
La giurisprudenza di questa Corte ha espresso in modo chiaro siffatti concetti quando ha precisato che, ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo nel delitto di abuso di ufficio di cui all’art. 323 cod. pen., non è sufficiente né il dolo eventuale –e cioè l’accettazione del rischio del verificarsi dell’evento– né quello diretto –e cioè la rappresentazione dell’evento come realizzabile con elevato grado di probabilità o addirittura con certezza, senza essere un obiettivo perseguito– ma è richiesto il dolo intenzionale: cioè la rappresentazione e la volizione dell’evento di danno altrui o di vantaggio patrimoniale, proprio o altrui, come conseguenza diretta e immediata della condotta dell’agente e obiettivo primario da costui perseguito.
L’uso dell’avverbio “intenzionalmente” per qualificare il dolo implica, pertanto, che sussiste il reato solo quando l’agente si rappresenta e vuole l’evento di danno altrui o di vantaggio patrimoniale proprio o altrui come conseguenza diretta ed immediata della sua condotta e come obiettivo primario perseguito, e non invece quando egli intende perseguire l’interesse pubblico come obiettivo primario.

Con la sentenza n. 10810, le cui motivazioni sono state depositate il 06.03.2014, la III Sez. penale della Corte di Cassazione ha fatto il punto sull’elemento soggettivo del dolo intenzionale richiesto dal reato di abuso di ufficio (art. 323 c.p.) nei casi di compresenza, nell’operato del pubblico ufficiale, del perseguimento di un interesse pubblico e di uno privato.
[Art. 323 c.p. Abuso d’ufficio
Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni.
La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità.]

Soffermandoci sul primo motivo di ricorso (con il quale si sosteneva la mancanza del dolo intenzionale da parte dei ricorrenti e dunque l’insussistenza dell’elemento psicologico richiesto dalla fattispecie di reato) la Corte ha osservato come, nel reato di abuso d’ufficio, debba ritenersi configurato il dolo (intenzionale) qualora si accerti che il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio abbia agito con lo scopo immediato e finale di non perseguire, attraverso la condotta posta in essere, una finalità pubblica, il cui conseguimento deve essere escluso non soltanto nei casi nei quali essa manchi del tutto ma anche nei casi in cui rappresenti una mera occasione della condotta illecita, posta in essere invece al preciso scopo di realizzare, in via immediata ed attraverso la violazione di legge o di regolamento o l’omissione del dovere di astensione nei casi prescritti, un danno ingiusto ad altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto per sé o per altri.
La qualificazione del dolo intenzionale come scopo finale dell’evento perseguito implica, quindi, che la realizzazione del fatto di reato costituisca la finalità immediata dell’agente ed esige che, quanto al reato di abuso d’ufficio in cui l’interesse pubblico riveste un ruolo assolutamente centrale nell’economia della fattispecie, la rappresentazione e la volizione dell’evento di danno (altrui) o di vantaggio patrimoniale (proprio o altrui) sia una conseguenza diretta ed immediata della condotta dell’agente e costituisca l’obiettivo primario da questi perseguito.
La giurisprudenza di questa Corte –proseguono i giudici– ha espresso in modo chiaro siffatti concetti quando ha precisato che, ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo nel delitto di abuso di ufficio di cui all’art. 323 cod. pen., non è sufficiente né il dolo eventuale –e cioè l’accettazione del rischio del verificarsi dell’evento– né quello diretto –e cioè la rappresentazione dell’evento come realizzabile con elevato grado di probabilità o addirittura con certezza, senza essere un obiettivo perseguito– ma è richiesto il dolo intenzionale: cioè la rappresentazione e la volizione dell’evento di danno altrui o di vantaggio patrimoniale, proprio o altrui, come conseguenza diretta e immediata della condotta dell’agente e obiettivo primario da costui perseguito (Sez. 6, Sentenza n. 21091 del 24/02/2004, Percoco, Rv. 228811).
L’uso dell’avverbio “intenzionalmente” per qualificare il dolo implica, pertanto, che sussiste il reato solo quando l’agente si rappresenta e vuole l’evento di danno altrui o di vantaggio patrimoniale proprio o altrui come conseguenza diretta ed immediata della sua condotta e come obiettivo primario perseguito, e non invece quando egli intende perseguire l’interesse pubblico come obiettivo primario (Sez. 6, n. 708 del 08/10/2003, (dep. 15/01/2004), Mannello Rv. 227280).
Di conseguenza, quando l’evento tipico sia una semplice conseguenza accessoria dell’operato dell’agente -il quale persegue in via primaria l’obiettivo dell’interesse pubblico di preminente rilievo, riconosciuto dall’ordinamento e idoneo ad oscurare il concomitante favoritismo o danno per il privato– si può ritenere che l’evento sia voluto ma non sia intenzionale (Sez. 6 n. n. 21091 del 2004 cit.) occupando, come è stato sottolineato in dottrina, una posizione defilata, e rappresenta soltanto un effetto secondario della condotta posta in essere, avendo il legislatore inteso attribuire rilievo penale esclusivamente alle condotte ispirate in via immediata non dalla volontà accettante (caratteristica del dolo eventuale) ma dalla prava voluntas del favoritismo privatistico.
Quando, al contrario, manchi del tutto l’interesse pubblico e l’evento (illecito) sia conseguenza immediatamente perseguita dal soggetto attivo, l’accertamento del dolo (intenzionale) si esaurisce nella oggettiva verifica del favoritismo posto in essere con l’abuso dell’atto d’ufficio, senza che rilevi la motivazione che abbia indotto l’agente a perseguire, come fine della condotta, la realizzazione del reato; né è necessaria la prova della collusione del pubblico ufficiale con i beneficiari dell’abuso.
Nei casi, infine, di concorrente verificazione di un evento lecito e di uno illecito, occorrerà accertare quale di questi abbia costituito l’obiettivo principale della condotta del soggetto; occorrerà cioè indagare quale sia l’evento preso di mira, ossia l’evento desiderato come primario dall’agente, essendo caratteristica del dolo intenzionale quella di agire allo scopo di produrre l’effetto previsto, essendo la direzione della volontà rivolta verso un evento assunto quale scopo finale della condotta.
In altri termini, l’intenzionalità del dolo non è esclusa dalla compresenza di una finalità pubblicistica nella condotta del pubblico ufficiale, dovendosi ritenere necessario, per escludere la configurabilità dell’elemento soggettivo, che il perseguimento del pubblico interesse costituisca l’obiettivo principale dell’agente, con conseguente degradazione del dolo di danno o di vantaggio da dolo di tipo intenzionale a mero dolo diretto od eventuale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.03.2014 n. 10810 - commento tratto da e link a link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICINon appare illegittimo l’operato dell’amministrazione che approvi in un’unica soluzione il progetto definitivo ed esecutivo dell’opera pubblica.
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L'approvazione del progetto preliminare è adempimento previsto, ai sensi dell’art. 128 del D.Lgs n. 163/2006, per le sole opere pubbliche di importo superiore a euro 1.000.000,00.

Quanto al primo ricorso per motivi aggiunti, in relazione alle tre censure ivi dedotte, è sufficiente richiamare quanto rilevato nel provvedimento cautelare e quindi: che in relazione alle opere da realizzare (cfr. per tutte TAR Puglia Bari, sez. 2^ n. 594/2005 e 2919/2005) non appare illegittimo l’operato dell’amministrazione che approvi in un’unica soluzione il progetto definitivo ed esecutivo dell’opera pubblica; che non risulta smentito che il progetto preliminare sia stato approvato con delibera C.C. del 31.03.2006, pur trattandosi di adempimento previsto, ai sensi dell’art. 128 del D.Lgs n. 163/2006, per le sole opere pubbliche di importo superiore a euro 1.000.000,00 (laddove l’opera in questione è di importo ampiamente inferiore a detto limite).
E, infine, quanto allo studio di fattibilità va richiamato il disposto dell’art. 128 del d.Lgs 163/2006, il quale prevede che “Il programma triennale costituisce momento attuativo di studi di fattibilità e di identificazione e quantificazione dei propri bisogni che le amministrazioni aggiudicatrici predispongono nell'esercizio delle loro autonome competenze e, quando esplicitamente previsto, di concerto con altri soggetti, in conformità agli obiettivi assunti come prioritari”.
La norma non si riferisce quindi al singolo progetto ma allo stesso programma triennale, che non è oggetto di impugnativa e quindi la censura appare non solo generica ma inconferente, ove indirizzata nei confronti del progetto approvato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.03.2014 n. 602 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEIl presunto vizio di legittimità del decreto di esproprio riguarda in realtà l’attività materiale di immissione in possesso, che sarebbe avvenuta senza il rispetto del termine di sette giorni dalla notifica dello stesso decreto.
Al riguardo, l’eventuale violazione del detto termine potrebbe rendere illecita l’immissione in possesso, alla quale i ricorrenti potrebbero opporsi, agendo nelle sedi opportune, ma non invalidare il decreto di esproprio, la cui legittimità non può essere influenzata da eventuali irregolarità che attengono alla fase della sua esecuzione materiale.

Quanto al secondo ricorso per motivi aggiunti il Collegio osserva che il presunto vizio di legittimità del decreto di esproprio riguarda in realtà l’attività materiale di immissione in possesso, che sarebbe avvenuta senza il rispetto del termine di sette giorni dalla notifica dello stesso decreto.
Sennonché, anche a prescindere dal fatto che la censura appare infondata perché la notifica si è perfezionata il 24.01.2008 e quindi che il termine di legge di sette giorni è stato rispettato, l’eventuale violazione del detto termine avrebbe potuto rendere illecita l’immissione in possesso, alla quale i ricorrenti avrebbero potuto opporsi, agendo nelle sedi opportune, ma non invalidare il decreto di esproprio, la cui legittimità non può essere influenzata da eventuali irregolarità che attengono alla fase della sua esecuzione materiale (cfr C.d.S. sez. 4^ n. 2481/2012; id. n. 2286/2012)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.03.2014 n. 602 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTIImu, aumenti per tempo. Nulli gli incrementi decisi dopo il 30/11/2013. Tar Calabria: la proroga assegnata dal prefetto vale solo per il bilancio.
Deve essere annullata la delibera del Consiglio comunale che incrementa le aliquote Imu adottata dopo il 30 novembre scorso: va infatti ritenuto perentorio il termine che emerge dal combinato disposto della legge di stabilità 2013 e dallo stesso decreto Imu per l'adozione dei provvedimenti necessari.

È quanto emerge dalla sentenza 06.03.2014 n. 366, pubblicata dalla II Sez. del TAR Calabria-Catanzaro.
È stata considerata fuori tempo massimo la delibera approvata a Lamezia Terme il 2 dicembre, qualche giorno dopo la dead line indicata dalla legge 228/12 (stabilità 2013) e dal decreto legge 102/2013, che pure differiva al 30 novembre scorso il termine per la deliberazione del bilancio annuale di previsione 2013 degli enti locali. Lo stesso collegio dei revisori dei conti esclude che l'incremento dell'aliquota possa avere efficacia nell'annualità di riferimento. Non conta che nella specie l'approvazione del bilancio sia stata assunta a seguito di intimazione-diffida del prefetto di Catanzaro. L'ulteriore periodo di 20 giorni, assegnato dall'ufficio territoriale del governo, riguarda unicamente l'approvazione del bilancio preventivo.
Si tratta in particolare di un provvedimento funzionale allo scioglimento d'imperio del Consiglio comunale dell'ente locale in caso di persistenza nell'inadempimento. Insomma, scatta la decadenza se si supera il termine finale del 30.11.2013, per l'approvazione da parte degli enti locali delle aliquote che riguardano l'imposta municipale propria (Imu) per il 2013. Si tratta infatti di una scadenza prestabilita dal legislatore, accompagnata da sanzioni ad hoc, comminate in modo testuale per l'ipotesi di inosservanza.
Una conferma arriva dalla Corte dei conti che con la precedente delibera 263/2007 in relazione a una fattispecie analoga ha stabilito in modo esplicito che l'aumento delle tariffe e delle aliquote decise oltre il termine indicato dalle leggi dello stato, anche se prorogato a seguito dei termini ulteriori concessi dal prefetto per la sola l'approvazione del bilancio di previsione, non hanno valore e, quindi, non possono essere applicate, mentre producono effetto soltanto le tariffe dell'anno precedente (articolo ItaliaOggi dell'11.03.2014).

EDILIZIA PRIVATA: J. Cortinovis, Vincolo ambientale: l'esclusione di volumi e superfici dalla sanatoria paesaggistica non è tema che appartiene al diritto dell'Unione.
Per i giudici comunitari nessuna delle disposizioni contenute nel decreto legislativo n. 42/2004 e ss.mm.ii. rientrano nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione Europea. Tali disposizioni non costituiscono, infatti, attuazione di norme del diritto dell’Unione, restando conseguentemente ai Giudici nazionali la verifica delle sanzioni relative agli abusi edilizi in zone sottoposte a vincolo paesaggistico.
La questione che ha portato i giudici di Lussemburgo a pronunciare la sentenza 06.03.2014 C-206/13 prende spunto da una questione sorta in Sicilia. In particolare, con riferimento ad un nuovo volume, già oggetto di domanda di sanatoria, la competente Soprintendenza, con provvedimento amministrativo del 2011, aveva ingiunto la rimessione in pristino dello stato dei luoghi mediante la dismissione dell’abuso; il tutto in applicazione dell'art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004 e ss.mm.ii., (c.d. Codice Urbani) che impone sempre la demolizione di volumi e superfici non autorizzate qualora edificate in aree sottoposte a vincolo ambientale. Ad eccezione delle previsioni di cui all’art. 167, comma 4, del Codice Urbani e delle disposizioni introdotte dal più recente D.P.R. n. 139/2010, all'edificazione di un'opera non assentita, in area sottoposta vincolata paesaggistico, segue sempre la demolizione anche quando questa pare irragionevole.
E’ proprio stata l'irragionevole sproporzione tra l'abuso e la sanzione demolitoria, dell'opera non assentita, ad indurre il Giudice nazionale, in particolare del TAR di Palermo, a rimettere, con
ordinanza 10.04.2013 n. 802, ai giudici di comunitari la valutazione sulla conformità dell'art. 167 del Codice Urbani rispetto al dettato dell'art. 17 della Carta dei diritti fondamentali UE (c.d. Carta), ove questa fosse interpretata nel senso che le limitazioni al diritto di proprietà possano essere imposte solo a seguito di un accertamento della effettiva, e non solo astratta, esistenza di un interesse contrapposto.
Il TAR di Palermo, a sostegno, aveva evidenziato come, nel diritto dell’Unione, la materia della tutela del paesaggio non è autonoma né concettualmente distinta rispetto alla materia della tutela dell’ambiente, bensì che è parte di essa. Il giudice del rinvio nel richiamare una serie di norme comunitarie, aveva altresì evidenziato che non ogni attività edificatoria, anche se comportante aumento di volumetria, risulta sempre e comunque lesiva dei valori tutelati dalla normativa in questione. Secondo lo stesso giudice, un accertamento che includa la possibilità di sanatoria dietro pagamento di una sanzione pecuniaria potrebbe essere effettuato in concreto se il Codice Urbani non prevedesse la rigida, astratta e presuntiva esclusione delle opere comportanti «creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati».
In questa ipotesi la tutela del paesaggio potrebbe risultare, da una valutazione concreta, compatibile con il mantenimento dell’opera. Sul tema, i giudici di Lussemburgo, non sono però intervenuti nella competenza del Codice Urbani lasciando, di fatto, ai giudici nazionali la verifica della sanzione demolitoria per gli abusi edilizi realizzati in zone sottoposte a vincolo paesaggistico.
I giudici comunitari, pur riconoscendo che il procedimento amministrativo in esame presenta un collegamento con il diritto dell’Unione in materia di ambiente, hanno però evidenziato che la nozione di «attuazione del diritto dell’Unione», di cui all’art. 51 della Carta, richiede l’esistenza di un collegamento di una certa consistenza, che vada al di là dell’affinità tra le materie prese in considerazione o dell’influenza indirettamente esercitata da una materia sull’altra.
Per stabilire, infatti, se una normativa nazionale rientri nell’attuazione del diritto dell’Unione, occorre verificare, tra le altre cose, se essa abbia lo scopo di attuare una disposizione del diritto dell’Unione, quale sia il suo carattere e se essa persegua obiettivi diversi da quelli contemplati dal diritto dell’Unione, anche se è in grado di incidere indirettamente su quest’ultimo, nonché se esista una normativa di diritto dell’Unione che disciplini specificamente la materia o che possa incidere sulla stessa.
In tal senso, la Corte ha, pertanto, precisato che nessun elemento permette di concludere che le disposizioni del D.Lgs. n. 42/2004 e ss.mm.ii. rientrino nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione. Occorre, inoltre, tenere conto dell’obiettivo della tutela dei diritti fondamentali nel diritto dell’Unione, che è quello di vigilare a che tali diritti non siano violati negli ambiti di attività dell’Unione. Il perseguimento di tale obiettivo è motivato dalla necessità di evitare che una tutela dei diritti fondamentali, variabile a seconda del diritto nazionale considerato, pregiudichi l’unità, il primato e l’effettività del diritto dell’Unione (link a http://studiospallino.blogspot.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il locale pubblico occupa uno spazio superiore rispetto quello autorizzato? Non è abuso edilizio.
Non integra reato l'installazione, in assenza di permesso di costruire, di mezzi mobili di pernottamento, anche in via permanente, entro il perimetro delle strutture turistico-ricettive all'aperto regolarmente autorizzate ed in ottemperanza dei requisiti stabiliti dagli ordinamenti regionali, non versandosi in presenza di un'attività rilevante ai fini urbanistici, edilizi e paesaggistici come previsto dall'art. 3, comma nono, della L. n. 99 del 2009.
2. Il ricorso -nei suoi primi due motivi, esaminati congiuntamente in quanto connessi, ed assorbiti gli altri- è fondato.
La sentenza impugnata si fonda essenzialmente su due rilevazioni in punto di fatto.
Innanzi tutto da conto del fatto che gli imputati, titolari di un esercizio commerciale, avevano chiesto ed ottenuto autorizzazione temporanea di occupazione di suolo pubblico con validità dal 06.04.2009 al 30.04.2009 per collocare una pedana con tavoli e sedie all'esterno, in continuità spaziale con l'edificio dove era situato l'esercizio commerciale da essi gestito.
Questa autorizzazione veniva dopo poco ampliata con altro provvedimento del 05.08.2009 che consentiva l'installazione di una pergotenda con obbligo di lasciare aperti i lati. Una terza autorizzazione veniva rilasciata il 21.09.2009 che consentiva di ampliare la copertura e di collegarla all'edificio rispettando le prescrizioni che avrebbe impartito l'ASL. L'autorizzazione di occupazione di suolo pubblico, così progressivamente ampliata nel suo contenuto, veniva prorogata con atto del 28.09.2009 al 31.03.2010.
Della legittimità di queste autorizzazioni non si dubita sicché non pone un problema di disapplicazione dell'atto amministrativo di assenso.
Rispetto a quanto autorizzato -ed è questo il primo dato di fatto che pone in rilevo la sentenza impugnata- gli imputati, nel realizzare questa struttura esterna asservita all'esercizio commerciale (c.d. de hors), non si sono attenuti strettamente alla definitiva conformazione del provvedimento autorizzatorio perché: a) il marciapiede adiacente all'esercizio commerciale, invece di rimanere libero, era stato inglobato nella pedana (ma non è contestato che sia rimasto comunque libero al transito pedonale); b) lo spazio compreso tra la pergotenda e la pedana non era rimasto aperto in tutti i lati ma era stato chiuso con teli in PVC.
È abbastanza intuitiva la ragione di questo sforamento da quanto autorizzato. La pedana in continuità con l'edificio dov'era collocato l'esercizio commerciale agevolava il continuo passaggio, di entrata ed uscita, da quest'ultimo alla struttura de hors per servire la clientela ai tavoli esterni. I teli in PVC avevano una funzione di protezione da possibili intemperie.
Ciò certo non giustificava la difformità nell'occupazione dello spazio pubblico; ma tale difformità rilevava innanzi tutto come violazione del contenuto del provvedimento autorizzatorio, pur progressivamente ampliato di contenuto, e ne avrebbe legittimato la revoca in chiave anche sanzionatoria sul piano amministrativo. In particolare l'allargamento della pedana sino ad aderire all'edificio significava null'altro che occupazione (abusiva) anche di un'ulteriore striscia di suolo pubblico, ma non aveva un rilievo urbanistico.
La Corte d'appello invece non valuta l'impatto dei teli in PVC: se fossero questi idonei, o no, a trasformare una struttura au dehors in un vero e proprio volume rilevante sul piano urbanistico.
L'altro elemento di fatto che la sentenza impugnata prende in considerazione è la presenza di stufe a fungo ed apparecchi di condizionamento che “evidenziavano la destinazione d'uso non temporanea”. Queste “dotazioni interne” avevano trasformato -secondo la Corte d'appello- la struttura de hors in un “manufatto stabilmente destinato allo svolgimento dell'attività commerciale sia nella stagione estiva che in quella invernale”.
Vi è poi un terzo elemento di fatto che la sentenza impugnata enuncia nella parte narrativa, ma del quale non tiene conto nella motivazione: l'occupazione di suolo pubblico a mezzo della suddetta struttura de hors era stata autorizzata fino al 31.03.2010.
Tutto ciò -valutato complessivamente- mostra l'intrinseca contraddittorietà dell'argomentare della Corte d'appello. La quale da una parte enuncia la difformità tra la struttura de hors autorizzata e quella realizzata, ma non ne valuta la portata nel senso che non chiarisce se la difformità sia rimasta nei limiti del mancato rispetto di quanto autorizzato (e quindi attenga alla regolamentazione dell'occupazione del suolo pubblico) ovvero sia stata di tale rilievo ed impatto sul territorio da travalicare la fattispecie della (seppur eccedente) occupazione di suolo pubblico sì da ridondare in un vero e proprio abuso edilizio (ciò che implicherebbe che quanto in effetti realizzato avrebbe dovuto essere stato assentito con permesso di costruire).
D'altra parte poi la Corte d'appello valuta la ritenuta non temporaneità dell'opera suddetta (i.e. struttura de hors che occupava il suolo pubblico eccedendo da quanto autorizzato) valorizzando un solo elemento -quello della presenza di stufe a fungo ed apparecchi di condizionamento- di per sé solo poco significativo e non considerando affatto che l'opera era stata autorizzata ad tempus (fino al 31.03.2010).
Può richiamarsi, per una fattispecie contigua, Cass., sez. III, 15/12/2009-14/01/2010, n. n. 1610, che ha affermato che non integra reato l'installazione, in assenza di permesso di costruire, di mezzi mobili di pernottamento, anche in via permanente, entro il perimetro delle strutture turistico-ricettive all'aperto regolarmente autorizzate ed in ottemperanza dei requisiti stabiliti dagli ordinamenti regionali, non versandosi in presenza di un'attività rilevante ai fini urbanistici, edilizi e paesaggistici come previsto dall'art. 3, comma nono, della L. n. 99 del 2009.
3. Pertanto il ricorso va accolto con conseguente annullamento della sentenza impugnata e rinvio alla Corte d'appello di Perugina per nuovo esame (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.03.2014 n. 10482  - link a www.avvocatocassazionista.it).

EDILIZIA PRIVATAL’annullamento del titolo edilizio di cui alla denuncia di inizio attività è stato preceduto dall’avviso dell’avvio del relativo procedimento ed è intervenuto a distanza di meno di due anni dalla formazione dell’assenso sulla denuncia stessa, a seguito della verifica tecnica della documentazione integrativa presentata dall’interessato.
Il procedimento è stato, quindi, tempestivamente attivato e si è concluso in tempi ragionevoli.

Il provvedimento oggetto del giudizio di primo grado non contrasta, contrariamente a quanto pretende il ricorrente, con l’art. 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241, che prescrive all’Amministrazione di procedere in autotutela entro un termine ragionevole: come ha rilevato il Tar, l’annullamento del titolo edilizio di cui alla denuncia pervenuta il 15.062009 è stato preceduto dall’avviso dell’avvio del relativo procedimento, comunicato il 26.11.2010, ed è intervenuto a distanza di meno di due anni dalla formazione dell’assenso sulla denuncia stessa, a seguito della verifica tecnica della documentazione integrativa presentata dall’interessato il 06.12.2010.
Il procedimento è stato, quindi, tempestivamente attivato e si è concluso in tempi ragionevoli; per questo motivo deve anche essere respinta la domanda di risarcimento dei danni asseritamente subiti per il ritardo dell’Amministrazione nel provvedere in autotutela (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.03.2014 n. 1054 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl richiamo all’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, che prescrive la distanza di 10 metri per l’apertura di finestre antistanti l’edificio confinante, si fonda sull’interesse pubblico di impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario: trattasi, come ha rilevato la giurisprudenza, di prescrizione avente carattere di assolutezza ed inderogabilità, risultante da fonte normativa statuale, sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali (ed è quindi irrilevante il riferimento, operato dall’appellante, all’art. 27 del regolamento edilizio del Comune di Milano), da sola sufficiente a fondare la legittimità dell’annullamento del titolo edilizio senza spazio per la considerazione e la ponderazione di opposti interessi.
L
’appellante asserisce poi l’irrilevanza della mancata rappresentazione, nella documentazione originaria, di una finestra sull’immobile antistante la parete dell’immobile da ristrutturare: ma è argomentazione fuorviante, dal momento che il provvedimento impugnato in primo grado si basa non sulla presenza di una tale finestra, ma sulla circostanza che il manufatto “non è stato ricostruito fedelmente quanto a volumetria e sagoma, giacché sono state operate correzioni dell’area di sedime, traslate pareti, ampliate le aree, razionalizzata la conformazione delle aree di sedime, comportando la modifica del perimetro considerato in senso orizzontale e verticale, in difetto pertanto del principio di mantenimento della sagoma”; che il manufatto adibito a box e caldaia “si pone a distanza inferiore ai tre metri dal confine con una proprietà di terzi”; che, infine, “nel recupero del sottotetto, sul lato fronteggiante la proprietà confinante, è stata aperta una finestra a distanza inferiore a mt. 10”.
Queste sono, pertanto, le motivazioni che sorreggono il provvedimento in esame, rispetto alle quali la considerazione della mancata rappresentazione della finestra sull’edificio confinante non assume alcuna decisiva rilevanza, essendo la distanza appena richiamata considerata con riferimento, invece, alla finestra aperta sul manufatto oggetto dell’intervento contestato.
Il richiamo, pure operato dal provvedimento, all’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444 che prescrive la distanza di 10 metri per l’apertura di finestre antistanti l’edificio confinante, si fonda sull’interesse pubblico di impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario: trattasi, come ha rilevato la giurisprudenza, di prescrizione avente carattere di assolutezza ed inderogabilità, risultante da fonte normativa statuale, sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali (ed è quindi irrilevante il riferimento, operato dall’appellante, all’art. 27 del regolamento edilizio del Comune di Milano), da sola sufficiente a fondare la legittimità dell’annullamento del titolo edilizio senza spazio per la considerazione e la ponderazione di opposti interessi
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.03.2014 n. 1054 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAnche in caso di interventi di recupero del sottotetto ad uso abitativo deve essere rispettata la normativa statale in tema di distanze tra edifici, dato che, come ha rilevato la sentenza della Corte Costituzionale n. 173 del 2011, la deroga prevista dalla norma regionale (lombarda) richiamata ai limiti e alle prescrizioni degli strumenti di pianificazione comunale “non può ritenersi estesa anche alla disciplina civilistica in materia di distanze, né può operare nei casi in cui lo strumento urbanistico riproduce disposizioni normative di rango superiore, a carattere inderogabile, quali sono quelle dell'art. 41-quinques della legge 17.08.1942, n. 1150, introdotto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, e dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, nella parte in cui regolano le distanze tra fabbricati.
Sostiene ancora il ricorrente che l’intervento non sarebbe da qualificare come nuova costruzione, contrariamente a quanto ha ritenuto l’Amministrazione: perciò, l’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 non sarebbe applicabile.
La censura non è condivisibile: il provvedimento oggetto del giudizio ha evidenziato gli indici che hanno determinato la definizione dell’intervento, consistenti, in particolare, nella correzione dell’area di sedime, nella traslazione di pareti, nella modifica del perimetro e della sagoma.
Rispetto a tali elementi l’appellante si limita ad eccepire che l’art. 64, comma 2, della legge regionale n. 2 del 2005 qualifica il recupero ai fini abitativi del sottotetto come ristrutturazione edilizia, ma tale argomentazione è palesemente inefficace a scalfire la legittimità del provvedimento impugnato, dato che l’intervento edilizio in esame consiste (non nel mero recupero del sottotetto, ma) nella parziale demolizione e ricostruzione dell’edificio originario.
Inoltre, ed è considerazione conclusiva, anche in caso di interventi di recupero del sottotetto ad uso abitativo deve essere rispettata la normativa statale in tema di distanze tra edifici, dato che, come ha rilevato la sentenza della Corte Costituzionale n. 173 del 2011, la deroga prevista dalla norma regionale richiamata ai limiti e alle prescrizioni degli strumenti di pianificazione comunale “non può ritenersi estesa anche alla disciplina civilistica in materia di distanze, né può operare nei casi in cui lo strumento urbanistico riproduce disposizioni normative di rango superiore, a carattere inderogabile, quali sono quelle dell'art. 41-quinques della legge 17.08.1942, n. 1150, introdotto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, e dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, nella parte in cui regolano le distanze tra fabbricati
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.03.2014 n. 1054 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini del rilascio dell’assenso edilizio in sanatoria è necessario dimostrare che l’opera abusiva è conforme non solo alla disciplina urbanistica vigente alla data in cui l’assenso viene richiesto, ma anche a quella vigente all’atto della realizzazione dell’opera.
Invero, l'art. 36 del d.p.r. 06.06.20012, n. 380, come già l'art. 13 della legge n. 47 del 1985, pone come condizione inderogabile, ai fini del rilascio della sanatoria, che “l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda".

Ai fini del rilascio dell’assenso edilizio in sanatoria è, infatti, necessario dimostrare che l’opera abusiva è conforme non solo alla disciplina urbanistica vigente alla data in cui l’assenso viene richiesto, ma anche a quella vigente all’atto della realizzazione dell’opera.
Come ha chiarito la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (da ultimo, sez. V, 11.06.2013, n. 3220), l'art. 36 del d.p.r. 06.06.20012, n. 380, come già l'art. 13 della legge n. 47 del 1985, pone come condizione inderogabile, ai fini del rilascio della sanatoria, che “l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda" (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.03.2014 n. 1040 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La modifica della sagoma e dell’altezza dell’edificio è sufficiente a rendere l'intervento edilizio non riconducibile al paradigma normativo della ristrutturazione e all'esonero dall'osservanza delle distanze legali previsto per detto tipo di interventi.
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La semplice "ristrutturazione" si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano e rimangano inalterate le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre è ravvisabile la "ricostruzione" allorché dell'edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle stesse, operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria.
In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di "nuova costruzione", come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della medesima.

La modifica della sagoma e dell’altezza dell’edificio è sufficiente a rendere l'intervento edilizio non riconducibile al paradigma normativo della ristrutturazione e all'esonero dall'osservanza delle distanze legali previsto per detto tipo di interventi (cfr. Cassazione civile, sez. un., 19.10.2011, n. 21578; Consiglio di Stato, sez. IV, 06.10.2011, n. 5490).
Per giurisprudenza costante, invero, “la semplice "ristrutturazione" si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano e rimangano inalterate le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre è ravvisabile la "ricostruzione" allorché dell'edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle stesse, operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria. In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di "nuova costruzione", come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della medesima” (cfr. fra le tante Cassazione civile, sez. II, 21/05/2012, n. 8015; Consiglio di Stato, sez. V, 11.06.2013, n. 3221) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.03.2014 n. 585 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'omessa indicazione in sede di offerta economica del separato costo da sostenere per gli oneri di sicurezza non comporta di per sé l'esclusione dalla gara.
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Sugli obblighi di dichiarazione dei requisiti di moralità ex art. 38, del d.lgs. n. 163 del 2006, nelle fattispecie relative alla cessione di azienda o di ramo di azienda.

Nel caso di appalti non aventi ad oggetto l'esecuzione di lavori pubblici -nei cui confronti si applica la norma dettata ad hoc dall'art. 131 d.lgs. n 163 del 2006- ed il cui bando di gara non contenga una comminatoria espressa, l'omessa indicazione nell'offerta dello scorporo matematico degli oneri di sicurezza per rischio specifico non comporta di per sé l'esclusione dalla gara, ma rileva ai soli fini dell'anomalia del prezzo offerto, nel senso che, per scelta della stazione appaltante, il momento di valutazione dei suddetti oneri non è eliso, ma è posticipato al sub-procedimento di verifica della congruità dell'offerta nel suo complesso.
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Nelle fattispecie relative alla cessione di azienda o di ramo di azienda, stante la non univocità della norma circa l'onere dichiarativo dell'impresa (cui va aggiunta l'incertezza degli indirizzi giurisprudenziali), in assenza nella disciplina di gara di una specifica comminatoria di esclusione, quest'ultima potrà essere disposta non già per la mera omessa dichiarazione dei requisiti di moralità ex art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, prescritti per l'ammissione alle procedure di affidamento di concessioni e di appalti pubblici, ma soltanto là dove sia effettivamente riscontrabile l'assenza del requisito in questione (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 04.03.2014 n. 1030 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALa disciplina autorizzatoria degli scarichi è stata introdotta dall’art. 9 della legge 319/1976, quindi è pacifico che al momento della costruzione dell’edificio di cui si discute essa non fosse ancora esistente.
In via transitoria la normativa ha previsto l’obbligo di autorizzazione solo per gli scarichi degli insediamenti produttivi anche se antecedenti, mentre per gli insediamenti civili non recapitanti in pubbliche fognature ha semplicemente previsto un obbligo di denunzia (nel caso di specie ottemperato) stabilendo che la relativa disciplina tesa all’adeguamento fosse definita dalle Regioni attraverso l’adozione di “piani di risanamento delle acque”.
In questo quadro normativo, sostenere –come ha fatto il primo giudice- che all’obbligo di denuncia possa sostituirsi, senza bisogno di alcuna espressa previsione, l’obbligo di autorizzazione ove la Regione non proceda alla redazione del Piano di risanamento, è interpretazione che, se da un lato assicura il perseguimento degli obiettivi di salubrità, dall’altro tradisce la lettera della legge ed il principio di affidamento nel disposto legislativo (ne è prova del resto il regolamento da ultimo approvato dalla Regione Puglia, 12.12.2011, n. 26, il quale all’art. 7 prescrive un obbligo di adeguamento degli impianti già esistenti non recapitanti nella rete fognaria, entro due anni dalla sua entrata in vigore).
Piuttosto deve affermarsi che per gli scarichi degli insediamenti civili assentiti prima dell’entrata in vigore della legge 319/1976 non occorre autorizzazione ex post, essendo già la licenza edilizia comprensiva delle prescrizioni in ordine agli scarichi.
Ovviamente ciò non significa che l’impianto di smaltimento a dispersione sia conforme o possa essere mantenuto in essere: piuttosto esso deve essere adeguato nei tempi e nei modi previsti dalla normativa regionale primaria e secondaria.

... per la riforma della sentenza del TAR PUGLIA - SEZ. STACCATA DI LECCE: SEZIONE II n. 2700/2005, resa tra le parti, concernente autorizzazione agli scarichi di edifici costruiti in epoca remota.
...
E’ gravata una sentenza del TAR Puglia avente ad oggetto la sorte degli scarichi fognanti a dispersione, autorizzati unitamente all’intervento edilizio, prima dell’entrata in vigore delle norme di tutela delle acque di cui alla legge 319/1976.
Questi in sintesi i fatti di causa rilevanti:
- Lo stabile condominiale “Rosa marina residence” posto a pochissima distanza dal mare (300 mt.), era assentito nel 1973 con licenza edilizia contemplante, tra l’altro, prescrizioni in ordine allo smaltimento degli scarichi in vasca Imhoff.
- Nel 1987 il servizio igiene e prevenzione della locale USL rilevava la mancanza di un depuratore fognario e la dispersione del sottosuolo delle acque reflue proveniente dallo stabile condominiale.
- Il sindaco del Comune di Pulsano emetteva ordinanza con la quale, constatata la mancanza di autorizzazione specifica di cui alla legge 319/1976, revocava l’abitabilità e l’agibilità ordinando all’amministratore di adeguare l’impianto di scarico.
- Il condominio adiva il TAR, ritenendo che la disciplina autorizzatoria di cui all’art. 9 della legge 319/1976 non potesse applicarsi ad edifici costruiti ed assentiti in data precedente, disponendo -le norme transitorie- un obbligo in tal senso solo per gli insediamenti produttivi (vi era, secondo il ricorrente solo un obbligo di denuncia, tra l’altro ottemperato nell’87).
- Il TAR, pur non negando che la disciplina transitoria effettivamente distinguesse tra insediamenti produttivi (obbligati a richiedere autorizzazione anche se edificati in precedenza) ed insediamenti civili non recapitanti in pubbliche fognature, imponendo per questi ultimi il solo obbligo di denuncia, ha sostenuto tuttavia che l’assenza di autorizzazione potesse giustificarsi per il periodo transitorio (13.06.1976/13.06.1986) e non anche nel periodo successivo, retto da una diversa e più rigorosa disciplina integrata dagli artt. 8, 14 e 25 della legge 319/1976 e dall’art. 43 della l.r. Puglia 24/1983.
- Ha proposto appello il Condominio “Rosa marina residence”.
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L’appello è fondato.
La disciplina autorizzatoria degli scarichi è stata introdotta dall’art. 9 della legge 319/1976, quindi è pacifico che al momento della costruzione dell’edificio di cui si discute essa non fosse ancora esistente.
In via transitoria la normativa ha previsto l’obbligo di autorizzazione solo per gli scarichi degli insediamenti produttivi anche se antecedenti, mentre per gli insediamenti civili non recapitanti in pubbliche fognature ha semplicemente previsto un obbligo di denunzia (nel caso di specie ottemperato) stabilendo che la relativa disciplina tesa all’adeguamento fosse definita dalle Regioni attraverso l’adozione di “piani di risanamento delle acque”.
In questo quadro normativo, sostenere –come ha fatto il primo giudice- che all’obbligo di denuncia possa sostituirsi, senza bisogno di alcuna espressa previsione, l’obbligo di autorizzazione ove la Regione non proceda alla redazione del Piano di risanamento, è interpretazione che, se da un lato assicura il perseguimento degli obiettivi di salubrità, dall’altro tradisce la lettera della legge ed il principio di affidamento nel disposto legislativo (ne è prova del resto il regolamento da ultimo approvato dalla Regione Puglia, 12.12.2011, n. 26, il quale all’art. 7 prescrive un obbligo di adeguamento degli impianti già esistenti non recapitanti nella rete fognaria, entro due anni dalla sua entrata in vigore).
Piuttosto deve affermarsi che per gli scarichi degli insediamenti civili assentiti prima dell’entrata in vigore della legge 319/1976 non occorre autorizzazione ex post, essendo già la licenza edilizia comprensiva delle prescrizioni in ordine agli scarichi (questa è del resto la tesi recentemente sostenuta dalla Cassazione, sez. II, 24/11/2008, n. 27895).
Ovviamente ciò non significa che l’impianto di smaltimento a dispersione sia conforme o possa essere mantenuto in essere: piuttosto esso deve essere adeguato nei tempi e nei modi previsti dalla normativa regionale primaria e secondaria.
In conclusione, l’appello è accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado, è accolto anche il ricorso introduttivo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.03.2014 n. 1023 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADeve respingersi la prima censura a mente delle cui indicazioni il parere (ndr: della Soprintenzdenza) sarebbe stato reso tardivamente in palese elusione della perentorietà del termine di cui all’art. 146, VIII comma, d. lgs n. 42/2004.
E’ agevole osservare che, in alcun modo, la citata norma individua il termine di 45 giorni come perentorio, per cui permane il potere del Soprintendente di fornire il proprio apporto anche oltre il termine individuato ed il dovere dell’amministrazione di tenerne conto, senza tuttavia esserne vincolata. Né la perentorietà del termine può desumersi aliunde, atteso che l’art. 152 c.p.c. stabilisce espressamente che i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari perentori.
L’impianto dell’art. 146 citato non lascia trasparire decadenze o sanzioni, per cui la tesi attorea può ritenersi destituita di fondamento.
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Anche il Consiglio di Stato si è pronunciato con la decisione che di seguito si riporta in quanto condivisa: “In secondo luogo, la sentenza ha rilevato la mera tardività del parere reso dalla Soprintendenza, senza esaminare il quadro normativo di riferimento, dal quale si evince che –nel caso di mancato rispetto del termine fissato dall’art. 146, comma 5, così come del termine fissato dall’art. 167, comma 5, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137)– il potere della Soprintendenza continua a sussistere (tanto che un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dai richiamati commi 5 e mantiene la sua natura vincolante), ma l’interessato può proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare l’illegittimo silenzio-inadempimento dell’organo statale: la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative conseguenze sulle spese del giudizio derivato dall’inerzia del funzionario).
Poiché nel caso di superamento del termine in questione il Codice non ha determinato né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio qualificato o significativo, va riformata la sentenza con cui il TAR ha rilevato la tardività del parere, senza nemmeno occuparsi delle conseguenze della constatata tardività.”
E’ infondato il primo motivo di ricorso con il quale la parte lamenta, in relazione agli atti trasmessi alla Soprintendenza in data 06.07.2012, la tardività del parere espresso in data 22.10.2012, ben oltre il termine, asseritamente perentorio, di 45 giorni prescritto dall’art. 146, comma VIII, d.lgs n. 42/2004.
La censura non risulta condivisibile alla luce della giurisprudenza in materia.
In fattispecie analoga, questo Tribunale ha già ritenuto di dovere disattendere analoga censura affermando quanto segue: “Deve, infatti, respingersi la prima censura a mente delle cui indicazioni il parere sarebbe stato reso tardivamente in palese elusione della perentorietà del termine di cui all’art. 146, VIII comma, d. lgs n. 42/2004. E’ agevole osservare che, in alcun modo, la citata norma individua il termine di 45 giorni come perentorio, per cui permane il potere del Soprintendente di fornire il proprio apporto anche oltre il termine individuato ed il dovere dell’amministrazione di tenerne conto, senza tuttavia esserne vincolata. Né la perentorietà del termine può desumersi aliunde, atteso che l’art. 152 c.p.c. stabilisce espressamente che i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari perentori. L’impianto dell’art. 146 citato non lascia trasparire decadenze o sanzioni, per cui la tesi attorea può ritenersi destituita di fondamento.”
Sul punto anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato sostiene le riferite conclusioni.
Basterà richiamare in questa sede quanto affermato dal Consiglio di Stato con la decisione n. 4914 del 2013 che di seguito si riporta in quanto condivisa: “In secondo luogo, la sentenza ha rilevato la mera tardività del parere reso dalla Soprintendenza, senza esaminare il quadro normativo di riferimento, dal quale si evince che –nel caso di mancato rispetto del termine fissato dall’art. 146, comma 5, così come del termine fissato dall’art. 167, comma 5, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137)– il potere della Soprintendenza continua a sussistere (tanto che un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dai richiamati commi 5 e mantiene la sua natura vincolante), ma l’interessato può proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare l’illegittimo silenzio-inadempimento dell’organo statale: la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative conseguenze sulle spese del giudizio derivato dall’inerzia del funzionario).
Poiché nel caso di superamento del termine in questione il Codice non ha determinato né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio qualificato o significativo, va riformata la sentenza con cui il TAR ha rilevato la tardività del parere, senza nemmeno occuparsi delle conseguenze della constatata tardività
.”
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 04.03.2014 n. 520 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACon l’entrata in vigore, a regime (dal 01.01.2010), dell’art. 146 sulla disciplina autorizzatoria prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 22.01.2004, n. 42), la Soprintendenza esercita non più un sindacato di mera legittimità (come previsto dall’art. 159 d.lgs. n. 42/2004 nel regime transitorio vigente fino al 31.12.2009) sull’atto autorizzatorio di base adottato dalla Regione o dall’ente subdelegato, con il correlativo potere di annullamento ad estrema difesa del vincolo, ma una valutazione di “merito amministrativo”, espressione dei nuovi poteri di cogestione del vincolo paesaggistico (art. 146 d.lgs. 42/2004).
Quanto, infine, all’ulteriore considerazione per la quale l’amministrazione ministeriale si sarebbe pronunciata illegittimamente anche su questioni di natura edilizia (mancato completamento delle opere) non può che richiamarsi in questa sede quanto affermato dalla stessa giurisprudenza e segnatamente, ex multis, da Cons. St. n. 5082 del 2013, a mente delle cui indicazioni: ”… l’art. 82, comma 9, del decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all'art. 1 della legge 22.07.1975, n. 382) e successivamente l’art. 151, comma 4, del decreto legislativo 29.10.1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell’articolo 1 della legge 08.10.1997, n. 352),… prevedevano che il Ministero potesse annullare l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dalle amministrazioni competenti.
Tali disposizioni contemplavano un potere ‘successivo’ di annullamento per qualsiasi vizio di legittimità, e non anche per ragioni di merito, dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata (Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9).
L’art. 146, comma 5, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137),… ha, invece, previsto che la Soprintendenza esercita i suoi poteri nell’ambito del procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica mediante l’adozione di un parere vincolante, che può, in quanto tale, contenere anche valutazioni di merito (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 11.09.2013, n. 4492).
….Sotto tale profilo, va richiamato l’orientamento di questo Consiglio (Sez. VI, 25.02.2013, n. 1129), per il quale l’autorità statale preposta alla tutela del vincolo paesaggistico ben può tenere conto del significativo mutamento del quadro normativo, in ordine ai suoi poteri da esercitare nel corso del procedimento di valutazione di una domanda volta ad ottenere un titolo abilitativo paesaggistico.
Ed infatti con l’entrata in vigore, a regime (dal 01.01.2010), dell’art. 146 sulla disciplina autorizzatoria prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 22.01.2004, n. 42), la Soprintendenza esercita non più un sindacato di mera legittimità (come previsto dall’art. 159 d.lgs. n. 42/2004 nel regime transitorio vigente fino al 31.12.2009) sull’atto autorizzatorio di base adottato dalla Regione o dall’ente subdelegato, con il correlativo potere di annullamento ad estrema difesa del vincolo (su cui Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9), ma una valutazione di “merito amministrativo”, espressione dei nuovi poteri di cogestione del vincolo paesaggistico (art. 146 d.lgs. 42/2004)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 04.03.2014 n. 520 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIANei procedimenti in materia di bonifica, anche dei siti di interesse nazionale, è necessario che i destinatari delle prescrizioni stabilite dall’Amministrazione siano messi nelle condizioni di partecipare al relativo procedimento, articolato in una o più conferenze di servizi istruttorie e decisorie, quantomeno con riferimento alle fasi procedimentali che hanno ad oggetto l’accertamento dei presupposti per l’emanazione di ordini e prescrizioni che riguardano lo specifico sito, mediante un completo contraddittorio procedimentale.
Nel merito il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Infatti dalla documentazione versata in atti risulta che il Ministero si è rivolto alle imprese conduttrici dell’area e ha appreso in data 27.08.2007 dalla ditta TST Arreda che la proprietà dell’area è del ricorrente, mentre in data 26.08.2007 la Fonderia Fratelli Bon Snc di Bon G. e C. ha comunicato di non essere più affittuaria del capannone.
Solo a seguito di tali comunicazioni la conferenza di servizi decisoria ha rivolto al ricorrente le prescrizioni fino a prima formulate alle imprese conduttrici, senza che prima di allora vi fosse stato alcun tipo di coinvolgimento del ricorrente.
Risulta pertanto fondata la censura di violazione dell’art. 7 della legge 07.08.1990, n. 241.
Infatti nei procedimenti in materia di bonifica, anche dei siti di interesse nazionale, è necessario che i destinatari delle prescrizioni stabilite dall’Amministrazione siano messi nelle condizioni di partecipare al relativo procedimento, articolato in una o più conferenze di servizi istruttorie e decisorie, quantomeno con riferimento alle fasi procedimentali che hanno ad oggetto l’accertamento dei presupposti per l’emanazione di ordini e prescrizioni che riguardano lo specifico sito, mediante un completo contraddittorio procedimentale (cfr. Tar Toscana, Sez. II, 06.07.2010, n. 2316; id. 06.05.2009, n. 762; Tar Lombardia, Milano, Sez. I, 19.04.2007, n. 1913; Tar Friuli Venezia Giulia, 27.07.2001, n. 488).
Nel caso di specie non è mai stato acquisito l’apporto procedimentale del ricorrente che è venuto a conoscenza dell’esistenza di un procedimento amministrativo avviato nei confronti della propria area solo a seguito della comunicazione del 07.01.2008, con la quale gli sono state richiamate implicitamente una serie articolata di numerose prescrizioni definite in precedenti conferenze di servizi.
A fronte di tale censura l’Amministrazione non ha dedotto in giudizio alcun elemento dal quale si possa desumere l’inutilità dell’eventuale apporto procedimentale dell’interessato e le prescrizioni impartite non hanno carattere vincolato.
Ne consegue che la mancata acquisizione dell’apporto procedimentale del ricorrente, non potendo trovare applicazione la c.d. sanatoria procedimentale di cui all’art. 21-octies, comma 2, ultimo periodo, della legge 07.08.1990, n. 241, comporta l’annullamento degli atti impugnati (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 04.03.2014 n. 276 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Sulla partecipazione alle gare anche alle imprese prive della qualificazione nelle categorie scorporabili, se in possesso della qualificazione nella categoria prevalente.
I concorrenti, a prescindere dalla forma che rivestano (impresa singola, R.T.I. orizzontale o R.T.I. verticale), ai fini della dimostrazione del possesso dei requisiti di partecipazione alla gara, e per colmare eventuali carenze sul piano delle qualificazioni prescritte dalla lex specialis per le categorie scorporabili, possono limitarsi a dichiarare di voler ricorrere al subappalto [come prescritto dall'art. 118, c. 2, n. 1 del D.Lgs. n. 163/2006), che impone una generica dichiarazione in tal senso], ove non si tratti di categorie scorporabili a qualificazione obbligatoria (o categorie di opere speciali) e ove venga dimostrato il possesso (da parte dell'impresa singola o dell'impresa mandataria) della qualificazione nella categoria prevalente con classifica idonea a ricomprendere anche l'importo dei lavori delle categorie scorporabili.
La conclusione trova riscontro nell'indirizzo recentemente affermato dal Consiglio di Stato, che, muovendo dalla premessa che "l'identificazione del subappaltatore e (la) verifica del possesso da parte di questi di tutti i requisiti richiesti dalla legge e dal bando (…)attiene solo al momento dell'esecuzione" rileva (richiamando a sostegno anche la determinazione dell'AVCP n. 4 del 10.10.2012) che "come voluto dall'art. 92 del d.p.r. n. 207 del 2010, "i requisiti relativi alle categorie scorporabili non posseduti dall'impresa devono da questa essere posseduti con riferimento alla categoria prevalente".
La stessa determinazione precisa che la normativa "non comporta l'obbligo di indicare i nominativi dei subappaltatori in sede di offerta, ma solamente di indicare le quote che il concorrente intende subappaltare, qualora non in possesso della qualificazione per le categorie scorporabili".
Non può, quindi, nel caso che trovare applicazione la regola generale dettata dall'art. 118 del d.lgs. n. 163 del 2006 e dall'art. 109 del d.p.r. n. 207 del 2010, che non impongono di indicare già in sede di qualificazione l'appaltatore, rimandano anche il controllo dei requisiti al momento in cui verrà depositato il contratto di subappalto.
Il principio generale ricavabile dall'art. 92, commi 1, 3 e 7, del D.P.R. n. 207/2010, consente -quindi- la partecipazione anche alle imprese prive della qualificazione nelle categorie scorporabili, se in possesso della qualificazione nella categoria prevalente con classifica adeguata a ricomprendere anche le lavorazioni appartenenti a categorie scorporabili; e, dunque, consente in tal modo di supplire, in sede di partecipazione, agli eventuali requisiti mancanti per le categorie scorporabili (salva la possibilità di subappaltare in fase di esecuzione dei lavori) (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 03.03.2014 n. 1969 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Non ha carattere direttamente interdittivo l'informativa antimafia c.d. "atipica".
L'informativa antimafia c.d. "atipica", a differenza di quella c.d. "tipica", non ha carattere direttamente interdittivo, consentendo al più alla stazione appaltante di valutare discrezionalmente se avviare o proseguire i rapporti contrattuali, alla luce dell'idoneità morale dell'imprenditore d'assumere la posizione di contraente con la P.A. Sicché tal efficacia interdittiva può se del caso scaturire dall'autonoma valutazione discrezionale della P.A. (o, il che è lo stesso, nel caso di specie dell'ente appaltante, qual è l'ANAS s.p.a,) destinataria della predetta informativa prefettizia atipica. È dunque assodato che quest'ultima, ancorché non priva di effetti nei confronti della P.A., non ne comprime interamente l'autonoma capacità di apprezzamento del dato fornito, onde il mantenimento o la risoluzione del rapporto contrattuale dev'esser comunque il frutto di una scelta motivata della stazione appaltante.
È ben noto in giurisprudenza, il principio per cui non serve, anche a fronte di un'informativa "atipica" una motivazione molto ampia, se non quando la stazione appaltante decidesse d'instaurare o di proseguire il rapporto con l'impresa, pur a seguito dell'informativa che la riguardi. La ragione di ciò risiede nella natura dell'accertamento antimafia (prescindendo dagli effetti automatici che la legge, a seconda dei casi, gli accorda, o no), nonché nella correlata esigenza di tutelare in via preferenziale, quand'anche con meccanismi di tipo indiziario, la trasparenza e l'immunità del settore dei pubblici appalti da fenomeni invasivi, anche interposti, da parte della criminalità organizzata (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 28.02.2014 n. 944 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATANon sono precisate le ragioni che inducono l’amministrazione provinciale a distinguere tra l’attività di recupero di frazioni di inerti da impiegare nell’attività edilizia e quelli da impiegare in fondi e sottofondi stradali. Per i primi sarebbe necessaria e sufficiente l’operazione di trattamento meccanico a far cessare al materiale trattato la qualifica di rifiuto; per i secondi, invece, il solo trattamento meccanico non sarebbe più sufficiente a concludere l’attività di recupero, divenendo necessaria l’osservanza del procedimento ordinario e, quindi, l’ottenimento dell’autorizzazione.
Tale distinzione appare non solo ingiustificata, ma anche irrazionale perché sarebbe stato più ragionevole invertire le posizioni; in altri termini potrebbe apparire plausibile pretendere il procedimento ordinario per l’utilizzo di frazione di inerti nell’attività edilizia, che vanno a stretto e continuativo contatto con l’uomo, ma se si ammette per tale destinazione l’utilizzo di aggregati riciclati derivati da impianti operanti in procedura semplificata, risulta poi illogico escludere l’impiego dello stesso materiale per la realizzazione di rilevati e sottofondi stradali.
In ogni caso la distinzione appare irragionevole e non motivata dall’amministrazione.
Del resto, è emerso in maniera incontestata nel corso del presente giudizio che il procedimento di trattamento dei rifiuti è identico in relazione all’attività edilizia e ai fondi e sottofondi stradali. Ciò accentua i profili di irragionevolezza sopra visti.
Inoltre, l’art. 183 d.lgs. 152/2006 definisce “rifiuto” qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o l'obbligo di disfarsi e l’art. 181-bis del d.lgs. 152/2006 ha chiarito che non rientrano nella definizione di cui all'articolo 183, comma 1, lettera a), le materie, le sostanze e i prodotti secondari che siano prodotti da un'operazione di riutilizzo, di riciclo o di recupero di rifiuti.
La Corte di Cassazione, in sede penale, ha chiarito che affinché un materiale perda la qualifica di rifiuto non è più necessario il requisito del valore economico, come richiesto dall'art. 181-bis, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 152 del 2006, in quanto l'art. 184-ter, introdotto dall'art. 13 d.lgs. n. 205 del 2010, richiede solo che vi sia "un mercato o una domanda per tale sostanza o oggetto".
Né la ricostruzione fornita dall’amministrazione può trarsi dal D.M. 05.02.1998 da cui non emerge nitidamente che l’attività di recupero per il materiale inerte impiegato in fondi e sottofondi richieda il rispetto della procedura ordinaria di autorizzazione.
Né una diversa ricostruzione pare emergere dalla L. 71/2013, la quale stabilisce che, in attesa dell’attuazione dell’art. 184-ter, comma 2, del d.lgs. 152/2006, per le opere in corso di realizzazione e da realizzare da parte di Expo 2015 s.p.a., che riguardano recuperi ambientali, rilevati e sottofondi stradali e ferroviari nonché piazzali, è consentito l’utilizzo delle materie prime secondarie, di cui al punto 7.1.4 dell’allegato 1, sub allegato 1, del D.M. 05.02.1998 e successive modificazioni, acquisite o da acquisire da impianti autorizzati con procedura semplificata, ai sensi degli artt. 214 e 216 del d.lgs. 152/2006.
Tale norma va interpretata nel senso che in attesa dell’attuazione dell’art. 184-ter del Codice dell’Ambiente per le materie prime secondarie prodotte da impianti operanti in procedura semplificata continua ad applicarsi -per gli interventi Expo 2015- la disciplina previgente, in modo tale che tali materiali possano essere utilizzati per la realizzazione di rilevati e sottofondi stradali. Del resto, tale interpretazione è legittimata dallo stesso art. 184-ter, secondo cui nelle more di approvazione dei decreti attuativi sulla modalità di recupero dei rifiuti continuano ad applicarsi le disposizioni di cui al D.M. 05.02.1998.

per l'annullamento:
- del rapporto di ispezione della Provincia di Milano, prot. 105293 del 19.03.2013, ricevuto per estratto all'esito di istanza di accesso agli atti, nella parte in cui afferma che "alla luce delle recenti interpretazioni ministeriali, gli aggregati riciclati derivanti da impianti operanti in procedura semplificata (art. 216 del 152/2006) possono essere utilizzati esclusivamente come M.P.S. per l'edilizia e non per la formazione di rilevati e sottofondi stradali";
- della comunicazione prot. 134974 del 24.05.2013, laddove si afferma che "nella fase temporale che precede l'utilizzo del materiale e nella stessa fase di utilizzo il materiale continua ad essere un rifiuto e come tale deve essere trattato", ove intesa come riferita ai materiali derivanti dagli impianti operanti in procedura semplificata ai sensi degli artt. 214-216 d.lgs. 152/2006;
- nonché per quanto occorrer possa della Nota del Ministero dell'Ambiente prot. 18563 del 07.03.2013 (doc. 3), nella non creduta ipotesi in cui debba essere intesa come presupposto delle note provinciali gravate,
...
Il ricorso è fondato.
Come già evidenziato in sede cautelare, non sono precisate le ragioni che inducono l’amministrazione a distinguere tra l’attività di recupero di frazioni di inerti da impiegare nell’attività edilizia e quelli da impiegare in fondi e sottofondi stradali. Per i primi sarebbe necessaria e sufficiente l’operazione di trattamento meccanico a far cessare al materiale trattato la qualifica di rifiuto; per i secondi, invece, il solo trattamento meccanico non sarebbe più sufficiente a concludere l’attività di recupero, divenendo necessaria l’osservanza del procedimento ordinario e, quindi, l’ottenimento dell’autorizzazione.
Tale distinzione appare non solo ingiustificata, ma anche irrazionale perché sarebbe stato più ragionevole invertire le posizioni; in altri termini potrebbe apparire plausibile pretendere il procedimento ordinario per l’utilizzo di frazione di inerti nell’attività edilizia, che vanno a stretto e continuativo contatto con l’uomo, ma se si ammette per tale destinazione l’utilizzo di aggregati riciclati derivati da impianti operanti in procedura semplificata, risulta poi illogico escludere l’impiego dello stesso materiale per la realizzazione di rilevati e sottofondi stradali. In ogni caso la distinzione appare irragionevole e non motivata dall’amministrazione.
Del resto, è emerso in maniera incontestata nel corso del presente giudizio che il procedimento di trattamento dei rifiuti è identico in relazione all’attività edilizia e ai fondi e sottofondi stradali. Ciò accentua i profili di irragionevolezza sopra visti.
Inoltre, l’art. 183 d.lgs. 152/2006 definisce “rifiuto” qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o l'obbligo di disfarsi e l’art. 181-bis del d.lgs. 152/2006 ha chiarito che non rientrano nella definizione di cui all'articolo 183, comma 1, lettera a), le materie, le sostanze e i prodotti secondari che siano prodotti da un'operazione di riutilizzo, di riciclo o di recupero di rifiuti.
La Corte di Cassazione, in sede penale, ha chiarito che affinché un materiale perda la qualifica di rifiuto non è più necessario il requisito del valore economico, come richiesto dall'art. 181-bis, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 152 del 2006, in quanto l'art. 184-ter, introdotto dall'art. 13 d.lgs. n. 205 del 2010, richiede solo che vi sia "un mercato o una domanda per tale sostanza o oggetto" (cfr., Cassazione penale, sez. III, 25.05.2011, n. 24427).
Né la ricostruzione fornita dall’amministrazione può trarsi dal D.M. 05.02.1998 da cui non emerge nitidamente che l’attività di recupero per il materiale inerte impiegato in fondi e sottofondi richieda il rispetto della procedura ordinaria di autorizzazione.
Né una diversa ricostruzione pare emergere dalla L. 71/2013, la quale stabilisce che, in attesa dell’attuazione dell’art. 184-ter, comma 2, del d.lgs. 152/2006, per le opere in corso di realizzazione e da realizzare da parte di Expo 2015 s.p.a., che riguardano recuperi ambientali, rilevati e sottofondi stradali e ferroviari nonché piazzali, è consentito l’utilizzo delle materie prime secondarie, di cui al punto 7.1.4 dell’allegato 1, sub allegato 1, del D.M. 05.02.1998 e successive modificazioni, acquisite o da acquisire da impianti autorizzati con procedura semplificata, ai sensi degli artt. 214 e 216 del d.lgs. 152/2006.
Tale norma va interpretata nel senso che in attesa dell’attuazione dell’art. 184-ter del Codice dell’Ambiente per le materie prime secondarie prodotte da impianti operanti in procedura semplificata continua ad applicarsi -per gli interventi Expo 2015- la disciplina previgente, in modo tale che tali materiali possano essere utilizzati per la realizzazione di rilevati e sottofondi stradali. Del resto, tale interpretazione è legittimata dallo stesso art. 184-ter, secondo cui nelle more di approvazione dei decreti attuativi sulla modalità di recupero dei rifiuti continuano ad applicarsi le disposizioni di cui al D.M. 05.02.1998.
Da quanto esposto emerge che la L. 71/2013 non ha portata innovativa e di carattere eccezionale, limitandosi solo a specificare l’applicabilità della normativa previgente che non esclude l’utilizzo di materie prime secondarie provenienti da impianti operanti in procedura semplificata.
Ne deriva, pertanto, che il ricorso va accolto e, per l’effetto, i provvedimenti impugnati vanno annullati (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 27.02.2014 n. 534 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa comunicazione dei motivi che ostano all’accoglimento dell’istanza “interrompe” i termini per concludere il procedimento che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o, in mancanza (come nel caso in esame), dalla scadenza del termine di 10 giorni concesso a tal fine all’istante.
Secondo quanto previsto dall’articolo 10-bis della legge n. 241/1990, la comunicazione dei motivi che ostano all’accoglimento dell’istanza “interrompe” i termini per concludere il procedimento che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o, in mancanza (come nel caso in esame), dalla scadenza del termine di 10 giorni concesso a tal fine all’istante (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 24.02.2014 n. 459 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAnche se il parere (ndr: della Soprintendenza) fosse intervenuto oltre il termine di legge, il Comune, qualora non avesse ancora provveduto, vi si sarebbe comunque dovuto attenere.
Non vi è infatti nell’invocato articolo 146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio alcuna espressa comminatoria di decadenza della Soprintendenza dall’esercizio del relativo potere, decorso il termine ivi previsto, né si è in presenza di un’ipotesi di silenzio significativo.
In tal senso si è espresso anche il Consiglio di Stato: “nel caso di mancato rispetto del termine fissato dall'art. 146, comma 5,…il potere della Soprintendenza continua a sussistere (tanto che un suo parere tardivo… mantiene la sua natura vincolante)”, “la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, ma l'obbligo di concludere la fase del procedimento”, “nel caso di superamento del termine in questione il Codice non ha determinato né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio qualificato o significativo”.

Deve comunque rilevarsi che, come già più volte ribadito da questo Tribunale, anche se il parere fosse intervenuto oltre il termine di legge, il Comune, qualora non avesse ancora provveduto, vi si sarebbe comunque dovuto attenere. Non vi è infatti nell’invocato articolo 146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio alcuna espressa comminatoria di decadenza della Soprintendenza dall’esercizio del relativo potere, decorso il termine ivi previsto, né si è in presenza di un’ipotesi di silenzio significativo.
In tal senso si è espresso anche il Consiglio di Stato: “nel caso di mancato rispetto del termine fissato dall'art. 146, comma 5,…il potere della Soprintendenza continua a sussistere (tanto che un suo parere tardivo… mantiene la sua natura vincolante)”, “la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, ma l'obbligo di concludere la fase del procedimento”, “nel caso di superamento del termine in questione il Codice non ha determinato né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio qualificato o significativo” (sezione VI, sentenza n. 4914/2013)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 24.02.2014 n. 459 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa funzione della domanda di autorizzazione paesaggistica è quella di accertare in concreto la compatibilità dell’intervento -che pure esprime lo ius aedificandi che pertiene alla proprietà del suolo- col mantenimento e l’integrità di valore dei luoghi.
Il provvedimento con il quale l’autorizzazione viene negata deve essere pertanto corredato di una motivazione adeguata, che cioè metta l'interessato nella condizione di comprendere per quali specifiche caratteristiche il suo progetto non si armonizza con l'ambiente protetto. Sicché deve ritenersi illegittimo un diniego fondato su enunciazioni generiche o di stile, che facciano mero riferimento all'antiesteticità del costruito o al pregiudizio dei valori panoramici.
In fattispecie analoghe alla presente, la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di precisare che "nei casi in cui -come quello in esame- la discrezionalità tecnico/amministrativa abbia un ruolo considerevole, un diniego di nulla osta deve essere assistito da una motivazione concreta sulla realtà dei fatti e sulle ragioni ambientali ed estetiche che sconsigliano alla P.A. di ammettere un determinato intervento: affermare che un determinato intervento compromette gli equilibri ambientali della zona interessata per le incongruenze fra tipologia e materiali scelti e contesto paesaggistico senza nulla aggiungere, non spiega alcunché sul futuro danno alle bellezze ambientali che ne deriverebbe ed è un mero postulato apodittico".
E ancora: “Per quanto concerne la motivazione idonea a sorreggere un provvedimento di diniego del richiesto nulla osta per la costruzione in area soggetta a vincolo paesaggistico, deve chiarirsi che l’Amministrazione non può limitare la sua valutazione al mero riferimento ad un pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni vaghe o formule stereotipate, ma tale motivazione deve contenere una sufficiente esternazione delle specifiche ragioni per le quali si ritiene che un’opera non sia idonea ad inserirsi nell’ambiente, attraverso l’individuazione degli elementi di contrasto; pertanto, occorre un concreto ed analitico accertamento del disvalore delle valenze paesaggistiche”.

Come osservato dal Consiglio di Stato, la funzione della domanda di autorizzazione è quella di accertare in concreto la compatibilità dell’intervento -che pure esprime lo ius aedificandi che pertiene alla proprietà del suolo- col mantenimento e l’integrità di valore dei luoghi (così, Ad. Plen. 14.12.2001, n. 9). Il provvedimento con il quale l’autorizzazione viene negata deve essere pertanto corredato di una motivazione adeguata, che cioè metta l'interessato nella condizione di comprendere per quali specifiche caratteristiche il suo progetto non si armonizza con l'ambiente protetto. Sicché deve ritenersi illegittimo un diniego fondato su enunciazioni generiche o di stile, che facciano mero riferimento all'antiesteticità del costruito o al pregiudizio dei valori panoramici.
In fattispecie analoghe alla presente, la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di precisare che "nei casi in cui -come quello in esame- la discrezionalità tecnico/amministrativa abbia un ruolo considerevole, un diniego di nulla osta deve essere assistito da una motivazione concreta sulla realtà dei fatti e sulle ragioni ambientali ed estetiche che sconsigliano alla P.A. di ammettere un determinato intervento: affermare che un determinato intervento compromette gli equilibri ambientali della zona interessata per le incongruenze fra tipologia e materiali scelti e contesto paesaggistico senza nulla aggiungere, non spiega alcunché sul futuro danno alle bellezze ambientali che ne deriverebbe ed è un mero postulato apodittico" (TAR Liguria, sez. I, 22.12.2008, n. 2187).
E ancora: “Per quanto concerne la motivazione idonea a sorreggere un provvedimento di diniego del richiesto nulla osta per la costruzione in area soggetta a vincolo paesaggistico, deve chiarirsi che l’Amministrazione non può limitare la sua valutazione al mero riferimento ad un pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni vaghe o formule stereotipate, ma tale motivazione deve contenere una sufficiente esternazione delle specifiche ragioni per le quali si ritiene che un’opera non sia idonea ad inserirsi nell’ambiente, attraverso l’individuazione degli elementi di contrasto; pertanto, occorre un concreto ed analitico accertamento del disvalore delle valenze paesaggistiche” (TAR Campania Napoli, sez. VIII, 10.11.2010, n. 23751; TAR Piemonte Torino, sez. I, 04.11.2011, n. 1153).
La lamentata genericità della motivazione dell’atto di diniego non risulta superata attraverso la lettura della memoria presentata dalla resistente Avvocatura distrettuale dello Stato.
Alla luce di tali considerazioni, i rilievi posti a fondamento dell’impugnato parere della Soprintendenza risultano inidonei a costituire sufficiente supporto motivazionale dello stesso, poiché non rendono conto adeguatamente delle specifiche ragioni per le quali il fabbricato che si vuole costruire sarebbe incompatibile con le caratteristiche del bene tutelato .
La motivazione, in ultima analisi, non consente all’interessata di individuare gli elementi dell’opera che contraddicono la tutela del paesaggio, né di apprestare eventuali interventi di adeguamento alle esigenze di tale tutela.
Come già rilevato in una recente pronuncia di questo Tribunale, “anche l’estensione del fondo, interessato dal progettato intervento, non costituisce parametro normativamente definito e rilevante, né in virtù della legislazione in materia di tutela paesaggistico-ambientale, né in ragione della disciplina urbanistica” (TAR Campania Salerno, sez. II, sent., 01.08.2012, n. 1591).
L’illegittimità dell’atto presupposto e vincolante determina l’invalidità derivata del diniego adottato dall’Amministrazione comunale di Battipaglia, il quale rinvia ai profili motivazionali dedotti nel parere contrario della Soprintendenza.
Alla luce di tali considerazioni il ricorso merita di essere accolto (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 24.02.2014 n. 459 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALIOnorari dei legali al Tar. Strada obbligata per i pareri di congruità. AVVOCATI/ Una sentenza del tribunale amministrativo del Veneto.
Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo una controversia avente a oggetto l'impugnazione del parere di congruità espresso dall'Ordine degli avvocati per la liquidazione di onorari professionali.

Lo ha sancito il TAR Veneto, Sez. I, con la sentenza 13.02.2014 n. 183.
Nel caso in esame i ricorrenti si erano avvalsi del patrocinio di uno studio legale per attività stragiudiziale e giudiziale in materia successoria conclusa nei loro riguardi con sentenza pienamente favorevole.
A conclusione di tale incarico era giunto il preavviso di parcella per il compenso dell'attività svolta quantificata in complessive euro 333.639,76, con richiesta di pagamento della somma residua di euro 231.879,76.
Dal momento che la richiesta appariva eccessiva rispetto all'attività professionale concretamente svolta, i ricorrenti avevano agito in giudizio in sede civile prospettando «l'infondatezza della pretesa».
Il professionista aveva, così, inoltrato ai ricorrenti il preavviso di parcella corredato del relativo parere di congruità emesso dall'Ordine degli avvocati di Padova.
Con ricorso al Tar i clienti avevano impugnato il parere reso e ne avevano chiesto l'annullamento: oltre a ritenere la giurisdizione del g.a. avevano lamentato, vista la natura amministrativa dei provvedimenti impugnati, la violazione dell'art. 7 della legge 241 del 1990 per l'omessa comunicazione di avvio del procedimento.
Si era costituito l'Ordine degli avvocati di Padova eccependo il difetto di giurisdizione del g.a. in favore del g.o. e l'infondatezza delle pretese.
Il Tar accoglie il ricorso.
Compete al g.a., infatti, decidere sul parere di congruità espresso dall'Ordine degli avvocati: il parere sulle parcelle professionali è un atto soggettivamente e oggettivamente amministrativo, poiché non si esaurisce in una mera certificazione della rispondenza del credito alla tariffa professionale, ma implica una valutazione di congruità della prestazione, «che trova inequivocabile presupposto nel rapporto di supremazia che intercorre tra l'Ordine o il Collegio professionale (soggetto, questo, indubitabilmente pubblico) e i propri iscritti».
Tutto ciò premesso, il Collegio ritiene altresì illegittimo il parere di congruità nel caso in cui sia stato espresso senza che, alla parte nei confronti della quale il parere stesso è destinato a produrre effetti, sia stata preventivamente effettuata la comunicazione di avvio del relativo procedimento amministrativo, ai sensi degli artt. 7 e segg. della legge n. 241 del 1990 (articolo ItaliaOggi Sette del 10.03.2014).

APPALTI- l'interdittiva prefettizia antimafia cd. interdittiva antimafia "tipica", prevista dall’art. 4 del d.lgs. n. 490 del 1994 e dall’art. 10 del D.P.R. 03.06.1998, n. 252 (ed oggi dagli articoli 91 e segg. del d.lgs. 06.09.2011, n. 159, recante il Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione), costituisce una misura preventiva volta a colpire l'azione della criminalità organizzata impedendole di avere rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione;
- l’interdittiva, trattandosi di una misura a carattere preventivo, prescinde dall'accertamento di singole responsabilità penali nei confronti dei soggetti che, nell’esercizio di attività imprenditoriali, hanno rapporti con la pubblica amministrazione e si fonda sugli accertamenti compiuti dai diversi organi di polizia valutati, per la loro rilevanza, dal Prefetto territorialmente competente;
- tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità che può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati;
- la misura interdittiva, essendo il potere esercitato espressione della logica di anticipazione della soglia di difesa sociale, finalizzata ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto alle attività della criminalità organizzata, non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certi sull'esistenza della contiguità dell’impresa con organizzazione malavitose, e quindi del condizionamento in atto dell'attività di impresa, ma può essere sorretta da elementi sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti elementi del pericolo che possa verificarsi il tentativo di ingerenza nell’attività imprenditoriale della criminalità organizzata;
- anche se occorre che siano individuati (ed indicati) idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o possibili collegamenti con le organizzazioni malavitose, che sconsigliano l’instaurazione di un rapporto dell’impresa con la pubblica amministrazione, non è necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, potendo l’interdittiva fondarsi su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario e con l’ausilio di indagini che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo;
- il mero rapporto di parentela con soggetti risultati appartenenti alla criminalità organizzata di per sé non basta a dare conto del tentativo di infiltrazione (non potendosi presumere in modo automatico il condizionamento dell’impresa), ma occorre che l’informativa antimafia indichi (oltre al rapporto di parentela) anche ulteriori elementi dai quali si possano ragionevolmente dedurre possibili collegamenti tra i soggetti sul cui conto l’autorità prefettizia ha individuato i pregiudizi e l’impresa esercitata da loro congiunti;
- gli elementi raccolti non vanno considerati separatamente dovendosi piuttosto stabilire se sia configurabile un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l’esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata.

Al riguardo, si deve ricordare che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Sezione (fra le tante n. 4663 del 03.09.2012, n. 1068 del 23.02.2012):
- l'interdittiva prefettizia antimafia cd. interdittiva antimafia "tipica", prevista dall’art. 4 del d.lgs. n. 490 del 1994 e dall’art. 10 del D.P.R. 03.06.1998, n. 252 (ed oggi dagli articoli 91 e segg. del d.lgs. 06.09.2011, n. 159, recante il Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione), costituisce una misura preventiva volta a colpire l'azione della criminalità organizzata impedendole di avere rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione;
- l’interdittiva, trattandosi di una misura a carattere preventivo, prescinde dall'accertamento di singole responsabilità penali nei confronti dei soggetti che, nell’esercizio di attività imprenditoriali, hanno rapporti con la pubblica amministrazione e si fonda sugli accertamenti compiuti dai diversi organi di polizia valutati, per la loro rilevanza, dal Prefetto territorialmente competente;
- tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità che può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati;
- la misura interdittiva, essendo il potere esercitato espressione della logica di anticipazione della soglia di difesa sociale, finalizzata ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto alle attività della criminalità organizzata, non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certi sull'esistenza della contiguità dell’impresa con organizzazione malavitose, e quindi del condizionamento in atto dell'attività di impresa, ma può essere sorretta da elementi sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti elementi del pericolo che possa verificarsi il tentativo di ingerenza nell’attività imprenditoriale della criminalità organizzata;
- anche se occorre che siano individuati (ed indicati) idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o possibili collegamenti con le organizzazioni malavitose, che sconsigliano l’instaurazione di un rapporto dell’impresa con la pubblica amministrazione, non è necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, potendo l’interdittiva fondarsi su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario e con l’ausilio di indagini che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo;
- il mero rapporto di parentela con soggetti risultati appartenenti alla criminalità organizzata di per sé non basta a dare conto del tentativo di infiltrazione (non potendosi presumere in modo automatico il condizionamento dell’impresa), ma occorre che l’informativa antimafia indichi (oltre al rapporto di parentela) anche ulteriori elementi dai quali si possano ragionevolmente dedurre possibili collegamenti tra i soggetti sul cui conto l’autorità prefettizia ha individuato i pregiudizi e l’impresa esercitata da loro congiunti;
- gli elementi raccolti non vanno considerati separatamente dovendosi piuttosto stabilire se sia configurabile un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l’esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata.
A ciò si deve aggiungere che gli accertamenti preventivi sulla non permeabilità dell’impresa alla malavita organizzata devono essere effettuati in modo particolarmente rigoroso nei casi in cui, come nella fattispecie, è richiesta l’erogazione di contributi pubblici (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 05.02.2014 n. 570 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

SICUREZZA LAVOROIl datore di lavoro è sempre responsabile degli infortuni sui luoghi di lavoro?
Ancora una sentenza in materia di infortuni sui luoghi di lavoro ed eventuali responsabilità del datore di lavoro.

Questa è la volta della Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la sentenza 04.02.2014 n. 2455, relativa all’infortunio di un dipendente precipitato durante il montaggio di un ponteggio per non aver utilizzato i dispositivi di protezione individuale fornitogli, seppur non idonei alle lavorazioni svolte.
In base a quanto stabilito dai giudici, il datore di lavoro è responsabile dell’accaduto in quanto ha l’obbligo di adottare tutte le misure di sicurezza e di vigilare sulla effettiva applicazione delle stesse, al fine di evitare che i dipendenti operino senza le precauzioni necessarie a garantire la loro sicurezza.
In definitiva, il datore di lavoro che non sia in grado di dimostrare di aver ottemperato ai predetti obblighi è comunque responsabile degli eventuali infortuni dei propri dipendenti (tratto da www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non si può installare la cabina elettrica senza verificare i rischi per i condomini.
Quella cabina elettrica non s'ha da fare, almeno per ora. Stop all'esproprio di parte del giardino condominiale chiesto dalla compagnia di distribuzione dell'energia e ordinato dall'amministrazione per installare d'imperio il manufatto senza però verificare la pericolosità delle onde elettromagnetiche per i residenti e i rischi di cedimento che possono derivare dalla friabilità del terreno.

È quanto emerge dalla sentenza 04.02.2014 n. 1360, pubblicata dalla III Sez. del TAR Lazio-Roma.
Precauzioni stile Ue
Vittoria del condominio: sbaglia la provincia a sottovalutare il progetto dell'azienda che vuole installare nel giardino una cabina della potenza 20 kv: è il trattato Ue che impone l'applicazione del principio di precauzione secondo cui, ogni qual volta non siano conosciuti con certezza i rischi indotti da un'attività potenzialmente pericolosa, l'azione dei pubblici poteri debba tradursi in una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche, anche nei casi in cui i danni siano poco conosciuti o solo potenziali.
E deve ricordarsi che l'impianto di condutture elettriche deve essere sempre eseguito in modo da riuscire il meno dannoso possibile al fondo servente: quando la struttura è destinata a gravare su di un fondo privato la pubblica amministrazione deve innanzitutto valutare se non può essere realizzata altrove, magari su terreno demaniale.
E in effetti la vecchia cabina era stata spostata in strada proprio perché il terreno su cui deve oggi sorgere il manufatto già in passato si è mostrato inaffidabile, costringendo la compagnia elettrica a spostare la centrale altrove. Non risultano soddisfacenti quindi le osservazioni della compagnia elettrica secondo le quali per la realizzazione del manufatto destinato a ospitare la cabina saranno utilizzare le stesse fondazioni utilizzate per la realizzazione dell'immobile di proprietà del condominio. E ciò anche se il progetto presentato dall'azienda prevede il consolidamento strutturale dei muri perimetrali.
Tutto da rifare, insomma, per il procedimento che ha dichiarato la pubblica utilità dell'opera, che risulta illegittimo per illogicità e irragionevolezza. Spese compensate (articolo ItaliaOggi del 14.03.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Certificato di abitabilità manca? Sì al recesso dal preliminare
Nella vendita di immobile destinato ad abitazione, il certificato di abitabilità costituisce requisito giuridico essenziale del bene compravenduto poiché vale a incidere sull'attitudine del bene stesso ad assolvere la sua funzione economico-sociale, assicurandone il legittimo godimento e la commerciabilità.
Pertanto, il mancato rilascio della licenza di abitabilità integra inadempimento del venditore per consegna di aliud pro alio, adducibile da parte del compratore in via di eccezione, ai sensi dell'art. 1460 cod. civ., o come fonte di pretesa risarcito ria per la ridotta commerciabilità del bene, a meno che egli non abbia espressamente rinunciato al requisito dell'abitabilità o esonerato comunque il venditore dall'obbligo di ottenere la relativa licenza.

Questo principio di diritto, già formulato in precedenza, viene confermato dalla II Sez. sezione civile della Corte di Cassazione con la sentenza 14.01.2014 n. 629 e vale a testimoniare la costanza dell’orientamento giurisprudenziale in materia di compravendita qualora vi sia carenza del certificato di abitabilità. Nel caso di specie, due venditori ricorrono in cassazione per contestare la sentenza adottata dai giudici di merito che li vedono gravemente inadempienti nei confronti dell’acquirente di un immobile non avendogli rilasciato il certificato di abitabilità dello stesso.
Quest’ultimo si configura come requisito essenziale del bene oggetto di compravendita in quanto idoneo ad incidere sull’attitudine del bene stesso ad assolvere la sua funzione economico-sociale. La mancata consegna dello stesso costituisce inadempimento da parte dei promittenti alienanti, giustificando il recesso dal contratto. Da chiarire che, al contrario, il giudice di prime cure aveva dichiarato legittimo il recesso degli attori dal contratto preliminare per il grave inadempimento del convenuto, con diritto a trattenere a titolo di risarcimento danni la somma ricevuta a titolo di caparra confirmatoria.
Infatti, il Tribunale territoriale riteneva che dalla documentazione allegata, emergeva con tutta evidenza l’adempimento da parte dei promittenti venditori alle obbligazioni assunte con il contratto preliminare. Come si è visto, in sede di Cassazione, gli Ermellini ritengono essenziale il certificato di abitabilità precisando che la mancata consegna non può essere superata neppure dalla circostanza –pur opposta dai ricorrenti– che oggetto della compravendita fossero un complesso di beni, posto che l’assenza del certificato riguardava la parte del complesso di beni più significativa sul piano economico e sul piano funzionale rispetto al contratto.
Secondo il Palazzaccio a nulla rileva la circostanza di una precedente vendita e dell’affermata commerciabilità del bene, anche con riguardo alla Convenzione urbanistica stipulata dal Comune con il costruttore dell'immobile. Ciò in quanto –come si legge nella sentenza- la precedente vendita non impedisce di valutare la situazione esistente al momento della stipula del secondo atto, sia in quanto la convenzione col Comune non poteva derogare alla normativa generale, anche tenuto conto del notevole lasso di tempo intercorso durante il quale non risulta comunque intervenuta tale certificazione.
Da qui il rigetto del ricorso con la condanna alle spese di giudizio (link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATA: Certificato di abitabilità, mancata consegna: risarcimento si prescrive in 10 anni.
Il diritto al risarcimento del danno, anche quando viene azionato per effetto della mancata realizzazione di un diritto indisponibile, conservando la propria autonomia rispetto al diritto originario, non ne assume il carattere della indisponibilità ed è, pertanto, soggetto alla prescrizione decennale di cui all'art. 2934 c.c.
Di conseguenza il diritto dell'acquirente all'indennizzo da mancato rilascio del certificato di abitabilità si prescrive decorso il termine di dieci anni dalla stipula del contratto o dalla fissazione da parte del giudice di un diverso termine per adempiere (1).

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(*) Riferimenti normativi: artt. 1381, 1453, 1477 e 2934, comma 2 c.c.
(1) In senso conforme alla massima si veda Cass. Civ., SS.UU., sentenza n. 1744/1975; Cass. Civ., sentenza n. 3921/1982; Cass. Civ., sentenza n. 4317/1981, Cass. Civ., sentenza n. 2197/1978 e Cass. Civ., sentenza n. 26509/2006.
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Il diritto al risarcimento del danno, anche quando viene azionato per effetto della mancata realizzazione di un diritto indisponibile, conservando la propria autonomia rispetto al diritto originario, non ne assume il carattere della indisponibilità ed è, pertanto, soggetto alla prescrizione decennale di cui all'art. 2934 c.c..
E’ questo il principio di diritto ribadito dalla Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 21.09.2011 n. 19204.
Nel caso di specie, dopo l’acquisto di un appartamento da parte di due coniugi, la società venditrice si impegnava a rendere nel più breve tempo possibile il certificato di abitabilità dell’immobile. Il certificato, tuttavia, non risultava mai consegnato, costringendo i due coniugi a proporre ricorso, dopo quattordici anni dall’avvenuta vendita,contro la società per la condanna al pagamento del risarcimento dei danni. La società chiedeva il rigetto della domanda per sopravvenuta prescrizione del diritto per decorso del termine decennale.
I giudici di merito, in entrambi i gradi di giudizio, condannavano al convenuta al risarcimento, rilevando che il diritto ad ottenere il certificato di abitabilità è diritto indisponibile e, pertanto, anche il diritto al risarcimento che scaturisce dalla mancata consegna del certificato è indisponibile e quindi non soggetto a prescrizione.
I giudici di Piazza Cavour confermano l’assunto di quelli di merito articolando l’elaborazione della figura della indisponibilità del diritto. In particolare, si legge nella sentenza, essa costituisce una qualificazione secondaria di determinati diritti soggettivi in funzione di rafforzamento della tutela ad essi apprestata dall'ordinamento giuridico, il quale ne vieta la negoziabilità preventiva per sottrarre la parte più debole alle pressioni del contraente economicamente più attrezzato.
La sua funzione – proseguono gli ermellini - di precipuo stampo garantistico, non esclusa dal concorso con esigenze di più ampia protezione, inerenti non alle posizioni singole, ma alla collettività nel suo insieme, si esaurisce, non potendo altrimenti esplicarsi, allorché il diritto abbia subito una compromissione irretrattabile, sia per la lesione diretta arrecatagli, sia per l'inadempimento di un'obbligazione corrispondente, sia perché sia mancato il fatto del terzo necessario a soddisfare il diritto stesso.
Ne deriva il sorgere di una diversa obbligazione risarcitoria o indennitaria a carattere succedaneo, essa stessa soggetta a un proprio termine di prescrizione, decorrente, ai sensi dell'art. 2935 c.c., dal momento in cui il diritto può essere fatto valere, e non assistita dal carisma di indisponibilità che presidiava la tutela del diritto leso o insoddisfatto.
Nel caso de quo il mancato rilascio del certificato di abitabilità costituisce inadempimento contrattuale, sia perché trattasi di obbligazione connaturata alla natura abitativa dell’immobile sia perché la parte venditrice si è contrattualmente obbligata a fornire, in favore della parte acquirente, nel minore tempo possibile, il certificato di abitabilità. Scaduto tale termine, come accertato dalla Corte d'appello con statuizione implicita, deve escludersi che l'inadempimento abbia carattere permanente, essendo la permanenza categoria omogenea all'illecito, con conseguente immediata decorrenza del termine di prescrizione del diritto succedaneo al risarcimento o all'indennizzo per il mancato rilascio della certificazione di abitabilità.
Ponendosi il problema del termine da cui far decorrere la prescrizione, la Cassazione precisa che nel contratto le parti non avevano individuato un termine determinato o determinabile. Correttamente il giudice di merito ha superato la questione individuando il termine iniziale nel momento stesso della stipula del contratto di vendita. Pertanto, essendo decorsi più di quattordici anni dalla conclusione del contratto di vendita a quella di introduzione della domanda e comunque ben più di dieci anni al netto del termine ("il più breve possibile") contrattualmente fissato per il rilascio del certificato di abitabilità, il diritto azionato deve ritenersi prescritto, con conseguente rigetto della domanda (link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATA: Manca il certificato di abitabilità? La locazione può comunque salvarsi. Il contratto di locazione non è sempre “legato” al certificato di abitabilità.
La mancanza delle autorizzazioni o concessioni amministrative che condizionano la regolarità dell'immobile sotto il profilo edilizio, ed in particolare la sua abitabilità e la sua idoneità all'esercizio di attività commerciale, costituisce inadempimento del locatore che giustifica la risoluzione del contratto ai sensi dell'art. 1578 cod. civ..
Così la sentenza 07.06.2011 n. 12286 della Suprema Corte di Cassazione, Sez. III civile, in materia.
Con questa sentenza i giudici della Corte hanno precisato che il locatore ha senz’altro diritto all’ottenimento del certificato di abitabilità; ma non è così “pacifico” che la mancanza di tale documentazione possa essere di ostacolo alla valida costituzione del rapporto di locazione, nel caso in cui il conduttore ne fosse stato a conoscenza o, comunque, se lo stesso abbia utilizzato il bene secondo la destinazione d’uso convenuta.
Un cenno al documento di cui trattasi appare d’obbligo; il certificato (o licenza) di abitabilità, che viene rilasciato dal comune in base al D.P.R. 22.04.1994, n. 425, ha una duplice funzione: da un lato attestare l’idoneità dell'immobile ad essere adibito ad uso abitativo, previa valutazione della sua conformità agli standards minimi di stabilità, sicurezza ed igiene degli edifici (sul punto cfr. Cass. pen., 13.12.1996, n. 4311, in Dir. pen. e processo, 1998, 215 e ss.); dall’altro quella di garantire l’idoneità dell’immobile ad assolvere una determinata funzione economico sociale e quindi a soddisfare in concreto i bisogni che hanno indotto l’acquirente ad effettuare l’acquisto (cfr. Cass., 10.06.1991, n. 6576, in Giust. civ., 1992, I, 1333 e ss.).
In linea di principio, secondo il pensiero dei giudici di legittimità nella decisione in oggetto, in tema di locazione di immobili, la mancanza delle concessioni amministrative o delle autorizzazioni (che condizionano la regolarità dello stesso immobile sotto il profilo edilizio) costituisce inadempimento del locatore; un simile comportamento giustifica, quindi, la risoluzione del contratto ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 1578 del codice civile, a meno che il conduttore, come sopra evidenziato, non sia a conoscenza della situazione e non l’abbia, pertanto, conseguentemente accettata.
In base a quanto precisato dalla Corte nella sentenza che qui si commenta, è irrilevante la circostanza secondo cui il conduttore abbia proposto, poi, domanda di concessione in sanatoria; la domanda di risoluzione del contratto può essere proposta solo dopo che il provvedimento autorizzatorio sia stato definitivamente negato solo quando il conduttore sia a conoscenza della situazione dell’immobile alla data della conclusione del contratto oppure ne abbia accettato il rischio, non dichiarando l’uso al quale intende destinare i locali o, ancora, manifestando l’intenzione di voler accettare l’immobile nello stato di fatto e di diritto nel quale si trova.
Le eccezioni da parte del conduttore possono concernere vizi che portano alla diminuzione, in modo apprezzabile, della idoneità del bene all’uso protetto, salvo che si tratti di vizi a lui noti o, comunque, facilmente conoscibili.
In definitiva, la mancanza del rilascio delle concessioni relative alla destinazione d’uso di un bene non può, quindi, essere di ostacolo alla valida costituzione del rapporto locatizio purché vi sia stata concreta utilizzazione del bene, da parte del conduttore, secondo la destinazione d’uso convenuta (link a www.altalex.com).

AGGIORNAMENTO ALL'11.03.2014

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UTILITA'

SICUREZZA LAVOROSicurezza sui luoghi di lavoro, la guida agli obblighi e alle sanzioni per datori di lavoro e lavoratori.
Gli adempimenti in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro previsti dal D.Lgs. 81/2008 e s.m.i. in capo al datore di lavoro e ai lavoratori sono davvero numerosi: basti pensare che per una media impresa gli obblighi per il solo datore sono oltre 300.
Al fine di avere una visione unitaria di tutti gli adempimenti e delle sanzioni previste, l’EBINTER (Ente BIlaterale Nazionale TERziario) ha pubblicato una guida utile ai professionisti, responsabili della sicurezza, datori di lavoro e lavoratori.
La pubblicazione, per ciascun soggetto coinvolto, fornisce:
i principali adempimenti e obblighi normativi, come ad esempio:
- procedure di gestione della prevenzione
- valutazione dei rischi
- istituzione del servizio di prevenzione e protezione
- formazione, informazione ed addestramento dei lavoratori, dalla sorveglianza sanitaria fino alla gestione delle emergenze
le modalità di espletamento degli adempimenti e i riferimenti alla modulistica opportuna
la frequenza di aggiornamento della modulistica
le sanzioni previste
All’interno del manuale sono inoltre presenti:
esempi pratici
modulistica di riferimento
questionari
check-list (06.03.2014 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATAAPE e obblighi correlati. Il nuovo Speciale di BibLus-net dopo la Legge di conversione del Decreto Destinazione Italia.
Dopo il grande successo dello Speciale di BibLus-net sull’APE e i relativi obblighi connessi (dotazione, allegazione e inserimento della clausola nei contratti di trasferimento/locazione), proponiamo ai lettori la versione aggiornata del documento (marzo 2014), coordinata con le modifiche introdotte dalla Legge 9/2014 di conversione del Decreto Destinazione Italia.
Nel documento sono presenti anche le tabelle sinottiche aggiornate con obblighi e sanzioni previste nei vari casi possibili e un’appendice normativa con tutte le Leggi intervenute in materia (06.03.2014 - link a www.acca.it).

INCARICHI PROGETTUALIParametri-bis, disponibile la guida per il calcolo dei compensi professionali dei geologi.
Dal 21.12.2013 è in vigore il Decreto “Parametri-bis” per il calcolo dei corrispettivi da porre a base di gara nelle procedure di affidamento di contratti pubblici dei servizi relativi all’architettura ed all’ingegneria di cui al Decreto Legislativo 12.04.2006, n. 163.
Al riguardo, l’Ordine dei Geologi ha pubblicato la guida per una corretta determinazione delle aliquote di incidenza relative a servizi di geologia.
Sulla base di alcuni esempi di calcolo e delle disposizioni presenti nel Decreto, vengono determinati i parametri di incidenza (parametro “Q”) da utilizzare per il calcolo delle prestazioni relative ai servizi di geologia.
Il parametro “Q”, relativo alla specificità della prestazione, è individuato per ciascuna categoria d’opera (06.03.2014 - link a www.acca.it).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Il foglio dei lavoratori della Funzione Pubblica (CGIL-FP di Bergamo, febbraio 2014).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ATTI AMMINISTRATIVI: Linee guida sull'applicazione dell'art. 28 del decreto legge 21.06.2013 n. 69 - Indennizzo da ritardo nella conclusione dei procedimenti ad istanza di parte (direttiva 09.01.2014).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 11 del 10.03.2014, "Nuova procedura Barch regionale - Legge 09.12.1989 n. 13 e legge regionale 20.02.1989 n. 6 – Disposizioni in merito al fabbisogno statale 2014 e al fabbisogno statale 2015" (comunicato regionale 04.03.2014 n. 26).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 11 del 10.03.2014, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei Tecnici competenti in Acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 28.02.2014, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 04.03.2014 n. 25).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI: G.U. 06.03.2014 n. 54 "Disposizioni urgenti in materia di finanza locale, nonché misure volte a garantire la funzionalità dei servizi svolti nelle istituzioni scolastiche" (D.L. 06.03.2014 n. 16).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOGli enti non possono riassumere il personale trasferito alle partecipate.
Illegittimo il riassorbimento automatico del personale ex comunale dipendente da società partecipate che l'ente abbia deciso di mettere in liquidazione, reinternalizzando i servizi.

La Corte dei Conti, Sez. regionale di controllo della Lombardia, col parere 18.02.2014 n. 76, «gela» gli enti locali sulla possibilità di riacquisire il personale a suo tempo trasferito in società partecipate costituite per la gestione di alcuni servizi, laddove rivedendo la decisione stabiliscano di riacquisirli e svolgerli direttamente, senza più l'operato della partecipata.
Il parere osserva che gli enti locali sono tenuti a rispettare tutti i vincoli e limiti alla spesa posti dalla normativa vigente, anche nel caso della reinternalizzazione dei servizi, dal momento che la «riassunzione» del personale a suo tempo trasferito finisce per essere, sostanzialmente, una nuova assunzione. Dunque, occorre il rispetto del rapporto tra spesa di personale e totale della spesa corrente, che risulti inferiore al 50% e in costante riduzione; allo stesso modo, è necessario che l'ente interessato effettui le nuove assunzioni nel limite del 40% del costo delle cessazioni avvenute l'anno precedente. Ovviamente, occorre anche il rispetto del patto di Stabilità.
Non sono accoglibili escamotage, per superare questi vincoli, i quali di fatto non consentono il pieno riassorbimento del personale ex comunale trasferito alle partecipate, come quelli proposti dal comune che ha sollecitato con un quesito l'intervento della magistratura contabile. L'idea proposta è stata quella di considerare il transito dei dipendenti ex comunali dalla partecipata liquidata al comune come una mobilità, il che avrebbe consentito di ritenere neutra la manovra, sul piano finanziario.
Il no della Corte dei conti è secco. I limiti alle assunzioni sono un vincolo di finanza pubblica non suscettibile di deroghe interpretative. Per altro, l'ipotesi della mobilità, oltre a contrastare con i vincoli si pone in chiaro contrasto con l'assetto normativo che, per effetto della legge di stabilità per l'anno 2014 (legge 147/2013), in modo molto più chiaro impedisce l'osmosi tra personale delle partecipate e gli enti locali.
Infatti, l'articolo 1, comma 563 della legge 147/2013 vieta espressamente processi di mobilità, cioè di trasferimenti, tra le società controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni e le pubbliche amministrazioni stesse.
Né, prosegue la Corte dei conti, è possibile «gonfiare» la spesa di personale, includendo quella delle partecipate, da consolidare solo nei limiti imposti dalla legge, per la verifica finanziaria del rispetto del rapporto col totale della spesa corrente (articolo ItaliaOggi del 07.03.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONelle partecipate vincoli «flessibili». Società. Le istruzioni della Corte dei conti sui tetti ai costi.
Le società partecipate non sono assoggettate direttamente ai vincoli di assunzione e retributivi in materia di personale previsti per le amministrazioni locali controllanti, ma devono rispettare i limiti stabiliti dagli stessi enti soci mediante specifici atti di indirizzo.

La sezione regionale di controllo per la Lombardia della Corte dei Conti ha analizzato la portata delle nuove disposizioni in materia di società partecipate introdotte dalla legge n. 147/2013 (legge di stabilità), valutando in particolare la situazione delle società in house in materia di limiti riferiti al reclutamento di risorse umane.
Nel parere 23.01.2014 n. 28 la Corte evidenzia come quando venga in gioco il tema del contenimento degli oneri contrattuali e delle altre voci di natura indennitaria e retributiva per una società che gestisce servizi pubblici locali a rilevanza economica, assume rilievo il quarto periodo dell'articolo 18, comma 2-bis della legge n. 133/2008 nella nuova formulazione determinata dalla legge di stabilità 2014.
La disposizione sembra peraltro porsi come autonoma rispetto ai tre periodi precedenti, riferiti alle società partecipate, però comprese nell'elenco Istat, avendo quindi una portata molto ampia.
Di conseguenza, ai dipendenti di tali società non si applicano più direttamente i vincoli, ma nonostante ciò la spesa per il personale dei dipendenti della società concorre al rispetto dei vincoli di finanza pubblica imposti all'ente locale.
La Corte dei conti evidenzia quindi come spetti all'ente locale socio, nell'ambito dei poteri di direzione e controllo assicurare il rispetto del vincolo di spesa per il personale complessivamente fissato dall'articolo 76, comma 7, della legge n. 133/2008, nonché assicurare che consolidando la spesa per il personale della società partecipata a quella dell'ente locale vengano raggiunti i risultati di contenimento della dinamica retributiva individuale e complessiva del personale.
Il particolare percorso di regolazione viene esteso dal comma 559 dell'articolo 1 della legge n. 147/2013 a tutte le società in house, mediante la sua riproposizione nel comma 6 dell'articolo 3-bis della legge n. 148/2011, con rinvio dinamico al sistema delineato nell'innovato comma 2-bis dell'articolo 18.
Trattandosi di indirizzi rivolti alle società partecipate, rientrano nelle competenze del consiglio comunale, in base all'articolo 42, comma 2, lett. i), del Dlgs n. 267/2000.
La particolare rilevanza dell'atto di definizione di eventuali vincoli per le assunzioni da parte dell'ente locale viene ad essere confermata dalla Corte dei conti anche in relazione alla sua funzione propedeutica all'efficace gestione dei controlli sugli organismi partecipati, sia in funzione della linea di confronto specifico determinata dall'articolo 147-quater del Tuel sia per il necessario riscontro dell'azione delle stesse in rapporto agli equilibri di bilancio, come previsto dall'art. 147-quinquies dello stesso Dlgs 267/2000
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.03.2014).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Corte dei Conti: Il Direttore Lavori è sempre responsabile dei difetti dell’opera.
Con sentenza 03.01.2014 n. 3, la Corte dei Conti (Sez. III centrale di appello), ha stabilito un punto fermo circa la responsabilità del direttore dei lavori per l’impossibilità di fruizione di un’opera nella quale sono stati riscontrati dei vizi.
Il caso in esame riguarda la mancata fruizione di un campo sportivo per la quale il direttore dei lavori ne additava la responsabilità all’impresa appaltatrice ed al Responsabile del Procedimento. Contraddicendone la tesi, invece, la Corte dei Conti ha ritenuto responsabile il direttore dei lavori in quanto direttamente designato per la vigilanza nella corretta esecuzione dei lavori: se così non fosse, infatti, quale sarebbe il suo ruolo specifico in ordine a responsabilità?
A carico del direttore dei lavori pesa la responsabilità connessa al controllo nell’esecuzione dei lavori. I giudici asseriscono che “rientrava pienamente nei compiti in capo alla direzione lavori la vigilanza sulla corretta esecuzione dei lavori e sulla conformità qualitativa e quantitativa dei materiali utilizzati, ed i fatti dimostrano chiaramente che ciò non è avvenuto e che, di conseguenza, si è verificato l'evento lesivo. Competeva al direttore dei lavori verificare l'idoneità dei materiali, la rispondenza alle regole dell'arte delle modalità esecutive degli interventi e la verifica dell'adeguatezza del piano di posa” (commento tratto da www.lavoripubblici.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Complessi cimiteriali - Verifica dell'interesse culturale ai sensi del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 (MIBACT Veneto, circolare 05.03.2014 n. 16/2014).

INCARICHI PROGETTUALI: Linee di indirizzo sull’obbligo di assicurazione professionale (Centro Studi Consiglio Nazionale Ingegneri, 05.03.2014).
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Dal CNI le Linee di indirizzo sull’obbligo di stipula dell’assicurazione professionale degli ingegneri.
L’obbligo di stipulare una polizza assicurativa professionale non ricade indistintamente su tutti gli ingegneri iscritti all’Ordine, ma solo su quelli che esercitano in modo effettivo e in forma autonoma la professione, non in forza di un rapporto di lavoro dipendente.
In particolare, il professionista collaboratore che è assunto da uno studio con un contratto di lavoro subordinato non avrà alcun obbligo di stipulare una polizza personale e autonoma, in quanto le sue prestazioni rientrano all’interno della struttura organizzativa dello studio e saranno perciò coperte dall’assicurazione del titolare.
Qualora, invece, il rapporto di collaborazione si instauri secondo forme contrattuali diverse, inclusa l’attività di collaborazione con partita Iva o consulenza esterna, il professionista sarà formalmente tenuto ad attivare una formale copertura assicurativa.
Questi sono alcuni dei chiarimenti forniti dal Centro Studi del Consiglio nazionale degli ingegneri (CNI) nella pubblicazione “Linee di indirizzo sull'assicurazione professionale”.
Il documento, proposto in allegato, cerca di fornire una risposta ai seguenti quesiti:
che natura ha e quali caratteristiche presenta l’obbligo di assicurazione per responsabilità civile professionale?
l’obbligo di assicurazione ricade su tutti i professionisti ingegneri iscritti all’Albo?
i professionisti ingegneri che operano in qualità di dipendenti di pubbliche amministrazioni, enti pubblici o aziende private sono quindi esonerati dall’obbligo?
nel caso in cui un ingegnere svolga la propria attività professionale esclusivamente in qualità di collaboratore o di consulente di uno studio professionale, sarà esonerato dall’obbligo assicurativo?
gli ingegneri che svolgono la professione in qualità di soci di società di ingegneria o di professionisti hanno l’obbligo di assicurarsi personalmente o è sufficiente la copertura assicurativa della società?
è necessario stipulare una polizza per responsabilità civile professionale anche per lo svolgimento di attività che non rientrano tra quelle riservate in via esclusiva ai professionisti ingegneri?
Il CTU è obbligato a stipulare una polizza per responsabilità civile professionale?
è necessario stipulare una polizza per responsabilità civile professionale per lo svolgimento di attività di docenza, a carattere continuativo od occasionale, o di attività di ricerca? (06.03.2014 - link a www.acca.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: DECRETO-LEGGE 30.12.2013, N. 150, COME MODIFICATO DALLA LEGGE DI CONVERSIONE 27.02.2014, N. 15, RECANTE «PROROGA DI TERMINI PREVISTI DA DISPOSIZIONI LEGISLATIVE» IN GAZZETTA UFFICIALE N. 49 DEL 28.02.2014 - NORME DI INTERESSE DEGLI ENTI LOCALI (ANCI, nota febbraio 2014).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G. Aiello, Regione Campania: la gestione dei rifiuti provenienti dai lavori edili ed il rilascio dei titoli abilitativi da parte dei comuni. L’istituzione del registro delle aree interessate da abbandono e rogo di rifiuti (05.03.2014 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: A. Verderosa, La attualità dell’art. 9, DM 1444/1968 in materia di distanza tra edifici e dalle strade (04.03.2014 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: L. Prati, Le responsabilità dell’Amministrazione e dei funzionari nell’ambito del procedimento amministrativo diretto all’individuazione del soggetto responsabile per la bonifica (03.03.2014 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: S. Amorosino, Autorizzazioni paesaggistiche: se la sopraintendenza non fa pervenire il parere entro il termine la regione, o l’ente locale, deve provvedere (Urbanistica e appalti n. 3/2014).

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Savatteri, Il risarcimento del danno da ritardo nel rilascio del titolo edilizio (Urbanistica e appalti n. 3/2014).

APPALTI: P. Amovilli, Obbligatorietà delle convenzioni Consip e nullità del contratto (Urbanistica e appalti n. 3/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: S. Maglia, I rifiuti pericolosi e le voci a specchio: come classificarli correttamente? (28.02.2014 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: M. Grisanti, I funzionari e i tecnici comunali rispondono, mediante concorso da esterni, nei reati di edificazione e lottizzazione abusiva. E perché non anche per truffa contrattuale e risarcimento del danno? (nota a Cass. penale, Sez. III, n. 7765/2014 – nonché a Cass. penale, Sez. III, n. 5912/2014) (28.02.2014 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: M. Sanna, Classificazione dei rifiuti e Codici CER. La Decisione 2000/532/CE (27.02.2014 - link a www.industrieambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. Amendola, Imballaggi, rifiuti di imballaggi e cassazione (26.02.2014 - link a www.industrieambiente.it).

URBANISTICA: L. M. Pelusi, La destinazione urbanistica a verde privato come vincolo meramente conformativo della proprietà rispetto alla tutela ambientale (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.12.2012 n. 6656) (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2013).

APPALTI - ENTI LOCALI: A. V. Castorina, Il principio di concorrenza come limite agli accordi tra pubbliche amministrazioni (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 08.04.2013 n. 3517) (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2013).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: F. Spada, Le disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi di cui al D.lgs. n. 39/2013 (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2013).

APPALTI: A. V. Castorina, L’onere della prova in tema di illegittima aggiudicazione di appalti pubblici e il recente orientamento della Corte di Giustizia (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.11.2012 n. 5686) (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2013).

APPALTI: C. Trecroci, Il risarcimento del danno per equivalente da aggiudicazione illegittima. Osservazioni in materia di decadenza dell’azione di condanna, prescrizione e quantum risarcibile (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2013).

PUBBLICO IMPIEGO: S. Bini, Il mobbing: tra tutela delle condizioni di lavoro ed efficienza organizzativa (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 1/2013).

EDILIZIA PRIVATA: S. Ottoni, Silenzio-assenso ed ipotesi non regolate di nulla osta paesaggistico: l’interpretazione teleologica del Consiglio di Stato (nota a Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 21.06.2011 n. 3723) (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2012).

PUBBLICO IMPIEGO: V. Rago, Rimborso spese legali a pubblico dipendente ex art. 18 D.L. 67/1997  - Nel caso di specie: imputazione di concussione per fatti che esulano da fini istituzionali e assoluzione con formula parzialmente liberatoria (nota a Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.02.2013 n. 1190) (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2012).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTI: Regolamento 24.02.2014 sul procedimento per la soluzione delle controversie ai sensi dell’art. 6, comma 7, lettera n), del decreto legislativo 12.04.2006 n. 163 (link a www.autoritalavoripubblici.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: L'art. 17, co. 1, lett. a) e b), della legge 11.02.1994, n.109 e s.m. deve essere interpretato nel senso che l'attività di progettazione svolta da funzionari pubblici è attività non di libera professione, ma pur sempre professionalmente qualificata, come confermato, tra l'altro, dalla previsione del requisito dell'abilitazione all'esercizio della professione, ovvero, per i tecnici diplomati, del pregresso esercizio di analoghi incarichi.
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La disciplina contenuta nell'art. 18 della legge 11.02.1994, n. 109 e s. m. deve essere intesa nel senso che le prestazioni di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, di cui all'art. 2 della stessa legge, comportano, nel caso di progettazione interna il diritto degli stessi alla corresponsione, in aggiunta al trattamento stipendiale, della sola incentivazione prevista dall'art.18 della stessa legge quadro.
L'art. 18, co. 2-ter, della legge 11.02.1994, n.109 e s.m., nella parte in cui dispone che i dipendenti delle pubbliche amministrazioni con un rapporto di lavoro a tempo parziale non possono espletare incarichi professionali nell'ambito territoriale dell'ufficio di appartenenza, interpretato alla luce dell'esigenza di assicurare e rendere visibile la correttezza e la trasparenza dell'attività amministrativa, deve essere inteso nel senso che al dipendente a tempo definito e con orario di lavoro pari o inferiore al 50 per cento del normale, in possesso dei necessari requisiti (iscrizione all'albo e esercizio della corrispondente attività professionale), che non sia dipendente dell'amministrazione aggiudicatrice e sempre che l'incarico non debba essere espletato nell'ambito territoriale di pertinenza dell'ufficio di dipendenza, possono essere affidati incarichi di progettazione esterna, nel rispetto delle procedure concorsuali ad evidenza pubblica; lo stesso principio trova altresì applicazione per quanto riguarda il conferimento ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni dell'incarico relativo alla direzione dei lavori, salve le specifiche regole dettate dall'art. 27 della legge quadro per l'individuazione dei soggetti cui le stesse possono essere affidate (atto di regolazione 04.11.1999 n. 6 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

INCARICHI PROGETTAZIONE: Il disposto dell'art. 28, co. 4, della legge 11.02.1994, n. 109 e s.m., laddove detta la disciplina per la nomina dei soggetti ai quali affidare il collaudo, deve essere inteso nel senso che è prioritaria la scelta da parte delle amministrazioni aggiudicatrici del collaudatore nell'ambito delle proprie strutture, essendo ammissibile una deroga solo in caso di carenza di organico, accertata e certificata dal responsabile del procedimento.
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L'art. 19, co. 3, della legge 11.02.1994, n. 109 e s.m., nella parte in cui prevede la possibilità di affidare, sulla base di apposito disciplinare, le funzioni di stazione appaltante ai Provveditorati alle Opere Pubbliche od alle Amministrazioni Provinciali, rappresenta applicazione del generale divieto di ricorrere alla concessione di committenza per la realizzazione di lavori pubblici; inoltre, nel caso dell'utilizzazione da parte dei Provveditorati e delle Amministrazioni Provinciali delle prestazioni dei propri dipendenti interni, è ammissibile la devoluzione della quota di fondo di incentivazione, prevista dall'art. 18 della stessa.
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L'art. 17, co. 1, della legge 11.02.1994, n. 109 e s.m., nella parte in cui individua i soggetti ai quali possono essere richieste dalle amministrazioni aggiudicatrici e dagli altri enti aggiudicatori o realizzatori di lavori pubblici le prestazioni relative alla progettazione preliminare, definitiva od esecutiva, deve essere inteso nel senso che, come si desume dall'uso della locuzione «sono espletate», secondo un criterio di interpretazione letterale, l'elencazione dei possibili soggetti affidatari delle prestazioni di progettazione ivi contenuta è tassativa.
Il disposto dell'art. 17, co. 4, della legge 11.02.1994, n.109 e s.m., nella parte in cui è stato espunto, ad opera dell'art. 6 della legge 18.11.1998, n. 415, il riferimento alla «assoluta priorità» del ricorso all'utilizzazione dei propri uffici interni per l'espletamento delle prestazioni riguardanti la progettazione, deve essere interpretato nel senso che è venuto meno il disvalore, precedentemente contenuto nella legge 20.03.1865, all. F, e nell'art. 1 del R.D. 08.02.1923, n. 422, nei confronti dell'affidamento della progettazione a soggetti estranei all'apparato tecnico pubblico, fermo restando che si può ricorrere alla progettazione esterna solo in presenza delle specifiche e tassative situazioni di fatto individuate nell'art. 17, co. 4, della legge quadro, accertate e certificate dal responsabile del procedimento.
L'art. 17 della legge 11.02.1994, n. 109 e s.m., laddove contempla la possibilità di conferire l'incarico di progettazione esterna, deve essere inteso nel senso che il legislatore ha concepito la prestazione svolta da soggetti esterni all'apparato tecnico pubblico con riferimento a persone fisiche che individualmente, autonomamente (senza alcun vincolo di subordinazione con il committente), in modo continuativo e con assunzione in proprio dei relativi rischi, esercitano la libera professione: a siffatto principio è informata, altresì, la disciplina concernente le società di professionisti e di ingegneria, precisando in tal senso l'art. 17, co. 8, della L. 109/1994 che i professionisti, che devono espletare l'incarico, sono personalmente responsabili, prescindendosi dalla natura giuridica, individuale o collettiva, del soggetto affidatario.
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L'attività professionale di cui all'art. 17 della legge 11.02.1994, n. 109 e s. m., va individuata con riferimento alla descrizione di cui alla categoria 12, numero di riferimento PC 867, della tabella 1/A della Direttiva 92/50/CEE del 18.06.1992, recepita con il decreto legislativo 17.03.1995, n. 157 (atto di regolazione 04.11.1999 n. 6 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Il gruppo si scioglie da sé. Se dopo le dimissioni resta con un componente. Il consigliere superstite può sceglierne un altro o aderire al misto.
È possibile costituire, in corso di mandato, un nuovo gruppo consiliare formato da consiglieri che hanno revocato l'adesione a un gruppo preesistente, ai sensi del regolamento del consiglio comunale? È legittima l'iscrizione del presidente dell'originario gruppo consiliare al gruppo misto sulla base delle disposizioni del regolamento comunale?

L'art. 38, comma 2, del Tuel n. 267/2000, demanda al regolamento, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto», la disciplina del funzionamento dei consigli; pertanto, le problematiche relative alla costituzione e al funzionamento dei gruppi consiliari devono essere valutate alla stregua delle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l'ente locale si è dotato.
Il caso prospettato si inquadra nell'ambito dei possibili mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale per effetto di dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti.
Il principio generale del divieto di mandato imperativo sancito dall'articolo 67 della Costituzione, pacificamente applicabile a ogni assemblea elettiva, assicura a ogni consigliere l'esercizio del mandato ricevuto dagli elettori -pur conservando verso gli stessi la responsabilità politica- con assoluta libertà, ivi compresa quella di far venir meno l'appartenenza dell'eletto alla lista o alla coalizione di originaria appartenenza (cfr. Tar, Trentino-Alto Adige, Trento n. 75/2009).
Il regolamento del consiglio del comune in questione prevede che «quando i componenti di un gruppo costituito nel corso del mandato amministrativo si riducono ad un numero inferiore a due, il gruppo è considerato automaticamente sciolto e i consiglieri che ne facevano parte, e che non abbiano aderito entro tre giorni dallo scioglimento ad altro gruppo, vengono iscritti al gruppo misto».
Il regolamento citato dispone altresì che i consiglieri che non intendano più far parte di un gruppo possono, se raggiungono il numero minimo di due, costituire un nuovo gruppo consiliare. Possono altresì confluire nel gruppo misto, ovvero aderire ad altro gruppo già costituito. Nel caso di specie, pertanto, l'effetto dissolutorio del gruppo consiliare che, a seguito di dissociazioni avvenute nel corso del mandato, sia rimasto con un solo componente, si realizza ope legis quale conseguenza del verificarsi dei presupposti previsti dalla norma, con la conseguente iscrizione di quell'unico componente al gruppo misto qualora il medesimo non abbia aderito ad altro gruppo entro tre giorni dallo «scioglimento» del precedente gruppo di appartenenza.
Se, come nella fattispecie in esame, il presidente del gruppo consiliare originario, rimasto unico componente nello stesso, non è stato messo nella condizione di poter manifestare, entro tre giorni dallo scioglimento, la volontà di aderire ad altro gruppo, ma si è proceduto all'iscrizione automatica del medesimo al gruppo misto, spetterà all'autonoma potestà regolamentare dell'ente prevedere termini e forme di comunicazione idonee a consentire agli interessati di esercitare l'opzione prevista dalla norma suindicata o disporre correttivi e rimedi come nel caso del regolamento del consiglio comunale in questione, che attribuisce alla conferenza dei capigruppo la potestà di esaminare le controversie inerenti l'applicazione e l'interpretazione della normativa statutaria e regolamentare dell'ente (articolo ItaliaOggi del 07.03.2014).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Art. 53, comma 6, lett. f-bis, del d.lgs. 165/2001. Attività di docenza e ricerca scientifica.
La formulazione novellata della lett. f-bis) del comma 6 dell'art. 53 del d.lgs. 165/2001, che ha esteso l'esclusione dell'autorizzazione alla fattispecie dell'attività di 'docenza e ricerca scientifica', non specifica che tale attività sia diretta a dipendenti delle pubbliche amministrazioni, come invece previsto per l' 'attività di formazione'.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine all'interpretazione di alcune norme contenute in diverse disposizioni legislative.
Preliminarmente è doveroso osservare che i quesiti rappresentati sub) 1 e sub 3), concernenti il collocamento in aspettativa e l'assegnazione temporanea di dipendenti, affrontano problematiche connotate da particolare incertezza interpretativa, sulle quali non sono intervenuti, allo stato attuale, chiarimenti da parte degli organi statali deputati.
Pertanto, si è ritenuto opportuno investire delle questioni il Dipartimento della funzione pubblica, al fine di acquisire un autorevole orientamento in merito. Sarà cura dello scrivente Ufficio informare codesto Ente, non appena pervenuti i chiarimenti richiesti.
L'Ente chiede inoltre di conoscere, in ordine alla novella introdotta dal d.l. 101/2013, convertito in l. 125/2013, alla lett. f-bis) del comma 6 dell'art. 53 del d.lgs. 165/2001, la corretta interpretazione di tale modifica legislativa e, in particolare, se con riferimento alla fattispecie della 'docenza e ricerca scientifica' (svolta in regime di prestazione non di lavoro subordinato), si intenda come tale l'attività generalmente svolta presso scuole o enti sia pubblici che privati e, quindi, non necessariamente diretta a dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
La modifica apportata alla lettera f-bis) citata amplia all'attività di 'docenza e di ricerca scientifica' il particolare regime di favore che consente ai dipendenti pubblici di svolgere incarichi retribuiti anche senza conseguire la preventiva autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza.
Considerata la formulazione della predetta norma, che non contiene alcuna specificazione, sembra ragionevole ritenere che l'esclusione dall'autorizzazione riguardi qualsiasi attività didattica e di ricerca svolta nei confronti di enti pubblici o di privati
[1]. Infatti, solo la prima parte della lettera f-bis) si riferisce ad 'attività di formazione diretta ai dipendenti della pubblica amministrazione'.
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[1] Sempre che la stessa non configuri, per l'impegno richiesto, una delle incompatibilità previste dall'art. 53 del d.lgs. 165/2001 (03.03.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Art. 4, D.Lgs. n. 149/2011. Relazione di fine mandato.
L'art. 4, D.Lgs. n. 149/2011, prevede l'obbligo per comuni e province di redigere una relazione di fine mandato, da sottoscriversi dal presidente della provincia o dal sindaco non oltre il novantesimo giorno antecedente la data di scadenza del mandato.
Per esigenze di certezza nell'applicazione della norma, si ritiene che il termine cui fare riferimento per il conteggio dei 90 giorni sia quello delle ultime elezioni riferite al mandato in scadenza. In tal modo, infatti, il termine dei 90 giorni scade nella data (certa) che precede di 90 giorni la scadenza del periodo di mandato.

L'Ente, con riferimento a quanto disposto dall'art. 4, D.Lgs. n. 149/2011
[1], in ordine alla relazione di fine mandato del sindaco, chiede chiarimenti in ordine al computo dei termini per la sua redazione.
Sentito il Servizio elettorale di questa Direzione centrale, si esprime quanto segue.
L'art. 4, D.Lgs. n. 149/2011, prevede l'obbligo per comuni e province di redigere una relazione di fine mandato, al fine di garantire il coordinamento della finanza pubblica, il rispetto dell'unità economica e giuridica della Repubblica, il principio di trasparenza delle decisioni di entrata e di spesa (comma 1).
L'art. 4 richiamato precisa poi che la redazione di fine mandato, redatta dal responsabile del servizio finanziario o dal segretario generale, è sottoscritta dal presidente della provincia o dal sindaco non oltre il novantesimo giorno antecedente la data di scadenza del mandato (comma 2).
Con riferimento a quest'ultima previsione, il Comune, ricordato che il mandato del sindaco ha durata di 5 anni, chiede se il termine di 90 giorni vada calcolato con riferimento alla data delle ultime elezioni (nel caso di specie, 08.06.2009) oppure vada calcolato avuto riguardo alle data delle nuove elezioni per il rinnovo degli organi dell'amministrazione comunale.
Il conteggio nell'uno o nell'altro modo produce, indubbiamente, risultati diversi: nel primo caso, il termine per la redazione della relazione scade nella data (certa) che precede di 90 giorni la scadenza del periodo di mandato, al termine dei 5 anni; nel secondo caso, invece, posto che occorre fare riferimento alla data delle nuove elezioni, ne deriva che il termine per la redazione della relazione può retrocedere o slittare in avanti per ogni giorno, rispettivamente in meno o in più, che la data effettiva delle elezioni dovesse registrare, rispetto alla scadenza dei 5 anni dalle precedenti elezioni.
Avuto riguardo a un tanto, si ritiene, per esigenze di certezza nell'applicazione della norma di cui all'art. 4, D.Lgs. n. 149/2011, che il termine cui fare riferimento per il conteggio dei 90 giorni sia quello delle ultime elezioni riferite al mandato in scadenza (09.06.2009).
Tale posizione appare, invero, coerente con la formulazione testuale della norma che correla i 90 giorni alla scadenza del mandato (in questo caso del Sindaco), rinvenibile alla scadenza dei 5 anni dalla data delle ultime elezioni.
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[1] D.Lgs. 06.09.2011, n. 149, recante: 'Meccanismi sanzionatori e premiali relativi a regioni, province e comuni, a norma degli articoli 2, 17 e 26 della legge 05.05.2009, n. 42' (25.02.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Oneri ed incentivi ex art. 92, co. 5, D.Lgs. n. 163/2006.
Con due diverse note vengono sottoposti diversi quesiti attinenti agli incentivi ed ai compensi per collaudo statico, per collaudo tecnico-amministrativo, per l’espletamento di attività di segreteria tecnico-amministrativa unificata, in regime di convenzione con altri enti.
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Con la nota prot. n. 12970 del 05.12.2012, il Provveditorato Interregionale alle OO.PP. per la Lombardia e la Liguria fa riferimento ad una convenzione tra il medesimo Provveditorato e la Società di Gestione Expo 2015-SOGE s.p.a. per l’espletamento di attività di collaudo e di attività di segreteria tecnico-amministrativa unificata, premesso che, ai sensi dell’art. 4, comma 9, DPCM 22.10.2008, “la SOGE, sulla base di convenzioni può anche avvalersi degli uffici tecnici e amministrativi degli enti pubblici interessati e può disporre di personale comandato degli stessi”.
Il Provveditorato chiede quindi:
1) se l’incentivo alla progettazione ex art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006 possa considerarsi giuridicamente un emolumento retributivo ovvero un compenso per prestazioni occasionali, ancorché di carattere professionale, poiché prestate da dipendenti appartenenti all’Amministrazione”, tenendo presente che, ai sensi dell’art. 61, comma 9, D.L. n. 112/2008, viene riassegnato ad apposito capitolo di bilancio l’importo corrispondente al 50% dei “compensi” spettanti al dipendente pubblico per l’attività di collaudo in sede di contratti di lavori, servizi e forniture;
2) se debba ritenersi applicabile il disposto di cui all’art. 61, comma 9, D.L. n. 112/2008, in caso di erogazione dell’incentivo di cui all’art. 92 del decreto legislativo 163/2006;
3) se la convenzione stipulata fra Expo 2015 s.p.a. ed il Provveditorato Interregionale alle OO.PP. per la Lombardia e la Liguria, per effetto delle previsioni normative di cui al DPCM 22.10.2008 e ss. modificazioni, costituisca di fatto espletamento di compiti di istituto”, posto che l'espletamento di compiti di istituto rappresenta il presupposto imprescindibile per l'assegnazione degli incentivi ex art. 92, comma 5, D.Lgs. n. 163/2006.
Al riguardo si osserva quanto segue. (... continua).
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Con la nota prot. n. 16332 del 30.11.2012, il Provveditorato Interregionale alle OO.PP. per l’Emilia Romagna e le Marche fa riferimento ad una convenzione tra il medesimo Provveditorato, l’Università degli Studi di Parma ed il Comune di Parma-Assessorato ai Lavori Pubblici per la ristrutturazione ed il restauro dell’ex carcere di San Francesco, destinato ad ospitare strutture dell’ateneo parmense.
Il Provveditorato chiede dunque:
4) se, per i dirigenti delle pubbliche amministrazione, i compensi per incarichi di collaudo statico ovvero tecnico-amministrativo rientrino o meno nel trattamento economico dirigenziale, tenendo presente il principio di onnicomprensività della retribuzione spettante ai dirigenti medesimi;
5) chi debba intendersi per membro interno ovvero esterno alla stazione appaltante ai fini dell’applicazione rispettivamente degli incentivi ex art. 92, comma 5, D.Lgs. n. 163/2006, ovvero dei compensi per le attività professionali di collaudo tecnico-amministrativo, ai sensi dell'art. 90, comma 1, lett. d) e ss., D.Lgs. n. 163/2006, nonché degli articoli 210, DPR n. 554/1999, e 238, DPR n. 207/2010;
6) se, per le attività di collaudo tecnico-amministrativo svolte da dipendenti pubblici sulla base di convenzioni tra più amministrazioni, si debba fare riferimento -in deroga rispetto agli incentivi ex art. 92, comma 5, Cod. Contr. Pubbl.- alle tariffe professionali di ingegneri ed architetti, posto che, ai sensi dell’art. 120, comma 2-bis, del D.Lgs. n. 163/2006, “nell’ipotesi di carenza di organico all’interno della stazione appaltante di soggetti in possesso dei necessari requisiti, accertata e certificata dal responsabile del procedimento, ovvero di difficoltà a ricorrere a dipendenti di amministrazioni aggiudicatrici con competenze specifiche in materia, la stazione appaltante affida l’incarico di collaudatore ovvero di presidente o componente della commissione collaudatrice a soggetti esterni scelti secondo le procedure e con le modalità previste per l’affidamento dei servizi; nel caso di collaudo di lavori l’affidamento dell'incarico a soggetti esterni avviene ai sensi dell'articolo 91. Nel caso di interventi finanziati da più amministrazioni aggiudicatrici, la stazione appaltante fa ricorso prioritariamente a dipendenti appartenenti a dette amministrazioni aggiudicatrici sulla base di specifiche intese che disciplinano i rapporti tra le stesse.
Al riguardo si osserva quanto segue. ... (continua).
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Conclusivamente:
Quesito n. 1)
Se l’incentivo alla progettazione ex art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006 possa considerarsi giuridicamente un emolumento retributivo ovvero un compenso per prestazioni occasionali, ancorché di carattere professionale, poiché prestate da dipendenti appartenenti all’Amministrazione".
Nonostante abbiano natura retributiva, gli incentivi ex art. 92, comma 5, D.Lgs. n. 163/2006, non equivalgono ai compensi per attività di collaudo svolta fuori dai compiti istituzionali e dall'orario di lavoro, occasionalmente, anche dal pubblico dipendente-professionista.
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Quesito n. 2)
Se debba ritenersi applicabile il disposto di cui all’art. 61, comma 9, D.L. n. 112/2008, in caso di erogazione dell’incentivo di cui all’art. 92 del decreto legislativo 163/2006”.
La ritenuta del 50%, prevista dall’art. 61, comma 9, D.Lgs. n. 112/2008, è inapplicabile agli incentivi ex art. 92, comma 5, D.Lgs. n. 163/2006.
Gli incentivi spettano anche per l'attività di segreteria tecnico-amministrativa unificata soltanto se quest'ultima ha ad oggetto un "contributo intellettuale e materiale all'attività del responsabile del procedimento, alla redazione del progetto, del piano della sicurezza, alla direzione dei lavori ed alla loro contabilizzazione".
Occorre motivare in tal senso i provvedimenti di riconoscimento e di ripartizione degli incentivi.

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Quesito n. 3)
Se la convenzione stipulata fra Expo 2015 s.p.a. ed il Provveditorato Interregionale alle OO.PP. per la Lombardia e la Liguria, per effetto delle previsioni normative di cui al DPCM 22.10.2008 e ss. modificazioni, costituisca di fatto espletamento di compiti di istituto”.
Ai fini dell’applicazione degli incentivi ex art. 92, comma 5, D.Lgs. n. 163/2006, rientra tra i compiti di istituto l’attività di collaudo e di segreteria tecnico-amministrativo unificata, svolta dal Provveditorato Interregionale alle OO.PP. per la Lombardia e la Liguria in attuazione della convenzione con la SOGE spa, ai sensi dell’art. 5, comma 9, DPCM 06.05.2013, il quale ha abrogato il DPCM 22.10.2008.
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Quesito n. 4)
"Se, per i dirigenti delle pubbliche amministrazione, i compensi per incarichi di collaudo statico ovvero tecnico-amministrativo rientrino o meno nel trattamento economico dirigenziale, tenendo presente il principio di onnicomprensività della retribuzione spettante ai dirigenti medesimi".
Ai sensi del comb. disp. degli articoli 24, D.Lgs. n. 165/2001, e 92, comma 5, D.Lgs. n. 163/2006, in base all'orientamento del Consiglio di Stato espresso in sede consultiva, si ritiene che i pubblici dirigenti siano da escludere dall'ambito di applicazione degli incentivi ex art. 92, comma 5, cit..
Ad ogni modo, si auspica un intervento chiarificatore del legislatore ovvero l'adozione di clausole normative ad hoc in sede di contrattazione collettiva.

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Quesiti nn. 5 e 6
"Chi debba intendersi per membro interno ovvero esterno alla stazione appaltante ai fini dell’applicazione rispettivamente degli incentivi ex art. 92, comma 5, D.Lgs. n. 163/2006, ovvero dei compensi basati sulle tariffe professionali di ingegneri ed architetti per le attività di collaudo tecnico-amministrativo, ai sensi dell'art. 90, comma 1, lett. d) e ss., D.Lgs. n. 163/2006, nonché degli articoli 210, DPR n. 554/1999, e 238, DPR n. 207/2010".
"Se, per le attività di collaudo tecnico-amministrativo svolte da dipendenti pubblici sulla base di convenzioni tra più amministrazioni, si debba fare riferimento -in deroga rispetto agli incentivi ex art. 92, comma 5, Cod. Contr. Pubbl.- alle tariffe professionali di ingegneri ed architetti".
Con riferimento all’attività di collaudo statico, ovvero tecnico-amministrativo, -regolarmente autorizzata dall'amministrazione- svolta dal Provveditorato nell’ambito di una convenzione con altra amministrazione, non si esula dai compiti di istituto e si applicano gli incentivi ex art. 92, comma 5, D.Lgs. n. 163/2006, a nulla rilevando la distinzione tra collaudo statico e collaudo tecnico-amministrativo.
Tali incentivi, comunque, si applicano sempre laddove l’attività di collaudo rientra tra i compiti di istituto, ad esempio in attuazione di una convenzione stipulata dal Provveditorato in attuazione del dovere di concedere l'avvalimento.
Per converso, il pubblico dipendente-collaudatore riceve un compenso, parametrato secondo le modalità previste dal D.M. Giustizia n. 140/2012, nel solo caso residuale in cui l’attività viene espletata al di fuori delle funzioni istituzionali e dell’orario di lavoro.
Infine, l'art. 8 della Convenzione tra il Provveditorato, l'Università ed il Comune di Parma, deve essere interpretato nel senso che l'Università ed il Provveditorato concordano sulla scelta dei collaudatori o di altri professionisti tecnici esclusivamente nell'ambito dei dipendenti del Provveditorato medesimo che siano inquadrati come ingegneri-architetti
(Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2013, parere 21.12.2013 n. 513720/23 di prot.).

APPALTI: Composizione/modificazione del Raggruppamento temporaneo di imprese, ex art. 97, co. 9, Codice appalti.
Con la nota che si riscontra, codesto Ministero chiede di conoscere il parere di questo G.U. in ordine alla applicabilità del disposto di cui al comma 9 dell’art. 37 del d.lgs. 163/2006 rispetto alle sopravvenute modificazioni della composizione dell’ATI promotore finanziario, successivamente all’esperimento della procedura negoziata ai fini della aggiudicazione della concessione di cui all’oggetto, fase questa conclusasi senza l’individuazione di alcuna offerta concorrente con l’ATI promotore, e senza che sia intervenuta l’aggiudicazione provvisoria “per motivazioni non note a questa struttura di vigilanza”.
Riferisce ancora codesto Ministero che all’esito della procedura di selezione del promotore venne dichiarata di pubblico interesse “la proposta formulata dalla Prima ATI Si.”, proposta delibata positivamente dal Cipe, e, successivamente, il promotore “per poter prendere parte alla successiva fase di procedura negoziata” ha “costituito, nel rispetto delle disposizioni normative il Raggruppamento Temporaneo con l’aggiunta della M. s.p.a (di seguito Seconda ATI Si.)”.
Peraltro, nel corso della fase istruttoria posteriore all’espletamento della procedura negoziata comportante il diritto del promotore ad ottenere l’aggiudicazione della concessione di che trattasi in relazione alla già rappresentata carenza di partecipanti alla procedura stessa, il promotore (Seconda Ati Si.) “ha rappresentato la necessità di procedere ad un’ulteriore modifica della compagine del Raggruppamento Temporaneo”, in relazione alla procedura ex art. 160 e ss. della legge fallimentare che ha colpito l’Impresa S. ausiliaria di Si. s.pa.: in particolare, l’impresa Costruzioni G.M. s.p.a. non sarebbe più componente dell’ATI promotrice ma acquisirebbe il ruolo di ausiliaria di Seconda Ati Si. s.pa. in sostituzione di Impresa S., e, con nota del 01.10.2013, codesto Ministero ha trasmesso il relativo contratto di avvalimento.
In subordine, poi, rispetto al quesito dell’applicabilità al contesto del disposto dell’art. 37, comma 9, del d.lgs. 163/2006, codesta Amministrazione richiede l’avviso di questo G.U. circa “l’opportunità di procedere all’annullamento del bando relativo all’affidamento in oggetto, dato il notevole tempo trascorso e le conseguenti modifiche normative intervenute”.
Ritiene al riguardo questa Avvocatura Generale di dover rappresentare quanto segue. (... continua) (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2013, parere 05.11.2013 n. 439812 di prot.).

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APPALTIAppalti specialistici, rischio caos. Il governo fa ancora dietrofront.
Di nuovo a rischio caos gli appalti di lavori pubblici e i bandi di gara pubblicati negli ultimi due mesi: all'ultimo secondo è saltata la norma che faceva salvi gli effetti dei bandi pubblicati in base alle norme regolamentari (abrogate dal Consiglio di stato) in materia di qualificazione delle imprese di costruzioni per interventi «specialistici», che erano state fatte rivivere dal decreto «Salva-Roma bis» (dl 151/2013) poi decaduto per mancata conversione in legge.

È questa la paradossale situazione verificatasi nel giro di tre giorni e che sembrava conclusa mercoledì 5 marzo, quando il testo del decreto-legge «Salva Roma-ter», bollinato dalla Ragioneria generale dello Stato, era stato poi inviato in Gazzetta per la pubblicazione (vedi ItaliaOggi del 6 marzo).
È invece avvenuto l'ennesimo colpo di scena, nella ormai non più nascosta «guerra» fra imprese generali e imprese specialistiche, che si è concretizzato nella cancellazione della norma che, da un lato, dava sei mesi al governo per scrivere le nuove disposizioni sostitutive degli articoli 107, comma 2 e 109, comma 2 del dpr 207/2010 (con relativa revisione dell'allegato A).
Difficile sapere effettivamente quali siano state le ragioni, anche se da più parti si sosteneva che la presidenza della repubblica, nei giorni precedenti, quando la prima bozza non conteneva la norma-tampone, aveva sostenuto l'impossibilità di riproporre tal quale la norma del decreto-legge 151 non convertito dalle camere. Le conseguenze più pesanti per il mercato dei lavori pubblici sono adesso quelle connesse alla possibile attivazione di ricorsi per tutti i procedimenti attivati da inizio anno ad oggi sulla base delle norme regolamentari (art. 107, comma 2 e 109, comma 2) che, abrogate dal Consiglio di stato, erano poi state fatte rivivere dal decreto 151/2013 (Salva-Roma bis) con la sospensione degli effetti della decisione di palazzo Spada fino a settembre 2014, in attesa di un nuovo dpr che avrebbe sostituito le norme censurate dai giudici.
Sulla base di quelle due norme sono stati infatti pubblicati dei bandi e saranno anche stipulati dei contratti. È quindi immaginabile che il governo individui al più presto una nuova soluzione almeno su questo aspetto, accelerando nel contempo, la messa a punto del nuovo decreto che, comunque, all'esito della decisione del Consiglio di stato, dovrebbe essere al più presto varato anche per ridare certezza a tutti gli operatori, pubblici e privati.
Da ieri, quindi, le amministrazioni non potranno più ritenere applicabili le due norme del dpr 207/2010 la cui cancellazione era stata sospesa: la prima che consentiva all'affidatario qualificato nella sola categoria prevalente di non eseguire direttamente le opere generali rientranti nelle categorie scorporabili a qualificazione obbligatoria, individuate come tali nell'allegato A al dpr 207/2010; la seconda che, per le opere «superspecialistiche» individuate al comma 2 dell'articolo 107, permetteva all'affidatario non in possesso della relativa qualificazione di subappaltarle solo nel limite del 30% (articolo ItaliaOggi dell'08.03.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Il Mininterno sugli spettacoli dal vivo. Locali, si danza fino alle 24.
Via libera agli spettacoli dal vivo di portata minore in bar, locali ed aree aperte al pubblico fino alle ore 24 con un massimo di 200 persone previa presentazione di una scia corredata da adeguate certificazioni tecniche e nel rispetto delle disposizioni in materia di inquinamento acustico.

Lo ha chiarito il Ministero dell'Interno con il parere 27.02.2014 indirizzato alla prefettura di Ravenna.
La sostanziale liberalizzazione dei concertini, piano bar e piccoli trattenimenti anche danzanti è stata introdotta con l'art. 7 del dl 91/2013 che ha innestato modifiche nel corpo degli artt. 68 e 69 del tulps disponendo di fatto la sostituzione della licenza con una scia per gli eventi di minore portata da concludersi entro mezzanotte. Ma non sono mancate problematiche operative e per questo il comune di Ravenna ha richiesto chiarimenti al Viminale.
Innanzitutto la novella si deve applicare a qualsiasi spettacolo e trattenimento pubblico dal vivo, specifica l'importante parere, allargando di fatto la previsione anche ai piccoli trattenimenti danzanti. Ovvero agli eventi dove il pubblico può essere non solo spettatore ma anche partecipe, purché non ci sia un'affluenza superiore a 200 persone. Circa questo dato numerico, prosegue la nota, occorre fare riferimento alla oggettiva capienza dell'impianto, del locale o dell'area aperta disponibile. Molto importanti le considerazioni sulla verifica della sicurezza dei locali idonei per questo tipo di spettacoli. I requisiti di sicurezza sottesi alla manifestazione non sono stati modificati dalla novella, prosegue il ministero.
Pertanto la Scia dovrà essere corredata da tutta la documentazione normalmente richiesta per il tipo di allestimento proposto. In buona sostanza la segnalazione di inizio attività di uno spettacolo di minore portata da concludersi entro mezzanotte dovrà sempre essere corredata dalla documentazione tecnica idonea ad attestare la sicurezza dell'allestimento con piena assunzione di responsabilità da parte dell'organizzatore e dei tecnici preposti. È il caso per esempio della dichiarazione di corretto montaggio e di certificazione elettrica o di collaudo dell'impianto (articolo ItaliaOggi dell'08.03.2014).

VARIBonus mobili limitato al conto dei lavori. Incentivi. Le conseguenze della mancata conversione del primo Dl salva-Roma.
Alle spese per l'acquisto di mobili e grandi elettrodomestici, effettuate nel 2014 e detraibili dall'Irpef al 50% in 10 anni, non si applica solo il limite di 10mila euro, come previsto per il 2013, ma va considerato anche quello relativo al valore dei lavori di ristrutturazione effettuati dal 26.06.2012 al 31.12.2015. Le spese incentivate per l'arredo, infatti, «non possono essere superiori a quelle sostenute per i lavori di ristrutturazione».

È questa una delle conseguenze della mancata conversione in legge del primo decreto «salva-Roma» e della mancata inclusione di una norma ad hoc nel nuovo decreto pubblicato giovedì nella Gazzetta ufficiale n. 54.
Restano spiazzati, quindi, quei contribuenti che dal 01.01.2014 hanno pagato l'acquisto di mobili ed elettrodomestici per importi inferiori ai 10mila euro, ma superiori a quelli dei lavori edili effettuati (o da effettuare entro il 31.12.2015).
Solo per il 2014, la legge di stabilità 2014 aveva previsto che le spese per gli arredi e gli elettrodomestici potessero essere detraibili dall'Irpef al 50% nel limite di quanto pagato per le spese «sostenute per i lavori di ristrutturazione». Tre giorni dopo, il decreto «salva-Roma» aveva soppresso questa nuova condizione.
La pubblicazione in Gazzetta è avvenuta il 30.12.2013, quindi la proroga del bonus mobili per il 2014 è entrata in vigore il 01.01.2014 senza il nuovo limite di spesa. Il decreto «salva-Roma», però, non è stato convertito in legge nel termine di 60 giorni dalla sua pubblicazione, quindi risulta applicabile l'articolo 77, comma 3, della Costituzione, che in questi casi prevede la perdita della sua «efficacia sin dall'inizio», come se non fosse mai entrato in vigore.
Quindi, chi contava sul fatto che dal 01.01.2014, il decreto «salva-Roma» avesse abrogato questo limite e conseguentemente ha pagato mobili ed elettrodomestici per importi superiori a quelli pagati per i lavori non potrà beneficiare del bonus-mobili per gli importi eccedenti. Per non perdere questa detrazione potrà solo pagare entro il 31.12.2015 questa eccedenza, come lavori edili, anche in acconto di interventi da fare negli anni successivi.
Per i pagamenti effettuati dal 06.06.2013 al 31.12.2013 per l'acquisto di mobili ed elettrodomestici, spettava la detrazione del 50%, per una spesa massima di 10.000 euro, solo se erano state pagate con bonifico “parlante” spese di ristrutturazione agevolate al 50% dal 26.06.2012 al 31.12.2013. Queste ultime potevano anche essere di importi piccoli, anche se le Entrate, contrariamente alla norma, non considerano rilevanti lavori come le opere per il contenimento dell'inquinamento acustico o per il risparmio energetico, l'adozione di misure antisismiche o volte a evitare gli infortuni domestici, la realizzazione di autorimesse pertinenziali, l'eliminazione delle barriere architettoniche, la cablatura degli edifici.
Per l'agenzia, infatti, sono rilevanti solo la manutenzione straordinaria (ordinaria solo su parti comuni condominiali), il restauro e risanamento conservativo, la ristrutturazione, la ricostruzione o ripristino di immobili danneggiati da eventi calamitosi e l'acquisto di abitazioni in fabbricati completamente ristrutturati
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.03.2014).

TRIBUTI: Esenzioni, la Tasi come l'Imu. Niente tassa su terreni e aree scoperte. Le Cciaa pagano. In Gazzetta il decreto Salva Roma ter. I comuni avranno ampia libertà sulle aliquote.
Niente Tasi per le aree scoperte e per i terreni agricoli. Alla luce delle modifiche previste dal decreto legge n. 16/2014 (pubblicato sulla G.U. n. 54 di ieri), il nuovo tributo sui servizi indivisibili dei comuni colpirà solo fabbricati ed aree edificabili. Inoltre, sono state recuperate diverse esenzioni previste dalla normativa Ici ed applicabili anche all'Imu.
In base al testo originario dell'art. 1, comma 669, della legge 147/2013, il presupposto impositivo della Tasi è il possesso o la detenzione a qualsiasi titolo di fabbricati, ivi compresa l'abitazione principale, e di aree edificabili, a qualsiasi uso adibiti, ad eccezione dei terreni agricoli.
L'art. 2, comma 1, lett. f), del dl corregge tale formulazione eliminando il riferimento alle aree scoperte. Coerentemente, è stato abrogato anche il comma 670, che esentava dalla Tasi le aree scoperte pertinenziali o accessorie non operative (oltre alle aree comuni condominiali non detenute o occupate in via esclusiva): tali fattispecie, ora, sono ricomprese nella più generale esclusione che riguarda, come detto, tutti gli immobili che non siano fabbricati o aree edificabili.
Il nuovo comma 669, inoltre, esclude espressamente i terreni agricoli, anche se non collocati in comuni montani o parzialmente montani. L'esenzione dovrebbe valere anche per i terreni incolti. È ancora incerto, invece, il trattamento da riservare alle aree edificabili possedute e condotte come terreni agricoli da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali: tali immobili, che rispetto all'Imu sono equiparati ai terreni agricoli, ai fini Tasi tornerebbero ad essere aree edificabili, con conseguente (notevole) aggravio del prelievo.
Questa, almeno, è la tesi fin qui sostenuta dagli uffici ministeriali. Peraltro, il dl richiama, anche per le aree edificabili (oltre che per i fabbricati), la definizione prevista ai fini Imu, per cui si potrebbe anche sostenere la sopravvivenza dell'agevolazione. Stesso dubbio riguarda i fabbricati inagibili/inabitabili e quelli di interesse storico/artistico, che pagano l'Imu su una base imponibile ridotta del 50%.
L'art. 1, comma 3 del dl, invece, reintroduce alcune fattispecie di esenzione previste per l'Ici e per l'Imu. Si tratta, innanzitutto, degli immobili posseduti dallo Stato, nonché di quelli posseduti, nel proprio territorio, dalle regioni, dalle province, dai comuni, dalle comunità montane, dai consorzi fra detti enti, ove non soppressi, e dagli enti del Ssn, destinati esclusivamente ai compiti istituzionali.
In secondo luogo, sono estese alla Tasi le esenzioni previste dall'art. 7, comma 1, lett. b), c), d), e), f) ed i) del dlgs. 504/1992, riguardanti i fabbricati classificati o classificabili nelle categorie catastali da E/1 a E/9, i fabbricati con destinazione ad usi culturali, i fabbricati destinati esclusivamente all'esercizio del culto, i fabbricati di proprietà della Santa sede indicati negli artt. 13, 14, 15 e 16 del Trattato lateranense, i fabbricati appartenenti agli Stati esteri e alle organizzazioni internazionali, i fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili e recuperati al fine di essere destinati ad attività assistenziali e gli immobili utilizzati da enti non commerciali destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali ecc.. Per quest'ultima fattispecie, la norma precisa che l'esenzione spetta limitatamente alle parti dell'immobile utilizzato per le predette attività, secondo quanto previsto dall'art. 91-bis del dl 1/2012.
In generale, comunque, viene indirettamente confermato che le agevolazioni non espressamente richiamate non valgono in automatico per la Tasi, anche se l'ampia discrezionalità di cui godono i comuni nella modulazione del tributo consente di riprodurne gli effetti con norma regolamentare o agendo sulle aliquote. In mancanza, pagheranno il tributo, ad esempio, gli immobili delle camere di commercio (che erano esenti dall'Ici) e quelli degli enti territoriali collocati fuori dalla loro giurisdizione.
Ricordiamo, infine, che per i fabbricati rurali strumentali l'aliquota massima della Tasi è l'1 per mille (articolo ItaliaOggi del 07.03.2014).

CONSIGLIERI COMUNALI: Fine mandato, proroga al 25/3. Più tempo per gli enti al voto a maggio.
È finalmente arrivata la proroga dei termini per la presentazione della relazione di fine mandato, che concede un mese in più di tempo ai circa 4.000 comuni delle regioni a statuto ordinario che a maggio andranno al voto.

Dopo una lunga attesa, il correttivo è stato inserito nell'art. 11 del decreto legge che contiene anche le novità su Imu e Tasi. In base a tale norma, il documento andrà sottoscritto non oltre il sessantesimo giorno antecedente la scadenza del mandato e non più (come previsto finora) almeno 90 giorni prima della fine della consiliatura: la dead-line, quindi, si sposta al prossimo 25 marzo, dando un po' di respiro agli uffici.
Ricordiamo, infatti, che la relazione, prima di essere sottoscritta dal sindaco o dal presidente della provincia uscente, deve essere predisposta dal responsabile del servizio finanziario o dal segretario generale, che come gli amministratori pagano eventuali ritardi con il dimezzamento per tre mesi dei rispettivi emolumenti.
In diversi casi, peraltro, lo slittamento non basterà a rendere disponibili i dati del rendiconto 2013, da approvare entro il 30 aprile. In proposito, il Viminale ha già chiarito che occorre fare riferimento ai dati di preconsuntivo (si veda ItaliaOggi del 18.02.2014).
Come anticipato da ItaliaOggi del 20 febbraio, la nuova disciplina non si limita a questa modifica, ma riscrive completamente la tempistica degli adempimenti. L'organo di revisione avrà 15 giorni di tempo, invece che 10, per certificare il documento che nei tre giorni successivi dovrà essere trasmesso (assieme alla certificazione dei revisori) alla competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti. Entro sette giorni dalla certificazione, la relazione dovrà essere pubblicata sul sito web del comune o della provincia. In caso di scioglimento anticipato del consiglio comunale o provinciale, la sottoscrizione della relazione e la certificazione dei revisori dovranno avvenire entro 20 giorni (fino a oggi 15) dall'indizione delle elezioni.
Infine, è stato cancellato l'obbligo di trasmissione e controllo delle relazioni al (mai convocato) tavolo tecnico interistituzionale presso la conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica (articolo ItaliaOggi del 07.03.2014).

ATTI AMMINISTRATIVI: La p.a. lumaca paga sempre. Ma prima è necessario attivare il potere sostitutivo. Funzione pubblica: indennizzo anche se il ritardo dipende da caso fortuito o forza maggiore.
I danni da ritardo previsti dall'articolo 28 del decreto legge del «Fare» (il n. 69/2013), configurandosi giuridicamente come un indennizzo per la concreta inerzia della pubblica amministrazione, vanno liquidati indipendentemente se l'immobilismo della stessa p.a. sia dovuto ad un caso fortuito o a un'ipotesi di forza maggiore. L'indennizzo, infatti, prescinde da un comportamento negligente o doloso dell'amministrazione procedente ed è dovuto per il solo fatto che sono stati superati i termini che norme o regolamenti assegnano a un determinato provvedimento. Tuttavia, in caso di inerzia della p.a. è preciso interesse del soggetto privato richiedere l'intervento del titolare del potere sostitutivo entro il termine di 20 giorni dalla scadenza entro cui il provvedimento avrebbe dovuto concludersi. Se non dovesse attivarsi, infatti, perde ogni diritto a richiedere il ristoro economico per le lungaggini subite.

Queste alcune delle interessanti precisazioni che sono contenute nella
direttiva 09.01.2014 emanata dal dipartimento della funzione pubblica per chiarire i principali aspetti della norma sopra richiamata al fine di spronare le p.a. a concludere un procedimento avviato d'ufficio o a istanza di parte, prevedendo, in caso di inerzia, il pagamento di una somma di 30 euro per ogni giorno di ritardo rispetto alla naturale conclusione del termine assegnato, fino a un massimo di 2 mila euro.
Norma che, in sede di prima applicazione, viene circoscritta ai procedimenti in materia di esercizio di attività d'impresa iniziati a partire dal 21.08.2013 (data di entrata in vigore della legge di conversione del dl n. 69/2013).
La direttiva, a firma dell'allora ministro Giampiero D'Alia, precisa che il legislatore, nell'utilizzare il termine «indennizzo», ha voluto rimarcare il carattere risarcitorio del provvedimento contemperando l'esigenza di sanzionare comportamenti inerti della p.a., prevedendo forme di ristoro economico per il disagio sopportato dal privato a seguito dell'avvenuta violazione di precisi termini di legge.
Pertanto, si ritiene che l'indennizzo è dovuto anche nell'eventualità in cui la mancata emanazione del provvedimento sia riconducibile ad un comportamento «scusabile ed astrattamente lecito» dell'amministrazione procedente. Allo stesso modo, rientrano nell'alveo della disposizione sanzionatoria anche tutte quelle ipotesi in cui la violazione del termine sia da ricondurre a un caso fortuito a un'ipotesi di forza maggiore. Ipotesi queste, che non possono certo farsi ricadere sulle spalle dei cittadini.
L'ambito di applicazione della disposizione coinvolge tutte le amministrazioni pubbliche e i soggetti privati che sono preposti all'esercizio di attività amministrative e riguarda tutti i procedimenti avviati ad istanza di parte, per i quali sussiste l'obbligo della p.a. di pronunciarsi.
Ne consegue, che restano al di fuori tutte le ipotesi in cui è possibile l'esercizio del silenzio-assenso e del silenzio rifiuto, in quanto si è in presenza di un «silenzio-significativo». Per ottenere l'indennizzo, poi, la direttiva della funzione pubblica ammette che l'eventuale liquidazione deve essere preceduta dall'attivazione del potere sostitutivo presso l'autorità preposta, da parte del soggetto interessato. È lui che deve ricorrere per richiedere l'emanazione del provvedimento non adottato e, contestualmente, richiedere l'indennizzo qualora il soggetto adito non provveda nel termine assegnato.
L'istanza che sollecita l'intervento sostitutivo, a pena di decadenza, deve essere presentata entro venti giorni dal termine entro il quale il procedimento avrebbe dovuto concludersi.
Ad esempio, se un'autorizzazione deve essere rilasciata entro 60 giorni, l'autorità sostitutiva deve procedere entro 30 giorni dalla ricezione dell'istanza da parte del privato. Se non lo fa, scatta l'indennizzo (articolo ItaliaOggi del 07.03.2014).

APPALTI SERVIZIStrasburgo riconosce l'in house. La direttiva appalti ha recepito la giurisprudenza Ue. Ammessa la partecipazione dei privati a condizione che non esercitino controllo o veto.
I princìpi sanciti nel corso degli ultimi anni dalla consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee in materia di in house providing (modello organizzativo attraverso il quale le amministrazioni pubbliche possono produrre in proprio o autoprodurre beni, servizi e lavori) sono stati finalmente tradotti in un atto normativo con la recente approvazione da parte del parlamento europeo della nuova Direttiva sugli appalti pubblici.
L'in house providing nasce nel 1999 con la famosa sentenza Teckal della Corte di giustizia (causa C-107/98) e le sue peculiarità sono state progressivamente affinate nel corso del tempo dalla giurisprudenza comunitaria. Con l'approvazione della nuova direttiva sugli appalti pubblici, i princìpi affermati dalla Corte di giustizia vengono tradotti in un atto normativo che, previo recepimento, finirà per vincolare tutti gli Stati membri della Ue.
Per il nostro stato non è questione di poco conto, in considerazione del fatto che fino a poco tempo fa avevamo una normativa interna (art. 4 del dl 138/2011 e art. 4 del dl 95/2012) che permetteva il ricorso agli affidamenti in house solo in ipotesi assolutamente residuali. Solo in seguito all'intervento della Corte costituzionale (sentenza 199/2012) e all'approvazione della recente legge di stabilità 2014 (art. 1, comma 562), le limitazioni previste sono state abrogate, facendo così tornare l'in house providing ad essere un modello organizzativo a cui le amministrazioni pubbliche possono legittimamente ricorrere. E non poteva essere altro che questo l'epilogo, visto che si trattava comunque di previsioni normative in contrasto con la giurisprudenza comunitaria.
Con l'art. 12 della nuova direttiva vengono messe nero su bianco importanti precisazioni che, in futuro, renderanno ancora più attraente il modello di delegazione interorganica, con buona pace per i fautori delle privatizzazioni a ogni costo. Per apprezzare l'intervento del parlamento europeo è necessario ricordare che l'in house providing poggia su tre pilastri fondamentali: (I) il soggetto affidatario diretto deve essere a capitale completamente pubblico, (II) deve operare prevalentemente con il socio o con i soci pubblici e, infine, (III) l'ente pubblico affidante deve esercitare nei suoi confronti un controllo analogo a quello esercitato sui propri Servizi interni.
Una prima precisazione della nuova Direttiva riguarda il concetto di «prevalenza»: in pratica, la condizione viene ritenuta soddisfatta qualora oltre l'80% delle attività del soggetto affidatario in house siano effettuate nello svolgimento dei compiti ad esso affidati dall'amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche controllate dall'amministrazione aggiudicatrice.
Sul fronte della natura pubblica del soggetto affidatario, la nuova direttiva introduce una novità di rilievo stabilendo che la condizione è soddisfatta non solo quando non vi e alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ma anche, in via eccezionale, quando ci troviamo in presenza di forme di partecipazione di capitali privati, prescritte dalle disposizioni legislative nazionali in conformità dei trattati, che non comportano controllo o potere di veto, attraverso le quali non può essere esercitata alcuna influenza determinante sul soggetto affidatario in house.
Per quanto riguarda il c.d. «controllo analogo», la direttiva precisa che tale condizione risulta soddisfatta qualora l'amministrazione aggiudicatrice eserciti un'influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative dell'affidatario in house. L'attività di controllo deve quindi essere sempre più finalizzata a definire preventivamente gli obiettivi a cui l'organismo partecipato deve tendere ed a prevenire problematiche di ordine economico e finanziario, piuttosto che sulla semplice approvazione o presa d'atto dei risultati economico-finanziari della gestione, in momenti in cui, fra l'altro, non è più possibile intervenire sui singoli accadimenti gestionali. Occorre quindi esercitare un controllo di tipo «preventivo» attraverso l'adozione di strumenti di programmazione come business plan, piani industriali, bilanci di previsione annuali, ecc., e un controllo di tipo «concomitante» attraverso la revisione degli Statuti finalizzata a garantire che l'organo amministrativo dell'organismo partecipato non abbia rilevanti poteri gestionali di carattere autonomo e che il socio pubblico eserciti poteri di ingerenza e di condizionamento superiori a quelli tipici del diritto societario, così come affermato dal Consiglio di stato (sentenza n. 1447/2011).
Vengono poi risolti dalla direttiva anche i dubbi che esistevano sul concetto del c.d. «controllo analogo indiretto», in quanto la stessa prevede che il controllo possa essere esercitato anche da una persona giuridica diversa, a sua volta controllata nello stesso modo dall'amministrazione aggiudicatrice. È il caso, per esempio, delle holding di partecipazioni, che s'interpongono fra l'amministrazione aggiudicatrice e la società beneficiaria in house, o di alcuni particolari modelli organizzativi di tipo consortile, dove gli enti pubblici esercitano il controllo della società consortile non direttamente, ma attraverso le società consorziate, che a loro volta sono controllate da tali enti.
La direttiva chiarisce anche le modalità attraverso le quali le amministrazioni pubbliche in possesso di partecipazioni di minoranza possono esercitare il controllo analogo; in pratica, tali amministrazioni potranno esercitare il controllo in modo «congiunto» con le altre (così come affermato più volte dal Consiglio di stato) a condizione che: (I) gli organi decisionali dell'organismo controllato siano composti da rappresentanti di tutti i soci pubblici affidanti, ovvero, da soggetti che possano rappresentare più o tutti i soci pubblici affidanti, (II) i soci pubblici siano in grado di esercitare congiuntamente un'influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative dell'organismo controllato, (III) l'organismo controllato non persegua interessi contrari a quelli dei soci pubblici affidanti (articolo ItaliaOggi del 07.03.2014).

LAVORI PUBBLICIPer i lavori specialistici salta l'obbligo di subappalto.
La guerra degli appalti si consuma all'ombra del decreto Salva Roma: con la terza marcia indietro nel giro di una settimana sull'obbligo di subappalto dei lavori specialistici da parte dei costruttori privi di specifica qualificazione.

Da ieri la terza versione del decreto Salva Roma è in vigore. Il provvedimento varato in tutta fretta dal Consiglio dei ministri del 28 febbraio per tamponare gli effetti conseguenti alla decadenza del Dl 151/2013, è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 54 del 06.03.2014 con il numero 16/2014.
La principale novità, rispetto alla bozza circolata ieri e già vidimata dalla Ragioneria, riguarda la cancellazione dell'articolo destinato a recuperare la soluzione tampone prevista dal Dl 151/2013 nei confronti del parere del Consiglio di Stato che permette alle imprese generali di eseguire in proprio le opere specializzate, pur essendo prive della specifica qualificazione. Il provvedimento di Palazzo Spada, che ha accolto un ricorso presentato dalle grandi imprese (Agi), era stato congelato fino a settembre dal Dl 151/2013, in modo da permettere alle Infrastrutture di varare un riassetto complessivo del sistema di qualificazione agli appalti pubblici.
La soluzione-cuscinetto non c'è più. Evidentemente le obiezioni del Quirinale sull'impossibilità di reiterare nel nuovo provvedimento misure (considerate peraltro fuori materia) di un decreto ritirato dal Governo a un passo dalla conversione, si sono rivelate insuperabili. E forse nella valutazione avrà pesato anche il fatto che per rendere operativo il parere di Palazzo Spada, trattandosi di un ricorso al Capo dello Stato, era stato necessario varare un decreto firmato proprio dal Presidente della Repubblica, il Dpr 30.10.2013 appunto.
L'effetto rischia però di mandare in fibrillazione il mercato degli appalti pubblici. Da una parte facendo saltare tutto d'un colpo gli equilibri tra imprese generali e specialistiche consolidati negli anni a furia di sgomitate in cantiere. Dall'altra esponendo al rischio di una valanga di ricorsi i bandi pubblicati dalle amministrazioni sulla base delle regole previste dal Dl 151/2013. Dopo la decadenza è come se quel decreto non fosse mai esistito e dunque anche le norme che rinviavano a settembre l'applicazione del parere del Consiglio di Stato. Con quel provvedimento Palazzo Spada ha di fatto cancellato le norme del regolamento appalti (articolo 107, comma 2, 109, comma 2 compresi i riferimenti all'Allegato A) che impongono alle imprese generali prive di qualificazione di subappaltare i lavori specialistici e di associare in Ati verticale le ditte qualificate in caso di lavori di particolare complessità. Ora toccherà al Governo trovare una soluzione, almeno per fare salvi i bandi pubblicati e i contratti già firmati.
Per il resto il decreto legge 16/2014 conferma le misure già annunciate (vedi Il Sole 24 Ore di ieri). Oltre alle regole sulla Tasi «modello Imu» , il cuore del provvedimento riguarda i conti della Capitale. Confermato il rinvio di due mesi (30 aprile) per affidare i lavori del piano di edilizia scolastica varato dal decreto Fare, per i Comuni salta uno dei vincoli (il rapporto dell'8% tra finanziamenti e entrate) che impedivano di contrarre nuovi mutui
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICI: Appalti specialistici, bandi salvi. Le imprese generali devono ancora subappaltare i lavori. Nella versione definitiva del dl sulla finanza locale rispunta la norma del Salva Roma bis.
Salvi i bandi per l'affidamento di appalti specialistici (lavori stradali, beni culturali, segnaletica, scavi archeologici, tanto per fare qualche esempio) Per questi bandi, l'obbligo per l' impresa generale di subappaltare i lavori a imprese specialistiche o raggrupparsi con esse in Associazioni temporanee di imprese, (obbligo abrogato dal Consiglio di stato e fatto rivivere dal dl Salva Roma bis non convertito in legge dal governo) resterà in vigore almeno fino al mese di settembre e in ogni caso non oltre il 31.12.2014.

È quanto prevede l'articolo 20 del decreto legge sulla finanza locale che sta per essere pubblicato in Gazzetta Ufficiale.
Il colpo di scena è spuntato all'ultimo secondo nel testo definitivo del decreto, visto che fino a due giorni fa il provvedimento non conteneva la norma del dl 151 (si veda ItaliaOggi del 04.03.2014).
Ciò aveva determinato una situazione di non poco conto rispetto ai bandi pubblicati nei primi due mesi dell'anno, quando era stato possibile qualificare le imprese che dovevano svolgere lavori di natura specialistica e superspecialistica sulla base delle norme del regolamento del codice dei contratti pubblici (articolo 109, comma 2, articolo 107, comma 2, oltre all'allegato A). Le due norme, ancorché bocciate dal Consiglio di Stato, a seguito del ricorso straordinario al Capo dello Stato presentato e vinto dall'Agi (Associazione grandi imprese), erano state fatte rivivere in virtù della sospensione degli effetti del ricorso accolto.
Nell'articolo 20 del nuovo decreto si prevede quindi che entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, siano adottate, secondo la procedura prevista all'articolo 5, comma 4, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (l'iter di modifica del regolamento attuativo del Codice dei contratti pubblici, con parere del Consiglio di stato), le disposizioni regolamentari sostitutive delle norme del dpr 207/2010 (artt. 107, comma 2, 109, comma 2) e l'adeguamento dell'allegato A che elenca le tipologie di lavori oggetto della qualificazione specialistica.
Inoltre il secondo comma dell'articolo 20, come il precedente decreto 151, rende ancora applicabili le disposizioni regolamentari già oggetto di abrogazione da parte del Consiglio di stato, «al fine di garantire la stabilità del mercato dei lavori pubblici», e ciò fino a quando non saranno emanate le nuove disposizioni sostitutive «e in ogni caso non oltre la data del 31.12.2014». L'articolo 20 chiude con la salvezza degli atti emanati dalle amministrazioni sulla base della norma del decreto 151 non convertita in legge, e con essi «gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti» in base alle norme regolamentari che il decreto «Salva-Roma- bis» aveva consentito di applicare ancora per qualche mese.
Vengono quindi congelati ancora per sei mesi o più (fine anno) gli effetti del parere del Consiglio di stato n. 3014 del 26.06.2013, confluito nel dpr 30.10.2013, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 280 del 29.11.2013, che aveva cancellato dall'ordinamento gli articoli 109, comma 2 (in relazione all'allegato A al regolamento) e 107 comma 2 del dpr 207/2010.
Nel dettaglio si tratta delle disposizioni che vietano alle imprese generali (general contractor) di eseguire direttamente lavori specialistici per i quali occorrerebbe sempre essere qualificati (c.d. lavori a qualificazione obbligatoria), anche se sprovviste di certificazione Soa per quei determinati interventi. La norma regolamentare, adesso di nuovo in vigore, dispone che in tali fattispecie l'impresa general contractor debba scegliere se subappaltare l'esecuzione dei lavori ad una impresa specializzata in possesso dell'apposita attestazione Soa, oppure raggrupparsi temporaneamente con l'impresa specialistica (e ovviamente si tratterà di una associazione temporanea di tipo verticale, in cui ogni impresa svolge una tipologia di lavorazione per il suo intero).
I giudici avevano peraltro annullato le disposizioni che consentono di utilizzare, per qualificarsi, anche i lavori affidati in subappalto, ma su questo il decreto-legge non interviene (articolo ItaliaOggi del 06.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICISoluzione ponte. Sui lavori specialistici obbligo di subappalto.
Nuovo giro di valzer sull'obbligo di subappalto dei lavori specialistici. Il decreto «salva-Roma» ter recupera a sorpresa la norma-tampone prevista dal decreto 151/2013 ormai decaduto.

La misura serve a garantire una soluzione-cuscinetto rispetto al parere del Consiglio di Stato che -su ricorso delle grandi imprese- ha bocciato, cancellandole, le norme del regolamento appalti che impongono ai costruttori di affidare in subappalto le attività specialistiche, se sprovvisti della specifica qualificazione.
Decisione che, in assenza di un riassetto complessivo, permetterebbe alle imprese generali di eseguire in proprio tutti i lavori, rimescolando di colpo i rapporti di forza in cantiere e rischiando di gettare nel caos il mercato degli appalti.
L'articolo 20 del «salva-Roma» ter congela per altri sei mesi la cancellazione degli articoli (107, comma 2 e 109, comma 2) del regolamento appalti (Dpr 207/2010) disposta dal Consiglio di Stato. In più, «al fine di garantire la stabilità del mercato dei lavori pubblici», viene spostato al 31.12.2014 il termine entro il quale comunque «continuano a trovare applicazione le regole previgenti». Tre mesi in più per trovare una soluzione definitiva rispetto al termine del 30 settembre previsto dal decreto 151/2013.
Da ultimo è entrata anche la norma che fa salvi i bandi pubblicati nel periodo di vigenza del Dl 151/2013 non convertito in legge, salvando la Pa dal rischio-ricorsi. Pericolo più che concreto senza la marcia indietro rispetto alle indiscrezioni, circolate subito dopo il Consiglio dei ministri di venerdì 28 febbraio, che davano per certa l'esclusione della norma-tampone sui lavori specialistici dal nuovo decreto «salva Roma»
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAIl Sistri diventa più «leggero». Ridotto l'elenco dei soggetti obbligati tra i produttori con meno di 10 dipendenti. Ambiente. Nello schema del decreto di semplificazione procedurale versamento annuale spostato dal 30 aprile al 30 giugno.
Come anticipato in questi giorni dal neo ministro dell'Ambiente Gian Luca Galletti (si veda Il Sole 24 Ore di ieri), gli uffici ministeriali stanno definendo i contenuti del decreto che si candida a sfoltire la platea dei soggetti obbligati all'adesione e all'utilizzo del Sistri e a fornire alcune semplificazioni procedurali. L'analisi dello schema del decreto ministeriale evidenzia che il versamento del contributo annuale si sposta dal 30 aprile al 30.06.2014 e sarà effettuato «nella misura e con le modalità previste dalle disposizioni vigenti».
Inoltre, usando la "delega" conferita al Governo dall'articolo 11 della legge 125/2013, il Ministero rimodula i destinatari, modificando l'articolo 188-ter del "Codice ambientale" (Dlgs 152/2006) ed esclude dal Sistri enti e imprese con non più di 10 dipendenti produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi da scavo, costruzione e demolizione; da lavorazioni industriali e artigianali; da attività commerciali, di servizio e sanitarie.
Secondo lo schema, restano obbligati a Sistri enti e imprese
- i produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi da attività agricole ed agroindustriali (escluse le attività di cui all'articolo 2135 del codice civile che li conferiscono a circuiti organizzati di raccolta), da pesca e acquacoltura;
- con più di 10 dipendenti produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi da scavo, costruzione e demolizione; da lavorazioni industriali e artigianali; da attività commerciali, di servizio e sanitarie;
- produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi che ne effettuano lo stoccaggio (operazioni R13 o D15);
- soggetti che raccolgono, trasportano, recuperano e smaltiscono rifiuti urbani nella Regione Campania.
Per i non obbligati o per chi non aderisce volontariamente, restano fermi gli adempimenti relativi a registri di carico e scarico e formulari.
Le semplificazioni successive interverranno sulla base dei risultati dei lavori dei tavoli tecnici attivati presso il ministero dell'Ambiente per microraccolta, interoperabilità del Sistri con i sistemi gestionali aziendali e trasporto intermodale. A quest'ultimo, comunque, già lo schema del Dm dedica particolare attenzione e stabilisce che «fino alla presa in carico dei rifiuti da parte di un'impresa navale o ferroviaria o altra impresa per il successivo trasporto, i rifiuti restano sotto la responsabilità del produttore»; ma questo non significa che tutta la filiera precedente a tale momento sia esente da responsabilità, come chiarito dal decreto ministeriale.
Per i rifiuti urbani della Campania, lo schema stabilisce che il trasportatore compili la scheda Sistri anche per la parte del produttore, prima dell'inizio della raccolta. Se l'impianto finale non è in Campania, il gestore non è obbligato al Sistri, però controfirma la scheda Sistri all'atto dell'accettazione dei rifiuti in impianto. Finite le operazioni, il Sistri genera in automatico le registrazioni di carico e scarico nell'area registro cronologico del Comune.
Sul sito www.sistri.it sono presenti gli aggiornamenti alle Guide rapide per produttori, trasportatori, recuperatori/smaltitori e intermediari. Mentre un'assoluta "new entry" è la guida per la Regione Campania. È stato anche pubblicato un nuovo "Video Tutorial" per gli operatori.
Dal 03.03.2014 il Sistri va usato da produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi e da trasportatori di rifiuti speciali pericolosi da loro stessi prodotti (articolo 212, commi 5 e 8, Dlgs 152/2006). Per la sola Regione Campania si aggiungono i Comuni e le imprese di trasporto di rifiuti urbani. La legge 15/2014 ("milleproroghe") ha confermato l'utilizzo del Sistri e ha solo spostato la moratoria delle sanzioni e la convivenza di registri e formulari con il Sistri fino al 31.12.2014
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.03.2014).

INCARICHI PROGETTUALI: Micro-progetti, stop al massimo ribasso. Contratti pubblici. Le indicazioni dell'Autorità sugli incarichi professionali.
Valutare i piccoli progetti sulla base della qualità della prestazione, limitando il peso attribuito allo sconto sul prezzo proposto dall'amministrazione.
È una delle indicazioni che l'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici darà a stazioni appaltanti e progettisti nella determinazione destinata ad aggiornare le linee guida per l'assegnazione degli incarichi professionali diffuse nel 2010 (determinazione n. 5/2010) e poi aggiornate nel 2012 con la deliberazione n. 49, in seguito all'abolizione delle tariffe decisa dal decreto sulle liberalizzazioni varato dal governo Monti (Dl 1/2012).
L'indicazione sfrutta il "destro" offerto dalla nuove direttive europee che contengono una netta preferenza per il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa , rispetto al semplice sconto offerto in gara, con l'obiettivo di estendere la valutazione basata sul binomio qualità-prezzo anche alle procedure sottosoglia comunitaria (207mila euro). Il tentativo è quello di arginare il fenomeno della guerra dei prezzi con cui i progettisti si disputano le (ormai poche) gare per servizi di ingegneria bandite dalle amministrazioni pubbliche.
Difficile invece che possa essere accolta la richiesta, proveniente da una parte del mondo professionale, mirata a introdurre l'esclusione automatica delle offerte anomale anche per i servizi di progettazione: servirebbe una modifica normativa.
Anche se l'Autorità sottolinea che «sarebbe opportuno che la stazione appaltante verificasse sempre la congruità dell'offerta dell'aggiudicatario». Stesso discorso per la richiesta di limitare per un periodo temporaneo il ricorso alla progettazione interna alle pubbliche amministrazioni prevista dal codice degli appalti, «anche in considerazione delle istanze di spending review».
Esclusa anche la possibilità di allegare alle offerte il calcolo analitico dei costi di produzione. Soluzione che sembrerebbe «volta a ripristinare i minimi tariffari», aboliti per legge.
Al provvedimento lavora una commissione interna all'Autorità guidata dal consigliere Giuseppe Borgia, che ha già effettuato un primo giro di tavolo con le categorie. Secondo i programmi la determinazione dovrebbe vedere ufficialmente la luce entro il mese di aprile
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCalcolatore Aran per i contratti locali di Regioni e Comuni. Personale. Fondi decentrati.
Il decreto «salva-Roma» imbarca anche la sanatoria per i contratti decentrati fuori linea che le Regioni hanno adottato entro il 2011 e gli enti locali entro il 2012, e che in un numero di casi crescenti, dopo le contestazioni sollevate dalla Ragioneria generale o dalla Corte dei conti, hanno rischiato di essere travolti dalla nullità automatica delle clausole e dai conseguenti obblighi di recupero con tagli in busta paga ai dipendenti.

La nuova regola (si veda anche Il Sole 24 Ore del 1° marzo) blocca la tagliola per gli enti che hanno rispettato il Patto e i tetti alle spese di personale, e chiede un piano di razionalizzazione che riporti l'organico entro le medie nazionali della loro classe demografica (alle Regioni si chiede invece un taglio del 20% nella spesa per i dirigenti e del 10% in quella per il personale), ma si occupa anche del futuro.
I recuperi delle somme in eccesso finite in busta paga per integrativi siglati dopo gli anni "sanati" potranno essere effettuati in un periodo pari a quello in cui i vincoli sono stati sforati.
Il blocco dei contratti pubblici in vigore dal 2010 (e ora riportato all'attenzione della Consulta dal Tribunale di Ravenna dopo un ricorso della Confsal-Unsa) limita ovviamente i casi di integrativi nuovi nei contenuti, ma nella maggioranza degli enti sono ancora in vigore i vecchi contratti decentrati.
La loro analisi non è semplice, anche perché le interpretazioni sulle norme che limitano la dotazione del fondo non sono univoche: ora l'Aran ha messo a disposizione sul proprio sito (www.aranagenzia.it) un calcolatore excel con cui gli enti possono verificare se i loro contratti rispettano i limiti, ma anche in questo caso c'è un nodo interpretativo: nelle istruzioni sul conto annuale la Ragioneria ha sostenuto che il fondo vada sempre ridotto in proporzione alle cessazioni dell'anno precedente, mentre dalle tabelle Aran sembra che il taglio non vada effettuato se la dotazione è già inferiore a quella del limite 2010 rideterminato in base alla riduzione dei dipendenti
 (articolo Il Sole 24 Ore del 05.03.2014).

APPALTINuovo slittamento per Ato e centrale unica. Milleproroghe. Le istruzioni Anci.
Il nuovo slittamento, al 30.06.2014, dell'obbligo per i piccoli Comuni di rivolgersi a centrali uniche di committenza per gli acquisti di lavori, servizi e forniture è il rinvio più importante portato agli enti locali dal decreto milleproroghe, pubblicato definitivamente in «Gazzetta Ufficiale» nella legge di conversione il 28 febbraio scorso.
Alla razionalizzazione dei servizi sul territorio guarda anche l'altra proroga chiave per gli enti locali, quella che sposta a fine anno la decadenza per gli affidamenti di servizi pubblici slegati dagli ambiti territoriali ottimali, la cui istituzione avrebbe dovuto essere completata fin dal 30.06.2012.

A passare in rassegna gli spostamenti interessanti per le amministrazioni locali nell'ultimo milleproroghe è una nota diffusa ieri dall'Anci, che cerca e illustra nella selva di dati dell'ultimo provvedimento le regole che impattano sulla gestione dei Comuni.
Per le amministrazioni locali le notizie non sono però tutte "di favore": all'articolo 1, comma 10, la legge 15/2014 mantiene in vita anche nel 2014 il limite compensi per i componenti degli organi collegiali, che non possono superare gli importi registrati al 30.04.2010 tagliati del 10%.
Ancora in vigore, infine, lo scioglimento dei consigli negli enti che non approvano in tempo i documenti di bilancio
 (articolo Il Sole 24 Ore del 05.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROFESSIONALIObbligo di Pos, calendario da chiarire.
La proroga al 30.06.2014 dell'obbligo di permettere pagamenti anche attraverso bancomat da un lato favorisce un migliore adeguamento ad imprese e professionisti. Ma dall'altro genera incertezze sulla sua concreta operatività almeno quanto all'individuazione della platea di soggetti interessati.

In sede di conversione del decreto milleproroghe (Dl 150/2013), è stato infatti inserito il comma 15-bis all'articolo, 9 con differimento del termine a partire dal quale i soggetti privati, che effettuano attività di vendita di prodotti o prestazioni di servizi, anche professionali, sono obbligati ad accettare pagamenti anche attraverso carte di debito (Dl 179/2012). Prima che intervenisse la proroga, nella Gazzetta Ufficiale del 27.01.2014, n. 21, era stato nel frattempo pubblicato il decreto del ministro dello Sviluppo economico datato 24.01.2014 attuativo dell'ambito di applicazione dei pagamenti mediante carte di debito.
Tale regolamento, stanti gli effetti della particolare disciplina ed il rilevante numero dei soggetti potenzialmente destinatari della stessa, aveva individuato, secondo criteri di gradualità e sostenibilità, un limite minimo di acquisto, pari a trenta euro, nonché le categorie di operatori nei confronti delle quali trovasse gradualmente applicazione la misura.
Il criterio utilizzato a tal fine è stato quello dell'ammontare del fatturato dell'anno precedente a quello nel corso del quale è effettuato il pagamento. In ragione di questo criterio, era stato previsto che dal prossimo 28.03.2014 e sino al 30.06.2014 l'obbligo interessasse esclusivamente imprese e professionisti che avessero un fatturato annuo superiore ai 200.000 euro. Tali operatori, per acquisti oltre i 30 euro, sarebbero stati obbligati ad accettare pagamenti effettuati da persone fisiche, soggetti privati, anche con carte di debito.
Con successivo decreto, da adottarsi entro 90 giorni dall'entrata in vigore dell'obbligo (e quindi originariamente entro il 26.06.2014), potevano essere individuate nuove soglie e nuovi limiti minimi di fatturato, con possibilità inoltre di estendere gli obblighi ad ulteriori strumenti di pagamento elettronico anche con tecnologie mobili. La modifica della decorrenza dell'obbligo, differita al 30.06.2014, renderà probabilmente necessaria l'adozione di un nuovo decreto ministeriale che vada a fissare la nuova tempistica in ragione di quelle esigenze di gradualità e sostenibilità che hanno guidato il ministero dello Sviluppo economico nella stesura del decreto attuativo.
Finché il decreto non ci sarà, la data del 30.06.2014 dovrebbe essere necessariamente intesa come momento di avvio a regime dell'obbligo per tutti gli operatori economici. Peraltro, questa ultima interpretazione sembrerebbe in grado di anticipare quanto dispone l'articolo 9, comma 1, lettera d), della legge di delega fiscale. Per il rafforzamento dei controlli si cerca infatti di incentivare, mediante una riduzione degli adempimenti amministrativi e contabili a carico dei contribuenti, non solo l'utilizzo della fatturazione elettronica e la trasmissione telematica dei corrispettivi, ma anche adeguati meccanismi di riscontro tra la documentazione in materia di Iva e le transazioni effettuate, potenziando a tal fine i relativi sistemi di tracciabilità dei pagamenti.
Da parte delle professioni, il Consiglio nazionale ingegneri, commenta così la conferma della proroga «Rinvio utile, purché finalizzato alle doverose modifiche e non a consentire alle banche di avere più tempo per mettere a punto le proprie offerte commerciali»
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICILavori pubblici. La nuova situazione. Lavori specialistici: cancellato l'obbligo del subappalto.
Ancora rischio caos per i lavori ad alta specializzazione nel settore delle opere pubbliche. Le imprese generali ritrovano la possibilità di eseguire in proprio anche i lavori per i quali non possiedono specifica qualificazione, tra le proteste delle ditte specializzate.

La norma-tampone studiata dal ministero delle Infrastrutture, per rinviare a settembre la cancellazione dell'obbligo di subappalto delle opere specialistiche da parte delle imprese generali prive della specifica qualificazione, non ha trovato posto nella terza versione del decreto salva Roma varato dal Consiglio dei ministri venerdì 28 febbraio.
Tutto nasce con la scelta del Governo di ritirare il decreto 151 di fronte ai problemi sorti in Parlamento agli sgoccioli per la conversione in legge. Nel decreto 151 -noto anche come salva Roma-bis- era stata infatti inserita una misura (articolo 3, comma 9) per rinviare a settembre l'applicazione del parere del Consiglio di Stato recepito nel Dpr 30.10.2013: quella soluzione, accogliendo un ricorso presentato dalle grandi imprese rappresentate dall'Agi, aveva cancellato dal regolamento appalti le norme che impongono il subappalto dei lavori specializzati (e il vincolo a creare una Ati verticale nel caso di opere a particolare contenuto tecnologico), in assenza di qualificazione del titolare dell'appalto principale.
Il problema è che il decreto è decaduto, senza che un'analoga norma abbia trovato posto nella nuova versione del decreto legge, sembra anche per l'opposizione del Quirinale a recepire nel nuovo decreto norme-fotocopia del vecchio. Tutt'al più sarà prevista nel disegno di legge parallelo una norma che salvi gli effetti delle norme contenute nel decreto legge 151 per il periodo di vigenza. Per ora restano "scoperte", quindi, le amministrazioni che avevano pubblicato bandi di gara confidando nella conversione in legge del decreto. E che potrebbero ora venire travolte dai ricorsi per aver bandito gare basate su norme decadute e dunque mai esistite per l'ordinamento.
I tempi di un disegno di legge mal si conciliano, infatti, con la necessità di dare risposte immediate a Pa e imprese che rischiano di vedersi bloccare in corsa gare e cantieri avviati sulla base di regole mai entrate in vigore. Tra le soluzioni che sarebbero allo studio in questo momento c'è quella di inserire la norma salva-effetti (e salva-bandi) in uno dei decreti in corso di conversione in Parlamento. Una soluzione che permetterebbe di mettere una pietra sul passato, sanando gli effetti giuridici di bandi già pubblicati, senza però risolvere le incertezze che rischiano di inceppare un mercato già pesantemente provato dalla crisi.
Da oggi le amministrazioni intenzionate a pubblicare un bando di gara dovranno infatti tenere conto degli effetti del parere del Consiglio di Stato, tornato pienamente operativo, senza la bussola di una circolare ministeriale o di un atto di interpretazione dell'Autorità di vigilanza
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

TRIBUTI: Tasi, le aree scoperte sono esenti. Sono soggetti solo i fabbricati e le aree edificabili. Il decreto sulla finanza locale rimedia all'errore contenuto nella legge di Stabilità.
Le aree scoperte non pagano più la Tasi. Sono soggette al nuovo tributo sui servizi comunali indivisibili (Tasi) solo i fabbricati, comprese le abitazioni principali, e le aree edificabili. Esclusi espressamente dall'imposizione anche i terreni agricoli.
È quanto prevede l'articolo 5 dello schema di dl sulla finanza locale, con il quale il legislatore intende rimediare all'errore commesso nella legge di Stabilità che aveva assoggettato all'imposta sui servizi le aree scoperte.
Dunque, dopo tanti dubbi e incertezze che erano emerse sulle modalità d'imposizione delle aree scoperte, più volte sollevati dalle pagine di questo giornale, si prende atto dell'inconciliabilità di due disposizioni contenute nella legge di Stabilità (147/2013).
In particolare, la norma che dispone che la base imponibile della Tasi sia la stessa dell'Imu porta a escludere che siano soggette al prelievo le aree scoperte, per le quali manca il criterio per calcolare il tributo. Questa evidente anomalia emerge dall'articolo 1, comma 669, della legge 147/2013 istitutiva del nuovo balzello, che ricomprende nel presupposto del tributo oltre ai fabbricati e alle aree edificabili anche le aree scoperte. La disposizione contenuta nel nuovo dl, invece, sostituisce il comma 669 e non fa più riferimento alle aree scoperte tra gli immobili soggetti alla Tasi. Ad abundantiam vengono esclusi anche i terreni agricoli che, in realtà, già non rientravano nel campo di applicazione dell'imposta.
In effetti, è impossibile tassare autonomamente le aree scoperte in quanto sono prive di rendita. Considerato, infatti, che la base imponibile della Tasi è la stessa dell'Imu, manca il parametro di riferimento per assoggettare le aree scoperte a tassazione, poiché non hanno una rendita catastale, come i fabbricati, né un valore di mercato, come le aree edificabili. È evidente, quindi, che il legislatore ha fatto confusione poiché ha assoggettato alla Tasi locali e aree che sono tenuti al pagamento della tassa rifiuti (Tari). Questo si evince, tra l'altro, anche dal fatto che il dl sulla finanza locale abroga il comma 670 che esonera le aree pertinenziali di locali tassabili, non operative, e quelle condominiali a meno che non siano occupate in via esclusiva. È l'effetto consequenziale dell'esclusione dall'imposizione delle aree scoperte.
Del resto per le aree scoperte cosiddette operative, per i locali in multiproprietà, i centri commerciali integrati e via dicendo, i criteri per calcolare la Tari sono la superficie dell'immobile e la tariffa deliberata dal comune.
Mentre, per la Tasi è espressamente stabilito che la base di calcolo del tributo è quella dell'Imu. E il criterio per quantificare il tributo non può che essere la rendita catastale o, in alternativa, il valore di mercato.
All'imposta sui servizi sono soggetti anche gli immobili adibiti a prima casa. Il tributo è dovuto da chiunque possieda o detenga a qualsiasi titolo fabbricati, aree scoperte e edificabili. Qualora vi siano più possessori o detentori, tutti sono tenuti in solido all'adempimento dell'obbligazione tributaria. In base a quanto stabilito dal comma 672, se è stato stipulato un contratto di locazione finanziaria il tributo è dovuto dal locatario a partire dalla data di stipula del contratto e per tutta la sua durata. La norma poi precisa che per durata del contratto si intende il periodo che va dalla data di stipula a quella di riconsegna del bene al locatore, che deve essere comprovata da un apposito verbale (articolo ItaliaOggi del 04.03.2014).

LAVORI PUBBLICI: Lavori specialistici, appalti pubblici nel caos.
Rischio caos per gli appalti pubblici dopo che nel decreto-legge «Salva-Roma» non è stata riproposta la norma sulla disciplina della qualificazione nei lavori specialistici.
La mancata riproposizione della norma del decreto-legge «Salva-Roma bis» adesso rende vano lo sforzo compiuto dal ministero delle infrastrutture che aveva preso tempo, da qui a settembre, per individuare una soluzione definitiva alla qualificazione nei lavori complessi.
La soluzione messa a punto dal ministero di Porta Pia con il decreto non convertito era stata quella di differire a settembre la soppressione dell'obbligo di subappalto delle opere specialistiche da parte delle imprese general contractor e di costituzione dell'Ati verticale con le imprese qualificate nelle opere cosiddette «superspecialistiche», risultato ottenuto dall'Agi (Associazione delle imprese generali) con un ricorso straordinario al Capo dello stato, accolto dal Consiglio di stato tale risultato.
La norma era contenuta nel decreto-legge 151/2013 (articolo 3, comma 9) che, in quanto non convertito, perde di efficacia e con esso anche tutti gli atti che le stazioni appaltanti hanno emanato sulla base di tale norma. Adesso quindi sia l'articolo 109, comma 2, sia l'articolo 107, comma 2 del dpr 207/2010, oltre all'allegato A dello stesso decreto, nelle parti oggetto di censura, devono essere considerati abrogati, con il risultato che le stazioni appaltanti si trovano a gestire un quadro del tutto cambiato rispetto a procedimenti avviati tenendo conto che le due norme fossero invece in vigore (anche se soltanto fino a settembre). Tutti gli atti di gara che non trovano più copertura normative sono infatti nulli ex lege per mancata conversione del decreto legge 151.
In sostanza da venerdì scorso, le amministrazioni non potranno più ritenere applicabili le due norme la cui cancellazione era stata sospesa: la prima che consentiva all'affidatario qualificato nella sola categoria prevalente di non eseguire direttamente le opere generali rientranti nelle categorie scorporabili a qualificazione obbligatoria, individuate come tali nell'allegato A al dpr 207/2010; la seconda che, per le opere «superspecialistiche» individuate al comma 2 dell'articolo 107, permetteva all'affidatario che non fosse stato in possesso della relativa qualificazione, di subappaltarle solo nel limite del 30% (articolo ItaliaOggi del 04.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sistri, ora tocca ai produttori. L'adempimento informatico si affianca al tradizionale. Operativa dal 3 marzo la fase due del sistema di tracciamento telematico dei rifiuti.
Dal 03.03.2014, anche enti e imprese produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi devono utilizzare il «Sistri», colloquiando con trasportatori e impianti di destinazione dei propri residui attraverso il nuovo sistema di tracciamento telematico.
Questo godendo fino al 31.12.2014 di un'impunità per l'eventuale violazione delle relative regole, ma con il parallelo obbligo di osservare comunque, fino alla stessa data, i tradizionali obblighi di tracciamento dei rifiuti (registri e formulari di trasporto), in relazione ai quali le sanzioni mantengono invece il loro vigore. Il tutto con un occhio alla scadenza del 30.04.2014, data entro la quale i soggetti individuati dalle relative norme di settore devono adempiere anche alla comunicazione «Mud».
Il rinnovato quadro normativo. A confermare l'operatività della «fase 2» del Sistri è la legge di conversione del dl 150/2013 (c.d. «Milleproroghe») licenziato in via definitiva dal parlamento lo scorso 26.02.2014, legge che lascia immutati i termini iniziali sanciti dall'ultimo provvedimento sulla partenza del nuovo sistema (il dl 101/2013, in virtù del quale già dallo scorso 01.10.2013 il tracciamento telematico è obbligatorio per i gestori degli stessi rifiuti) limitandosi a spostare dall'originario 01.08.2014 al successivo 31 dicembre la vigenza del c.d. «regime binario» che impone agli operatori di onorare sia le scritture elettroniche sia quelle cartacee.
I soggetti interessati dalla «fase 2». La data del 03.03.2014 interessa i produttori «iniziali» di rifiuti speciali pericolosi inquadrati in enti o imprese, a esclusione (dunque) dei professionisti che tali vesti non assumono (come chiarito dalla circolare Minambiente 31.10.2013, n. 1). Una figura, quella dei produttori iniziali, da non confondere con quella dei «nuovi» produttori di rifiuti (ossia i soggetti che sottopongono i rifiuti ad attività di trattamento e ottengono nuovi rifiuti), per i quali gli adempimenti Sistri sono da osservare fin dallo scorso 01.10.2013.
Dal 03.03.2014 l'operatività del Sistri scatta altresì per i comuni e le imprese di trasporto rifiuti «urbani» (pericolosi e non) del territorio della regione Campania, a esclusione (quindi) dei soggetti operanti in altre regioni (per alcuni dei quali l'obbligo del tracciamento telematico partirà solo, previa adozione di specifico dm Ambiente, dal giugno 2014).
Gli adempimenti «Sistri». Oltre agli adempimenti formali costituiti dall'iscrizione al sistema e pagamento del relativo contributo 2014 (entro il 30 aprile), dal punto di vista operativo ai produttori di rifiuti speciali pericolosi è richiesto di utilizzare (a fianco di quelle tradizionali) le due versioni «informatiche» del registro di carico/scarico e formulario di trasporto dei rifiuti, costituite (rispettivamente) dalle schede Sistri «registro cronologico» e «area movimentazione».
La sequenza «base» degli atti da compiere (secondo la tempistica stabilita dal dm 52/2011) è sostanzialmente la seguente: dopo la produzione dei rifiuti il produttore ne inserisce i relativi dati quali/quantitativi nella scheda «registro cronologico»; prima di procedere alla loro movimentazione compila la scheda «movimentazione»; il trasportatore di rifiuti (con il quale, se diverso dal produttore, questi ha preso preventivi accordi contrattuali) prima di procedere al loro ritiro compila la sua parte di «registro cronologico», prende in carico i rifiuti unitamente a una stampa cartacea della «scheda area movimentazione» effettuata dal produttore (stampa che li dovrà accompagnare per tutto il viaggio, unitamente al certificato analitico delle caratteristiche, ove richiesto); a valle, l'impianto che riceve i rifiuti compila la propria parte del «registro cronologico», completare la scheda «movimentazione» online e firma la copia cartacea di accompagnamento (che resta al trasportatore). All'esito di tale ultima operazione il Sistri invia automaticamente al produttore, per mezzo della casella di posta elettronica dedicata, la comunicazione di accettazione dei rifiuti.
La responsabilità del produttore per la corretta gestione dei propri rifiuti, lo ricordiamo, è esclusa solo con il ricevimento di detta comunicazione o, in caso di mancato ricevimento della stessa nei 30 giorni successivi al conferimento al trasportatore, di relativa segnalazione fatta sia al Sistri che alla provincia competente. Casi critici di malfunzionamento del sistema informatico, così come di mancata accettazione (totale o parziale) del carico di rifiuti da parte dell'impianto di destinazione, vanno gestiti e risolti secondo le procedure stabilite dallo stesso dm 52/2011.
Gli adempimenti «tradizionali». Insieme al nuovo tracciamento telematico per la durata del regime transitorio, i soggetti che operano in Sistri devono parallelamente (come accennato) continuare a tenere i tradizionali registri di carico/scarico dei rifiuti e formulario di trasporto ed effettuare la comunicazione ambientale «Mud».
Le regole da osservare in relazione alle citate scritture ambientali sono quelli previste dagli articoli 190 e 193 del dlgs 152/2006 (c.d. «Codice Ambientale») nella versione precedente alle modifiche «pro Sistri» introdotte dal dlgs 205/2010 (in vigore solo dopo la fine del citato «periodo binario», quando a osservarle resteranno solo i soggetti non aderenti al nuovo sistema informatico).
Le norme, invece, da osservare per la comunicazione annuale «Mud» sono da rintracciarsi nella legge istitutiva 70/1994 e provvedimenti connessi, come richiamati e sintetizzati dal Dpcm 12.12.2013 (S.o. n. 89 alla G.U. del 27 dicembre, n. 302), il regolamento governativo recante istruzione e modulistica per la denuncia da presentare entro il prossimo 30.04.2014.
Il quadro sanzionatorio. Come accennato, fino al 31.12.2014 a essere sanzionati sono solo gli inadempimenti relativi al tracciamento tradizionale dei rifiuti (registri/formulari/Mud), secondo il relativo regime «ratione temporis» sopra delineato, mentre dal 01.01.2015 saranno pienamente sanzionabili le violazioni degli obblighi relativi al tracciamento Sistri.
Tale è il quadro disegnato dall'articolo 11 del dl 31.08.2013, n. 101 (come convertito in legge 125/2013 e successivamente modificato dalla legge citata di conversione del dl 150/2013) (articolo ItaliaOggi Sette del 03.03.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOContratti integrativi, così le nuove regole fermano i recuperi. Niente nullità delle clausole pre-2011 se l'ente rispetta il Patto. Personale. Gli effetti del correttivo approvato dal Governo.
Il "condono" sul fondo delle risorse decentrate degli enti locali accelera e si infila nei provvedimenti approvati venerdì in consiglio dei ministri che, almeno secondo i testi circolati finora, riprendono il correttivo prima inserito nel disegno di legge n. 1322 sugli enti locali, presentato al Senato (primo firmatario: Zanda). La disposizione, di fatto, rende inapplicabile la nullità delle clausole contrattuali stipulate in violazione delle norme vigenti.
Il recupero
L'articolo 40, comma 3-quinquies, del Dlgs 165/2001, come rivisto dalla riforma Brunetta, ha dato indicazioni in merito al superamento dei vincoli finanziari del salario accessorio: le somme sono da recuperare nel contesto della contrattazione successiva. Ma in che modo? La risposta viene data dal nuovo provvedimento, precisando che il reintegro delle somme deve avvenire in un numero di anni pari agli anni in cui vi è stata la violazione.
C'è anche una scappatoia. Se l'ente ha rispettato il patto di stabilità, anziché recuperare l'indebito, lo può compensare con le economie che si realizzano dall'adozione dei piani di razionalizzazione previsti dall'articolo 16, comma 4 e 5, del Dl 98/2001. E questo è quanto accade per il futuro.
La nuova regola interviene, però, anche sugli atti di "autorizzo dei fondi" per la contrattazione decentrata adottatati antecedentemente al 31.12.2011, ovvero il termine voluto dal Dlgs 150/2009 per l'adeguamento alla riforma Brunetta. All'ente locale che ha rispettato il patto di stabilità, le norme sul contenimento della spesa di personale e l'articolo 9 del Dl n. 78/2010 non si applica, infatti, quanto previsto dall'articolo 40, comma 3-quinquies, quinto capoverso ovvero la nullità delle clausole e l'inapplicabilità delle stesse nei casi di violazione dei vincoli e dei limiti di competenze imposti dalla contrattazione nazionale o dalle norme di legge. In altre parole: un "mini-condono".
Mentre gli operatori tirano qualche sospiro di sollievo per il passato, non si è, però, ancora chiusa la partita per il corretto calcolo della riduzione del salario accessorio ai sensi dell'articolo 9, comma 2-bis, del Dl 78/2010. Nonostante siano passati quasi quattro anni dall'entrata in vigore del taglio ai fondi delle risorse decentrate, troppi pareri ed interpretazioni hanno lasciato dubbi sulle corrette modalità operative. Sezioni regionali della Corte dei conti, Ragioneria dello Stato e Aran hanno provato a dare risposte, ma senza giungere ad una chiara intesa.
Non ci sono dubbi sulla quantificazione del tetto: se il fondo dell'anno di competenza è superiore rispetto al corrispondente importo dell'anno 2010, va operata una prima decurtazione per riportare il salario accessorio al valore limite. Non ci sono neppure dubbi (almeno per Aran e Rgs) sulle voci da escludere dal confronto: economie del fondo anno precedente, economie fondo straordinario, progettazione interna, compensi per l'avvocatura in presenza di sentenza favorevoli, economie derivanti dai piani di razionalizzazione.
Le uscite
Ciò che crea maggiori problemi è la riduzione del fondo sulla base delle cessazioni dei dipendenti dal servizio. Ripercorrendo le istruzioni e le tabelle predisposte lo scorso anno dalla Ragioneria Generale dello Stato in occasione del conto annuale, risulta che tale riduzione sia da effettuare a prescindere che il fondo di competenza sia già inferiore rispetto al 2010. Per l'Aran, invece, la percentuale di riduzione sulla base della semisomma dei dipendenti, abbassa il limite del 2010 e quindi non appare obbligatoria la riduzione se il fondo di competenza è già inferiore a tale limite rideterminato (si veda la nota n. 5401/2013). Chissà, se con il conto annuale 2013, arriveranno istruzioni definitive
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.03.2014).

PUBBLICO IMPIEGOVigili urbani, l'altalena del doppio compenso. Giurisprudenza. La Corte di appello di Milano riammette i pagamenti multipli negati da Cassazione, Aran, Ragioneria e Funzione pubblica.
La lunga diatriba del trattamento economico da corrispondere ai vigili urbani che prestano attività di lavoro in turno per le giornate di festività infrasettimanali si arricchisce di sempre nuove puntate o, meglio, di nuove sentenze. Ed ognuna ribalta le indicazioni fornite dalla precedente. Siamo in una vicenda che può essere assunta come un vero e proprio paradigma del clima di incertezza che avvolge la contrattazione e le relazioni sindacali nel pubblico impiego.
La Corte di appello di Milano, con la sentenza n. 11102/2013, ha fatto proprie le tesi dei vigili e delle organizzazioni sindacali ribaltando la sentenza del giudice del lavoro di primo grado.
La Corte cioè stavolta afferma che quando i vigili svolgono attività lavorative in turno in una giornata di festività infrasettimanali essi debbano sommare i compensi di cui all'articolo 22 del Ccnl del 14.09.2000 (le cosiddette code contrattuali), cioè il turno, e quelli dell'articolo 24 dello stesso contratto, cioè il trattamento per le attività prestate in giorno festivo, con diritto al riposo compensativo. Al riguardo viene richiamata, tra le tante, la sentenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione n. 907/2007.
Questa tesi smentisce completamente le indicazioni dettate da altrettanto copiose sentenze dei giudici del lavoro, ivi comprese le pronunce della Corte di Cassazione n. 8458/2010 e 2888/2012, che invece hanno sostenuto che quando il vigile è di turno nella giornata festiva infrasettimanale gli spetta unicamente il compenso per il turno festivo, in quanto lo stesso assorbe ogni altra remunerazione.
Occorre ricordare che questo è anche l'orientamento dell'Aran e del Dipartimento della Funzione Pubblica e che le ispezioni della Ragioneria Generale dello Stato bollano come illegittime le interpretazioni che accolgono la tesi della sommabilità delle due disposizioni contrattuali, segnalando l'accaduto alla Procura della Corte dei Conti per valutare il possibile danno erariale.
È evidente che occorre fare chiarezza ed è necessario che ciò avvenga rapidamente così da fare uscire le amministrazioni dalla condizione di incertezza e dagli scontri che si determinano di conseguenza.
Per la verità nell'articolo 7 dell'ultimo contratto nazionale del personale degli enti locali (Ccnl 31.07.2009), è stato assunto l'impegno a rivedere la disciplina del turno. Sicuramente si può sostenere che nel pubblico impiego si applica il divieto di estensione del giudicato, per cui non si può che consigliare alle amministrazioni di attenersi alla lettura data dall'Aran, in quanto soggetto che rappresenta gli enti nella contrattazione. Ma è una risposta insufficiente a placare le tensioni e i contrasti, per cui si deve sollecitare una definizione chiara della materia e lo strumento è quello di un contratto di interpretazione autentica
 (articolo Il Sole 24 Ore del 03.03.2014).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Non integra reato l’installazione, in assenza di permesso di costruire, di mezzi mobili di pernottamento, anche in via permanente, entro il perimetro delle strutture turistico-ricettive all’aperto regolarmente autorizzate ed in ottemperanza dei requisiti stabiliti dagli ordinamenti regionali, non versandosi in presenza di un’attività rilevante ai fini urbanistici, edilizi e paesaggistici come previsto dall’art. 3, comma nono, della L. n. 99 del 2009.
Può richiamarsi, per una fattispecie contigua, Cass., sez. III, 15/12/2009–14/01/2010, n. 1610, che ha affermato che non integra reato l’installazione, in assenza di permesso di costruire, di mezzi mobili di pernottamento, anche in via permanente, entro il perimetro delle strutture turistico-ricettive all’aperto regolarmente autorizzate ed in ottemperanza dei requisiti stabiliti dagli ordinamenti regionali, non versandosi in presenza di un’attività rilevante ai fini urbanistici, edilizi e paesaggistici come previsto dall’art. 3, comma nono, della L. n. 99 del 2009 (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.03.2014 n. 10482 - link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: Anche in caso di interventi di recupero del sottotetto ad uso abitativo deve essere rispettata la normativa statale in tema di distanze tra edifici, dato che, come ha rilevato la sentenza della Corte Costituzionale n. 173 del 2011, la deroga prevista dalla norma regionale richiamata ai limiti e alle prescrizioni degli strumenti di pianificazione comunale “non può ritenersi estesa anche alla disciplina civilistica in materia di distanze, né può operare nei casi in cui lo strumento urbanistico riproduce disposizioni normative di rango superiore, a carattere inderogabile, quali sono quelle dell'art. 41-quinques della legge 17.08.1942, n. 1150, introdotto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, e dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, nella parte in cui regolano le distanze tra fabbricati”.
Sostiene ancora il ricorrente che l’intervento non sarebbe da qualificare come nuova costruzione, contrariamente a quanto ha ritenuto l’Amministrazione: perciò, l’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 non sarebbe applicabile.
La censura non è condivisibile: il provvedimento oggetto del giudizio ha evidenziato gli indici che hanno determinato la definizione dell’intervento, consistenti, in particolare, nella correzione dell’area di sedime, nella traslazione di pareti, nella modifica del perimetro e della sagoma. Rispetto a tali elementi l’appellante si limita ad eccepire che l’art. 64, comma 2, della legge regionale n. 2 del 2005 qualifica il recupero ai fini abitativi del sottotetto come ristrutturazione edilizia, ma tale argomentazione è palesemente inefficace a scalfire la legittimità del provvedimento impugnato, dato che l’intervento edilizio in esame consiste (non nel mero recupero del sottotetto, ma) nella parziale demolizione e ricostruzione dell’edificio originario.
Inoltre, ed è considerazione conclusiva, anche in caso di interventi di recupero del sottotetto ad uso abitativo deve essere rispettata la normativa statale in tema di distanze tra edifici, dato che, come ha rilevato la sentenza della Corte Costituzionale n. 173 del 2011, la deroga prevista dalla norma regionale richiamata ai limiti e alle prescrizioni degli strumenti di pianificazione comunale “non può ritenersi estesa anche alla disciplina civilistica in materia di distanze, né può operare nei casi in cui lo strumento urbanistico riproduce disposizioni normative di rango superiore, a carattere inderogabile, quali sono quelle dell'art. 41-quinques della legge 17.08.1942, n. 1150, introdotto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, e dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, nella parte in cui regolano le distanze tra fabbricati” (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.03.2014 n. 1054 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 36 del d.p.r. 06.06.20012, n. 380, come già l'art. 13 della legge n. 47 del 1985, pone come condizione inderogabile, ai fini del rilascio della sanatoria, che “l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda".
Ai fini del rilascio dell’assenso edilizio in sanatoria è, infatti, necessario dimostrare che l’opera abusiva è conforme non solo alla disciplina urbanistica vigente alla data in cui l’assenso viene richiesto, ma anche a quella vigente all’atto della realizzazione dell’opera.
Come ha chiarito la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (da ultimo, sez. V, 11.06.2013, n. 3220), l'art. 36 del d.p.r. 06.06.20012, n. 380, come già l'art. 13 della legge n. 47 del 1985, pone come condizione inderogabile, ai fini del rilascio della sanatoria, che “l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda" (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.03.2014 n. 1040 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: Ai fini dell’inquadramento di un atto amministrativo non assume rilievo dirimente l’autoqualificazione datane dall’amministrazione emanante, dovendosi invece aver riguardo al suo contenuto sostanziale ed alla funzione da esso perseguita.
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L’istituto della rettifica consiste nella eliminazione di errori ostativi o di errori materiali in cui l’amministrazione sia incappata, di natura non invalidante ma che diano luogo a mere irregolarità.
Affinché ricorra un’ipotesi di errore materiale in senso tecnico-giuridico, occorre che esso sia il frutto di una svista che determini una discrasia tra manifestazione della volontà esternata nell’atto e volontà sostanziale dell’autorità emanante, obiettivamente rilevabile dall’atto medesimo e riconoscibile come errore palese secondo un criterio di normalità, senza necessità di ricorrere ad un particolare sforzo valutativo e/o interpretativo, valendo il requisito della riconoscibilità ad escludere l’insorgenza di un affidamento incolpevole del soggetto destinatario dell’atto in ordine alla corrispondenza di quanto dichiarato nell’atto a ciò che risulti effettivamente voluto. Né alla rettifica si può far luogo oltre un congruo limite temporale, onde non pregiudicare la certezza dei rapporti, specie in caso di incidenza pregiudizievole sulla situazione giuridica del destinatario dell’atto.
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Il provvedimento di rettifica è espressione di una funzione amministrativa di contenuto identico, seppure di segno opposto, a quella esplicata in precedenza. Tale funzione deve, dunque, articolarsi secondo gli stessi moduli già adottati, senza i quali rischia di risultare monca o, comunque, difettosa rispetto all’identica causa del potere, sicché l’amministrazione è tenuta a porre in essere un procedimento omologo, anche per quel che concerne le formalità pubblicitarie, di quello a suo tempo seguito per l’adozione dell’atto modificato, richiedendosi una speculare, quanto pedissequa, identità dello svolgimento procedimentale.
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Una rettifica delle previsioni del piano urbanistico comunale adottato/approvato è ammissibile solo in presenza di un errore materiale nel senso sopra chiarito, il quale abbia inciso nella fase di redazione e/o assemblaggio dei diversi atti che formano lo strumento urbanistico, senza che lo stesso abbia influito sulla scelta urbanistica sottostante, dovendo la divergenza esistente tra previsioni solo apparentemente diverse dello strumento pianificatorio essere risolvibile per mezzo dell’individuazione, sulla base di un vincolato procedimento logico, di una soluzione univoca che s’imponga in modo manifesto ed immediato dalla lettura della documentazione del piano, senza dover ricorrere ad alcuna attività di interpretazione della volontà dell’amministrazione deliberante.

Premesso che ai fini dell’inquadramento di un atto amministrativo non assume rilievo dirimente l’autoqualificazione datane dall’amministrazione emanante, dovendosi invece aver riguardo al suo contenuto sostanziale ed alla funzione da esso perseguita, si osserva che l’istituto della rettifica consiste nella eliminazione di errori ostativi o di errori materiali in cui l’amministrazione sia incappata, di natura non invalidante ma che diano luogo a mere irregolarità.
Affinché ricorra un’ipotesi di errore materiale in senso tecnico-giuridico, occorre che esso sia il frutto di una svista che determini una discrasia tra manifestazione della volontà esternata nell’atto e volontà sostanziale dell’autorità emanante, obiettivamente rilevabile dall’atto medesimo e riconoscibile come errore palese secondo un criterio di normalità, senza necessità di ricorrere ad un particolare sforzo valutativo e/o interpretativo, valendo il requisito della riconoscibilità ad escludere l’insorgenza di un affidamento incolpevole del soggetto destinatario dell’atto in ordine alla corrispondenza di quanto dichiarato nell’atto a ciò che risulti effettivamente voluto. Né alla rettifica si può far luogo oltre un congruo limite temporale, onde non pregiudicare la certezza dei rapporti, specie in caso di incidenza pregiudizievole sulla situazione giuridica del destinatario dell’atto.
Con particolare riguardo alla materia urbanistica, una rettifica delle previsioni del piano urbanistico comunale adottato/approvato è ammissibile solo in presenza di un errore materiale nel senso sopra chiarito, il quale abbia inciso nella fase di redazione e/o assemblaggio dei diversi atti che formano lo strumento urbanistico, senza che lo stesso abbia influito sulla scelta urbanistica sottostante, dovendo la divergenza esistente tra previsioni solo apparentemente diverse dello strumento pianificatorio essere risolvibile per mezzo dell’individuazione, sulla base di un vincolato procedimento logico, di una soluzione univoca che s’imponga in modo manifesto ed immediato dalla lettura della documentazione del piano, senza dover ricorrere ad alcuna attività di interpretazione della volontà dell’amministrazione deliberante.
Si aggiunga che, per consolidato orientamento giurisprudenziale di questo Consiglio di Stato, il provvedimento di rettifica è espressione di una funzione amministrativa di contenuto identico, seppure di segno opposto, a quella esplicata in precedenza. Tale funzione deve, dunque, articolarsi secondo gli stessi moduli già adottati, senza i quali rischia di risultare monca o, comunque, difettosa rispetto all’identica causa del potere, sicché l’amministrazione è tenuta a porre in essere un procedimento omologo, anche per quel che concerne le formalità pubblicitarie, di quello a suo tempo seguito per l’adozione dell’atto modificato, richiedendosi una speculare, quanto pedissequa, identità dello svolgimento procedimentale (v. in tal senso, per tutte, Cons. Stato, Sez. VI, 11.05.2007, n. 2306) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.03.2014 n. 1036 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La pronunzia di decadenza del permesso di costruire è connotata da un carattere strettamente vincolato, dovuto all'accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l'inerzia del titolare a darvi attuazione. Pertanto, un tale provvedimento ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via diretta, con l'infruttuoso decorso del termine prefissato con conseguente decorrenza ex tunc.
Al contrario, la proroga dei termini stabiliti da un atto amministrativo ha la natura giuridica di provvedimento di secondo grado, in quanto modifica, ancorché parzialmente, il complesso degli effetti giuridici delineati dall'atto originario.
Nell’ambito della materia edilizia, la differente qualificazione tra provvedimenti di rinnovo della concessione edilizia e di proroga dei termini di ultimazione dei lavori è riscontrabile nel senso che, mentre il rinnovo della concessione presuppone la sopravvenuta inefficacia dell'originario titolo concessorio e costituisce, a tutti gli effetti, una nuova concessione, la proroga è atto sfornito di propria autonomia che accede all'originaria concessione ed opera semplicemente uno spostamento in avanti del suo termine finale di efficacia.
La proroga è quindi disposta con provvedimento motivato sulla scorta di una valutazione discrezionale, che in termini tecnici si traduce nella verifica delle condizioni oggettive che la giustificano, tenendo presente che, proprio perché il risultato è quello di consentire una deroga alla disciplina generale in tema di edificazione, i presupposti che fondano la richiesta di proroga sono espressamente indicati in norma e sono di stretta interpretazione.
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La proroga può aver luogo per factum principis, ossia, come afferma la norma, “per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso” o per ragioni collegate alla natura dell’opera, ossia “esclusivamente in considerazione della mole dell'opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari”.

In secondo luogo, la disciplina dell’art. 15 “Efficacia temporale e decadenza del permesso di costruire” del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia” mette in luce l’esistenza di un diverso regime che distingue, da un lato, il provvedimento di decadenza da quello di proroga e, all’interno delle tipologie di proroga, quella determinata dal sopravvenire di un fatto esterno da quella determinata da profili ontologici dell’opera.
La prima diade si basa sulla distanza esistente tra un provvedimento legato ai soli presupposti di legge e uno caratterizzato dalla scelta discrezionale. Infatti, la pronunzia di decadenza del permesso di costruire è connotata da un carattere strettamente vincolato, dovuto all'accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l'inerzia del titolare a darvi attuazione. Pertanto, un tale provvedimento ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via diretta, con l'infruttuoso decorso del termine prefissato con conseguente decorrenza ex tunc (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 21.08.2013, n. 4206; id., 07.09.2011, n. 5028).
Al contrario, la proroga dei termini stabiliti da un atto amministrativo ha la natura giuridica di provvedimento di secondo grado, in quanto modifica, ancorché parzialmente, il complesso degli effetti giuridici delineati dall'atto originario (ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 18.09.2008, n. 4498).
Nell’ambito della materia edilizia, la differente qualificazione tra provvedimenti di rinnovo della concessione edilizia e di proroga dei termini di ultimazione dei lavori è riscontrabile nel senso che, mentre il rinnovo della concessione presuppone la sopravvenuta inefficacia dell'originario titolo concessorio e costituisce, a tutti gli effetti, una nuova concessione, la proroga è atto sfornito di propria autonomia che accede all'originaria concessione ed opera semplicemente uno spostamento in avanti del suo termine finale di efficacia. La proroga è quindi disposta con provvedimento motivato sulla scorta di una valutazione discrezionale, che in termini tecnici si traduce nella verifica delle condizioni oggettive che la giustificano, tenendo presente che, proprio perché il risultato è quello di consentire una deroga alla disciplina generale in tema di edificazione, i presupposti che fondano la richiesta di proroga sono espressamente indicati in norma e sono di stretta interpretazione.
La seconda diade evidenzia come la proroga possa aver luogo per factum principis, ossia, come afferma la norma, “per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso” o per ragioni collegate alla natura dell’opera, ossia “esclusivamente in considerazione della mole dell'opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.03.2014 n. 1013 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’impugnazione della concessione edilizia rilasciata a terzi decorre dalla piena conoscenza del provvedimento, coincidente con la effettiva conoscenza degli elementi essenziali del titolo ad aedificandum, del suo contenuto specifico o della esistenza ed entità delle violazioni urbanistiche, tali da far desumere la consapevolezza della portata lesiva dell’intervento assentito, senza che possa assumere decisiva rilevanza la conoscenza di solo alcuni elementi esteriori del provvedimento stesso.
Questo Consesso sempre sul punto, ha avuto modo altresì di affermare come in assenza di elementi probatori idonei a far constare una conoscenza anticipata, il termine d’impugnazione decorre, di solito, dal completamento dei lavori ed inoltre la prova della tardività facente carico in capo a chi la eccepisce deve rivestire carattere rigoroso, non essendo sufficiente fornire degli elementi indiziari.

Avuto riguardo al termine decadenziale di cui all’art. 21 u.c. della legge n. 1034/1971, la giurisprudenza si è consolidata nel ritenere che l’impugnazione della concessione edilizia rilasciata a terzi decorre dalla piena conoscenza del provvedimento, coincidente con la effettiva conoscenza degli elementi essenziali del titolo ad aedificandum, del suo contenuto specifico o della esistenza ed entità delle violazioni urbanistiche, tali da far desumere la consapevolezza della portata lesiva dell’intervento assentito, senza che possa assumere decisiva rilevanza la conoscenza di solo alcuni elementi esteriori del provvedimento stesso (Cons. Stato Sez. IV 20.07.2011 n. 4374; idem 23/07/2009 n. 4616).
Questo Consesso sempre sul punto, ha avuto modo altresì di affermare come in assenza di elementi probatori idonei a far constare una conoscenza anticipata, il termine d’impugnazione decorre, di solito, dal completamento dei lavori (Cons. Stato Sez. IV 10.12.2007 n. 6342) ed inoltre la prova della tardività facente carico in capo a chi la eccepisce deve rivestire carattere rigoroso, non essendo sufficiente fornire degli elementi indiziari (Cons. Stato sez. IV 18.06.2009 n. 4015) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.03.2014 n. 999 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe scelte espresse dall’Amministrazione nello strumento urbanistico generale sono connotate da amplissima discrezionalità e pertanto non necessitano di altra motivazione se non quella costituita dal riferimento operato dal Piano ai criteri tecnico- urbanistici seguiti nella sua redazione e rinvenibili nella relazione di accompagnamento.
Tale discrezionalità, inoltre, è sottratta al sindacato di legittimità non potendo il Giudice amministrativo interferire con le scelte riservate all’Amministrazione, se non nei limiti della verifica della loro manifesta irragionevolezza o arbitrarietà, dovendo comunque l’Amministrazione ispirarsi a criteri di ponderazione tra gli interessi pubblici e privati e di coerenza delle scelte pianificatorie con la funzione propria della programmazione urbanistica.

E’ principio consolidato, infatti, che le scelte espresse dall’Amministrazione nello strumento urbanistico generale sono connotate da amplissima discrezionalità e pertanto non necessitano di altra motivazione se non quella costituita dal riferimento operato dal Piano ai criteri tecnico- urbanistici seguiti nella sua redazione e rinvenibili nella relazione di accompagnamento (Cons. Stato, Sez. IV, 08.06.2011, n. 3497; 18.01.2011 n. 352; 09.12.2010 n. 8682).
Tale discrezionalità, inoltre, è sottratta al sindacato di legittimità non potendo il Giudice amministrativo interferire con le scelte riservate all’Amministrazione, se non nei limiti della verifica della loro manifesta irragionevolezza o arbitrarietà, dovendo comunque l’Amministrazione ispirarsi a criteri di ponderazione tra gli interessi pubblici e privati e di coerenza delle scelte pianificatorie con la funzione propria della programmazione urbanistica (Cons. Stato, Sez. IV, 27.07.2011, n. 4505; 09.07.2002, n. 3817; 06.02.2002, n. 664) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 04.03.2014 n. 701 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa, per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il riesame dell'abusività dell'opera provocato da detta istanza, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di rigetto o di accoglimento), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza anche di questo Tribunale, la presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa, per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il riesame dell'abusività dell'opera provocato da detta istanza, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di rigetto o di accoglimento), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 04.03.2014 n. 697 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIOCanna fumaria, limiti solo dal regolamento. Condominio. Solo l'accordo contrattuale può stabilire divieti all'uso delle parti comuni che non siano previsti dal Codice civile.
Quando si tratta di installare una nuova canna fumaria (in genere per esercizi pubblici di ristorazione) occorre fare i conti con i divieti imposti dal regolamento di condominio e con le caratteristiche minime di funzionalità e di efficienza fissati da ponderose normative di sicurezza e di igiene.
Superati tutti questi ostacoli, spesso scatta l'opposizione del vicino che lamenta la violazione delle distanze legali e invoca il proprio diritto di condomino.

La materia era stata perfettamente illustrata dalla giurisprudenza dei nostri Tribunali, in particolare dal Tribunale di Milano (sentenza dell'08.02.2013) che hanno dettato princìpi condivisi dalla Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la recentissima sentenza 03.03.2014 n. 4936.
Appunto la sentenza della Corte di Cassazione permette di fornire un chiaro vademecum.
In primo luogo, è stato ribadito che le canne fumarie non hanno natura di costruzione e quindi non sono soggette alle precisa distanza legale di cui all'articolo 907 del Codice civile (tre metri dal fondo del vicino).
L'indicazione è puntuale e merita di essere ribadita, per evitare inutili contenziosi: in materia di canne fumarie, si possono individuare ed invocare le norme richiamate più avanti ma non può invocarsi il rispetto della distanza di tre metri che riguarda le vere e proprie costruzioni suscettibili di determinare intercapedine e non i semplici impianti tecnologici, accessori di unità immobiliari.
In secondo luogo, è stato ribadito che l'installazione di una canna fumaria lungo il muro perimetrale di un edificio condominiale non è in contrasto con la natura del muro comune e quindi può essere attuata dal singolo condomino, purché nel rispetto dell'articolo 1102 del Codice civile, per il quale il nuovo manufatto deve rispettare il decoro architettonico dell'edificio e non violare il pari diritto degli altri condòmini ad usare la parete comune. E deve superare la doverosa comparazione tra i diritti chiamati in discorso (bilanciamento degli interessi).
Da ultimo, poiché la canna fumaria comporta anche emissioni di fumi o di vapori, occorrerà avere attenzione per la salubrità e per l'eliminazione di odori.
Succinto è il compendio finale: non entra in discorso una distanze legale fissa ma la disciplina che i condomini si siano data in virtù del regolamento contrattuale.
In difetto di regolamento contrattuale la canna fumaria può dirsi illegittima soltanto se viola apprezzabilmente i diritti degli altri partecipanti al condominio al decoro architettonico ed alla salubrità
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.03.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Gli interventi consistenti nell’istallazione di tettoie o altre strutture analoghe che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi –cioè non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito– possono ritenersi sottratti al regime del permesso di costruire soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni ne rendano evidente e riconoscibile la finalità di arredo o di riparo e protezione dell’immobile cui accedono, mentre non possono ritenersi installabili senza permesso di costruire allorquando le dimensioni siano di entità tale da arrecare una visibile alterazione all’edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite, in particolare quando ne modifichino in modo significativo il prospetto o la sagoma e non possano quindi considerarsi le relative opere come mere pertinenze dell’immobile preesistente.
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Una tettoia per le rilevanti dimensioni (mq. 29) e l’oggettiva capacità di variare il prospetto dell’edificio del ricorrente è assoggettata al regime del permesso di costruire e quindi correttamente è stata interessata da un provvedimento repressivo di demolizione per l’assenza di titolo edilizio.

... per l'annullamento:
- dell’ordinanza dirigenziale n. 15 del 21.11.2013, con cui il Comune di Cento - Settore Lavori pubblici ed Assetto del territorio ha ingiunto al ricorrente la rimozione della tettoia di mq. 29.16 ubicata nell’immobile distinto in catasto al fg. 49 mapp. 2219 sub. 6 (in Via De Curtis n. 30);
- del provvedimento del Comune di Cento prot. n. 40609 del 20.09.2013, relativo al rigetto della domanda di sanatoria presentata dal ricorrente in ordine alla suindicata tettoia.
...
- Ritenuto che, per un consolidato orientamento giurisprudenziale (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 05.08.2013 n. 4086 e 18.12.2012 n. 6493; TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 04.12.2013 n. 5519) da cui il Collegio non ha motivo di discostarsi, gli interventi consistenti nell’istallazione di tettoie o altre strutture analoghe che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi –cioè non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito– possono ritenersi sottratti al regime del permesso di costruire soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni ne rendano evidente e riconoscibile la finalità di arredo o di riparo e protezione dell’immobile cui accedono, mentre non possono ritenersi installabili senza permesso di costruire allorquando le dimensioni siano di entità tale da arrecare una visibile alterazione all’edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite, in particolare quando ne modifichino in modo significativo il prospetto o la sagoma e non possano quindi considerarsi le relative opere come mere pertinenze dell’immobile preesistente;
- che la tettoia in questione, per le rilevanti dimensioni (mq. 29) e l’oggettiva capacità di variare il prospetto dell’edificio del ricorrente (come si evince inequivocabilmente dagli atti di causa), era assoggettata al regime del permesso di costruire e quindi correttamente è stata interessata da un provvedimento repressivo di demolizione per l’assenza di titolo edilizio;
- che non rilevava, poi, l’astratta possibilità di una riduzione dell’estensione della tettoia per ricondurla entro il limite di distanza di cinque metri dalla strada (condizione per la sanatoria dell’abuso), in quanto l’Amministrazione è in simili casi tenuta unicamente ad accertare la regolarità urbanistico/edilizia del manufatto in ragione delle sue effettive ed attuali caratteristiche, indipendentemente dalle soluzioni alternative di cui dispone il privato per usufruire di analoghe utilità attraverso opere compatibili con la disciplina di settore (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 28.02.2014 n. 233 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' notorio che vale in materia il principio dell’inesauribilità del potere amministrativo di vigilanza e controllo e della sanzionabilità del comportamento illecito dei privati, qualunque sia l’entità dell’infrazione e il lasso temporale trascorso, e ciò in ragione dell’inconfigurabilità di un affidamento alla conservazione della situazione di fatto abusiva in forza di una legittimazione fondata unicamente sul tempo.
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Il carattere vincolato del potere repressivo degli abusi edilizi si oppone a che la mancata partecipazione del privato infici la legittimità dell’atto finale.

- che neppure si rendeva necessaria una motivazione legata alla circostanza che l’abuso fosse stato commesso quattro anni prima e che il privato confidasse oramai da tempo nella regolarità edilizia del manufatto, essendo notorio che vale in materia il principio dell’inesauribilità del potere amministrativo di vigilanza e controllo e della sanzionabilità del comportamento illecito dei privati, qualunque sia l’entità dell’infrazione e il lasso temporale trascorso, e ciò in ragione dell’inconfigurabilità di un affidamento alla conservazione della situazione di fatto abusiva in forza di una legittimazione fondata unicamente sul tempo (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. IV, 04.05.2012 n. 2592);
- che quanto, infine, a presunte carenze della fase di comunicazione di avvio del procedimento, appare sufficiente rilevare che il carattere vincolato del potere repressivo degli abusi edilizi si oppone a che la mancata partecipazione del privato infici la legittimità dell’atto finale (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 05.08.2013 n. 4075) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 28.02.2014 n. 233 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza civile e amministrativa, pronunciandosi in relazione a fattispecie analoghe a quella ora all'esame, ha costantemente affermato che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto la richiesta di pagamento del canone dovuto per l'occupazione abusiva di un'area demaniale, trattandosi di questione che investe nella sostanza la quantificazione dell'indennizzo preteso dalla p.a. per l'occupazione sine titulo del bene.
Il ricorso è inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice adito.
La domanda ha, infatti, per oggetto la contestazione della ingiunzione di pagamento di somme di denaro richieste dalla Agenzia del Demanio sul presupposto della occupazione abusiva di un terreno demaniale.
Come da ultimo ricordato da TAR Puglia-Bari Sez. II, 28.03.2013, n. 442 “la giurisprudenza civile e amministrativa, pronunciandosi in relazione a fattispecie analoghe a quella ora all'esame, ha costantemente affermato che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto -come nel caso concreto- la richiesta di pagamento del canone dovuto per l'occupazione abusiva di un'area demaniale, trattandosi di questione che investe nella sostanza la quantificazione dell'indennizzo preteso dalla p.a. per l'occupazione sine titulo del bene (Cass. SS.UU., 31.07.2008, n. 20749, Consiglio di Stato, Sez. IV, 12.06.2012 n. 3456; Sez. VI, 06.02.2010 n. 874; Sez. VI, 19.03.2008, n. 1185; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 09.06.2008, n. 5705; TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I, 16.12.2008 n. 1045; TAR Basilicata, 16.05.2008, n. 206; TAR Sicilia, Catania, Sez. III, 14.05.2008 n. 901; TAR Liguria, Sez. I, 21.04.2008, n. 651)” (TAR Molise, sentenza 28.02.2014 n. 143 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 24, comma secondo, del D.P.R. n. 380/2001 dispone che la mancata presentazione della domanda di agibilità, entro 15 giorni dall’ultimazione dei lavori, da parte di un soggetto titolare di permesso di costruire o d.i.a., comporta l’applicazione di una sanzione pecuniaria (non già il divieto di utilizzo dell’immobile).
Invero, la citata normativa di cui all’art. 24, comma secondo, non include tutti gli interventi edilizi tra quelli assoggettati alla certificazione di agibilità. L’obbligo, semmai, vige per le nuove costruzioni, le ricostruzioni, le sopraelevazioni totali o parziali e gli interventi che possano influire sulle condizioni di sicurezza, salubrità o igienicità degli edifici.
Nel caso di specie, si è trattato di una semplice ristrutturazione (sistemazione del tetto e dei solai, tinteggiatura, infissi, ordinaria manutenzione), senza modifica della sagoma, né aumento di superfici o di cubature, talché esso non sembrerebbe rientrare nel novero di quelli soggetti a certificazione di agibilità o abitabilità, a meno che non si affermi –ma il provvedimento impugnato non lo fa– che detto intervento di risanamento abbia, in qualche modo, peggiorato o diminuito le condizioni di sicurezza, salubrità e igienicità dell’edificio.
E’ evidente che una simile affermazione non sarebbe plausibile, in assenza di una perizia tecnica che dimostrasse l’inadeguatezza dell’intervento risanativo, ovvero il carattere peggiorativo di esso.
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Ai sensi dell'art. 24, comma primo, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, il certificato di agibilità attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità. Si tratta di un provvedimento che reca in sé un accertamento e fa propria l'integrale conformità delle opere realizzate al progetto approvato. La mancanza di esso non pregiudica, né condiziona il potere comunale di dichiarazione di inagibilità di un edificio, ai sensi dell'art. 222 del R.D. 27.07.1934 n. 1265, quando siano stati tecnicamente riscontrati problemi di sicurezza o di igienicità.
E’ del tutto inappropriato, tuttavia, ordinare un implicito sgombero dell’edificio, come fa il provvedimento impugnato, allorché diffida <<a non utilizzare l’immobile sopra descritto privo del regolare certificato di agibilità>>, senza che vi sia stato un concreto accertamento tecnico sulla sicurezza o sulla igienicità dell’edificio.

... per l'annullamento dei seguenti atti: 1) la nota prot. n. 0024629 datata 02.10.2008, con la quale il dirigente della Ripartizione Urbanistica del Comune di Campobasso, ha diffidato la ricorrente <<a non utilizzare l’immobile sopra descritto privo del regolare certificato di agibilità>>;
...
Il ricorso è fondato.
La ricorrente, proprietaria di una abitazione nel centro storico di Campobasso, avendo realizzato alcuni lavori di ristrutturazione dell’immobile (previa la concessione edilizia n. 97/2002, nonché la d.i.a prot. n. 3058 del 12.06.2006), insorge per impugnare la nota datata 02.10.2008, con la quale il dirigente della Ripartizione Urbanistica del Comune di Campobasso, l’ha diffidata <<a non utilizzare l’immobile sopra descritto privo del regolare certificato di agibilità>>.
La nota, invero, richiama l’art. 24, comma secondo, del D.P.R. n. 380/2001 (Testo unico dell’edilizia), a tenore del quale la mancata presentazione della domanda di agibilità, entro 15 giorni dall’ultimazione dei lavori, da parte di un soggetto titolare di permesso di costruire o d.i.a., comporterebbe l’applicazione di una sanzione pecuniaria (non già il divieto di utilizzo dell’immobile).
Invero, la citata normativa di cui all’art. 24, comma secondo, non include tutti gli interventi edilizi tra quelli assoggettati alla certificazione di agibilità. L’obbligo, semmai, vige per le nuove costruzioni, le ricostruzioni, le sopraelevazioni totali o parziali e gli interventi che possano influire sulle condizioni di sicurezza, salubrità o igienicità degli edifici.
Nel caso di specie, si è trattato di una semplice ristrutturazione (sistemazione del tetto e dei solai, tinteggiatura, infissi, ordinaria manutenzione), senza modifica della sagoma, né aumento di superfici o di cubature, talché esso non sembrerebbe rientrare nel novero di quelli soggetti a certificazione di agibilità o abitabilità, a meno che non si affermi –ma il provvedimento impugnato non lo fa– che detto intervento di risanamento abbia, in qualche modo, peggiorato o diminuito le condizioni di sicurezza, salubrità e igienicità dell’edificio. E’ evidente che una simile affermazione non sarebbe plausibile, in assenza di una perizia tecnica che dimostrasse l’inadeguatezza dell’intervento risanativo, ovvero il carattere peggiorativo di esso.
Ai sensi dell'art. 24, comma primo, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, il certificato di agibilità attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità. Si tratta di un provvedimento che reca in sé un accertamento e fa propria l'integrale conformità delle opere realizzate al progetto approvato. La mancanza di esso non pregiudica, né condiziona il potere comunale di dichiarazione di inagibilità di un edificio, ai sensi dell'art. 222 del R.D. 27.07.1934 n. 1265, quando siano stati tecnicamente riscontrati problemi di sicurezza o di igienicità (cfr.: Tar Campania Salerno I, 07.01.2013 n. 21). E’ del tutto inappropriato, tuttavia, ordinare un implicito sgombero dell’edificio, come fa il provvedimento impugnato, allorché diffida <<a non utilizzare l’immobile sopra descritto privo del regolare certificato di agibilità>>, senza che vi sia stato un concreto accertamento tecnico sulla sicurezza o sulla igienicità dell’edificio.
I motivi del ricorso sono, dunque, attendibili.
E’ rilevabile, nella specie, la violazione della normativa di cui alla legge n. 241/1990, sotto il profilo del mancato preavviso, della carenza di istruttoria e del difetto di motivazione. E’ evidente, altresì, per le ragioni illustrate, il travisamento nell’applicazione dell’art. 24, comma secondo, del D.P.R. n. 380/2001, nonché l’eccesso di potere per errore nei presupposti (TAR Molise, sentenza 28.02.2014 n. 134 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le norme sulle distante sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale, purché siano compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè quando l’applicazione di quest’ultima non sia in contrasto con le prime; nell’ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina l’inapplicabilità della disciplina generale sulle distante che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione rispetto alla prima.
Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di cui all’art. 1102 cod. civ., deve ritenersi legittima l’opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura dell’edificio condominiale.

1.2 Col secondo motivo di ricorso si deduce: “Error in iudicando; violazione e falsa applicazione dell’art. 873 c.c. e dell’art. 5.9 delle N.T.A. del PRG del Comune di Teramo; violazione dell’art. 360 n. 3 c.c.”.
La Corte di Appello erronemente ha ritenuto che “il manufatto, oltre a risultare difforme dalla concessione edilizia, si pone in contrasto con la disposizione regolamentare, integrativa del regime codicistico, prevedente la distanza minima dai confini di m 5,00”. Si tratta di violazione amministrativa che nessun rilievo ha nel rapporto tra privati. Inoltre, osserva la ricorrente che “l’irregolarità dal punto di vista urbanistico non sussiste dal momento che la V. si è avvalsa della facoltà concessa dall’art. 12 L. 47/1985 provvedendo al pagamento della prescritta sanzione pecuniaria come risulta dalla documentazione prodotta (doc. n. 9 del fascicolo di 1^ grado). V. , la costruzione è stata ritenuta compatibile con la normativa sismica giusta certificato rilasciato in tal senso dal servilo del Genio Civile di Teramo”.
E, inoltre, secondo la ricorrente, non configurabile “la prospettata violazione dettati. 873 e. e. ove si consideri che il regime normativo tracciato dal codice non prevede distante dai confini”. L’autorizzazione accordata dai condomini tutti “risulta espressa nei seguenti termini: ‘l’assemblea, all’unanimità, autorizza in deroga a quanto stabilito dall’art. 6 del regolamento di condominio la Sig.ra V.F. a realizzare il vano sull’area che la stessa ha in uso esclusivo. Detto vano, adiacente l’attuale cucina avrà una superficie coperta di circa mq. 15 e dovrà essere realizzata a perfetta regola d’arte in maniera tale da non creare danni alle strutture condominiali”.
I limiti posti all’attività edilizia della V. erano “circoscritti, da un lato, alla corretta esecuzione dell’opera e, dall’altro, al mancato pregiudizio all’edificio condominiale”. Stante l’intervenuto provvedimento di sanatoria, la costruzione autorizzata non era vincolata al rispetto di altri parametri e, in particolare, all’osservanza della distanza dal confine stradale. “Il condominio D.A. non poteva, infatti, censurare l’opera realizzata dalla V. per violazione della distanza minima dai confini di m. 5,00 dal momento che egli stesso aveva consentito la costruzione del manufatto a distanza inferiore a quella prescritta dalla normativa regolamentare integrativa del Codice Civile”.
Viene formulato il seguente quesito: “Dica il Supremo Collegio se la distanza prescritta per la costruzione dal confine dalla norma regolamentare (NTA del PRG) possa essere fatta valere anche a seguito di una autorizzazione accordata dal condominio alla realizzarne di un manufatto a distanza non regolamentare”.
...
2.2 Il secondo motivo è in parte inammissibile e in parte infondato. Si denuncia la violazione dell’art. 873 cod. civ. e 5.9 delle n.ta. del P.R.G.. Si assume la legittimità dell’opera perché: 1) autorizzata dal condominio e dallo stesso condomino D.A.; 2) condonata; 3) rispettosa della normativa sismica; 4) l’art. 873 cod. civ. non disciplina le distanze dal confine ma quelle tra fabbricati.
Il motivo propone correttamente la questione relativa al rispetto delle distanze all’interno di un condominio, in relazione al condiviso principio di diritto, affermato da questa Corte anche di recente con la sentenza n. 6546 del 18/03/2010, secondo la quale “Le norme sulle distante sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale, purché siano compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè quando l’applicazione di quest’ultima non sia in contrasto con le prime; nell’ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina l’inapplicabilità della disciplina generale sulle distante che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione rispetto alla prima. Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di cui all’art. 1102 cod. civ., deve ritenersi legittima l’opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura dell’edificio condominiale”.
Peraltro il motivo, così come proposto, non supera il rilievo dell’apparente novità delle questioni sia quanto all’esistenza di una delibera autorizzativa (di cui il motivo precedente) e sia quanto all’esplicito consenso dato dagli originali attori alla realizzazione dell’opera. Occorre osservare ulteriormente che, in base alla concessione, la costruzione avrebbe dovuto essere realizzata completamente interrata e vi è da supporre che la delibera condominiale fosse in tal senso. Il motivo, quindi, è carente di specificità quanto al contenuto della delibera richiamata, risultando poi manifestamente infondata la questione relativa all’interpretazione dell’art. 873 c.c. (
Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 27.02.2014 n. 4741 - link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 3, comma 1, lettera e, n. 5), le roulotte e le case mobili rientrano tra i manufatti leggeri, prefabbricati, per la cui installazione è necessario il preventivo ottenimento del permesso di costruire se utilizzati come abitazioni, e non dirette a soddisfare esigenze meramente temporanee.
1. Il ricorso –articolato in un unico motivo con cui il ricorrente contesta i presupposti del reato di lottizzazione abusiva– è infondato.
2. Correttamente sia il g.i.p. che il tribunale hanno ritenuto che le 51 unità abitative realizzate e le opere di urbanizzazione poste in essere sul terreno in questione configurano una lottizzazione materiale, posto che il Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 3, comma 1, lettera e, n. 5), qualifica come “nuove costruzioni” le strutture abitative mobili se idonee a trasformare in modo durevole il territorio.
Va sottolineato che, per giurisprudenza della Suprema Corte (Cass., Sez. 3, 20.04.2011-20.05.2011, n. 20006; Cass., sez. 3, 26.04.2007–22.05.2007, n. 19732), il reato di lottizzazione abusiva è reato permanente e che la permanenza cessa con l’ultimazione della condotta lottizzatoria, ovvero con la ultimazione dell’attività giuridica o materiale volta alla trasformazione del territorio, individuabile quest’ultima nella ultimazione delle opere abusive costruite nei lotti.
Nella specie le ultime installazioni delle case mobili sono state poste in essere dopo il 07.01.2013.
E’ vero che la Legge 23.07.2009, n. 99, articolo 3, comma 9, escludeva che le installazioni ed i rimessaggi di mezzi mobili di pernottamento entro il perimetro di strutture turistico–ricettive regolarmente autorizzate, anche se collocativi permanentemente per l’esercizio dell’attività, purché ottemperanti alle specifiche condizioni strutturali e di mobilità stabilite dagli ordinamenti regionali, costituissero attività rilevanti ai fini urbanistici, edilizi e paesaggistici. Ma con sentenza n. 278 del 2010 la Corte Costituzionale ne ha dichiarato l’incostituzionalità. Ha osservato la Corte che la citata disposizione ha introdotto una disciplina che si risolve in una normativa dettagliata e specifica che non lascia alcuno spazio al legislatore regionale. La Corte ha ricordato che la normativa statale sancisce, all’opposto, il principio per cui ogni trasformazione permanente del territorio necessita di titolo abilitativo e ciò anche ove si tratti di strutture mobili allorché esse non abbiano carattere precario.
Rimane quindi che ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 3, comma 1, lettera e, n. 5), le roulotte e le case mobili rientrano tra i manufatti leggeri, prefabbricati, per la cui installazione è necessario il preventivo ottenimento del permesso di costruire se utilizzati come abitazioni, e non dirette a soddisfare esigenze meramente temporanee.
Né al ricorrente giova, da ultimo, il Decreto Legge 21.06.2013, n. 69, articolo 41, comma 4, conv. in Legge 08.08.2013, n. 98, che ha escluso dalla nozione di “interventi di nuova costruzione” i manufatti leggeri, anche prefabbricati, destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee, ancorché installati con ancoraggio al suolo, purché “temporaneo”. Nella specie infatti la tipologia dei manufatti realizzati dal ricorrente (bungalows con le caratteristiche sopra descritte) non depone affatto per la temporaneità della realizzazione; temporaneità che implica il montaggio e la rimozione del manufatto allorché le esigenze appunto temporanee –nella specie legate alla durata della stagione turistica– siano cessate.
3. Pertanto il ricorso va rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.02.2014 n. 9268 - link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: Il vincolo archeologico non comporta ex se inedificabilità di tipo assoluto “riguardando soltanto le costruzioni che in qualsiasi modo snaturano o comunque danneggiano i reperti fissi al suolo o affioranti e non potendo trovare applicazione per tutte quelle altre costruzioni che non determinano siffatto pregiudizio, con la conseguenza che, una volta ottenuto l'approvazione ex art. 18, l. 01.06.1939 n. 1089, gli aventi diritto sull'immobile sono in grado di eseguire opere, a meno che, in concreto, l'interesse archeologico, lungi dal rimanere circoscritto ad alcuni resti presenti nell'area, si correli al luogo nel suo complesso, quale sede di una pluralità di reperti tale da testimoniare uno specifico assetto storico di insediamento”.
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Detti princìpi devono invero applicarsi anche in sede di condono, come ritenuto dal Consiglio di Stato, secondo cui “il vincolo archeologico posto sull'area in esame non ne comporta l'inedificabilità assoluta, ma l'obbligo di verificare, da parte dell'Amministrazione preposta alla tutela del vincolo stesso, la compatibilità dell'intervento edilizio con le ragioni di tutela. Come questo Consiglio di Stato ha già osservato, infatti, la valutazione di compatibilità non muta in relazione al fatto che l'opera sia stata realizzata o meno: l'autorità preposta alla tutela del vincolo deve in ogni caso verificare se quel determinato tipo di intervento sia o meno compatibile con il vincolo. Il giudizio circa tale compatibilità non è in alcun modo influenzato dal fatto che l'opera sia stata, o meno, realizzata: o l'intervento è compatibile con il vincolo ed allora lo era sia prima che dopo la realizzazione, o non lo è ed allora l'autorizzazione postuma non può essere rilasciata, non già perché non chiesta in precedenza, ma perché non poteva essere rilasciata anche se richiesta tempestivamente”
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Ed invero, come già rilevato in sede cautelare, il vincolo archeologico non comporta ex se inedificabilità di tipo assoluto “riguardando soltanto le costruzioni che in qualsiasi modo snaturano o comunque danneggiano i reperti fissi al suolo o affioranti e non potendo trovare applicazione per tutte quelle altre costruzioni che non determinano siffatto pregiudizio, con la conseguenza che, una volta ottenuto l'approvazione ex art. 18, l. 01.06.1939 n. 1089, gli aventi diritto sull'immobile sono in grado di eseguire opere, a meno che, in concreto, l'interesse archeologico, lungi dal rimanere circoscritto ad alcuni resti presenti nell'area, si correli al luogo nel suo complesso, quale sede di una pluralità di reperti tale da testimoniare uno specifico assetto storico di insediamento” (TAR Torino Piemonte sez. I, 07.07.2009, n. 1998).
Detti princìpi devono invero applicarsi anche in sede di condono, come ritenuto dal Consiglio di Stato (cfr. sent. sez. VI, 30.11.2011, n. 6323, secondo cui “il vincolo archeologico posto sull'area in esame non ne comporta l'inedificabilità assoluta, ma l'obbligo di verificare, da parte dell'Amministrazione preposta alla tutela del vincolo stesso, la compatibilità dell'intervento edilizio con le ragioni di tutela. Come questo Consiglio di Stato ha già osservato, infatti, la valutazione di compatibilità non muta in relazione al fatto che l'opera sia stata realizzata o meno: l'autorità preposta alla tutela del vincolo deve in ogni caso verificare se quel determinato tipo di intervento sia o meno compatibile con il vincolo. Il giudizio circa tale compatibilità non è in alcun modo influenzato dal fatto che l'opera sia stata, o meno, realizzata: o l'intervento è compatibile con il vincolo ed allora lo era sia prima che dopo la realizzazione, o non lo è ed allora l'autorizzazione postuma non può essere rilasciata, non già perché non chiesta in precedenza, ma perché non poteva essere rilasciata anche se richiesta tempestivamente (Con. Stato, sez. VI, 06.11.2000, n. 6130)” (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 25.02.2014 n. 1174 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'acquisizione gratuita dell'area non è una misura strumentale, per consentire al Comune di eseguire la demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma costituisce una sanzione autonoma che consegue all'inottemperanza all'ingiunzione, abilitando l'Amministrazione ad una scelta fra la demolizione d'ufficio e la conservazione del bene, definitivamente già acquisito, in presenza di prevalenti interessi pubblici, vale a dire per la destinazione a fini pubblici, e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali.
Ne discende che, essendo l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale una sanzione prevista per l'ipotesi di inottemperanza all'ingiunzione di demolizione, essa si riferisce esclusivamente al responsabile dell'abuso non potendo operare nella sfera giuridica di altri soggetti e, in particolare, nei confronti del proprietario dell'area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell'opera abusiva ovvero emerga che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offerti dall'ordinamento.
Altresì, al fine di configurare la responsabilità del proprietario di un'area per la realizzazione di una costruzione abusiva è necessaria la sussistenza di elementi in base ai quali possa ragionevolmente presumersi che questi abbia concorso, anche solo moralmente, con il committente o l'esecutore dei lavori, tenendo conto della piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo e dell'interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione, così come dei rapporti di parentela o affinità tra responsabile e proprietario, della sua eventuale presenza in loco, dello svolgimento di attività di vigilanza dell'esecuzione dei lavori, del regime patrimoniale dei coniugi, ovvero di tutte quelle situazioni e comportamenti positivi o negativi dai quali possano trarsi elementi integrativi della colpa.

... per l'annullamento del provvedimento prot. n. 20387 pratica n. 1003/AB del 21.11.2012 di acquisizione gratuita al patrimonio del Comune di Sant’Agnello: a) dell’ulteriore area rispetto a quella di sedime del manufatto abusivo, come di seguito descritta: ditta intestataria R.E., foglio n. 6 particella n. 451 consistenza mq. 416,57; b) della comproprietà pari ad ½ (un mezzo) della quota di proprietà della sig.ra R.E. del viale pedonale, individuato in catasto terreni al foglio n. 6; particella di mq. 152,00, intestata alle germane R.E., G., M.R. e M.T., di accesso all’immobile acquisito.
...
La censura è fondata e meritevole di accoglimento.
La Corte Costituzionale (cfr. sentenza n. 345 del 15.07.1991) ha precisato che l'acquisizione gratuita dell'area non è una misura strumentale, per consentire al Comune di eseguire la demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma costituisce una sanzione autonoma che consegue all'inottemperanza all'ingiunzione, abilitando l'Amministrazione ad una scelta fra la demolizione d'ufficio e la conservazione del bene, definitivamente già acquisito, in presenza di prevalenti interessi pubblici, vale a dire per la destinazione a fini pubblici, e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali.
Ne discende che, essendo l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale una sanzione prevista per l'ipotesi di inottemperanza all'ingiunzione di demolizione, essa si riferisce esclusivamente al responsabile dell'abuso non potendo operare nella sfera giuridica di altri soggetti e, in particolare, nei confronti del proprietario dell'area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell'opera abusiva ovvero emerga che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offerti dall'ordinamento.
La Corte di Cassazione ha, inoltre, affermato che al fine di configurare la responsabilità del proprietario di un'area per la realizzazione di una costruzione abusiva è necessaria la sussistenza di elementi in base ai quali possa ragionevolmente presumersi che questi abbia concorso, anche solo moralmente, con il committente o l'esecutore dei lavori, tenendo conto della piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo e dell'interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione, così come dei rapporti di parentela o affinità tra responsabile e proprietario, della sua eventuale presenza in loco, dello svolgimento di attività di vigilanza dell'esecuzione dei lavori, del regime patrimoniale dei coniugi, ovvero di tutte quelle situazioni e comportamenti positivi o negativi dai quali possano trarsi elementi integrativi della colpa (cfr. Cassazione penale, sez. III, 12.04.2005, n. 26121) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 25.02.2014 n. 1165 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Deve escludersi che la P.A. sia tenuta ad indicare già nel provvedimento demolitorio la superficie dell'area da acquisire in caso di mancanza di spontaneo adempimento ad esso, essendo sufficiente, invece, la sola mera indicazione delle conseguenze della mancata demolizione.
Passando all’esame delle censure di illegittimità per vizi propri il Collegio ritiene infondato e da disattendere il primo motivo con il quale i ricorrenti si dolgono della violazione dell’art. 31 del D.P.R. 380/2001 e dell’eccesso di potere per inesistenza dei presupposti in fatto e in diritto poiché l’ordinanza demolitoria presupposta non conterrebbe l’indicazione esatta dei beni da acquisire.
E, infatti, come affermato anche in recenti sentenze della Sezione, deve escludersi che “la P.A. sia tenuta ad indicare già nel provvedimento demolitorio la superficie dell'area da acquisire in caso di mancanza di spontaneo adempimento ad esso, essendo sufficiente, invece, la sola mera indicazione delle conseguenze della mancata demolizione (cfr. TAR Lombardia-Brescia n. 4561 del 05.11.2010; TAR Campania-Salerno n. 5301 del 30.04.2010; TAR Veneto n. 1725 del 10.6.2009; TAR Emilia Romagna-Parma n. 61 del 10.03.2009)” (cfr. in termini TAR Campania, Napoli, VII, 27.05.2013, n. 2761).
Il Collegio rileva, inoltre che una simile questione avrebbe, comunque, dovuto essere sollevata con apposita impugnazione della presupposta ordinanza di demolizione (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 25.02.2014 n. 1164 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In pendenza di procedimento di condono, gli unici interventi edilizi consentiti sul manufatto sono quelli diretti a garantirne l'integrità e la conservazione.
E del resto la costante giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ha affermato che, in pendenza di procedimento di condono, gli unici interventi edilizi consentiti sul manufatto sono quelli diretti a garantirne l'integrità e la conservazione (cfr. TAR Campania, Napoli, II, 20.02.2013, n. 919; TAR Lazio, Latina, 29.06.2011, n. 572) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 25.02.2014 n. 1163 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La semplice indicazione di una strada nell'elenco delle strade comunali (o vicinali) non è sufficiente al fine di accertarne la natura pubblica, atteso che tali elenchi hanno natura dichiarativa e non costitutiva.
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La sussistenza dei presupposti necessari per poter qualificare ad uso pubblico una strada sono:
a) il passaggio esercitato iuris servitutis publicae da una collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad un gruppo territoriale;
b) la concreta idoneità della strada, anche per il collegamento con la via pubblica, a soddisfare esigenze di interesse generale;
c) un titolo valido a sorreggere l'affermazione di uso pubblico.

Nemmeno, poi, risulta decisiva in contrario l’affermazione secondo cui “il tratto di strada denominata via Lamma, con inizio da piazza Matteotti e fine alla via Incoronata, è di proprietà comunale ed è inventariata nei beni demaniali di cui all’allegato C al n. 54, come riportato nella deliberazione di C.C. n. 9/1965”, in quanto la semplice indicazione di una strada nell'elenco delle strade comunali (o vicinali) non è sufficiente al fine di accertarne la natura pubblica, atteso che tali elenchi hanno natura dichiarativa e non costitutiva (cfr. Cass. SS.UU. n. 1624 del 27.01.2010; Cons. di Stato sez. V, n. 8624 del 07.12.2010; TAR Valle d’Aosta n. 86 del 13.11.2009; TAR Calabria-Catanzaro n. 141 del 05.02.2008).
Peraltro, va notato, a quest’ultimo proposito, che l’operato amministrativo risulta comunque connotato da poca chiarezza (se non da errori), atteso che l’elenco di cui all’allegato C della delibera di C.C. n. 9/1965, oltre a riferirsi alle strade vicinali (e quindi non a quelle demaniali), si ferma al n. 43 (e va detto che, verificando i detti elenchi, una via Lamma “da piazza Trivione a via Incoronata” si rinviene al n. 5 dell’allegato A - strade comunali urbane; ma ancora nella memoria del 04.10.2013, il Comune intimato ribadisce che la “strada comunale Lamma è riportata ancora oggi nei beni demaniali del Comune di Gragnano, al n. 54 dell’allegato C alla delibera di Consiglio Comunale n. 9 del 10.04.1965. Non è stata mai sdemanializzata, né avrebbe potuto essere oggetto di trasferimento tra privati”).
In definitiva, quindi, deve giudicarsi che la strada Lamma in discussione, la quale il verificatore afferma essere stata probabilmente esistente in loco in un tempo anteriore al 1943, al più dovesse essere una via vicinale privata, non essendovi prova della sussistenza dei presupposti necessari per poterla qualificare ad uso pubblico [ovvero: a) il passaggio esercitato iuris servitutis publicae da una collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad un gruppo territoriale; b) la concreta idoneità della strada, anche per il collegamento con la via pubblica, a soddisfare esigenze di interesse generale; c) un titolo valido a sorreggere l'affermazione di uso pubblico]; con la conseguenza che deve presumersi che, caduta in disuso, ben avrebbe potuto essere compravenduta dai privati proprietari (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 25.02.2014 n. 1151 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAppalti, nessuno sconto. In 10 giorni il vincitore deve provare i requisiti. Il Consiglio di stato sulla natura dei termini in capo all'aggiudicatario.
Anche il vincitore di un appalto ha l'obbligo di provare i requisiti dichiarati, senza possibilità di deroga. Il termine dei dici giorni è perentorio.
Lo afferma l'adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza 25.02.2014 n. 10, risolvendo una questione dibattuta da tempo.
In particolare, l'art. 48, primo comma, del Codice dei contratti pubblici, prevede che entro dieci giorni gli offerenti sorteggiati (per la verifica a campione) debbano produrre i documenti a comprova dei requisiti dichiarati, pena l'esclusione dalla gara, la segnalazione all'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici e l'escussione della cauzione provvisoria. Nel secondo comma si stabilisce che la richiesta dei documenti «è, altresì, inoltrata, entro dieci giorni dalla conclusione delle operazioni di gara, anche all'aggiudicatario e al concorrente che segue in graduatoria, qualora gli stessi non siano compresi fra i concorrenti sorteggiati».
La giurisprudenza del Consiglio di stato è stata fino ad oggi costante nel ritenere che il termine previsto dal primo comma dell'art. 48 del Codice, in relazione alla verifica a campione, abbia natura perentoria (tranne il caso di un oggettivo impedimento alla produzione della documentazione non in disponibilità), mentre si è divisa sulla natura del termine che viene assegnato dall'amministrazione all'aggiudicatario nella procedura prefigurata dal secondo comma dello stesso art. 48.
Secondo un orientamento il secondo comma dell'art. 48, a differenza del primo comma, non contempla un termine legale entro il quale la documentazione richiesta dall'amministrazione deve essere prodotta e quindi il termine non è perentorio. Il termine di cui al secondo comma dovrebbe essere considerato, mancando esigenze acceleratorie, meramente sollecitatorio, e in tal senso si era espressa anche l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici con la determinazione n. 5 del 21.05.2009. Secondo un altro orientamento, invece, il termine, anche del secondo comma, ha natura perentoria.
La pronuncia dell'adunanza plenaria sposa questa seconda tesi affermando che in tal senso depone, a detta dei giudici, il fatto che l'esigenza di celerità del procedimento è propria anche della fase specifica in cui si inserisce l'adempimento di cui all'art. 48, comma 2, che è quella conclusiva della procedura che inizia con l'aggiudicazione provvisoria e si conclude con la stipula del contratto. Ad avviso dei giudici, inoltre, l'esigenza di celerità e certezza deriva anche dalla «previsione del condizionamento sequenziale degli adempimenti e dalla preordinazione di termini per la verifica e approvazione dell'aggiudicazione provvisoria, per l'inoltro della richiesta di verifica dei requisiti da parte dell'amministrazione e per la stipulazione, approvazione e controlli del contratto».
Infine, il Consiglio di stato afferma che assumono comunque particolare rilevanza i «principi generali di tempestività ed efficacia delle procedure di affidamento, di cui all'art. 2 del Codice, nel momento della conclusione utile della lunga e complessa attività svolta in precedenza per la scelta del contraente». Quindi il vincitore deve entro dieci giorni provare i requisiti pena l'esclusione dalla gara (articolo ItaliaOggi dell'01.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIIn mancanza di una specifica previsione della lex specialis va rilevato che non può identificarsi un obbligo di inclusione nell'intestazione della cauzione provvisoria, riferito alle imprese ausiliarie discendente dall'art. 49, d.lgs. n. 163 del 2006, posto che ivi, dopo aver contemplato un regime di responsabilità solidale tra l'impresa avvalente e quella ausiliaria, si dispone che il contratto di appalto è comunque eseguito dall'impresa avvalente, a nome della quale è rilasciato il certificato di esecuzione dei lavori.
Dunque, se lo stesso legislatore individua dunque nell'impresa avvalente l'unico soggetto titolare del contratto di appalto, risulta allora del tutto illogico affermare che l'onere cauzionale deve gravare su di un soggetto ulteriore e diverso, in ordine al quale rileva solo il rapporto interno con l'avvalente medesimo, ferma restando la predetta responsabilità solidale ex lege dell'ausiliario nei confronti dell'amministrazione aggiudicatrice.

Con il secondo motivo di ricorso si contesta la regolarità della polizza fideiussoria, presentata a titolo di cauzione provvisoria, in quanto non estesa anche all'impresa ausiliaria.
Il motivo è infondato.
In mancanza di una specifica previsione della lex specialis va rilevato che non può identificarsi un obbligo di inclusione nell'intestazione della cauzione provvisoria, riferito alle imprese ausiliarie discendente dall'art. 49, d.lgs. n. 163 del 2006, posto che ivi, dopo aver contemplato un regime di responsabilità solidale tra l'impresa avvalente e quella ausiliaria, si dispone che il contratto di appalto è comunque eseguito dall'impresa avvalente, a nome della quale è rilasciato il certificato di esecuzione dei lavori.
Dunque, se lo stesso legislatore individua dunque nell'impresa avvalente l'unico soggetto titolare del contratto di appalto, risulta allora del tutto illogico affermare che l'onere cauzionale deve gravare su di un soggetto ulteriore e diverso, in ordine al quale rileva solo il rapporto interno con l'avvalente medesimo, ferma restando la predetta responsabilità solidale ex lege dell'ausiliario nei confronti dell'amministrazione aggiudicatrice (cfr. in termini Tar Salerno 2517/2013, Tar Catanzaro 868/2013, Tar L’Aquila 817/2013, Tar Catania 27/2013) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 26.02.2014 n. 659 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa scadenza del termine quinquennale di efficacia del vincolo di destinazione di piano preordinato all’esproprio comporta il venir meno della regolamentazione urbanistica e l’applicazione delle norme di salvaguardia previste per i Comuni sprovvisti di strumenti urbanistici generali (ai sensi dell’art. 9 D.P.R. 06.06.2001 n. 380), e la situazione di inedificabilità conseguente alla sopravvenuta inefficacia di talune previsioni di piano (cosiddetto vuoto urbanistico) è per sua natura provvisoria, avendo l’Autorità Comunale l’obbligo di reiterare il vincolo (con previsione di indennizzo) ovvero, in alternativa, di provvedere all’integrazione dello strumento urbanistico generale divenuto parzialmente inoperante, stabilendo (attraverso l’adozione di una apposita variante urbanistica) la nuova destinazione da assegnare alle aree interessate.
L’insegnamento giurisprudenziale consolidato ha, infatti, chiarito che, in materia urbanistica, la scadenza del termine quinquennale di efficacia del vincolo di destinazione di piano preordinato all’esproprio comporta il venir meno della regolamentazione urbanistica e l’applicazione delle norme di salvaguardia previste per i Comuni sprovvisti di strumenti urbanistici generali (ai sensi dell’art. 9 D.P.R. 06.06.2001 n. 380), e che la situazione di inedificabilità conseguente alla sopravvenuta inefficacia di talune previsioni di piano (cosiddetto vuoto urbanistico) è per sua natura provvisoria, avendo l’Autorità Comunale l’obbligo di reiterare il vincolo (con previsione di indennizzo) ovvero, in alternativa, di provvedere all’integrazione dello strumento urbanistico generale divenuto parzialmente inoperante, stabilendo (attraverso l’adozione di una apposita variante urbanistica) la nuova destinazione da assegnare alle aree interessate (ex multis: Corte di Cassazione Civile, 31.03.2008 n. 8384) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 26.02.2014 n. 642 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Nella materia dei procedimenti di espropriazione per pubblica utilità, ad eccezione delle ipotesi in cui l’amministrazione abbia agito nell’assoluto difetto di una potestà ablativa come mancanza di qualunque facultas agendi vincolata o discrezionale di elidere o comprimere detto diritto di proprietà –devolute come tali alla giurisdizione ordinaria– appartengono alla cognizione del giudice amministrativo nell’ambito della giurisdizione esclusiva le controversie nelle quali si faccia questione (anche ai fini complementari della tutela risarcitoria) di attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti ad una dichiarazione di pubblica utilità e con essa congruenti.
Ciò avviene anche se il procedimento all'interno del quale sono state espletate dette attività non sia sfociato in un tempestivo e formale atto traslativo della proprietà, ovvero sia caratterizzato dalla presenza di atti poi dichiarati illegittimi, purché vi sia un collegamento all’esercizio della pubblica funzione.
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L’occupazione di un immobile da parte dell’amministrazione, che si protragga senza un decreto di esproprio anche dopo la scadenza dei termini fissati nella dichiarazione di pubblica utilità, è pur sempre riconducibile all’esercizio del potere e di conseguenza le controversie risarcitorie sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 34 del D.Lgs. 80/1998 e dell’art. 53 del T.U. 327/2001.
Tale tesi è oggi confermata (e confortata) anche dalla previsione di cui all’art. 133, lettera g), del Codice del processo, a mente del quale rientrano nella giurisdizione amministrativa anche le controversie relative a atti, provvedimenti e comportamenti riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio del potere in materia espropriativa.
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Rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie, anche di natura risarcitoria, relative ad occupazioni illegittime preordinate all’espropriazione, attuate in presenza di un concreto esercizio del potere ablatorio, riconoscibile per tale in base al procedimento svolto ed alle forme adottate, in consonanza con le norme che lo regolano, pur se poi l’ingerenza nella proprietà privata e la sua utilizzazione, nonché la irreversibile trasformazione della stessa, …., sia avvenuta senza alcun titolo che lo consentisse.

La Sezione ritiene di non doversi discostare nella circostanza dall’ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo il quale, nella materia dei procedimenti di espropriazione per pubblica utilità, ad eccezione delle ipotesi in cui l’amministrazione abbia agito nell’assoluto difetto di una potestà ablativa come mancanza di qualunque facultas agendi vincolata o discrezionale di elidere o comprimere detto diritto di proprietà –devolute come tali alla giurisdizione ordinaria– appartengono alla cognizione del giudice amministrativo nell’ambito della giurisdizione esclusiva le controversie nelle quali si faccia questione (anche ai fini complementari della tutela risarcitoria) di attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti ad una dichiarazione di pubblica utilità e con essa congruenti. Ciò avviene anche se il procedimento all'interno del quale sono state espletate dette attività non sia sfociato in un tempestivo e formale atto traslativo della proprietà, ovvero sia caratterizzato dalla presenza di atti poi dichiarati illegittimi, purché vi sia un collegamento all’esercizio della pubblica funzione (TAR Campania Napoli, sez. V – 05/12/2013 n. 5600, che richiama tra l’altro Consiglio di Stato, sez. IV – 04/04/2011 n. 2113; TAR Lombardia Brescia – 18/12/2008 n. 1796).
In tal senso, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (30/7/2007 n. 9) ha osservato che l’occupazione di un immobile da parte dell’amministrazione, che si protragga senza un decreto di esproprio anche dopo la scadenza dei termini fissati nella dichiarazione di pubblica utilità, è pur sempre riconducibile all’esercizio del potere e di conseguenza le controversie risarcitorie sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 34 del D.Lgs. 80/1998 e dell’art. 53 del T.U. 327/2001. Tale tesi è oggi confermata (e confortata) anche dalla previsione di cui all’art. 133, lettera g), del Codice del processo, a mente del quale rientrano nella giurisdizione amministrativa anche le controversie relative a atti, provvedimenti e comportamenti riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio del potere in materia espropriativa.
Come ha recentemente statuito il Consiglio di Stato, sez. IV – 04/12/2013 n. 5766, <<rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (così da ultimo tra tante Cassazione civile a sezioni unite 29.03.2013, n.7938) le controversie, anche di natura risarcitoria, relative ad occupazioni illegittime preordinate all’espropriazione, attuate in presenza di un concreto esercizio del potere ablatorio, riconoscibile per tale in base al procedimento svolto ed alle forme adottate, in consonanza con le norme che lo regolano, pur se poi l’ingerenza nella proprietà privata e la sua utilizzazione, nonché la irreversibile trasformazione della stessa, …., sia avvenuta senza alcun titolo che lo consentisse>> (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 26.02.2014 n. 221 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Esclusa dalla gara l’impresa che omette la sigillatura del plico contenente l'offerta.
Oggetto del contendere, in questa pronuncia della quinta sezione del Consiglio di Stato, è la legittimità dell'esclusione dalla gara dell'impresa che abbia omesso la sigillatura del plico contenente l'offerta.
Su questo argomento, i giudici di Palazzo Spada ricordano che l'art. 46. c.1-bis, del D.L.vo 163 del 2006, dispone che "la stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in … in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte".
Nel caso in commento, senza timbratura e controfirma, quindi, non può sussistere certezza che la sigillatura su quel lembo sia stata opposta all'origine dal mittente che dispone del timbro e della firma; né può sussistere la certezza che, dopo la spedizione, un lembo del plico non sia stato aperto e solo successivamente sigillato con il nastro adesivo.
Gli adempimenti prescritti assicurano, infatti, secondo i giudici d’appello, l'autenticità della chiusura originaria proveniente dal mittente e, evitando la manomissione del contenuto del plico, garantiscono la segretezza dell'offerta, con la conseguente legittimità dell'esclusione dalla gara dell'impresa che abbia omesso la sigillatura del plico contenente l'offerta medesima; e che rientra nel potere dell'Amministrazione fissare le regole di svolgimento della gara pubblica, comprese quelle che attengono alle modalità di presentazione delle offerte; tale potere sfugge al sindacato giurisdizionale salva la sua manifesta irragionevolezza, irrazionalità ed illogicità, che non sussistono nel caso in cui sia per essa richiesta una doppia formalità, e cioè la sigillatura del plico e la controfirma sui lembi di chiusura, in quanto ragionevolmente finalizzata non solo ad evitare il rischio della manomissione del plico e dell'alterazione del suo contenuto, garanzia alla quale è preposta la sigillatura, ma anche a garantire la effettiva provenienza del plico e dell'offerta, garanzia cui è preposta la controfirma sui lembi di chiusura (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it -
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.02.2014 n. 828 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Direttore dei lavori e disciplina antisismica.
Il direttore dei lavori, è tra i soggetti destinatari del divieto di esecuzione dei lavori in difetto della preventiva autorizzazione in virtù della posizione di controllo a lui affidata su costruzioni potenzialmente lesive della pubblica incolumità e risponde anche del reato di omesso deposito del progetto per le costruzioni edificate in zona sismica per non aver controllato il rispetto degli adempimenti prescritti dalla normativa antisismica (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.02.2014 n. 7775 - tratto da www.lexambiente.it).
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MASSIMA
2.1. Va ricordato, innanzitutto, che
le contravvenzioni previste dalla normativa antisismica puniscono inosservanze formali, volte a presidiare il controllo preventivo della P.A. Ne deriva che l'effettiva pericolosità della costruzione realizzata senza i prescritti adempimenti è del tutto irrilevante ai fini della sussistenza del reato e la verifica postuma dell'assenza del pericolo ed il rilascio dei provvedimenti abilitativi non incide sulla illiceità della condotta, poiché gli illeciti sussistono in relazione al momento di inizio della attività (cfr. Cass. pen. sez. 3, 17.06.1997 n. 5738).
Le disposizioni della normativa antisismica si applicano, invero, a tutte le costruzioni la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità, a nulla rilevando la natura dei materiali usati e delle strutture realizzate- a differenza della disciplina relativa alle opere in conglomerato cementizio armato- in quanto l'esigenza di maggior rigore nelle zone dichiarate sismiche rende ancor più necessari i controlli e le cautele prescritte, quando si impiegano elementi strutturali meno solidi e duraturi del cemento armato (Cass. pen. sez. 3, 24.10.2001 n. 38142).
2.1.1. Correttamente, pertanto, il Tribunale ha ritenuto che per i lavori effettuati in difformità dal progetto ed analiticamente riportati nell'imputazione occorressero gli adempimenti previsti dalla normativa antisismica di cui agli artt. 93, 94 e 95 DPR 380/2001. Si trattava, invero, della realizzazione di "casseforme ed armature relative a n. 2 manufatti seminterrati aventi dimensioni: mt. 8,70 X 10,00 con altezza di mt. 2,50 e mt. 3,60 X 6,60 con altezza di mt. 2,50" (pag.2 sent.) e, quindi, palesemente di opere non certo "di rilevanza strutturale trascurabile", come assume il ricorrente.
2.2. Quanto ai rilievi in ordine alla posizione del direttore dei lavori, secondo la giurisprudenza assolutamente prevalente di questa Corte,
il reato de quo, "potendo essere commesso da chiunque violi o concorra a violare l'obbligo del deposito del progetto delle opere realizzate in zona sismica, può essere realizzato dal proprietario, dal committente, dal titolare della concessione edilizia e da qualsiasi altro soggetto, che abbia disponibilità dell'immobile o dell'area su cui esso sorge, nonché da coloro, che esplicano attività tecnica ed hanno iniziato la costruzione, senza il doveroso controllo del rispetto degli adempimenti di legge" (cfr. ex multis Cass. pen. sez. 3 n. 35387 del 24.05.2007; conf. Cass. Sez. 3, 10.12.1999; Cass. Sez. 3 n. 4438 del 10.04.1997).
E' stato così ritenuto che il direttore dei lavori, è tra i soggetti destinatari del divieto di esecuzione dei lavori in difetto della preventiva autorizzazione in virtù della posizione di controllo a lui affidata su costruzioni potenzialmente lesive della pubblica incolumità (Cass. pen. sez. 3, 27.01.2004 n. 2640).
E risponde anche del reato di omesso deposito del progetto per le costruzioni edificate in zona sismica per non aver controllato il rispetto degli adempimenti prescritti dalla normativa antisismica (cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 6675 del 20.12.2011).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Reati urbanistici e concorso del funzionario che rilascia il titolo abilitativo.
Nei reati urbanistici possono eventualmente concorrere anche gli organi pubblici deputati al controllo sugli interventi di trasformazione del suolo posti in essere da privati e l'ipotesi più frequente di concorso con i soggetti che si trovino in possesso delle particolari qualità soggettive indicate dall'art. 29 del T.U. dell'edilizia è quella del rilascio di un atto amministrativo illegittimo per contrasto con disposizioni di legge o di regolamento ovvero con le previsioni degli strumenti urbanistici (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.02.2014 n. 7765 - tratto da www.lexambiente.it).
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1. Appare opportuna, per una migliore comprensione della vicenda, una ricostruzione sintetica dei fatti.
Il Tribunale ha evidenziato che:
a) Il (OMISSIS) non ha rilasciato la concessione edilizia in oggetto (non è, infatti, il dirigente o responsabile del competente ufficio comunale deputato all’adozione del titolo abilitativo edilizio) ma ha provveduto ad istruire la relativa pratica quale tecnico nominato come responsabile del procedimento.
b) L’intervento edilizio in questione ha riguardato la ristrutturazione di un edificio ricadente pro parte, secondo le previsioni del PRG, in sottozone A/4 ed A/5.
c) (OMISSIS), compiuta l’istruttoria, aveva redatto (in data 17.07.2009) una proposta favorevole al rilascio del provvedimento finale, attestando che i progetti con contrastavano con la pianificazione urbanistica vigente o adottata.
d) La commissione edilizia comunale, però (in data 29.07.2009), aveva respinto la domanda osservando che la previsione di un nuovo volume addossato sul lato est dell’immobile principale, in sostituzione di una barchessa (tettoia-fienile annessa a casa colonica) esistente, non era sufficientemente integrata nelle forme e nelle finiture con il resto dell’edificio e con il contesto storico dello stesso. Aveva prospettato, pertanto, di riproporre con altre soluzioni quel corpo edilizio, evitando tipologie e materiali in contrasto con l’ambito architettonico, attraverso elaborati progettuali modificati in tal senso.
Dalle tavole di progetto successivamente presentate si sarebbe potuto dedurre, per l’esistenza di “difformita’ tra le sezioni e le piante”, che –con previsione innovativa– le pareti perimetrali dell’edificio principale in sottozona A/4 verso est dovessero essere demolite per consentire la realizzazione di un garage interrato. Tale demolizione non era consentita ai sensi dell’articolo 32 delle norme di attuazione del PRG vigente ma (OMISSIS) aveva ribadito la proposta favorevole in data 21.08.2009.
2. In relazione alla vicenda dianzi delineata la difesa aveva sostenuto che nessun addebito potesse essere mosso al tecnico comunale poiché, dopo la presentazione delle nuove tavole di progetto, al (OMISSIS) sarebbe spettato esclusivamente il compito di verificare se la parte di cui era prevista la demolizione e ricostruzione in sottozona A/5 fosse ben integrata con la restante parte dell’edificio e ciò in quanto egli sarebbe stato tenuto a controllare solo quella parte progettuale che aveva costituito oggetto della valutazione negativa da parte della commissione edilizia.
A giudizio del Tribunale, invece, il tecnico aveva l’obbligo di riesaminare il progetto nella sua interezza, perché solo a seguito di un tale riesame integrale avrebbe potuto verificare la conformità del complessivo intervento alle disposizioni normative ed alle prescrizioni di piano e sarebbe stato in grado di percepire –tenuto conto della evidente “discordanza tra le tavole che descrivono i punti e le tavole che descrivono le sezioni” (accertata inconfutabilmente in dibattimento attraverso le deposizioni rese dai testi (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS)– la ambiguità della documentazione tecnica di nuova produzione e la illegittimità della demolizione che parte dei documenti sembrava rappresentare in zona ove essa non era consentita.
Da ciò il Tribunale ha fatto discendere connotazioni di colpa nel comportamento del (OMISSIS), ravvisando a suo carico un comportamento omissivo connotato o da negligenza (mancata verifica dei nuovi elaborati) o da imperizia (mancato rilievo delle anomalie discendenti dalla presentazione di tavole progettuali contrastanti delle quali non era stata richiesta la giustificazione dei contrasti).
Tale comportamento, nel caso sia della negligenza sia dell’imperizia, si era inserito causalmente nella serie dei fatti che hanno portato alla realizzazione di un abuso edilizio, sicché il Tribunale ha ascritto al (OMISSIS) di avere concorso a tale abuso ritenendo che egli abbia violato, unitamente ai realizzatori dell’opera, la previsione incriminatrice del Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 44, lettera a).
3. A fronte dei motivi di ricorso, compendiati nella parte espositiva, rivolti a contestare le argomentazioni svolte dal Tribunale, ritiene questo Collegio di svolgere le seguenti considerazioni.
3.1 Nei reati urbanistici possono eventualmente concorrere anche gli organi pubblici deputati al controllo sugli interventi di trasformazione del suolo posti in essere da privati (vedi già –con riferimento al previgente Legge n. 47 del 1985, articolo 6,– Cass., sez. 3: 23.02.1987, Pezzoli e 21.09.1988, Maglione) e l’ipotesi più frequente di concorso con i soggetti che si trovino in possesso delle particolari qualità soggettive indicate dall’articolo 29 del Testo Unico dell’edilizia e’ quella del rilascio di un atto amministrativo illegittimo per contrasto con disposizioni di legge o di regolamento ovvero con le previsioni degli strumenti urbanistici.
La responsabilità penale a titolo di concorso nel reato edilizio essendo stata ritenuta la possibilità di ravvisare contestualmente anche il delitto di abuso di ufficio ex articolo 323 c.p., può configurarsi non soltanto a carico del soggetto che rilascia l’atto abilitativo illegittimo ma anche nei confronti di funzionari pubblici che svolgano in modo dolosamente infedele attività di carattere istruttorio nel procedimento amministrativo finalizzato al rilascio del titolo (vedi: Cass., sez. 5, 18.12.1991, Morroni e, con riferimento ad un’ipotesi di lottizzazione abusiva, Cass., sez. 3, 14.06.2002, Drago).
3.2 L’ipotesi più frequente di concorso del funzionario pubblico nel reato edilizio è caratterizzata dalla presenza di un comportamento infedele per dolo, ma non può escludersi la possibile corresponsabilità del funzionario anche in relazione a condotte meramente colpose e questa Corte ha già ritenuto possibile configurare una illegittimità parziale di una concessione edilizia (limitata alle sole opere contrastanti con il regolamento edilizio) come fonte di responsabilità penale degli operatori pubblici che abbiano contribuito a darvi causa per inosservanza della norma regolamentare, Legge n. 10 del 1977, ex articolo 17, lettera a), (vedi Cass., sez. 3, 10.01.1984, Tortorella).
3.3 L’esistenza di una “posizione di garanzia che trova il proprio fondamento normativo nell’articolo 40 c.p.” è stata inoltre ravvisata, nei confronti del dirigente dell’area tecnica comunale che abbia rilasciato una concessione edilizia illegittima, da Cass., sez. 3, 25.3.2004, D’Ascanio.
4. Nella fattispecie in esame inconferenti sono le argomentazioni riferite in ricorso all’articolo 40 cpv. c.p., perché il Tribunale non ha ravvisato una posizione di garanzia riferita al tecnico che ha proceduto alla mera istruttoria della pratica edilizia, al quale sicuramente non spetta un obbligo di vigilanza sull’attività urbanistico–edilizia svolgentesi nel territorio comunale.
E’ stata affermata, invece, la responsabilità del (OMISSIS) a titolo di concorso con la parte che ha realizzato la demolizione non consentita, ma ciò è stato correlato al deposito di tavole processuali che lo stesso Tribunale ha definito “ambigue” ed idonee ad indurre “qualche dubbio interpretativo”, omettendo di valutare adeguatamente, però, quali fossero le motivazioni per le quali il dirigente del competente ufficio comunale –al quale spetta in via definitiva l’accertamento della conformità dell’opera “alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente” (Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, ex articolo 12, comma 1– avesse ritenuto di rilasciare la concessione edilizia e quale incidenza causale sul provvedimento finale del dirigente dovesse riconnettersi alla formulazione concreta della proposta positiva del responsabile del procedimento.
Deve altresì rilevarsi che all’imputato e’ stato contestato di avere concorso in una demolizione parziale del manufatto preesistente che non era consentita dalla pianificazione generale, ma anche che ciò era avvenuta “in variazione essenziale rispetto alla concessione edilizia del 15.10.2009″.
Da tanto potrebbe razionalmente dedursi che quel titolo abilitativo non autorizzava la demolizione e ciò escluderebbe radicalmente ogni responsabilità del (OMISSIS). Il punto però non è stato chiarito dal giudice del merito, che avrebbe dovuto anzitutto esaminare il contenuto effettivo della concessione edilizia e pervenire all’interpretazione della stessa sulla base della sua formulazione testuale.
5. Si impone, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Trento, per nuovo esame alla stregua delle osservazioni dinanzi svolte.

EDILIZIA PRIVATA: In tema di distanze tra edifici, ove le costruzioni non siano incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione, la disciplina sulle relative distanze non è recata dal Decreto Ministeriale 02.04.1968, n. 1444, articolo 9, u.c., che consente ai Comuni di prescrivere distanze inferiori a quelle previste dalla normativa statale, bensì dal primo comma dello stesso articolo 9, quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva.
1.1.- La censura non coglie nel segno e non può essere accolta.
La Corte torinese ha correttamente identificato la situazione di fatto sottoposta al suo esame, relativa alla distanza tra l’edificio dei sigg. (G) e (S) e l’edificio realizzato dalla società (IE) srl, ed, ad un tempo ha, correttamente, interpretato ed individuato la norma applicabile alla fattispecie esaminata. Pertanto, la sentenza impugnata non merita alcuna censura.
1.1.a).- Appare opportuno chiarire:
-A) che gli edifici oggetto della controversia sono collocati nella zona che il Piano Regolatore Generale del Comune di Torino contraddistingue con la lettera b). Detta zona è qualificata dall’articolo 15 delle Norme urbanistiche di attuazione del Piano Regolatore Generale del Comune di Torino (NUEA) tra quelle zone definite “zone urbane di trasformazione: le parti del territorio per le quali indipendentemente dallo stato di fatto sono previsti interventi di radicale ristrutturazione urbanistica e di nuovo impianto”.
Per tali zone l’articolo 7 del NUEA prevede due possibilità di trasformazioni: a) una trasformazione unitaria e una trasformazione per sub ambiti.
-B) che l’edificio dei sigg. (G) e (S), non formava oggetto del piano di lottizzazione di cui faceva parte l’edifico realizzato dalla società (IE) srl. (l’edificio del condominio), ma formava oggetto dello Studio Unitario d’Ambito (SUA) proposto al Comune di Torino dai danti causa degli attuali ricorrenti, approvato dall’Amministrazione comunale con delibera n. 278797 del 1997 ed era stata stipulata la Convenzione programmata. Il caso in esame, in particolare, integrava gli estremi di un’ipotesi di trasformazione sub ambiti.
1.1.b).- A questa situazione di fatto va riferita –come bene ha chiarito la Corte torinese- la normativa di cui al Decreto Ministeriale n. 1444 del 1968, articolo 9, laddove stabilisce, per quanto qui può interessare, che la distanza minima assoluta tra fabbricati per le zone territoriali omogenee diverse dalla zone A e dalla zona C dovrà essere quella di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. Tuttavia, la stessa norma nell’ultima parte dell’ultimo comma prevede che “sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”.
Pertanto, posto che gli edifici oggetto della controversia, nominalisticamente, e come già si è detto, non facevano parte unitariamente di alcun piano particolareggiato, né di alcuna lottizzazione convenzionale, restava acquisito che, sic et simpliciter, la deroga prevista dall’articolo 9, appena citato, non poteva essere estesa al caso in esame.
D’altra parte, come ha già avuto modo di evidenziare questa Corte in altra occasione (sent. n. 12424 del 2010): in tema di distanze tra edifici, ove le costruzioni non siano incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione, la disciplina sulle relative distanze non è recata dal Decreto Ministeriale 02.04.1968, n. 1444, articolo 9, u.c., che consente ai Comuni di prescrivere distanze inferiori a quelle previste dalla normativa statale, bensì dal primo comma dello stesso articolo 9, quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva (
Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 18.02.2014 n. 3803 - link a http://renatodisa.com).

PUBBLICO IMPIEGO: Dirigente Ufficio tecnico viene raggiunto da misura cautelare: per la Cassazione il pericolo di reiterazione della condotta criminosa può essere logicamente ravvisato nella circostanza che a carico della dirigente esistono altri procedimenti per altre ipotesi di falso in atto pubblico.
Arresti domiciliari per falso ideologico in danno del dirigente dell’ufficio tecnico comunale (UTC).
Per la Cassazione il pericolo di reiterazione della condotta criminosa è stato non illogicamente ravvisato nella circostanza –ammessa dalla stessa ricorrente– che a suo carico pendono (sia pure, come si sostiene, in fase di indagine) altri procedimenti per altrettante ipotesi di falso in atto pubblico; di talché sussistono evidentemente (almeno nella provvisoria ricostruzione fattuale tipica della fase delle indagini preliminari) elementi per ipotizzare che la ricorrente abbia, non solo, già in passato, tenuto più volte condotte delittuose analoghe a quelle che le sono state contestate nel presente procedimento, ma che ciò sia sintomo di un radicato habitus di devianza, collegato al suo ruolo professionale.

Ritenuto in fatto
1. F.A., già dirigente dell’ufficio tecnico comunale (UTC) di Pomezia, è sottoposta a indagine e destinataria di misura cautelare personale (arresti domiciliari) con riferimento al concorso in falsità ideologica, riguardante la falsa attestazione della conformità della proposta di variante del piano particolareggiato esecutivo (PPE) relativo alla zona di Torvajanica alta (capo A), nonché del documento costituente la proposta di piano particolareggiato esecutivo in variante del piano regolatore generale (PRG) del comune di Pomezia, zona centro (capo B) e di concorso in soppressione o occultamento di atti veri, riguardanti la medesima proposta (capo C).
2. Il tribunale del riesame di Roma, con il provvedimento di cui in epigrafe, ha rigettato l’istanza presentata nell’interesse della sopraindicata e ha confermato l’impugnata ordinanza cautelare.
3. Con il ricorso, il difensore deduce violazione dell’articolo 274 [erroneamente indicato come 247], comma primo, lett. c) cpp, atteso che il collegio cautelare ha indicato quale unico fondamento per la sua decisione in merito alla sussistenza di esigenze cautelari, mere congetture, non supportate da riscontri fattuali concreti. Il pericolo di reiterazione nel reato, in realtà, acquista rilievo unicamente quando concerne la probabile futura commissione, non di qualsiasi illecito, bensì di particolari fattispecie criminose e, tra queste, i delitti della stessa specie di quello per il quale si procede.
Ebbene, non è stato sufficientemente valutata la circostanza che la F. è stata destinata ad altro incarico. Né vale osservare che si tratta comunque di incarico dirigenziale. Sta di fatto che tale nuovo incarico nulla ha a che fare con le precedenti competenze della ricorrente. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, perché sussista l’esigenza cautelare di cui all’articolo 274, lett. c) cpp, si deve manifestare la possibilità di un pericolo concreto, e di tale concretezza il collegio cautelare non ha dato alcuna dimostrazione. Scrive il tribunale romano che la ricorrente sarebbe coinvolta in numerosi procedimenti penali, anche recenti per falsità ideologica. E’, al proposito, da notare che si tratta di procedimenti nella fase di indagine. Quelli che sono giunti all’udienza preliminare, si sono chiusi tutti con sentenza di non luogo a procedere. Si deve dunque concludere che il provvedimento impugnato è caratterizzato da motivazione incoerente, incompiuta monca e parziale.
Considerato in diritto
1. Premesso (e ribadito) che il ricorso per cassazione è stato proposto unicamente con riferimento alle esigenze cautelari, esso merita rigetto.
Né, nel caso in esame, può farsi luogo all’effetto estensivo di cui all’art. 587 cpp con riferimento alla posizione dei coindagati; ciò in quanto i ricorsi di P. e A. attengono a profili personali dei due predetti, che sono professionisti esterni all’amministrazione comunale. La posizione degli stessi, dunque, è ben differente, da quella della F., funzionaria del comune di Pomezia in posizione dirigenziale e, conseguentemente, apicale.
2. Invero il pericolo di reiterazione della condotta criminosa è stato non illogicamente ravvisato nella circostanza –ammessa dalla stessa ricorrente– che a suo carico pendono (sia pure, come si sostiene, in fase di indagine) altri procedimenti per altrettante ipotesi di falso in atto pubblico; di talché sussistono evidentemente (almeno nella provvisoria ricostruzione fattuale tipica della fase delle indagini preliminari) elementi per ipotizzare che la ricorrente abbia, non solo, già in passato, tenuto più volte condotte delittuose analoghe a quelle che le sono state contestate nel presente procedimento, ma che ciò sia sintomo di un radicato habitus di devianza, collegato al suo ruolo professionale.
3. Quanto al fatto che la F. sia stata trasferita ad altro ufficio, va ricordato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (ASN 200828780-RV 240830), in tema di misure cautelari personali, non costituisce elemento tale da escludere la sussistenza delle esigenze cautelari, l’avvenuto trasferimento dell’indagato, pubblico dipendente, ad un ufficio diverso non più funzionale alla commissione di tale delitto, in quanto la prosecuzione del rapporto di pubblico impiego consente pur sempre al medesimo di avvalersi delle relazioni allacciate nel tempo all’interno della P.A.
Il principio, dettato con riferimento ai delitti associativi, vige, a maggior ragione, con riferimento ai delitti commessi con abuso, delle funzioni autoritative e certificative, proprie del pubblico funzionario.
4. Consegue condanna alle spese del grado (
Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 17.02.2014 n. 7440 - link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: Beni ambientali. Abusi paesaggistici e principio di offensività.
Riguardo agli abusi paesaggistici il principio di offensività opera in relazione alla attitudine della condotta posta in essere ad arrecare pregiudizio al bene protetto, in quanto la natura di reato di pericolo della violazione non richiede la causazione di un danno e la incidenza della condotta medesima sull'assetto del territorio non viene meno neppure qualora venga attestata, dall'amministrazione competente, la compatibilità paesaggistica dell'intervento eseguito (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.02.2014 n. 7343 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Irregolare spandimento di fanghi sul terreno.
La responsabilità per la corretta esecuzione delle operazioni di smaltimento dei fanghi mediante spandimento sul terreno grava sul soggetto giuridico titolare dell'autorizzazione e che tale responsabilità non può essere trasposta a carico di chi dal primo ha ricevuto l'incarico di eseguire una parte soltanto delle operazioni.
Si è in presenza di obblighi e di responsabilità che si collegano all'autorizzazione e alle modalità di esecuzione che essa prevede a carico del soggetto richiedente previa valutazione delle caratteristiche oggettive e soggettive dell'istanza presentata
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.02.2014 n. 7241 - tratto da www.lexambiente.it).

CONSIGLIERI COMUNALISotto esame la sospensione con condanna in primo grado.
Il Consiglio di Stato, Sez. III, con una recente sentenza 14.02.2014 n. 730 analizza gli effetti della legge anticorruzione in materia di sospensione dalla carica per una condanna relativa ad un abuso contestato e deciso nel primo grado di giudizio on una pena a 4 mesi.
La decisione è rilevante non solo nella parte in cui ricostruisce il concetto di "sospensione" rispetto a quello della decadenza, ma assume un valore soprattutto per la scelta di ritenere il decreto attuativo (il Dlgs 135/2012) non apparentemente viziato per avere il legislatore delegato ecceduto rispetto alla delega contenuta nella legge 190/2012.
Già in fase di emanazione del decreto delegato non erano stati pochi i commenti che avevano messo in luce una disposizione in grado di "neutralizzare" cariche elettive particolarmente importanti (le disposizioni interessate dalla decisione del Consiglio di Stato riguardano la carica di consigliere comunale ma altrettanto può dirsi per la carica di presidente o consigliere regionale), lasciando spazio alla riviviscenza di quelle critiche che avevano accompagnato la modifica dell'articolo 323 del codice penale
Il Consiglio di stato ritiene che emergano due indicazioni inconciliabili fra loro: da un lato, la dichiarata volontà di conservare nel sistema l'istituto della sospensione (che implica per definizione il riferimento ad un processo in itinere) e dall'altro lato la (supposta) volontà di subordinare la sospensione all'esistenza di una condanna definitiva. Conclude, però, affermando come l'esegesi letterale non permette di sciogliere questa contraddizione. Occorre quindi ricorrere ad altri criteri.
Il primo, già di per sé risolutivo, è quello per cui si deve preferire l'interpretazione che attribuisce un valore alla frase, piuttosto che quella che la rende priva di senso e di effetti pratici.
Il secondo è quello per cui si deve preferire l'interpretazione più corrispondente alla ratio legis ed alla presumibile volontà del legislatore (ricostruibile anche mediante il riferimento al contesto politico-programmatico, alla evoluzione storica della legislazione, etc.), e più coerente con il sistema.
Entrambi per il Consiglio di Stato portano a rigettare la tesi interpretativa dell'eccesso di delega anche considerando che l'intera legge n. 190/2012 è stata concepita con la dichiarata finalità di rendere più efficaci e penetranti gli strumenti di prevenzione e repressione della corruzione.
Il regime della sospensione è differenziato per le varie fattispecie penali, cosicché può accadere che la sospensione consegua, di diritto ad una condanna a pena più lieve, e non consegua invece ad una condanna a pena più onerosa, solo perché la prima è stata pronunciata per un certo tipo di reato, e la seconda per un reato di altro tipo.
Per il Consiglio la scelta non appare irragionevole, in quanto a parità di pena irrogata, le condanne per taluni tipi di reato (ad esempio: i reati del pubblico ufficiale contro la pubblica amministrazione) hanno un valore indiziario più significativo rispetto alle condanne per altri tipi di reato. Aggiungono i giudici che le valutazioni compiute dal legislatore al riguardo sono altamente discrezionali, e come tali opinabili: ma nel caso in esame non sono irragionevoli.
Orbene, senza entrare nel tecnicismo del Consiglio di Stato appare evidente la necessità che il legislatore riveda le proprie valutazioni, per evitare quanto già sollevato dal relatore alla modifica del Codice penale del 1997: ingiustificate invasioni nel campo della discrezionalità amministrativa
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.03.2014).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Zone di nuova espansione e piani attuativi.
Non sempre il piano generale comunale può essere immediatamente attuato attraverso singoli permessi di costruire, occorrendo in taluni casi l'ulteriore mediazione di uno strumento attuativo.
Da tale principio discende che -in mancanza di specifiche indicazioni legislative o dello strumento pianificatorio generale- nelle zone di nuova espansione o comunque in quelle edificabili scarsamente urbanizzate, per la necessità di soluzioni urbanistiche unitarie e non disorganiche, il piano attuativo (e tale è anche il piano di lottizzazione) si pone come condicio sine qua non per il rilascio dei singoli permessi di costruire
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.02.2014 n. 6629 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il termine di decadenza di cui all’articolo 1495 c.c. per la denunzia dei vizi della cosa venduta, pur dovendo essere riferito alla semplice manifestazione del vizio e non già all’individuazione della sua causa, decorre solo dal momento in cui il compratore abbia acquisito la certezza oggettiva dell’esistenza del vizio, con la conseguenza che ove la scoperta avvenga per gradi ed in tempi diversi e successivi, in modo da riverberarsi sull’entità del vizio stesso, occorre fare riferimento al momento in cui si sia completata la relativa scoperta.
Quanto al primo motivo va ulteriormente osservato che il termine di decadenza di cui all’articolo 1495 c.c. per la denunzia dei vizi della cosa venduta, pur dovendo essere riferito alla semplice manifestazione del vizio e non già all’individuazione della sua causa, decorre solo dal momento in cui il compratore abbia acquisito la certezza oggettiva dell’esistenza del vizio, con la conseguenza che ove la scoperta avvenga per gradi ed in tempi diversi e successivi, in modo da riverberarsi sull’entità del vizio stesso, occorre fare riferimento al momento in cui si sia completata la relativa scoperta (Cass. nn. 9515/2005, 12011/1997 e 1458/1994).
Ciò premesso sulla decorrenza del termine, va osservato che nel caso di conoscenza progressiva del vizio della res vendita l’onere della denuncia, essendo prescritto nell’interesse del venditore, ben può essere assolto in via anticipata, cioè non appena l’acquirente venga a conoscenza del vizio stesso e prima che egli ne tragga definitiva conferma tramite gli accertamenti del caso.
E’ tutt’altro che illogico o contraddittorio, pertanto, ritenere –come nella specie– che la contestazione sia stata efficacemente manifestata nel lasso temporale compreso fra la scoperta e la definitiva prova dell’inidoneità dell’animale all’uso negoziato e delle relative cause. (
Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 12.02.2014 n. 3210 - link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: Frazionamento in due unità immobiliari di preesistente unica unità.
In caso di frazionamento in due unità immobiliari di quella che, originariamente, era unica, si determina una struttura edilizia qualitativamente diversa (a prescindere che si tratti di un intero fabbricato o di un singolo appartamento) con intuibili conseguenze anche in termini di aumento del carico urbanistico potendo, in tal modo, l'immobile frazionato ospitare più nuclei familiari.
Di qui, l'evidente interesse e consapevolezza di chi sia proprietario allo svolgimento dei lavori oltre che l'insorgenza, in capo ad esso, di oneri ed, anche dell'applicazione di una procedura più complessa di quella da attuare nel caso si tratti di mera opera interna da ascrivere ad interventi di vera e propria manutenzione straordinaria che non alterino la consistenza fisica delle singole unità abitative
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.02.2014 n. 6381 - tratto da www.lexambiente.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: I consiglieri comunali, in quanto tali, non sono in un lato legittimati ad agire contro l’Amministrazione di appartenenza, dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi dello stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive.
L’impugnativa di singoli consiglieri può ipotizzarsi soltanto allorché vengano in rilievo atti incidenti in via diretta sul diritto all’ufficio dei medesimi e, quindi, su un diritto spettante alla persona investita della carica di consigliere, dovendosi escludere che ogni violazione di forma o di sostanza nell’adozione di una deliberazione, che di per sé può produrre un atto illegittimo impugnabile dai soggetti diretti destinatari o direttamente lesi dal medesimo, si traduca in una automatica lesione dello ius ad officium.
In particolare, si ritiene che vi sia legittimazione al ricorso solo quando i vizi dedotti attengano ai seguenti profili: a) erronee modalità di convocazione dell’organo consiliare; b) violazione dell’ordine del giorno, c) inosservanza del deposito della documentazione necessaria per poter liberamente e consapevolmente deliberare; d) più in generale, preclusione in tutto o in parte dell’esercizio delle funzioni relative all’incarico rivestito.
In definitiva, la legittimazione dei consiglieri comunali all’impugnazione delle deliberazioni dell’organismo collegiale del quale fanno parte è ravvisabile soltanto ove le stesse investano direttamente la sfera giuridica del ricorrente, negandogli l’esercizio delle prerogative correlate all’ufficio pubblico di cui sia titolare.

L’appello è infondato e va respinto.
La causa, in via preliminare, pone la questione, della legittimazione al ricorso dei consiglieri comunali di minoranza contro atti del loro comune che non incidono sull’esercizio del loro mandato, né sul loro status ovvero sulle prerogative del loro ufficio.
Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, i consiglieri comunali, in quanto tali, non sono in un lato legittimati ad agire contro l’Amministrazione di appartenenza, dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi dello stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive.
L’impugnativa di singoli consiglieri può ipotizzarsi soltanto allorché vengano in rilievo atti incidenti in via diretta sul diritto all’ufficio dei medesimi e, quindi, su un diritto spettante alla persona investita della carica di consigliere, dovendosi escludere che ogni violazione di forma o di sostanza nell’adozione di una deliberazione, che di per sé può produrre un atto illegittimo impugnabile dai soggetti diretti destinatari o direttamente lesi dal medesimo, si traduca in una automatica lesione dello ius ad officium (cfr. ex multis Cons. Stato, IV, 02.10.2012, n. 5184; V, 15.12.2005 n. 7122).
In particolare, si ritiene che vi sia legittimazione al ricorso solo quando i vizi dedotti attengano ai seguenti profili: a) erronee modalità di convocazione dell’organo consiliare; b) violazione dell’ordine del giorno, c) inosservanza del deposito della documentazione necessaria per poter liberamente e consapevolmente deliberare; d) più in generale, preclusione in tutto o in parte dell’esercizio delle funzioni relative all’incarico rivestito.
In definitiva, la legittimazione dei consiglieri comunali all’impugnazione delle deliberazioni dell’organismo collegiale del quale fanno parte è ravvisabile soltanto ove le stesse investano direttamente la sfera giuridica del ricorrente, negandogli l’esercizio delle prerogative correlate all’ufficio pubblico di cui sia titolare.
Per quanto detto, correttamente il giudice di primo grado ha ritenuto inammissibili le censure proposte con l’originario ricorso, in quanto tese a introdurre contestazioni riguardanti i contenuti della variazione di bilancio e dei relativi equilibri, la determinazione di vendita di un immobile comunale nonché la previa dichiarazione di carenza di interesse culturale e, dunque, questioni estranee al tema dello ius ad officium e della lesione delle prerogative riconosciute ai consiglieri, questioni in relazione alle quali soltanto è delimita la legittimazione attiva di costoro (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.02.2014 n. 593 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Integra il reato di lottizzazione abusiva il frazionamento e la predisposizione di un terreno agricolo alla realizzazione di più edifici aventi natura e destinazione residenziale, in quanto trattasi di attività edificatoria fittiziamente connessa alla coltivazione ed allo sfruttamento produttivo del fondo ed incompatibile con l’originaria vocazione dell’area.
Inoltre, integra il reato di lottizzazione abusiva anche la cosiddetta lottizzazione “mista”, consistente nell’attività negoziale di frazionamento di un terreno in lotti e nella successiva edificazione dello stesso.

4. Passando ora ad esaminare i motivi di ricorso, quanto alla prima doglianza formulata dal (OMISSIS), comune anche alla (OMISSIS), la sua infondatezza è di tutta evidenza giacché, sulla base della logica e coerente ricostruzione dei fatti operata dalla Corte territoriale, l’integrazione del reato di lottizzazione e’ pacifica, essendosi proceduto alla suddivisione del suolo in lotti destinati alla successiva costruzione di edifici a scopo residenziale, la cui esecuzione era del tutto inibita dagli strumenti urbanistici, avendo ottenuto, come schermo, i titoli abilitativi per realizzare fabbricati rurali per l’esercizio dell’attività imprenditoriale agricola.
La giurisprudenza di questa Corte ha recentemente chiarito che integra il reato di lottizzazione abusiva il frazionamento e la predisposizione di un terreno agricolo alla realizzazione di più edifici aventi natura e destinazione residenziale, in quanto trattasi di attività edificatoria fittiziamente connessa alla coltivazione ed allo sfruttamento produttivo del fondo ed incompatibile con l’originaria vocazione dell’area. (Sez. 3, n. 15605 del 31/03/2011, Manco ed altri, Rv. 250151).
Ed e’ pacifico che la lottizzazione abusiva viene attuata con qualsiasi utilizzazione del suolo che preveda la realizzazione di una pluralità di edifici così da comportare una nuova definizione dell’assetto preesistente in zona non urbanizzata o non sufficientemente urbanizzata, evento comunque nella specie realizzato, ovvero quando detto intervento non potrebbe, come pure si è verificato nel caso di specie, in nessun caso essere realizzato poiché, per le sue connotazioni oggettive, si pone in contrasto con previsioni di zonizzazione e/o di localizzazione dello strumento generale di pianificazione che non possono essere modificate da piani urbanistici attuativi.
La giurisprudenza di questa Corte è nel senso che integra il reato di lottizzazione abusiva anche la cosiddetta lottizzazione “mista”, consistente nell’attività negoziale di frazionamento di un terreno in lotti e nella successiva edificazione dello stesso (Sez. 3, n. 6080 del 26/10/2007, dep. 07/02/2008, Casile ed altri, Rv. 238979).
Ed è ciò che si e’ puntualmente verificato nella fattispecie in esame, essendo stata realizzata “una trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio”, attraverso il conferimento di un diverso assetto ad una parte di esso, con modalità vietate.
E’ stato pure precisato (Sez. 3, n. 6080 del 2007 cit.) che anche la vendita di un terreno, sulla base di quote che impongono al suolo un diverso, in ipotesi anche equivalente, assetto proprietario, è idonea ad integrare il reato di lottizzazione abusiva c.d. “negoziale”.
Nella specie, l’intento di eseguire attività edificatoria difforme da quella consentita dallo strumento urbanistico non trova alcuna smentita, emergendo limpidamente dalle prove documentali e testimoniali valorizzate dai Giudici di merito.
Quanto poi alla natura della contestazione, si ricava agevolmente dal tenore letterale dell’accusa come agli imputati sia stato rimproverato (capo a) di aver provveduto al frazionamento in due lotti del terreno attraverso la vendita dalla (OMISSIS) al (OMISSIS), per atto notarile, con successiva esecuzione dei lavori in contrasto con le prescrizioni degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che il secondo profilo della doglianza sollevata dal (OMISSIS) è inconsistente, desumendosi proprio dalla contestazione la natura mista della lottizzazione de qua, nei sensi sopra precisati e dovendosi infine ricordare come la lottizzazione abusiva sia reato a consumazione alternativa, potendosi realizzare sia per il difetto di autorizzazione sia per il contrasto, come nella specie, con le prescrizioni della legge o degli strumenti urbanistici (Sez. 3, n. 17865 del 17/03/2009, P.M. in proc. Quarta ed altri, Rv. 243750 nonché Sez. U, n. 5115 del 28/11/2001, dep. 08/02/2002, Salvini, Rv. 220708).
4.1. Con riferimento poi al lamentato difetto di motivazione circa il ritenuto concorso nella lottizzazione (secondo motivo di ricorso della (OMISSIS)) ed al difetto di motivazione circa l’elemento soggettivo del reato (secondo motivo del (OMISSIS)), la Corte territoriale si è uniformata al principio di diritto ormai costante che configura la contravvenzione di lottizzazione abusiva come “reato progressivo nell’evento”, avendo sul punto le Sezioni Unite rilevato che: “sussiste il reato di lottizzazione abusiva anche quando l’attività posta in essere sia successiva agli atti di frazionamento o ad opere già eseguite, perché tali attività iniziali, pur integrando la configurazione del reato, non definiscono l’iter criminoso che si perpetua negli interventi che incidono sull’assetto urbanistico. Infatti, tenuto conto che il reato in questione è, per un verso, un reato a carattere permanente e progressivo e per altro verso a condotta libera, si deve considerare in primo luogo che non vi e’ alcuna coincidenza tra il momento in cui la condotta assume rilevanza penale e/o momento di cessazione del reato, in quanto anche la condotta successiva alla commissione del reato da luogo ad una situazione antigiuridica di pari efficacia criminosa; in secondo luogo che se il reato di lottizzazione abusiva si realizza anche mediante atti negoziali diretti al frazionamento della proprietà, con previsioni pattizie rivelataci dell’attentato al potere programmatorio dell’autorità comunale, ciò non significa che l’azione criminosa si esaurisca in questo tipo di condotta perché l’esecuzione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria ulteriormente compromettono le scelte di destinazione e di uso del territorio riservate alla competenza pubblica” (Sez. U, n. 4708 del 27/03/1992, Fogliani, non mass.).
Di ciò la successiva giurisprudenza di legittimità non ha mai dubitato ribadendo che la contravvenzione di lottizzazione abusiva è reato progressivo nell’evento, che sussiste anche quando l’attività posta in essere sia successiva agli atti di frazionamento o alle opere già eseguite, non esaurendo tali iniziali attività il percorso criminoso e protraendosi quest’ultimo attraverso gli interventi successivi incidenti sull’assetto urbanistico (Sez. 3, n. 12772 del 28/02/2012 Tallarini, Rv. 252236).
Sicché, avuto riguardo alla ricostruzione della vicenda processuale come correttamente operata dai Giudici di merito, non possono nutrirsi dubbi sulla configurabilità della compartecipazione criminosa, in considerazione della riscontrata convergenza delle condotte degli imputati durante l’iter criminis, dalla stipulazione degli atti negoziali alla edificazione, e tutte dunque causalmente orientate verso la realizzazione dell’evento lottizzatorio.
Tale circostanza ha portato la Corte territoriale, in perfetta sovrapposizione con quanto ritenuto dal Tribunale, fondatamente a ritenere che una tale consapevolezza fosse plasticamente indicativa della sussistenza del dolo, avendo i Giudici del merito congruamente evidenziato gli elementi volontari ed intenzionali dei soggetti agenti e la finalità edificatoria dell’acquisto del terreno da parte del (OMISSIS), in uno alla consapevolezza di entrambi gli imputati dei vincoli urbanistici gravanti sulla zona, avendo sfruttato la qualità di imprenditori agricoli e la (OMISSIS), al pari del (OMISSIS), assunto obblighi specifici quanto alla destinazione agricola dei terreni (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.02.2014 n. 5105 - link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: Concetto di sagoma di un edificio.
Relativamente al concetto di “sagoma” di un edificio, essa è da intendersi -secondo l’insegnamento giurisprudenziale- come la conformazione planovolumetrica della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti.
La nozione di <ristrutturazione edilizia> ci è fornita dall’art. 3, comma 1, lett. d), del DPR n. 380 del 2001 che, per quel che qui rileva, ricomprende in essa anche gli interventi “consistenti nella demolizione e ricostruzione” di fabbricati esistenti, purché la ricostruzione avvenga “con la stessa volumetria e sagoma” dell’edificio demolito.
Quello richiamato è il testo dell’art. 3 cit. successivo al d.lgs. n. 301 del 2002, la sua versione originaria essendo ancora più restrittiva, giacché rientravano negli interventi di <ristrutturazione edilizia> solo “quelli consistenti nella demolizione e successiva fedele ricostruzione di un fabbricato identico quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”.
In ogni caso, anche nel testo successivo al 2002, rientrano nella <ristrutturazione edilizia> solo gli interventi di demolizione e ricostruzione che rispettino il vincolo di “volume” e “sagoma”. È solo con l’art. 30 del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 che il legislatore ha espunto dall’art. 3, comma 1, lett. d) del DPR n. 380 del 2001 il riferimento alla “sagoma”, lasciando in quella norma solo la menzione del vincolo di “volume”, ma si tratta di normativa non rilevante al fine del presente giudizio, giacché ai sensi del suo comma 6, le disposizioni dell’art. 30 cit. si applicano dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge, cioè dall’entrata in vigore della legge 09.08.2013, n. 98, quindi successivamente all’emanazione del provvedimento oggetto del presente giudizio.
D’altra parte, con riferimento al periodo anteriore a decreto-legge n. 69 del 2013 (o meglio alla sua conversione in legge), il vincolo della “sagoma” al fine di poter ricondurre un intervento edilizio di demolizione e ricostruzione alla <ristrutturazione edilizia> era del tutto cogente anche per il legislatore regionale, come ha chiarito la Corte costituzionale nella sentenza 23.11.2011, n. 309, che ha dichiarato illegittima una previsione della legislazione regionale della Lombardia che definiva come ristrutturazione edilizia interventi di demolizione e ricostruzione senza il vincolo della sagoma.
Nella legislazione regionale della Toscana, ai sensi dell’art. 79, comma 2, lett. d), della legge n. 1 del 2005 si ha <ristrutturazione edilizia> in caso “demolizioni con fedele ricostruzione degli edifici, intendendo per fedele ricostruzione quella realizzata con gli stessi materiali o con materiali analoghi prescritti dagli atti di cui all’articolo 52 oppure dal regolamento edilizio, nonché nella stessa collocazione e con lo stesso ingombro planivolumetrico, fatte salve esclusivamente le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”; ai sensi invece dell’art. 78, comma 1, lett. h), della stessa legge regionale n. 1 del 2005 si ha <sostituzione edilizia> in presenza di interventi di “demolizione e ricostruzione di volumi esistenti non assimilabili alla ristrutturazione edilizia eseguiti anche con contestuale incremento volumetrico, diversa articolazione, collocazione e destinazione d’uso, a condizione che non si determini modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della rete stradale e che non si renda necessario alcun intervento sulle opere di urbanizzazione”.
Dunque la categoria della <sostituzione edilizia>, estranea alla disciplina statale, ricomprende interventi non riconducibili alla nozione di <ristrutturazione edilizia> e che costituiscono, sia nella legislazione statale che in quella regionale, interventi di nuova edificazione.
Risulta quindi rilevante, alla luce della normativa applicabile nel presente giudizio, il concetto di “sagoma”, giacché la sua modificazione comporta, con riferimento agli interventi di demolizione e ricostruzione, il passaggio dall’istituto della <ristrutturazione edilizia> a quello della <sostituzione edilizia>.
Quanto al concetto di “sagoma”, essa è da intendersi, secondo l’insegnamento giurisprudenziale, come la conformazione planovolumetrica della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti (cfr. Cons. Stato, Sez. 6^, 15.03.2013, n. 1564; Corte cost. 23.11.2011, n. 309; Cass. Pen., sez. 3^, 09.10.2008, 38408 e 06.02.2001, n. 9427).
Avendo riguardo a tale concetto non par dubbio che nella specie l’edificio progettato e autorizzato con il provvedimento gravato comporti, rispetto a quello demolito, una modificazione di sagoma, risultando ciò dagli elaborati progettuali versati in atti e dagli stessi rilievi delle parti negli atti di giudizio. In particolare è evidente il diverso disegno e le diverse caratteristiche che il nuovo edificio assume rispetto al vecchio se si tiene conto del passaggio da una copertura tradizionale a falde inclinate ad una copertura del nuovo edificio con andamento semicircolare, delle modifiche degli aggetti e dei prospetti e scale di accesso (ammesse anche dalla controinteressata), del rialzamento del colmo della copertura di 80 cm misurati esternamente (ammesso dalla controinteressata).
La diversità di sagoma, con riferimento al primo piano, è stata accertata anche nella svolta verificazione (pagg. 16 e 19 della relazione finale; il verificatore, con riferimento al primo piano, afferma che è stato totalmente reimpostato “cambiandone completamente perimetro e sagoma”), il che conforta le svolte considerazioni. Ne discende che la “sagoma” del nuovo progettato edificio, da valutarsi come intervento unitario, è sicuramente variata, il che esclude la sua riconducibilità alla <ristrutturazione edilizia> e il suo qualificarsi come <sostituzione edilizia>, il che comporta la configurazione dell’intervento stesso come nuova costruzione e non già come intervento sostanzialmente conservativo della pregressa edificazione, con le conseguenze che ne discendono (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 21.01.2014 n. 156 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La tecnica utilizzata per la demolizione e ricostruzione è stata quella del c.d. <cuci e scuci>, consistente non già ad una integrale demolizione dell’esistente seguita da successiva ricostruzione ma da una progressiva demolizione e contestuale ricostruzione, per parti, dell’edificio medesimo.
Al riguardo, la giurisprudenza ben ritenuto compatibile l’utilizzo del metodo <cuci e scuci> con la sussistenza, in termini giuridici, all’esito della progressiva sostituzione delle pareti dell’edificio preesistente, di un intervento di nuova costruzione.

Deve solo essere aggiunto, in punto di qualificazione dell’intervento edilizio de quo, che il Collegio non ritiene che le conclusioni raggiunte al precedente punto 14 debbano essere modificate ove anche si prenda in considerazione, secondo le prospettazioni delle parti resistenti, che la tecnica utilizzata per la demolizione e ricostruzione è stata quella del c.d. <cuci e scuci>, consistente non già ad una integrale demolizione dell’esistente seguita da successiva ricostruzione ma da una progressiva demolizione e contestuale ricostruzione, per parti, dell’edificio medesimo; a prescindere dal rilievo se la demolizione sia in effetti avvenuta in modo integrale unitario (come la svolta verificazione sembra suggerire) o per parti progressive, non pare comunque che la tecnica utilizzata possa venire ad incidere sulla tipologia di intervento effettivamente realizzato e sulla sua conseguente qualificazione giuridico-edilizia, avendo la giurisprudenza ben ritenuto compatibile l’utilizzo del metodo <cuci e scuci> con la sussistenza, in termini giuridici, all’esito della progressiva sostituzione delle pareti dell’edificio preesistente, di un intervento di nuova costruzione (TAR Veneto, sez. 2^, 27.07.2009, n. 2226) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 21.01.2014 n. 156 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOIl nome di fantasia non rende riconoscibile il candidato.
L'apposizione di un nome di fantasia sulla prova scritta del concorso non rende riconoscibile il candidato, dovendosi assumere leso il principio dell'anonimato nei soli casi in cui, oltre all'idoneità oggettiva del segno, venga accertata l'intenzionalità del gesto da parte del suo autore.

È quanto ha stabilito la V Sez. del Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 17.01.2014 n. 202.
Nel caso concreto, all'esito di una procedura selettiva per l'assunzione di un nuovo architetto alle dipendenze di un Comune, è stato impugnato il verbale di approvazione della graduatoria, sul presupposto della denunciata violazione del principio dell'anonimato della selezione.
In particolare, il secondo classificato in graduatoria ha eccepito l'illegittimità dell'operato della commissione, osservando come questa abbia omesso di escludere il candidato, poi risultato vincitore, per avere questi apposto in calce alla prova scritta un nome di fantasia idoneo a farsi riconoscere.
Il Tribunale amministrativo ha accolto il ricorso presentato dal secondo classificato, per l'effetto annullando l'intera selezione. Nonostante le difese del controinteressato e dell'amministrazione resistente, il giudice di primo grado ha appurato la violazione del principio dell'anonimato, rinvenendo nell'apposizione del nome di fantasia l'idoneità ad influenzare la commissione di gara.
La vicenda è stata, dunque, sottoposta all'attenzione dei giudici di Palazzo Spada, chiamati a pronunciarsi in sede di gravame dal candidato usurpato della vittoria concorsuale.
Al Supremo consesso di giustizia amministrativa è stata sottolineata l'erroneità del giudizio reso dal Tar, nella parte in cui questi ha ricondotto l'apposizione del nome di fantasia nel rango dei segni di riconoscimento atti a ledere il principio dell'anonimato concorsuale, di contro argomentando come detta eventualità rientri nella prassi di molteplici procedure selettive, soprattutto per quelle in cui si chiede ai candidati di redigere atti specifici che richiedono particolari formalità, tra cui la firma (fittizia) del professionista redigente. D'altra parte –ha aggiunto il ricorrente– affinché possa ritenersi leso il principio dell'anonimato è imprescindibile l'indagine in ordine all'intenzionalità dell'apposizione del segno, in mancanza della quale non vi sarebbe prova circa la volontà e, conseguentemente il finalismo, di un determinato atteggiamento del candidato.
Ebbene, i giudici romani, nell'accogliere il ricorso, hanno fatto il punto sui principi che regolano le procedure concorsuali, ed in particolare su quello dell'anonimato, quale corollario del più generale (e costituzionalizzato) principio di imparzialità della p.a. Quanto al problema dei segni di riconoscimento, si è anzitutto richiamato il granitico orientamento giurisprudenziale secondo cui l'anonimato del candidato viene meno in presenza di due precisi elementi: da un lato, l'idoneità del segno apposto sull'elaborato a sortire l'effetto del riconoscimento; dall'altro l'intenzionalità del gesto, finalizzato al precipuo scopo di ottenere vantaggi dalla Commissione (o, anche solo, da alcuni dei suoi membri) per via delle relazioni personali con il candidato, e che quest'ultimo vuole spendere quale proprio valore aggiunto.
Su cosa debba intendersi per «idoneità del segno di riconoscimento», si è avuto cura di precisare come ciò che rileva non è tanto «l'identificabilità dell'autore dell'elaborato attraverso un segno a lui personalmente riferibile», bensì l'astratta idoneità del segno a fungere da elemento di identificazione; tanto si riscontrerebbe allorché la particolarità del segno assuma un carattere «oggettivamente e incontestabilmente anomalo» se comparato alle ordinarie modalità di estrinsecazione del pensiero e di elaborazione dello stesso in forma scritta: dal che, data l'oggettività del vaglio sull'idoneità, passerebbe in secondo piano l'effettiva capacità, in concreto, della commissione o dei suoi singoli componenti di riconoscere effettivamente l'autore dell'elaborato.
Sotto il profilo volitivo-intellettivo, invece, è stata sottolineata l'esigenza di trarre l'intenzionalità del gesto dalla riscontrata presenza di elementi atti a provare –in modo inequivoco– la volontà del concorrente di rendersi riconoscibile.
In base a queste considerazioni il Consiglio di stato ha escluso, nel caso in esame, qualsivoglia violazione del principio dell'anonimato, osservando come l'utilizzo del nome di fantasia –peraltro in una sola delle prove scritte– non fosse in grado di permettere il riconoscimento del candidato né, sotto il profilo marcatamente soggettivo, dall'apposizione di siffatta firma poteva trarsi l'intenzionalità di alterare il corso della selezione. Del resto –hanno rilevato da ultimo i giudici– nell'unica prova in cui era stato apposto il nome di fantasia i candidati in lite avevano riportato lo stesso punteggio.
La pronuncia in esame è apprezzabile sotto il profilo dell'effetto salvifico delle procedure selettive che comporta, e tuttavia pare criticabile nella parte in cui esclude in radice che l'apposizione di un nome di fantasia possa assumersi quale segno di riconoscimento. La discussione rimane aperta, e le tesi avverse –in giurisprudenza quanto in letteratura– rimangono ancora agguerrite: di certo un intervento normativo atto ad inibire l'utilizzo di firme di fantasia privilegiando, di contro, formule standard per tutti i candidati risolverebbe una volta per tutte il problema, garantendo l'imparzialità e deflazionando l'ingente mole di contenzioso in materia (articolo ItaliaOggi Sette del 03.03.201).

PUBBLICO IMPIEGO: La condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che utilizzi il telefono d’ufficio per fini personali, al di fuori dei casi di urgenza nonché di specifiche e legittime autorizzazioni, integra il reato di peculato d’uso solo se produce un danno apprezzabile al patrimonio della Pubblica Amministrazione o di terzi, ovvero una lesione concreta alla funzionalità dell’ufficio, mentre deve ritenersi penalmente irrilevante se non presenta conseguenze economicamente e funzionalmente significative.
Devono invece ritenersi fondati motivi con i quali si contesta la corretta qualificazione del fatto di cui al capo 1), peculato per utilizzazione del telefono cellulare.
Difatti ricorre l’ipotesi chiaramente qualificata dalla giurisprudenza di questa Corte come reato di cui al capoverso dell’articolo 314 cod. pen. (in tema di peculato, la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che utilizzi il telefono d’ufficio per fini personali al di fuori dei casi d’urgenza o di specifiche e legittime autorizzazioni, integra il reato di peculato d’uso se produce un danno apprezzabile al patrimonio della P.A. o di terzi, ovvero una lesione concreta alla funzionalità dell’ufficio, mentre deve ritenersi penalmente irrilevante se non presenta conseguenze economicamente e funzionalmente significative (Sez. U, n. 19054 del 20/12/2012 – dep. 02/05/2013, Vattani e altro, Rv. 255296) (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 14.01.2014 n. 1248 - link a http://renatodisa.com).

CONDOMINIOLimiti alle innovazioni per le autorimesse. Condominio. Vietato aprire un accesso per i veicoli su un'area destinata a prato.
Costituisce un'innovazione vietata l'apertura di un accesso per i veicoli su un'area condominiale destinata a "prato", perché la limitazione, attraverso il passaggio dei mezzi, ne comprometterebbe la natura.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 03.01.2014 n. 54.
Si tratta di una pronuncia che si inserisce nel filone di giurisprudenza sulle innovazioni vietate in relazione alle parti comuni del condominio. Infatti, quando un condomino apporta un'innovazione sulle parti comuni, a favore della propria unità immobiliare, la modifica rientrerà tra le facoltà previste dall'articolo 1102 del Codice civile qualora non sia incompatibile con l'uso della parte comune sulla quale incide, vale a dire se non ne renda più incomodo l'uso agli altri condomini. In caso contrario si ricade nell'ipotesi di innovazioni vietate, in quanto suscettibili, nel tempo, di costituire, per usucapione, nuove servitù sulle parti comuni.
Numerose controversie giudiziarie, negli ultimi anni, ha avuto quale oggetto proprio questa questione, soprattutto in relazione ai fondi già commerciali, trasformati in autorimesse perché più appetibili dal punto di vista economico. Qualora, infatti, la trasformazione dell'ingresso del fondo da pedonale a carrabile non incida su una parte comune (sbocco sul suolo pubblico) non ci sono problemi, ma quando la trasformazione incide su parti comuni (piazzali, marciapiedi, giardini) c'è il rischio dell'innovazione vietata.
Ora la Cassazione, con la pronuncia 54/2014, ha confermato che l'innovazione deve ritenersi legittima qualora il passo carrabile insista su aree pubbliche (in questo caso sarà solo una questione di tassa comunale), su aree private già deputate al transito veicolare (strade private, rampe di accesso ad altre autorimesse già esistenti), o su cortili senza alcuna destinazione specifica. Al contrario, costituisce innovazione vietata l'intersezione carrabile di marciapiedi condominiali (funzionalmente predisposti al passo pedonale), di giardini, parcheggi e di tutte le aree che presentino manufatti incompatibili con il transito veicolare.
Questa pronuncia rischia di costituire una forte limitazione alla trasformazione di fondi già commerciali in autorimesse e, di conseguenza, rischia di avere un forte impatto socio-economico, visto che, negli ultimi anni, la diminuzione dei prezzi degli immobili, soprattutto commerciali, ha spostato gli investimenti proprio verso le autorimesse
 (articolo Il Sole 24 Ore del 03.03.2014).

EDILIZIA PRIVATALa sostituzione delle pareti con il metodo “cuci e scuci” comporta proprio la totale demolizione e ricostruzione del manufatto e dunque tale intervento ha ad oggetto una nuova costruzione e non poteva essere compreso nell’ambito dell’autorizzazione rilasciata per lavori di manutenzione straordinaria.
... per l'annullamento del provvedimento in data 30.04.1996 (n. 539 del registro delle ordinanze) con cui il Sindaco del Comune di Vicenza ha ordinato la demolizione di opere abusive e del P.R.G. del Comune di Vicenza nella parte in cui sottopone la zona in cui sono ubicate tali opere a vincolo cimiteriale;
...
Il ricorrente lamenta eccesso di potere per erroneità dei presupposti.
Egli lamenta in particolare che non ha demolito e ricostruito gli accessori, ma ha provveduto alla sostituzione delle pareti con il metodo “cuci e scuci” e cioè demolendo un piccolo tratto di muro e ricostruendolo immediatamente e così via.
La doglianza è infondata.
Infatti la sostituzione delle pareti con il metodo “cuci e scuci” comporta proprio la totale demolizione e ricostruzione del manufatto e dunque tale intervento ha ad oggetto una nuova costruzione e non poteva essere compreso nell’ambito dell’autorizzazione rilasciata per lavori di manutenzione straordinaria
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 27.07.2009 n. 2226 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ingiunzione di demolizione di fabbricati non autorizzati costituisce un atto palesemente dovuto, pertanto l'assenza della comunicazione dell'avvio del relativo procedimento risulta irrilevante, anche alla luce di quanto disposto nell'art. 21-octies della l. 07.08.1990 n. 241, introdotto dall'art. 14 della l. 11.02.2005 n. 15, il quale esclude possa essere annullato il provvedimento, qualora sia palese che il suo contenuto dispositivo non può essere diverso da quello in concreto adottato.
Infondata è la censura di violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990.
L’ordinanza di demolizione è correttamente motivata in relazione ai propri presupposti.
L'ingiunzione di demolizione di fabbricati non autorizzati costituisce un atto palesemente dovuto, pertanto l'assenza della comunicazione dell'avvio del relativo procedimento risulta irrilevante, anche alla luce di quanto disposto nell'art. 21-octies della l. 07.08.1990 n. 241, introdotto dall'art. 14 della l. 11.02.2005 n. 15, il quale esclude possa essere annullato il provvedimento, qualora sia palese che il suo contenuto dispositivo non può essere diverso da quello in concreto adottato (così TAR Veneto II n. 2134 del 2009, Consiglio di Stato VI n. 2733 del 2008).
Il ricorrente non ha d’altro canto provato che il provvedimento poteva essere diverso da quello adottato
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 27.07.2009 n. 2226 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 06.03.2014

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IN EVIDENZA

INCARICHI PROFESSIONALI: Sull'illegittimo affidamento a professionisti esterni delle mansioni ordinarie dell'U.T.C. anziché assumere a tempo pieno, con conseguente responsabilità erariale.
Va accertato che gli atti di affidamento di incarico esterno del comune non sono conformi ai presupposti di legge per:
• violazione dell’art. 7 TUPI che impone lo svolgimento di procedure comparative per l’affidamento di ogni incarico esterno, salve le eccezioni previste;
• violazione dell’art. 7 TUPI in merito alla durata dell’incarico e al contenuto delle mansioni affidate esternamente;
Si invita l’Amministrazione comunale ad adottare gli opportuni provvedimenti per conformare la propria attività ai presupposti normativi per l’affidamento dell’incarico nonché ai principi di buon andamento di cui all’art. 97 Cost..
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La necessità di un dipendente con professionalità tecniche per l’ente locale rappresenta una esigenza organizzativa che si configura come permanente.
Ne consegue che l’ente locale conferente non può fare ricorso all’affidamento di incarichi a soggetti estranei per lo svolgimento di funzioni ordinarie, attribuibili a personale che dovrebbe essere previsto in organico, altrimenti questa esternalizzazione si tradurrebbe in una forma atipica di assunzione, “con conseguente elusione delle disposizioni in materia di accesso all’impiego nelle Pubbliche amministrazioni, nonché di contenimento della spesa di personale” .
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Questa Sezione rileva che la criticità denunciata dall’amministrazione comunale (carenza di dipendente con una professionalità idonea a svolgere le funzioni dell’ufficio tecnico) non può essere affrontata eludendo i vincoli di finanza pubblica in materia di spesa per il personale e violando le norme sull’affidamento all’esterno degli incarichi professionali (art. 7 TUPI).

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Le recenti novelle legislative che hanno inciso sulla disciplina degli atti di affidamento delle consulenze da parte degli enti locali sono accomunate da un indiscusso principio ispiratore: l’amministrazione deve svolgere le sue funzioni con la propria organizzazione e il proprio personale; conseguentemente, il ricorso a rapporti di collaborazione con “soggetti esterni è consentito solo nei casi previsti dalla Legge, od in relazione ad eventi straordinari, non sopperibili con la struttura burocratica esistente (in questo senso, si veda la sentenza della Corte Conti, II sez. app., del 20.03.2006).
La crescita del fenomeno e l’utilizzo improprio delle collaborazioni negli ultimi anni hanno spinto il Legislatore ad intervenire in materia con disposizioni restrittive ai fini del contenimento della spesa. Si vedano, ad esempio, le disposizioni di cui agli artt. 34 della Legge 27.12.2002, n. 289, 3 della Legge 24.12.2003, n. 350 e 1, commi 9 e 11 del decreto Legge 12.07.2004, n. 168, convertito con Legge 30.07.2004, n. 191 (sostituite, a decorrere dal 01.01.2005, dall’articolo 1, commi 11 e 42, della Legge 30.12.2004, n. 311) con l’introduzione di fattispecie tipizzate di illecito amministrativo contabile, per cui la violazione del disposto normativo “costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale”.
In questo contesto va inquadrata la funzione di controllo esercitata dalle sezioni regionali della Corte dei conti sugli atti di affidamento di consulenze esterne; funzione che la magistratura svolge su due livelli, ovvero su quello più generale che investe l’esercizio della potestà regolamentare dell’ente locale conferente, nonché su quello più specifico che attiene la singola determina di affidamento dell’incarico.
I) Il controllo della sez. regionale della Corte dei Conti sui regolamenti adottati dagli Enti locali per l'affidamento di incarichi di collaborazione autonoma.
Con riferimento all’attività di controllo che la Corte dei Conti esercita a livello di regolamentazione adottata dagli enti, in questa sede, è sufficiente ricordare che l’art. 3 della legge Finanziaria per l’anno 2008 (legge 24/12/2007 n. 244), come sostituito dall’art. 46, comma 3, D.L. 25.06.2008, n. 112 e relativa legge di conversione, al comma 56 recita che “con il regolamento di cui all'articolo 89 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, sono fissati, in conformità a quanto stabilito dalle disposizioni vigenti, i limiti, i criteri e le modalità per l'affidamento di incarichi di collaborazione autonoma, che si applicano a tutte le tipologie di prestazioni. La violazione delle disposizioni regolamentari richiamate costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale. Il limite massimo della spesa annua per incarichi di collaborazione è fissato nel bilancio preventivo degli enti territoriali”. Il successivo comma 57, poi, sancisce che “le disposizioni regolamentari di cui al comma 56 sono trasmesse, per estratto, alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti entro trenta giorni dalla loro adozione”.
Questa Sezione con le deliberazioni 37/2008, 224/2008 e 37/2009 ha individuato alcuni principi che devono informare le disposizioni regolamentari in materia (si vedano anche le più recenti, Lombardia/715/2010/REG del 30.06.2010 e Lombardia/967/2010/REG del 22.10.2010).
Nel caso di specie, tuttavia, la verifica di questa Sezione si incentra sulle singole determinazioni di affidamento di incarico esterno di cui si è detto in premessa; conseguentemente, è opportuno soffermarsi sui presupposti di carattere procedimentale e sostanziale che devono ricorrere per qualificare come conforme alla disciplina la determina in parola.
II) Il controllo delle sezioni regionali sulle singole determinazioni di affidamento di incarichi a soggetti esterni alle amministrazioni locali.
L’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266, ha previsto che gli atti di spesa relativi ai precedenti commi 9, 10, 56 e 57 di importo superiore a 5.000 euro devono essere trasmessi alla competente sezione della Corte dei conti per l'esercizio del controllo successivo sulla gestione. La finalità di tale previsione normativa è riconducibile all’accertamento, di tipo collaborativo, da parte della Corte, dell’idoneità dell’attività amministrativa posta in essere dagli enti locali a raggiungere determinati risultati, attraverso una verifica della sua efficacia, efficienza ed economicità, che non può comunque prescindere da un riscontro della conformità della stessa a norme giuridiche.
Questa Sezione ha già affermato che “
l’accertamento dell’illegittimità per il mancato rispetto di una o più dei requisiti di legge (talora verificabile nei limiti di sindacabilità di scelte discrezionali) comporta da un lato l’obbligo di rimuovere, ove possibile, l’atto con un provvedimento di secondo grado e dall’altro la responsabilità del soggetto che lo ha posto in essere” (Sez. contr. Reg. Lombardia, n. 244/2008).
Si aggiunga che
un utilizzo improprio delle collaborazioni esterne per ricoprire uffici dell’ente è fonte di responsabilità. Questo principio -affermato dalla giurisprudenza contabile in materia di conferimento di incarichi esterni nella P.A.- è stato recentemente fatto proprio dal legislatore nell'articolo 22, comma 2, della legge n. 69 del 2009, e poi dall'articolo 17, comma 27, della legge n. 102 del 2009, che hanno novellato l’articolo 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001.
Nel nuovo art. 7 T.U. Pubbl. Imp., infatti, è stato previsto che
il ricorso a contratti di collaborazione coordinata e continuativa per lo svolgimento di funzioni ordinarie o l'utilizzo dei collaboratori come lavoratori subordinati è causa di responsabilità amministrativa per il dirigente che ha stipulato i contratti.
Prima di procedere alla verifica di conformità alla disciplina giuridica vigente dell’incarico esterno conferito dall’amministrazione comunale di Padenghe sul Garda, occorre indicare quali sono in linea generale i presupposti di legittimità per il conferimento di “incarichi esterni” (presupposti di carattere sostanziale e procedimentale) che la Corte dei Conti valuta nello svolgimento dell’attività di controllo attribuitale dall’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266.
Il nuovo testo del sesto comma dell’art. 7 T.U. Pubb. Imp. (modificato dall’art. 3, comma 76, della l. n. 244/2007, poi sostituito dall’art. 46, comma 1, d.l. n. 112/2008) qualifica “come presupposti di legittimità tutti i requisiti già ritenuti dalla giurisprudenza contabile necessari per il ricorso ad incarichi di collaborazione o di studio (Sez. Contr. Reg. Lombardia, delib. n. 224/2008).
1) La rispondenza dell’incarico agli obiettivi dell’amministrazione. In merito a questo presupposto, questa Sezione ha già chiarito che “il requisito della corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita dall’ordinamento all’amministrazione conferente è determinato dal poter ricorrere a contratti di collaborazione autonoma solo con riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla legge o previste dal programma approvate dal Consiglio dell’ente locale ai sensi dell’art. 42 del D.lvo 267/2000” (Sez. contr. Reg. Lombardia, n. 37/2009, nonché Sez. Reg. Lombardia, n. 244/2008).
2) L’inesistenza, all’interno della propria organizzazione, della figura professionale idonea allo svolgimento dell’incarico, da accertare per mezzo di una reale ricognizione.
3) L’indicazione specifica dei contenuti e dei criteri per lo svolgimento dell’incarico.
4) L’indicazione della durata dell’incarico.
5) La proporzione fra il compenso corrisposto all’incaricato e l’utilità conseguita dall’amministrazione. Sotto il profilo della spesa è, tuttavia, doveroso ricordare che “il comma 3 dell’art. 46 del D.L. 112/2008, unificando ai fini dell’inserimento nel regolamento di cui all’art. 89 del D.lvo 267/2000 tutti gli incarichi di collaborazione autonoma, ha eliminato l’obbligo di individuare nel regolamento il livello massimo di spesa sostenibile per taluni di essi, prevedendo invece la fissazione del limite massimo annuale nel bilancio preventivo degli enti territoriali. E’, pertanto, necessario accertare in sede di conferimento degli incarichi l’esistenza di un apposito stanziamento di spesa ed il rispetto del suo limite” (Sez. contr. Reg. Lombardia, n. 37/2009).
6) Il requisito della “comprovata specializzazione universitaria: le amministrazioni, per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, possono conferire incarichi individuali (con contratti di lavoro autonomo professionale, occasionale o di collaborazione coordinata e continuativa) a esperti “di particolare e comprovata specializzazione universitaria”.
7) Obbligo di motivazione della determina con cui viene affidato l’incarico esterno. Le Sezioni Riunite della Corte dei Conti (delib. n. 6/2005) hanno già ricordato che “l’atto di incarico deve contenere tutti gli elementi costitutivi ed identificativi previsti per i contratti della Pubblica Amministrazione ed in particolare oggetto della prestazione, durata dell’incarico, modalità di determinazione del corrispettivo e del suo pagamento, ipotesi di recesso, verifiche del raggiungimento del risultato. Quest’ultima verifica è peraltro indispensabile in ipotesi di proroga o rinnovo dell’incarico. In ogni caso tutti i presupposti che legittimano il ricorso alla collaborazione debbono trovare adeguata motivazione nelle delibere di incarico” (Sez. contr. Reg. Lombardia, n. 37/2009).
8) La valutazione del revisore o del collegio dei revisori dei conti. In numerose delibere le Sezioni Regionali di Controllo hanno ribadito che le disposizioni della legge 311/2004 (finanziaria 2005) concernenti la valutazione dell’organo interno di revisione, non sono state né abrogate esplicitamente dalla finanziaria per l’anno 2006 né sono incompatibili con la disciplina intervenuta successivamente, pertanto tale obbligo permane (Corte Conti, sez. reg. contr. Lombardia, delib. n. 231/2009/par. del 14.05.2009; Corte Conti, sez. reg. contr. Lombardia, delib. n. 506/2010/par. del 23.04.2010; contra, ma con affermazione apodittica, delibera in data 17.02.2006 della Sezione delle Autonomie).
L’obbligo di verifica da parte dell’organo di revisione riguarda il singolo atto di spesa e assolve a finalità nettamente distinte da quelle affidate al controllo sulla gestione di pertinenza della magistratura contabile. L’intervento del revisore contabile è necessario quale titolare di funzioni di controllo interno all’ente e di raccordo con gli organi di controllo esterno (Corte Conti, sez. reg. contr. Lombardia, delib. n. 506/2010/par. del 23 aprile 2010; Sez. Contr. Reg. Piemonte, parere n. 23 del 18.03.2010).
9) L’obbligo di seguire procedure comparative. Ogni Amministrazione deve adottare e rendere pubbliche le procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione (comma 6-bis, art. 7 D.Lg.vo n. 165/2001).
Tale obbligo è considerato dalla giurisprudenza amministrativa un adempimento essenziale per la legittima attribuzione di incarichi di collaborazione (TAR Puglia n. 494/2007). Di fatto, però, la norma è stata disattesa dalla maggior parte degli enti.
Una parte della Giurisprudenza amministrativa ha ricordato che “l'affidamento di incarichi di consulenza e/o di collaborazione da conferire a soggetti esterni alla Pubblica amministrazione non può prescindere dal preventivo svolgimento di una selezione comparativa adeguatamente pubblicizzata” (Cons. St., sent. 28.05.2010, n. 3405).
10) L’obbligo pubblicazione degli elenchi sul sito web istituzionale. La legge finanziaria per il 2008 modificando il comma 127, art. 1, della legge n. 662/1996, impone alle amministrazioni (anche gli enti locali) che si avvalgono di collaboratori esterni o che affidano incarichi di consulenza per i quali è previsto un compenso, di pubblicare sul proprio sito web i relativi provvedimenti, con l’indicazione dei soggetti percettori, della ragione dell’incarico e dell’ammontare erogato.
III) Profili di non conformità a legge della determina di affidamento di incarico oggetto della presente deliberazione. Incarichi conferiti all’arch. J.S. per consulenza all’Ufficio Tecnico Comunale a decorrere dal 2008.
Si tratta di un’attività per cui il suddetto soggetto ha ricevuto plurimi incarichi che hanno coperto il periodo 01.01.2008–31.12.2013. Segnatamente, gli incarichi sono stati conferiti con le seguenti cadenze: (omissis).
Le determine di cui sopra presentano sia vizi sostanziali sia vizi procedimentali; il comune di Padenghe sul Garda, contravvenendo ai principi in precedenza esposti, ha fatto ricorso all’istituto della collaborazione professionale esterna in violazione di norme di legge, erroneamente ritenendola, a volte una consulenza in un ambito limitato d’intervento, a volte un appalto di servizi da conferire in via diretta ai sensi dell’art. 125, comma 2, del D.Lgs. 163/2006, atteso che la prestazione richiesta all’architetto in questione si è sempre risolta, nella sostanza, in una mera ridondanza delle mansioni che avrebbe dovuto svolgere per dovere istituzionale un pubblico impiegato alle dipendenze dell’amministrazione comunale.
Il lungo lasso temporale in cui sono stati conferiti gli incarichi al professionista in questione, senza peraltro mai valutare con tenore esplicito il buon esito dei precedenti incarichi, si è tradotto in una surrettizia instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato in violazione del principio dell’accesso concorsuale ai pubblici uffici.

Alla luce di quanto già esposto nella prima parte di questa deliberazione, il comune di Padenghe sul Garda ha violato le seguenti norme di legge:
1) violazione dell’art. 7 TUPI che impone lo svolgimento di procedure comparative per l’affidamento di ogni incarico esterno, salve le eccezioni previste.
Ogni Amministrazione deve adottare e rendere pubbliche le procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione (comma 6-bis, art. 7, D.Lg.vo n. 165/2001).
Tale obbligo è considerato dalla giurisprudenza amministrativa un adempimento essenziale per la legittima attribuzione di incarichi di collaborazione (TAR Puglia n. 494/2007). Infatti, “l'affidamento di incarichi di consulenza e/o di collaborazione da conferire a soggetti esterni alla Pubblica amministrazione non può prescindere dal preventivo svolgimento di una selezione comparativa adeguatamente pubblicizzata (Cons. St., sent. 28.05.2010, n. 3405).
In proposito
questa Sezione ribadisce che l’art. 7 TUPI che impone l’espletamento di procedure comparative a prescindere dall’importo pattuito. Detta regola trova solo tre tassative eccezioni (“procedura comparativa andata deserta”; “unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo”; “assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale”).
Dunque, poiché nel caso di specie non ricorre nessuna di queste tre ipotesi aventi carattere eccezionale, questa Sezione ritiene che il comune di Padenghe sul Garda, avendo proceduto all’affidamento diretto dell’incarico, abbia violato il disposto dell’art. 7 TUPI che impone l’espletamento di una procedura comparativa per la selezione dell’affidatario di un incarico esterno.
2) Violazione dell’art. 7 TUPI in merito alla durata dell’incarico e al contenuto delle mansioni affidate esternamente.
Con riferimento all’indeterminatezza dell’oggetto della prestazione, le osservazioni contenute nelle memorie prodotte dall’amministrazione sono destituite di ogni fondamento giuridico, posto che
risulta per tabulas che l’oggetto del primo incarico all’Arch. S. è ”di consulenza professionale presso l’ufficio tecnico comunale”, senza alcuna specificazione circa la specialità e la contestualizzazione delle prestazioni, tale da dissimulare nell’asserito incarico di collaborazione professionale l’instaurazione surrettizia di un rapporto di lavoro pubblico a tempo determinato in carenza di procedure concorsuali o selettive dei possibili candidati. La medesima indeterminatezza dell’oggetto della prestazione si riscontra nelle successive determine di proroga sino al 31.12.2013.
Infine, si osserva che la durata del rapporto intercorso tra il comune di Padenghe sul Garda e l’arch. J.S. (ovvero, primo incarico annuale nel 2008 successivamente prorogato) non risponde ai principi più volte ribaditi dalla Magistratura contabile (ex multis Sezione Centrale del controllo di legittimità sugli atti del Governo e delle Amministrazioni dello Stato, delibera n. SCCLEG/1/2012/PREV del 13.01.2012 e la delibera n. 24/2011) secondo cui
la durata dei contratti di collaborazione (ex art. 7, c. 6, del d.lgs. n. 165/2001) devono avere “natura temporanea, in quanto conferiti allo scopo di sopperire ad esigenze di carattere temporaneo per le quali l’amministrazione non possa oggettivamente fare ricorso alle risorse umane e professionali presenti al suo interno. Al riguardo, infatti, l’indirizzo giurisprudenziale prevalente in materia considera l’incarico di collaborazione coordinata e continuativa non rinnovabile e non prorogabile, se non a fronte di un ben preciso interesse dell’Amministrazione committente, adeguatamente motivato ed al solo fine di completare le attività oggetto dell’incarico, limitatamente all’ipotesi di completamento di attività avviate contenute all’interno di uno specifico progetto”.
Infatti, l’istituto giuridico della proroga deve essere collegato alla possibilità che il progetto, per il quale è stato conferito l’incarico, non venga portato a compimento. La “proroga si configura, essenzialmente, come spostamento in avanti del termine contrattuale, e, dunque, come una sorta di ultra-attività del contratto originario” (delibera n. SCCLEG/1/2012/PREV del 13.01.2012 cit.).
Nel caso di specie non è riscontrabile il presupposto di eccezionalità, in quanto la necessità di un dipendente con professionalità tecniche per l’ente locale rappresenta una esigenza organizzativa che si configura come permanente. Ne consegue che l’ente locale conferente non può fare ricorso all’affidamento di incarichi a soggetti estranei per lo svolgimento di funzioni ordinarie, attribuibili a personale che dovrebbe essere previsto in organico, altrimenti questa esternalizzazione si tradurrebbe in una forma atipica di assunzione, “con conseguente elusione delle disposizioni in materia di accesso all’impiego nelle Pubbliche amministrazioni, nonché di contenimento della spesa di personale (Sezione Centrale del controllo di legittimità sugli atti del Governo e delle Amministrazioni dello Stato, delibera n. SCCLEG/1/2012/PREV del 13.01.2012).
In conclusione, l’amministrazione comunale deve attenersi all’insegnamento delle Sezioni Riunite della Corte dei Conti (delibera n. 20 del 04.04.2011): “fermo restando il limite della spesa storica riferito al 2004, gli enti non sottoposti alle regole del patto di stabilità possono procedere, ai sensi del combinato disposto dei commi 557, 557-bis e 562 dell’art. 1 della legge 27.12.2006 n. 296 (legge finanziaria per il 2007) e dell’art. 76, comma 7, del d.l. n. 112/2008, all’instaurazione in via temporanea ed occasionale di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa o per programma anche se non vi siano state corrispondenti cessazioni di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, a condizione che:
- detti rapporti di collaborazione coordinata e continuativa o per programma abbiano carattere temporaneo nelle more di un’adeguata programmazione del personale e di una riorganizzazione degli uffici in forma associata;
- l’esercizio di funzioni pubbliche indefettibili venga assicurato, prioritariamente e a regime, mediante la previsione in organico di adeguato e qualificato personale;
- il ricorso a tali forme di collaborazione non costituisca occasione di elusione dei limiti di spesa previsti in tema di contenimento di spesa pubblica, ed in particolare di incarichi di consulenza
”.
Dunque,
questa Sezione rileva che la criticità denunciata dall’amministrazione comunale (carenza di dipendente con una professionalità idonea a svolgere le funzioni dell’ufficio tecnico) non può essere affrontata eludendo i vincoli di finanza pubblica in materia di spesa per il personale e violando le norme sull’affidamento all’esterno degli incarichi professionali (art. 7 TUPI).
P.Q.M.
La Corte dei conti Sezione regionale di controllo per la Lombardia accerta che gli atti di affidamento di incarico esterno del comune di Padenghe sul Garda sopra individuati, non sono conformi ai presupposti di legge come esposti in parte motiva.
Stante il recesso comunicato dal professionista incaricato con effetto a far data dal 30.09.2013, la Sezione invita l’Amministrazione comunale ad adottare gli opportuni provvedimenti per conformare in futuro la propria attività ai presupposti normativi per l’affidamento dell’incarico nonché ai principi di buon andamento di cui all’art. 97 Cost.
Dispone che la presente deliberazione sia trasmessa al Presidente del Consiglio comunale e al Sindaco del comune di Padenghe sul Garda per quanto di competenza.
Dispone che la presente deliberazione sia trasmessa alla Procura regionale della Corte dei conti per le determinazioni di competenza (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, deliberazione 20.02.2014 n. 87).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

TRIBUTI - VARI: Attivazione del servizio di consultazione telematica delle banche dati ipotecaria e catastale relativo a beni immobili dei quali il soggetto richiedente risulta titolare, anche in parte, del diritto di proprietà o di altri diritti reali di godimento (Agenzia delle Entrate, provvedimento direttoriale 04.03.2014 n. 31224 di prot.).
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Dati catastali on line e senza spese. Accesso con Fisconline ed Entratel.
Informazioni a portata di mouse, per i titolari, anche se soltanto in parte, del diritto di proprietà o di altri diritti reali di godimento degli immobili oggetto dell’interrogazione.

Le persone fisiche, con abilitazione ai servizi Fisconline o Entratel, dal prossimo 31 marzo, potranno consultare on-line, gratuitamente e senza versare tributi, le banche dati ipotecaria e catastali in relazione agli immobili dei quali risultano titolari, anche in parte, del diritto di proprietà o di altri diritti reali di godimento.
Il provvedimento direttoriale, del 4 marzo, stabilisce le modalità e i tempi di accesso alla procedura, attivata in base a quanto previsto dall’articolo 6, comma 5-quinquies, del decreto legge 16/2012, convertito con modificazioni dalla legge 44/2012.
Per ora, quindi, informazioni in rete, soltanto alle persone fisiche registrate a Fisconline o Entratel. Per accedere alla consultazione occorre che il codice fiscale del richiedente, presente nelle banche dati ipotecaria e catastale, coincida con quello del titolare dell’abilitazione ai due servizi telematici dell’Agenzia delle Entrate.
La procedura risponde esclusivamente in relazione ai fabbricati di cui il soggetto risulta intestatario negli archivi catastali e, riguardo ai registri immobiliari, alle formalità informatizzate in cui siano presenti sia il soggetto, sia i fabbricati di cui il medesimo risulta intestatario negli atti catastali.
Inoltre, sempre dal prossimo 31 marzo, la consultazione degli stessi dati potrà essere richiesta, senza costi, anche presso gli sportelli decentrati del Catasto, chance, in questo caso, a disposizione non solo delle persone fisiche (04.03.2014 - link a www.fiscooggi.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: SISTRI: conferma della partenza del 3 marzo per i produttori di rifiuti pericolosi e proroga dell’avvio delle sanzioni (ANCE Bergamo, circolare 28.02.2014 n. 59).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: AMIANTO: relazione annuale entro il 31.03.2014 (ANCE Bergamo, circolare 28.02.2014 n. 58).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Compendio di normativa ambientale. Edizione num. 4 – anno 2014 (ANCE Bergamo, circolare 28.02.2014 n. 57).

VARI: Oggetto: Compendio di normativa sull’autotrasporto. Edizione num. 3 – anno 2014 (ANCE Bergamo, circolare 28.02.2014 n. 56).

APPALTI: Oggetto: Legge 21.02.2014 n. 9 (Destinazione Italia): nuove disposizioni in tema di pagamento dei subappaltatori e delle mandanti; concordato preventivo e partecipazione gare d’appalto; forma dei contratti d’appalto; compensazione cartelle esattoriali con crediti per appalti (ANCE Bergamo, circolare 28.02.2014 n. 53).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Integrazione dei dati ambientali nei certificati del registro delle imprese (Ministero dello Sviluppo Economico, nota 25.02.2014 n. 32555 di prot.).
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Dati ambientali integrabili d'ufficio nel fascicolo aziendale. Da parte delle camere di commercio. circolare dello sviluppo economico.
Sì alla possibilità di integrare d'ufficio da parte della Camera di commercio il fascicolo d'impresa con i dati ambientali. Per i fatti, gli atti e le notizie differenti da quelli proveniente dal Suap, è ammissibile un'acquisizione d'ufficio da parte della camera di commercio, in particolar modo, ove grazie ai protocolli stabiliti con le amministrazioni pubbliche o i gestori di pubblici servizi, sia possibile un'alimentazione costante e uniforme dello stesso fascicolo informatico d'impresa. Con la finalità di ritrovare nel fascicolo di impresa tutte le notizie relative alla stessa, evitando così di appesantire burocraticamente l'impresa con richieste multiple sulla medesima fattispecie. La complessa serie di disposizioni normative emanate negli ultimi anni, in tema di arricchimento delle norme possedute dal registro delle imprese/Rea è chiaramente indirizzata alla massima integrazione dei dati e concentrazione degli stessi nel «fascicolo d'impresa».

Questo è quanto emerge dalla
nota 25.02.2014 n. 32555 di prot. del Mise – Divisione XXI (registro imprese).
L'Unioncamere poneva al Mise un quesito in materia di integrazione della certificazione resa al registro delle imprese con i dati ambientali, e comunque con quei dati di titolarità delle altre amministrazioni e soggetti accreditati. I tecnici di prassi nel ritenere implementabile d'ufficio il fascicolo d'impresa dei dati ambientali fotografa il percorso legislativo.
L'articolo 8, della legge n. 180 del 2011 reca «fermo quanto restando quanto previsto dall'articolo 19, 1° comma, della legge n. 241 del 1990 e successive modifiche, le certificazioni relative all'impresa devono essere comunicate dalla stessa al registro delle imprese anche per il tramite dell'agenzia per le imprese e sono inserite dalle camere di commercio nel repertorio economico amministrativo».
Alle pubbliche amministrazioni alle quali l'imprese comunicano il proprio codice di iscrizione al registro delle imprese è garantito l'accesso gratuito al registro delle imprese. Le pubbliche amministrazioni non possono richiedere alle imprese copie della documentazione già presente nello stesso registro. Appare evidente sottolineato i tecnici di prassi del Mise che il legislatore in linea con i principi dello small business act, alla base della normativa nazionale, abbia voluto garantire alle amministrazioni, anche operanti in sede ispettiva, di rinvenire nel fascicolo di impresa tutte le notizie relative all'impresa stessa, evitando pertanto di appesantire burocraticamente l'impresa di richieste multiple sulla medesima fattispecie.
Alla luce di tutto ciò concludono i dirigenti Mise che per i fatti, gli atti e le notizie differenti da quelli proveniente dal Suap è ammissibile un'acquisizione d'ufficio da parte della camera di commercio, in particolar modo, ove grazie ai protocolli stabiliti con le amministrazioni pubbliche o i gestori di pubblici servizi, sia possibile un'alimentazione costante e uniforme dello stesso fascicolo informatico d'impresa (articolo ItaliaOggi del 27.02.2014).

PATRIMONIO - VARI: OGGETTO: Modifiche alla tassazione applicabile, ai fini dell’imposta di registro, ipotecaria e catastale, agli atti di trasferimento o di costituzione a titolo oneroso di diritti reali immobiliari - Articolo 10 del D.lgs.14.03.2011, n. 23 (Agenzia delle Entrate, circolare 21.02.2014 n. 2/E).

PUBBLICO IMPIEGOOggetto: iscrizione all'albo dei pubblici dipendenti (Consiglio Nazionale Geometri e Geometri Laureati, nota 13.02.2014 n. 1593 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: richiesta parere relativa al decreto legge 63/2013, convertito in legge 03.08.2013, n. 90, e al D.M. 22.01.2008, n. 37 (Ministero dello Sviluppo Economico, lettera-circolare 06.02.2014 n. 20733 di prot.).
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Rinnovabili, obbligatori i corsi per gli installatori.
Si all'obbligatorietà dei corsi per gli installatori di impianti ad energie rinnovabili. È obbligato a partecipare al corso di formazione il soggetto, che dall'entrata in vigore della legge del Fare (dl n. 63/2013 convertito nella legge n. 90/2013), vuole abilitarsi come installatore di fonti rinnovabili.
Dal 04.08.2013 (data di entrata in vigore della legge del fare), per ottenere la qualifica di installatore di impianti da fonti rinnovabili negli edifici bisogna seguire un corso di formazione e non si può far valere solamente l'esperienza maturata sul campo.

Questo è quanto afferma il Mise con la
lettera-circolare 06.02.2014 n. 20733 di prot. in risposta ad un quesito di confartigianato imprese e Cna.
Con il quesito veniva chiesto al Mise se i corsi previsti dall'articolo 17 della legge del fare siano o meno previsti unicamente per i soggetti che si abilitano a partire dal 01.01.2014. I tecnici del Mise nel rispondere hanno delineato i passaggi delle norme che hanno creato dubbi interpretativi. Il dm n. 37 del 2008 prevede che, si può ottenere la qualifica di installatore conseguendo un diploma o una laurea in una materia tecnica specifica, seguendo un corso di formazione o acquisendo l'esperienza sul campo, alle dipendenze di una impresa del settore.
In seguito, il dlgs n. 28/2011 ha escluso che il soggetto alle dipendenze di un'impresa senza aver preventivamente acquisito un titolo di studio specifico potesse ottenere la qualifica di installatore. Con l'entrata in vigore del dl n. 63/2013 convertito nella legge n. 90/2013, è stato previsto che ai responsabili tecnici in attività poteva essere riconosciuta automaticamente la qualifica. Ma le regioni e province autonome avevano l'obbligo di organizzare corsi di formazione specialistici.
Il Mise alla luce delle incertezze normative create ha quindi concluso che l'obbligo di seguire il corso vale per chi intende ottenere la qualifica facendo valere la sua esperienza a partire dal 04.08.2013 (articolo ItaliaOggi del 20.02.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 10 del 05.03.2014, "Incentivi per la riqualificazione degli ostelli della gioventù di proprietà di enti pubblici attraverso l’adeguamento al regolamento regionale n. 2/2011 recante «Definizione degli standard obbligatori minimi e dei requisiti funzionali delle case per ferie e degli ostelli per la gioventù, in attuazione dell’articolo 36, comma 1, della legge regionale 16.07.2007, n. 15 (Testo unico delle leggi regionali in materia di turismo)». Avviso" (decreto D.U.O. 26.02.2014 n. 1541).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: G.U. 28.02.2014 n. 49 "Testo del decreto-legge 30.12.2013, n. 150, coordinato con la legge di conversione 27.02.2014, n. 15, recante: «Proroga di termini previsti da disposizioni legislative»".

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 9 del 27.02.2014, "Modifica alla legge regionale 05.12.2008, n. 31 (Testo unico delle leggi regionali in materia di agricoltura, foreste, pesca e sviluppo rurale), in materia di cooperazione agricola" (L.R. 25.02.2014 n. 13).

VARI: G.U. 26.02.2014 n. 47 "Testo del decreto-legge 28.12.2013, n. 149, coordinato con la legge di conversione 21.02.2014, n. 13, recante: «Abolizione del finanziamento pubblico diretto, disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e della contribuzione indiretta in loro favore»".

URBANISTICA: Progetto di Legge 17.02.2014 n. 0140 di iniziativa del Presidente della Giunta Regionale avente per oggetto “Disposizioni per la riduzione del consumo del suolo e per il riuso del suolo edificato. Modifiche alla l.r. n. 12/2005 (Legge per il governo del territorio)”.

DOTTRINA E CONTRIBUTI

PUBBLICO IMPIEGO: D. Corbo, Mobbing e onere della prova (05.03.2014 - link a www.diritto.it).

TRIBUTI: M. Villani e I. Pansardi, Nuovo orientamento della Cassazione sulla motivazione del classamento (catastale) (04.03.2014 - link a www.diritto.it).

CONDOMINIO: M. Pugliese, Nell’assemblea condominiale, quando deve essere convocato il nudo proprietario? E quando invece deve essere convocato l’usufruttuario? (28.02.2014 - link a www.diritto.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: B. Esposito, Le assunzioni obbligatorie ed i vincoli di spesa pubblica (28.02.2014 - link a www.diritto.it).

CONDOMINIO: D. Gambetta, Nullità della clausola del regolamento condominiale con previsione di sanzioni non pecuniarie: integrità dell’ordinamento e necessaria limitazione dell’autotutela nei rapporti tra privati. Nota alla sentenza della Corte Cass. n. 820 del 16/01/2014 (28.02.2014 - link a www.diritto.it).

APPALTI: S. Metrangolo, Processo amministrativo: sull’ammissibilità di un’azione risarcitoria e sulla responsabilità della Pubblica Amministrazione in punto di procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici (20.02.2014 - link a www.filodiritto.com).

EDILIZIA PRIVATA: S. Baruzzi, L’IVA nella costruzione di fabbricati civili e rurali e di opere di urbanizzazione (Bollettino di Legislazione Tecnica n. 2/2014).

EDILIZIA PRIVATA: D. de Paolis, Scarico a parete o a tetto degli impianti negli edifici: guida di orientamento pratico (Bollettino di Legislazione Tecnica n. 2/2014).

PATRIMONIO: F. Palazzotto, IL DIVIETO DI RINNOVO AUTOMATICO DELLE CONCESSIONI DEMANIALI MARITTIME PER ATTIVITÀ TURISTICO-RICREZTIVE A SEGUITO DI DANNI CAUSATI DA EVENTI ATMOSFERICI ECCEZIONALI E DANNOSI - La Corte Costituzionale, con la recente sentenza del 04.07.2013 n. 171, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della l.reg. Liguria 30.07.2012, n. 24, che ha tentato di reintrodurre il rinnovo automatico delle concessioni a seguito di eventi naturali atmosferici che causassero danni. La Corte ha affermato che il rinnovo o la proroga automatica delle concessioni, venendo meno agli obblighi che incombono ai sensi degli artt. 49 e 101 del TFUE e dell’art. 12 della dir. 2006/123/CE (c.d. dir. Bolkestein), viola l’art. 117,co. 1, cost., per contrasto con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario in tema di libertà di stabilimento e di tutela della concorrenza, determinando altresì una disparità di trattamento tra operatori economici, in violazione dell’art. 117, co. 2, lett. e), dal momento che coloro che in precedenza non gestivano il demanio marittimo non hanno la possibilità, alla scadenza della concessione, di prendere il posto del vecchio gestore. Eliminando la proroga i concessionari non vengono ricompensati dei propri investimenti, di conseguenza vengono disincentivati ad effettuare investimenti per recuperare i beni demaniali danneggiati dalle mareggiate poiché i loro sforzi rischiano di non portare alcun vantaggio per la propria attività, stante il rischio che la loro concessione venga assegnata a un altro operatore. Adesso, sarà necessario trovare un sistema di incentivi alla riparazione dei danni subiti dai beni demaniali, necessariamente più adeguato e coerente don i principi del diritto europeo (Gazzetta Amministrativa n. 2/2013).

PUBBLICO IMPIEGO: C. Medici, I CONTROLLI AMMINISTRATIVI NELLA VALUTAZIONE E NELLA GESTIONE DEL RISCHIO CORRUTTIVO - Nello studio degli strumenti finalizzati a prevenire la corruzione, il tema dei controlli amministrativi ha assunto un’importanza predominante, dal momento che, il buon funzionamento del sistema dei controlli costituisce una garanzia per la legalità dell’azione amministrativa. Il tema dei controlli è stato, quindi, ripreso dalla Commissione interministeriale che ha formulato le linee di indirizzo per la predisposizione del Piano nazionale anticorruzione, approvato dalla CIVIT con delibera n. 72/2013, e dovrà essere ripreso e sviluppato dalle singole pubbliche amministrazioni nei Piani triennali di prevenzione della corruzione (Gazzetta Amministrativa n. 2/2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: S. Oliveri Pennesi, GLI STRUMENTI NECESSARI PER LA VALUTAZIONE DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI - Sviluppare i sistemi di controllo di gestione partendo da una architettura ideal-valutativa che preveda un processo circolare e dinamico, partendo dalla pianificazione, proseguendo con la programmazione, da verificare previ molteplici controlli, per sfociare infine nella valutazione (Gazzetta Amministrativa n. 2/2013).

ENTI LOCALI: A. Marini, BREVI RIFLESSIONI CRITICHE SULLA NUOVA PROCEDURA DI ESTRAZIONE E NOMINA DEI REVISORI DEGLI ENTI LOCALI - Il nuovo sistema di estrazione dei Revisori dei Conti degli Enti Locali, introdotto con Decreto del Ministero dell’Interno 15.02.2012, n. 23, presenta aspetti procedurali non sempre in linea con i principi di semplificazione ed economicità dell’azione amministrativa (Gazzetta Amministrativa n. 2/2013).

ENTI LOCALI: F. Palazzotto, IL SERVIZIO IDRICO INTEGRATO ALLA LUCE DELLA DIR. 2000/60/CE. IL RUOLO DELLA REGOLAZIONE PER LA TUTELA CHE L’ORDINAMENTO APPRESTA ALLA RISORSA ACQUA - Le acque sono state oggetto di molteplici interventi legislativi che hanno modificato la disciplina che riguarda l’organizzazione, la gestione e le modalità di affidamento del servizio idrico integrato. La sfida che il legislatore prima e l’amministrazione poi devono affrontare consiste proprio nel mantenere un equilibrio tra la protezione dei diritti fondamentali e il risparmio delle risorse pubbliche. Il legislatore nazionale ha disciplinato il SII come servizio a rilevanza economica, appropriandosi di numerose competenze relative ai profili di tutela della concorrenza e tutela dell’ambiente, l’esito del referendum, come già preannunciato dalla Corte in sede di giudizio di ammissibilità dei quesiti, non ha significato la possibilità di un ritorno a moduli pubblicistici abrogati per la gestione del servizi idrico integrato. Il referendum del 2011 ha abrogato l’obbligo di bandire le gara per l’affidamento rendendo maggiormente percorribile la possibilità di un affidamento in house, organizzato secondo i principi europei. Tutto ciò non ha cambiato la natura giuridica del Sii come servizio di rilevanza economica, in quanto tale definizione dipende dall’obbligo della copertura dei costi tramite la tariffa. Vista la rilevanza economica del SII, come stabilito dal legislatore nazionale e più volte confermata dalla Corte cost., anche nella recente sentenza del 21.03.2012, n. 62, la tariffa, ed i principi ivi contenuti di provenienza comunitaria, hanno un ruolo preponderante rispetto le tutele che oggi l’ordinamento richiede nei confronti di questa risorsa, quali gli interessi sociali ed ambientali. Conseguentemente a quanto affermato per far si che la tariffa assolva i suoi compiti, occorre che l’apparato regolatorio sia indipendente, autorevole, dotato di strumenti di controllo incisivi e di potere sanzionatorio efficace (Gazzetta Amministrativa n. 2/2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: R. Gai, L’INERZIA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: DAL “DANNO DA RITARDO” (ART. 2-BIS L. 241/1990) ALL’”INDENNIZZO DA RITARDO” (ART. 28 DEL D.L. 21.06.2013, N. 69, CONVERTITO DALLA L. 9.8.2013, N. 98) - Lo sviluppo della tutela del privato nei confronti dell’inerzia della pubblica amministrazione: accanto al “danno da ritardo” (art. 2-bis l. 241/1990) il legislatore introduce l’”indennizzo da ritardo” (art. 28 del d.l. 21.06.2013, n. 69, conv. dalla l. 09.08.2013, n. 98) (Gazzetta Amministrativa n. 2/2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Cordasco e L. Corallo, LA MOTIVAZIONE DEL PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO: AMBITO OGGETTIVO ED ECCEZIONI - Attività della pubblica amministrazione: provvedimento amministrativo - motivazione (Gazzetta Amministrativa n. 2/2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: F. Falco, LA PROVA DELLA COLPA NELLE AZIONI RISARCITORIE DEL DANNO DA ILLEGITTIMO ESERCIZIO DELLA FUNZIONE AMMINISTRATIVA - La sentenza della sezione I-ter del TAR Lazio n. 7040/2013 costituisce applicazione del principio per cui la prova della colpa della P.A., in ipotesi di danno da illegittimo esercizio della funzione amministrativa, non grava sul privato danneggiato, diversamente da quanto previsto dagli artt. 2043 e 2697 c.c. (Gazzetta Amministrativa n. 2/2013).

APPALTI: M. De Cilla, AVVALIMENTO: IL GIUDICE AMMINISTRATIVO RIVEDE LA POSIZIONE GIURISPRU-DENZIALE SULLA CERTIFICAZIONE DI QUALITÀ - La risposta della giurisprudenza recente alla problematica connessa all’avvalimento della certificazione di qualità (Gazzetta Amministrativa n. 2/2013).

APPALTI: E. Gai, ESERCIZIO DELLA REVOCA NEL CASO DI AGGIUDICAZIONE DEFINITIVA DI APPALTI PUBBLICI - È illegittima la revoca di un provvedimento di aggiudicazione definitiva che da tempo ha esaurito i suoi effetti a seguito della stipula del contratto d’appalto e dell’avvio della sua esecuzione (Gazzetta Amministrativa n. 2/2013).

APPALTI: D. Tomassetti e Ilaria De Col, IL PROCESSO AMMINISTRATIVO IN MATERIA DI APPALTI TRA TUTELA DELLA CONCORRENZA E REALIZZAZIONE DELL’OPERA - Le recentissime pronunzie della Corte di Giustizia e del Consiglio di Stato sull’ordine di esame del ricorso principale e di quello incidentale interdittivo (Gazzetta Amministrativa n. 2/2013).

APPALTI: S. Napolitano, IL PRINCIPIO DI TASSATIVITÀ DELLE CLAUSOLE DI ESCLUSIONE E IL DOVERE DI SOCCORSO ISTRUTTORIO: CONTRASTI GIURISPRUDENZIALI E RINVIO ALL'ADUNANZA PLENARIA - L'art. 4, co. 2, lett. d), del d.l. 11.05.2011, n. 70, convertito in legge il 12 luglio e in vigore dal 13.07.2011, ha introdotto l'art. 46, co. 1-bis, il quale prevede il principio di tassatività delle clausole di esclusione nelle gare di appalto (Gazzetta Amministrativa n. 2/2013).

APPALTI: M. Dell'Unto, PARTECIPAZIONE DELLE RETI DI IMPRESA ALLE PROCEDURE DI GARA PER L’AGGIUDICAZIONE DI CONTRATTI PUBBLICI AI SENSI DEGLI ARTICOLI 34 E 37 DEL D. LGS. 12.04.2006, N. 163 - Determinazione n. 3 del 23.04.2013 dell’Autorità per la vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture. Indicazioni sulla partecipazione alle gare delle reti di imprese (Gazzetta Amministrativa n. 2/2013).

APPALTI: A. Grappelli, L’OPERATIVITÀ AGGREGATIVA DELLE RETI D’IMPRESA NELL’AMBITO DEI CONTRATTI PUBBLICI DI APPALTO - Con il presente commento si affronta, nei suoi aspetti generali, il tema dei contratti di rete e del processo di innovazione nel settore degli appalti pubblici a seguito dell’inserimento della lettera e-bis) al co. 1 dell’art. 34 del d.lgs. 163/2006 smi. Le differenti modalità di strutturazione del contratto di rete incidono in modo rilevante ai fini della partecipazione e qualificazione dei retisti. In relazione alla tipologia di contratto di rete, la Stazione appaltane dovrà porre una particolare attenzione nella verifica del rispetto delle formalità di mandato, sottoscrizione della domanda di partecipazione e di offerta da parte dei retisti, nonché dei loro requisiti. Il tema individua ulteriori spunti di riflessione in merito alla futura operatività dei contratti di rete anche in relazione all’istituto del subappalto e del distacco del personale (Gazzetta Amministrativa n. 2/2013).

EDILIZIA PRIVATA: L. Lavitola e A. Di Leo, LA NUOVA RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA A SEGUITO DELLA LEGGE N. 98/2013: DEMO-RICOSTRUZIONE E INTERVENTI DI “RIPRISTINO” - Nell’ambito delle “semplificazioni in materia edilizia”, l’art. 30 della l. 09.08.2013, n. 98 (recante la conversione, con modificazioni, del d.l. 21.06.2013, n. 69, c.d. Decreto del “fare”) ha innovato la disciplina della ristrutturazione edilizia, innovando l’art. 3, co. 1, lett. d), del T.U.E.. L’intervento legislativo “rivoluziona” ed amplia notevolmente l’ambito di applicazione della ristrutturazione edilizia “leggera” (realizzabile tramite SCIA), rimuovendo due limiti (la sagoma e l’impossibilità di considerare i “ruderi” come organismo edilizio esistente ai fini della ristrutturazione), fino ad oggi considerati come veri e propri “confini” tra la nozione di ristrutturazione e quella di nuova costruzione. Il contributo, pertanto, si propone di esaminare l’impatto della modifica normativa e le possibili implicazioni, non solo sotto il punto di vista del “diritto dell’edilizia (Gazzetta Amministrativa n. 2/2013).

EDILIZIA PRIVATA: L. Lavitola e A. Di Leo, LA SANATORIA “GIURISPRUDENZIALE” AL VAGLIO DELLA CORTE COSTITUZIONALE: LA SENTENZA 101/2013 SULLA L.R. TOSCANA, IL “PRINCIPIO DELLA DOPPIA CONFORMITÀ” E LA L.R. EMILIA ROMAGNA - Con la sentenza del 27.02.2013 n. 101, la Corte Costituzionale -sia pur con espresso riferimento solo alla doppia conformità alla normativa tecnico-sismica- ha affermato che la regola oggi contenuta nell’art. 36 del Testo Unico dell’Edilizia (e, prima, nell’art. 13 della l. n. 47/1985) è da considerarsi principio della legislazione statale, come tale non derogabile dalla normativa regionale. La pronuncia della Corte, pertanto, risulta di interesse sia nell’ambito del dibattito –sempre vivo- sulla c.d. “sanatoria giurisprudenziale”, sia in quanto porta all’attenzione un ulteriore profilo problematico, rappresentato dalla conformità a Costituzione di quelle norme regionali (attualmente vigenti) che hanno codificato l’istituto pretorio (Gazzetta Amministrativa n. 2/2013).

EDILIZIA PRIVATA: S. Fifi, GRANDI IMPIANTI SENZA AUTORIZZAZIONE E COMPROMISSIONE AMBIENTALE PAESAGGISTICA CONTINUATA - Nel caso di impianti fotovoltaici di grandi dimensioni realizzati senza “autorizzazione unica” (art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003), la compromissione di paesaggio e ambiente è “continuata”, non esaurendosi dopo la realizzazione del manufatto. Permangono, pertanto, i presupposti e le condizioni per l’irrogazione o il mantenimento della misura cautelare del sequestro giudiziario preventivo disciplinato dall’art. 321 c.p.p. (Gazzetta Amministrativa n. 2/2013).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: L’art. 18, comma 1, della legge 11.02.1994, n. 109 e s.m. stabilisce che una somma non superiore all’1,5% (ora 2% -modifica prevista dall’art. 3 della legge n. 350/2003-) dell’importo dei lavori posto a base di gara sia ripartita, con modalità e criteri previsti in sede di contrattazione decentrata ed assunti in un regolamento adottato dall’amministrazione, tra il Responsabile Unico del Procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano di sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori.
Secondo la predetta norma, inoltre, le quote parti della stessa somma, corrispondenti a prestazioni che non sono svolte da dipendenti dell’amministrazione, in quanto affidate a personale esterno, costituiscono economie.
Per quanto sopra, in ossequio al dettato normativo, è da ritenersi illegittimo il comportamento della stazione appaltante che ha proceduto al pagamento dell’incentivo in mancanza di un regolamento ad hoc e che ha disposto l’erogazione dell’intera quota dell’incentivo al Responsabile Unico del Procedimento, nonostante la quasi totalità delle prestazioni professionali (progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva, direzione lavori, contabilità e collaudo dei lavori) sia stata svolta da tecnici esterni (deliberazione 22.06.2005 n. 70 - link a
www.autoritalavoripubblici.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: L’incentivo ex art. 18 della legge 11.02.1994, n. 109 e s.m. assolve alla funzione di compensare i progettisti dipendenti dell’amministrazione che abbiano in concreto effettuato la redazione degli elaborati progettuali.
Pertanto, la previsione, da parte di un regolamento interno di un ente, della corresponsione dell’incentivo in questione anche nell’ipotesi di progettazione nella sostanza redatta da professionisti esterni, risulta in contrasto con la portata e la ratio della disposizione legislativa richiamata e si pone quale erogazione non dovuta e duplicazione di compensi (deliberazione 22.06.2005 n. 69 - link a
www.autoritalavoripubblici.it).

INCARICHI PROGETTAZIONE: La possibilità di costituire gruppi di progettazione misti, formati da dipendenti di più amministrazioni, non è consentita dall’articolo 17, comma 1, della legge 11.02.1994, n. 109 e s.m., essendo prevista, peraltro, (dallo stesso comma 1, lett. b), la possibilità che l’attività di progettazione sia espletata da “uffici consortili di progettazione e di direzione dei lavori” costituiti con le modalità stabilite dagli artt. 24 e s.s. della legge n. 142/1990, ora disciplinate dagli artt. 30 e s.s. del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (D.Lgs. 18.08.2000, n. 267).
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La procedura, adottata dalla stazione appaltante per l’affidamento degli incarichi di consulenza e supporto alla progettazione, mancante di qualsiasi confronto concorrenziale appare non conforme alle norme della legge quadro sui lavori pubblici e del relativo regolamento di attuazione.
Con particolare riferimento all’affidamento di incarichi di importo compreso tra 100.000 e 200.000 euro, la stazione appaltante avrebbe dovuto ricorrere alla licitazione privata, sulla base dei criteri e delle modalità fissati dagli artt. 62 ss. del D.P.R. 21.12.1999, n. 554 e s.m., nel rispetto dei principi generali della trasparenza e del buon andamento richiamati dall’art. 17, comma 11, della legge 11.02.1994, n. 109 e s.m.
Con riguardo, invece, ad incarichi di consulenza e supporto alla progettazione conferiti per un corrispettivo presunto superiore alla soglia di applicazione della disciplina comunitaria in materia di appalti pubblici di servizi, si sarebbe dovuta adottare -ai sensi dell’articolo 17, comma 10, della citata legge n. 109/1994 e s.m.  una procedura di affidamento conforme alle disposizioni di cui al Decreto Legislativo 17.03.1995, n. 157.
Quest’ultima procedura, in mancanza di motivi di impellente urgenza che consentono l’affidamento del servizio a trattativa privata, ai sensi dell’articolo 7, comma 2, lett. d, del citato D.Lgs. n. 157/1995, avrebbe dovuto comunque osservarsi, anche ove si volesse ammettere che l’attività in questione si qualifichi quale mera consulenza, in quanto i servizi di consulenza in materia d’ingegneria sono compresi nella categoria 12 dell’allegato 1 al D.Lgs. n. 157/1995 (riferimento CPC n. 867) (deliberazione 22.06.2005 n. 69 - link a
www.autoritalavoripubblici.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Svilisce la portata e la ratio dell’art. 18, comma 1, della legge 11.02.1994, n. 109 e s.m., che ha la funzione di compensare i soggetti che eseguono incarichi essenzialmente all’interno dell’amministrazione, la previsione del regolamento, adottato dall’amministrazione in applicazione di tale articolo, che assegna agli stessi una percentuale di incentivo di poco inferiore all’1,5% dell’importo lavori per il caso in cui la totalità o quasi delle prestazioni siano eseguite all’esterno.
Qualora le aliquote indicate nel suddetto regolamento vengano applicate non come aliquote percentuali sull’importo dei lavori, ma come quota parte dell’aliquota percentuale massima (1,5%) sull’importo dei lavori, non solo la somma individuata per l’attività considerata risulta superiore a quella dovuta ma, attraverso successive liquidazioni riferite ad ulteriori prestazioni per lo stesso intervento, potrebbe determinarsi un superamento della soglia massima dell’1,5% di cui al citato articolo 18 (deliberazione 19.05.2004 n. 97-bis - link a
www.autoritalavoripubblici.it).

INCARICHI PROGETTUALI: La decisione di affidare, mediante separati avvisi, gli incarichi di redazione del progetto esecutivo, di direzione lavori, di coordinatore per la sicurezza nella fase di progettazione e di esecuzione, di redazione della relazione geologica -benché tale suddivisione non comporti un aumento di spesa e l’ammontare complessivo dei corrispettivi per le citate attività sia inferiore al limite della c.d. “prima fascia” di cui all’articolo 17, comma 12, della legge 11.02.1994, n. 109 e s.m.- non appare conforme all’art. 17, comma 14, della medesima legge, ove prescrive che “nel caso di affidamento di incarichi di progettazione ai sensi del comma 4, l’attività di direzione dei lavori è affidata, con priorità rispetto ad altri professionisti esterni, al progettista incaricato...”.
Finalità della norma è quella di rendere unitario l’affidamento delle prestazioni, evitando, per quanto possibile, confusioni di responsabilità.
Relativamente alla circostanza che il responsabile del procedimento abbia svolto la funzione di progettista per un intervento risultato d’importo superiore a 500.000 Euro soltanto dopo che è emersa, in sede di redazione del progettazione preliminare, l’opportunità di ricorrere a differenti modalità di realizzazione (concessione) nonché di prevedere maggiori lavori, si rammenta che l’art. 15, comma 5, del D.P.R. 21.12.1999, n. 554 e s.m. prevede che già nel documento preliminare alla progettazione siano indicati, tra l’altro, il sistema di realizzazione da impiegare, i limiti finanziari da rispettare, la stima dei costi e le fonti di finanziamento (deliberazione 19.05.2004 n. 97-bis - link a
www.autoritalavoripubblici.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Ai sensi dell'articolo 18 della legge 11.02.1994 n. 109 e s.m. costituiscono economie le quote parti dell'incentivo pari all'1,5% corrispondenti a prestazioni svolte da professionisti esterni (deliberazione 02.05.2001 n. 150 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

INCARICHI PROGETTUALI: L'articolo 17, co. 4, della legge 11.02.1994 n. 109 e s.m., nel disporre che gli incarichi di progettazione possono essere affidati all'esterno in caso di carenza di organico del personale tecnico della stazione appaltante accertata dal responsabile del procedimento, non consente il ricorso a tale procedura senza adeguata motivazione (deliberazione 02.05.2001 n. 150 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Il presidente è sostituibile. Se sospeso gli subentra il consigliere anziano. Vanno applicate per analogia le norme sulla supplenza del sindaco.
È possibile eleggere un nuovo presidente del consiglio comunale in sostituzione del presidente sospeso dalle funzioni, ai sensi dell'art. 11 del dlgs n. 235/2012?

L'art. 39 del dlgs n. 267/2000, al comma 1, ultimo periodo, stabilisce che «nei comuni con popolazione sino a 15.000 abitanti lo statuto può prevedere la figura del presidente del consiglio»
La legge non fornisce altre indicazioni in merito, pertanto è demandata allo statuto degli enti locali l'eventuale integrazione della predetta statuizione; tant'è che in carenza di una specifica previsione statutaria, la giurisprudenza tende ad affermare l'illegittimità dell'eventuale revoca del presidente (v., tra l'altro, Tar Piemonte sez. I, 04/09/2009, n. 2248).
Lo statuto del comune in questione disciplina la revoca del presidente del consiglio da parte del consiglio comunale (solo per reiterata violazione di legge, dello statuto, dei regolamenti o per gravi e reiterati comportamenti pregiudizievoli per la funzionalità ed efficacia dei lavori del consiglio o lesivi del prestigio dello stesso) mentre prevede che «in caso di assenza o impedimento del presidente, lo sostituisce il consigliere anziano», sulla falsariga di quanto previsto dall'art. 39 del dlgs n. 267/2000 in ordine ai comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti.
Nella fattispecie, a prescindere dall'ipotesi della revoca disciplinata dalla norma statutaria citata, occorre verificare se la sospensione dalla carica di consigliere, che ha natura cautelare e non sanzionatoria, comporti la possibilità di supplenza, anche nell'incarico di presidente del consiglio, da parte del consigliere anziano, come previsto dallo statuto.
In carenza di una specifica disciplina statutaria o regolamentare, occorre richiamare in analogia, l'articolo 53, comma 2, del dlgs n. 267/2000 che disciplina le funzioni sostitutive del sindaco da parte del vicesindaco, nel «caso di assenza o di impedimento temporaneo, nonché nel caso della sospensione dall'esercizio della funzione ai sensi dell'articolo 59» del citato dlgs n. 267/2000, il cui contenuto è stato sostituito, sostanzialmente, dall'art. 11 del dlgs n. 235/2012).
Pertanto, proprio in analogia a quanto previsto dal citato articolo 53, comma 2, le funzioni sostitutive previste anche dall'articolo 39, comma 2 del dlgs n. 267/2000 possono essere esercitate dal consigliere anziano anche in presenza di un provvedimento di sospensione del presidente (articolo ItaliaOggi del 28.02.2014).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Efficacia delle dimissioni.
Possano essere considerate immediatamente efficaci le dimissioni presentate dal consigliere comunale nel contesto della seduta assembleare?

Occorre fare un distinguo tra la sfera politica delle dichiarazioni rese nel corso del dibattito in aula e la sfera giuridica delle medesime che attengono alla titolarità della carica.
Tale manifestazione di volontà, ancorché resa nel corso della seduta consiliare e verbalizzata, assume rilievo giuridico atto a produrre gli effetti previsti dalla legge con la dichiarazione scritta e l'acquisizione al protocollo dell'ente, come previsto dall'art. 38 del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali.
Pertanto, qualora le dichiarazioni rese in consiglio non siano seguite dalla formalizzazione delle stesse in un atto scritto acquisito al protocollo dell'ente, la mancata corrispondenza delle modalità di presentazione delle dimissioni al disposto normativo comporta l'inidoneità delle suddette dichiarazioni a causare l'effetto irrevocabile della perdita della titolarità della carica (articolo ItaliaOggi del 28.02.2014).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Incarichi esterni a dipendenti pubblici a tempo parziale non superiore al 50%.
Ai sensi dell'art. 1, comma 56-bis, della l. 662/1996, ai dipendenti in regime di tempo parziale non superiore al 50% iscritti ad albi professionali e che esercitino attività professionale non possono essere conferiti incarichi professionali dalle amministrazioni pubbliche.
Il Comune ha chiesto un parere in materia di incarichi esterni a dipendenti pubblici a tempo parziale non superiore al 50%, in relazione a quanto disposto dall'art. 1, comma 56-bis, della l. 662/1996. Nella concreta fattispecie si tratta di un ingegnere regolarmente iscritto all'albo professionale e successivamente assunto quale dipendente pubblico a tempo parziale pari al 50%. In particolare, l'Ente chiede di conoscere:
- se il divieto posto dalla citata norma riguardi i soli dipendenti pubblici a tempo pieno ed a tempo parziale superiore al 50%;
- se il dipendente pubblico a tempo parziale non superiore al 50%, regolarmente iscritto all'albo professionale ed affidatario di un incarico da parte di altro Ente sia soggetto ad una comunicazione dell'incarico assunto o ad una autorizzazione da parte dell'Amministrazione presso cui è assunto.
Preliminarmente si ritiene utile rappresentare quanto previsto all'art. 1, comma 56, della l. 662/1996.
Detta norma stabilisce che le disposizioni di legge e di regolamento che vietano l'iscrizione in albi professionali non si applicano ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50% di quella a tempo pieno.
Pertanto, in virtù di detta previsione, per tali dipendenti è stato introdotto uno specifico regime derogatorio, rendendo inapplicabili nei loro confronti le disposizioni contenute all'art. 53 del d.lgs. 165/2001, nonché quelle contenute in altre leggi o regolamenti, che vietino l'iscrizione in albi professionali.
Conseguentemente, secondo l'ordinamento vigente, lo svolgimento di un'attività libero professionale, da parte di un dipendente pubblico, risulta compatibile e possibile solo se l'interessato abbia un rapporto di lavoro part-time non superiore al 50 per cento dell'ordinario orario di lavoro.
Come evidenziato dalla Corte costituzionale
[1], il comma 56 in esame 'ha apportato una decisiva modifica ad uno dei canoni fondamentali del rapporto di impiego pubblico, e cioè quello dell'esclusività della prestazione'.
Il successivo comma 56-bis, dell'art. 1, della l. 662/1996, dispone l'abrogazione delle disposizioni che vietano l'iscrizione ad albi e l'esercizio di attività professionali per i soggetti di cui al comma 56 della medesima legge, precisando che, ai dipendenti pubblici iscritti ad albi professionali e che esercitino attività professionale non possono essere conferiti incarichi professionali dalle amministrazioni pubbliche. La Consulta ha sottolineato che, con la richiamata norma, 'nell'elidere il vincolo di esclusività della prestazione in favore del datore di lavoro pubblico, il legislatore, proprio per evitare eventuali conflitti di interessi, ha provveduto a porre direttamente (ovvero ha consentito alle amministrazioni di porre) rigorosi limiti all'esercizio, da parte del dipendente che richieda il regime di part-time ridotto, di ulteriori attività lavorative'.
Detti limiti si rinvengono appunto nel citato comma 56-bis, che contempla l'impossibilità di un conferimento di incarichi da parte delle amministrazioni pubbliche in favore del dipendente part-time.
Il Dipartimento della funzione pubblica
[2], con riferimento alle disposizioni legislative di cui si discute, ha chiarito che 'ai dipendenti in regime di tempo parziale al 50% iscritti ad albi professionali e che esercitino attività professionale non possono essere conferiti incarichi professionali da amministrazioni pubbliche'.
Si osserva al riguardo che il divieto previsto al comma 56-bis riguarda proprio i dipendenti pubblici a part-time non superiore al 50%, considerato che quelli a tempo pieno e a tempo parziale superiore al 50% non possono mai esercitare attività professionale esterna con iscrizione all'albo.
Qualora, nella fattispecie prospettata, l'incarico 'da parte di altro Ente', come riferito dall'Amministrazione istante, dovesse risultare affidato da un Ente diverso dalle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001, si osserva quanto segue.
L'art. 53, comma 7, del d.lgs. 165/2001 prevede che i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza.
Il comma 6 del medesimo articolo precisa altresì che i commi da 7 a 13 dell'art. 53 si applicano ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, con esclusione dei dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento di quella a tempo pieno, dei docenti universitari a tempo definito e dalle altre categorie di dipendenti pubblici ai quali è consentito da disposizioni speciali lo svolgimento di attività libero-professionali.
Pertanto, alle elencate categorie di personale (fra le quali rientra anche il dipendente del Comune) non si applica il regime autorizzatorio previsto dall'art. 53 in argomento, per lo svolgimento di incarichi extralavorativi.
Si sottolinea comunque che l'art. 4, comma 10, del CCRL del 25.07.2001 impone al dipendente a part-time l'obbligo di comunicare, entro quindici giorni, all'ente nel quale presta servizio l'eventuale successivo inizio o la variazione dell'attività lavorativa esterna.
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[1] Cfr. sentenza n. 189 del 2001.
[2] Cfr. parere n. 220/2005
(21.02.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Incompatibilità flessibili. È il consiglio a decidere sulle cause ostative. Agli amministratori deve essere garantito il diritto al contraddittorio.
Sussiste la fattispecie dell'incompatibilità, ai sensi dell'art. 63 Tuel 267/2000, nel caso di un consigliere provinciale che ricopre anche la carica di presidente/amministratore di una società consortile a capitale pubblico che gestisce il servizio idrico integrato?

L'art. 69 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, in conformità al principio generale secondo cui ogni organo collegiale delibera sulla regolarità dei titoli di appartenenza dei propri componenti, attribuisce al consiglio, che ne è responsabile, l'esame delle cause ostative all'espletamento del mandato, secondo la procedura dettata dallo stesso art. 69, che garantisce comunque il corretto contraddittorio tra l'organo e gli amministratori, assicurando a questi ultimi l'esercizio del diritto di difesa e la possibilità di rimuovere entro un congruo termine la causa di incompatibilità contestata (articolo ItaliaOggi del 21.02.2014).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum delle sedute.
Qual è il quorum costitutivo necessario, nelle sedute di seconda convocazione, per le deliberazioni riguardanti la salvaguardia degli equilibri di bilancio, l'assestamento del bilancio e la definizione delle aliquote dei tributi?

Nel caso di specie, il consiglio comunale, al quale sono assegnati per legge dodici consiglieri, risulta attualmente composto dal sindaco e da nove consiglieri, di cui cinque appartenenti alla maggioranza e quattro alle opposizioni.
Ai fini della valida costituzione dell'organo consiliare, ai sensi del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale, è prevista la presenza di metà dei consiglieri assegnati escluso il sindaco, per le sedute di prima convocazione, e la presenza di un terzo dei consiglieri assegnati, computato senza considerare il sindaco, per le adunanze di seconda convocazione. La citata fonte regolamentare dispone che, nella sedute di seconda convocazione, non possono essere assunte deliberazioni che richiedano una maggioranza qualificata od un particolare «quorum costitutivo». Inoltre, nelle sedute di seconda convocazione, non possono essere deliberati gli atti tassativamente indicati dalla norma regolamentare.
Considerato che, per le deliberazioni riguardanti la salvaguardia degli equilibri di bilancio e l'assestamento del bilancio non sono richiesti una maggioranza qualificata od un particolare quorum costitutivo e non sono elencate tra quelle espressamente previste dal citato regolamento, gli atti in oggetto possano essere assunti anche in seconda convocazione, fermo restando le regolarità della convocazione medesima.
A diverse conclusioni si perviene per le deliberazioni, da parte del consiglio comunale, relative alla definizione delle aliquote dei tributi, essendo per tali atti previsto, dalla stessa norma regolamentare, un particolare quorum costitutivo.
Vale richiamare il principio secondo il quale la mancanza del quorum deliberativo fissato dal regolamento, oltre a incidere sul munus dei consiglieri comunali che, pertanto, hanno interesse ad impugnare la delibera, comporta una sostanziale illegittimità dell'atto (Tar per la Calabria, sentenza n. 904 dell'11.09.2013) (articolo ItaliaOggi del 21.02.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Nuova locazione con Ape.
Domanda
Vorrei sapere se in caso di stipula di un contratto di locazione di un immobile abitativo occorre allegare l'Ape. Ho letto che a fine anno gli adempimenti sono stati semplificati.
Risposta
In realtà, le semplificazioni apportate alla materia sono abbastanza relative. Nel caso di una nuova locazione, sia di singole unità immobiliari sia di interi edifici, non occorre più allegare l'Ace al contratto a pena di nullità, ma è pur sempre necessario mettere l'Ape a disposizione del conduttore e inserire nel contratto un'apposita dichiarazione del conduttore di aver ricevuto le informazioni e la documentazione, comprensiva dell'attestato, in ordine alla prestazione energetica degli edifici.
Sia la mancata messa a disposizione che la mancata dichiarazione sono sanzionate, in modo abbastanza pesante, dalla legge (dlgs n. 193/2005, come modificato dai provvedimenti normativi emanati a fine 2013).
Quanto ai contenuti dell'Ape, riteniamo opportuno ricordare che con circolare del 07.08.2013, il ministero dello sviluppo economico ha precisato che solo con l'entrata in vigore dei decreti di aggiornamento della metodologia di cui all'articolo 4 del dl n. 63/2013 si dovrà adempiere alle prescrizioni dettate da quest'ultimo in tema di Ape, mentre fino a tale momento si continuerà a fare riferimento alle modalità di calcolo dettate dal Dpr 02.04.2009, n. 59, in materia di «Attestato di Certificazione Energetica» (Ace), salvo che nelle regioni che hanno provveduto a emanare proprie disposizioni normative in recepimento della Direttiva 2002/91/CE: in tali Regioni, sempre fino all'emanazione dei richiamati decreti ministeriali o fino all'emanazione di nuove norme regionali di recepimento della direttiva 2010/31/UE, si continuerà a seguire le disposizioni regionali già in vigore (articolo ItaliaOggi Sette del 17.02.2014).

PUBBLICO IMPIEGO: Permessi familiari.
Domanda
Sono un lavoratore a domicilio con un figlio malato grave. La legge prevede per il lavoratore dei permessi retribuiti. Nel mio caso di quali benefici posso usufruire?
Risposta
La legge 05.02.1992 n. 104 riconosce a tutti i lavoratori portatori di handicap grave, stabilito da apposita Commissione medica, e ai loro familiari dei permessi retributivi aventi come scopo la cura e l'assistenza del lavoratore o del familiare portatore di handicap. Il lavoratore portatore di handicap, a seguito di detta legge, può richiedere e beneficiare di due tipi di permessi: un permesso pari a due ore giornaliere oppure tre giorni di permesso mensili. La domanda deve essere presentata alla sede Inps territorialmente competente in duplice copia.
La legge di stabilità 2014 ha stabilito che le giornate dedicate dal lavoratore ai congedi e permessi per assistenza ai familiari invalidi sono computate ai fini del calcolo dell'anzianità contributiva per l'accesso alla pensione anticipata senza penalizzazioni. Purtroppo nel caso in esame il lettore quale lavoratore a domicilio rientra tra i soggetti esclusi da detto beneficio (articolo ItaliaOggi Sette del 17.02.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Bonus ristrutturazioni.
Domanda
L'inquilino che sostiene la spesa per i lavori di ristrutturazione ha diritto alla detrazione Irpef o questa spetta solo ai proprietari? Eventualmente se prima dei 10 anni cambia casa perde il diritto alla quote residue di detrazione?
Risposta
L'agevolazione fiscale di cui al quesito spetta a chi sostiene le spese di ristrutturazione, quindi, non solo ai proprietari degli immobili (o i titolari di altri diritti reali, come nuda proprietà, usufrutto, uso, abitazione o superficie), ma anche ai locatari o ai comodatari. La cessazione dello stato di locazione, così come quella di comodato, non fa venire meno il diritto alla detrazione per l'inquilino, o per il comodatario che hanno eseguito e, ovviamente, pagato i lavori (articolo ItaliaOggi Sette del 17.02.2014).

VARI: Bonus arredi.
Domanda
Per poter godere del bonus arredi le spese d'acquisto dei mobili deve essere successiva a quella di fine lavori di ristrutturazione?
Risposta
Per ottenere il bonus di cui al quesito: a) non è necessario che le spese di ristrutturazione siano sostenute prima di quelle per l'arredo dell'immobile; b) è necessario che la data dell'inizio dei lavori di ristrutturazione preceda quella in cui si acquistano i beni.
La data di avvio dei lavori può essere dimostrata da eventuali abilitazioni amministrative, dalla comunicazione preventiva all'Asl, quando è obbligatoria; c) occorre che le spese per gli interventi di recupero edilizio siano sostenute a partire dal 26.06.2012 (articolo ItaliaOggi Sette del 17.02.2014).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Permessi a maglie strette.
Un dipendente dello stato, eletto componente del cda di una università agraria, può fruire di permessi di cui ai commi 3, 4 e 5 dell'art. 79 del decreto legislativo n. 267/2000?

L'art. 77, comma 2, del Tuel, statuisce che, ai fini dell'applicazione delle norme di cui al capo IV – status degli amministratori locali (artt. 77-87), si devono intendere per amministratori locali i componenti degli enti locali.
Nella fattispecie, l'incarico ricoperto non può essere ricondotto a quello di componente degli organi citati dall'art. 77, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, pertanto all'interessato non sono applicabili le disposizioni di cui all'art. 78 e all'art. 79 del medesimo Testo unico (articolo ItaliaOggi del 14.02.2014).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Dimissioni dei consiglieri.
In quale caso le dimissioni dei consiglieri comunali danno luogo allo scioglimento dell'organo consiliare, ai sensi dell'art. 141, comma 1, lettera b), n. 3 del Tuel?

Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, per concretizzare la fattispecie dello scioglimento dell'organo consiliare è necessaria la contestualità delle dimissioni dei consiglieri, espressiva della connessione delle volontà al fine dissolutorio, cui consegue lo scioglimento dell'organo e non la surroga dei singoli.
Ciò, diversamente da quanto disposto dall'art. 38, comma 8, del Tuel che, in relazione alla fattispecie delle dimissioni individuali, rese allo scopo della personale rinuncia al mandato, prevede la surroga del dimissionario e non la crisi dell'organo consiliare (cfr. Cons. stato, sez. VI, del 12/8/2009, n. 4936).
Nella fattispecie, le dimissioni dei consiglieri, presentate personalmente dai dimissionari, con atti separati, essendo state assunte al protocollo dell'ente con numerazioni non consecutive, pur nella stessa giornata, non determinano il presupposto della contemporaneità e non integrano, quindi, gli estremi per l'avvio della procedura di scioglimento per le dimissioni ultra dimidium, prevista dall'art. 141, comma 1, lettera. B), n. 3 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267.
Per quanto riguarda la convocazione dell'assemblea consiliare per procedere alla surroga dei dimissionari, in via generale, l'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, dispone che il funzionamento dei consigli, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal regolamento che prevede le modalità di convocazione per la presentazione e per la discussione delle proposte. Il regolamento indica il numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute, prevedendo che in ogni caso debba esservi la presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia.
Nel caso di specie, Il regolamento comunale prevede che l'organo non può deliberare se non interviene, in prima convocazione, almeno la metà dei consiglieri assegnati all'ente. Proprio il riferimento all'intervento alle sedute da parte di almeno la metà dei componenti presuppone che l'organo abbia un quorum strutturale che ne consenta il funzionamento, già in prima convocazione (articolo ItaliaOggi del 14.02.2014).

LAVORI PUBBLICIDOMANDA: Appalto di opere pubbliche: modalità di cessione del credito vantato verso una P.A. (Gazzetta Amministrativa n. 2/2013).

PUBBLICO IMPIEGODOMANDA: Rimborso spese legali ex art. 32 l. n. 152/1975: procedimenti conclusi con sentenza di prescrizione (Gazzetta Amministrativa n. 2/2013).

LAVORI PUBBLICIDOMANDA: Interpretazione art. 1, co. 19 e segg., L. 190/2012 in materia di arbitrato dei lavori pubblici (Gazzetta Amministrativa n. 2/2013).

ATTI AMMINISTRATIVIDOMANDA: Spese di giustizia: oneri del contributo unificato anche in caso di “soccombenza virtuale (Gazzetta Amministrativa n. 2/2013).

ATTI AMMINISTRATIVIDOMANDA: Spese di giustizia: oneri del contributo unificato in caso di "soccombenza reciproca" (Gazzetta Amministrativa n. 2/2013).

CORTE DEI CONTI

APPALTI FORNITURE - CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: Va accertata la non conformità a legge delle spese di rappresentanza relative all’acquisto di panettoni e pandori da donare ad anziani over 75 anni.
La nozione di spesa di rappresentanza si configura quale voce di costo essenzialmente finalizzata ad accrescere il prestigio e la reputazione della singola pubblica amministrazione verso l’esterno. Le relative spese devono assolvere il preciso scopo di consentire all’ente locale di intrattenere rapporti istituzionali e di manifestarsi all’esterno in modo confacente ai propri fini pubblici.
Dette spese devono dunque rivestire il carattere dell’inerenza, nel senso che devono essere strettamente connesse con il fine di mantenere o accrescere il ruolo, il decoro e il prestigio dell’ente medesimo, nonché possedere il crisma dell’ufficialità, nel senso che esse finanziano manifestazioni della pubblica amministrazione idonee ad attrarre l’attenzione di ambienti qualificati o dei cittadini amministrati al fine di ricavare i vantaggi correlati alla conoscenza dell’attività amministrativa.
L’attività di rappresentanza ricorre in ogni manifestazione ufficiale attraverso gli organi muniti, per legge o per statuto, del potere di spendita del nome della pubblica amministrazione di riferimento.
La violazione dei criteri finalistici testé indicati conduce all’illegittimità della spesa sostenuta dall’ente per finalità che fuoriescono dalla rappresentanza.
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La Sezione ha individuato i seguenti principi di carattere procedimentale e sostanziale:
1) ciascun ente locale deve inserire, nell'ambito della programmazione di bilancio, apposito capitolo in cui vengono individuate le risorse destinate all'attività di rappresentanza, anche nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica fissati dal legislatore; capitolo di bilancio che deve essere reso autonomo rispetto ad altri al fine di evitare commistioni contabili;
2) esulano dall’attività di rappresentanza quelle spese che non siano strettamente finalizzate a mantenere o accrescere il prestigio dell'ente verso l’esterno nel rispetto della diretta inerenza ai propri fini istituzionali;
3) non rivestono finalità rappresentative verso l'esterno le spese destinate a beneficio dei dipendenti o amministratori appartenenti all'Ente che le dispongono;
4) le spese di rappresentanza devono essere congrue sia ai valori economici di mercato sia rispetto alle finalità per le quali la spesa è erogata;
5) l’attività di rappresentanza non deve porsi in contrasto con i principi di imparzialità e di buon andamento, di cui all'art. 97 della Costituzione.
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Le spese di rappresentanza non possono risolversi in regalie ricorrenti per le festività, né essere a beneficio di soggetti interni all’ente.
Sono prive della qualificazione di spese di rappresentanza quelle erogate in occasione e nell’ambito di normali rapporti istituzionali a favore di soggetti che non sono rappresentativi degli organi di appartenenza, ancorché estranei all’Ente, e in generale quelle prive di funzioni rappresentative verso l’esterno, quali quelle destinate a beneficio dei dipendenti o amministratori appartenenti all’Ente che le dispone
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Devono inoltre essere rigorosamente giustificate con l’esposizione dell’interesse istituzionale perseguito, della dimostrazione del rapporto tra l’attività dell’ente e la spesa erogata, della qualificazione del soggetto destinatario e dell’occasione della spesa.
Resta ferma la necessità di una congruità della spesa sostenuta che va misurata senz’altro in riferimento ai valori economici di mercato (“non è comunque congruo mostrare prodigalità attraverso celebrazioni e rinfreschi, e semmai è richiesto il contrario, ossia l’evidenza di una gestione accorta che rifugga gli sprechi e si concentri sull’adeguato espletamento delle funzioni sue proprie”).
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L'amministrazione comunale deve dunque essere ristorata degli esborsi sostenuti per l’effettuazione di tale tipologia di spese (e cioè l’acquisto di 105 panettoni e 105 pandori in occasione delle festività natalizie 2012 per gli anziani over 75 del comune).

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In via preliminare la Sezione osserva che nell’attuale contesto congiunturale di coordinamento della finanza pubblica e di crisi economica, le spese di rappresentanza, in quanto non necessarie, sono da considerarsi come recessive rispetto ad altre voci di spesa pubblica.
L’art. 6 comma 8 del D.L. 31.05.2010, n.78, convertito con modificazioni nella legge 30.07.2010, n.122 ha disposto che “A decorrere dall'anno 2011 le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell'articolo 1 della legge 31.12.2009, n. 196, incluse le autorità indipendenti, non possono effettuare spese per relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e di rappresentanza, per un ammontare superiore al 20 per cento della spesa sostenuta nell'anno 2009 per le medesime finalità”.
La legislazione finanziaria ha infatti previsto un taglio lineare a regime di oltre l’80% rispetto alla spesa sostenuta nell’anno 2009 per le seguenti tipologie: relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e rappresentanza.
La normativa non ha definito le singole categorie di spesa, per la concettualizzazione delle quali si deve far riferimento al linguaggio comune e ai criteri elaborati dalla giurisprudenza contabile ed amministrativa.
Dal punto di vista definitorio, si osserva che
la nozione di spesa di rappresentanza si configura quale voce di costo essenzialmente finalizzata ad accrescere il prestigio e la reputazione della singola pubblica amministrazione verso l’esterno. Le relative spese devono assolvere il preciso scopo di consentire all’ente locale di intrattenere rapporti istituzionali e di manifestarsi all’esterno in modo confacente ai propri fini pubblici.
Dette spese devono dunque rivestire il carattere dell’inerenza, nel senso che devono essere strettamente connesse con il fine di mantenere o accrescere il ruolo, il decoro e il prestigio dell’ente medesimo, nonché possedere il crisma dell’ufficialità, nel senso che esse finanziano manifestazioni della pubblica amministrazione idonee ad attrarre l’attenzione di ambienti qualificati o dei cittadini amministrati al fine di ricavare i vantaggi correlati alla conoscenza dell’attività amministrativa.
L’attività di rappresentanza ricorre in ogni manifestazione ufficiale attraverso gli organi muniti, per legge o per statuto, del potere di spendita del nome della pubblica amministrazione di riferimento.

La violazione dei criteri finalistici testé indicati conduce all’illegittimità della spesa sostenuta dall’ente per finalità che fuoriescono dalla rappresentanza.
Sotto il profilo gestionale, l’economicità e l’efficienza dell’azione della pubblica amministrazione impongono il carattere della sobrietà e della congruità della spesa di rappresentanza sia rispetto al singolo evento finanziato, sia rispetto alle dimensioni e ai vincoli di bilancio dell’ente locale che le sostiene.
La violazione dei criteri che presiedono alla sana gestione finanziaria comporta il venir meno dei requisiti di razionalità ed economicità cui l’attività amministrativa deve sempre tendere ai sensi dell’art. 97 Cost.
Sotto il profilo contabile, l’art. 6, comma 8, del D.L. citato impone una riduzione lineare dei singoli capitoli di bilancio rispetto alla spesa sostenuta nell’anno 2009 per i medesimi fini. La violazione del vincolo si traduce in una grave irregolarità contabile per violazione diretta di principi di ordine pubblico economico volti a salvaguardare la tenuta dei conti pubblici della Repubblica Italiana.
Infine, sotto il profilo regolamentare, ogni pubblica amministrazione dovrebbe dotarsi di regole che disciplinano i casi e i modi in cui è sostenibile la spesa di rappresentanza.
In maggior dettaglio, nell’autodeterminare le linee guida per la propria attività,
la Sezione ha individuato i seguenti principi di carattere procedimentale e sostanziale:
1) ciascun ente locale deve inserire, nell'ambito della programmazione di bilancio, apposito capitolo in cui vengono individuate le risorse destinate all'attività di rappresentanza, anche nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica fissati dal legislatore; capitolo di bilancio che deve essere reso autonomo rispetto ad altri al fine di evitare commistioni contabili.
2) esulano dall’attività di rappresentanza quelle spese che non siano strettamente finalizzate a mantenere o accrescere il prestigio dell'ente verso l’esterno nel rispetto della diretta inerenza ai propri fini istituzionali.
3) non rivestono finalità rappresentative verso l'esterno le spese destinate a beneficio dei dipendenti o amministratori appartenenti all'Ente che le dispongono.
4) le spese di rappresentanza devono essere congrue sia ai valori economici di mercato sia rispetto alle finalità per le quali la spesa è erogata.
5) l’attività di rappresentanza non deve porsi in contrasto con i principi di imparzialità e di buon andamento, di cui all'art. 97 della Costituzione.

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Dal prospetto redatto secondo lo schema tipo individuato da D.M. 23.01.2012, sulla scorta della documentazione acquisita nel corso dell’istruttoria, risultano non conformi a legge e ai criteri individuati dalla Sezione, le voci di spesa che seguono: Acquisto panettoni per anziani oltre 75 anni, euro 987,00.
Nel merito del caso in esame, la Sezione osserva che
la spesa per l’acquisto di dolciumi natalizi si configura come mero atto di liberalità nei confronti di soggetti che l’amministrazione comunale indica come persone ultra settantacinquenni in condizioni di difficoltà. L’atto di donazione da parte della P.A. ai privati è sempre possibile qualora si ravvisino ragioni di particolare interesse pubblico, posto che alla prestazione resa con denaro pubblico non corrisponde un sacrificio del beneficiario. Tuttavia, la mera liberalità in occasione di festività natalizie non rientra nel novero delle spese di rappresentanza, nei termini sopra indicati e deve trovare altra allocazione nel bilancio dell’ente.
La predetta spesa si riferisce all’acquisto di 105 panettoni e 105 pandori in occasione delle festività natalizie 2012 per gli anziani over 75 del comune di Idro. Ad ogni buon conto si osserva che i residenti con età uguale o superiore a 75 anni risultano essere (nel 2012) 167 al 31.12.2012 (Fonte Istat).
Al riguardo, la Sezione ribadisce che
le spese di rappresentanza non possono risolversi in regalie ricorrenti per le festività, né essere a beneficio di soggetti interni all’ente.
Sono prive della qualificazione di spese di rappresentanza quelle erogate in occasione e nell’ambito di normali rapporti istituzionali a favore di soggetti che non sono rappresentativi degli organi di appartenenza, ancorché estranei all’Ente, e in generale quelle prive di funzioni rappresentative verso l’esterno, quali quelle destinate a beneficio dei dipendenti o amministratori appartenenti all’Ente che le dispone
(Corte dei Conti - Sez. Giurisdizionale Regione Veneto, 22.11.1996 n. 456 e Sez. Giurisdizionale Emilia Romagna, 05.06.1997 n. 326).
Devono inoltre essere rigorosamente giustificate con l’esposizione dell’interesse istituzionale perseguito, della dimostrazione del rapporto tra l’attività dell’ente e la spesa erogata, della qualificazione del soggetto destinatario e dell’occasione della spesa.
Resta ferma la necessità di una congruità della spesa sostenuta che va misurata senz’altro in riferimento ai valori economici di mercato (“non è comunque congruo mostrare prodigalità attraverso celebrazioni e rinfreschi, e semmai è richiesto il contrario, ossia l’evidenza di una gestione accorta che rifugga gli sprechi e si concentri sull’adeguato espletamento delle funzioni sue proprie” – Sez. Giurisdizionale Abruzzo n. 394/2008).
La Sezione osserva che
l’amministrazione comunale deve dunque essere ristorata degli esborsi sostenuti per l’effettuazione di tale tipologia di spese (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, deliberazione 24.02.2014 n. 93).

APPALTI FORNITURE - CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: Le spese di rappresentanza non possono essere destinate a beneficio personale dei dipendenti e/o amministratori dell’ente che le dispone.
Infatti, non è configurabile il presupposto della “rappresentatività” quando le spese sono effettuate in favore dei dipendenti o degli amministratori operanti per l’ente medesimo.
Le spese devono essere caratterizzate da un legame con il fine istituzionale dell’ente, oltre alla necessità effettiva per il medesimo di ottenere una proiezione esterna dell’amministrazione o di intrattenere relazioni pubbliche con soggetti estranei nell’ambito dei normali rapporti istituzionali.

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Quanto alle spese prese in considerazione dall’istruttoria e dalla presente deliberazione, sul punto è consolidato l’orientamento della Magistratura contabile secondo cui
le spese in questione non possono essere destinate a beneficio personale dei dipendenti e/o amministratori dell’ente che le dispone. Infatti, non è configurabile il presupposto della “rappresentatività” quando le spese sono effettuate in favore dei dipendenti o degli amministratori operanti per l’ente medesimo. Le spese di rappresentanza devono essere caratterizzate da un legame con il fine istituzionale dell’ente, oltre alla necessità effettiva per il medesimo di ottenere una proiezione esterna dell’amministrazione o di intrattenere relazioni pubbliche con soggetti estranei nell’ambito dei normali rapporti istituzionali.
Tali spese sono pertanto finalizzate ad apportare vantaggi che l’ente trae dall’essere conosciuto, quindi, non possono risolversi in mera liberalità né essere a beneficio di soggetti interni all’ente.
Sono prive della qualificazione di spese di rappresentanza quelle erogate in occasione e nell’ambito di normali rapporti istituzionali a favore di soggetti che non sono rappresentativi degli organi di appartenenza, ancorché estranei all’Ente, e in generale quelle prive di funzioni rappresentative verso l’esterno, quali quelle destinate a beneficio dei dipendenti o amministratori appartenenti all’Ente che le dispone (Corte dei Conti - Sez. Giurisdizionale Regione Veneto, 22.11.1996 n. 456 e Sez. Giurisdizionale Emilia Romagna, 05.06.1997 n. 326).
Devono inoltre essere rigorosamente giustificate con l’esposizione dell’interesse istituzionale perseguito, della dimostrazione del rapporto tra l’attività dell’ente e la spesa erogata, della qualificazione del soggetto destinatario e dell’occasione della spesa.
Resta ferma la necessità di una congruità della spesa sostenuta che va misurata senz’altro in riferimento ai valori economici di mercato
(“non è comunque congruo mostrare prodigalità attraverso celebrazioni e rinfreschi, e semmai è richiesto il contrario, ossia l’evidenza di una gestione accorta che rifugga gli sprechi e si concentri sull’adeguato espletamento delle funzioni sue proprie” – Sez. Giurisdizionale Abruzzo n. 394/2008) (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, deliberazione 20.02.2014 n. 88).

INCENTIVO PROGETTAZIONEE' possibile erogare gli incentivi per i progettisti interni anche prima del finanziamento dell’opera, a condizione che siano rispettati i vincoli in merito alla subordinazione di qualsivoglia erogazione all’effettivo svolgimento delle prestazioni ed all’accertamento delle specifiche attività svolte e del contributo fornito dalle figure professionali coinvolte.
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Il Commissario straordinario della Provincia di Agrigento, dopo avere richiamato la disciplina recata dal regolamento interno per la ripartizione dell’incentivo spettante ai tecnici incaricati della progettazione, direzione e collaudo dei lavori, chiede di conoscere se è possibile erogare ai tecnici interni il suddetto incentivo di progettazione prima del finanziamento dell’opera o prima che venga disposto dall’ente finanziatore l’accredito delle somme nelle more dell’espletamento della gara, anticipando il pagamento con imputazione della spesa sul Fondo di rotazione di cui all’art. 14-bis, comma 13, della legge 109/1994 o su altro analogo stanziamento di bilancio finalizzato alle spese di progettazione, con recupero dell’anticipazione ad avvenuto finanziamento e/o accredito delle somme
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Il quesito merita risposta affermativa nei termini che seguono.
L’art. 6, comma 28, della legge regionale 12.07.2011, n. 12, come modificato dall’art. 6, comma 1, della legge regionale 07.08.2013, n. 13 dispone che “Fermo restando quanto previsto dal comma 27, dal comma 6 dell'articolo 4 nonché dall'articolo 3 della legge regionale 21.08.2007, n. 20, le somme residue corrispondenti ai ribassi d'asta dei lavori finanziati dall'Amministrazione regionale con fondi propri affluiscono per il 50 per cento in entrata del bilancio degli enti appaltanti di cui alla lettera a) dell'articolo 2 in apposito capitolo Fondo di rotazione per l'anticipazione delle spese professionali e tecniche per la progettazione, per lo studio geologico e per gli altri studi ed indagini necessarie, il cui importo è reintegrato al momento del finanziamento dell'opera; a decorrere dal 01.01.2014 il restante 50 per cento è destinato ad incremento del fondo di cui all'articolo 5 della legge regionale 12.05.2010, n. 11 (UPB 4.2.1.5.99, capitolo 215727)”.
Occorre, innanzitutto, rilevare che, da un punto di vista contabile, il fondo è alimentato con una quota delle economie di spesa derivanti dai ribassi d’asta dei lavori pubblici finanziati dall’amministrazione regionale. In base alle richiamate disposizioni legislative, esse confluiscono in apposito capitolo denominato “Fondo di rotazione per l’anticipazione delle spese professionali e tecniche per la progettazione, per lo studio geologico e per gli altri studi e indagini necessari”, il cui importo è reintegrato al momento del finanziamento dell’opera.
Per l’ente locale il trasferimento costituisce un’entrata a destinazione vincolata, automaticamente impegnata (c.d. impegno improprio) e contabilizzata in uscita alle spese d’investimento. Qualora l’ente intende effettuare una spesa di progettazione rientrante tra le tipologie finanziabili attraverso il fondo potrà darvi copertura con imputazione al fondo di rotazione iscritto in bilancio, ovviamente nei limiti dell’ammontare dello stesso. Nel momento in cui l’opera cui si riferisce la progettazione viene finanziata anche le relative spese di progettazione previste nel quadro economico saranno finanziate e reintegreranno il fondo. In mancanza di finanziamento l’ente avrà comunque già la copertura per la spesa di progettazione. Il momento del finanziamento o dell’erogazione non è pertanto rilevante, atteso che la copertura della spesa di progettazione è comunque assicurata. Il mancato finanziamento refluisce solo per il futuro, atteso che impedisce il meccanismo di reintegro del fondo, chiudendo il ciclo di “rotazione”.
L’esito affermativo al quesito è, d’alta parte, coerente con la natura sinallagmatica del beneficio economico corrisposto ai progettisti. A tal riguardo, si rammenta che
la Suprema Corte ha ritenuto che il diritto all’incentivo di cui si sta trattando, costituisce un vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva (Cass. Sez. Lav., sent. N. 13384 del 19.07.2004) che inerisce al rapporto di lavoro in corso, nel cui ambito va individuato l’obbligo per l’Amministrazione di adempiere, a prescindere dalle condizioni e dai presupposti per rendere concreta l’erogazione del compenso.
Quanto detto non esclude che, in sede di regolamento interno, al fine di ancorare l’erogazione dell’incentivo a più stringenti presupposti afferenti la necessaria verifica della valida ed effettiva prestazione lavorativa che ne giustifica l’erogazione, l’amministrazione possa ragionevolmente prevedere la corresponsione di tutto o di una parte dell’incentivo solo subordinatamente all’approvazione del progetto o all’aggiudicazione dell’opera ovvero scaglionare o differirne l’erogazione all’esito del collaudo dell’opera, anche al fine di valutare più compiutamente l’apporto fornito dai vari componenti del gruppo nelle varie fasi e complessivamente.
Il regolamento non può, al contrario, prescindere dal vincolo legislativo che impone di ancorare il fondo incentivante alla base di gara (non all’importo oggetto del contratto, né a quello risultante dallo stato finale dei lavori) e pertanto non sarebbe ammissibile la previsione e l’erogazione di alcun compenso nel caso in cui l’iter dell’opera o del lavoro non sia giunto, quantomeno, alla fase della pubblicazione del bando o della spedizione delle lettere d’invito (cfr., in tal senso il parere 24.10.2012 n. 453 della sezione regionale di controllo per la Lombardia che richiama, per esempio, l’art. 2, comma 3, del D.M. Infrastrutture n. 84 del 17/03/2008).
Alla luce del quesito posto dall’ente con riferimento al proprio regolamento interno appare opportuno evidenziare che le concrete modalità di disciplina della ripartizione degli incentivi, rimesse al regolamento dell’ente, deve, poi, avvenire nel rispetto del principio secondo cui
l’incentivo è direttamente funzionalizzato al risultato, atteso che lo stesso è strettamente correlato all’effettivo svolgimento della prestazione e presuppone, pertanto, il positivo accertamento delle specifiche attività svolte.
Si tratta di un principio fondamentale che l’ente deve tenere presente costantemente. La normativa generale sul pubblico impiego e, in particolare, dall’art. 7, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001 stabilisce, infatti che “
le amministrazioni pubbliche non possono erogare trattamenti economici accessori che non corrispondano alle prestazioni effettivamente rese” e l’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006, facendone espressa applicazione proprio in sede di disciplina generale degli incentivi, nella formulazione discendente dalla novella apportata dall’art. 1 del d.l. n. 162/2008 e nel testo recepito in Sicilia con la legge regionale n. 12/2011, dispone che “la corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti”.
Ne discende che
anche la tempistica di attribuzione ed erogazione dell’incentivo deve essere subordinata alla necessaria attività di verifica, misurazione e valutazione dell’attività svolta dal lavoratore. D’altra parte, gli incentivi di progettazione sono una particolare voce di salario accessorio, avente la finalità di accrescere l’efficienza e l’efficacia degli uffici tecnici preposti a tale ramo dell’amministrazione e così come ogni altra voce di salario accessorio non sarebbe ammissibile, neppure con l’avallo della disciplina pattizia, una regolamentazione atta a consentire l’erogazione di acconti o parti dell’incentivo che prescindano da una puntuale verifica dell’attività prestata in termini quantitativi e qualitativi adeguati a giustificare l’erogazione di un compenso aggiuntivo.
Alla luce dei principi sopra esposti
deve essere risolto il quesito posto dall’amministrazione provinciale in ordine alla possibilità di erogare gli incentivi per i progettisti interni anche prima dal finanziamento dell’opera, a condizione che siano rispettati i vincoli sopra richiamati in merito alla subordinazione di qualsivoglia erogazione all’effettivo svolgimento delle prestazioni ed all’accertamento delle specifiche attività svolte e del contributo fornito dalle figure professionali coinvolte (Corte dei Conti, Sez. controllo Sicilia, parere 24.02.2014 n. 29).

INCENTIVO PROGETTAZIONEL’amministrazione non può, in sede di regolamento, adottare disposizioni in contrasto con quanto previsto dalla legge, sia, in particolare, dall’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 165/2006 che, in generale, dai principi posti in tema di pubblico impiego dal d.lgs. n. 165/2001 e dall’ulteriore normativa di rango primario.
Nello specifico non è legittima l’erogazione dell’intero incentivo, suddiviso dal regolamento interno fra fase di aggiudicazione e fase di esecuzione, nel caso in cui l’opera non sia stata successivamente appaltata ed eseguita (e, di conseguenza, l’attività del personale interno, in relazione a tali ulteriori fasi, non sia stata espletata).
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Nel caso in cui l’attività di progettazione sia stata affidata a professionisti esterni, le rispettive quote del fondo incentivante sono devolute in economia, costituendo un risparmio per l’amministrazione.
L’eventuale attività prestata dal personale interno prima della fase di aggiudicazione (RUP e “collaboratori” specificatamente individuati ex art. 10 e 92, comma 5, d.lgs. 163/2006), ove l’incentivazione sia prevista dal regolamento interno (e quest’ultimo non richieda anche la successiva aggiudicazione) deve essere limitata alla quota spettante per la fase di gara (e non anche alle quote previste, sempre per RUP e collaboratori, per la fase esecutiva non realizzata).
Nessun compenso è dovuto in questo caso (in quanto non riferibile ad attività espletata) per la direzione lavori, il coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione ed il collaudo.

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La Sezione richiama il condivisibile orientamento espresso dalla Sezione regionale di controllo per il Piemonte a tenore del quale, l’atto di pianificazione, comunque denominato, debba necessariamente riferirsi alla progettazione di opere pubbliche e non ad un mero atto di pianificazione territoriale redatto dal personale tecnico abilitato dipendente dell’amministrazione.
Ciò che rileva ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante non è tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico intimamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero a quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale (piano regolatore o variante generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante.
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Il sindaco del comune di Cologno al Serio (BG), mediante nota n. 15472 del 04.10.2012, ha posto un duplice quesito in merito alla corresponsione di incentivi per la progettazione previsti dall’art. 92, commi 5 e 6, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163.
In particolare, relativamente al comma 5 della norma citata, si chiede se sia possibile corrispondere al responsabile del procedimento (RUP) quota parte dell'incentivo, secondo i criteri di ripartizione stabiliti dall'apposito regolamento interno, in relazione ad un'attività di progettazione di opere pubbliche affidata all'esterno. Detto in altri termini, il progetto viene realizzato da soggetto esterno, mentre la funzione di RUP, come prevede la legge, è svolta da tecnico abilitato dipendente dell'Ente.
Inoltre, in riferimento al disposto del comma 6 della richiamata disposizione normativa, il sindaco chiede se l'Ente possa corrispondere il 30 per cento della tariffa professionale relativa alla adozione di un atto di pianificazione (per esempio PGT, Piano di lottizzazione, Piano di recupero, e relative varianti) redatto esclusivamente da tecnico abilitato dipendente dell'Amministrazione. Detto in altri termini, ci si interroga sul significato della locuzione normativa “atto di pianificazione” e cioè se debba essere necessariamente finalizzato alla localizzazione di opere pubbliche o se comprenda anche gli atti di pianificazione sopra enucleati.
...
Sul primo quesito posto dall’amministrazione comunale (attribuzione di compensi al RUP nel caso di progetto affidato all’esterno ai sensi dell’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006), la Sezione ha già consolidato i propri orientamenti consultivi.
Inoltre, la disciplina in discorso è stata già oggetto di attenzione da parte di precedenti pronunce della Corte dei conti (cfr., fra le altre, Sezione Autonomie
deliberazione 13.11.2009 n. 16/2009, Sezione Veneto parere 26.07.2011 n. 337, Sezione Piemonte parere 30.08.2012 n. 290, Sezione Lombardia parere 06.03.2012 n. 57 e parere 30.05.2012 n. 259) alle cui motivazioni e conclusioni può farsi riferimento per l’analisi dei profili generali.
Sulla questione, è opportuno richiamare il dettato normativo (art. 92, comma 5, d.lgs. n. 163/2006, c.d. Codice dei contratti pubblici), oggetto della richiesta di parere che, nella formulazione vigente, così recita: “Una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti; limitatamente alle attività di progettazione, l'incentivo corrisposto al singolo dipendente non può superare l'importo del rispettivo trattamento economico complessivo annuo lordo; le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie”.
La norma va letta nel complessivo contesto delle modalità d’affidamento degli incarichi tecnico professionali, previste dalla legislazione in materia di contratti pubblici. Quest’ultima (si rinvia agli artt. 10, 84, 90, 112, 120 e 130 del d.lgs. 163/2006) è informata da un principio generale, già codificato dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001, in base al quale i predetti incarichi possono essere conferiti a soggetti esterni al plesso amministrativo solo se non si disponga di professionalità adeguate nel proprio organico e tale carenza non sia altrimenti risolvibile con strumenti flessibili di gestione delle risorse umane. Tale presupposto mira a preservare le finanze pubbliche oltre che a valorizzare il personale interno alle amministrazioni.
Pertanto, nelle ipotesi ordinarie in cui gli incarichi tecnici sono espletati da personale interno, ai fini della loro remunerazione, occorre far riferimento alle regole generali previste per il pubblico impiego, il cui sistema retributivo è conformato da due principi cardine, quello di definizione contrattuale delle componenti economiche e quello di onnicomprensività della retribuzione (cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001, nonché Corte dei Conti Puglia, Sezione giurisdizionale,
sentenza 20.07.2010 n. 464, sentenza 22.07.2010 n. 475 e sentenza 02.08.2010 n. 487). Secondo questi ultimi nulla è dovuto, oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che rientra nei suoi doveri d’ufficio, anche se di particolare complessità.
Nel sistema delineato dal d.lgs. 165/2001, applicabile anche al personale degli enti locali in forza dell’art. 1, comma 2, del medesimo decreto, il principio di onnicomprensività della retribuzione si ricava da vari spunti normativi.
Per il personale dirigente, la base giuridica è rinvenibile nell’art. 24, comma 3 («tutte le funzioni ed i compiti attribuiti ai dirigenti in base a quanto previsto dal presente decreto, nonché qualsiasi incarico ad essi conferito in ragione del loro ufficio o comunque conferito dall’amministrazione»). Per il personale non dirigente, il fondamento si rinviene nel combinato disposto degli artt. 2, 40, 45 e 53 e si dipana come corollario del canone dell’articolazione legale e contrattuale della struttura retributiva: poiché la determinazione del corrispettivo per le prestazioni dei dipendenti è rimessa alla contrattazione collettiva (salve le eccezioni previste dalla legge), ne consegue che quanto previsto da quest’ultima retribuisce ogni attività che ricade nei doveri d’ufficio (principio di onnicomprensività).
Per contro, il contratto individuale (che deve conformarsi al CCNL, ex art. 2 e 45 d.lgs. n.165/2001), quello integrativo di ente (che assume rilevanza nei limiti previsti dal CCNL nazionale, cfr. artt. 40 e 40-bis d.lgs. n. 165/2001) o una fonte normativa di grado secondario (ad esempio un regolamento) non possono autonomamente determinare la retribuzione del dipendente.
La legge, invece, oltre a disciplinare struttura e livelli di contrattazione nel pubblico impiego (cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 d.lgs. n. 165/2001) può, in omaggio al generale sistema delle fonti previsto dalla Costituzione, disciplinare in modo diretto l’ammontare del trattamento economico (si rimanda, per esempio, ai precetti posti dall’art. 9 del d.l. n. 78/2010, convertito nella legge n. 122/2010), nonché attribuire ulteriori specifici compensi (come nel caso dell’art. 92, comma 5, del Codice dei contratti pubblici).
Il c.d. “incentivo alla progettazione”, previsto dal Codice dei contratti pubblici, costituisce uno di quei casi nei quali il legislatore, derogando al principio per cui il trattamento economico è fissato dai contratti collettivi, attribuisce un compenso ulteriore e speciale, rinviando ai regolamenti dell’amministrazione aggiudicatrice, previa contrattazione decentrata, i criteri e le modalità di ripartizione.
L’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006 deroga ai principi di onnicomprensività e determinazione contrattuale della retribuzione del dipendente pubblico e, come tale, costituisce un’eccezione che si presta a stretta interpretazione e per la quale sussiste il divieto di analogia posto dall’art. 12 delle diposizioni preliminari al codice civile (in tal senso Sezione Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008).
L’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici, con atto di regolazione 04.11.1999 n. 6, aveva già avuto modo di precisare come,
nel caso della progettazione interna, la prestazione dei dipendenti, in quanto riferita direttamente all’amministrazione di appartenenza, è da considerare svolta "ratione offici" e non "intuitu personae", risolvendosi "in una modalità di svolgimento del rapporto di pubblico impiego" (Cass. Civ. Sez. Un. 02.04.1998, n. 3386), nell'ambito della cui disciplina, normativa e contrattuale, vanno individuati i termini della relativa retribuzione.
Come evincibile dalla lettera del comma,
la legge pone alcuni paletti per l’attribuzione del predetto incentivo, rimettendone la disciplina concreta (“criteri e modalità”) ad un regolamento interno assunto previa contrattazione decentrata.
I punti fermi che il regolamento interno deve rispettare (sull’impossibilità da parte del regolamento di derogare a quanto previsto dalla legge o di attribuire compensi non previsti, si rimanda al
parere 30.05.2012 n. 259 della Sezione) paiono essere i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, per un appalto di fornitura di beni o di servizi). La norma non presuppone, tuttavia, ai fini della legittima erogazione, il necessario espletamento interno di una o più attività (per esempio, la progettazione) purché, come sarà meglio specificato, il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni;
- ammontare complessivo non superiore al due per cento dell’importo a base di gara. Di conseguenza la somma concretamente prevista dal regolamento interno può essere stabilita in misura percentuale inferiore;
- ancoramento del fondo incentivante alla base di gara (non all’importo oggetto del contratto, né a quello risultante dallo stato finale dei lavori). Si deduce che non appare ammissibile la previsione e l’erogazione di alcun compenso nel caso in cui l’iter dell’opera o del lavoro non sia giunto, quantomeno, alla fase della pubblicazione del bando o della spedizione delle lettere d’invito
(cfr., per esempio, l’art. 2, comma 3, del DM Infrastrutture n. 84 del 17/03/2008). Quanto detto non esclude che, in sede di regolamento interno, al fine di ancorare l’erogazione dell’incentivo a più stringenti presupposti, l’amministrazione possa prevedere la corresponsione solo subordinatamente all’aggiudicazione dell’opera;
- puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile del procedimento, progettista, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo percentuali rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e ragionevolezza (cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici,
deliberazione 13.12.2007 n. 315, deliberazione 22.06.2005 n. 70, deliberazione 19.05.2004 n. 97-bis);
- devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni, la predetta devoluzione (si rinvia all’Autorità di vigilanza con la
deliberazione 13.12.2007 n. 315, deliberazione 08.04.2009 n. 35, deliberazione 07.05.2008 n. 18 e deliberazione 02.05.2001 n. 150).
Altri principi applicabili alla fattispecie (rilevanti ai fini del parere di cui si discute) si ricavano dalla normativa generale sul pubblico impiego e, in particolare, dall’art. 7, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001 in base al quale “
le amministrazioni pubbliche non possono erogare trattamenti economici accessori che non corrispondano alle prestazioni effettivamente rese”.
La regola è fatta espressamente propria dal legislatore anche nella materia degli incentivi di cui si discute, posto che l’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006, nella formulazione discendente dalla novella apportata dall’art. 1 del d.l. n. 162/2008, dispone che “
la corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti”.
Nel caso in cui tale accertamento sia invece negativo, la norma, adotta la medesima regola della devoluzione in economia, prevista per il caso di attività eseguita da professionisti esterni (in proposito l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici ha affermato, nella deliberazione 22.06.2005 n. 69, emessa nel previgente similare contesto normativo, che l’incentivo assolve alla funzione di compensare i progettisti dipendenti che abbiano in concreto effettuato la redazione degli elaborati progettuali. Pertanto, la previsione, da parte di un regolamento interno, della corresponsione anche nell’ipotesi di progettazione nella sostanza redatta da professionisti esterni, risulta in contrasto con la ratio della disposizione legislativa, concretando un’ipotesi di duplicazione di spesa).
Alla luce del dettato normativo e dei precedenti sopra richiamati,
appare necessario ribadire, in primo luogo, che l’amministrazione non può, in sede di regolamento, adottare disposizioni in contrasto con quanto previsto dalla legge, sia, in particolare, dall’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 165/2006 che, in generale, dai principi posti in tema di pubblico impiego dal d.lgs. n. 165/2001 e dall’ulteriore normativa di rango primario.
Nello specifico non è legittima l’erogazione dell’intero incentivo, suddiviso dal regolamento interno fra fase di aggiudicazione e fase di esecuzione, nel caso in cui l’opera non sia stata successivamente appaltata ed eseguita (e, di conseguenza, l’attività del personale interno, in relazione a tali ulteriori fasi, non sia stata espletata).

Nel caso in cui l’attività di progettazione sia stata affidata a professionisti esterni, le rispettive quote del fondo incentivante sono devolute in economia, costituendo un risparmio per l’amministrazione. L’eventuale attività prestata dal personale interno prima della fase di aggiudicazione (RUP e “collaboratori” specificatamente individuati ex art. 10 e 92, comma 5, d.lgs. 163/2006), ove l’incentivazione sia prevista dal regolamento interno (e quest’ultimo non richieda anche la successiva aggiudicazione) deve essere limitata alla quota spettante per la fase di gara (e non anche alle quote previste, sempre per RUP e collaboratori, per la fase esecutiva non realizzata). Nessun compenso è dovuto in questo caso (in quanto non riferibile ad attività espletata) per la direzione lavori, il coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione ed il collaudo.
Quanto esposto non esclude che la valutazione dell’operato dell’amministrazione, tanto ai fini dell’affidamento ed esecuzione della singola opera o lavoro, quanto ai fini del complessivo programma di opere pubbliche, sia attuata nel corso di un più ampio arco temporale. Appare evidente, infatti, che la redazione di un progetto o la pubblicazione di un bando di gara senza la successiva aggiudicazione ed esecuzione dell’opera costituiscono un sintomo di carente programmazione amministrativa (mancata effettuazione di espropri, assenza di titoli abilitativi o autorizzativi urbanistici, etc.), finanziaria (sottostima del fabbisogno, distorsione verso iniziative non preventivate, etc.) o progettuale (emersione di lacune in sede di verifica, incoerenza dei costi, etc.) da parte dell’Ente.
Nel caso tale carente programmazione sia dovuta a colpa dell’amministrazione (o meglio, di alcuni suoi organi), appare evidente come non solo il costo per i progetti non utilizzati ma anche l’incentivo attribuito ai dipendenti interni possa costituire, in presenza degli altri presupposti previsti dalla legge, voce di danno risarcibile.
Venendo al secondo quesito, inerente il corretto significato da attribuire alla locuzione “atto di pianificazione” inserita nel testo dell’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006,
la Sezione richiama il condivisibile orientamento espresso dalla Sezione regionale di controllo per il Piemonte (cfr.
parere 30.08.2012 n. 290), a tenore del quale, l’atto di pianificazione, comunque denominato, debba necessariamente riferirsi alla progettazione di opere pubbliche e non ad un mero atto di pianificazione territoriale redatto dal personale tecnico abilitato dipendente dell’amministrazione.
Stante la sedes materiae della norma sugli incentivi alla progettazione (Codice degli appalti), nonché la ratio della disposizione (contenere i costi connessi alla progettazione delle opere pubbliche valorizzando le professionalità interne alla pubblica amministrazione), si condivide l’argomentazione secondo cui “la norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli Uffici tecnici dell’Ente” (in termini, Sezione contr. Piemonte deliberazione cit.; cfr. altresì Sezione contr. Lombardia,
parere 30.05.2012 n. 259; parere 06.03.2012 n. 57; Sezione contr. Puglia, parere 16.01.2012 n. 1; Sezione contr. Toscana, parere 18.10.2011 n. 213).
Si osserva, inoltre, che
l’interesse pubblico alla realizzazione dell’opera, quale presupposto per l’erogazione di compensi incentivanti al personale in servizio per la redazione di progetti, è testualmente previsto nell’art. 92, comma 7, del d.lgs. n. 163/2006, quale criterio da prendere in considerazione per lo stanziamento dei fondi necessari al finanziamento delle spese progettuali in sede di stesura dei bilanci dello Stato, delle amministrazioni statali, delle regioni e delle autonome locali.
In conclusione,
ciò che rileva ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante non è tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico intimamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero a quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale (piano regolatore o variante generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 24.10.2012 n. 453).

NEWS

TRIBUTILegge stabilità. Rifiuti speciali, niente Tari.
Non sono soggette al pagamento della Tari le superfici in cui vengono prodotti rifiuti speciali. Nella determinazione della superficie tassabile, però, non si calcola quella parte dove si formano questi rifiuti in modo continuativo e prevalente, al cui smaltimento sono tenuti a provvedere a proprie spese i produttori.

È quanto prevede l'articolo 1, comma 649, della legge di Stabilità (147/2013). La formulazione di questa norma è tutt'altro che un esempio di chiarezza, in quanto fa già discutere e può generare contenzioso nella parte in cui richiede la produzione di rifiuti speciali «in via continuativa e prevalente» al fine di ottenere l'esonero dal prelievo.
Il dubbio che si pone è se qualora sussista il requisito della continuità e prevalenza non possono essere tassate integralmente le superfici in cui si producono anche rifiuti speciali oppure se il beneficio rimane sempre circoscritto alla parte della superficie interessata e l'esonero è solo parziale. Nonostante l'infelice formulazione della disposizione di legge, si ritiene che l'agevolazione fiscale sia sempre limitata alla parte dell'immobile interessata dalla formazione di questi rifiuti e non si estende all'intera superficie, vale a dire a quella in cui si producono rifiuti ordinari. La novità rispetto al passato, infatti, è che una «parte di essa» può essere esclusa dalla tassazione solo a condizione che la produzione di rifiuti speciali risulti continuativa e prevalente.
Nel caso in cui sussista questa condizione allo smaltimento dei rifiuti sono tenuti a provvedere a proprie spese i produttori. Ma l'esclusione dell'obbligo di conferirli al servizio pubblico si ha solo nei casi in cui sia fornita dimostrazione del loro avvio al recupero, con attestazione di ricevuta da parte dell'impresa incaricata del trattamento. Inoltre, spetta al contribuente provare quale parte dell'immobile non sia soggetta alla tassa. Peraltro il comma 682, lettera a), numero 5), della legge di Stabilità attribuisce al comune la facoltà di concedere con regolamento una riduzione tariffaria in caso di autosmaltimento.
In particolare, l'amministrazione comunale può individuare categorie di attività produttive di rifiuti speciali alle quali applicare riduzioni rispetto all'intera superficie su cui l'attività viene svolta (articolo ItaliaOggi del 28.02.2014).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALIAnticorruzione, le Faq Anac non derogano la legge.
Il dlgs n. 33/2013 contiene circa 270 obblighi informativi che devono trovare adempimento presso migliaia di amministrazioni pubbliche, enti pubblici e privati vigilati, nonché presso le società controllate, non di rado di ridotte dimensioni. L'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) ha da tempo evidenziato il rischio che questo assetto normativo possa determinare un eccesso di rigidità e uniformità nel sistema della trasparenza.
In tale contesto un numero crescente di soggetti pubblici si è rivolto all'Anac per ricevere indicazioni sulle modalità da seguire per assolvere agli obblighi di trasparenza.
Questa attività consultiva rappresenta il necessario corollario di due compiti demandati espressamente dalla legge all'Autorità: a) emanare linee guida volte ad assicurare un adeguato livello di trasparenza di cui le amministrazioni pubbliche devono tenere conto nell'elaborazione dei programmi triennali per la trasparenza e l'integrità (dlgs n. 33, art. 10.1.a); b) svolgere un'attività di vigilanza di cui devono essere preventivamente esplicitati i criteri (dlgs n. 33, art. 45).
Per gestire con maggiore efficacia questo corposo flusso di quesiti l'Autorità ha pubblicato più di 150 Faq che dovrebbero offrire alle amministrazioni una risposta immediata alle richieste di chiarimento più frequenti. Questa scelta, che è stata accolta con notevole favore da numerosi responsabili della trasparenza e dagli Organismi indipendenti della valutazione, ha incontrato invece la disapprovazione di Luigi Oliveri nel suo articolo su ItaliaOggi del 21.02.2014. Vorremmo però rassicurare i lettori sul fatto che le Faq dell'Anac non rappresentano in alcun modo una deroga alla legge o ad eventuali pronunce giurisprudenziali.
Sono un esempio di soft law, largamente utilizzato da altre autorità indipendenti, che mira ad indirizzare l'esercizio della discrezionalità da parte delle amministrazioni. Le perplessità di Oliveri si soffermano, peraltro, su una specifica Faq, quella in materia di accesso civico. Nelle amministrazioni in cui è presente un unico dirigente si è infatti posto il problema di identificare il titolare del potere sostitutivo previsto dal dlgs n. 33, art. 5.4 in caso di mancata o ritardata risposta del responsabile della trasparenza.
È, infatti, naturale che, come ammette anche Oliveri, questo potere sia esercitato da un soggetto sovraordinato. Ma per assicurare che ciò avvenga occorre che le amministrazioni, nell'esercizio dei margini di autonomia organizzativa loro riconosciuto dalla norma, affidino il compito di ricevere l'istanza di accesso civico ad un soggetto che riveste una posizione gerarchica inferiore a quella apicale. Altrimenti avremmo la soluzione paradossale che un sottoposto dovrebbe sostituirsi al suo superiore oppure che il responsabile della trasparenza di livello apicale dovrebbe sostituire se stesso (articolo ItaliaOggi del 28.02.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIANuovi reati a difesa dell'ambiente. Sanzionato anche chi impedisce i controlli - Più severità contro le ecomafie. Giustizia. La Camera ha approvato il disegno di legge, che ora passa al Senato: entra nel Codice il delitto di disastro ambientale.
Quattro nuovi reati, tra cui il disastro ambientale e il traffico di materiale radioattivo, e confisca obbligatoria del profitto del reato. La Camera aggiorna il Codice penale introducendo i delitti contro l'ambiente. Un pacchetto di norme che prevede anche aggravanti per mafia e sconti di pena per chi si ravvede, condanna al ripristino e raddoppio dei tempi di prescrizione.

Il disegno di legge è stato approvato ieri e passa ora all'esame del Senato.
Plaude il neo ministro della Giustizia, Andrea Orlando: «L'approvazione del disegno di legge sui reati ambientali è un passaggio importantissimo: se ne parla da 20 anni, ora esiste finalmente un testo che rappresenta un riordino complessivo e organico della materia e delle sanzioni, predisposte secondo un sistema proporzionale e congruo. Questo testo è il frutto del concorso di tutte le parti politiche ed è stato approvato con una maggioranza più ampia di quella che sostiene il governo. Ho due ragioni per esserne soddisfatto: come neoministro della Giustizia e come ex ministro dell'Ambiente».
Nel dettaglio, il nuovo delitto di disastro ambientale punisce con il carcere da 5 a 15 anni chi altera gravemente o irreversibilmente l'ecosistema o compromette la pubblica incolumità. Per l'inquinamento ambientale è prevista la reclusione da 2 a 6 anni (e la multa da 10mila e 100mila euro). Se non c'è dolo, ma colpa, le pene sono diminuite da un terzo alla metà. Scattano, invece, aumenti di pene per i due delitti se commessi in aree vincolate o a danno di specie protette.
Il traffico e abbandono di materiale di alta radioattività è colpito con la pena del carcere da 2 a 6 anni (e multa da 10mila a 50mila euro) a danno di chi commercia e trasporta materiale radioattivo o di chi se ne libera abusivamente. Chi ostacola l'accesso o intralcia i controlli ambientali rischia la reclusione da 6 mesi a 3 anni. In presenza di associazioni mafiose finalizzate a commettere i delitti contro l'ambiente o a controllare concessioni e appalti in materia ambientale scattano le aggravanti.
Pene ridotte poi da metà a due terzi nel caso di ravvedimento operoso: se l'imputato evita conseguenze ulteriori, aiuta i magistrati a individuare colpevoli o provvede alla bonifica e al ripristino delle condizioni ambientali. Per i delitti ambientali i termini di prescrizione raddoppiano. Se poi si interrompe il processo per dar corso al ravvedimento operoso, la prescrizione è sospesa. In caso di condanna o patteggiamento della pena è sempre ordinata la confisca dei beni che costituiscono il prodotto o il profitto del reato e delle cose servite a commetterlo o comunque di beni di valore equivalente nella disponibilità (anche indiretta o per interposta persona) del condannato.
Il giudice, in caso di condanna o patteggiamento della pena, ordina il recupero e, dove tecnicamente possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a carico del condannato. In assenza di danno o pericolo, nelle ipotesi contravvenzionali previste dal Codice dell'ambiente, si ricorre alla «giustizia riparativa» puntando alla regolarizzazione attraverso l'adempimento a specifiche prescrizioni. In caso di adempimento l'illecito si estingue.
Misure anche a carico delle imprese, allungando la lista dei reati presupposto previsti dal decreto 231 del 2001. Scatteranno pertanto sanzioni pecuniarie per l'inquinamento ambientale (da 250 a 600 quote), per il disastro ambientale (da 400 a 800 quote) e per l'associazione a delinquere (comune e mafiosa) aggravata (da 300 a 1.000 quote). In caso di delitto di inquinamento ambientale e di disastro ambientale, via libera anche all'applicazione delle sanzioni interdittive (interdizione dall'esercizio dell'attività; sospensione o revoca di autorizzazioni, licenze o concessioni; divieto di contrattare con la pubblica anmministrazione; esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi ed eventuale revoca di quelli già concessi; divieto di pubblicizzare beni o servizi)
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.02.2014).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIAppalti, più vincoli per l'in house. Direttive europee. Sono sempre soggette alle gare le controllate con capitali anche privati.
L'affidamento in house trova il suo quadro normativo nella nuova direttiva comunitaria sugli appalti pubblici, che definisce anche alcune importanti novità nel modello di gestione dei servizi.

L'articolo 12 della direttiva appalti approvata dal Parlamento europeo il 15 gennaio (e di prossima pubblicazione nella Gazzetta ufficiale europea) per la prima volta traduce in un dato normativo gli elementi di principio dettati a suo tempo dalla sentenza Teckal e sviluppati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, fornendo elementi specificativi dei requisiti di controllo analogo e dell'attività prevalente a favore dell'ente affidante.
La disposizione stabilisce infatti che non rientra nell'ambito di applicazione del nuovo corpus di regole per gli appalti un affidamento di servizio tra un'amministrazione aggiudicatrice e una persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato quando la prima eserciti sulla seconda proprio un controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri servizi.
Rispetto al secondo elemento costitutivo dell'in house, la direttiva introduce la prima novità, stabilendo che l'attività è prevalente quando oltre l'80% delle attività della persona giuridica controllata sono effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall'amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche controllate dall'amministrazione aggiudicatrice di cui trattasi.
La seconda innovazione rispetto agli orientamenti giurisprudenziali consolidati è data dalla previsione di un terzo elemento necessario per la definizione del rapporto interorganico, quale l'assenza nella persona giuridica controllata di partecipazioni dirette di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportino controllo o potere di veto, prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei Trattati, che non esercitano un'influenza determinante sulla persona giuridica controllata.
La norma permette l'ingresso dei privati negli organismi affidatari in house, a condizione che questi non possano incidere sulle decisioni strategiche.
Proprio l'affermazione della sussistenza del controllo analogo sulla persona giuridica affidataria da parte dell'amministrazione quando essa esercita un'influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della persona giuridica controllata, costituisce il fondamento anche per l'ulteriore grande novità: il controllo tramite holding. La norma stabilisce infatti che l'amministrazione può esercitare il controllo sull'organismo affidatario per mezzo di una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo dall'amministrazione aggiudicatrice.
La disciplina codifica anche la situazione in cui l'organismo affidatario sia partecipato da più enti, anche con quote minoritarie, determinando la sussistenza del controllo analogo quando questo sia esercitato in forma congiunta.
La situazione si concretizza quando gli organi decisionali della persona giuridica controllata sono composti da rappresentanti di tutte le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti. La direttiva definisce per la prima volta anche i parametri per escludere dal suo ambito applicativo le forme di cooperazione tra amministrazioni pubbliche, quando il contratto definisce un rapporto collaborativo finalizzata a garantire che i servizi pubblici che esse sono tenute a svolgere siano prestati nell'ottica di conseguire gli obiettivi che esse hanno in comune
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.02.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Bonus antisismico con «titoli» pesanti. Permesso di costruire o super-Dia per ottenere la detrazione del 65% fino a 96mila euro. Ristrutturazioni. L'incentivo maggiorato per la messa in sicurezza statica riguarda le procedure autorizzatorie attivate dopo il 04.08.2013.
La possibilità di detrarre dall'imposta lorda il 36% delle spese per misure antisismiche era già contemplata dall'articolo 16-bis del Tuir, inserito nel Testo unico dal Dl 201/2011.
Si tratta, in particolare, degli interventi previsti dalla norma al comma 1, lettera i), relativi all'esecuzione di opere per la messa in sicurezza statica, sulle parti strutturali degli edifici, per la redazione della documentazione obbligatoria necessaria per comprovare la sicurezza statica del patrimonio edilizio, nonché per la realizzazione degli interventi necessari al rilascio di questa documentazione.
Per questa tipologia di interventi l'articolo 16 del Dl 63/2013 –come modificato dalla legge di stabilità 147/2013– ha innalzato l'entità della detrazione al 65% fino a una spesa massima di 96mila euro per unità immobiliare, per le spese sostenute entro il 31 dicembre di quest'anno (per gli anni a venire, si veda l'articolo in basso).
Dall'incrocio delle due previsioni il riconoscimento della detrazione potenziata al 65% risulta assoggettato ad alcune limitazioni.
Innanzitutto questo si riferisce ai soli interventi le cui procedure autorizzatorie siano state attivate dopo il 04.08.2013, data di entrata in vigore della legge 90/2013 (di conversione del Dl 63).
In secondo luogo la disposizione del 2013 non trova applicazione per l'intero territorio nazionale, poiché riguarda solo le opere eseguite sugli edifici ricadenti nelle zone sismiche a pericolosità alta o media (zone 1 e 2) di cui all'ordinanza del presidente del Consiglio dei ministri n. 3274 del 20.03.2003.
Inoltre, non ogni tipologia di lavori potrà fruire dei benefici fiscali. L'articolo 16-bis, infatti, prende in considerazione soltanto l'adozione di misure antisismiche e l'esecuzione di opere per la messa in sicurezza statica da realizzarsi «sulle parti strutturali degli edifici o complessi di edifici collegati strutturalmente e comprendere interi edifici».
Infine il beneficio è riconosciuto solo per gli interventi riguardanti edifici destinati ad attività produttive o ad abitazione principale del contribuente.
I titoli abilitativi ammessi
Dovendo riguardare le «parti strutturali», la tipologia delle opere va a inquadrarsi tra gli «interventi di ristrutturazione edilizia», (articolo 3, comma 1, lettera d), Dpr 380/2001), il cui titolo abilitativo sarà il permesso di costruire o, se prevista dalla normativa regionale, una super-Dia.
Andrà quindi tendenzialmente escluso il riconoscimento del beneficio per le opere riconducibili agli «interventi di restauro e di risanamento conservativo» (articolo 3, comma 1, lettera c), Dpr 380/2001). D'altro canto è la stessa rubrica dell'articolo 16 a fare esplicito riferimento alla «ristrutturazione edilizia», contribuendo a chiarire l'ambito di operatività della norma. Ulteriore aspetto problematico è quello collegato al concreto avvio delle procedure autorizzatorie e ai limiti temporali entro cui le spese devono essere sostenute per fruire della maggiore detrazione.
Interventi su interi edifici
La norma non consente di intervenire sulle parti strutturali della singola unità immobiliare, che viene presa in considerazione unicamente per determinare l'ammontare massimo della detrazione, ma solo sull'intero edificio o su complessi di edifici collegati. Pertanto, salvo i casi in cui l'immobile appartenga a un unico soggetto, sarà indispensabile il coinvolgimento dei vari comproprietari o dei condomini che dovranno deliberare, con i quorum costitutivi e deliberativi ex articolo 1136 Codice civile, sull'esecuzione o meno dell'intervento, sull'eventuale acquisizione di progetti di massima e preventivi da varie imprese, sull'individuazione del professionista cui affidare la progettazione e la direzione dei lavori, sulla costituzione obbligatoria del fondo speciali previsto dall'articolo 1135 Codice civile.
Non va poi trascurato che nell'ipotesi in cui gli edifici ricadono nei centri storici (zone A), gli interventi potranno essere soltanto realizzati «sulla base di progetti unitari e non su singole unità immobiliari», il che lascia intravvedere la necessità della preventiva predisposizione e approvazione di un piano attuativo, con ulteriore dilatazione dei tempi necessari al concreto avvio delle opere
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.02.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTISubappalti, pagamenti diretti. Se l'appaltatore è in crisi, può provvedere l'appaltante. DESTINAZIONE ITALIA/Le novità relative al settore infrastrutture e opere pubbliche
Possibile il pagamento diretto dei subappaltatori da parte della stazione appaltante se l'appaltatore è in crisi finanziaria e ritarda i pagamenti oppure se si è in pendenza di una procedura di concordato preventivo con continuità aziendale; previsti indennizzi per le imprese che subiscono danni nei cantieri delle opere infrastrutturali (con due milioni per il 2014 e 5 per il 2015); al via l'anagrafe delle risorse Cipe revocate.

Sono queste alcune delle previsioni contenute nell'articolo 13 del decreto-legge 145/2013 «Destinazione Italia», convertito nella legge n. 9/2014 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 43 del 21/02/2014) relative al settore delle infrastrutture e delle opere pubbliche.
Una delle norme di maggiore rilievo è quella che prevede indennizzi in caso di danneggiamenti nei cantieri in cui si realizzano opere infrastrutturali ricomprese nel programma delle infrastrutture strategiche (Pis) della ex legge Obiettivo.
Si tratta di una disposizione che ha subito modifiche nei diversi passaggi parlamentari; in particolare, alla Camera è stato previsto che l'indennizzo si possa disporre non in automatico, ma attraverso un decreto ad hoc del ministero delle infrastrutture. Si introduce quindi la possibilità di assegnare un indennizzo alle imprese che subiscono danni ai materiali, alle attrezzature e ai beni strumentali «come conseguenza di delitti non colposi commessi al fine di ostacolare o rallentare l'ordinaria esecuzione delle attività di cantiere».
Dal momento che questi fatti finiscono per pregiudicare il corretto adempimento delle obbligazioni assunte per la realizzazione dell'opera, il legislatore dispone la possibilità di indennizzo, ma ne subordina l'effettiva operatività all'emanazione di un apposito decreto del ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il ministro dell'economia e delle finanze, con il quale si disporrà l'indennizzo. Come vincolo si precisa che l'indennizzo potrà essere concesso per una quota della parte eccedente le somme liquidabili dall'assicurazione stipulata dall'impresa o, se l'impresa non fosse assicurata, per una quota del danno subito. Per la concreta applicazione della norma si stanziano due milioni per il 2014 e cinque per il 2015.
Un'altra disposizione di particolare rilievo è prevista, sempre all'articolo 13, per la disciplina del subappalto (contenuta nell'articolo 118 del Codice dei contratti). In particolare si consente alla stazione appaltante, in particolari condizioni, anche in deroga alle previsioni del bando di gara, di provvedere al pagamento diretto delle prestazioni effettuate dal subappaltatore, dal cottimista nonché dalle società, anche consortili, eventualmente costituite per l'esecuzione unitaria dei lavori. Si tratta in particolare dei casi in cui l'impresa titolare del contratto principale versi in situazione di crisi di liquidità finanziaria, comprovata da reiterati ritardi nei pagamenti dei subappaltatori, o dei cottimisti e accertata dalla stazione appaltante.
L'articolo 13 stabilisce inoltre, nella pendenza di una procedura di concordato preventivo con continuità aziendale, la possibilità per la stazione appaltante, anche per i contratti di appalto in corso, di provvedere ai pagamenti dovuti per le prestazioni eseguite dagli eventuali diversi soggetti che costituiscano l'affidatario,quali le mandanti, e dalle società, anche consortili, eventualmente costituite per l'esecuzione unitaria dei lavori dai subappaltatori e dai cottimisti, secondo le determinazioni del Tribunale competente per l'ammissione alla procedura di concordato.
Viene poi estesa l'applicazione delle norme sullo svincolo automatico delle garanzie di buona esecuzione relative alle opere in esercizi a tutti i contratti aventi ad oggetto opere pubbliche, anche se stipulati anteriormente all'entrata in vigore del Codice dei contratti pubblici. In particolare la disposizione, che tende ad assicurare uniformità di disciplina per tutte le opere pubbliche, comprende nell'ambito di applicazione della disciplina sullo svincolo delle cauzioni, anche i cosiddetti «settori esclusi», o sarebbe meglio dire «speciali», cioè quelli dell'acqua, dell'energia e dei trasporti che non applicano integralmente le disposizioni del codice dei contratti pubblici e del regolamento attuativo.
Infine si introduce l'anagrafe pubblica delle revoche dei fondi Cipe, che dovranno essere pubblicate su un sito internet del Cipe stesso con riferimento ai singoli provvedimenti normativi con i quali, a partire dal 01.01.2010, sono state revocate le assegnazioni (articolo ItaliaOggi Sette del 24.02.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

TRIBUTIRendita catastale non retroattiva. Sentenza della Commissione tributaria Lazio.
La rendita catastale attribuita dall'ufficio può produrre effetti nei confronti del contribuente solo dopo la comunicazione al destinatario e pertanto non retroattivamente.

Quanto precede è contenuto nella sentenza n. 664/2014 della Ctr di Roma da cui emerge che l'atto con cui viene comunicata l'applicazione retroattiva della rendita catastale è nullo, nel rispetto dei principi contenuti nello Statuto del contribuente.
L'art. 74, comma 1, della legge n. 342 del 2000 ha stabilito che la rendita attribuita decorre dalla data di notificazione all'interessato e dalla medesima data decorre anche il termine per l'impugnazione. Pertanto n caso di attribuzione e conseguente notifica di nuova rendita nasce la questione della sua decorrenza che ha trovato soluzione con la predetta norma secondo cui non è più sufficiente la comunicazione ma la sua notificazione: dalla data di effettuazione della notifica decorre il termine di 60 giorni per la proposizione del ricorso contro l'attribuzione della rendita.
Nella fattispecie in esame il contribuente ha proposto ricorso avverso l'accertamento in rettifica dell'Ici emesso dal comune e la Ctp lo ha respinto. Lo stesso contribuente ha proposto appello eccependo l'omessa notifica da parte dell'ente locale del provvedimento di variazione della rendita catastale e la non retroattività della rendita attribuita.
I giudici della Ctr hanno accolto le doglianze del contribuente affermando che la rendita catastale attribuita dall'ufficio «può produrre effetti nei confronti del contribuente solo successivamente alla sua comunicazione al destinatario e, quindi, non retroattivamente».
Quanto sopra trova rispondenza nei principi sanciti dallo Statuto del contribuente e nel principio generale secondo cui deve riconoscersi al contribuente il diritto a conoscere un atto che determina effetti nella propria sfera giuridica.
Pertanto l'atto di variazione della rendita catastale emesso dal comune è stato ritenuto illegittimo in quanto prevedeva l'applicazione retroattiva della rendita catastale modificata dall'ufficio nel 1999 e notificata al contribuente sette anni dopo, con richiesta di pagamento della differenza di imposta accertata. Tale orientamento è suffragato dalla Suprema corte secondo cui la modificazione o attribuzione definitiva di rendita catastale è efficace solo a partire dalla notificazione del relativo atto, con conseguente nullità degli accertamenti e liquidazione relativi a periodi di imposta anteriori alla notifica dell'atto di modificazione della rendita (Cass. n. 3233/2005) (articolo ItaliaOggi del 22.02.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Il ricambio aria finisce nell'Ape. Nell'attestato anche il raffrescamento con pannelli solari. Le novità del decreto Destinazione Italia convertito in legge su vendite immobiliari e affitti.
Nella redazione dell'attestato di prestazione energetica bisognerà tener conto anche del raffrescamento derivante dalle schermature solari mobili. Ai fini del rilascio dell'Ape, si dovrà tenere conto del raffrescamento derivante dalle prestazioni energetiche delle schermature solari mobili, a condizione che la prestazione energetica delle predette schermature sia di classe 2, come definita nella norma europea EN 14501:2006, o superiore. Nei casi di omessa dichiarazione o allegazione dell'Ape ai contratti di compravendita o di locazione immobiliare in luogo della nullità degli atti si applica la sanzione pecuniaria. Restano esclusi dall'obbligo di allegare l'Ape i nuovi contratti di locazione di singole unità immobiliari.

Queste alcune delle novità contenuto nell'articolo 1, 7° comma e seguenti, del destinazione Italia diventato legge. Nei contratti di compravendita immobiliare, negli atti di trasferimento di immobili a titolo oneroso e nei nuovi contratti di locazione di edifici o di singole unità immobiliari soggetti a registrazione è inserita apposita clausola con la quale l'acquirente o il conduttore dichiarano di aver ricevuto le informazioni e la documentazione, comprensiva dell'attestato, in ordine alla attestazione della prestazione energetica degli edifici.
La copia dell'Ape deve essere altresì allegata al contratto, tranne che nei casi di locazione di singole unità immobiliari. In caso di omessa dichiarazione o allegazione, se dovuta, le parti sono soggette al pagamento, in solido e in parti uguali, della sanzione amministrativa pecuniaria da 3.000 a 18.000 euro. La sanzione è da 1.000 a 4.000 euro per i contratti di locazione di singole unità immobiliari e, se la durata della locazione non eccede i tre anni, essa è ridotta alla metà.
In sede di conversione è stato aggiunto che il pagamento della sanzione amministrativa non esenta comunque dall'obbligo di presentare la dichiarazione o la copia dell'attestato di prestazione energetica entro quarantacinque giorni. Un nuovo comma all'articolo 1 (comma 8-quater) stabilisce che gli annunci non devono riportare gli indici di prestazione energetica, né la classe energetica se riguardano la locazione di edifici residenziali utilizzati meno di quattro mesi l'anno.
Per essere abilitati alla redazione dell'Ape i certificatori devono dimostrare di essere in possesso di un attestato di frequenza, con superamento dell'esame finale dello specifico corso di formazione per la certificazione energetica degli edifici. La nuova durata del corso deve essere 80 ore e non più di 64 ore. Per quanto concerne i requisiti per diventare certificatori energetici, viene ampliata la platea dei soggetti che possono redigere l'Ape senza frequentare lo specifico corso di formazione di 80 ore.
L'obbligo del corso è stato cancellato per i laureati in: ingegneria aerospaziale e astronautica, biomedica, dell'automazione, delle telecomunicazioni, elettronica, informatica e navale, pianificazione territoriale urbanistica e ambientale, scienze e tecnologie della chimica industriale. Mentre, tra i diplomi che permettono di poter redigere la certificazione energetica senza partecipare ai corsi di formazione, sono stati inseriti anche quelli in aeronautica, energia nucleare, metallurgia, navalmeccanica e metalmeccanica.
Qualora il tecnico abilitato sia dipendente e operi per conto di enti pubblici ovvero di organismi di diritto pubblico operanti nel settore dell'energia e dell'edilizia, il requisito di indipendenza si intende superato dalle finalità istituzionali di perseguimento di obiettivi di interesse pubblico proprie di tali enti e organismi. Le disposizioni dpr 16.04.2013, n. 75 si applicano anche ai fini della redazione dell'attestazione di prestazione energetica di cui alla direttiva 2010/31/UE del parlamento europeo e del consiglio, del 19.05.2010 (articolo ItaliaOggi del 22.02.2014).

SICUREZZA LAVOROTesto unico sulla sicurezza anche per concerti e fiere. Manifestazioni. Firmato il decreto che attua l'obbligo introdotto l'anno scorso.
Completato il quadro normativo per l'applicazione del testo unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro per l'attività di allestimento di palchi per spettacoli e nelle manifestazioni fieristiche.

L'articolo 32, comma, 1, lettera g-bis, del Dl 69/2013 aveva esteso le disposizioni del titolo IV del testo unico agli spettacoli musicali, cinematografici e teatrali nonché alle manifestazioni fieristiche. Però l'estensione non poteva essere applicata in attesa di un decreto ministeriale che avrebbe dovuto individuare le particolari esigenze connesse allo svolgimento di tali attività.
Il decreto firmato ieri dal ministro del Lavoro, di concerto con quello della Salute, colma il vuoto normativo. Il testo, che entrerà in vigore con la sua pubblicazione sul sito internet del ministero del Lavoro e di cui sarà fornita notizia sulla Gazzetta ufficiale, è diviso in due capi: nel primo ci sono le disposizioni riguardanti gli spettacoli musicali, cinematografici e teatrali, mentre nel secondo quelle per le manifestazioni fieristiche.
Le disposizioni del capo I, in considerazione della compresenza di più imprese esecutrici, di un elevato numero di lavoratori, subordinati e non, anche di diverse nazionalità, si applicano alle attività di montaggio e smontaggio di opere temporanee, compreso il loro allestimento e disallestimento con impianti audio, luci e scenotecnici, realizzate per spettacoli musicali, cinematografici teatrali e di intrattenimenti, con esclusione, tra l'altro, del montaggio/smontaggio di pedane di altezza fino a 2 metri rispetto al piano stabile, non connesse ad altre strutture o supportanti altre strutture. Per tali attività, come per quelle fieristiche, ai fini della sicurezza non trovano applicazione le disposizioni relative al documento unico di regolarità contributiva (Durc).
Per quanto concerne le manifestazioni fieristiche, il decreto fa rientrare nel campo di applicazione del testo unico le attività di approntamento e smantellamento di strutture allestitive o tensostrutture per manifestazioni fieristiche con esclusione di quelle di altezza inferiore a 6 metri rispetto al piano stabile e di quelle biplanari con superficie fino a 50 metri quadrati.
Nelle attività oggetto del decreto in esame, la copia del piano di sicurezza e di coordinamento (Psc) e del piano operativo di sicurezza (Pos) devono essere messi a disposizione dei rappresentanti della sicurezza prima dell'inizio dei lavori. Gli allegati al decreto riguardano le informazioni minime sul sito di installazione dell'opera temporanea, il modello di dichiarazione di idoneità tecnico professionale delle imprese straniere, i contenuti minimi del Psc e del Pos, le informazioni minime sul quartiere fieristico, i contenuti minimi del Duvri di cui all'articolo 26 del testo unico
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.02.2014).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALIAnticorruzione, le Faq dell'Authority non risolvono ma pongono problemi.
Tante Faq, molta confusione. L'Autorità nazionale anticorruzione (Anac), subentrata alla Civit nel presidio delle disposizioni contro la corruzione, ha pubblicato nei giorni scorsi decine di risposte a domande frequenti, poste a orientare la corretta applicazione del dlgs 33/2013.
L'iniziativa suscita alcune perplessità tanto sul metodo quanto, soprattutto, nel merito di alcune indicazioni contenute.
Quanto al metodo, il rischio è che le risposte alle domande frequenti assurgano al ruolo di interpretazione «ufficiale» o «autentica» delle norme, proprio perché provenienti da autorità preposte al ramo. Ma l'interpretazione autentica spetta solo al legislatore, mentre l'interpretazione delle norme in modo vincolante è funzione esclusiva della giurisdizione. Nel merito le risposte dell'Anac non convincono.
Ad esempio la Faq n. 2.5 risponde al quesito se il responsabile della trasparenza competente per l'accesso civico può essere anche titolare del potere sostitutivo a intervenire sull'istanza del cittadino, se ad essa non sia data risposta nei termini previsti dall'articolo 5, comma 4, del dlgs 33/2013.
L'Anac sostiene che responsabile della trasparenza e titolare del potere sostitutivo non possano coincidere, «in quanto il soggetto titolare del potere sostitutivo non dovrebbe rivestire una qualifica inferiore o equivalente rispetto al soggetto sostituito». Come si nota, la Faq intanto risulta perplessa, dal momento che utilizza il condizionale. Per altro verso, nel prosieguo indica una soluzione non contemplata dal dlgs 33/2013, tracimando da funzione di interpretazione in vera e propria attività di normazione.
Infatti, si afferma che «ai fini della migliore tutela dell'esercizio dell'accesso civico soprattutto nei casi in cui vi sia un unico dirigente a cui attribuire le funzioni di responsabile della trasparenza e di prevenzione della corruzione, le funzioni relative all'accesso civico di cui all'art. 5, comma 2, del dlgs n. 33/2013 possono essere delegate dal responsabile della trasparenza ad altro dipendente, in modo che il potere sostitutivo possa rimanere in capo al responsabile stesso. Questa soluzione è rimessa, in ogni caso, all'autonomia organizzativa degli enti».
È una soluzione non condivisibile. Con la delega, infatti, si modifica l'assetto delle competenze di organi o uffici. Tale assetto, però, è oggetto di riserva di legge ad opera dell'articolo 97, commi 1 e 2, della Costituzione. Dunque, solo una legge può consentire che l'ordinamento da essa fissato sia modificato con un atto amministrativo di organizzazione, quale la delega.
La soluzione consigliata dalla Faq, dunque, si rivela contraria all'assetto normativo. In particolare negli enti locali, nei quali il responsabile della trasparenza coincide ex lege col responsabile anticorruzione, il quale ex lege è il segretario comunale. Solo il sindaco o il presidente della provincia può modificare tale stato delle cose, con un provvedimento espresso e motivato che assegni dette competenze ad un soggetto diverso. Pertanto, se il segretario comunale delegasse anche solo parte delle proprie competenze con una propria delega, violerebbe un assetto di funzioni disegnato dalla legge e del quale può disporre solo l'organo monocratico di governo.
Nessuna norma, comunque, impone che il potere sostitutivo sia adottato da un soggetto avente qualifica superiore al titolare inerte. In generale, è vero, il potere sostitutivo spetta nello Stato, ai dirigenti generali nei confronti dei dirigenti di prima fascia, ed a questi nei confronti dei funzionari. Ma se responsabile della trasparenza è un dirigente al vertice, sarà impossibile ovviamente reperire un titolare di potere sostitutivo di qualifica superiore.
Lo stesso vale per gli enti locali, nei quali il segretario comunale è visto come soggetto apicale, al limite di qualifica equivalente, se sono presenti dirigenti (articolo ItaliaOggi del 21.02.201).

ENTI LOCALIMulte autovelox, rendiconti fai-da-te
I comuni devono rispettare i vincoli di destinazione dei proventi delle multe anche se l'obbligo di rendicontazione periodico previsto a maggio di ogni anno al momento resta sospeso per mancanza del necessario supporto informatico.

Lo ha chiarito l'Anci con un parere divulgato il giorno di San Valentino sul portale dell'associazione (si veda ItaliaOggi del 15/02/2014).
La questione della ripartizione a metà delle multe autovelox e della rendicontazione periodica sull'impiego del denaro incassato da comuni e province nasce con la legge n. 120/2010 che ha previsto, tra l'altro, che per tutte le violazioni dei limiti di velocità i proventi devono essere ripartiti in misura uguale fra l'ente dal quale dipende l'organo accertatore e l'ente proprietario della strada.
Le nuove disposizioni, secondo il primo parere diramato dall'Anci il 05.06.2012, sarebbero divenute operative il 01.01.2013 a seguito alla conversione in legge del dl n. 16/2012 che ha specificato che anche in mancanza del necessario decreto attuativo le nuove regole entrano comunque in vigore.
Ma non solo. Letteralmente l'art. 142, comma 12-quater, del codice impone agli enti locali di trasmettere in via informatica a Roma, entro il 31 maggio di ogni anno, una composita relazione in cui sono indicati, con riferimento all'anno precedente, l'ammontare complessivo dei proventi di propria spettanza con la specificazione degli oneri sostenuti per ciascun intervento.
Ma in assenza del sistema informatico necessario a rendicontare e di regole chiare su quanto e come dividere si naviga a vista e si procede con grande approssimazione. Per questo motivo l'Associazione dei comuni è intervenuta nuovamente specificando che nella confusione normativa resta in vigore il comma 3 dell'art. 25 della legge 120/2010 il quale dispone l'applicabilità della novella a far data dall'esercizio successivo a quello di emanazione del decreto mancante «ed in ogni caso all'esercizio successivo a quello in corso». In ogni caso anche per il 2014 l'Anci raccomanda la massima attenzione circa l'obbligo di destinazione dei proventi. In buona sostanza sarà necessario continuare a tenere una contabilità separata tra i proventi autovelox e tutti gli altri importi sanzionatori.
E anche accantonare le somme incassate in attesa che la questione venga definitivamente risolta dal ministero. Del resto nell'unico parere diramato sul complesso tema dal ministero dell'interno il 24.12.2012 si specifica a chiare lettere che «a fronte dell'asistematicità del dato normativo, rimane ineludibile l'obbligo per gli enti locali di destinare i proventi di cui in argomento secondo le previsioni di legge».
In buona sostanza è meglio rispettare integralmente i vincoli di destinazione degli importi delle multe accantonando quanto incassato anche nel corso dell'esercizio finanziario 2013 per conto di altri enti. Solo così si potranno evitare responsabilità contabili all'arrivo del via libera definitivo dall'impasse (articolo ItaliaOggi del 21.02.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: P.a., dirigenti fiduciari a rischio. Incarichi in contrasto con le norme anticorruzione. La legge 190/2012 richiede comunque l'attivazione di una procedura selettiva.
La prassi degli incarichi dirigenziali intuitu personae è in contrasto con la normativa anticorruzione.

L'articolo 1, comma 16, lettera d), della legge 190/2012 considera ex lege, tra gli altri, a particolare rischio di corruzione i procedimenti di «concorsi e prove selettive per l'assunzione del personale e progressioni di carriera di cui all'articolo 24 del citato decreto legislativo n. 150 del 2009».
Apparentemente la norma non sembra riferirsi ad ipotesi come l'assegnazione di incarichi dirigenziali o di vertice «a contratto».
Soffermandosi, infatti, solo sul nomen iuris degli istituti contemplati dalla norma (concorsi e progressioni di carriera), sistemi di reclutamento come quelli di cui all'articolo 110 del dlgs 267/2000 si potrebbero considerare esclusi, perché non riferiti né a concorsi, né alle ex progressioni verticali.
A ben vedere, al contrario, gli incarichi ai sensi dell'articolo 110 citato, specie e soprattutto se assegnati a dipendenti interni all'ente privi di qualifica dirigenziale, rientrano in pieno nel campo di applicazione della norma. Il legislatore anticorruzione, infatti, si riferisce in termini generici a qualsiasi procedura volta a reclutare personale, comprendendo anche la dirigenza. Oltre tutto, appare piuttosto evidente che se rischi di corruzione vi sono nell'ambito delle procedure di concorso, nonostante queste siano regolate da molteplici norme poste ad evitare inquinamenti procedurali, rischi molto maggiori albergano laddove si tratti di procedure lasciate all'assoluta discrezionalità, se non arbitrio, dell'organo di governo, che sceglie ad personam il soggetto cui assegnare l'incarico dirigenziale.
Comunque, il Piano nazionale anticorruzione, nel disaggregare i «rischi specifici» connessi appunto con l'articolo 1, comma 16, lettera d), della legge 190/2012, segnala due ipotesi di esposizione alla corruzione perfettamente pertinenti al caso: previsioni di requisiti di accesso «personalizzati» ed insufficienza di meccanismi oggettivi e trasparenti idonei a verificare il possesso dei requisiti attitudinali e professionali richiesti; motivazione generica e tautologica circa la sussistenza dei presupposti di legge per il conferimento di incarichi professionali allo scopo di agevolare soggetti particolari.
L'interpretazione costituzionalmente orientata (del resto imposta dalle sentenze della Corte costituzionale a partire dalla 103/2007) delle procedure di conferimento degli incarichi dirigenziali esclude la fiduciarietà e l'intuitus personae (salvo gli incarichi negli uffici di diretta collaborazione dei ministri e dei massimi vertici ministeriali, ove esistono influenze politiche nell'azione dirigenziale): pertanto, qualsiasi altro incarico deve necessariamente essere il frutto di procedure quanto meno comparative.
Le quali costituiscono un presidio da scelte arbitrarie e potenzialmente molto permeabili alla corruzione, quali scelte legate alla fiduciarietà.
Dunque, anche nell'ambito del reclutamento dei dirigenti a contratto «non è certamente ammissibile precostituire requisiti di accesso tagliati su misura sul destinatario dell'incarico, o attivare meccanismi di verifica dei requisiti del tutto insufficienti e carenti di strumenti oggettivi, elementi costitutivi del primo fattore di «rischio specifico» di corruzione visto sopra; né è possibile attribuire gli incarichi in assenza di una motivazione profonda e chiara, che, per la verità, può risultare davvero completa ed efficace solo in funzione della sussistenza di criteri oggettivi di confronto selettivo».
È di tutta evidenza che attribuendo incarichi solo per via fiduciaria o intuitu personae, senza procedure selettive oggettive e senza motivazioni che vadano oltre la considerazione della persona e della fiducia in essa riposta, i rischi di assegnazioni clientelari o solo di fiducia mal riposta nelle capacità tecniche sono elevatissimi.
Si deve tenere presente che una carenza nella capacità di selezionare i soggetti meglio capaci di gestire le risorse pubbliche e di perseguire le finalità dell'amministrazione, non solo crea presupposti per azioni «interne» viziate da corruzione amministrativa (quando non anche penale); ma, soprattutto, incide negativamente su tutta la comunità amministrata, che subisce le conseguenze di un'amministrazione disattenta ai bisogni generali (articolo ItaliaOggi del 21.02.2014).

APPALTIMilleproroghe. Centrale unica a rischio.
L'entrata in vigore dell'obbligatorietà della costituzione della Centrale unica di committenza per i comuni con popolazione inferiore a 5 mila abitanti è stata nuovamente prorogata al 30.06.2014 da un emendamento approvato in senato al decreto milleproroghe.

È bene ricordare che l'art. 33, comma 3-bis, del Codice unico degli appalti il stabilisce l'obbligo per i comuni con popolazione non superiore a 5 mila abitanti (ricadenti nel territorio di ciascuna provincia) di costituire un'unica centrale di committenza per l'acquisizione di lavori, servizi e forniture nell'ambito delle unioni dei comuni, di cui all'articolo 32 del dlgs n. 267/2000 ovvero costituire un apposito accordo consortile tra i comuni stessi.
La ratio della disposizione risiede nella volontà del Legislatore di favorire la gestione delle attività, delle funzioni e dei compiti in forma associata, favorendo -nel contempo- un processo di razionalizzazione della spesa, un più efficiente impiego delle risorse umane e strumentali a disposizione ed una maggiore efficacia dell'azione amministrativa.
Tuttavia, tale proroga (introdotta anche su richiesta dell'Anci) potrebbe non entrare in vigore definitivamente; infatti la caduta del governo Letta a seguito delle dimissioni del presidente del consiglio e la conseguente procedura di nomina di un nuovo esecutivo e l'ottenimento della fiducia da parte del parlamento possono mettere a repentaglio il percorso del decreto Milleproroghe attualmente alla camere il quale dovrà essere convertito definitivamente in legge entro il prossimo 28 febbraio. In caso di mancata conversione, gli enti locali dovranno provvedere immediatamente alla costituzione della Centrale unica al fine di ottemperare agli obblighi di legge.
Per quanto riguarda i bandi pubblicati dal 1° gennaio ad oggi, si ritiene che, anche in caso di mancata conversione del decreto, agli stessi possano essere applicate le norme precedenti in quanto l'annullamento delle procedure per il venir meno della proroga potrebbe comportare una lesione dell'interesse pubblico generale sotteso all'azione amministrativa (articolo ItaliaOggi del 21.02.2014).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTIFotovoltaico, obbligo di Catasto. Al bivio fra iscrizione e revisione della rendita: in ogni caso imposte più elevate. Fisco e immobili. La circolare 36/E delle Entrate chiarisce che occorre procedere all'operazione per le strutture più grandi.
L'accatastamento degli impianti fotovoltaici ha trovato forse la soluzione definitiva con la circolare 19.12.2013 n. 36/E delle Entrate.
In particolare, per gli impianti fotovoltaici a terra, considerati beni immobili, è previsto l'accatastamento nella categoria D/1 "opifici". Se invece di impianti a sé stanti, come nel primo caso, si tratta di strutture poste su edifici, lastrici solari o su aree di pertinenza di altri immobili, non si dovrà effettuare un autonomo accatastamento, ma procedere alla rideterminazione della rendita dell'immobile a cui i pannelli sono connessi. Se questa aumenta di più del 15% rispetto al valore originario, il proprietario è tenuto a comunicare la variazione all'agenzia del Territorio (si veda l'altro articolo in pagina).
Se l'impianto è costruito in forza di diritto di superficie, va accatastato autonomamente e quindi dovrebbe assumere la categoria di opificio; infatti nella fattispecie il proprietario dell'impianto è diverso da quello dell'immobile sottostante. In ultimo la circolare considera in ogni caso come beni mobili, e dunque non meritevoli di accatastamento, gli impianti di "modesta entità".
La circolare considera anche il caso di impianti fotovoltaici "rurali", prevedendo il loro accatastamento nella categoria D/10, a condizione che siano asserviti ad una azienda agricola «esistente» con un terreno di estensione non inferiore ai 10mila metri quadri e che la potenza dell'impianto non risulti superiore ai 200 Kw. In questi casi, l'impianto potrà essere censito come D/10 anziché D/1, purché alla dichiarazione di accatastamento si alleghi l'autocertificazione dei requisiti di ruralità su modello conforme.
Ai fini delle imposte ricomprese nella Imposta unica comunale (Iuc), ovvero Imu, Tasi e Tari, il diverso accatastamento ha notevoli ripercussioni.
Nel caso di immobili censiti autonomamente in categoria D/1, si dovrà procedere al calcolo dell'Imu e delle altre imposte gravanti sugli immobili in base al valore catastale derivante dalla dichiarazione di accatastamento. Per Imu e Tasi (tariffa sui servizi non divisibili), partendo dal valore catastale dell'immobile, si dovrà procedere al calcolo delle imposte, ricordando che la somma delle due aliquote non dovrebbe poter superare il 10,6 per mille e comunque l'aliquota Tasi dovrà essere compresa tra l'1 e il 2,5 per mille, ma si è in attesa di decreto. Per la Tari (tariffa rifiuti) la base imponibile sarà ancora data dalla superficie calpestabile e varranno specifiche aliquote determinate dai Comuni in modo da garantire l'integrale copertura dei costi sostenuti per la raccolta rifiuti; pertanto non dovrebbe colpire gli impianti fotovoltaici.
Nel caso, invece, di immobile già censito per cui si renda necessaria la variazione del valore catastale, si dovrà procedere al ricalcolo dell'Imu rispetto a quello dell'anno precedente. La variazione catastale determinerà, infatti, un aumento proporzionale della base imponibile ai fini Imu e Tasi.
Gli impianti fotovoltaici "rurali" censiti nella categoria D/10 sono esenti da Imu come previsto dal comma 708 della legge 147/2013 per gli immobili rurali strumentali, mentre ai fini Tasi potranno essere soggetti al massimo all'aliquota dell'1 per mille, con possibilità per i Comuni di prevedere anche ulteriori riduzioni. Ovviamente la ruralità è garantita qualora vengano rispettate le condizioni stabilite dalla circolare dell'Agenzia 32/2009 e in particolare che il fatturato della attività agricola sia superiore a quello della produzione di energia elettrica, tariffa incentivante esclusa, ovvero che il terreno coltivato anche in comuni non confinanti sia pari ad almeno 10 ettari per 100 kw
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.02.2014 - tratto da www.centrostudi.it).

ENTI LOCALIUnioni comunali, vincoli rinviati. Patto di stabilità. Decorrenza dal terzo anno dopo la loro istituzione.
La nuova circolare sul patto di stabilità diramata ieri dalla Ragioneria Generale dello Stato (n. 6/2014) spiega per la prima volta le modalità applicative dell'assoggettamento al patto, a partire dall'anno in corso, delle unioni costituite dai comuni con popolazione fino a mille abitanti (comma 1, articolo 16, Dl 138/2011). Le unioni in questione applicano la disciplina prevista per i comuni aventi popolazione corrispondente.
Pertanto, l'assoggettamento alle regole del patto decorre –analogamente a quanto previsto per i comuni di nuova istituzione– dal terzo anno successivo a quello della loro istituzione; mentre la base di riferimento su cui applicare la percentuale è data dalle risultanze dell'anno successivo a quello della loro istituzione. La spesa corrente da considerare è quella desunta dai certificati di conto consuntivo.
Fra le novità targate 2014 che tutti gli enti devono tener presente la circolare ricorda il "bonus" investimenti di 1 miliardo. Gli spazi finanziari che si liberano in applicazione della norma vanno utilizzati esclusivamente per pagamenti in conto capitale datati nel primo semestre del 2014 (per cui i pagamenti in conto capitale che avverranno nel secondo semestre non potranno essere esclusi a valere sui predetti spazi finanziari); il controllo sarà effettuato con il monitoraggio semestrale.
La circolare si sofferma anche sul fondo svalutazione crediti, in merito al quale conferma che i relativi stanziamenti non rilevano ai fini del saldo finanziario di competenza mista, poiché non sono oggetto di impegno, ma confluiscono nel risultato di amministrazione vincolato. Sul punto la Ragioneria generale precisa anche che tali voci non rilevano fin dalle previsioni, superando in questo modo la posizione più rigida della Corte dei conti (deliberazione 287/2012 della Toscana) che in passato era intervenuta sul punto.
Anche se la Circolare nulla dice in proposito, è da ritenere che analogo trattamento vada riservato al fondo crediti di dubbia esigibilità che negli enti in sperimentazione dell'armonizzazione contabile ha mandato in soffitta il fondo svalutazione crediti.
Come ogni anno, le istruzioni della Ragioneria si confermano un utile vademecum per applicare correttamente il patto, particolarmente apprezzato dagli enti con meno di cinquemila abitanti, costretti a fare i conti con questo vincolo da poco più di un anno
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.02.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALIFatturazione elettronica obbligata da giugno 2015. Agenda digitale. Comuni, province e regioni hanno 16 mesi per adeguarsi.
L'obbligo della fatturazione elettronica per le amministrazioni locali decorre dal 06.06.2015. Comuni, province e regioni avranno dunque oltre 16 mesi per adeguarsi e cominciare a far viaggiare le fatture sulle piattaforme informatiche messe a punto da Entrate e Sogei per tutti i loro fornitori.
A fissare nero su bianco la data da cui decorrerà l'obbligo previsto dalla Finanziaria 2008 sia per le amministrazioni centrali sia per quelle locali, è ora un decreto attuativo messo a punto dal ministro dell'Economia e da quello per la Pubblica amministrazione e la Semplificazione e domani al parere definitivo della conferenza unificata.
Poche righe ma che completano il quadro normativo per far decollare una volta per tutte la "terza gamba" dell'Agenda digitale italiana: quella della fatturazione elettronica (Identità digitale e anagrafe nazionale della popolazione residente sono le altre due). E su cui a scommetterci non è solo la macchina amministrativa ma anche i privati. Tra questi il Consorzio Cbi cui aderiscono 600 istituti finanziari che offrono servizi a oltre 920mila imprese. In un contesto in cui la priorità per recuperare risorse passa per il taglio dei costi nella Pa, come ricorda il direttore generale del Consorzio, Liliana Fratini Passi «con l'introduzione della fatturazione elettronica verso la Pa si possono ottenere risparmi diretti per oltre un miliardo di euro l'anno (se si considerano solo gli impatti interni alle Pa) e di circa 1,6 miliardi se si vogliono considerare anche i potenziali effetti sui fornitori della Pa stessa».
C'è poi un risvolto difficile da quantificare ma che potrebbe dare comunque risultati eclatanti: la trasparenza e la tracciabilità dei pagamenti con la fatturazione elettronica sono un'arma in più per il contrasto all'evasione fiscale e al sommerso. Ma come sempre accade i buoni propositi e le best practices in Italia non sempre trovano riscontri immediati. Il Direttore generale del Consorzio precisa che gli «enti che si sono dichiarati disponibili alla ricezione di fatture elettroniche attualmente sono al di sotto delle aspettative. Da una verifica al 12 febbraio scorso le ammministrazioni registrate ai servizi di fattura elettronica sono soltanto 50 e di queste solo 14 Pa centrali».
Eppure la macchina e gli istituti finanziari che aderiscono al Consorzio sono pronti. Già dal 6 dicembre scorso, conclude il Dg di Cbi, è disponibile la funzione «Fattura PA» che consente a un consorziato di interfacciarsi con il sistema di interscambio dell'agenzia delle Entrate gestito da Sogei per l'invio delle fatture elettroniche per conto dei propri clienti aziende creditrici, così come la ricezione di fatture elettroniche per conto delle proprie clienti pubbliche amministrazioni debitrici.
Tutto pronto dunque, ora tocca alla macchina statale e locale mettersi in gioco
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.02.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rischio contenzioso per i produttori di rifiuti speciali assimilati.
Rischio contenzioso sulla Tari per i produttori di rifiuti speciali assimilati. Secondo il ministero dell'ambiente, a tali soggetti spettano solo gli sconti sulla parte variabile della tariffa eventualmente decisi dai comuni, in base all'art. 1, comma 649, della legge 147/2013. Ma il successivo comma 661 consente loro di pretendere l'esenzione totale. Si tratta di due norme fra di loro chiaramente contrastanti.
In base alla prima, «per i produttori di rifiuti speciali assimilati agli urbani, nella determinazione della Tari, il comune, con proprio regolamento, può prevedere riduzioni della parte variabile proporzionali alle quantità che i produttori stessi dimostrino di avere avviato al recupero». La seconda disposizione, invece, dispone che la Tari non è dovuta «in relazione alle quantità di rifiuti assimilati che il produttore dimostri di aver avviato al recupero».

Con la
circolare 13.02.2014 n. 1/2014 il ministero dell'ambiente ha affermato la prevalenza del comma 649 rispetto al successivo comma 661, lasciando, in pratica, il pallino degli sconti nelle mani dei comuni.
Ciò sulla scorta di una duplice argomentazione: sul piano formale, si evidenzia come sia la seconda disposizione (già contenuta nell'originario ddl di Stabilità) a non essere coordinata con la prima (inserita durante l'iter parlamentare); sul piano sostanziale, si afferma la necessità di conservare in capo agli enti locali la flessibilità necessaria a conciliare la sostenibilità finanziaria del ciclo integrato dei rifiuti con le politiche di incentivo e stimolo per le buone pratiche in tema di recupero.
Tuttavia, gli ordinari canoni interpretativi dovrebbero suggerire di far prevalere la tesi più favorevole ai contribuenti interessati, che certamente possono invocare l'esenzione totale in base al comma 661. Di ciò pare essere consapevole lo stesso estensore della circolare, allorché evidenzia la necessità di un «chiarimento normativo», anche al fine di «prevenire un prevedibile contenzioso, di durata non determinabile, a scapito di operatori e aziende», oltre che (si deve aggiungere) degli stessi comuni. Non a caso, lo schema di decreto sulla casa predisposto dall'ex governo Letta (e destinato a contenere anche i correttivi sulla Tasi e sul fondo di solidarietà) sposava la tesi opposta a quella fatta propria dal dicastero da ultimo guidato da Andrea Orlando.
Una soluzione, quest'ultima, anch'essa problematica, che scaricherebbe forti aumenti sulle utenze domestiche. Anche il riferimento alla «parte variabile» della tariffa come base di riferimento degli sconti decisi dai sindaci è impreciso, dal momento che, da quest'anno, in alternativa al metodo normalizzato, è possibile optare per quello «semplificato», che non presuppone la distinzione fra costi fissi e costi variabili. Peraltro, non si tratta dell'unico problema posto dalla disciplina della Tari.
Un altro dubbio interpretativo riguarda questa volta i produttori di rifiuti speciali non assimilati agli urbani. Qui il dubbio nasce dall'inciso «in via continuativa e prevalente» che potrebbe giustificare la richiesta di detassazione anche con riferimento ad aree con produzione mista (articolo ItaliaOggi del 18.02.2014).

PATRIMONIOStadi, corsia veloce alla ristrutturazione ma senza residenziale. Progetti da approvare entro 180 giorni. Legge di stabilità. Le nuove norme per gli impianti sportivi.
Corsia preferenziale per riqualificare gli stadi e gli impianti sportivi o costruirne di nuovi. Dal 1° gennaio sono in vigore le norme per il rilancio dell'impiantistica sportiva dettate dall'articolo 1, commi 303-306, della legge di Stabilità (n. 147/2013).
La cosiddetta legge stadi, pur se con qualche limitazione, asseconda concretamente l'esigenza di promuovere sia la costruzione di nuovi stadi, sia gli interventi per l'ammodernamento degli impianti esistenti. La procedura, che deve concludersi entro 120 giorni (180 in caso di atti di competenza regionale quali solitamente le varianti urbanistiche) dal suo avvio, è la seguente:
- il soggetto interessato presenta al Comune uno studio di fattibilità corredato da un piano economico-finanziario e dall'accordo con una o più associazioni o società sportive utilizzatrici in via prevalente;
- il Comune, ove valuti positivamente il progetto in conferenza di servizi istruttoria, lo dichiara entro 90 giorni di pubblico interesse;
- viene quindi presentato il progetto definitivo, sul quale il Comune o la Regione -previa conferenza di servizi decisoria cui partecipano i soggetti titolari di competenze specifiche- delibera in via definitiva sul progetto, eventualmente chiedendo le modifiche ritenute strettamente necessarie.
È importante evidenziare che per legge:
- il provvedimento finale sostituisce ogni autorizzazione o permesso comunque denominato necessario alla realizzazione dell'opera e ne determina la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza;
- in caso di superamento dei termini fissati dalla legge il presidente del Consiglio dei ministri, su istanza del proponente, assegna all'ente interessato 30 giorni per adottare i provvedimenti necessari e, in difetto, la regione ovvero lo stesso Presidente del Consiglio per gli impianti più grandi (superiori ai 4mila posti al coperto e 20mila allo scoperto) adotta i provvedimenti necessari entro il termine di 60 giorni;
- in caso di interventi da realizzare su aree di proprietà pubblica o su impianti pubblici esistenti, il progetto approvato è fatto oggetto di idonea procedura di evidenza pubblica (si veda l'articolo a fianco).
Così descritta la short-track di legge, occorre riferire delle due disposizioni frutto della mediazione maturata rispetto alle istanze di chi, per ragioni di tutela ambientale, si era opposto all'approvazione della normativa nella sua versione originale. Anzitutto, la norma precisa che lo studio di fattibilità non può prevedere altri tipi di intervento, salvo quelli strettamente funzionali alla fruibilità dell'impianto e al raggiungimento del complessivo equilibrio economico-finanziario dell'iniziativa e concorrenti alla valorizzazione del territorio in termini sociali, occupazionali ed economici. È comunque esclusa la realizzazione di nuovi complessi di edilizia residenziale.
La disposizione tutela la posizione di chi teme che dietro il rilancio dell'impiantistica sportiva si celi solo l'interesse di ottenere varianti urbanistiche accelerate (se non di favore) per rendere edificabili aree verdi periferiche o per consentire la costruzione di nuove case di alto valore, perché localizzate nelle zone centrali delle città, ove spesso si collocano gli stadi italiani (da rilocalizzare).
Può essere che la tutela sia giustificata dalla concreta esperienza dell'urbanistica italiana, certo è che la nuova norma avrebbe precluso la realizzazione dell'Emirates Stadium di Londra. Il nuovo stadio dell'Arsenal (impianto modernissimo e multifunzionale) è stato costruito su un'area acquistata dal municipio e in precedenza destinata al trattamento dei rifiuti, usando il denaro ottenuto con la vendita degli appartamenti di lusso realizzati al posto delle tribune del vecchio Highbury.
L'ultima cautela fissata dalla legge attiene al disfavore per la realizzazione di nuovi stadi. Gli interventi agevolati, infatti «laddove possibile, sono realizzati prioritariamente mediante recupero di impianti esistenti o relativamente a impianti localizzati in aree già edificate».
La norma appare pienamente giustificata, sia perché è comunque doveroso dedicarsi alla riqualificazione del patrimonio edilizio (anche sportivo) esistente prima di consumare nuovo territorio, sia perché la legge non preclude la realizzazione di nuovi impianti (comunque ammessi sui cosiddetti brownfield), anche su aree non urbanizzate purché la scelta sia assistita da idonea motivazione.
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La procedura. Ogni decisione urbanistica viene presa dalla conferenza dei servizi.
Il nodo delle varianti al Prg.

La prima ristrutturazione dello stadio di San Siro fu realizzata negli anni 30 del secolo scorso utilizzando la finanza che il Comune di Milano mise a disposizione dopo aver comprato l'impianto dalla famiglia Pirelli. I tempi sono cambiati. Il rilancio dell'impiantistica sportiva richiede ora l'intervento dei capitali privati, il cui impiego presuppone il raggiungimento dell'equilibrio finanziario tra i costi di realizzazione e gestione dell'impianto e i relativi proventi.
L'esperienza recente inoltre dimostra che la remunerazione dei capitali impiegati nell'edilizia sportiva non è garantita dal reddito prodotto dalla vendita dei biglietti e dai diritti correlati agli eventi sportivi, vale a dire i quelli che con denominazione inglese vengono definiti rights applicati su advertising (inserzioni pubblicitarie), naming (commercializzazione del nome dell'impianto o suoi settori) e puring (esclusiva di somministrazione alimenti e bevande).
Buona parte del reddito che ha permesso l'ammodernamento degli stadi in tutto il mondo deriva infatti dallo sviluppo sinergico di destinazioni d'uso diverse da quella sportiva, quali i servizi, il commercio, gli uffici e la residenza.
Questi principi sono finalmente riconosciuti anche in Italia attraverso le norme della legge di stabilità, secondo cui lo studio di fattibilità dei nuovi stadi può prevedere anche altri tipi di intervento, purché «strettamente funzionali alla fruibilità dell'impianto e al raggiungimento del complessivo equilibrio economico-finanziario dell'iniziativa».
Per quanto la norma precisi che tra le nuove funzioni sia esclusa la residenza e richieda, in continuità con le migliori pratiche internazionali, che gli usi correlati «concorrano alla valorizzazione del territorio in termini sociali, occupazionali ed economici», è evidente che la nuova legge apre la via alla realizzazione di una impiantistica moderna, multifunzionale, produttrice di reddito e di servizi per la comunità.
La possibilità di affiancare allo stadio altre destinazioni urbane pone ovviamente il problema di garantire la conformità del progetto con le previsioni del piano regolatore comunale, che non sempre consentono di affiancare agli stadi i servizi privati, il terziario e le funzioni retail. È questo un tema che accompagna tutte le politiche di governo del territorio e che notoriamente è complicato dal contrasto esistente in materia tra competenze regionali e statali.
Secondo il vigente assetto costituzionale, è esclusiva prerogativa delle Regioni dettare le regole procedurali attraverso cui mutare le previsioni urbanistiche comunali. La Corte Costituzionale ha così annullato le leggi statali che prevedevano meccanismi accelerati di variante urbanistica per favorire la riqualificazione urbana (decisione n. 393/1992), la dismissione degli immobili pubblici (decisione n. 340/2009), il social housing (decisione n. 121/2010).
La legge stadi sul punto prevede un meccanismo estremamente veloce per cambiare le previsioni dei piani regolatori che, per esempio, non consentano la realizzazione di un centro commerciale ai margini dello stadio, stabilendo che «il provvedimento finale sostituisce ogni autorizzazione o permesso comunque denominato» ivi compresa, quindi, la variante urbanistica.
Ora, è vero che in tal caso il provvedimento si forma attraverso una conferenza di servizi decisoria indetta proprio dalla Regione, ma è altrettanto vero che la procedura di variante è dettata direttamente dalla norma statale e prevede meccanismi sostitutori in capo alla presidenza del Consiglio dei ministri.
I dubbi di incostituzionalità che pendono sulla norma possono superarsi attraverso leggi regionali che recepiscano le previsioni della disciplina nazionale anche in ambito urbanistico, oppure seguendo le ordinarie procedure di variante previste in sede locale, anche utilizzando la disposizione del comma 304, per cui comunque «resta salvo il regime di maggiore semplificazione previsto dalla normativa vigente».
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Il caso. Confronto concorrenziale aperto ad altri operatori.
Proprietà pubblica, scatta la gara.

Salve poche eccezioni (Juventus e Mapei stadium, stadi di Udine, Teramo e Olimpico di Roma, del Coni) tutti gli stadi italiani sono di piena proprietà comunale. Secondo i principi comunitari recepiti nell'ordinamento italiano, la loro cessione ai privati a fini di lucro deve passare da una procedura di evidenza pubblica, ovvero da una gara.
Le prime bozze della legge stadi erano lacunose sul punto, prevedendo che qualsiasi società privata interessata a costruire e gestire gli impianti, solo per aver trovato una intesa con le associazioni fruitrici dell'impianto, avesse titolo per presentare un progetto e attuarlo direttamente se riconosciuto di interesse pubblico dal Comune.Le nuove disposizioni prescrivono ora una vera e propria procedura di gara mutuata dal modello del project financing del Codice dei contratti pubblici: «In caso di interventi da realizzare su aree di proprietà pubblica o su impianti pubblici esistenti –si legge nella norma– il progetto approvato è fatto oggetto di idonea procedura di evidenza pubblica, da concludersi comunque entro novanta giorni dalla sua approvazione. Alla gara è invitato anche il soggetto proponente, che assume la denominazione di promotore. Il bando specifica che il promotore, nell'ipotesi in cui non risulti aggiudicatario, può esercitare il diritto di prelazione entro quindici giorni dall'aggiudicazione definitiva e divenire aggiudicatario se dichiara di assumere la migliore offerta presentata. Si applicano, in quanto compatibili, le previsioni del codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, in materia di finanza di progetto».
Se l'aggiudicatario è diverso dal proponente, è tenuto a subentrare, alle stesse condizioni, negli accordi proposti dallo stesso proponente
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.02.2014).

PUBBLICO IMPIEGOIndennità senza doppioni alle posizioni organizzative. Parere Aran. In mancanza di una disciplina contrattuale.
Le amministrazioni locali possono disciplinare con una norma regolamentare il trattamento economico accessorio da corrispondere al responsabile di posizione organizzativa assente. La disciplina deve essere ispirata al principio per cui l'ente non deve corrispondere più di una indennità di posizione.

Possono essere così riassunte le principali indicazioni che sono state dettate dall'Aran con il parere n. 654/2014. In tal modo viene indicata la soluzione a una materia su cui manca una specifica disciplina contrattuale.
L'assegnazione alla regolamentazione della competenza a dettare la «disciplina di dettaglio delle posizioni organizzative» deriva dalla stretta attinenza di questa materia con la definizione del modello di organizzazione, e si deve ritenere ulteriormente rafforzata dalla limitazione contenuta nel Dlgs 150/2009 degli spazi riservati alla contrattazione collettiva. L'assenza di questa disciplina determina una conseguenze certa: «In mancanza di una diversa regolamentazione, il dipendente incaricato di una posizione organizzativa ne conserva la titolarità anche nei casi di assenza (pure di lunga durata) e, in relazione all'incarico e alla sua durata, il corrispondente diritto a percepire la retribuzione di posizione e di risultato».
Ma il parere dell'Aran non si ferma qui: pone dei dubbi sulla «stessa possibilità di conferire legittimamente l'incarico di una posizione organizzativa ad altro soggetto in caso di assenza o impedimento di quello che ne è l'effettivo titolare: una medesima posizione organizzativa, secondo i principi di correttezza e buona fede, non potrebbe essere formalmente e contemporaneamente oggetto di due incarichi conferiti a soggetti diversi».
Per l'indennità di risultato viene ricordato che questa dipende dalla valutazione annuale del grado di raggiungimento degli obiettivi assegnati: «È ragionevole presumere che i periodi di assenza incidano negativamente, determinando la conseguente riduzione del compenso da corrispondere (fino ad annullarlo, quando i risultati conseguiti .. non siano apprezzabili)».
Il parere pone dei limiti all'autonomia delle amministrazioni nella determinazione con regolamento del trattamento economico da corrispondere al dipendente che sostituisce il titolare di posizione organizzativa assente nel caso in cui egli non sia già titolare di un tale incarico. Si deve pervenire a questa conclusione sulla base della scelta legislativa che riserva alla contrattazione collettiva nazionale la disciplina di tutte le scelte sul trattamento economico.
In questo quadro gli enti possono comunque erogare la indennità di posizione al sostituto nel caso in cui ne abbiano sospesa la erogazione al responsabile assente. E possono remunerare, in analogia a quanto previsto per i dirigenti, il conferimento a interim dell'incarico a un altro responsabile attraverso la maggiorazione della indennità di risultato, che in ogni caso deve restare entro il tetto massimo complessivo ed invalicabile del 25% della retribuzione di posizione
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.02.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIAReflui, burocrazia più snella. Non è più necessario l'ok per immissioni in atmosfera. Alleggerito il regime autorizzatorio per i piccoli impianti di trattamento delle acque.
Burocrazia ambientale più leggera per i piccoli impianti di trattamento delle acque che utilizzano «linee di trattamento fanghi», ossia strutture dedicate a processare i particolari residui formatisi nel procedimento depurativo.

Grazie al nuovo decreto del 15.01.2014 del Minambiente, i titolari di alcuni impianti non saranno più obbligati a chiedere, oltre all'autorizzazione per realizzazione ed esercizio della struttura, quella relativa alle immissioni in atmosfera. L'alleggerimento arriva mediante la riformulazione diretta del dlgs 152/2006 (c.d. «Codice ambientale») operata dal nuovo regolamento del Dicastero verde pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dello scorso 10.02.2014 n. 33.
La novità. Il decreto riformula l'elenco (contenuto nella Parte I dell'allegato IV alla Parte Quinta del dlgs 152/2006) degli impianti e delle attività potenzialmente considerati a «emissioni scarsamente rilevanti» agli effetti dell'inquinamento atmosferico dall'articolo 272 dello stesso «Codice ambientale» e in virtù di ciò (ricorrendo le altre condizioni più avanti esposte) esentati dalla relativa autorizzazione ordinaria alle emissioni in aria imposta in via generale dal precedente articolo 269 agli stabilimenti che gettano inquinanti nell'aria.
In particolare, entrano a far parte del novero degli stabilimenti astrattamente ammessi alla deroga burocratica (fermo restando l'obbligo di rispettare i limiti massimi di emissione in aria previsti dallo stesso dlgs 152/2006) le linee di trattamento dei fanghi che operano nell'ambito di impianti di depurazione delle acque reflue con potenzialità inferiore: a 10 mila abitanti per trattamenti di tipo biologico; a 10 m/h di acque trattate per trattamenti di tipo chimico/fisico; a entrambi i citati parametri per trattamenti sia biologici che chimico/fisici.
Con il nuovo decreto il Minambiente chiarisce invece che restano fuori dall'obbligo di autorizzazione alle emissioni in atmosfera le linee di trattamento dei fanghi che operano nell'ambito di impianti di trattamento delle acque «a fini di potabilizzazione», le quali non producono, per la natura stessa di tali attività, emissioni in atmosfera.
Le conseguenze. L'inclusione dei primi citati stabilimenti nell'elenco degli impianti «a basso impatto» atmosferico non vale però a escluderne in assoluto l'assoggettabilità alle procedure autorizzatorie di settore. E ciò in primo luogo perché, per espressa disposizione del ricordato articolo 272 dello stesso «Codice ambientale», la deroga all'autorizzazione ordinaria imposta dall'articolo 269 citato non vale per gli stabilimenti con emissioni di sostanze cancerogene, tossiche per la riproduzione o mutagene o di sostanze di tossicità e cumulabilità particolarmente elevate (individuate dalla parte II dell'allegato I alla Parte V del dlgs 152/2006) e per le attività con utilizzo di sostanze o preparati classificati come cancerogeni, mutageni o tossici per la riproduzione (dal dlgs 52/1997).
In secondo luogo perché anche laddove gli stabilimenti in parola siano effettivamente esentati (ricorrendo le descritte condizioni) dall'autorizzazione ordinaria citata, potrebbero comunque essere obbligati ad aderire alle «autorizzazioni di carattere generale» che gli enti territoriali competenti (regione, provincia autonoma o diverse autorità da loro indicata) hanno facoltà di imporre a determinate attività in forza dello stesso articolo 272, dlgs 152/2006, e ciò pretendendo anche il rispetto di particolari valori limite di emissione e di regole su costruzione, esercizio, campionamento e periodicità dei controlli.
L'eventuale presenza di una «autorizzazione di carattere generale», lo ricordiamo, fa altresì scattare per il titolare dell'impianto l'obbligo di aderirvi tramite lo «Sportello unico per le attività produttive». A imporre la strada del c.d. «Suap» per l'adempimento in parola è il dpr 59/2013, il provvedimento che dallo scorso 13.06.2013 detta le regole procedurali (meglio note come «autorizzazione unica ambientale») che le imprese a ridotto impatto sull'ecosistema devono seguire per poter ottenere i titoli abilitativi previsti dalla normativa ambientale.
Il dpr 59/2013 lascia infatti alle imprese che devono unicamente aderire ad una «autorizzazione di carattere generale» alle emissioni in atmosfera libera scelta se ricorrere o meno all'«Aua», ma le obbliga in ogni caso a rivolgendosi al citato ufficio comunale competente per i procedimenti amministrativi che riguardano avvio e modifiche delle attività produttive.
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La Corte Ue: consegna dei rifiuti solo ad autorizzati.
La responsabilità dell'impresa produttrice di rifiuti per il loro corretto trattamento tecnico cessa con il conferimento dei residui ad altro soggetto di cui si sia preventivamente verificata l'idoneità alla relativa gestione in ossequio alle norme in materia di autorizzazione.
Questo il chiarimento offerto dalla Corte Ue di giustizia con sentenza 03.10.2013 n. C-113/12 in merito al rispetto delle norme sulle operazioni di smaltimento o recupero dei rifiuti lungo la filiera dei rifiuti. Chiarimento relativo alle norme comunitarie che deve, però, essere necessariamente letto congiuntamente alle particolari regole nazionali sul tracciamento dei rifiuti.
- La posizione della Corte Ue. Quella della Corte europea di giustizia è una lettura fondata sulla direttiva madre in materia di rifiuti che (con continuità normativa dalla versione 75/442 all'ultima del 2008, la n. 98) da un lato pone in capo al «detentore» la responsabilità della loro corretta gestione e dall'altro (al fine di garantire la massima tutela dell'ambiente) ne consente la cessione ad altro soggetto per l'effettuazione delle operazioni necessarie a patto che quest'ultimo sia in possesso dell'abilitazione necessaria alle operazioni di trattamento. Soddisfatta quest'ultima condizione, sottolinea la Corte, al «cedente» che ha effettivamente controllato l'esistenza di tale autorizzazione nessun rimprovero può muoversi per il mancato effettivo rispetto delle norme tecniche di trattamento.
- Le regole nazionali. Sul piano interno, a obbligare il «cedente» alla verifica dell'autorizzazione in capo al soggetto privato cui i rifiuti sono conferiti sono gli articoli 178 e 188 del dlgs 152/2006 (laddove si impongono sia il principio di precauzione che l'espressa prescrizione di controllo sul detentore, che «consegna i rifiuti a un raccoglitore autorizzato»). A queste vanno però aggiunte le più particolari disposizioni relative al tracciamento dello spostamento dei rifiuti, sia che avvenga tramite lo storico regime cartaceo (formulario di trasporto dei rifiuti) che attraverso il nuovo sistema di controllo telematico (il noto Sistri, già in vigore dallo scorso 01.10.2013 per i gestori).
In caso di utilizzo del primo sistema, il detentore che consegna i rifiuti ad altro soggetto (autorizzato) è infatti esonerato da responsabilità solo ove riceva il formulario controfirmato e datato in arrivo dal destinatario entro 3 mesi dal conferimento dei rifiuti al trasportatore, ovvero ove alla scadenza del predetto termine abbia provveduto a dare comunicazione alla Provincia della mancata ricezione del documento.
In caso di utilizzo del «Sistri» (dal prossimo 03.03.2014 obbligatorio anche per enti e imprese produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi) la responsabilità del soggetto che li conferisce è invece esclusa solo con il ricevimento, tramite l'apposita casella di posta elettronica attribuitagli dal sistema, della comunicazione di accettazione dei rifiuti da parte dell'impianto di trattamento o, in caso di mancato ricevimento della stessa nei 30 giorni successivi al conferimento al trasportatore, di una relativa segnalazione fatta sia al Sistri che alla provincia competente.
Nel caso di tracciamento «ibrido», il soggetto conferente che non opera in ambiente Sistri (come il produttore di rifiuti speciali non pericolosi, per il quale l'utilizzo del sistema telematico è mera facoltà) che consegna i rifiuti a «soggetto Sistri» vede la sua responsabilità venire meno solo con la ricezione, o denuncia dei mancata ricezione, della copia cartacea della «scheda Sistri-Area Movimentazione» che il gestore dell'impianto di trattamento deve trasmettergli all'atto dell'accettazione dei rifiuti (articolo ItaliaOggi Sette del 17.02.2014).

ENTI LOCALIMulte, obblighi dal 2015. Ma occorre tenere una contabilità separata. Una nota dell'Anci sulla ripartizione dei proventi da autovelox.
Nessun obbligo per i comuni di ripartizione dei proventi delle multe stradali, almeno fino a quando non sarà emanato il decreto interministeriale attuativo, atteso ormai da oltre un anno. E anche quando arriverà il regolamento, gli obblighi a carico dei municipi, di comunicare al ministero delle infrastrutture e al ministero dell'interno gli introiti delle violazioni dei limiti di velocità, scatteranno solo dall'esercizio finanziario successivo «e in ogni caso dall'esercizio finanziario successivo a quello in corso».
Quindi dal 2015. Nel frattempo però i comuni dovranno fare attenzione, tenendo una contabilità separata degli introiti (quelli relativi alle multe per autovelox e quelli relativi ad altre violazioni). Perché dal 2015 (se il dm arriverà come si spera quest'anno) dovranno provvedere a versare anche la quota di introiti relativa al 2014.

Con una nota interpretativa, l'Anci interviene sulla annosa querelle che da oltre un anno agita gli enti locali che non sanno come dare applicazione alla legge n. 120/2010 la quale ha riscritto l'art. 142 del codice della strada.
Ma vediamo di ripercorrere i termini del problema. La norma prevede che, per tutte le violazioni dei limiti di velocità accertate con autovelox, i proventi debbano essere ripartiti tra enti proprietari delle strade ed enti accertatori delle sanzioni. Le somme derivanti dalle multe dovranno poi essere destinate alla manutenzione e messa in sicurezza delle strade e al potenziamento dell'attività di controllo (spese di personale comprese).
Ciascun ente locale è chiamato a trasmettere ai due ministeri competenti entro il 31 maggio di ogni anno, una relazione in cui sono indicati, con riferimento all'anno precedente, l'ammontare complessivo dei proventi di propria spettanza, come risultante da rendiconto approvato nel medesimo anno, e gli interventi realizzati a valere su tali risorse, con la specificazione degli oneri sostenuti per ciascun intervento. In caso di mancata trasmissione della relazione (o di uso dei proventi in modo difforme da quanto previsto) la legge del 2010 stabiliva che gli incassi delle multe da autovelox venissero ridotti del 30%, percentuale poi elevata al 90% dal dl 16/2012 che fa anche scattare responsabilità disciplinare e per danno erariale (con tanto di segnalazione alla Corte conti).
Peccato però che il modello di relazione e le modalità di trasmissione telematica dello stesso non siano mai stati approvati dato che il decreto non ha mai visto la luce. Di qui il caos generato tra gli enti che in attesa del regolamento navigano a vista. L'Anci ha fatto chiarezza non solo sulla ripartizione dei proventi, ma anche sulla modalità di trasmissione. Come detto, la legge richiede espressamente un supporto informatico che però non c'è. Vista l'«assenza di specifiche comunicazioni da parte dei ministeri interessati», secondo l'Anci, «l'incombenza potrà non essere osservata» (articolo ItaliaOggi del 15.02.2014).

APPALTIOperativa la procedura per il rilascio. Crediti p.a., parte il Durc.
Via libera alle richieste del Durc da parte delle imprese creditrici nei confronti delle pa. Sul sito del ministero dell'economia, dov'è operativa la piattaforma per la certificazione dei crediti (cd sistema Pcc), è stata attivata la nuova funzionalità che consente di produrre e ottenere il codice attraverso il quale Inail, Inps ed eventualmente casse edili (per le imprese di questo settore) possono rilasciare il documento di regolarità contributiva.

Lo rende noto l'Inail nella
nota 13.02.2014 n. 1123 di prot. che porta in allegato una guida predisposta dallo stesso ministero dell'economia.
In pratica, le imprese interessate dovranno registrarsi sul sistema Pcc ed effettuare la «Richiesta di rilascio del Durc» nella piattaforma. Fatto ciò dovranno salvare la richiesta, identificata da un numero di protocollo, su un dispositivo elettronico, oppure stamparlo. All'interno della richiesta è riportato il «codice di verifica» senza il quale Inps, Inail e casse edili non possono effettuare la verifica della sussistenza e dell'importo dei crediti certificati per attestare la regolarità ai fini del rilascio del Durc.
A questo punto, l'impresa può effettuare la richiesta del Durc nella maniera tradizionale, cioè sul sito www.sportellounicoprevidenziale.it e trasmettere a Inps, Inail e cassa edile la «richiesta di emissione Durc» effettuata nel sistema Pcc. Gli istituti avviano i controlli; l'Inail, in particolare, esamina la situazione dell'impresa richiedente e in presenza di titoli insoluti quantifica l'ammontare dei debiti e comunica via Pec a Inps e cassa edile l'importo dell'irregolarità. Lo stesso faranno Inps e cassa edile. Una volta che è stato quantificato l'ammontare complessivo dei debiti dell'impresa nei confronti di Inail, Inps e cassa edile, scatterà la «verifica capienza per l'emissione del Durc».
Se l'importo dei crediti certificati è almeno pari all'importo dell'irregolarità contributiva, la procedura terminerà con l'emissione del Durc, altrimenti ci sarà l'emissione di un Durc negativo. La stessa procedura, precisa infine l'Inail, vale anche nel caso in cui il Durc venga richiesto da una stazione appaltante o da un'amministrazione procedente (acquisizioni d'ufficio) (articolo ItaliaOggi del 15.02.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIARoghi illeciti, si rischia il carcere. Pena aumentata per le imprese e per le operazioni nelle aree in emergenza. Giustizia. Pubblicata la legge di conversione del decreto legge sulla Terra dei fuochi: nuovo reato nel Codice ambientale.
Pugno di ferro contro i roghi illeciti di rifiuti dopo il caso terra dei fuochi, con il debutto di un reato che va a integrare il Codice ambientale di una nuova fattispecie.
È approdata sulla «Gazzetta Ufficiale» dell'8 febbraio la legge 06.02.2014, n. 6, la quale, con modifiche, ha convertito il Dl 10.12.2013, n. 136, il cosiddetto "decreto terra dei fuochi". Il provvedimento è entrato in vigore il giorno successivo, e cioè lo scorso 9 febbraio.
L'articolo 3 del provvedimento è dedicato alla «combustione illecita dei rifiuti», che ora diventa una nuova specifica ipotesi di reato punita con la reclusione da tre a sei anni. Un reato di pericolo che si aggiunge a quelli già previsti in materia di rifiuti dal Codice ambientale (decreto legislativo 152/2006), che ora si arricchisce con il nuovo articolo 256-bis. La norma si applica su tutto il territorio nazionale anche se prende spunto dai tragici roghi che, da due decenni, offendono il territorio ricompreso tra Napoli e Caserta.
A ben guardare, tuttavia, il nuovo articolo 256-bis aggiunto al Codice ambientale introduce due ipotesi delittuose; infatti, il comma 1 si applica a «chiunque appicca il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata». Invece, il comma 2 si applica a chi (soggetto privato o impresa) deposita o abbandona rifiuti, oppure li rende oggetto di un transito transfrontaliero illecito in funzione della loro «successiva combustione illecita».
Per le previsioni delittuose di entrambi i commi è prevista la reclusione tra i 2 e i 5 anni per i rifiuti non pericolosi, che aumenta da 3 a 6 se i rifiuti sono pericolosi. L'entità della pena giustifica la custodia cautelare in carcere. In sede di conversione, sono state introdotte le aggravanti che aumentano la pena di un terzo se il reato è commesso in un territorio il quale, all'atto della condotta e «comunque nei cinque anni precedenti», era in situazione di emergenza ai sensi della legge 225/1992.
Stesso aumento di pena se il delitto è commesso nell'ambito dell'attività di un'impresa o di un'attività comunque organizzata. Tutto questo, invece, non si applica alla combustione dei «rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali», a cui invece si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 300 a 3.000 euro (aumentata fino al doppio se i rifiuti sono pericolosi). In ogni caso, e opportunamente, tutto questo apparato sanzionatorio si applica «salvo che il fatto costituisca più grave reato» (si pensi al disastro doloso aggravato per il quale è prevista la reclusione da 3 a 12 anni).
Il comma 3 del nuovo articolo 256-bis pone la responsabilità per «omessa vigilanza sull'operato degli autori materiali del delitto» a carico del titolare dell'impresa o del responsabile dell'attività organizzata anche non in forma di impresa. Costoro saranno puniti anche con le sanzioni interdittive previste dall'articolo 9, del Dlgs 231/2001: interdizione dall'esercizio dell'attività; sospensione o revoca di autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell'illecito; divieto di contrattare con la pubblica amministrazione (salvo per ottenere prestazioni di pubblico servizio); esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi ed eventuale revoca di quelli già concessi; divieto di pubblicizzare beni o servizi.
I mezzi usati per il trasporto dei rifiuti bruciati saranno confiscati a meno che il mezzo appartenga a persona estranea alle condotte e questa non abbia operato in concorso con i responsabili
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.02.2014).

PATRIMONIODismissioni con iter alleggerito. Anche gli enti locali potranno usare la trattativa privata - Possibile sanare gli abusi edilizi. Immobili pubblici. Come cambia la procedura da seguire dopo le modifiche introdotte con il decreto legge Imu-Bankitalia.
Con una sanatoria delle opere abusive e la possibilità per Comuni e Province di attivare la trattativa privata arrivano nuovi incentivi per le dismissioni di immobili pubblici, compresi quelli degli enti locali. Le novità sono contenute nell'articolo 3 del decreto legge n. 133/2013 (il decreto Imu-Bankitalia) convertito nella legge 5/2014.
Le novità si innestano sulle disposizioni dell'articolo 11-quinquies del Dl 203/2005 che contiene la procedura per la dismissione dei beni immobili pubblici: in pratica, il ministero dell'Economia autorizza con proprio decreto l'agenzia del Demanio a vendere con trattativa privata i beni immobili appartenenti al patrimonio pubblico.
Ora l'articolo 3 del Dl 133/2013 introduce tre previsioni nell'articolato contesto normativo sulla dismissione dei beni pubblici:
- si consente di sanare eventuali irregolarità edilizie presenti nell'immobile alienato;
- si chiarisce quale sia la destinazione d'uso dei beni che possono essere oggetto di alienazione;
- si conferisce agli enti territoriali la possibilità di accedere alla procedura finora applicata alla vendita dei beni demaniali per l'alienazione dei propri beni immobili.
Viene esteso alle cessioni contemplate dall'articolo 11-quinquies del Dl 203/2005 (cioè le vendite a trattativa privata da parte dell'agenzia del Demanio autorizzate) il ricorso all'istituto del condono per sanare le eventuali irregolarità edilizie commesse nelle strutture dei beni. In particolare, attraverso il rinvio alla legge n. 47/1985 (e precisamente all'articolo 40, comma 6) si concede al privato acquirente di un immobile di presentare la domanda di sanatoria entro un anno dalla data dell'atto di trasferimento. Ovviamente si deve trattare di irregolarità edilizie non altrimenti sanate (ad esempio, interventi realizzati fuori dai limiti temporali previsti dalle passate leggi sui condoni edilizi del 1985, 1994 e 2003) e che non rientrino tra le opere non suscettibili di sanatoria (ad esempio, opere senza titolo eseguite su aree sottoposte a vincoli assoluti di inedificabilità).
La destinazione d'uso
La seconda novità del decreto Imu-Bankitalia riguarda la destinazione d'uso degli immobili da dismettere: nella previgente versione della norma, si consentiva all'agenzia del Demanio di vendere beni immobili ad «uso non abitativo». Questa formulazione ha fatto sorgere non poche questioni interpretative soprattutto con riguardo a quei beni con destinazione mista, prevalentemente non abitativa ma con locali destinati ad alloggio (si pensi a un edificio con destinazione in parte residenziale e in parte ad uffici).
La modifica ora elimina questi problemi interpretativi, riformulando il precetto normativo con l'inserimento dell'avverbio «prevalentemente»: di fatto, oggi, potranno essere oggetto di trattativa privata con l'agenzia del Demanio gli immobili ad uso non prevalentemente abitativo appartenenti al patrimonio pubblico. La prevalenza dell'uso non abitativo, per una più chiara ed agevole applicazione del precetto, dovrà intendersi in rapporto alla superficie dell'intero immobile.
Gli enti territoriali
Con l'ultima previsione normativa si introduce una nuova procedura per la dismissione di beni immobili di proprietà degli enti territoriali. Comuni, Province, Città metropolitane e ogni altro ente territoriale (ma anche le Regioni) potranno decidere di dismettere propri beni e affidare la vendita all'agenzia del Demanio che, previa autorizzazione ministeriale, procederà con trattativa privata. Secondo la procedura delineata dal legislatore:
- gli enti territoriali dovranno individuare i beni che intendono dismettere con propria delibera;
- la delibera, oltre ad individuare i beni, conferirà mandato al ministero dell'Economia di procedere secondo l'articolo 11-quinquies, primo comma, del Dl 203/2005;
- il Ministero potrà inserire i beni individuati dagli enti territoriali nel proprio decreto dirigenziale di autorizzazione dell'agenzia del Demanio a vendere.
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Urbanistica. L'ostacolo principale alle valorizzazioni.
Resta il nodo del cambio d'uso.

La valorizzazione degli immobili pubblici, intesa nel senso della loro cessione per ottenerne il controvalore in denaro, passa attraverso tre elementi essenziali: la procedura di vendita del bene, la destinazione d'uso dell'immobile, la verifica della sua conformità edilizia. L'articolo 3 del Dl 133/2013, convertito nella legge 5/2014, opera su tutti e tre questi elementi per agevolare la dismissione del patrimonio pubblico gestito dall'agenzia del Demanio.
Sotto il profilo procedurale, la disposizione del 2005 che già prevedeva la vendita a trattativa privata da parte dell'Agenzia viene estesa anche agli enti territoriali che, quindi, ora potranno conferire mandato al ministero dell'Economia per inserire i beni immobili individuati con delibera dagli stessi enti nei propri decreti di autorizzazione a vendere. Per trattativa privata si intende la negoziazione diretta tra i soggetti interessati sulle condizioni e le clausole pattizie che regoleranno il futuro contratto di vendita.
Rispetto alla destinazione d'uso, la norma chiarisce che i beni oggetto di alienazione dovranno avere uso «non prevalentemente abitativo». La norma così non affronta il vero tema delle modalità procedurali necessarie per cambiare la destinazione d'uso del patrimonio pubblico, la cui valorizzazione mediante dismissione richiede spesso l'abbandono delle funzioni pubblicistiche verso usi pienamente privati. Non bisogna dimenticare, infatti, che gli uffici pubblici sono spesso considerati dai piani regolatori come immobili a servizio pubblico (standard urbanistici), con la conseguenza che la loro vendita per un utilizzo a servizi pienamente privati impone una variante allo strumento urbanistico, oltre alla corresponsione del controvalore della quota di standard persi.
Infine, rispetto al condono edilizio, va detto che molte procedure di dismissione del patrimonio pubblico prevedevano a valle dell'acquisto la possibilità di sanare gli abusi edilizi che distinguono (anche) gli immobili della Pa. Al riguardo è possibile fare l'esempio del comma 19 dell'articolo 3 del Dl 151/2001, che consente di presentare la domanda di sanatoria per le opere abusive presenti nei beni acquistati dai privati da società di cartolarizzazione o da fondi di investimento. Da tale possibilità erano escluse le vendite effettuate attraverso la trattativa privata che ora viene così potenziata
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.02.2014).

INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocati, parcelle senza segreti. Il cliente deve conoscere tempi e costi della controversia. Gli adempimenti previsti dal codice deontologico forense, approvato dal Cnf.
Rapporti in chiaro tra avvocato e cliente. All'atto del conferimento dell'incarico al legale, infatti, la parte assistita deve contestualmente essere informata: della complessità e delle ipotesi di soluzione della controversia, della durata del processo e degli oneri preventivabili, che il cliente può richiedere siano messi per iscritto. Da controllare, anche, che l'avvocato renda noti gli estremi della polizza assicurativa ed emetta fattura fiscale per ogni pagamento avvenuto.
Sono alcune delle regole che disciplinano il rapporto tra avvocato e cliente contenute nel nuovo codice deontologico forense, approvato dal Cnf (si veda ItaliaOggi del 5 febbraio scorso), che stringe anche le maglie su adempimenti contributivi e pratiche scorrette per attirare clienti.
Il rapporto avvocato-cliente. Una delle parti più importanti del nuovo codice deontologico forense riguarda il rapporto tra l'avvocato e il cliente, dove sono indicati quali sono i diritti della parte assistita. Che deve essere informata, all'atto dell'assunzione dell'incarico da parte dell'avvocato, delle caratteristiche e dell'importanza della controversia e delle attività da espletare, con precisazione delle iniziative e delle ipotesi di soluzione.
L'avvocato deve informare il cliente anche sulla prevedibile durata del processo e sugli oneri ipotizzabili, e, su richiesta, comunicare in forma scritta, a colui che conferisce l'incarico professionale, il prevedibile costo della prestazione. Deve poi mettere per iscritto la possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione previsto dalla legge e, ove ne ricorrano le condizioni, all'atto del conferimento dell'incarico, deve informare la parte assistita della possibilità di avvalersi del patrocinio a spese dello stato. Ancora, l'avvocato deve rendere noti al cliente gli estremi della propria polizza assicurativa.
Ogni volta ne venga richiesto, è anche tenuto a informare la parte assistita sullo svolgimento del mandato a lui affidato, e deve fornire loro copia di tutti gli atti e documenti, anche provenienti da terzi, concernenti l'oggetto del mandato e l'esecuzione dello stesso sia in sede stragiudiziale che giudiziale. L'avvocato deve infine comunicare al cliente la necessità del compimento di atti necessari a evitare prescrizioni, decadenze o altri effetti pregiudizievoli relativamente agli incarichi in corso.
Adempimenti e paletti. Oltre ai numerosi obblighi informativi dell'avvocato nei confronti del cliente, il nuovo codice detta le regole per esercitare la professione forense: dagli adempimenti fiscali, previdenziali, assicurativi, contributivi. Ai divieti di stringere patti di quota lite, di pubblicità comparativa, di siti web con banner pubblicitari, di accaparrarsi la clientela o esercitare la professione in luoghi pubblici. Stringendo così il cerchio sui tanti avvocati che, complice la crisi e la «proletarizzazione» della professione, non riescono a pagare i contributi o le provano tutte pur di conquistare qualche cliente in più.
La corretta informazione sulla propria attività professionale consiste nel rispetto dei doveri di verità, correttezza, trasparenza, segretezza e riservatezza, con riferimenti alla natura e ai limiti dell'obbligazione professionale. L'avvocato, inoltre, non deve dare informazioni comparative rispetto ad altri professionisti né equivoche, ingannevoli, denigratorie, suggestive o che contengano riferimenti a titoli, funzioni o incarichi non inerenti l'attività professionale.
Regole stringenti anche per la pubblicità e l'uso del web: l'avvocato può utilizzare, a fini informativi, esclusivamente i siti con domini propri senza reindirizzamento, direttamente riconducibili a sé, allo studio legale associato o alla società di avvocati alla quale partecipi, previa comunicazione al Consiglio dell'ordine di appartenenza della forma e del contenuto del sito stesso. Che, inoltre, non può contenere riferimenti commerciali o pubblicitari sia mediante l'indicazione diretta sia mediante strumenti di collegamento interni o esterni. Le informazioni diffuse pubblicamente con qualunque mezzo, anche informatico, devono inoltre essere trasparenti, veritiere, corrette, non equivoche, non ingannevoli, non denigratorie o suggestive e non comparative (articolo ItaliaOggi Sette del 10.02.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Stretta sull’incendio dei rifiuti. Obbligo di risarcimento del danno ambientale per tutti. Dalla Legge di conversione del dl emergenze ambientali. Sanzioni 231 per le aziende.
Sanzioni interdittive per le imprese coinvolte nella combustione illecita di rifiuti e aumento della pena detentiva per i relativi titolari cui il reato sia riconducibile anche a mero titolo di omessa vigilanza. E obbligo di risarcimento del danno ambientale per chiunque, anche al di fuori di attività professionale, comprometta l’ecosistema.
Esce così inasprito dall’ultimo e definitivo passaggio parlamentare della relativa legge di conversione il nuovo delitto di incendio non autorizzato di rifiuti introdotto dal dl 136/2013 sulle «emergenze  ambientali» (altrimenti detto «decreto Terra dei fuochi»).
La legge di conversione approvata in via definitiva il  05.02.2014 dal senato conferma l’impianto dell’illecito introdotto nel «Codice Ambientale» dall’originario decreto legge allargandone al contempo sia il campo di applicazione sia l’apparato sanzionatorio.
Condotta punibile più ampia. Alla luce della legge di conversione del dl 136/2013 il precetto del nuovo articolo 256-bis del dlgs 152/2006 (c.d. «Codice ambientale») appare del seguente tenore: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque appicca il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata è punito (…)».
Non è più dunque necessario che l’incendio sia effettuato in «aree non autorizzate». Sparendo dalla disposizione originaria tale riferimento, per l’integrazione del reato dal punto di vista  oggettivo è infatti sufficiente appiccare ... (articolo ItaliaOggi Sette del 10.02.2014).

APPALTI: Via libera al Durc per i creditori della p.a.. L'Inps ha spiegato le modalità per il rilascio del documento.
Con la circolare 30.01.2014 n. 164, sono state previste le modalità per il rilascio del documento unico di regolarità contributiva (c.d. Durc), che può essere consegnato al richiedente in presenza di certificazione dei crediti certi, liquidi ed esigibili, vantati nei confronti delle pubbliche amministrazioni ed emessa tramite la «Piattaforma per la certificazione dei crediti».
Come è noto, il problema della riscossione dei crediti che i soggetti privati vantano nei confronti della pubblica amministrazione, ha trovato la modalità di attuazione dell'art. 13-bis, comma 5, del dl 07/05/2012, n. 52 convertito, con modificazioni, dalla legge 6/7/2012, n. 94. Successivamente sono stati emanati alcuni decreti ministeriali di attuazione per consentire l'ottenimento della certificazione.
Il suddetto comma 5 prevede che il ... (articolo ItaliaOggi del 07.02.2014 - tratto da www.cenctrostudicni.it).

GIURISPRUDENZA

PUBBLICO IMPIEGOLo «zelo» pagato è corruzione. L'attenzione esclusiva limita l'imparzialità del pubblico ufficiale. Giustizia. Il comportamento di un geometra sanzionato dalla Cassazione per atti contrari ai doveri d'ufficio.
Il geometra che accetta denaro per seguire con particolare "scrupolo" le pratiche del palazzinaro viene meno ai suoi doveri di imparzialità e merita la condanna per il reato di corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio. La condotta non ricade, come voleva il ricorrente, nell'ipotesi meno grave della corruzione per l'esercizio della funzione.

La Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 28.02.2014 n. 9883, torna sull'applicazione della legge Severino (190/2012) nel decidere sul ricorso di un geometra comunale troppo sollecito nei confronti di un imprenditore.
Il professionista aveva fatto in modo che venisse "corretta", nella data e nei contenuti , una perizia che apriva la strada ad un permesso di lottizzazione.
E il costruttore aveva ricambiato tanta solerzia con regalie in denaro e una ristrutturazione della casa del tecnico compiacente.
La difesa minimizza, affermando che si era trattato di semplici ricompense per la speciale attenzione riservata agli affari dell'imprenditore. La Cassazione, pur ritenendo difficilmente inquadrabili tra i doveri d'ufficio le condotte contestate, coglie l'occasione per chiarire che in base a una corretta interpretazione della legge Severino, «anche la patente violazione del dovere di imparzialità e terzietà del pubblico ufficiale, vale a iscrivere la sua condotta nell'area di antidoverosità apprezzabile in base all'articolo 319 del codice penale».
Il pubblico ufficiale che accetta di farsi iscrivere nel libro paga del privato non può invocare il trattamento previsto per chi si fa corrompere per esercitare le sue funzioni (articolo 318 del codice penale). Mettersi al servizio del corruttore, anche se per il compimento di atti conformi alle proprie funzioni, è comunque una patente violazione dei canoni di fedeltà e di imparzialità non il linea con lo statuto deontologico del pubblico funzionario, «atteso che il criterio distintivo tra corruzione propria e corruzione impropria non è dato dalla mera legittimità o meno dell'atto o delle attività compiuti, ma dalle modalità e dagli scopi sottostanti o strumentali con cui l'uno o le altre sono in concreto realizzati».
La Cassazione ammette che il titolo dell'articolo 318 del codice penale (Corruzione per l'esercizio della funzione), facendo un generico riferimento, con la preposizione finalistica "per", all'esercizio delle proprie funzioni, «non consente una immediata decifrabilità delle concrete forme o espressioni che il mercimonio di funzioni e poteri possa assumere in concreto». Ma ritiene che la chiave di lettura sia da ricercare nella ratio della norma.
Secondo la Suprema corte sarebbe, infatti, molto strano che la legge 190/2012, la quale si pone l'obiettivo di armonizzare le sanzioni per arginare il fenomeno sempre più diffuso della corruzione, "scivolasse" proprio sulla buccia di banana della proproporzionalità della pena: «sarebbe ben singolare che la normativa offra il fianco a possibili rilievi in termini di graduazione dell'offensività, di ragionevolezza (articolo 3 della Costituzione) e di proporzionalità della pena (articolo 27 della Costituzione)
».
Rilievi possibili se passasse la tesi del ricorrente, in base alla quale un pubblico ufficiale che venda un permesso di accesso alla Ztl non consentito per una volta nella sua carriera, potrebbe essere punito con una pena da quattro a otto anni (articolo 319), mentre un funzionario che si ponga in maniera compiacente al servizio del privato corruttore dovrebbe essere punito con la pena più mite prevista dall'articolo 318 (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.03.2014).

EDILIZIA PRIVATALeasing, può scattare la malafede.
Nel caso del contratto di leasing, l'utilizzatore può essere chiamato a rispondere per responsabilità precontrattuale, in relazione agli atti che ha il potere di compiere per effetto del contratto stesso.

Lo dice la III Sez. civile della Corte di Cassazione (sentenza 13.02.2014 n. 3362).
Il contratto di leasing traslativo sottende un'operazione avente il fine di attuare un acquisto dell'utilizzatore e una mera operazione di finanziamento da parte del concedente. Sarà l'utilizzatore a scegliere presso il terzo venditore (non presso il concedente) il bene oggetto di leasing, in termini conformi alle sue peculiari esigenze, quanto, invece, al concedente, questi si limiterà a fornire i mezzi economici per il pagamento del prezzo, erogando la somma necessaria, che verrà restituita -con l'aggiunta di interessi, spese e utile dell'operazione- ratealmente e tramite l'esercizio finale dell'opzione di acquisto.
A rendere necessitato il positivo esercizio dell'opzione dell'utilizzatore circa l'acquisto finale del bene è lo stesso contenuto economico dell'operazione, per cui, osservano gli Ermellini: «I canoni periodici da corrispondere al concedente comprendono ben più che il mero corrispettivo del godimento, essendo in essi inclusa una frazione della somma da restituire quale importo del finanziamento, dei relativi interessi, spese e utili dell'operazione; ragion per cui, al termine del rapporto, il bene risulta quasi interamente pagato e il corrispettivo dell'opzione è normalmente di importo irrisorio rispetto al valore del bene».
Secondo gli stessi giudici nei contratti di leasing traslativo i poteri dell'utilizzatore sono talmente ampi «da poter essere assimilati a una sorta di dominio utile, tale da rendere inaccettabile, perché non conforme alla natura del contratto e della sottostante operazione economica, il principio per cui l'utilizzatore non potrebbe essere chiamato a rispondere per responsabilità precontrattuale (come anche per responsabilità contrattuale) in relazione agli atti che ha il potere di compiere per effetto del contratto di leasing».
Pertanto, la formale intestazione della proprietà al concedente ha funzione di garanzia della restituzione del finanziamento e va a configurare una sorta di proprietà fiduciaria in funzione di garanzia, che si contrappone al vero e proprio dominio utile, spettante all'utilizzatore.
La Corte ha, poi, osservato che l'utilizzatore consegue, dal canto suo, tutti i poteri di amministrazione ordinaria e straordinaria; il pieno godimento del bene, con poteri più ampi di quelli che spettano all'usufruttuario: «non essendo soggetto al limite di mantenere inalterata la consistenza e la destinazione economica del bene, di cui all'art. 981 cc -di cui potrebbe essere chiamato a rispondere solo nella situazione patologica in cui il rapporto si sciolga prima del termine per suo inadempimento all'obbligo di pagare i canoni di leasing- e assumendo rischi e responsabilità simili a quelle che gravano sul proprietario pieno» (articolo ItaliaOggi Sette del 24.02.2014).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTILa villa è «di lusso» se lo dice il Prg. Conta la destinazione urbanistica dell'area come definita prima della costruzione. Giustizia. La Corte di cassazione interviene sui requisiti per l'ottenimento dei benefici fiscali sulla compravendita.
La prima casa "di lusso" non può diventarlo dopo la costruzione. Se lo strumento urbanistico, all'atto della costruzione dell'edificio, non prevedeva che l'area fosse destinata a "villa", l'edificio non può essere considerata di lusso.
Questo, in sostanza, il principio affermato dalla Corte di Cassazione con la ordinanza 11.02.2014 n. 3080.
La questione è arrivata in Cassazione dopo che l'agenzia delle Entrate aveva perso in appello con il contribuente sulla liquidazione delle maggiori imposte di registro, chieste dopo aver accertato che l'abitazione, comprata nel 2005 con le agevolazioni fiscali per la prima casa, si trovava in una zona che il piano regolatore aveva destinato a villa o parco privato. Il contenzioso era iniziato nel 2008, con una sentenza 80/1/2008 della Commissione tributaria provinciale di Livorno che aveva dato ragione al contribuente ed era proseguito con la sentenza 59/10/11, depositata il 21.04.2011, della Commissione tributaria regionale della Toscana, che a sua volta aveva bocciato le richieste dell'agenzia delle Entrate.
Ricordiamo che la differenza a carico del contribuente non è di poco conto: si tratta di versare la differenza tra un importo pagato, pari al 4% del valore fiscale dell'immobile come imposta di registro più (all'epoca) 336 euro complessive e fisse per le imposte ipotecaria e catastale, e le imposte piene, pari al 10% complessivo del valore fiscale. Inoltre, scatta una sanzione del 30% dell'imposte complessivamente dovuta.
Premesso quindi che l'articolo 1 del Dm dell'08.08.1969 (quello cui si fa riferimento per individuare le abitazioni "di lusso" escluse dai benefici prima casa) stabilisce che le costruzioni considerate "di lusso" nelle aree destinate a villa o parco privato dagli strumenti urbanistici sono tali proprio per la destinazione dell'area e non per le loro caratteristiche intrinseche, in questo caso si era trattato di una modifica al Prg intervenuta nel 1999, ben dopo l'ultimazione della costruzione nel 1990: «È tuttavia evidente -ha affermato la Suprema Corte- come l'adozione o l'approvazione di uno strumento urbanistico che destini l'area a villa o parco privato debba precedere la costruzione dell'immobile; e ciò in quanto si presuppone che la costruzione realizzata in area destinata a villa o a parco privato corrisponda tipologicamente al tipo di abitazione che su quell'area può essere realizzato - villa o parco privato. Diviene pertanto irrilevante per la qualificazione dell'abitazione come "di lusso" l'adozione di uno strumento urbanistico che destini l'area a "villa" o "parco privato" successivamente alla realizzazione della costruzione stessa».
Quindi, per la Cassazione, anche se l'acquisto oggetto di revoca dei benefici era intervenuto dopo la variazione (nel 2005), è proprio la data di costruzione che fa fede. E ha respinto il ricorso dell'agenzia, confermando i benefici al contribuente acquirente
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.02.2014).

ENTI LOCALI - VARIRischio multa per chi espone la frutta. Alimenti. Per la Cassazione è punibile con l'ammenda il commerciante che vende la sua merce all'aperto.
Esporre la frutta sul banco all'aperto è un reato punibile con l'ammenda.

La Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.02.2014 n. 6108, mette "fuori legge" l'abitudine più che consolidata, a qualunque latitudine, di vendere frutta e verdura mettendola in mostra su un carrettino o, come nel caso esaminato, sulle cassette all'esterno del negozio. Un uso che, secondo la Suprema corte, contrasta con quanto previsto dalla normativa (legge 282/1962, articolo 5, lettera b) che vieta di mettere in commercio alimenti «insudiciati, invasi da parassiti, in stato di alterazione o comunque nocivi, ovvero sottoposti a lavorazioni o trattamenti diretti a mascherare un preesistente stato di alterazione». Certo la norma, anche perché è del 1962, di smog non parla. Se ne preoccupano però i giudici della terza sezione penale che fanno rientrare l'esposizione agli agenti inquinanti tra le condotte vietate.
Il fruttivendolo, che teneva la sua frutta in tre cassette en plein air, era stato condannato dal Tribunale di Nola, per la vendita di merce in cattivo stato di conservazione. Un reato che scatta, come spiega la Suprema corte, anche se la merce non è avariata. L'ordine alimentare impone, infatti, che vengano osservate le norme igieniche nel trattare i cibi destinati alla tavola del consumatore. Obbligo non rispettato quando si lasciano mele e pere «a contatto con agli agenti atmosferici e i gas di scarico dei veicoli in transito».
Il pericolo del danno si vede a "occhio", non serve fare esami di laboratorio: «L'accertamento da parte della polizia giudiziaria risulta del tutto sufficiente a giustificare l'affermazione di penale responsabilità, evidenziando una situazione di fatto certamente rilevante e la cui sussistenza risulta peraltro confermata dallo stesso ricorrente, il quale riconosce che la verdura era esposta per la vendita sul marciapiede antistante l'esercizio commerciale».
In difesa del verduraio scende in campo la Coldiretti, che vede nella sentenza della Cassazione un regalo alla grande distribuzione. L'invito è a togliere dalle strade non le cassette di frutta ma lo smog e a non decretare la fine del piccolo commercio: «C'è il rischio di accelerare nei centri urbani la chiusura dei piccoli negozi alimentari che hanno avuto un calo record delle vendite del 3% nel 2013». Per Coldiretti la decisione è un colpo a un settore già in crisi: «Gli acquisti di frutta e verdura degli italiani nel 2013 sono crollati al minimo da inizio secolo, le famiglie hanno messo oltre 100 chili di ortofrutta in meno nel carrello, rispetto al 2000»
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.02.2014).

INCARICHI PROFESSIONALIParcelle sotto il minimo. Se la causa risulta di facile trattazione. CASSAZIONE/ Il giudice deve adeguatamente motivare la scelta
Liquidazione delle spese di lite: quando la causa risulta di facile trattazione (non presenta, cioè, elementi di difficoltà tale né esplicita né implicita) il giudice può deliberare importi inferiori al minimo tariffario per il legale, sempre che la riduzione non sia inferiore alla metà (ex art. 4, legge n. 794/1942) e la decisione venga adeguatamente motivata.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. III civile, nella sentenza 29.01.2014 n. 1972.
Secondo i giudici della III Sezione civile quando, come nel caso di specie, la controversia ha «ad oggetto una fattispecie tipicamente seriale, che non presenta alcuna difficoltà né teorica, né pratica», il giudice di merito in sede di liquidazione delle spese di lite deve attenersi ad «alcuni generali principi e regole operative», quali quelle contenute nell'art. 75 disp. att. c.p.c., integrato con l'art. 60 rdl 27/11/1933, n. 1578 (convertito, con modificazioni, nella legge 22.01.1934, n. 36), recante l'ordinamento della professione di avvocato, applicabile ratione temporis ai sensi dell'art. 1, comma 1, dlgs 01/12/2009, n. 179.
La controversia sulla quale era stato chiamato ad intervenire il collegio giudicante aveva ad oggetto il risarcimento del danno da circolazione stradale, materia sulla quale esistono orientamenti giurisprudenziali sostanzialmente concordanti: più precisamente, una donna era rimasta coinvolta in un sinistro stradale causato dal «difettoso funzionamento di un semaforo, il quale proiettava contemporaneamente luce verde in due direzioni tra loro ortogonali, creando così una insidia per gli automobilisti». In primo grado, la domanda di parte attrice veniva accolta; in appello, viceversa, riformata, in quanto il tribunale aveva ridotto sia il risarcimento accordato che le spese di soccombenza.
Anche in Cassazione i giudici di legittimità, decidendo nel merito, hanno ridotto le spese di liquidazione rammentando come «lo iato tra petitum e decisum può costituire un valido motivo per la compensazione delle spese, in base alla massima d'esperienza secondo cui meno esose pretese del creditore favoriscono di norma l'adempimento spontaneo del debitore, e di conseguenza evitano la necessità della lite» (articolo ItaliaOggi Sette del 17.02.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Stoppata la mega antenna appiccicata alla scuola.
Stop alla mega antenna per cellulari troppo vicina alle scuole: la spuntano due condomini che fanno annullare il silenzio-assenso di Roma Capitale all'installazione della stazione radio-base per i telefoni, intervenuta senza che al procedimento autorizzatorio prendesse parte il municipio interessato, mentre la presenza è prevista dal protocollo d'intesa siglato fra il comune e gli operatori delle telecomunicazioni.

È quanto emerge dalla sentenza 27.01.2014 n. 1021 pubblicata dalla Sez. II-bis del TAR Lazio-Roma.
Accolto il ricorso dei residenti nella zona fra Casilina e Tuscolana per l'impianto autorizzato sotto la distanza minima da istituti scolastici prevista dal codice delle comunicazioni oltre che dallo stesso accordo intervenuto fra l'amministrazione e i gestori telefonici: in particolare il ripetitore risulta posizionato a meno di 40 metri dalla scuola materna e a circa 85 da un istituto comprensivo, medio ed elementare. Le carte risultano inviate a una circoscrizione diversa da quella interessata dal progetto (nella Capitale si chiamano municipi) e nella mappa della zona gli istituti frequentati dai bambini non sono segnalati.
Risultato: dall'iter che ha fatto avere il nulla osta al big della telefonia sono rimasti fuori i rappresentanti di quartiere. E non conta che il municipio non abbia svolto rilievi tali da bloccare il progetto dopo essere venuto a conoscenza del progetto: la comunicazione non vale come sanatoria e il silenzio-assenso non può formarsi quando manca un parere necessario o, come nella specie, una fase istruttoria propedeutica sia addirittura saltata.
Inutile per l'operatore della categoria tentare di mettere in discussione i paletti sulle distanze minime degli impianti rispetto a siti sensibili come le scuole. Non convince la tesi del gruppo imprenditoriale secondo cui la distanza minima di 100 metri prevista dal protocollo d'intesa con Roma Capitale sarebbe applicabile soltanto ai ripetitori installati su edifici di proprietà comunale e non anche a quelli da installare su fabbricati di proprietà privata: non c'è ragione di fare distinzioni fra gli immobili. Dunque: atti annullati e spese di giudizio compensate (articolo ItaliaOggi del 27.02.2014).

CONDOMINIOTerrazze, più equità nelle spese. I proprietari pagano in base ai metri quadrati coperti. Sentenza della Cassazione sulla ripartizione dei costi di ricostruzione dei lastrici solari.
Maggiore equità nella suddivisione delle spese di riparazione o ricostruzione del lastrico solare.
Secondo la sentenza 23.01.2014 n. 1451 della Corte di Cassazione, Sez. II civile, gli appartamenti sottostanti devono contribuire nei due terzi delle spese di cui all'art. 1126 c.c. sulla base dei metri quadrati che risultano effettivamente coperti e non per l'intero valore millesimale attribuito all'unità immobiliare.
Secondo il codice civile quando l'uso dei lastrici solari non è comune a tutti i condomini, quelli che ne hanno l'uso o la proprietà esclusivi sono, infatti, tenuti a contribuire per un terzo nelle predette spese, mentre gli altri due terzi sono a carico di tutti gli altri proprietari delle unità sottostanti. Quanto sopra vale anche per la cosiddetta terrazza a livello (di proprietà o uso esclusivo del proprietario dell'ultimo piano) che svolge la stessa funzione di copertura. In ogni caso rimangono a carico del proprietario le spese attinenti alle parti che non svolgono funzione di copertura (si pensi alla manutenzione dei parapetti, alle ringhiere ecc.).
La ripartizione della parte di spesa di 1/3. La ripartizione della spesa di un terzo non presenta particolare difficoltà. Tuttavia nel caso in cui il lastrico sia comune a due o più condomini la quota andrà divisa sulla base delle relative percentuali di comproprietà o uso esclusivo.
La ripartizione della parte di spesa di 2/3: i soggetti interessati. L'obbligo di pagare le spese dei due terzi del lastrico non deriva dalla sola generica qualità di condomino, ma anche dal fatto di essere proprietario di una unità immobiliare compresa nella colonna d'aria sottostante a esso.
Il criterio della doppia contribuzione. Può capitare che il condomino che ha l'uso esclusivo del lastrico solare sia contemporaneamente proprietario di un appartamento sottostante o di una parte di esso (se, come nel caso risolto dalla Cassazione, sia a due livelli): in tal caso questi è soggetto alla cosiddetta doppia contribuzione. In pratica sarà tenuto al pagamento per intero della quota di 1/3, nonché di una quota aggiuntiva dei 2/3.
Il problema degli appartamenti parzialmente coperti: la ripartizione per millesimi. È anche possibile che tra gli appartamenti sottostanti al lastrico ve ne sia qualcuno coperto solo in parte. Tuttavia, secondo alcuni precedenti giurisprudenziali, l'art. 1126 c.c. farebbe riferimento alla porzione di piano intesa non come parte della proprietà, ma come intera unità immobiliare (anche perché detta disposizione non distingue in alcun modo tra immobili totalmente e parzialmente coperti dal lastrico). Secondo questa interpretazione sarebbe quindi sufficiente che si trovi sotto il lastrico solare anche una piccola parte di un appartamento perché il proprietario debba concorrere alla ripartizione dei 2/3 delle spese con tutti i millesimi attribuiti alla relativa unità immobiliare (tra le altre, Trib. Pescara 05/10/2006).
Appartamenti parzialmente coperti: la ripartizione in base ai millesimi di proprietà effettivamente interessati dalla copertura. In questi casi, tuttavia, come sostenuto anche dalla Cassazione, sembra maggiormente equo procedere a una ripartizione basata sulle effettive quote millesimali delle porzioni di piano coperte, quindi opportunamente rapportata (ovvero ridotta) alla quantità di superficie dell'unità immobiliare posta realmente al di sotto del lastrico.
In altre parole il criterio più idoneo per suddividere questo tipo di oneri sarebbe quello di rapportarli all'utilità che ogni proprietario trae dalla funzione di copertura del lastrico: le unità immobiliari coperte solo in parte non dovranno partecipare alla ripartizione della spesa sulla base di tutti i millesimi di competenza, ma solo con una parte determinata tenendo conto dei metri quadrati coperti (trib. Milano 07/11/1994) (articolo ItaliaOggi Sette del 17.02.2014).

APPALTI: Non basta l'antimafia per sciogliere l'associazione d'impresa. Ati con boss in terra di gomorra, sentenza del Tar Campania.
Associazione temporanea sì, cointeressenza economica (forse) no. Non basta l'interdittiva antimafia atipica del prefetto a far scattare la rescissione del contratto di affidamento dei lavori all'impresa che, in terra di Gomorra, è stata in Ati con una società in odore di camorra e con una persona poi arrestata per associazione mafiosa: la nota dell'ufficio territoriale del governo costituisce soltanto un punto di partenza e non uno sviluppo investigativo. E l'esclusione dall'appalto non si può basare sulla base di soli sospetti, per quanto legittimi in una molto zona difficile per l'edilizia come quella fra Napoli e Caserta.

È quanto emerge dalla sentenza 23.01.2014 n. 487 del TAR Campania-Napoli, Sez. I.
Elementi insufficienti. Accolto il ricorso della società difesa dall'avvocato Renato Labriola. Non bastano gli elementi raccolti dalla prefettura, che pure nell'interdittiva antimafia atipica ha potere di svolgere autonome indagini. La mera partecipazione alle gare pubbliche in formazioni soggettivamente complesse come l'Ati -osservano i giudici- non costituisce di per sé indice di permeabilità mafiosa: la circostanza deve essere corroborata da altri elementi che indicano un legame sospetto fra l'impresa pulita e quella già nota alle forze dell'ordine.
Insomma: bisogna dimostrare la cointeressenza economica fra le varie società nominate nel provvedimento interdittivo. È peraltro lo stesso articolo 37 del codice dei contratti pubblici a stabilire che in caso di inibitoria emanata nei confronti dell'azienda mandante, la società mandataria può ben continuare a eseguire l'appalto, previa estromissione dall'altra. L'interdittiva atipica, poi, risulta liberamente valutabile dalla stazione appaltante, che nella pratica però difficilmente evita di prendere provvedimenti contro l'impresa segnalata.
Le notizie segnalate dalla prefettura sulle due compartecipazioni contestate, però, non sono sufficienti a stabilire che è in corso un'infiltrazione mafiosa perché non provano che vi sia un clan in grado di dirigere le scelte dell'azienda: costituiscono solo un «elemento isolato» che avrebbe richiesto «più robuste emergenze di indagine». Spese compensate, contributo unificato a carico dell'ente appaltante (articolo ItaliaOggi del 25.02.2014).

APPALTIResponsabili. Requisiti morali.
In un appalto pubblico di servizi il responsabile tecnico dell'impresa deve dichiarare a pena di esclusione il possesso dei requisiti generali, anche di moralità professionale, laddove la disciplina di settore associ a tale figura particolari responsabilità e funzioni.

Lo afferma il TAR Lazio-Roma con sentenza 22.01.2014 n. 828 della Sez. III-quater che ha preso in esame una fattispecie relativa a un appalto di servizi, settore in cui, generalmente, non è previsto l'obbligo di un «direttore tecnico» tenuto a dichiarare il possesso dei requisiti cosiddetti di ordine generale per l'ammissione alla gara.
La norma del codice (art. 38) prevede l'obbligo per gli amministratori muniti di poteri di rappresentanza e per il direttore tecnico (figura prevista nel settore dei lavori per le imprese di costruzioni e nel settore dei servizi di ingegneria e architettura per le società di ingegneria).
In base al tenore letterale della norma, quindi, il Responsabile tecnico di una impresa operante nel settore dei servizi non sarebbe tenuto a rilasciare le dichiarazioni dal momento che verrebbe ritenuto -dall'art. 38- un soggetto privo di qualunque significativo ruolo decisionale e gestionale. Il Tar del Lazio, però offre una lettura estensiva della norma partendo dalla considerazione che la figura del responsabile tecnico, soprattutto in strutture che operano in un settore di attività in cui la relativa normativa attribuisce una funzione centrale ai compiti tecnico-organizzativi affidati a tale figura, deve nella sostanza essere equiparato alla figura del direttore tecnico di una impresa di costruzioni o di una società di ingegneria.
La sentenza richiama anche un caso normativamente previsto come è quello della disciplina in tema di smaltimento dei rifiuti in cui viene prevista come obbligatoria la figura del responsabile tecnico (o del legale rappresentante) nella persona di un soggetto in possesso di precisi requisiti professionali e tecnici che la stessa disciplina dettaglia in concreto.
Pertanto in questi casi (cioè quando al responsabile tecnico la normativa settoriale assegna responsabilità e funzioni particolari) è necessario che in sede di gare anche il responsabile tecnico dichiari il possesso dei requisiti di ordine generale (assenza di condanne, moralità professionale ecc.) (articolo ItaliaOggi del 20.02.2014).

SICUREZZA LAVOROAppalti senza valutazione rischi. Il Duvri è superfluo nelle gare per servizi e forniture. Il Consiglio di stato corregge il tiro della giurisprudenza di merito, molto più restrittiva.
Non è sempre necessario il Documento di valutazione dei rischi interferenti (Duvri) nelle procedure di gara per l'affidamento di servizi e forniture.

Lo chiarisce la sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.01.2014 n. 330, che corregge il tiro della giurisprudenza di primo grado e di alcune teorie, secondo le quali l'obbligo di predisporre il Duvri scatterebbe sempre e comunque, per qualsiasi procedura d'appalto.
I giudici di palazzo Spada contestano radicalmente l'assunto.
Occasione ne è stata una controversia relativa ad un appalto di servizio di mediazione culturale, per il quale l'amministrazione appaltante non aveva previsto, nel bando e capitolato, alcuna norma relativa all'eventuale sussistenza e quantificazione degli oneri per la sicurezza dei lavoratori, astenendosi anche da valutare i rischi di interferenze nello svolgimento delle attività dell'aggiudicatario. Ciò in considerazione della natura prevalentemente intellettuale della prestazione richiesta ai mediatori culturali e, ancora, della circostanza che l'appalto non chiedeva lo svolgimento di nessuna attività al di fuori della sede di lavoro della aggiudicataria o comunque presso le sedi della stazione appaltante. Il che escludeva in radice la possibilità di «interferenze» fisiche tra lavoratori.
Secondo il Consiglio di stato, in presenza di servizi caratterizzati da prestazioni prevalentemente intellettuali e di una oggettiva impossibilità di interferenze con il lavoro dei dipendenti della stazione appaltante, le regole speciali di tutela dei lavoratori previste dall'ordinamento non debbono essere applicate. Il Duvri, ai sensi dell'articolo 26 del dlgs 81/2008, ha lo scopo di evidenziare le misure di sicurezza necessarie per ridurre il rischio che attività lavorative svolte nella sede della stazione appaltante si «incastrino» con i lavori svolti dall'appaltatore, esponendo lavoratori ai rischi propri delle lavorazioni dell'appaltatore.
È piuttosto evidente che se, per un verso, l'attività dell'appaltatore è esente da rischi, in quanto prevalentemente di natura intellettuale; e, per altro verso, non viene svolta nelle sedi di potenziale interferenza, la redazione del Duvri non avrebbe alcuna utilità.
Nel caso di specie, Palazzo Spada ha ritenuto non dimostrata la presenza di fattori di rischio, tali da imporre una regolamentazione particolare dei profili di sicurezza connessi al servizio di mediazione culturale.
La sentenza della sezione V ricorda anche l'illegittimità di clausole di gara poste per imporre ai concorrenti di specificare nelle offerte la consistenza degli oneri per la sicurezza «in assenza conclamata di rischi», perché ciò lederebbe i principio di razionalità nella conduzione degli appalti e il favore per la partecipazione. Dunque, apparirebbe «assolutamente meccanicistico e del tutto non pertinente con gli interessi sostanziali dell'Amministrazione» appaltante prevedere negli atti di gara da un lato il Duvri, dall'altro la valutazione dei rischi, se per la prestazione contrattuale richiesta non risultino evidenze di rischi connessi all'attività lavorativa (articolo ItaliaOggi del 28.02.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAccesso agli atti, non basta verificare il buon andamento della pa. Respinta la richiesta di una visione ampia dei documenti.
Occorre possedere una propria situazione giuridica attiva effettivamente o possibilmente lesa per accedere agli atti della scuola, non basta il principio del buon andamento dell'attività amministrativa ed un ipotetico fine difensivo. Nonostante sia un fondamento di natura costituzionale (art. 97) detto principio si esplicita e trova concreta attuazione solo nel caso in cui il singolo abbia un interesse specifico sul caso trattato.

Sulla base di questa considerazione si è mosso il tribunale amministrativo della Calabria che ha accolto parzialmente un ricorso di un docente che chiedeva accesso a numerosi atti della scuola, tra i quali i verbali di dipartimento, i corsi di aggiornamento professionale, lo stato di servizio, i verbali dei consigli di classe, gli atti del consiglio di istituto ed altri.
La sentenza 16.01.2014 n. 90 è del TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II.
In linea generale, la giurisprudenza ha ribadito che il diritto di accesso ai documenti amministrativi, introdotto dalla legge 07.08.1990 n. 241, costituisce un principio generale dell'ordinamento giuridico e si colloca in un sistema ispirato al contemperamento delle esigenze di celerità ed efficienza dell'azione amministrativa con i principi di partecipazione e di concreta conoscibilità della funzione pubblica da parte dell'amministrato, basato sul riconoscimento del principio di pubblicità dei documenti amministrativi. Ai fini della sussistenza del presupposto legittimante per l'esercizio del diritto di accesso deve esistere un interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l'accesso seppur non necessariamente consistente in un interesse legittimo o in un diritto soggettivo, ma comunque giuridicamente tutelato.
In sentenza è precisato che il generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento dell'attività amministrativa non identifica uno specifico valore da azionare giudiziariamente, ma esso può ergersi come riferimento nel rapporto di strumentalità tra tale interesse e la documentazione di cui si chiede l'ostensione; nesso di strumentalità che deve, peraltro, essere inteso in senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la difesa dell'interesse giuridicamente rilevante e non strumento di prova diretta della lesione di tale interesse (articolo ItaliaOggi del 18.02.2014).

TRIBUTIImposte, il catasto non fa testo.
Le risultanze catastali non forniscono piena prova della proprietà o del possesso di un immobile, mentre l'unico strumento di pubblicità per i beni immobili e i relativi atti di disposizione è rappresentato dai registri immobiliari presso l'ufficio della conservatoria. Pertanto, quando un contribuente accertato ai fini Ici contesti la proprietà del bene, è onere dell'amministrazione comunale fornire adeguata prova dell'esistenza del presupposto d'imposta, ossia la proprietà o altro diritto reale sullo stesso che si evinca dai registri immobiliari.

È quanto si legge nella sentenza 14.01.2014 n. 57/01/14 della Ctr di Roma, Sez. I.
In una controversia riguardante avvisi di accertamenti per Ici, emessi dal comune di Roma relativamente a due immobili del territorio capitolino, il contribuente contestava la pretesa fiscale alla fonte, ovvero lamentando di non essere affatto proprietario dell'uno e solo parzialmente dell'altro bene. Resisteva il comune, basando la propria pretesa sulle risultanze catastali: proprio tale circostanza ha rappresentato l'anello debole del costrutto impositivo. «Va rilevato», si legge in sentenza, «che in via normale l'Ici è dovuta sulla base delle risultanze catastali, ma davanti alle contestazioni delle stesse va dimostrata da parte dell'ente impositore la proprietà dell'immobile ovvero la titolarità di altro diritto».
Le risultanze catastali non danno piena prova della proprietà, costituendo «un sistema secondario per stabilire la proprietà di un bene immobile». L'unico strumento idoneo, a tal scopo, «è rappresentato dalla trascrizione immobiliare di cui all'art. 2643 del codice civile presso l'ufficio della conservatoria dei registri immobiliari» (articolo ItaliaOggi Sette del 24.02.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Comune scudo di liceità per le licenze a costruire.
Il Comune, nel momento in cui rilascia licenza a costruire, deve verificare che, sia sotto il profilo tecnico che sotto quello esecutivo, sia tutto nell'alveo della liceità ed in ossequio alla normativa vigente, al fine di evitare una attività edilizia incompatibile col contesto territoriale, altrimenti sarà responsabile per eventuali danni a persone o a cose.

Ad affermarlo è stata la Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la sentenza 19.12.2013 n. 28460.
Risulta, pertanto, legittima la condanna del Comune a risarcire i danni civilistici derivanti dall'esercizio dell'azione amministrativa, anche a titolo di concausa, particolarmente se l'ente territoriale ha operato in violazione delle più elementari cautele e nozioni tecniche da adottare in situazioni oggettive di evidente pericolo generale.
Nel 1996 è stata la stessa Cassazione ad affermare che: «La responsabilità della p.a. per il risarcimento dei danni causati da una condotta omissiva sussiste non soltanto nel caso in cui questa si concretizzi nella violazione di una specifica norma, istitutiva dell'obbligo inadempiuto, ma anche quando detta condotta si ponga come violazione del principio generale di prudenza e diligenza (cosiddetto obbligo del neminem laedere), di cui è espressione l'art. 2043 cod. civ. (nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto la corresponsabilità di un Comune nella determinazione dei danni derivati dal crollo di un fabbricato, perché l'ente locale, oltre ad aver negligentemente omesso di verificare, in violazione della legge urbanistica n. 1150 del 1942, la concreta edificabilità dei terreni e di prescrivere le misure idonee ad evitare pericoli di franamento di una collina e di conseguente crollo degli edifici sulla stessa costruiti, a seguito delle licenze rilasciate dall'ente medesimo, aveva comunque omesso, in violazione del principio del neminem laedere, qualsiasi accertamento preventivo rispetto ad un terreno chiaramente di tipo franoso, nonché ogni prescrizione al riguardo nel convenzionamento della lottizzazione ed ogni vigilanza sull'esecuzione delle costruzioni)» (Cass. n. 3939/1996).
Secondo i supremi giudici, inoltre, non si comprende come e perché la mera esecuzione di un'attività in posizione di incompetenza da parte di un funzionario possa riverberare nella rottura del nesso di immedesimazione organica dell'agire del medesimo rispetto al Comune. Pertanto il Comune è sanzionabile per il provvedimento amministrativo (articolo ItaliaOggi Sette del 10.02.201).

INCARICHI PROGETTUALICompenso «base» ai progettisti. Lavori pubblici. Bocciato il calcolo sul valore finale dell'opera.
Il compenso al progettista di un'opera pubblica si calcola sul valore dell'opera preventivata dal Comune nel disciplinare di incarico. E se viene predisposto un progetto di valore superiore, senza un disciplinare integrativo in forma scritta, il professionista non ha titolo per richiedere ulteriori compensi.

Lo ha deciso il TRIBUNALE di Caltanissetta (giudice Sole) con sentenza 26.11.2013.
Il contenzioso riguardava l'opposizione a un decreto ingiuntivo emesso su richiesta di un ingegnere, componente di un raggruppamento di professionisti che aveva ricevuto da un Comune l'incarico di redigere il progetto un'opera pubblica del costo complessivo preventivato di 900mila euro.
L'elaborato finale conteneva però la progettazione di un'opera ben più ampia di valore superiore a sette milioni di euro e a questa somma il professionista aveva parametrato la propria quota di compenso, ingiungendone il pagamento al Comune.
L'ente aveva proposto opposizione, ammettendo di avere conferito l'incarico ma contestando di dovere corrispondere l'esoso onorario richiesto, perché riguardante attività di progettazione che esulavano dall'oggetto dell'incarico.
Il professionista sosteneva invece che il raggruppamento temporaneo di cui faceva parte si era attenuto al progetto preliminare quanto all'organizzazione planimetrica dell'opera; tuttavia, dopo la stipula del disciplinare si erano resi necessari ulteriori rilievi geologici e vari adattamenti che ne avevano consigliato l'ampliamento. Di queste esigenze era stato informato il responsabile unico del procedimento; quindi era stato convocato un successivo incontro con l'amministrazione comunale, al fine di illustrare il progetto e discutere dei propri compensi. A seguito di tale incontro i vertici comunali –sindaco compreso– avrebbero consentito alla "revisione" del progetto.
Il tribunale tuttavia non ha ritenuto che tali allegazioni potessero dimostrare la fondatezza delle pretesa del progettista.
Il giudice ha richiamato l'articolo 2723 del Codice civile, in base al quale se a un contratto consacrato in un documento si aggiunge in seguito un altro patto, il nuovo accordo dovrà essere dimostrato con prova scritta e si potrà ricorrere alla prova testimoniale solo se appare verosimile che esso sia avvenuto verbalmente. Siccome in questo caso la modifica dell'accordo avrebbe comportato l'aumento del valore dell'opera di più di sette volte rispetto a quello originario, già questo basterebbe a ritenere poco verosimile che una tale revisione non abbia avuto consacrazione in un disciplinare integrativo.
In ogni caso il tribunale ritiene decisivo il fatto che nei contratti di diritto privato stipulati dalla pubblica amministrazione vige il principio formalistico, che richiede sempre la forma scritta per la validità dell'atto: forma che deve essere adottata anche per le modifiche successive del contratto. Per questo il decreto ingiuntivo è stato revocato.
Il principio applicato dal tribunale era stato già affermato in analoghe vicende dai giudici di legittimità (di recente, con la sentenza 8539/2011 della Cassazione)
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.02.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: COMPRAVENDITA DI UNITA` IMMOBILIARE OGGETTO DI MUTAMENTO DI DESTINAZIONE D’USO SENZA TITOLO.
E` nullo, per contrarietà alla legge e in applicazione degli artt. 15 L. n. 10/1977 e 17 e 40 L. n. 47/1985, il contratto preliminare di vendita di un immobile irregolare dal punto di vista urbanistico.
Tale nullità tutela l’affidamento, sanzionando la violazione di un obbligo formale, imposto al venditore al fine di porre l’acquirente di un immobile in condizione di conoscere le condizioni del bene acquistato e di effettuare gli accertamenti sulla regolarità del bene attraverso il confronto tra la sua consistenza reale e quella risultante dalla concessione edilizia ovvero dalla domanda di concessione in sanatoria. Sicché, ove tale dichiarazione sia presente, nessuna conseguenza invalidante ricade sul contratto per effetto della concreta difformità tra il costruito e l’assentito, o, in generale, dal difetto di regolarità sostanziale del bene sotto il profilo del rispetto delle norme urbanistiche.
Non può configurarsi ‘‘mera difformità’’ la trasformazione di un sottotetto non abitabile in una mansarda, se oggetto della compravendita è solo tale unità immobiliare e non l’intero immobile pur eseguito in forza di regolare licenza edilizia.

Sorge controversia fra privati generata dalla compravendita di un appartamento asseritamente realizzato in conformità a regolari titoli edilizi ma nel quale era invece stata realizzata una mansarda, al posto del sottotetto non abitabile.
Per tale ragione, gli attori chiedevano dichiararsi la nullità del contratto di compravendita, in conformità degli artt. 17 e 40 della L. n. 47/1985 e dell’art. 15 della L. n. 10/1977, nonché per illiceità dell’oggetto. In via subordinata, chiedevano l’annullamento del contratto per errore essenziale determinato dal dolo dei convenuti venditori, che avevano dichiarato falsamente la legittimità della costruzione. In estremo subordine chiedevano declaratoria di risoluzione del contratto per grave inadempimento dei venditori, autori di un trasferimento aliud pro alio. Il tutto, oltre alla condanna dei convenuti alla restituzione del prezzo e al rimborso delle spese sostenute per l’acquisto, maggiorati di interessi e rivalutazione.
Era, dai convenuti, eccepita -oltre alla non imputabilità a essi della trasformazione del sottotetto- la condonabilità dell’abuso in conformità della L.R. Campania 28.11.2000 n. 15.
Il Tribunale rigettava la domanda di nullità dell’atto di vendita stipulato dagli attori e dai convenuti, per essere stata ritualmente indicata la licenza edilizia in base alla quale era stato costruito il fabbricato, non rilevando ai fini della validità dell’atto la difformità rispetto alla licenza del bene venduto. Riteneva, di contro, sussistente l’errore su una qualità essenziale dell’immobile compravenduto e, per l’effetto, annullava il contratto ma rigettava le domande risarcitorie in considerazione della buona fede dei venditori e dei loro danti causa.
Anche la Corte territoriale riteneva insussistente sia la nullità ex art. 15 L. n. 10/1977, essendo stato costruito l’intero immobile condominiale in virtù di licenza edilizia, dovendosi qualificare la trasformazione del sottotetto in mansarda come ‘‘opera difforme da quella consentita’’, sia la nullità ex art. 1418 c.c. non essendo illecita né la causa del negozio, né l’attività di costruzione in assenza di licenza, bensì quella di vendita di manufatto realizzato in violazione di tali norme.
La Corte di merito rilevava che l’azione degli acquirenti in primo grado (avanzata ex art. 1427 c.c.) postulava l’assolvimento di un onere probatorio sull’essenzialità dell’errore, invero non fornita, dovendosi ritenere essenziale non già l’errore sulla conformità al progetto edilizio approvato, ma l’idoneità del bene ad assolvere alla funzione abitativa per la quale veniva acquistata, qualità per vero sussistente: per tali ragioni rigettava la domanda di annullamento del contratto.
La Cassazione cassa con rinvio la sentenza d’appello, affermando che deve ritenersi nullo, per contrarietà alla legge, il contratto preliminare di vendita di un immobile irregolare dal punto di vista urbanistico.
Il percorso attraverso il quale il giudice di legittimità perviene a tale conclusione è articolato nei seguenti interessanti passaggi logico-giuridici, che meritano di essere ripercorsi in quanto ricostruiscono la giurisprudenza maturata in punto.
Devono essere considerati applicabili i principi di cui all’art. 15 L. n. 10/1977 e agli artt. 17 e 40 L. n. 47/1985 non potendosi qualificare ‘‘mera difformità’’ la realizzazione di un intero appartamento (mansarda), posto che solo questo era oggetto della compravendita, e non tutto l’immobile condominiale, pure eseguito sulla base di una regolare licenza edilizia. Del resto, la L. n. 47/1985, proprio per contrastare il fenomeno dell’abusivismo edilizio, ha sancito la nullità degli atti di compravendita dei fabbricati abusivi, tanto da prevedere la nullità anche solo per la mancata indicazione degli estremi della concessione, seppur in effetti esistente. A maggior ragione, quindi, l’atto è nullo se l’immobile è abusivo e gli estremi della concessione sono fittizi.
La questione delle conseguenze dell’alienazione di immobili affetti da irregolarità urbanistiche, non sanate o non sanabili, è stata sempre risolta dalla Cassazione sul piano dell’inadempimento. Con sentenza 22.11.2012 n. 20714 si è affermato che, in tema di vendita di immobili, il disposto dell’art. 40 della L. n. 47/1985 consentendo la stipulazione, ove risulti presentata l’istanza di condono edilizio e pagate le prime due rate di oblazione, esige che la domanda in sanatoria abbia i requisiti minimi per essere presa in esame dalla p.a. con probabilità di accoglimento.
In tal caso occorre l’indicazione precisa della consistenza degli abusi sanabili, presupposto di determinazione della somma dovuta a titolo di oblazione, nonché la congruità dei relativi versamenti, in difetto delle quali il promittente venditore è inadempiente e il preliminare di vendita può essere risolto per sua colpa. Analogamente, con sentenza 19.12.2006 n. 27129 si è affermato che, in caso di preliminare di compravendita immobiliare, costituisce inadempimento certo non irrilevante -tale quindi da giustificare il recesso dal contratto del promittente acquirente e la restituzione del doppio della caparra- la condotta dell’alienante che prometta in vendita un immobile abusivo per il quale non esiste alcuna possibilità di regolarizzazione.
Ancor più chiaramente, la sentenza 24.03.2004 n. 5898 ha affermato che il difetto di regolarità sostanziale del bene sotto il profilo urbanistico non rileva di per sé ai fini della validità del trasferimento, trovando rimedio nella disciplina dell’inadempimento contrattuale. In quest’ottica si è esclusa la nullità dei contratti aventi a oggetto immobili, nel caso in cui le dichiarazioni previste dagli artt. 17 e 40 della L. n. 47/1985 esistano ma non siano conforme al  vero.
Da ultimo, con sentenza 05.07.2013 n. 16876 -pur ritenendo interessante la tesi della cd. nullità sostanziale- la Corte ha affermato che i canoni normativi dell’interpretazione della legge non consentono di attribuire al testo normativo un significato che prescinda o superi le espressioni formali in cui si articola e non può non essere considerato il fatto che i casi di nullità previsti dalla norma indicata sono tassativi e non estensibili per analogia e, ancora, che la nullità prevista dall’art. 40 L. n. 47/1985 è costituita unicamente dalla mancata indicazione degli estremi della licenza edilizia, ovvero dell’inizio della costruzione prima del 1967.
Del resto, tale nullità (cfr. Cass. civ., 07.12.2005 n. 26970; id., 24.03.2004 n. 5898 relativa alla fattispecie di nullità prevista dall’art. 15, comma 7, L. n. 10/1977) prevista dagli artt. 17 e 40 della L. n. 47/1985 assolve la sua funzione di tutela dell’affidamento sanzionando specificamente la sola violazione di un obbligo formale, imposto al venditore al fine di porre l’acquirente di un immobile in condizione di conoscere le condizioni del bene acquistato e di effettuare gli accertamenti sulla regolarità del bene attraverso il confronto tra la sua consistenza reale e quella risultante dalla concessione edilizia ovvero dalla domanda di concessione in sanatoria.
Alla rigidità della previsione consegue che, in presenza della dichiarazione, nessuna invalidità deriva al contratto dalla concreta difformità della realizzazione edilizia dalla concessione o dalla sanatoria e, in generale, dal difetto di regolarità sostanziale del bene sotto il profilo del rispetto delle norme urbanistiche.
Se la ratio della norma è quella di rendere incommerciabili gli immobili non in regola sotto il profilo urbanistico, sarebbe del tutto in contrasto con tale finalità la previsione della nullità degli atti di trasferimento di immobili regolari dal punto di vista urbanistico o per i quali è in corso la pratica per la loro regolarizzazione per motivi meramente formali consentendo, invece, il valido trasferimento di immobili non regolari, lasciando eventualmente alle parti interessate assumere l’iniziativa sul piano dell’inadempimento contrattuale. Addirittura si potrebbe prospettare la possibilità per le parti di eludere consensualmente lo scopo perseguito dal legislatore, stipulando il contratto e poi immediatamente dopo concludendo una transazione con la quale il compratore rinunzi al diritto a far valere l’inadempimento della controparte.
Al definitivo, osserva la Corte, che il legislatore, con la L. n. 47/1985, ha introdotto un modello ancor più severo rispetto a quello previsto dall’art. 15 della L. n. 10/1977, il quale prevedeva la nullità degli atti giuridici aventi per oggetto unità edilizie costruite in assenza di concessione, ove da essi non risultasse che l’acquirente era a conoscenza della mancata concessione. Tale inasprimento, invece, sarebbe da escludere ove, per gli atti in questione, all’acquirente dovesse essere riconosciuta la sola tutela prevista per l’inadempimento (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 17.10.2013 n. 23591 - tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2013).

INCARICHI PROGETTUALI: INCARICO PROFESSIONALE DI PROGETTAZIONE E RESPONSABILITA'.
Quando il contratto d’opera concerne la redazione di un progetto esecutivo, fra gli obblighi del professionista vi è quello di redigere un progetto conforme, oltre che alle regole tecniche, anche alle norme giuridiche che disciplinano le modalità di edificazione su un dato territorio, in modo da non compromettere il conseguimento del provvedimento amministrativo che abilita all’esecuzione dell’opera, essendo questa qualità del progetto una delle connotazioni essenziali di un tale contratto di opera professionale: per l’effetto, il mancato perfezionamento del procedimento amministrativo volto a garantire l’idoneità sotto il profilo sismico dell’edificio progettato, compromettendo il positivo esito della procedura amministrativa volta ad assicurare la realizzazione dell’opera, non può che costituire inadempimento caratterizzato da colpa grave e quindi fonte di responsabilità del progettista nei confronti del committente per il danno da questi subito in conseguenza della mancata o comunque ritardata realizzazione dell’opera.
La questione involge una domanda avanzata dal cliente di un architetto al risarcimento dei danni al medesimo conseguiti per effetto del mancato adempimento della propria obbligazione professionale. Segnatamente, il cliente lamentava l’impossibilità di iniziare i lavori della progettata costruzione entro il termine stabilito a pena di decadenza nel titolo abilitativo edilizio rilasciato.
Nello specifico, si tratta di valutare se l’incarico di progettare la costruzione, di curare il rilascio della concessione edilizia e di seguire la direzione dei lavori, comprenda anche il compito di ottemperare alla prescrizione imposta dal provvedimento concessorio, in quel caso la richiesta di nulla osta al Genio Civile ai fini degli adempimenti relativi alla normativa antisismica. Tale ultimo aspetto costituiva, a dir dell’attore, un’obbligazione implicitamente collegata alla direzione dei lavori, attività nella quale rientra ogni adempimento volto ad assicurare la realizzazione dell’opera e non già un mero adempimento burocratico riservato al committente e proprietario.
La Cassazione -richiamati propri precedenti a Sezioni Unite (n. 15781/2005)- ricorda che la distinzione tra obbligazioni ‘‘di mezzi’’ e ‘‘di risultato’’ è ininfluente ai fini della valutazione della responsabilità di chi è incaricato di redigere un progetto di ingegneria o architettura, in quanto il mancato conseguimento dello scopo pratico avuto di mira dal cliente è, comunque, addebitabile al professionista ove sia conseguenza dei suoi errori che rendano le previsioni progettuali inidonee ad essere attuate. Ancora (Sez. Un. n. 577/2008) ricorda che è ormai superata la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, specie nelle ipotesi di prestazione d’opera intellettuale, tenuto conto che un risultato è dovuto in tutte le obbligazioni, richiedendosi in ogni obbligazione la compresenza sia del comportamento del debitore che del risultato, sia pure in proporzione variabile.
Del resto, il comportamento rilevante, nell’ipotesi di azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle ‘‘obbligazioni di comportamento’’ è quello che integra una causa o una concausa ‘‘efficiente’’ del danno. Spetta al debitore dimostrare che tale inadempimento non vi è stato o che, pur esistendo, non è stato, nella fattispecie concreta, causa dell’evento dannoso lamentato.
La Corte osserva che se è vero che il progetto, sino a quando non sia materialmente realizzato, costituisce una fase preparatoria, strumentalmente preordinata alla concreta attuazione dell’opera, è anche vero che, sul piano tecnico e giuridico, il progettista deve assicurare la conformità del progetto alla normativa urbanistica ed individuare in termini corretti la procedura amministrativa da utilizzare, così da assicurare la preventiva e corretta soluzione dei problemi che precedono e condizionano la realizzazione dell’opera richiesta dal committente (cfr. Cass. n. 2257 del 2007; Cass. n. 11728 del 2002; Cass. n. 22487 del 2004).
Sicché la scelta del percorso amministrativo da seguire per ottenere il titolo autorizzativo idoneo al tipo d’intervento edilizio progettato (nella specie, l’ottenimento del nulla osta antisismico) spetta al professionista, trattandosi di attività per la quale occorre una specifica competenza tecnica e non certo un mero adempimento burocratico.
Rientra quindi nell’obbligo di diligenza a carico del prestatore di opera professionale, ex art. 1176 c.c., comma 2, tanto il risultato finale mirante a soddisfare l’interesse del creditore (committente) quanto i mezzi necessari per realizzarlo, tramite l’adozione di determinate modalità di attuazione che esigono il rispetto delle regole professionali in funzione del raggiungimento del risultato finale (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 15.10.2013 n. 23342 - tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2013).

EDILIZIA PRIVATA: TRASFERIMENTO DI IMMOBILI EX ART. 2932 C.C. IN ASSENZA DEL CERTIFICATO DI DESTINAZIONE URBANISTICA O DEL TITOLO EDILIZIO.
Nelle controversie ex art. 2932 c.c., in applicazione di quanto previsto dagli artt. 30 e 46 del D.P.R. n. 380/2001, è necessaria l’allegazione -agli atti di trasferimento, di costituzione o di scioglimento della comunione di diritti reali relativi a terreni- del certificato di destinazione urbanistica e d’indicazione degli estremi del titolo abilitativo edilizio rilasciato dall’autorità competente.
La questione concerne un terreno con annesso rustico del quale il promissario acquirente aveva scoperto -solo dopo la firma del preliminare di compravendita e malgrado la garanzia di libertà dell’immobile da pesi, prestata dal venditore- l’inedificabilità.
Ne seguì una controversia traslativa ex art. 2932 c.c. con domanda di riduzione del prezzo ex art. 1489 c.c., in dipendenza del predetto vincolo, e di risarcimento danni.
Dopo un’originaria reiezione del Tribunale, argomentata sul fatto che il vincolo era conoscibile tanto facendo riferimento al PRG quanto ad una specifica legge regionale che lo aveva introdotto, la Corte d’appello accolse la domanda, così trasferendo la proprietà del terreno e del rustico in questione, con prezzo decurtato.
La Cassazione riforma la sentenza di merito, enunciando un importante principio valido per le controversie aventi a oggetto l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto preliminare di compravendita immobiliare ex art. 2932 c.c., ossia che ai sensi degli artt. 17, 18 e 40 della L. n. 47/1985, quanto -oggi- degli artt. 30 e 46 del D.P.R. n. 380/2001 deve dedursi la nullità di ogni atto di trasferimento privo, per i terreni, dell’allegazione del certificato di destinazione urbanistica, e, per gli edifici, della indicazione degli estremi della concessione edilizia.
Tale dovuta allegazione -agli atti di trasferimento, o di costituzione o di scioglimento della comunione di diritti reali relativi a terreni- del certificato di destinazione urbanistica nonché di indicazione (per gli edifici o parte di essi) degli estremi del titolo abilitativo edilizio rilasciato dall’autorità competente (ovvero di allegazione della domanda di sanatoria corredata della prova dell’avvenuto pagamento degli importi dovuti) determina l’impossibilità, anche per il giudice, come per il notaio, di pronunciare una sentenza traslativa dell’immobile ex art. 2932 c.c. (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 15.10.2013 n. 23339 - tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2013).

APPALTI: ASSENZA DI FORMA SCRITTA NEI CONTRATTI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.
Il riconoscimento di debiti fuori bilancio se da un lato consente di far salvi gli impegni di spesa in precedenza assunti senza copertura contabile, per altro verso non innova la disciplina che regolamenta la conclusione dei contratti da parte della p.a., né introduce una sanatoria per i contratti eventualmente nulli o comunque invalidi, come quelli conclusi in assenza di forma scritta ad substantiam per i contratti conclusi iure privatorum dalla p.a..
Sorge questione tra un ente locale e un appaltatore per il pagamento di un importo dovuto per forniture di merce, oggetto di riconoscimento in debito fuori bilancio.
Il Tribunale e la Corte d’Appello rigettarono la domanda dell’appaltatore sul rilievo che i contratti di fornitura erano nulli perché privi di forma scritta, necessaria per ogni contratto della p.a. ed ancora osservando che le delibere ricognitive del debito fuori bilancio non potessero considerarsi ricognitive del debito, in quanto non portate a conoscenza del creditore.
La questione approda in Cassazione, che conferma le statuizioni di merito, seppur integrando la motivazione della pronuncia d’appello.
In particolare, merita di essere segnalato come la Cassazione abbia affermato che il riconoscimento, da parte degli enti locali di debiti fuori bilancio (ex art. 24 del D.L. 02.03.1989 n. 66, convertito con modificazioni in L. 24.04.1989 n. 144, nonché dell’art. 12-bis del D.L. 12.01.1991 n. 6, convertito con modificazioni in L. 15.03.1991 n. 80) se da un lato consente di far salvi gli impegni di spesa in precedenza assunti senza copertura contabile, per altro verso non innova la disciplina che regolamenta la conclusione dei contratti da parte della p.a., né introduce una sanatoria per i contratti eventualmente nulli o comunque invalidi, come quelli conclusi in assenza di forma scritta ad substantiam per i contratti conclusi iure privatorum dalla p.a.
Tale riconoscimento di debito fuori bilancio, quindi, presuppone l’esistenza di un’obbligazione validamente assunta dall’ente locale, pur se in assenza di copertura finanziaria, ma non può costituire fonte di obbligazione (cfr. Cass. n. 9412/2011; id. n. 2489/2007; id. n. 11021/2005; id. n. 26826/2006).
In altri termini, la procedura di riconoscimento dei debiti fuori bilancio sana la nullità conseguente alla mancata indicazione della copertura finanziaria ed ha cioè l’effetto contabile di rendere possibile il pagamento, ma non vale a sanare altre cause di nullità, né in particolare quella derivante dalla mancata attribuzione dell’incarico in forma scritta (Cass. civ. n. 7966/2008, id., n. 27406/2008) (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 04.10.2013 n. 22754 - tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2013).

TRIBUTI: La tassa sui rifiuti è sempre dovuta.
In tema di Tarsu-Tia, lo smaltimento dei rifiuti ordinari in maniera autonoma, a proprie spese, insieme a quelli speciali, non esonera l'azienda dal pagamento della tassa comunale. L'obbligo di versamento scatta comunque, al di là del fatto che si utilizzi il servizio pubblico o meno.

Sono le conclusioni che si leggono nella sentenza 27.09.2013 n. 89/22/13 emessa dalla Sez. XXII della Ctr Lombardia.
Nella sentenza menzionata, il collegio regionale lombardo capovolge la decisione dei colleghi di prima istanza della Ctp di Milano, che avevano annullato la pretesa del comune di Varedo, e stabilisce che la tassa sui rifiuti è comunque dovuta, indipendentemente dall'utilizzo del servizio pubblico.
«In tema di autosmaltimento», osservano i giudici meneghini, «il costo relativo alla gestione dei rifiuti solidi urbani e di quelli assimilabili grava sui cittadini indipendentemente dal fatto che si utilizzi il servizio medesimo».
Infatti, la Commissione precisa che il tributo è rapportato unicamente alla superficie occupata a qualsiasi uso destinata; solo per i rifiuti speciali, tossici, pericolosi o nocivi, il produttore è obbligato allo smaltimento in proprio, con l'esonero dal tributo, ferma restando la tassazione sui rifiuti ordinari.
La legittimità della richiesta è suffragata dal fatto che il comune si sia attenuto alle superfici dichiarate dalla società, sulla base della denuncia dalla stessa prodotta.
Nel caso specifico, anche gli imballaggi sono stati ricondotti dal comune alla categoria dei rifiuti speciali non pericolosi e pertanto assimilabili agli urbani (articolo ItaliaOggi Sette del 24.02.2014).

EDILIZIA PRIVATA: L’ORDINE DI DEMOLIZIONE ‘‘SOPRAVVIVE’’ AL PROVVEDIMENTO DI ACQUISIZIONE GRATUITA AL PATRIMONIO COMUNALE IN MANCANZA DI DECISIONI COMUNALI INCOMPATIBILI.
L’acquisizione del bene al patrimonio comunale, conseguente all’inerzia del privato rispetto all’ingiunzione di demolizione delle opere, non fa venire meno l’efficacia dell’ordine impartito dal giudice penale e, avuto riguardo al D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 31, comma 9, tale ordine deve essere eseguito ove non siano assunte da parte delle autorità comunali decisioni che, prevalendo un interesse pubblico diverso, risultino incompatibili con l’ordine di demolizione e impongano di revocarlo.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della Suprema Corte verte, ancora una volta, sul tema dell’ordine di demolizione del manufatto abusivo impartito dal giudice con la sentenza di condanna irrevocabile, stavolta riferito alla questione della sua ‘‘sopravvivenza’’ nel caso in cui intervenga, medio tempore, un provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale.
La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza con cui il Tribunale, quale giudice dell’esecuzione, aveva respinto la richiesta di revoca dell’ordine di demolizione contenuto nella sentenza di condanna irrevocabile per il reato previsto dal D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44. Avverso tale decisione proponeva ricorso il condannato, in sintesi lamentando l’errata applicazione di legge ex art. 606, lett. b), c.p.p., per avere il Tribunale omesso di considerare che l’avvenuta acquisizione del bene al patrimonio comunale inibisce l’esecuzione dell’ordine demolitorio impartito in sede penale, risultando prevalenti gli interessi pubblici e potendosi procedere alla demolizione solo in presenza di una palese rinuncia dell’ente territoriale a far valere le proprie prerogative.
La tesi non ha però convinto i Supremi giudici, che, nell’affermare l’importante principio di cui in massima, hanno dichiarato inammissibile il ricorso, così richiamando una giurisprudenza di legittimità già da tempo esistente sul tema secondo cui l’ordine di demolizione delle opere abusive risponde alla finalità di ripristinare la legalità violata e di rimuovere gli effetti negativi della violazione rispetto ai beni tutelati dalla norma penale (Cass. pen., sez. III, 23.01.2007, n. 1904, in CED Cass., n. 235645).
Contrariamente a quanto esposto in ricorso, dunque, secondo la Cassazione, non si ravvisavano in atti determinazioni dell’ente pubblico che individuassero per il bene destinazioni specifiche sorrette da pubblico e prevalente interesse, con la conseguenza che non vi era alcuna ragione per annullare il provvedimento impugnato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.09.2013 n. 39115 - tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2013).

EDILIZIA PRIVATA: ACQUISIZIONE GRATUITA AL PATRIMONIO COMUNALE ED IDENTIFICAZIONE DELL’AVENTE DIRITTO ALLA RESTITUZIONE DELL’OPERA SEQUESTRATA.
In materia edilizia, qualora debba procedersi alla restituzione di un manufatto abusivo per il venire meno dell’efficacia del sequestro (probatorio o preventivo), dovendo la restituzione essere effettuata a favore di chi ‘‘ne abbia il diritto’’, è necessario accertare se si sia verificata l’acquisizione del bene al patrimonio del Comune, quale effetto di diritto dell’inottemperanza, nel termine di giorni 90 dalla notificazione, all’ingiunzione a demolire emessa dal dirigente o responsabile del competente ufficio tecnico ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 31 (già L. n. 47 del 1985, art. 7).
Il tema oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte con la sentenza in esame è quello relativo alla corretta individuazione del soggetto avente diritto alla restituzione dell’immobile abusivamente sequestrato nel caso in cui si accerti che si sia verificata l’acquisizione gratuita dell’immobile al patrimonio comunale.
La vicenda processuale segue alla sentenza con cui il Tribunale dichiarava non doversi procedere nei confronti di S.R., in relazione ad abusi edilizi, per intervenuta prescrizione dei reati contestati. La difesa del S., successivamente, avanzava specifica istanza rivolta ad ottenere la restituzione del manufatto oggetto del procedimento, previa declaratoria di inefficacia del sequestro probatorio a suo tempo adottato ed il Tribunale disponeva la restituzione dell’immobile in favore dell’amministrazione comunale, tenuto conto dell’inottemperanza all’ordine comunale di demolizione.
Lo stesso Tribunale, poi, quale giudice dell’esecuzione, con ordinanza rigettava l’opposizione proposta dall’interessato ai sensi dell’art. 667 c.p.p., comma 4, rilevando che le motivazioni addotte a sostegno della stessa attenevano esclusivamente al merito della vicenda ormai coperto dal giudicato. Avverso tale ordinanza hanno proposto ricorso per cassazione i difensori del S., i quali hanno eccepito, per quanto di interesse in questa sede, la illegittimità del provvedimento del Tribunale «che non avrebbe potuto ordinare la demolizione del manufatto abusivo, riparando alla omissione intervenuta in sede di cognizione, perché tale attività non rientra tra le competenze specifiche e tassativamente individuate del giudice dell’esecuzione».
La Corte ha ritenuto infondato il ricorso e, nell’affermare il principio di cui in massima, ha ricordato che tutte le volte in cui l’amministrazione comunale abbia ingiunto la demolizione e questa non sia stata eseguita dal responsabile dell’abuso nel termine di 90 giorni dalla notifica, l’acquisizione avviene a titolo originario ed ‘‘ope legis’’, per il solo decorso del tempo, con il conseguente carattere meramente dichiarativo del successivo provvedimento amministrativo, che è atto dovuto, privo di qualsiasi contenuto discrezionale.
Ove venga accertata l’intervenuta acquisizione, conseguentemente, il manufatto abusivo va restituito non già al privato committente, quand’anche egli sia ancora in possesso del bene, bensì all’ente comunale ormai divenuto proprietario a tutti gli effetti e titolare dello ius possidendi (Cass. pen., sez. III, 01.12.1995, n. 3572, in CED Cass., n. 203107) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.09.2013 n. 39109 - tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2013).

EDILIZIA PRIVATA: IL REATO DI MANCANZA DEL CERTIFICATO DI COLLAUDO HA NATURA GIURIDICA DI REATO PERMANENTE A CONDOTTA MISTA.
Il reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 75 (mancanza del certificato di collaudo) è un reato permanente a condotta mista, comprendendo un aspetto commissivo (utilizzazione delle opere edilizie) ed un aspetto omissivo (mancanza del certificato di collaudo); ne consegue che il colpevole può far cessare l’offesa agli interessi urbanistici e di incolumità pubblica tutelati dalla norma penale con la condotta simmetricamente opposta a quella a costitutivo del reato, e cioè dismettendo l’utilizzazione dell’immobile ovvero ottenendo il certificato di collaudo.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della Suprema Corte verte, ancora una volta, sul tema dell’ordine di demolizione del manufatto abusivo impartito dal giudice con la sentenza di condanna irrevocabile, stavolta riferito alla questione della sua ‘‘sopravvivenza’’ nel caso in cui intervenga, medio tempore, un provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale.
La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza con cui il Tribunale, quale giudice dell’esecuzione, aveva respinto la richiesta di revoca dell’ordine di demolizione contenuto nella sentenza di condanna irrevocabile per il reato previsto dal D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44. Avverso tale decisione proponeva ricorso il condannato, in sintesi lamentando l’errata applicazione di legge ex art. 606, lett. b), c.p.p., per avere il Tribunale omesso di considerare che l’avvenuta acquisizione del bene al patrimonio comunale inibisce l’esecuzione dell’ordine demolitorio impartito in sede penale, risultando prevalenti gli interessi pubblici e potendosi procedere alla demolizione solo in presenza di una palese rinuncia dell’ente territoriale a far valere le proprie prerogative.
La tesi non ha però convinto i Supremi giudici, che, nell’affermare l’importante principio di cui in massima, hanno dichiarato inammissibile il ricorso, così richiamando una giurisprudenza di legittimità già da tempo esistente sul tema secondo cui l’ordine di demolizione delle opere abusive risponde alla finalità di ripristinare la legalità violata e di rimuovere gli effetti negativi della violazione rispetto ai beni tutelati dalla norma penale (Cass. pen., sez. III, 23.01.2007, n. 1904, in CED Cass., n. 235645).
Contrariamente a quanto esposto in ricorso, dunque, secondo la Cassazione, non si ravvisavano in atti determinazioni dell’ente pubblico che individuassero per il bene destinazioni specifiche sorrette da pubblico e prevalente interesse, con la conseguenza che non vi era alcuna ragione per annullare il provvedimento impugnato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.09.2013 n. 39090 - tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2013).

EDILIZIA PRIVATA: NECESSARIO IL PERMESSO DI COSTRUIRE IN CASO DI VARIANTI ESSENZIALI.
Rispetto alle figure delle cd. ‘‘varianti leggere o minori’’ (assoggettate alla mera denuncia di inizio dell’attività da presentarsi prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori) e delle ‘‘varianti in senso proprio’’ (le quali, in relazione alla loro caratteristica intrinseca necessitano del rilascio del cd. ‘‘permesso in variante’’, complementare ed accessorio rispetto all’originario permesso a costruire), le cd. ‘‘varianti essenziali’’ sono caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 32 e sono soggette al rilascio di un permesso a costruire nuovo ed autonomo rispetto a quello originario, in osservanza delle disposizioni vigenti al momento di realizzazione della variante.
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame attiene all’individuazione del titolo abilitativo necessario in caso di varianti cosiddette essenziali al progetto approvato.
La vicenda processuale segue alla sentenza della Corte di Appello che, per quanto qui rileva, in parziale riforma della sentenza del Tribunale pronunciata nei confronti di B.C. e F.S. (soggetti imputati dei reati di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), e D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181-bis), revocava -per quanto qui d’interesse- il concesso beneficio ad entrambi della sospensione condizionale della pena, che dichiarava interamente condonata e concedeva il beneficio della non menzione della condanna, confermando, nel resto, la sentenza impugnata con la quale i due imputati erano stati condannati per i detti reati alla pena di mesi cinque e giorni dieci di reclusione ciascuno.
Avverso la detta sentenza proponevano ricorso per cassazione entrambi gli imputati a mezzo del loro difensore di fiducia deducendo, con un unico, articolato, motivo, violazione di legge sub specie di erronea applicazione della legge penale con riferimento alla violazione edilizia contestata al capo a), per avere escluso che le opere edilizie eseguite sul preesistente immobile (consistenti in alcune variazioni essenziali rispetto al progetto approvato comportanti aumenti di superfici utile e di volumi e la realizzazione di alcune ‘‘bucature’’ nella parti esterne dell’edificio) integrassero un intervento manutentivo di carattere straordinario come, invece, prospettato con l’atto di impugnazione.
La tesi difensiva è stata ritenuta infondata dagli Ermellini che, sul punto, nell’affermare il principio di cui in massima, hanno osservato come la nozione di variazione essenziale dal permesso di costruire, di cui al menzionato D.P.R. n. 380 del 2001, art. 32, costituisce una tipologia di abuso intermedia tra la difformità totale e quella parziale, di regola sanzionata, dal cit. D.P.R., art. 44, lett. a), tranne che non si versi in una delle ipotesi disciplinate dall’art. 32, comma 3, al di fuori delle ipotesi di cui all’art. 32, comma 3, T.U. edilizia (Cass. pen., sez. III, 22.10.2012, n. 41167, in CED Cass., n. 253599).
Ciò precisato, nel caso in esame, hanno osservato i giudici di legittimità, alcune delle varianti apportate al preesistente manufatto rientravano certamente nel novero delle varianti essenziali in quanto della sagoma, altezza, volume e superficie dell’edificio, tanto da escludersi l’ipotesi di un intervento di tipo manutentivo di minima rilevanza (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.09.2013 n. 39049 - tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2013).

EDILIZIA PRIVATA: LA DONAZIONE DEL MANUFATTO ABUSIVO NON NE BLOCCA LA DEMOLIZIONE.
Al fine di escludere l’esecuzione della demolizione, nessun rilievo può attribuirsi all’atto di donazione in favore di un terzo stipulato in epoca successiva alla condanna, ciò in quanto il donatario riceve il bene nelle condizioni giuridiche e gravato dai vincoli che al momento del perfezionamento dell’atto insistono sul bene per le condotte del donante; ne consegue che è nell’ambito dei rapporti fra donante e donatario che potranno essere fatti valere eventuali danni ed eventuali pretese dei privati, non sussistendo alcuna preclusione a che il donante debba dare corso all’obbligo impostogli dall’autorità giudiziaria anteriormente all’atto di liberalità, obbligo che continua a gravare su di lui anche nella ipotesi che il bene sia stato acquisito da altro soggetto.
La Corte di Cassazione si sofferma, con la sentenza in esame, ad analizzare una interessante questione giuridica afferente alle possibili conseguenze, in senso ostativo, derivanti da un atto di liberalità eseguito a favore di un terzo, ma avente ad oggetto un immobile soggetto ad ordine di demolizione.
La vicenda processuale trae origine da un’ordinanza del Tribunale di rigetto di un’istanza di revoca o sospensione dell’ordine di demolizione emesso dal pubblico ministero al fine di dare esecuzione a quanto disposto con una sentenza del medesimo Tribunale, divenuta irrevocabile. Avverso tale decisione il condannato proponeva ricorso per cassazione, censurandola, per quanto qui d’interesse, per l’errata applicazione di legge ai sensi dell’art. 606, lett. b), c.p.p. per essere stata disposta le demolizione di un manufatto non più nella disponibilità del ricorrente, che ne aveva fatto donazione al figlio.
La tesi è stata respinta dalla Corte di Cassazione che, sul punto, nell’affermare il principio di cui in massima, ha per la prima volta risolto una questione nuova, facendo, tuttavia, coerente applicazione di un principio giurisprudenziale secondo cui l’obbligo di eseguire la demolizione permane in capo al condannato, ad esempio, anche successivamente all’acquisizione del bene al patrimonio comunale (si veda per tutte: Cass. pen., sez. III, 23.01.2007, n. 1904, in CED Cass., n. 235645) (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.09.2013 n. 38941 - tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2013).

EDILIZIA PRIVATA: PER LA REALIZZAZIONE DI UN PIAZZALE SEMPRE NECESSARIO IL PERMESSO DI COSTRUIRE.
Il D.P.R. n. 380 del 2001 (art. 3, comma 1, lett. e) assoggetta a permesso di costruire non soltanto le attività di edificazione, ma anche altre attività che, pur non integrando interventi edilizi in senso stretto, comportano comunque una modificazione permanente dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio in relazione alla sua condizione naturale ed alla sua qualificazione giuridica; ne consegue che per la realizzazione di un piazzale in luogo di una strada carrabile è sempre necessario il permesso di costruire, trattandosi di intervento edilizio determinante una modifica, in maniera definitiva, dell’assetto territoriale.
La Corte di Cassazione si pronuncia con la sentenza in esame sul tema della individuazione del titolo abilitativo necessario per l’esecuzione di interventi edilizi che, pur non potendosi qualificare come tali stricto sensu intesi, comportino pur sempre una trasformazione irreversibile del territorio.
La vicenda processuale segue all’ordinanza con cui il Tribunale rigettava la richiesta di riesame, proposta nell’interesse di Z.C., avverso il decreto di sequestro preventivo, emesso dal GIP del Tribunale, di un piazzale, ipotizzandosi il reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44. Rilevava il Tribunale che, in luogo della strada carrabile (era stata prevista una lunghezza di m. 67 ed una larghezza di m. 6) era stato realizzato un piazzale di m. 26 X 65,00, con conseguente modifica, in maniera definitiva, dell’assetto territoriale, per cui era necessario permesso di costruire.
Ricorreva per Cassazione Z.C., a mezzo del difensore, denunciando la violazione di legge in relazione al D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 23 e 44; in particolare, sottolineava come la lunghezza della strada sarebbe rimasta la stessa, mentre, trattandosi di terreno acquitrinoso, sarebbe stato depositato del brecciolino per il drenaggio senza che ciò avesse determinato la realizzazione di un piazzale.
In altri termini, secondo la difesa, la collocazione del brecciolino non può certo considerarsi una stabile trasformazione del territorio, né tanto meno può parlarsi di ampliamento della strada; essendo l’intervento realizzabile con semplice DIA, non sussisterebbe il fumus del reato contestato.
La tesi non ha però convinto gli Ermellini che, sul punto, nell’affermare il principio di cui in massima, hanno confermato l’orientamento giurisprudenziale, ormai consolidato, il quale ritiene necessario il permesso di costruire, ad esempio, per la realizzazione di un’area attrezzata per il rimessaggio ed il deposito di veicoli (Cass. pen., sez. III, 10.07.2009, n. 28457, in CED Cass., n. 244569) oppure per l’ampliamento di un piazzale per uso industriale (Cass. pen., sez. III, 15.07.2005, n. 26139, in CED Cass., n. 231933).
Inoltre, secondo costante giurisprudenza della Cassazione, anche la realizzazione di strade e piste è soggetta a  permesso di costruire, senza alcuna distinzione riguardo alle caratteristiche costruttive, dimensioni e finalità, ritenendosi sempre necessario il titolo abilitativo anche per l’esecuzione di strade o piste sterrate (Cass. pen., sez. III, 14.07.2004, n. 30594, in CED Cass., n. 230152) o realizzate su un preesistente tracciato (Cass. pen., sez. III, 02.07.1994, n. 7556, in CED Cass., n. 198386) e ciò in quanto trattasi di opere che consentono ed incrementano il traffico veicolare, determinando una trasformazione urbanistica del territorio (Cass. pen., sez.
III, 04.08.1999, n. 9912, in CED Cass., n. 214343) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.09.2013 n. 38933 - tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2013).

EDILIZIA PRIVATA: INTERVENTO CONSERVATIVO O DI RISANAMENTO EDILIZIO, NOZIONE E LIMITI.
Un intervento edilizio non può essere qualificato come ‘‘meramente conservativo’’ o ‘‘di risanamento’’ del fabbricato quando sia variata la copertura del tetto a falda in terrazza praticabile con elevazione della quota di gronda e abbassamento del colmo.
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Ove occorra stabilire le distanze legali tra costruzioni sporgenti dal suolo, e i regolamenti edilizi dettano i criteri per la misurazione delle altezze dei fabbricati frontistanti, queste devono essere determinate con riferimento al piano di posa, che è quello dell’originario piano di campagna e non la quota di terreno sistemato.

La sentenza risolve una controversia nata come azione di nunciazione ex artt. 1170 e 1171 c.c. promossa dai proprietari di un terreno con retrostante fabbricato, confinante con un immobile i cui titolari, dietro rilascio di concessione edilizia, eseguivano lavori di risanamento.
La concessione autorizzava, tra l’altro, la modifica del tetto a terrazzo del corpo sporgente, con realizzazione di un rialzo della quota di gronda e il conseguente aumento di altezza e volume, in ragione del quale gli attori deducevano la violazione delle distanze tra costruzioni. Ancora, era dedotta la circostanza che i box autorizzati non erano completamente interrati, anzi in parte rialzati rispetto al piano di campagna originario, così costituendo in parte qua ‘‘volume’’ lesivo, esso pure, della distanza legali tra fabbricati.
Gli attori deducevano altresì che nell’esecuzione delle opere fossero stati realizzati alcuni corpi sporgenti in cemento armato, essi pure in violazione delle distanze legali; l’innalzamento del piano di calpestio con realizzazione di una soletta in cemento armato anche al di fuori del perimetro del fabbricato e, in ultimo, la modifica e l’apertura di finestre su tutti i prospetti.
I resistenti -eccepita in rito l’improcedibilità del rimedio nunciatorio per intervenuta conclusione delle lavorazioni- deducevano, nel merito, l’ottenimento di autorizzazione in sanatoria per le opere de quibus, non lesiva dei diritti dei terzi perché conformi alla previsione dell’art. 873 c.c. Le domande erano respinte in primo grado dal Tribunale.
Avanti la Corte d’Appello, il gravame era proposto deducendosi, tra l’altro, che per la vigente disciplina normativa urbanistica le distanze minime sono di metri 1,5 dai confini i e metri 3 dalle costruzioni. La Corte territoriale riformava la sentenza di primo grado e condannava gli appellati alla demolizione e, in altra parte, all’arretramento (fino al rispetto della distanza di metri 12 dal fabbricato degli appellanti).
E` proposto ricorso per la cassazione, che la Corte respinge.
Il Giudice nomofilattico non condivide la prospettata violazione dell’art. 873 c.c. ad opera della sentenza d’appello che è condivisa nell’avere ritenuto applicabile al caso in esame le norme del PRG denunciate che, fra l’altro, prevedono una distanza di metri 6 dal confine e di metri 12 tra fabbricati.
La Corte evidenzia che quanto realizzato non erano opere di restauro o risanamento conservativo del fabbricato né integravano gli estremi d’interventi di minima consistenza e, ancora, che i box realizzati non erano completamente interrati, sicché andava correttamente applicato -come giustamente fatto dalla Corte di merito- la normativa edilizia comunale giusta quale doveva intercorrere una distanza di metri 6 dal confine e di metri 12 tra fabbricati Del resto, osserva la Corte, è stato chiarito in grado d’appello che le opere non integravano gli estremi di un mero intervento conservativo o di risanamento del fabbricato oggetto di controversia, perché si era trasformata, su di un lato, la copertura del tetto a falda divenuto una terrazza praticabile e che, a tal fine, la quota di gronda era stata elevata di mt. 0,60 (non di 0,30) con abbassamento del colmo in pari misura.
Ancora, era stato correttamente appurato in sede di merito che i due corpi di box emergevano, per poco meno di un metro, rispetto all’originario piano di campagna. Tale fuoriuscita non può ritenersi lecita perché costituisce violazione delle distanze legali, in quanto i corpi dei box costituiscono costruzioni di altezza più che apprezzabile rispetto all’originario piano di campagna.
Né poteva assumere rilevanza che il colmo di tale costruzione si trovasse a livello dei marciapiedi delle attigue  vie pubbliche, laddove -avuto riguardo all’interesse dei confinanti e controparti processuali- rilevava la presenza di costruzioni prima inesistenti che ora raggiungevano una quota nettamente più alta rispetto a quella del terreno circostante all’immobile dei confinanti medesimi.
D’altro canto, la Cassazione qui ricorda propri precedenti (Cass. civ. 17.03.2006, n. 6058) secondo cui allorché occorre stabilire le distanze legali tra costruzioni sporgenti dal suolo, i regolamenti edilizi dettano i criteri per la misurazione delle altezze dei fabbricati frontistanti, queste devono essere determinate con riferimento al piano di posa, che è quello dell’originario piano di campagna e non la quota di terreno sistemato (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 11.09.2013 n. 20851 - tratto da Urbanistica e appalti n. 11/2013).

EDILIZIA PRIVATA: DIFFERENZE FRA VIOLAZIONE DI NORME IN MATERIA DI DISTANZE E DI NORME URBANISTICHE.
La realizzazione di opere edilizie abusive è fonte di responsabilità risarcitoria verso il proprietario del fondo limitrofo sia per il deprezzamento commerciale del bene, sia per la limitazione del suo godimento in termini di amenità.
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Va fatta distinzione tra violazioni in materia di distanze e altre violazioni della normativa urbanistica, affermando che la realizzazione di opere in violazione di norme recepite negli strumenti urbanistici locali (diverse da quelle in materia di distanze) non comporta un immediato e contestuale danno per i vicini, il cui diritto al risarcimento presuppone l’accertamento di un nesso causale tra la violazione contestata e l’effettivo pregiudizio subito; la prova di tale pregiudizio deve essere fornita dall’interessato in modo preciso con riferimento alla sussistenza del danno ed all’entità dello stesso.
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Il diritto a conservare la gradevolezza dell’abitare del proprietario nella sua casa non si arresta a ciò che si trova all’interno della stessa, ma si espande a tutto il luogo circostante la cui amenità , può essere compromessa dalla realizzazione, da parte del vicino, di un manufatto difforme da quanto consentito dalla normativa urbanistica.

La controversia concerne l’esecuzione di opere edili su terreno confinante, in totale difformità della concessione edilizia e in violazione della destinazione urbanistica a verde agricolo.
La Corte territoriale accoglie la domanda risarcitoria avanzata dal proprietario del fondo finitimo, peraltro misura ridotta rispetto all’originaria portata, di contro, respingendo la tesi dell’autore dell’edificazione abusiva, secondo il quale era l’immobile delle controparti a essere illegittimo. Osserva la Corte d’Appello, a tale ultimo proposito, che le norme tecniche del locale strumento urbanistico consentivano, in quell’area, la costruzione di fabbricati residenziali concentrati in piccolo nucleo.
Di contro, contrastava con le prescrizioni urbanistiche la costruzione realizzata dall’originario convenuto, costituita da un capannone destinato a centro commerciale per l’edilizia, appunto distonico con la destinazione urbanistica agricola dell’area che con gli standard urbanistici  vigenti, che consentivano una costruzione del volume complessivo di 219 metri cubi, a fronte dei 10.242 metri cubi realizzati. Significativamente, la Corte di merito osserva che la realizzazione di opere in violazione di norme di edilizia o di tutela ambientale è fonte di responsabilità risarcitoria tanto in relazione al minore valore del bene quanto in relazione alla lesione dei godimento del bene in termini di diminuzione di amenità e comodità.
La Cassazione -nel rigettare il ricorso proposto dall’originario convenuto- afferma in limine alle doglianze da questi reiterate, per le quali il danno era, di contro, subito dallo stesso a causa dell’assunta abusività dell’immobile delle originarie attrici (per vero, sanata da tempo) che è pur vero che sussiste giurisprudenza della stessa Cassazione per la quale il danno subito da un immobile costruito abusivamente «ancor prima che ingiusto, è inesistente, in quanto il bene abusivo non è suscettibile di essere scambiato sul mercato» (Cass. civ. 21.02.2011, n. 4206), ma si tratta d’insegnamenti che -pur riferiti a contenziosi relativi a pretese di indennizzi in materia espropriativa (Cass. 14.12.2007, n. 26260)- ben potrebbero essere calati nella realtà di una controversia fra privati, laddove sorgano questioni risarcitorie, a condizione, come di contro qui si è verificato, che l’immobile della parte attrice ‘‘abusivo’’ non è.
Infatti, l’immobile era stato oggetto di sanatoria, quindi da ritenersi conforme alle norme urbanistiche e, in quanto tale, destinatario di un danno meritevole di risarcimento. Un immobile sanato non è più caratterizzato da quell’incommerciabilità propria  degli immobili abusivi, né l’originaria abusività, ormai non più sussistente, potrebbe pregiudicare il diritto al risarcimento per il diminuito valore commerciale.
Ancora, la Cassazione rimarca (con riferimento all’immobile delle originarie attrici, resistenti in Cassazione) che le concessioni edilizie e quelle in sanatoria sono provvedimenti amministrativi non tecnicamente equipollenti al condono, il quale -a differenza della sanatoria- rende possibile sanare anche interventi non permessi dalla normativa vigente.
In diritto, la Corte richiama la propria costante giurisprudenza per la quale la realizzazione di opere in violazione di norme edilizie è fonte di responsabilità risarcitoria verso il proprietario del fondo limitrofo sia per il deprezzamento commerciale del bene, sia per la limitazione del suo godimento in termini di amenità. Ciò è conforme alla giurisprudenza della Corte che opera una distinzione tra violazioni in materia di distanze e altre violazioni della normativa urbanistica, affermando che la realizzazione di opere in violazione di norme recepite negli strumenti urbanistici locali (diverse da quelle in materia di distanze) non comporta un immediato e contestuale danno per i vicini il cui diritto al risarcimento presuppone l’accertamento di un nesso causale tra la violazione contestata e l’effettivo pregiudizio subito; la prova di tale pregiudizio deve essere fornita dall’interessato in modo preciso con riferimento alla sussistenza del danno ed all’entità dello stesso (in termini,  Cass. civ., 23.02.1999, n. 1513; Cass. civ., 12.06.2001, n. 7909; Cass. civ., 07.03.2002, n. 3341; Cass. civ., 01.12.2010, n. 24387; Cass. Civ., 27.03.2013, n. 7752).
Il diritto a conservare la gradevolezza dell’abitare del proprietario nella sua casa non si arresta a ciò che si trova all’interno della stessa, ma si espande a tutto il luogo circostante la cui amenità, secondo la valutazione di merito della Corte, è stata compromessa dalla realizzazione, da parte del vicino di un capannone di dimensioni esorbitanti rispetto a quanto consentito dalla normativa urbanistica (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 11.09.2013 n. 20849 - tratto da Urbanistica e appalti n. 11/2013).

EDILIZIA PRIVATANo all'autolavaggio troppo vicino al cimitero.
Non si disturba il sonno, anche quello eterno. Stop all'autolavaggio self service da realizzare a ridosso del cimitero: ha ragione il comune a negare la concessione edilizia all'imprenditore laddove il manufatto risulterebbe troppo ingombrante nella fascia di rispetto di duecento metri prevista dalla legge.

Lo stabilisce il TAR Veneto, Sez. II, con la sentenza 08.07.2013 n. 932.
Deve essere rilevato un vincolo di inedificabilità assoluta sul terreno che il proprietario intendeva mettere a reddito con un sistema telematico in grado di gestire il tunnel con gli spazzoloni senza l'aiuto di personale. Il punto è che l'impianto comincia a essere un manufatto di una certa importanza fra tettoie e casotti a ridosso del muro di cinta del cimitero e, peraltro, pregiudica l'eventuale espansione dell'area destinata all'estrema dimora dei concittadini.
La fascia di rispetto prevista dalla legge di rispetto nei dintorni del camposanto serve senz'altro a tutelare la sacralità dei luoghi destinati alla sepoltura ma, ricordano i giudici, anche a garantire una serie di esigenze di natura igienico-sanitarie.
Non si salva dalla bocciatura il progetto presentato dall'imprenditore anche se l'impianto è costituito da strutture amovibili come gli spazzoloni e il box tunnel e risulta del tutto automatizzato perché anche il pagamento degli utenti viene gestito per via telematica: è infatti ritenuto legittimo il diniego opposto dal dirigente comunale all'istanza di concessione edilizia, motivato sul rilievo che l'intervento ricade nel vincolo cimiteriale previsto dall'articolo 338 del rd 1265/1934 che vieta la costruzione di qualsiasi fabbricato e contrasta con l'articolo 22 delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale il quale prevede che nelle zone F2 («fascia di rispetto») non può essere consentito alcun tipo di costruzione o di intervento che non siano strettamente relativi alle infrastrutture protette.
Sul «no» all'autorizzazione all'impianto pesano le diverse strutture prefabbricate previste dal progetto. Risultato: niente autolavaggio, ma l'imprenditore evita almeno il pagamento delle spese di giudizio per la peculiarità della controversia (articolo ItaliaOggi del 27.02.2014).

EDILIZIA PRIVATAEventuali divieti assoluti di edificazione nelle aree agricole richiedono una specifica e particolare motivazione, in quanto le stesse ledono la legittima aspettativa dell’imprenditore agricolo allo sviluppo della propria attività.
La legislazione regionale sull’edificazione nelle aree agricole (articoli da 59 a 62 della legge regionale 12/2005, che ricalcano l’abrogata legge regionale 93/1980), é ispirata da una duplice finalità: da una parte la preservazione delle aree agricole e dei valori che le stesse rappresentano nell’economia e nella società lombarda, dall’altra la salvaguardia e lo sviluppo delle imprese agricole, per un concreto sostegno di tale settore economico.
Così l’art. 59, comma 1°, della LR 12/2005, consente nelle aree agricole la realizzazione delle attrezzature e delle infrastrutture necessarie all’attività di cui all’art. 2135 del codice civile (vale a dire l’attività di imprenditore agricolo), fra le quali –l’indicazione è solo esemplificativa– stalle, silos, serre, magazzini e locali per la lavorazione, conservazioni e vendita dei prodotti agricoli.
E’ ammessa anche l’edificazione di abitazioni per l’imprenditore, nel rispetto dei limiti massimi di densità fondiaria previsti dal comma 3° dell’art. 59 citato.
Tenuto conto che le norme legislative di cui sopra sono immediatamente prevalenti sulle contrastanti disposizioni del PGT (così espressamente, l’art. 61 della LR 12/2005), la giurisprudenza del TAR Lombardia ha da tempo stabilito che eventuali divieti assoluti di edificazione nelle aree agricole richiedono una specifica e particolare motivazione, in quanto le stesse ledono la legittima aspettativa dell’imprenditore agricolo allo sviluppo della propria attività (cfr. TAR Lombardia, Brescia, 27.06.2005, n. 674; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 29.09.2009 n. 4749 e 08.01.2010, n. 3, dove si specifica che la potestà pianificatoria comunale in area agricola coesiste e si armonizza con le prevalenti previsioni legislative).
In questo senso, il divieto assoluto di edificazione di cui al citato art. 38 non appare logico o coerente con le finalità legislative di sviluppo dell’impresa agricola (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 07.07.2011 n. 1843 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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