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AGGIORNAMENTO AL 26.03.2014 |
ã |
IN EVIDENZA |
La 1^ sentenza (a noi
nota) circa il
ripristino di edifici crollati o demoliti, dopo la
riformulazione dell'art. 3, comma 1, lett. d), del
DPR n. 380/2001 ad opera della Legge 09.08.2013 n.
98. |
La norma novellata così recita: "d) "interventi
di ristrutturazione edilizia", gli interventi
rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante
un insieme sistematico di opere che possono portare
ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso
dal precedente. Tali interventi comprendono il
ripristino o la sostituzione di alcuni elementi
costitutivi dell'edificio, l’eliminazione, la
modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed
impianti. Nell’ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche
quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione
con la stessa volumetria di quello preesistente,
fatte salve le sole innovazioni necessarie per
l'adeguamento alla normativa antisismica nonché
quelli volti al ripristino di edifici, o parti di
essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso
la loro ricostruzione, purché sia possibile
accertarne la preesistente consistenza.
Rimane fermo che, con riferimento agli immobili
sottoposti a vincoli ai sensi del decreto
legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive
modificazioni, gli interventi di demolizione e
ricostruzione e gli interventi di ripristino di
edifici crollati o demoliti costituiscono interventi
di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia
rispettata la medesima sagoma dell'edificio
preesistente;"
La
sentenza spiega come interpretare la novità
legislativa che, sicuramente, fa storcere il naso
agli Uffici Tecnici Comunali ...
26.03.2014 - LA SEGRETERIA PTPL |
EDILIZIA
PRIVATA:
In tema di <ricostruzione dei ruderi> ai fini
della sussistenza dei presupposti per la demolizione e
ricostruzione (come “ristrutturazione edilizia”) è
necessario che l’edificio esista, con strutture perimetrali,
orizzontali e di copertura, con il risultato che si ha
invece intervento di “nuova edificazione” in caso di ruderi,
allorquando non si disponga di elementi attuali sufficienti
a dimostrare le dimensioni e le caratteristiche
dell’edificio da recuperare.
--------------
Circa la nuova disciplina introdotta del decreto-legge n.
69/2013 (convertito in legge n. 98/2013) è vero che la nuova
disciplina della <ricostruzione dei ruderi>, sposta
fattispecie che in passato sono state fatte rientrare negli
interventi di “nuova edificazione” nell’ambito delle
“ristrutturazione edilizia”; tuttavia ciò avviene a precise
condizioni previste dalla norma e cioè laddove si voglia
ricostruire un immobile crollato o demolito del quale “sia
possibile accertare la preesistente consistenza”.
Dunque non è sufficiente che si dimostri che un immobile è
esistito e che attualmente risulta crollato per potere
accedere alla sua ricostruzione come “ristrutturazione
edilizia”, ma è necessario che in concreto si dimostri non
solo il profilo dell’an (che un certo immobile attualmente
crollato è esistito) ma anche quello del quantum (che cioè
si dimostri l’esatta consistenza dell’immobile preesistente
del quale si richiede la ricostruzione); il risultato è che
se invece si riesce solo a dimostrare che in un certo luogo
vi era in passato un immobile oggi demolito, ma non si
riesce a dimostrarne la consistenza, la sua rinnovata
edificazione deve essere inquadrata come “nuova
costruzione”.
Dimostrare la “preesistente consistenza” vuol dire, come
anche parte ricorrente ammette, dar conto della
“destinazione d’uso e [del]l’ingombro planivolumetrico
complessivo del fabbricato crollato”, profilo quest’ultimo
che richiede certezza in punto di murature perimetrali e di
strutture orizzontali di copertura, ai fini del calcolo del
volume preesistente occupato dal fabbricato crollato.
--------------
Nel caso in esame elementi fattuali aventi un qualche grado
di certezza sull’effettivo ingombro planivilumetrico
dell’edificio preesistente non ci sono. Nel ricorso e nella
relazione tecnica allegata all’istanza di permesso di
costruire si dice apertamente che l’immobile che si intende
ricostruire non solo è crollato, ma è “non più
identificabile dai resti”.
La documentazione che parte ricorrente ha prodotto in sede
procedimentale e anche quella aggiuntiva prodotta in
giudizio, se danno conto della certa preesistenza
dell’immobile di cui si chiede la ricostruzione non
consentono di ritenere accertata la sua effettiva
consistenza; se dubbi suscita l’individuazione delle
dimensioni in pianta dell’edificio, che dovrebbero ricavarsi
da una vecchia mappa catastale e da un estratto del c.d.
Catasto Leopoldino (atti che non consentono di ricavare
elementi quantitativi certi), sicuramente inidoneo risulta
il calcolo dell’altezza dell’edificio crollato.
Quest’ultimo elemento (altezza dell’edificio) è infatti
ricavato da parte ricorrente applicando, ad una foto aerea
del 1965, la c.d. “teoria delle ombre”, cioè uno studio che
stima le altezze degli immobili dal confronto tra le ombre
dei vari edifici, ricavabili dalla foto, alcuni dei quali
ancora esistenti: come l’Amministrazione ha ben argomentato
nella relazione tecnica presentata, si tratta di calcoli con
margine di errore molto alto (sino a 8 metri) e quindi con
attendibilità assai ridotta, stante il fatto che si utilizza
una foto scattata a 2.800 metri di quota e in scala 1:
20.000, con il risultato che essa non risulta idonea ad
integrare la previsione normativa che richiede che sia
“accertata” la preesistente consistenza dell’immobile.
In tema di <ricostruzione
dei ruderi> la Sezione si è recentemente espressa con la
sentenza n. 1560 del 12.11.2013, nella quale è stato
richiamato l’orientamento giurisprudenziale prevalente
secondo cui, ai fini della sussistenza dei presupposti per
la demolizione e ricostruzione (come “ristrutturazione
edilizia”), è necessario che l’edificio esista, con
strutture perimetrali, orizzontali e di copertura, con il
risultato che si ha invece intervento di “nuova
edificazione” in caso di ruderi, allorquando non si
disponga di elementi attuali sufficienti a dimostrare le
dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare.
Nella presente controversia, tuttavia, parte ricorrente
richiama la nuova disciplina introdotta del decreto-legge n.
69 del 2013 (convertito in legge n. 98 del 2013), che ha sul
punto modificato l’art. 3, comma 1, lett. d), del DPR n. 380
del 2001, cioè la norma che definisce l’istituto della <ristrutturazione
edilizia>; a seguito di tale modifica rientrano nella
ristrutturazione edilizia anche gli interventi edilizi “volti
al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente
crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione,
purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”;
parte ricorrente ritiene che nella specie sussistano i
presupposti per assentire l’intervento edilizio richiesto
alla luce della nuova definizione normativa della
ristrutturazione edilizia.
Ma la tesi di parte ricorrente non convince.
Da un primo punto di vista è vero che la nuova disciplina
della <ricostruzione dei ruderi>, sposta fattispecie
che in passato sono state fatte rientrare negli interventi
di “nuova edificazione” nell’ambito delle “ristrutturazione
edilizia”; tuttavia ciò avviene a precise condizioni
previste dalla norma e cioè laddove si voglia ricostruire un
immobile crollato o demolito del quale “sia possibile
accertare la preesistente consistenza”.
Dunque non è sufficiente che si dimostri che un immobile è
esistito e che attualmente risulta crollato per potere
accedere alla sua ricostruzione come “ristrutturazione
edilizia”, ma è necessario che in concreto si dimostri
non solo il profilo dell’an (che un certo immobile
attualmente crollato è esistito) ma anche quello del
quantum (che cioè si dimostri l’esatta consistenza
dell’immobile preesistente del quale si richiede la
ricostruzione); il risultato è che se invece si riesce solo
a dimostrare che in un certo luogo vi era in passato un
immobile oggi demolito, ma non si riesce a dimostrarne la
consistenza, la sua rinnovata edificazione deve essere
inquadrata come “nuova costruzione”.
Dimostrare la “preesistente consistenza” vuol dire,
come anche parte ricorrente ammette, dar conto della “destinazione
d’uso e [del]l’ingombro planivolumetrico complessivo del
fabbricato crollato”, profilo quest’ultimo che richiede
certezza in punto di murature perimetrali e di strutture
orizzontali di copertura, ai fini del calcolo del volume
preesistente occupato dal fabbricato crollato.
Nel caso in esame elementi fattuali aventi un qualche grado
di certezza sull’effettivo ingombro planivilumetrico
dell’edificio preesistente non ci sono. Nel ricorso e nella
relazione tecnica allegata all’istanza di permesso di
costruire (doc. 2 dell’Amministrazione) si dice apertamente
che l’immobile che si intende ricostruire non solo è
crollato, ma è “non più identificabile dai resti”.
La documentazione che parte ricorrente ha prodotto in sede
procedimentale e anche quella aggiuntiva prodotta in
giudizio, se danno conto della certa preesistenza
dell’immobile di cui si chiede la ricostruzione non
consentono di ritenere accertata la sua effettiva
consistenza; se dubbi suscita l’individuazione delle
dimensioni in pianta dell’edificio, che dovrebbero ricavarsi
da una vecchia mappa catastale e da un estratto del c.d.
Catasto Leopoldino (atti che non consentono di ricavare
elementi quantitativi certi), sicuramente inidoneo risulta
il calcolo dell’altezza dell’edificio crollato; quest’ultimo
elemento (altezza dell’edificio) è infatti ricavato da parte
ricorrente applicando, ad una foto aerea del 1965, la c.d. “teoria
delle ombre”, cioè uno studio che stima le altezze degli
immobili dal confronto tra le ombre dei vari edifici,
ricavabili dalla foto, alcuni dei quali ancora esistenti:
come l’Amministrazione ha ben argomentato nella relazione
tecnica del 27.02.2014 (doc. 13 del deposito
dell’Amministrazione), si tratta di calcoli con margine di
errore molto alto (sino a 8 metri) e quindi con
attendibilità assai ridotta, stante il fatto che si utilizza
una foto scattata a 2.800 metri di quota e in scala 1:
20.000, con il risultato che essa non risulta idonea ad
integrare la previsione normativa che richiede che sia “accertata”
la preesistente consistenza dell’immobile
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 21.03.2014 n. 567 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
NOVITA' NEL SITO |
Inserito il nuovo bottone:
dossier ABBAINO. |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
ATTI
AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI:
Oggetto: ambito soggettivo ed oggettivo di applicazione
delle regole di trasparenza di cui alla legge 06.11.2012, n.
190 e al decreto legislativo 14.03.2013, n. 33: in
particolare, gli enti economici e le società controllate e
partecipate (circolare 14.02.2014
n. 1/2014). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI SERVIZI:
G. P. Belloni,
Alcune questioni operative afferenti il ciclo dei rifiuti:
ambiti territoriali ottimali, affidamenti della gestione,
obbligo di associazione per i piccoli comuni (25.03.2014
- link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/
Fusioni, 3 mandati.
Un sindaco che ha già espletato due mandati consecutivi in
un ente che si è fuso con altri enti in un unico comune, può
ricandidarsi alla carica sindacale nel nuovo ente?
Il divieto del terzo mandato, disciplinato dall'art. 51 del
decreto legislativo n. 267/2000, opera solo se la
candidatura a sindaco viene presentata dall'interessato
nello stesso comune dove già ha ricoperto la medesima carica
per due mandati consecutivi. Poiché nel caso di specie gli
enti che si sono fusi sono estinti e hanno dato origine ad
un nuovo comune, in tale specifica ipotesi non è applicabile
il divieto del terzo mandato
(articolo ItaliaOggi del
21.03.2014). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Quorum per le sedute.
Ai fini del calcolo del quorum necessario per la validità
delle sedute del consiglio comunale, deve essere computato
anche il sindaco?
L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, ha
demandato alla fonte regolamentare, nel quadro dei principi
stabiliti dallo statuto, il funzionamento dei consigli e, in
particolare, la determinazione del numero legale per la
validità delle sedute, con il limite che detto numero non
può, in ogni caso, essere inferiore al «terzo dei
consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a
tal fine il sindaco».
Nel caso di specie, il regolamento che disciplina il
funzionamento del consiglio comunale, nel prevedere il
quorum strutturale, non precisa se nel novero dei
consiglieri assegnati debba essere computato o meno il
sindaco.
In merito alla computabilità del sindaco ai fini della
definizione del quorum strutturale delle adunanze
consiliari, non si riscontrano univoci orientamenti
giurisprudenziali (cfr. Tar Puglia sent.1301/2004, Tar
Lazio, sez. II-ter, sentenza n. 497/2011, Tar Lombardia
sentenza n. 1109/2005 e n.1604/2011 e Tar Campania Salerno,
sez. II, 20/05/2002, n. 373).
Ciò considerato, in base al principio generale secondo cui,
nelle ipotesi in cui l'ordinamento non ha inteso annoverare
il sindaco o il presidente della provincia nel quorum
richiesto per la validità di una seduta lo ha indicato
espressamente, usando la formula «senza computare a tal
fine il sindaco e il presidente della provincia», si
ritiene che, nella fattispecie, sia legittimo includere nel
calcolo dei consiglieri anche il sindaco
(articolo ItaliaOggi del
21.03.2014). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE: Non
sono incentivabili le funzioni
attribuite ad un organo di alta vigilanza comunale –nei
confronti dei soggetti attuatori o in affiancamento al RUP
nominato dai medesimi privati- che vigili sulla
progettazione ed esecuzione dei lavori e su tutte le
clausole pattizie attinenti ai lavori, contenute nella
convenzione, relative alle opere che verranno a far parte
del patrimonio indisponibile del Comune, dopo l’esito
favorevole del collaudo.
Infatti, non si comprendono le ragioni per le quali detto
incentivo debba essere riconosciuto per un’attività di
vigilanza che il Comune avrebbe intenzione di far volgere
esclusivamente sulla progettazione ed esecuzione dei lavori
affidati a dei concessionari esterni, definiti dallo stesso
richiedente come “soggetti attuatori di progetti esecutivi”.
Ad avviso di questa Sezione, pertanto, mancherebbe il
presupposto necessario al riconoscimento dell’incentivo di
cui al comma 6, ossia l’attività di redazione di un atto di
pianificazione, posto che l’attività di vigilanza
dell’istituendo organo, per espresso riferimento dell’ente
richiedente, avrebbe come oggetto l’attività di
progettazione e di esecuzione dei lavori da parte di
soggetti attuatori di opere di attuazione degli strumenti
urbanistici e che, quindi, verrebbe a collocarsi in un
momento successivo e distinto da quello della pianificazione
urbanistica, comunque intesa.
Il Sindaco del Comune di Verona, con la nota indicata in
epigrafe, ha posto un quesito in ordine al riconoscimento
dell’incentivo alla pianificazione previsto dall’art. 92,
comma 6, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 (Codice dei
contratti).
In particolare, il Comune di Verona espone che ritiene
necessario procedere, per via regolamentare, alla
attivazione di una più stretta sorveglianza sulle procedure
che gli operatori economici, soggetti attuatori dei piani
urbanistici esecutivi, pongono in atto nelle vesti di
stazione appaltante, prevedendo l’istituzione di uno
specifico organo di alta vigilanza (come previsto anche
dall’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici –
deliberazione 11.03.2010 AG 2/2010) nominato dal concedente.
Si tratterebbe di una figura che esercita, a cura del
concedente stesso, una funzione di vigilanza sulla
progettazione e sulla esecuzione dei lavori, oltre a tutte
le eventuali ulteriori funzioni, riconosciutegli in apposita
convenzione.
Tutto ciò premesso, il Sindaco chiede se, ai sensi
dell’art. 92, comma 6, del D.Lgs. 163/2006, sono
incentivabili le funzioni attribuite ad un organo di alta
vigilanza comunale –nei confronti dei soggetti attuatori o
in affiancamento al RUP nominato dai medesimi privati- che
vigili sulla progettazione ed esecuzione dei lavori e su
tutte le clausole pattizie attinenti ai lavori, contenute
nella convenzione, relative alle opere che verranno a far
parte del patrimonio indisponibile del Comune, dopo l’esito
favorevole del collaudo, e più precisamente:
a) le opere di urbanizzazione primaria e secondaria a
scomputo;
b) le opere funzionali alla realizzazione degli
interventi di trasformazione, anche eccedenti gli scomputi
(art. 20, comma 17, ed art. 160, comma 4, della NTO del PI);
c) le opere pubbliche non direttamente funzionali alla
realizzazione degli interventi di trasformazione, ma
previste a carico del soggetto attuatore nell’ambito di
accordi ex art. 6 o 7 della L.R. 11/2004 per le finalità di
cui all’art. 157 della NTO del PI o ad esse assimilabili.
Nella richiesta di parere viene altresì specificato che, per
le funzioni attribuite a detto organo di alta vigilanza, il
fondo è calcolato nella misura del 10% di quello previsto
per analoga opera pubblica a favore del RUP comunale; che il
medesimo fondo è inserito nel quadro economico (spese
tecniche) del progetto e che è integralmente finanziato dal
soggetto attuatore privato, in attuazione della convenzione
urbanistica.
Infine, viene precisato che la liquidazione del compenso
incentivante all’organo di alta vigilanza avverrebbe in
conformità alle norme previste dal regolamento per il RUP,
in quanto applicabili, dopo il versamento a favore del
Comune del corrispondente importo da parte del soggetto
attuatore privato, conformemente alle clausole convenzionali
ed al quadro economico di progetto.
...
L’ambito di applicazione dell’incentivo per la redazione di
un atto di pianificazione urbanistica di cui all’art. 92,
comma 6, del D.Lgs. 163/2006 (che prevede che “il trenta
per cento della tariffa professionale relativa alla
redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è
ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel
regolamento di cui al comma 5, tra i dipendenti
dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”)
è stato oggetto di una serie di pronunce da parte di questa
Sezione, alcune delle quali richiamate anche nella stessa
richiesta.
Tali interventi hanno avuto come oggetto sia le implicazioni
che l’applicazione di tale incentivo può avere in ordine al
trattamento economico del personale dipendente dell’ente;
sia l’ambito dei soggetti legittimati a riceverlo; sia i
presupposti necessari al suo riconoscimento e, cioè, cosa
debba essere ricompreso nell’ambito di “atto di
pianificazione comunque denominato”, per la cui
redazione (o partecipazione all’attività di redazione) viene
riconosciuto l’incentivo in argomento.
A questo riguardo, è opportuno segnalare che con
parere 21.01.2014 n. 6
della Sezione regionale di controllo per la Liguria è stata
rimessa alle Sezioni delle Autonomie una questione di
massima sulla necessaria inerenza o meno dell’atto di
pianificazione –la cui redazione darebbe luogo all’incentivo
in questione– alla realizzazione di opere pubbliche (vedi ad
es. il caso di redazione di atti di pianificazione generale
non necessariamente connessi ad un’opera pubblica).
Chiarito che sulla portata interpretativa della norma in
questione si attende una pronuncia delle Sezione delle
Autonomie, questo Collegio deve rilevare che nel quesito,
così come formulato dal Sindaco di Verona, risulta improprio
il richiamo all’incentivo di cui al comma 6, dell’art. 92
del Codice dei contratti. Infatti, non si
comprendono le ragioni per le quali detto incentivo debba
essere riconosciuto per un’attività di vigilanza che il
Comune avrebbe intenzione di far volgere esclusivamente
sulla progettazione ed esecuzione dei lavori affidati a dei
concessionari esterni, definiti dallo stesso richiedente
come “soggetti attuatori di progetti esecutivi”.
Ad avviso di questa Sezione, pertanto,
mancherebbe il presupposto necessario al riconoscimento
dell’incentivo di cui al comma 6, ossia l’attività di
redazione di un atto di pianificazione, posto che l’attività
di vigilanza dell’istituendo organo, per espresso
riferimento dell’ente richiedente, avrebbe come oggetto
l’attività di progettazione e di esecuzione dei lavori da
parte di soggetti attuatori di opere di attuazione degli
strumenti urbanistici e che, quindi, verrebbe a collocarsi
in un momento successivo e distinto da quello della
pianificazione urbanistica, comunque intesa
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 20.03.2014 n. 219). |
ENTI LOCALI: Ricapitalizzazione illegittima senza l'ok del ragioniere
capo. Corte dei conti. Rapporti finanziari con le aziende.
La delibera
consiliare con la quale l'ente locale autorizza l'assemblea
dei soci alla ricapitalizzazione societaria non è
configurabile come mero atto di indirizzo, quindi è
necessario che il responsabile del servizio interessato e il
responsabile del servizio finanziario esprimano i pareri
previsti dall'articolo 49, comma 1, del Dlgs 267/2000. La
ricapitalizzazione per perdite produce infatti conseguenze
dirette o indirette sulla situazione economico-finanziaria o
patrimoniale dell'ente, anche in funzione degli obblighi di
futuro consolidamento dei conti.
Con il
parere 05.03.2014 n. 96 la sezione regionale di controllo
della Corte dei Conti della Lombardia esprime perplessità
sulla ricapitalizzazione di società finalizzata alla mera
liquidazione dell'attivo e non al rilancio strategico delle
attività.
Prodromica a qualunque valutazione è la verifica dei
riflessi sul bilancio locale derivanti dal sostenimento di
oneri correnti per la copertura di perdite e degli effetti
indiretti e futuri che potrebbero scaturire in conseguenza
di previsioni poco attendibili.
Resta immutato il vincolo di finanza pubblica recato
dall'articolo 6, comma 19, del Dl 78/2010 e sintetizzato nel
principio del divieto di soccorso finanziario. Non sono
pertanto ammissibili interventi a fondo perduto per il
ripiano di perdite strutturali, non supportati da idonei
piani industriali basati su una prospettiva di rilancio
economico-finanziario di medio-lungo periodo.
Il richiamo operato all'articolo 2447, comma 19 del Codice
civile rappresenta norma di coordinamento tra la disciplina
pubblicistica e quella societaria. Poiché, come anche
chiarito dalla Cassazione, la riduzione del capitale al di
sotto del limite legale produce automaticamente lo
scioglimento della società, ne deriva che la mancata
adozione da parte dell'assemblea dei provvedimenti di
azzeramento e ripristino del capitale o di trasformazione
sociale non esonera gli amministratori dalla responsabilità
conseguente al proseguimento dell'attività di impresa in
violazione del divieto di nuove operazioni.
L'amministrazione che non intendesse procedere allo
scioglimento dovrebbe motivare adeguatamente la scelta,
valutando il piano industriale e, nel caso di società di
interesse generale, il relativo contratto di servizio,
attraverso cui regolare le condizioni di efficienza della
gestione e di equilibrio economico-finanziario nel tempo.
In questa prospettiva, sostengono i magistrati contabili, la
perdita in sé potrebbe non rappresentare fatto negativo, in
quanto connessa a fasi di rilancio dell'attività o
connaturata alla natura di servizi poco remunerativi, quali,
in certi casi, il trasporto pubblico locale (articolo Il Sole 24 Ore del
17.03.2014). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Altro stop ai contributi dei sindaci «autonomi».
Corte conti Liguria. Non dovuti agli amministratori che
continuano a lavorare.
Nell'arco di
due mesi arriva il terzo parere della Corte dei conti in
materia di contributi a carico degli enti locali per gli
amministratori che siano lavoratori autonomi. Dopo la
Basilicata (deliberazione
15.01.2014 n. 3) e Lombardia (parere
05.03.2014 n. 95) si è
pronunciata la Corte ligure (05.03.2014
n. 16).
Finora la contribuzione è stata versata dagli enti nei
confronti degli amministratori locali che non sono
lavoratori dipendenti e che rivestono le cariche di sindaci,
presidenti di provincia, comunità montane, unioni di comuni
e di consorzi fra enti locali, assessori provinciali nonché
dei comuni con oltre 10mila abitanti, presidenti dei
consigli comunali con oltre 50mila abitanti nonché di quelli
dei consigli provinciali.
Infatti l'articolo 86 del Testo unico enti locali prevede
che a tali figure l'amministrazione provveda al pagamento di
una cifra forfettaria annuale, stabilita con il decreto
ministeriale 25 maggio 2001 in coerenza con quanto previsto
per i lavoratori dipendenti, da conferire alla forma
pensionistica presso la quale l'amministratore è iscritto
alla data dell'incarico. Il pagamento scatta sia che il
lavoratore autonomo prosegua o meno la sua attività durante
l'incarico presso l'ente.
Invece per gli amministratori che sono lavoratori dipendenti
non in aspettativa la contribuzione non è dovuta: l'obbligo
scatta in capo all'ente solo se il lavoratore decide di
dedicarsi esclusivamente all'attività per la quale è stato
eletto.
La problematica è legata al fatto che i lavoratori autonomi
non possono godere di periodi di aspettativa. Secondo la
Corte dei conti gli autonomi devono dichiarare l'esplicita e
totale rinuncia, durante il mandato, all'attività
professionale espletata.
In caso contrario, ritiene la Corte, si creerebbe una
situazione di disparità di trattamento tra lavoratori
dipendenti e non dipendenti perché questi ultimi verrebbero
a cumulare due benefici che il legislatore, per i dipendenti
ritiene incompatibili, cioè l'indennità di funzione in
misura piena e il versamento dei contributi sostitutivi.
Urge un'interpretazione autentica per togliere gli uffici
degli enti dall'impasse (articolo Il Sole 24 Ore del
20.03.2014). |
NEWS |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Durc consultabile on-line.
Il certificato di regolarità visibile sul web da chi ne ha
interesse.
L'Esecutivo Renzi rilancia il Durc dematerializzato. Nel decreto legge
34/2014, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 66 del 20
marzo e in vigore da ieri, tra le varie misure urgenti per
semplificare gli adempimenti a carico delle aziende viene
rimessa in gioco la possibile trasformazione del Durc.
Si tratta di un progetto, in realtà più volte caldeggiato,
che dovrebbe convertire il documento unico di regolarità
contributiva in una semplice interrogazione che ognuno potrà
eseguire dal proprio computer. La chiave risiede
nell'apertura delle banche dati in cui sono memorizzate le
informazioni che servono a verificare se un determinato
soggetto è in regola con i vari versamenti. Si tratta di un
ulteriore passo avanti per il miglioramento delle procedure.
L'attuale tentativo di semplificazione segue, a ruota, lo
sdoganamento definitivo della regolamentazione che consente
alle aziende che hanno dei debiti nei confronti degli
istituti previdenziali e assicurativi nonché verso le Casse
edili ma, contemporaneamente, vantano crediti nei riguardi
delle pubbliche amministrazioni, di richiedere, comunque, la
certificazione (Dm 13.03.2013).
La visualizzazione della regolarità contributiva, secondo
quanto indicato all'articolo 4 del decreto, consisterà nella
verifica, in tempo reale, della posizione dei contribuenti
nei riguardi di Inps e Inail; a questi si aggiunge, per i
datori di lavoro interessati, anche la Cassa edile. Al
momento, in realtà, nulla di operativo ma solo la previsione
di una regolamentazione affidata a un decreto che i ministri
del Lavoro e dell'Economia e delle finanze dovranno
adottare, sentiti Inps e Inail, entro 60 giorni che
decorrono dal 21.03.2014.
Se e quando il decreto attuativo andrà a regime, chiunque vi
abbia interesse potrà verificare in tempo reale e online la
regolarità contributiva. L'esito varrà 120 giorni e le sue
risultanze sostituiranno a ogni effetto il Durc, in tutti i
casi in cui lo stesso è previsto, a eccezione delle ipotesi
di esclusione individuate dal decreto.
La verifica online della regolarità riguarderà i pagamenti
scaduti sino all'ultimo giorno del secondo mese antecedente
a quello in cui si effettua la verifica stessa, a patto che
sia scaduto anche il termine di presentazione delle relative
denunce retributive e comprende sia la situazione dei
lavoratori subordinati che dei collaboratori (cococo/cocopro).
Attraverso l'inserimento del codice fiscale del soggetto da
verificare, sarà possibile far partire un controllo che
andrà a scandagliare gli archivi degli enti interessati
(Inps, Inail e Casse edili). Avvalendosi della procedura
telematica che verrà realizzata, sarà possibile anche venire
a conoscenza delle tipologie di pregresse irregolarità di
natura previdenziale e in materia di tutela delle condizioni
di lavoro che sono di ostacolo al godimento dei benefici
normativi e contributivi (condizione voluta dall'articolo 1,
comma 1175, della legge 296/2006).
La visualizzazione online, servirà anche a effettuare le
necessarie verifiche disposte, in materia, dal vigente
Codice dei contratti pubblici e, in particolare, di quanto
previsto dal comma 1, lettera i), dell'articolo 38, del
decreto legislativo 163/2006. Tale disposizione stabilisce
l'esclusione dalle gare di affidamento delle concessioni,
degli appalti nonché dei subappalti, dei soggetti che hanno
commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle
norme in materia di contributi previdenziali e
assistenziali.
Per il futuro, per accertare l'assenza di tali elementi
inficianti, ci si baserà solo ed elusivamente sui dati
emersi dalle verifiche online.
Il decreto interministeriale potrebbe essere sottoposto a
revisione ogni anno per adeguarlo alle eventuali modifiche
delle norme e dei sistemi telematici (articolo Il Sole 24 Ore del
22.03.2014). |
ENTI LOCALI -
VARI:
Il comune stabilisce la multa.
Sosta oltre orario, nel regolamento la somma da pagare.
STRISCE BLU/ Tesi dell'Anci in contrasto col ministero. Ma
Lupi: il caso è chiuso.
All'automobilista che parcheggia con ticket scaduto nei
parcheggi a pagamento in cui non sono imposte limitazioni
temporali per la sosta (strisce blu) si applica una sanzione
che deve essere definita dal regolamento comunale.
Lo ha
precisato l'Anci con il
comunicato
21.03.2014.
Giovedì
scorso (si veda ItaliaOggi di ieri) il governo, nella
risposta all'interrogazione parlamentare 5/02362, fornita
dal sottosegretario alle Infrastrutture e trasporti Umberto
Del Basso de Caro, ha preso posizione sulla questione delle
sanzioni per il ticket scaduto. Il dicastero ha ribadito più
volte nel corso degli ultimi anni, con una serie di pareri,
che negli stalli blu in cui non sono imposti limiti
temporali la sosta protratta oltre l'orario per cui è stato
pagato il ticket non comporta l'applicazione di sanzioni del
codice della strada, ma configura soltanto un'inadempienza
contrattuale; in tal caso si deve procedere a recuperare le
somme non corrisposte (con maggiorazione per penali e
rimborso spese), ai sensi dell'art. 17, c. 132, della legge
127/1997.
Negli ultimi anni anche il l'Interno ha emesso nel
2007 e 2010 alcuni pareri che si pongono in linea con le
indicazioni del Mit. Secondo tale interpretazione, per
recuperare i mancati pagamenti le amministrazioni locali
possono affidare al gestore del servizio le azioni
necessarie al recupero delle evasioni tariffarie e dei
mancati pagamenti, ivi compresi il rimborso delle spese e le
penali. Ora, con il comunicato diffuso ieri, l'Anci offre
un'interpretazione innovativa e ancor più particolareggiata,
affermando che se la sosta si protrae oltre l'orario per cui
è stata pagata la tariffa dovuta, si applica la disposizione
sanzionatoria prevista dalla disciplina della sosta, anche
in relazione a quanto disposto dalla legge 127, ovvero
quella prevista dal regolamento comunale. In sostanza, per
il ticket scaduto negli stalli blu, in cui non sono imposte
limitazioni temporali per la sosta, la sanzione da applicare
deve essere stabilita dai regolamenti comunali.
In serata la (dura) risposta del ministro delle
infrastrutture e trasporti Maurizio Lupi: «La questione è
semplice, se ho pagato la sosta e poi sto 10 minuti in più,
non posso ricevere la multa, ma dovrò pagare la differenza e
il tempo in più. Ai comuni chiediamo di rispettare le regole
che il codice della strada prevede. Non serve una norma,
perché abbiamo verificato che l'interpretazione della norma
è chiara e quindi il caso è chiuso. Per una volta non
complichiamo la vita ai cittadini»
(articolo ItaliaOggi del
22.03.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: Campi elettrici accatastati.
Dm in G.U..
Istituito il catasto nazionale delle sorgenti dei campi
elettrici, magnetici ed elettromagnetici e delle zone
territoriali interessate al fine di rilevare i livelli di
campo presenti nell'ambiente.
Lo prevede il dm ambiente 13.02. 2014 pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale serie generale n. 58 dell'11/03/2014.
Il provvedimento (in vigore dall'11.03.2014) è emanato ai
sensi della legge 36/2001. L'attività di realizzazione e
gestione del catasto nazionale è svolta dal ministero
dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare che a
tal fine si avvale dell'istituto superiore per la protezione
e la ricerca ambientale.
Il catasto nazionale permette la produzione di informazioni
per le attività di monitoraggio e controllo ambientale
necessarie a costituire supporto informativo utile per la
valutazione d'impatto di nuove singole sorgenti o per la
pianificazione complessiva dell'installazione di nuove
sorgenti e fornire supporto alle pubbliche amministrazioni
in fase di procedimenti autorizzativi in materia di edilizia
(articolo ItaliaOggi del
22.03.2014). |
APPALTI SERVIZI: Standard per le imprese di recupero.
Rifiuti urbani, raccolta a punti.
Raccolta differenziata oltre il «mono materiale», mezzi di
trasporto con verifica dei rifiuti caricati, apertura centri
di stoccaggio anche nel fine settimana. Queste, insieme a
promozione di autocompostaggio e campagne informative ad hoc
per la cittadinanza, le caratteristiche oramai necessarie
per aggiudicarsi la gestione dei rifiuti urbani.
A sancirlo
è il nuovo dm Minambiente 13.02.2014 (G.U. dell'11.03.2014, n. 58), che nello stabilire i nuovi «criteri
ambientali minimi» per poter partecipare agli appalti in
parola prevede dei paralleli «criteri premianti» che
permetteranno alla pubblica amministrazione di attribuire
punteggi aggiuntivi alle imprese concorrenti più
eco-virtuose.
I super standard. A godere dei «punti premio»
saranno le aziende che promettono di raccogliere
separatamente presso l'utenza gli imballaggi in vetro chiaro
da quelli in vetro scuro.
In relazione alla movimentazione,
una corsia preferenziale sarà invece data alle imprese
munite della seguente flotta di automezzi: oltre il 40% a
motorizzazione pari o superiore ad Euro 5 (o alimentati da
elettricità, gpl o propulsione ibrida); almeno il 50% dotata
di vasche di carico monomateriale o altri dispositivi di
lettura automatica dell'utenza conferente.
Saranno poi
premiate le imprese che promettono, andando ben oltre le 12
ore settimanali previste dai criteri base, di tenere i
centro di raccolta aperti il sabato per l'intera giornata e
la domenica per almeno la metà.
Ad accrescere le possibilità
di aggiudicazione sarà anche la distribuzione di compostiere
domestiche (in comodato gratuito o altra forma vantaggiosa)
alle utenze con giardini ed orti, previa realizzazione di
seminari informativi sul loro uso e successivo controllo sul
loro operato. Costituirà infine ulteriore criterio premiante
lo sviluppo, lungo l'intera durata del contratto di
servizio, di sessioni informative rivolte alla cittadinanza
(componente studentesca inclusa) su riduzione e corretta
gestione dei rifiuti.
Le nome di riferimento. I nuovi
criteri ambientali stabiliti dal dm Minambiente 13.02.2014 si inseriscono nel più generale quadro normativo
costituito dal dlgs 163/2006 sugli appalti pubblici (che
impone alla p.a. di fondare le gare di appalto su criteri
ambientali «ogniqualvolta sia possibile»)
(articolo ItaliaOggi del
22.03.2014). |
ENTI LOCALI -
VARI:
Sosta oltre orario, niente multe.
Solo inadempienza contrattuale se non si paga il ticket.
Il sottosegretario al ministero dei trasporti ha
risposto a un'interrogazione parlamentare.
Niente multa per chi prolunga la sosta nelle strisce blu
oltre l'orario per il quale ha regolarmente pagato.
È quanto
precisa il ministro delle infrastrutture e dei trasporti a
seguito di un'interrogazione parlamentare a cui ha risposto
il sottosegretario Umberto Del Basso De Caro (risposta
20.03.2014 ad interrogazione in Commissione n. 5/02362).
Il parere
del dicastero guidato da Maurizio Lupi è che, nel caso di
sosta illimitata tariffata, il pagamento in misura
insufficiente non costituisca violazione di una norma di
comportamento, ma configuri unicamente una «inadempienza
contrattuale». Pertanto, nei casi di pagamenti in misura
insufficiente, l'inadempienza implica il saldo della tariffa
non corrisposta.
Niente multa, quindi -spiega il ministero
(si veda quanto pubblicato su ItaliaOggi del 14 marzo
scorso)- perché «in materia di sosta, gli unici obblighi
previsti dal Codice sono quelli indicati dall'articolo 157,
comma 6, e precisamente l'obbligo di segnalare in modo
chiaramente visibile l'orario di inizio della sosta, qualora
questa sia permessa per un tempo limitato, e l'obbligo di
mettere in funzione il dispositivo di controllo della durata
della sosta, ove questo esista; la violazione di tali
obblighi comporta la sanzione prevista dal medesimo articolo
157, comma 8, del Codice medesimo».
Alcuni Comuni obiettano
che un parere del ministero dell'Interno del 2003 dice il
contrario. Ma il Ministero delle infrastrutture e dei
trasporti risponde: «Non risulta alcuna situazione di
conflitto interpretativo con il ministero dell'interno:
quest'ultimo, infatti, in seguito a un riesame della propria
posizione espressa nel 2003, ha successivamente (nel 2007)
condiviso la disamina della tematica svolta dal Mit ed
emesso (nel 2010) una serie di pareri in tal senso»,
pareri condivisi dal Servizio della Polizia stradale del
Dipartimento di Pubblica sicurezza.
Per recuperare i mancati pagamenti, le amministrazioni
locali possono affidare al gestore del servizio le azioni
necessarie al recupero delle evasioni tariffarie e dei
mancati pagamenti, ivi compresi il rimborso delle spese e le
penali, da stabilire con apposito regolamento comunale,
secondo le indicazioni e le limitazioni fornite dal Codice
civile e dal Codice del consumo
(articolo ItaliaOggi del
21.03.2014). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: P.a., trasparenza senza riserve.
Incarichi e contributi in chiaro. Anche nelle partecipate.
Con un anno di ritardo la circolare
della Funzione pubblica sul decreto 33/2013.
Alle società partecipate dalle amministrazioni pubbliche si
applicano le disposizioni sulla trasparenza, con l'eccezione
delle società quotate.
La Funzione pubblica ha elaborato la
circolare 14.02.2014
n. 1/2014 (in ritardo di un anno)
sull'applicazione del dlgs 33/2013 alle partecipate, che
avevano manifestato molte resistenze, trincerandosi su una
presunta non estendibilità piena della disciplina alla loro
fattispecie.
Regime applicativo. La circolare, non ancora numerata,
sostanzialmente estende gli obblighi di trasparenza a tutto
il panorama delle partecipate, ma anche agli enti privati in
controllo pubblico, come ad esempio associazioni e
fondazioni. Esiste, tuttavia, un regime differenziato per
società ed enti di diritto privato solo partecipati, non in
controllo pubblico, o nei quali la pubblica amministrazione
abbia una partecipazione minoritaria. In questo caso, il dlgs 33/2013 non si applica, salvo il caso in cui svolgano
attività di pubblico interesse e limitatamente a tali
attività.
La circolare, poi, chiarisce che “le società
partecipate da amministrazioni pubbliche che emettono
strumenti finanziari, quotati in mercati regolamentati, pur
non espressamente richiamate dal dlgs. n. 33 del 2013, non
possono ritenersi soggette agli obblighi di trasparenza
indicati dal d.lgs. n. 33 del 2013, per evidenti ragioni di
pubblico interesse e di coordinamento con le disposizioni di
cui al dlgs 39 del 2013 (nel quale sono espressamente
indicate), al pari delle società partecipate quotate in
mercati regolamentati e delle loro controllate”.
Concetto di p.a. La circolare, dunque, fornisce, ai fini
della trasparenza e dell'anti corruzione, un'accezione molto
ampia di pubblica amministrazione. La sfera di applicazione
della normativa riguarda “tutti quei soggetti che,
indipendentemente dalla loro formale veste giuridica,
perseguono finalità di interesse pubblico, in virtù di un
affidamento diretto o di un rapporto autorizzatorio o
concessorio (e che, proprio in ragione di tale rapporto
privilegiato con la pubblica amministrazione, possono
vantare una posizione differenziata rispetto agli altri
operatori di mercato) e che gestiscono o dispongono di
risorse pubbliche”.
Oggetto della trasparenza. Le informazioni da caricare sui
portali non riguardano l'attività commerciale o “di mercato”
degli enti privati. Oggetto delle informazioni, infatti sono
organizzazione ed attività limitatamente alla cura di
interessi pubblici. In particolare, spiega Palazzo Vidoni,
per attività di pubblico interesse si intende “l'esercizio
di funzioni amministrative, attività di produzione di beni e
servizi a favore delle amministrazioni pubbliche, di
gestione di servizi pubblici o di concessione di beni
pubblici”.
Programma triennale e responsabile. Individuato il piano di
applicazione soggettivo ed oggettivo, la circolare chiarisce
quali sono gli specifici ambiti del dlgs 33/2013 che anche
enti e società partecipate debbono applicare. In
particolare, sono soggetti, come le PA, ad adottare il piano
triennale della trasparenza e a nominare il responsabile.
L'organo di governo deve incaricare un responsabile apicale,
potendo, motivatamente, decidere di attribuire la funzione
di responsabile anticorruzione ad un soggetto diverso,
motivando tale scelta. Il responsabile della trasparenza è
chiamato ad assicurare il cosiddetto “accesso civico”, che
si applica anche a società ed enti.
Organizzazione ed organi. Al pari delle PA, enti e società
partecipate debbono pubblicare tutti i dati organizzativi.
Si applica anche l'articolo 14 del d.lgs 33/2013, che impone
la pubblicazione della situazione patrimoniale. Secondo
Palazzo Vidoni, sicuramente tale pubblicazione riguarda
presidente e componenti dei Cda designati dalle pubbliche
amministrazioni di riferimento. Per gli altri componenti di
designazione “privata”, la circolare ritiene che la
pubblicazione dei dati sia solo “auspicabile”.
Altri oneri di pubblicità. Enti e società partecipate,
ancora, non possono sottrarsi alle forme di pubblicità
previste dal dlgs 33/2013 per incarichi a dirigenti,
consulenti e collaboratori, per l'erogazione di contributi e
sussidi a terzi, per le procedure di concorso finalizzate
alle assunzioni e per gli appalti. Sono, dunque, da
applicare integralmente gli articoli 15, 26, 27, 37, 38 del
decreto sulla trasparenza e l'articolo 1, comma 32, della
legge 190/2012.
Partecipazioni. Obbligatorio che enti e società partecipate
pubblichino anche i dati relativi alle loro partecipazioni
in altri enti “di secondo grado”. Per questi ultimi, secondo
la circolare, potrebbero anche “promuovere” la
pubblicazione, da parte loro, delle eventuali ulteriori
partecipazioni
(articolo ItaliaOggi del
21.03.2014). |
APPALTI: Authority appalti sotto assedio.
Rischio soppressione. Competenze alle Infrastrutture.
Il piano Cottarelli prevede anche il depotenziamento dell'AvcPass
per i controlli contributivi.
Autorità di vigilanza sui contratti pubblici sotto assedio:
il ministro delle infrastrutture ha annunciato che le
competenze dell'organismo di vigilanza dovrebbero essere
ricondotte presso il dicastero di Porta Pia; nel «piano
Cottarelli» per la spending review si ipotizza la
soppressione dell'organismo di vigilanza; l'AvcPass viene
depotenziato per quel che riguarda i controlli sulla
regolarità contributiva dei concorrenti.
È questo il quadro
generale all'interno del quale, non senza qualche
difficoltà, l'autorità presieduta da Sergio Santoro continua
a operare sia per quel che riguarda i costi standard per la
sanità, sia per i bandi-tipo per i lavori e i servizi, sia
ancora per la messa a punto definitiva del sistema dell'AvcPass,
lo strumento informatico di controllo dei requisiti dei
concorrenti alle gare di appalto che entrerà in vigore il 1°
luglio.
Intanto il decreto legge sul lavoro, nel semplificare gli
accertamenti sulla regolarità contributiva, prevede che
l'accertamento sulla regolarità contributiva del concorrente
non debba più essere compiuto tramite l'AvcPass ma
direttamente presso gli enti competenti (Inps, Inail, Casse
edili) in modalità informatica per ottenere un documento,
sostitutivo del Durc, con validità di quattro mesi.
La norma bypassa quindi lo strumento gestito dall'Avcp,
anche se sarà necessario un decreto attuativo da emanarsi
nei due mesi successivi alla pubblicazione del
decreto-legge.
Nel frattempo, però, sul ruolo dell'Authority era stato
ministro Maurizio Lupi in persona, intervenendo l'11 marzo
presso la Commissione ambiente, territorio e lavori pubblici
della camera, ha porre in discussione l'attuale autonomia
dell'Authority di via di Ripetta, affermando che «per quanto
concerne l'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici
necessariamente tale organismo va portato all'interno delle
competenze del dicastero delle infrastrutture consentendo in
tal modo un contenimento dei costi e una diretta
correlazione tra procedure contrattuali e interventi
infrastrutturali».
Una presa di posizione molto forte che, ovviamente, non
potrà che essere discussa e approfondita in sede
parlamentare, ma in ogni caso mette in discussione
apertamente anche l'autonomia dell'organismo di vigilanza.
L'annuncio di Lupi è stato appoggiato anche da UnionSoa che
dopo l'avvio da parte della procura di Roma dell'indagine
giudiziaria su 26 Soa, ha puntato il dito proprio sui
controlli che l'organismo di vigilanza è competente a
svolgere sulle società organismo di attestazione.
Come se non bastasse è poi arrivato, mercoledì, anche il
«piano Cottarelli» che nell'elenco di diversi enti da
sopprimere, Cnel in primis, inserisce anche l'Autorità di
vigilanza sui contratti pubblici.
In realtà va però sottolineato come nello stesso documento,
Cottarelli sembra invece presupporre la permanenza
dell'organismo di vigilanza laddove auspica che sia del
tutto accessibile la banca dati nazionale sui contratti
pubblici dell'Authority. In questo clima certamente non
facile l'Autorità di controllo sui contratti pubblici ha
ormai in cantiere il varo dei bandi-tipo sui lavori e sui
servizi di ingegneria che entro maggio dovrebbero vedere la
luce
(articolo ItaliaOggi del
21.03.2014 - tratto da www.centroctudicni.it). |
ENTI LOCALI -
VARI: Lupi: i finti autovelox sono pericolosi e inutili.
I finti autovelox sono pericolosi e inutili.
Lo ha
dichiarato ieri sul suo portale il ministro dei trasporti
Maurizio Lupi.
La questione dei box autovelox che stanno spuntando in tutte
le strade come funghi non incontra molti limiti operativi a
parere dei tecnici ministeriali. Fino a ieri, infatti, con
ripetuti pareri è stato sempre specificato che nessuna
disposizione normativa limita l'impiego di questi dissuasori
di velocità. I dispositivi elettronici omologati, specifica
per esempio il dipartimento per i trasporti terrestri con il
parere n. 1561/2013, possono essere installati anche solo
saltuariamente nei box.
In centro abitato questi sistemi possono però essere resi
operativi solo con la necessaria presenza del vigile nelle
immediate vicinanze, prosegue il parere. Ma non serve che
l'agente sia visibile a fianco del box. Spiega infatti il
ministero che l'obbligo di visibilità deve essere
soddisfatto dalla postazione e dal relativo segnale di
avvertimento sia preventivo sia posizionato a ridosso del
misuratore.
A causa dell'eccessivo proliferare di installazioni però
alcuni cittadini hanno evidenziato l'inutilità di tanti
manufatti posizionati dalle amministrazioni comunali anche
in posizioni pericolose e per questo si è scatenata una
campagna mediatica contro tutti gli armadietti porta
autovelox. E il ministro è arrivato al punto di dichiarare
guerra al proliferare di questi armadietti di foggia e
colorazione diversa.
A parere di Lupi i finti autovelox usati dai comuni non sono
in regola e possono costituire un pericolo. I cosiddetti
finti autovelox, specifica il ministro, sono dispositivi
costituiti da contenitori vuoti in materiale prevalentemente
plastico di varia foggia e colorazione che vengono posti a
margine della strada con il dichiarato intento di
condizionare la velocità dei veicoli.
Per il ministero dei trasporti questi manufatti «non sono
inquadrabili in alcuna delle categorie di dispositivo o di
segnaletica previste dal vigente codice della strada e
pertanto non sono suscettibili né di omologazione né di
approvazione o autorizzazione. Dal ministero si aggiunge che
i finti autovelox possono anche costituire un pericolo. La
loro eventuale dislocazione a bordo strada dovrebbe
considerare la possibilità che tali manufatti possano
costituire ostacolo fisso, ancorché posti al di fuori della
carreggiata»
(articolo ItaliaOggi del
21.03.2014 - tratto da www.centroctudicni.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Giro di vite sui compensi d'oro.
Solo gli emolumenti occasionali sono esclusi dal tetto.
Circolare della Funzione pubblica. Il divieto di cumulo si
applica anche ai vitalizi elettivi.
Giro di vite sui compensi d'oro dei dipendenti pubblici. Il
tetto massimo, pari quest'anno a 311.659 euro, si applica
anche al personale di authority e amministrazioni non
statali. Nel tetto va compreso in pratica tutto ciò che, per
lavoro o consulenza, rappresenta il compenso di una p.a.,
restando fuori i compensi occasionali, quelli cioè non
superiori a 5 mila euro e relativi a rapporti di durata fino
a 30 giorni nell'anno solare.
Tuttavia questo riferimento dell'occasionalità al regime
delle mini co.co.co. appare discutibile, perché il dlgs n.
276/2003 non si applica al settore pubblico. Infine il
divieto di cumulo pensione-redditi, introdotto dalla legge
di stabilità 2014, si applica a tutte le pensioni tranne
quelle integrative (cioè dei fondi pensione) e compresi i
vitalizi elettivi. A tal fine gli interessati sono tenuti a
rilasciare un'autodichiarazione e le p.a. ad effettuare
controlli congiunti con gli enti di previdenza.
È quanto
spiega il ministro per la p.a., Maria Anna Madia, nella
circolare
18.03.2014 n. 3/2014.
Il tetto agli stipendi
La circolare illustra le novità in materia di limiti alle
retribuzioni (dl n. 201/2011, riforma Monti) e divieto di
cumulo con le pensioni, introdotte dalla legge di stabilità
2014 (legge n. 147/2013).
Sul limite ai trattamenti economici precisa che quest'anno
il tetto è pari a 311.658,53 euro e che, ai fini del
raggiungimento, si tiene conto degli emolumenti derivanti da
rapporti di lavoro dipendente o autonomi: stipendi,
indennità, voci accessorie, remunerazioni per consulenze,
per collaborazioni e per incarichi aggiuntivi conferiti da
p.a., anche se diverse da quelle di appartenenza.
La circolare precisa inoltre che a seguito della legge di
stabilità: la limitazione retributiva si applica anche al
personale delle autorità amministrative indipendenti nonché
a quello delle amministrazioni diverse da quelle statali;
che nel limite rientrano gli emolumenti degli organi di
amministrazione, direzione e controllo delle p.a.; che la
limitazione si applica anche alle regioni, ferma restando
per loro la possibilità di adeguare la normativa entro il 01.07.2014.
La legge di Stabilità 2014, ancora, esclude dal tetto
retributivo «i compensi percepiti per prestazioni
occasionali». Per individuare tali compensi la circolare fa
riferimento all'art. 61, comma 2, del dlgs n. 276/2003
(riforma Biagi) che definisce occasionali i rapporti di
durata complessiva non superiore a 30 giorni nel corso
dell'anno solare con lo stesso committente, salvo che il
compenso percepito nello stesso anno solare sia superiore a
5 mila euro.
Tuttavia, il citato dlgs non si applica al settore pubblico,
rendendo conseguentemente dubbio il riferimento
ministeriale.
Il divieto di cumulo per la pensione
La legge di Stabilità 2014 ha introdotto, dal 1° gennaio, un
parziale divieto di cumulo della pensione con i redditi
conseguiti nel settore pubblico. Il pensionato, in pratica,
non può intascare un trattamento economico d'importo tale
che, sommato alla pensione, ecceda 311.658,93 euro.
Nelle pensioni soggette al cumulo sono compresi i vitalizi
conseguenti a funzioni pubbliche elettive ed escluse le
pensioni integrative. Per la gestione del nuovo divieto, la
circolare stabilisce che all'atto dell'assunzione o
conferimento d'incarico, la p.a. deve far sottoscrivere
all'interessato una dichiarazione che indichi la pensione
eventualmente in godimento, al netto del contributo di
solidarietà (se pagato). In assenza di tale dichiarazione,
precisa la circolare, l'incarico non deve essere
perfezionato. Infine, il ministro dà mandato alle p.a. di
procedere ad opportune verifiche con gli enti previdenziali
(articolo ItaliaOggi del
20.03.2014). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Ritardi Pa, indennizzi automatici.
Per il pagamento non è necessario provare danno subito o
dolo e colpa dell'ufficio.
Adempimenti. Pubblicata in «Gazzetta Ufficiale» la direttiva
applicabile ai procedimenti avviati dopo il 21.08.2013.
Sì
all'indennizzo da ritardo della Pubblica amministrazione
nella conclusione dei procedimenti attivati a istanza di
parte: in questa eventualità è previsto il pagamento di una
somma pari a 30 euro per ogni giorno di ritardo, sino a un
massimo di 2.000 euro.
Con la firma del ministro per la Pubblica amministrazione e
la semplificazione, Gianpiero D'Alia, è stata pubblicata in
«Gazzetta Ufficiale» (la 59 dello scorso 12 marzo) la
Direttiva 09.01.2014 contenente le "Linee Guida" per
l'applicazione di tale strumento, come previsto
dall'articolo 28 del "Decreto del fare" (Dl 69/2013), atte a
fungere da ulteriore deterrente contro la cronica lentezza
dell'Amministrazione.
La disposizione, valida per ora 18 mesi e confermabile a
seguito di monitoraggio sulla effettiva applicazione, si
applica ai procedimenti avviati a istanza di parte per i
quali sussiste un obbligo della Pa di pronunziarsi, con
esclusione delle ipotesi dei concorsi e di quelle di
silenzio assenso e silenzio rigetto; la Direttiva precisa
anche espressamente che essa non è applicabile nelle ipotesi
di Denunzia di inizio di attività e di Segnalazione
certificata di inizio di attività (la "Scia").
Va poi chiarito che questo indennizzo è fattispecie diversa
da quella del risarcimento del danno ingiusto cagionato
dalla Pa in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa
del termine di conclusione del procedimento, prevista
dall'articolo 7, comma 1, lettera c), della legge 69/09.
Quest'ultima misura, infatti, presuppone l'avvenuta prova:
a) dell'esistenza stessa del danno; b) del comportamento
colposo o doloso dell'Amministrazione; c) dell'esistenza di
un nesso di causalità tra il danno lamentato e la condotta
posta in essere dall'Amministrazione.
L'indennizzo da ritardo, ora introdotto, prescinde invece
dalla dimostrazione dell'esistenza di un danno,quindi il
pagamento della somma di cui si tratta è dovuto anche nel
caso in cui la mancata emanazione del provvedimento sia
riconducibile a un comportamento scusabile, e astrattamente
lecito, dell'Amministrazione.
È bene rammentare ancora, in via preliminare, che esso è
dovuto esclusivamente per i procedimenti avviati
successivamente, o contestualmente, al 21.08.2013, data
della teorica applicazione della disposizione.
La misura dell'indennizzo è liquidata dall'Amministrazione
procedente, o, in caso di procedimenti complessi in cui
intervengono più amministrazioni, da quella che, non
rispettando il termine alla stessa assegnato, ha causato la
mancata emanazione, nei termini prescritti, del
provvedimento finale richiesto.
La somma va corrisposta in modo automatico e forfetario,
prescindendo, come detto, da verifiche circa comportamenti
dolosi e/o colposi della Pa: l'attività istruttoria, dunque,
sarà circoscritta alla verifica della violazione del termine
di conclusione del procedimento.
Gli importi liquidati vanno comunque detratti da quelli
eventualmente corrisposti a titolo di risarcimento.
Il pagamento dell'indennizzo da ritardo non fa comunque
venire meno l'obbligo di concludere il procedimento
amministrativo, restando salva l'applicabilità delle
sanzioni previste dall'ordinamento per dette ipotesi.
Se il titolare del potere sostitutivo non dovesse emanare il
provvedimento nel termine, né provvedesse alla liquidazione
delle somme previste, l'istante potrà fare ricorso al
giudice amministrativo (articolo 117 del Codice del processo
amministrativo) o chiedere un'ingiunzione di pagamento
(articolo 118).
Ove il ricorso sia dichiarato inammissibile o infondato, il
giudice condannerà il ricorrente, con pronuncia
immediatamente esecutiva, a versare al resistente una somma
da 2 a 4 volte il contributo unificato; in caso di condanna
dell'Amministrazione, invece, la sentenza sarà comunicata
alla Corte dei Conti per gli opportuni provvedimenti a
carico dei responsabili del riconosciuto ritardo (articolo Il Sole 24 Ore del
19.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Climatizzatori, pronti nuovi modelli per i libretti.
Pronti i nuovi modelli per il libretto di impianto per la
climatizzazione invernale ed estiva degli edifici e per il
rapporto di efficienza energetica.
A partire dal 01.06.2014 gli impianti termici devono essere
muniti del nuovo libretto e per i controlli di efficienza
energetica devono essere utilizzati i nuovi modelli.
I modelli, completi di istruzioni e note per la compilazione
e l'utilizzo, sono stati emessi dal ministero dello sviluppo
economico in attuazione del dpr n. 74 del 2013 e pubblicati
sulla Gazzetta Ufficiale del 05.03.2014 n. 55. Il
provvedimento consentirà nel tempo di contenere i consumi di
energia negli edifici per effetto dell'ampliamento della
platea degli impianti da sottoporre a verifica e controllo
dell'efficienza energetica e di avere un quadro sempre
aggiornato su caratteristiche e dimensioni del parco
nazionale degli impianti per la climatizzazione invernale ed
estiva. Il libretto di impianto per gli impianti di
climatizzazione invernale e/o estiva è disponibile in forma
cartacea o elettronica.
Nel primo caso viene conservato dal responsabile
dell'impianto o eventuale terzo responsabile, che ne cura
l'aggiornamento dove previsto o mettendolo a disposizione
degli operatori di volta in volta interessati. Il libretto
di impianto elettronico è conservato presso il catasto
informatico dell'autorità competente o presso altro catasto
accessibile all'autorità competente, e viene aggiornato di
volta in volta dagli operatori interessati, che possono
accedere mediante una password personale al libretto. Il
libretto di impianto è obbligatorio per tutti gli impianti
di climatizzazione invernale e/o estiva, indipendentemente
dalla loro potenza termica, sia esistenti che di nuova
installazione.
Se un edificio è servito da due impianti distinti, uno per
la climatizzazione invernale e uno per la climatizzazione
estiva, che in comune hanno soltanto il sistema di
rilevazione delle temperature nei locali riscaldati e
raffreddati, sono necessari due libretti di impianto
distinti; in tutti gli altri casi è sufficiente un solo
libretto di impianto
(articolo ItaliaOggi del
19.03.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: Antincendio per campeggi e villaggi.
Redatte le regole tecniche di prevenzione incendi per la
progettazione, la costruzione e l'esercizio delle strutture
turistico-ricettive in aria aperta (campeggi, villaggi
turistici ecc.) con capacità ricettiva superiore a 400
persone.
Lo prevede il decreto del ministero dell'Interno 28.02.2014 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 61 del
14 marzo scorso.
Ai fini della prevenzione incendi, allo
scopo di raggiungere i primari obiettivi di sicurezza
relativi alla salvaguardia delle persone e alla tutela dei
beni contro i rischi di incendio, le strutture turistico-ricettive in aria aperta, sono realizzate e
gestite in modo da: minimizzare le cause di incendio,
garantire la stabilità delle strutture portanti al fine di
assicurare il soccorso agli occupanti, limitare la
produzione e la propagazione di un incendio all'interno
della struttura ricettiva, limitare la propagazione di un
incendio a edifici o aree limitrofe e garantire la
possibilità per le squadre di soccorso di operare in
condizioni di sicurezza
(articolo ItaliaOggi del
19.03.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: «Mini-caldaie» a ostacoli.
Il passaggio dal centralizzato è possibile solo se si
dimostrano i vantaggi.
Riscaldamento. La trasformazione va supportata da una
diagnosi o da un attestato di prestazione energetica.
Per chi abita
in condominio la tentazione di passare al riscaldamento
autonomo, anche se è dimostrato che –eccetto rarissimi casi– si tratta di uno spreco energetico, rimane sempre forte.
Sono in molti a voler regolare da soli la temperatura i casa
ma a rifiutare i contabilizzatori di calore e a "pretendere"
la caldaietta. Le norme, però, rendono estremamente
difficoltosa questa scelta. Vediamo come procedere.
Il Codice civile
L'impianto di riscaldamento, se esistente dalla costruzione
del condominio e salvo che il titolo non disponga
diversamente, è di proprietà comune, ai sensi dell'articolo
1117 del Codice civile. Quindi la soppressione è di per sé
vietata, se non con il consenso di tutti i condomini, come
conseguenza dell'articolo 1120, ultimo comma, dello stesso
Codice, che vieta le innovazioni che rendano alcune parti
comuni inservibili all'uso o al godimento anche di un solo
condomino. Una delibera di soppressione, infatti, non
comporta una semplice modifica, ma una radicale
trasformazione della cosa comune nella sua destinazione
strutturale ed economica, pregiudizievole per tutte le unità
immobiliari già allacciate all'impianto centralizzato.
Le leggi successive
Sul Codice civile è intervenuta in seguito la legge 10/1991,
il cui articolo 26, comma 2, prevedeva una maggioranza
speciale per favorire gli interventi sugli edifici e sugli
impianti volti al contenimento dei consumi energetici. La
formulazione originaria della norma stabiliva una
maggioranza agevolata per gli interventi su parti comuni di
edifici diretti al contenimento del consumo energetico, e
quelli indicati all'articolo 8 della stessa norma. Tra
questi ultimi era espressamente prevista proprio la
«trasformazione di impianti centralizzati di riscaldamento
in impianti unifamiliari a gas». In pratica, la legge 10/1991
autorizzava gli interventi che l'articolo 1120 vietava.
Nel 2006 (con il Dlgs 311), però, l'articolo 26 della legge
10/1991 veniva cambiato e perdeva il riferimento alla
trasformazione da centralizzato in autonomo. Non solo: gli
interventi sugli edifici e sugli impianti, per godere della
maggioranza agevolata (cioè quella degli intervenuti che
rappresenti almeno 1/3 dei millesimi), devono essere
individuati attraverso un attestato di prestazione
energetica o una diagnosi energetica realizzata da un
tecnico abilitato. Quindi, ora, ci si chiede se sia o meno
ancora possibile sopprimere il riscaldamento centralizzato e
prevedere l'installazione di impianti autonomi.
La situazione attuale
Lo stesso legislatore del 2006, che ha modificato il
richiamo all'articolo 8 della legge 10/91, non ha infatti
modificato le definizioni contenute nel Dlgs 192/2005. Qui,
all'allegato A, numero 43, viene considerato
«ristrutturazione di un impianto termico» l'insieme di opere
che comportano la modifica sostanziale sia dei sistemi di
produzione sia di quelli di distribuzione ed emissione del
calore, precisando che rientrano in questa categoria anche
la trasformazione di un impianto termico centralizzato in
impianti termici individuali.
Si consideri però che il Dlgs 115/2008, all'allegato II,
punto 4, comma 2, nel dettare disposizioni in materia di
contratto di servizio energia, vieta espressamente (ma solo
in questo caso) la trasformazione di un impianto di
climatizzazione centralizzato in impianti di climatizzazione
individuali. Sembrerebbe, quindi, che vietando espressamente
questa possibilità nel caso del contratto energia sia da
ritenersi non vietata la trasformazione dell'impianto
centralizzato in impianti autonomi negli altri casi.
La stessa trasformazione, però, va supportata da una
diagnosi energetica o da un attestato di prestazione
energetica (articolo 26, comma 2, della legge 10/1991). Nel
caso in cui questa diagnosi o attestazione dovesse
dimostrare che l'intervento vada a contenere i consumi
energetici (il che è molto difficile, a meno che si tratti
di un vecchissima ed energivora), il passaggio dal
centralizzato all'autonomo potrà essere validamente
deliberato dall'assemblea con la maggioranza prevista dalla
riforma del condominio (legge 220/2012), cioè la maggioranza
degli intervenuti, che rappresenti almeno 1/3 del valore
dell'edificio. In questo senso si è pronunciato anche il
Tribunale Palermo, sezione II con sentenza del 29.03.2012.
Naturalmente, bisogna tenere conto delle norme regionali (si
veda l'articolo nella pagina), che a volte rendono di fatto
impossibile in ogni caso la delibera.
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Da alcune Regioni arriva lo stop alla modifica.
Le scelte. Vincolo di stabilità.
La
soppressione dell'impianto centralizzato è teoricamente
possibile (se si dimostra che si realizza un risparmio
energetico attestato da diagnosi o attestazione) ma a
livello locale le cose sono più complicate.
Le leggi regionali del Piemonte e dell'Emilia Romagna, per
esempio, vietano di dotare i palazzi composti da oltre 4
unità immobiliari (indipendentemente dal numero dei
condomini) di riscaldamento diverso dal centralizzato.
Inoltre, il Dpr del 02.04.2009, all'articolo 4, comma 9,
prevede che «In tutti gli edifici esistenti con un numero di
unità abitative superiore a 4, e in ogni caso per potenze
nominali del generatore di calore dell'impianto
centralizzato maggiore o uguale a 100 kW, appartenenti alle
categorie E1 ed E2, così come classificati in base alla
destinazione d'uso all'articolo 3, del decreto del
Presidente della Repubblica 26.08.1993, n. 412, è
preferibile il mantenimento di impianti termici
centralizzati laddove esistenti; le cause tecniche o di
forza maggiore per ricorrere a eventuali interventi
finalizzati alla trasformazione degli impianti termici
centralizzati ad impianti con generazione di calore separata
per singola unità abitativa devono essere dichiarate nella
relazione di cui al comma 25».
Non vi è insomma, nel Dpr del 2009, un divieto assoluto di
trasformazione, ma la possibilità viene subordinata alla
produzione di una perizia tecnica che ne attesti
l'impossibilità della conservazione. Ma questo articolo 4
sarà abrogato dall'entrata in vigore dei decreti attuativi
conseguenti all'approvazione della legge 90/2013.
Va poi ricordato che il Dpr 59/2009, attuativo del Dlgs
192/2005 e che regola la prestazione energetica degli
edifici, non trova applicazione nelle Regioni (tra le quali
la Lombardia) che abbiano autonomamente provveduto a
recepire la Direttiva europea 2002/91/CE. E sul punto nulla
dice la nuova delibera di Giunta della Regione Lombardia, n.
X 1118/2013 pubblicata a fine dicembre 2013.
Ne consegue che, nei limiti previsti dalle eventuali
legislazioni regionali (come in Piemonte ed Emilia Romagna)
il riscaldamento in impianti autonomi sarebbe possibile, con
la maggioranza degli intervenuti in assemblea che
rappresentino almeno 1/3 dei millesimi, se supportata da
diagnosi energetica o da Attestato di Prestazione
energetica.
Questi documenti dovrebbero di fatto dimostrare che il
miglior impianto centralizzato progettato per consentire al
massimo, in base allo stato della scienza e della tecnica,
il contenimento dei consumi energetici, consumerebbe maggior
energia dell'insieme degli impianti autonomi a parità di
funzionamento.
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Lombardia, obbligo di contabilizzazione.
Scadenze lunghe. Proroga fino al 2017.
In Lombardia,
una legge molto bene ispirata mette assieme la
termoregolazione e la contabilizzazione del calore negli
impianti di riscaldamento centralizzati. L'articolo 26,
quinto comma, della legge 10/1991 prevede infatti che «per le
innovazioni relative all'adozione di sistemi di
termoregolazione e di contabilizzazione del calore e per il
conseguente riparto degli oneri di riscaldamento in base al
consumo effettivamente registrato, l'assemblea di condominio
decide a maggioranza, in deroga agli articoli 1120 e 1136
del Codice civile».
Se la legge nazionale ha agevolato l'adozione della
contabilizzazione, la Regione Lombardia la ha dunque resa
addirittura obbligatoria, sia pure con deroghe per le
situazioni di eccessiva difficoltà tecnica. È prevista una
complessa decorrenza del l'obbligo. La delibera di giunta
regionale del 23.05.2012 (IX/3522) ha modificato e
prorogato sino al primo agosto del 2014 l'obbligatorietà per
gli impianti per i quali il cambio di combustibile sia
avvenuto dopo il 01.08.1997, per quelli che si siano
collegati a reti di teleriscaldamento dopo il 01.08.1997
e per quelli i quali venga approvato un progetto di
ristrutturazione complessiva che consenta un miglioramento
dell'efficienza energetica non inferiore al 40% rispetto al
rendimento dell'impianto originario. Successivamente, la
legge regionale 5 del 31.07.2013 ha sostanzialmente
stabilito che sino al primo gennaio 2017 non si applichino
sanzioni per i trasgressioni.
Ne è derivato un quadro estremamente complesso, che
suggerisce tre succinti chiarimenti. In primo luogo, va
detto che i rapporti tra condomini in tema di spese sono
disciplinati dalla legge dello Stato e non possono essere in
alcun modo incisi dalle norme regionali. Pertanto, dove il
condominio abbia realizzato termoregolazione e
contabilizzazione, ogni condomino ha titolo per esigere
l'applicazione integrale dell'articolo 26 legge 10/1991, che
prevede la suddivisione delle spese «in base al consumo
effettivamente registrato». In secondo luogo, l'assemblea ha
titolo per determinare la quota di consumi che trova ragione
nella stessa esistenza dell'impianto e che quindi non è
soggetta ad alcuna misurazione (si vedano le previsioni rese
pubbliche nel febbraio 2013 con la recente revisione della
norma UNI CTI 10200).
Infine, occorre considerare la posizione di chi, essendo in
posizione sfavorita (esposto a nord, oppure sopra un piano a
pilotis o all'ultimo piano) teme di rimanere da solo a
sostenere i costi per resistere alle temperature più rigide
e alla inefficiente coibentazione dell'edificio
condominiale: ove possibile, meglio tentare di migliorare le
caratteristiche di isolamento dell'edificio, che sono la
premessa per la corretta contabilizzazione (articolo Il Sole 24 Ore del
18.03.2014). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Avvocati, velocità e qualità premiate (o punite) in parcella.
Gli effetti dei meccanismi deflattivi introdotti dal decreto
Orlando sui parametri.
Causa che pende non rende più. È sanzionato, infatti,
l'avvocato che ostacola la definizione dei procedimenti in
tempi ragionevoli, così come chi intenta liti temerarie.
Premiato, invece, il professionista veloce e di qualità: se
cioè raggiunge una transazione o una conciliazione
giudiziale o «stravince» la causa.
Sono alcuni dei
meccanismi deflattivi introdotti dal decreto parametri,
firmato nei giorni scorsi dal ministro della giustizia,
Andrea Orlando, e in corso di pubblicazione in Gazzetta
Ufficiale. In pratica, il regolamento recante la
determinazione dei parametri per la liquidazione dei
compensi per la professione forense (ai sensi dell'art. 13
comma 6 della legge n. 247/2012), introduce una serie di
premi e sanzioni sul compenso che il giudice deve liquidare
all'avvocato, con l'obiettivo di incentivare la deflazione
dei processi.
Attività giudiziale. Ai fini della liquidazione del compenso
dell'avvocato il giudice deve tenere conto di una serie di
fattori: caratteristiche, urgenza e pregio dell'attività
prestata; importanza, natura, difficoltà e valore
dell'affare. Ma anche condizioni soggettive del cliente,
risultati conseguiti, numero e complessità delle questioni
giuridiche e di fatto trattate. In ordine alla difficoltà
dell'affare, secondo il decreto, si tiene particolare conto
dei contrasti giurisprudenziali, e della quantità e del
contenuto della corrispondenza che risulta essere stato
necessario intrattenere con il cliente e con altri soggetti.
Rispetto ai valori medi delle tabelle ministeriali, il
giudice può, di regola, aumentare il compenso fino all'80%,
o diminuirlo fino al 50%. Per la fase istruttoria l'aumento
è di regola fino al 100% e la diminuzione di regola fino al
70%.
Incentivi. Il regolamento introduce una sorta di incentivo
«deflattivo», premiando la rapida soluzione processuale e la
professionalità dell'avvocato. Nel dettaglio, al legale che
raggiunge una transazione o una conciliazione giudiziale
sarà liquidato un compenso aumentato, di regola, fino a un
quarto rispetto a quello altrimenti liquidabile per la fase
decisionale, fermo quanto maturato per l'attività
precedentemente svolta. Viene introdotta anche la cosiddetta
«soccombenza qualificata»: la disposizione prevede un
incremento fino a un terzo del compenso a favore
dell'avvocato vittorioso che nel corso del giudizio sia
stato capace di far emergere la manifesta fondatezza della
propria pretesa nei confronti della controparte costituita.
Il compenso è inoltre elevato fino al triplo nel caso di class action, in considerazione della particolare natura di
tali cause.
Sanzioni. Allo stesso modo, il regolamento sanziona l'abuso
del ricorso alla giurisdizione. Così, costituisce elemento
di valutazione negativa, in sede di liquidazione giudiziale
del compenso, l'adozione di condotte abusive tali da
ostacolare la definizione dei procedimenti in tempi
ragionevoli. Nel caso di responsabilità processuale ai sensi
dell'art. 96 cpc, ovvero, comunque, nei casi
d'inammissibilità o improponibilità o improcedibilità della
domanda, il compenso dovuto all'avvocato del soccombente è
ridotto del 50% rispetto a quello altrimenti liquidabili,
ove concorrano gravi ed eccezionali ragioni esplicitamente
indicate nella motivazione.
Altri aumenti-diminuzioni in parcella. Quando in una causa
l'avvocato assiste più soggetti aventi la stessa posizione
processuale, il compenso unico può di regola essere
aumentato per ogni soggetto oltre il primo nella misura del
20%, fino a un massimo di dieci soggetti, e del 5% per ogni
soggetto oltre i primi dieci, fino a un massimo di venti.
Questa disposizione si applica quando più cause vengono
riunite, dal momento dell'avvenuta riunione e nel caso in
cui l'avvocato assiste un solo soggetto contro più soggetti.
Nel caso in cui l'avvocato assista i due coniugi nel
procedimento per separazione consensuale e nel divorzio a
istanza congiunta, il compenso è invece liquidato di regola
con una maggiorazione del 20% su quello altrimenti
liquidabile per l'assistenza di un solo soggetto.
Nell'ipotesi in cui, ferma l'identità di posizione
processuale dei vari soggetti, la prestazione professionale
nei confronti di questi non comporta l'esame di specifiche e
distinte questioni di fatto e di diritto, il compenso
altrimenti liquidabile per l'assistenza di un solo soggetto
è di regola ridotto del 30%.
Attività penale. Per quanto riguarda l'attività penale, il
regolamento stabilisce che, ai fini della liquidazione del
compenso, il giudice deve tenere conto, tra l'altro: delle
caratteristiche, dell'urgenza e del pregio dell'attività
prestata, dell'importanza, della natura, della complessità
del procedimento, della gravità e del numero delle
imputazioni, del numero e della complessità delle questioni
giuridiche e di fatto trattate, dei contrasti
giurisprudenziali, dell'autorità giudiziaria dinanzi cui si
svolge la prestazione, della rilevanza patrimoniale, del
numero dei documenti da esaminare.
I valori medi delle tabelle ministeriali possono, di regola,
essere aumentati fino all'80%, o diminuiti fino al 50%.
Anche nell'attività penale, quando l'avvocato assiste più
soggetti aventi la stessa posizione processuale, il compenso
unico può di regola essere aumentato per ogni soggetto oltre
il primo nella misura del 20%, fino a un massimo di dieci
soggetti, e del 5% per ogni soggetto oltre i primi dieci,
fino a un massimo di venti.
Attività stragiudiziale. Per l'attività stragiudiziale si
tiene invece conto delle caratteristiche, dell'urgenza, del
pregio dell'attività prestata, dell'importanza dell'opera,
della natura, della difficoltà e del valore dell'affare,
della quantità e qualità delle attività compiute, delle
condizioni soggettive del cliente, dei risultati conseguiti,
del numero e della complessità delle questioni giuridiche e
in fatto trattate. I valori delle tabelle possono, di
regola, essere aumentati fino all'80%, o diminuiti fino al
50%.
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Con il nuovo dm compensi in aumento. E ritorna il rimborso
forfettario delle spese.
Costi prevedibili per il cliente.
Stop alla imprevedibilità dei costi del servizio legale. In
generale i compensi sono ritoccati in aumento e torna il
rimborso forfettario delle spese generali, escluso nel dm
140/2012 (primo decreto sui parametri dopo l'abolizione
delle tariffe), ma previsto dalla legge di riforma della
professione forense. Si tratta comunque di un quadro certo:
i nuovi parametri non servono solo ai giudici, ma servono
anche a regolare i rapporti tra avvocato e cliente. Anche se
non contengono cifre inderogabili. Il cliente e l'avvocato
possono concordare liberamente il costo del servizio, e in
quel caso il contratto è svincolato da qualsiasi parametro.
In mancanza si fa riferimento al nuovo decreto.
Nuovo decreto che, come spiega la relazione illustrativa, da
un lato rimane coerente con il sistema dei «vecchi»
parametri (cessati dopo circa un anno e mezzo di vita),
proprio nella parte in cui subordina il ricorso ai parametri
alla mancanza di accordo tra le parti; ma dall'altro lato si
registra uno stacco perché il ricorso ai parametri non è più
limitato ai casi di liquidazione del compenso da parte del
giudice, ma è previsto anche in altri casi: quando il
compenso non è stato determinato in forma scritta; in ogni
caso di mancanza di accordo; nei casi in cui la prestazione
professionale è resa nell'interesse di terzi; per
prestazioni d'ufficio previste dalla legge. Il parametro,
quindi, non è più destinato solo ai giudici, ma anche al
cliente dell'avvocato. Ma vediamo i punti salienti, cercando
le novità e registrando le conferme.
Tornano le spese generali. Il decreto prevede che oltre al
compenso per la prestazione professionale e al rimborso
delle spese documentate, all'avvocato è dovuto anche un
rimborso forfetario per «spese generali».
Dopo la parentesi del dm 140/2012, che aveva accantonato il
recupero delle spese generali, il nuovo decreto ha previsto
un rimborso quantificato nella misura percentuale del 15%
del compenso: la disposizione dà attuazione all'articolo 13,
comma 10, della legge 247/2012 che rimette proprio al dm la
determinazione della misura massima del rimborso delle spese
forfetarie.
In dettaglio l'articolato stabilisce che oltre al compenso e
al rimborso delle spese documentate in relazione alle
singole prestazioni, all'avvocato è dovuta, in ogni caso e
anche in caso di determinazione contrattuale, una somma per
rimborso spese forfettarie di regola nella misura del 15%
del compenso totale per la prestazione.
Il rimborso va a coprire quelle voci di spesa (ad esempio
quelle relative alla gestione dello studio) che sono
effettive, ma non documentabili.
Le spese forfettarie sono calcolate sul compenso totale e
non con riferimento a ogni singola fase. Le parti possono,
comunque, stabilire diversamente: azzerare il rimborso o
determinarlo in percentuale differente dal 15%.
Le fasi. Qui abbiamo una conferma. Ormai è stato abbandonato
il sistema del calcolo del compenso per singola attività (ad
esempio singola udienza) e per ciascuna fase è indicato il
compenso medio della prestazione. Le fasi individuate sono:
studio della controversia, introduttiva del giudizio,
istruttoria, decisionale. A queste si aggiungono le fasi
proprie del procedimento esecutivo: quella di studio e
introduttiva e quella istruttoria e di trattazione.
Valore della causa. Il compenso per fasi è a sua volta
articolato a seconda del valore della causa. La struttura
del nuovo decreto è uguale a quella dei parametri del 2012,
ma cambiano gli scaglioni.
Il valore della causa è stato suddiviso in scaglioni
progressivi, secondo quanto previsto per il contributo
unificato. Per ogni scaglione è indicato, in corrispondenza
di ciascuna fase della attività difensiva, il costo medio
rispetto al quale sono previsti aumenti o riduzioni.
Naturalmente il minimo è derogabile, e la soglia minima
indicata, si legge nella relazione, è la misura al di sotto
della quale «non sarebbe opportuno andare» al fine di
assicurare il rispetto dei principi costituzionali di
proporzionalità della retribuzione e di dignità del
lavoratore.
Conciliazione. Anche qui si tratta di una conferma
dell'impostazione del dm 140/2012. Nell'ipotesi di
conciliazione giudiziale o transazione della controversia,
la liquidazione del compenso sarà di regola aumentato fino a
un quarto. È lo strumento scelto per incentivare la
soluzione transattiva o la conciliazione giudiziale della
controversia, con un premio per la rapida soluzione
processuale.
Viene anche premiato con un incremento del compenso
l'avvocato vittorioso che nel corso del giudizio sarà stato
capace di far emergere la manifesta fondatezza della propria
pretesa nei confronti della controparte.
Bacchettata per chi abusa del processo. Il decreto
sanzionare l'abuso del ricorso alla giurisdizione. Mentre
costituisce elemento di valutazione negativa, in sede di
liquidazione giudiziale del compenso, l'adozione di condotte
abusive tali da ostacolare la definizione dei procedimenti
in tempi ragionevoli. Inoltre nel caso di lite temeraria o,
comunque, nei casi d'inammissibilità o improponibilità o
improcedibilità della domanda, il compenso dovuto
all'avvocato del soccombente sarà ridotto, per gravi ed
eccezionali ragioni esplicitamente indicate nella
motivazione, del 50%.
Ma si paga di più. Il un compenso medio dei nuovi parametri
è più alto di quelli del dm 140/2012. Nel corso
dell'approvazione i valori hanno subito un saliscendi, ma i
parametri numerici indicati nella Tabelle hanno un valore
incrementato rispetto a quello delle Tabelle del dm
140/2012.
Società professionale. Il decreto prevede l'ipotesi di
pluralità di difensori, distinguendo la fattispecie di
compenso dovuto dal cliente (ogni avvocato avrà diritto al
compenso per la attività da lui effettivamente svolta), da
quella di compenso della parte vittoriosa a carico del
soccombente, prevedendo che quest'ultimo sarà gravato delle
spese processuali come se vi fosse un solo difensore.
Nel caso di incarico professionale conferito a una società
di avvocati, si applica il compenso spettante a un solo
professionista anche se la prestazione è stata svolta da più
soci.
Praticanti abilitati al patrocinio. Il compenso spettante al
praticante abilitato al patrocinio è stabilito nella misura
della metà rispetto a quello spettante all'avvocato.
Da quando si parte.
Il nuovo decreto si applica alle liquidazioni successive
alla entrata in vigore del medesimo. I parametri, quindi,
devono essere applicati ogni qual volta la liquidazione
giudiziale interviene in un momento successivo alla entrata
in vigore del decreto e si riferisce a un compenso spettante
al professionista che a quella data non ha ancora completato
la propria prestazione professionale, ancorché tale
prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta
quando ancora era in vigore la precedente normativa
(articolo ItaliaOggi Sette del
17.03.2014 - tratto da www.centroctudicni.it). |
TRIBUTI: Rifiuti speciali senza la Tari.
Assimilati: esonero per chi dimostra l'avviato recupero.
Non sono soggette al pagamento dell'imposta le superfici in
cui vengono prodotti gli scarti.
Non sono soggette al pagamento della Tari le superfici in
cui vengono prodotti rifiuti speciali. Nella determinazione
della superficie tassabile, però, non si calcola solo quella
parte dove si formano questi rifiuti in modo continuativo e
prevalente, al cui smaltimento sono tenuti a provvedere a
proprie spese i produttori. Il tributo non è dovuto neppure
per le quantità di rifiuti assimilati agli urbani che il
produttore dimostri di aver avviato al recupero.
È quanto
prevede l'articolo 1, commi 649 e 661, della legge di
Stabilità (147/2013) in seguito alle modifiche apportate
dall'articolo 2, comma 1, lettera e) del dl sulla finanza
locale (16/2014).
Rifiuti speciali. La formulazione letterale del comma 649 è
tutt'altro che un esempio di chiarezza, in quanto fa già
discutere e può generare contenzioso nella parte in cui
richiede la produzione di rifiuti speciali «in via
continuativa e prevalente» al fine di ottenere l'esonero dal
prelievo. Il dubbio che si pone è se qualora sussista il
requisito della continuità e prevalenza non possono essere
tassate integralmente le superfici in cui si producono anche
rifiuti speciali oppure se il beneficio rimane sempre
circoscritto alla parte della superficie interessata e
l'esonero è parziale. Già è stata fornita da una parte della
dottrina un'interpretazione che non è in linea né con la
lettera né con la ratio della norma.
È stato infatti
affermato che in presenza dei requisiti della continuità e
prevalenza nella produzione di rifiuti speciali, non sia
tassabile l'intera superficie dell'immobile. Si ritiene,
invece, che nonostante l'infelice formulazione della
disposizione di legge, l'agevolazione fiscale sia sempre
limitata alla parte dell'immobile interessata dalla
formazione di questi rifiuti e non si estende all'intera
superficie, vale a dire a quella in cui si producono rifiuti
ordinari. La novità rispetto al passato, infatti, è che una
«parte di essa» può essere esclusa dalla tassazione solo a
condizione che la produzione di rifiuti speciali risulti
continuativa e prevalente.
Nel caso in cui sussista questa
condizione allo smaltimento dei rifiuti sono tenuti a
provvedere a proprie spese i produttori. Ma l'esclusione
dell'obbligo di conferirli al servizio pubblico si ha solo
nei casi in cui sia fornita dimostrazione del loro autosmaltimento e a condizione che l'avvenuto trattamento
venga effettuato in conformità alla normativa vigente.
Inoltre, spetta al contribuente provare quale parte
dell'immobile non sia soggetta alla tassa.
Il comma 682, lettera a), numero 5) della legge di Stabilità
attribuisce al comune anche la facoltà di concedere con
regolamento una riduzione tariffaria in caso di
autosmaltimento. In particolare, l'amministrazione comunale
può individuare categorie di attività produttive di rifiuti
speciali alle quali applicare, nell'obiettiva difficoltà di
delimitare la parte ove si formano questi rifiuti,
percentuali di riduzione rispetto all'intera superficie su
cui l'attività viene svolta.
Rifiuti assimilati. Il dl sulla finanza locale ha risolto la
questione dei rifiuti speciali assimilati agli urbani, a
causa della confusione che era emersa dal testo
dell'articolo 1 della legge di Stabilità (147/2013).
Nonostante il Ministero dell'ambiente fosse intervenuto
nelle settimane scorse con una circolare per fornire dei
chiarimenti, sussisteva un contrasto insanabile tra i commi
649 e 661 che affermavano regole diverse. In base a quanto
disposto dall'articolo 1, comma 649, erano soggette alla
Tari le superfici produttive di rifiuti speciali assimilati
agli urbani.
In questo caso l'amministrazione comunale
poteva prevedere riduzioni tariffarie proporzionali alle
quantità di rifiuti che le imprese produttrici dimostrassero
di avviare al recupero. L'agevolazione fiscale non si
applicava alla quota fissa, ma solo alla parte variabile
della tariffa. Mentre, per gli stessi rifiuti il comma 661
stabilisce che il tributo non è dovuto se il produttore
dimostri di avviarli al recupero. Era del tutto evidente il
conflitto tra le due norme. La seconda disposizione, in
realtà, sottrae al comune qualsiasi potere decisionale
riconosciuto dalla prima in ordine alla concessione
dell'eventuale riduzione tariffaria, tra l'altro ex lege
limitata solo alla parte variabile della tariffa.
L'articolo 2, comma 1, lettera e) del dl 16/2014 ha abrogato
il secondo periodo del comma 649, non riconoscendo al comune
alcun potere decisionale sulla scelta di concedere la
riduzione tariffaria. Viene invece mantenuta ferma la
previsione contenuta nel comma 661, in base al quale il
tributo non è dovuto per la quantità di rifiuti assimilati
che il produttore dimostri di avviare al recupero
(articolo ItaliaOggi Sette del
17.03.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Fine lavori con certificati variabili.
Conformità impianti sempre necessaria - Per archiviare gli
interventi pesanti occorre l'agibilità.
Titoli abilitativi. La documentazione da presentare al
Comune dopo la chiusura del cantiere cambia in base
all'inquadramento delle opere.
Certificati,
documenti, nulla osta. La "battaglia" con la burocrazia per
chi avvia interventi edilizi non finisce con il via libera
ai lavori. Una parte, spesso trascurata, di adempimenti
arriva alla fine, a opere concluse.
Nel caso di una nuova costruzione o di una ristrutturazione
di un edificio esistente, ad esempio, una volta terminati i
lavori è necessario chiedere al Comune il rilascio del
certificato di agibilità che attesta «la sussistenza delle
condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti negli stessi
installati». L'agibilità rappresenta una sorta di "libretto
di circolazione" dell'edificio.
Entro 15 giorni dalla fine dei lavori, pena la sanzione di
256 euro, deve essere presentata la richiesta del
certificato corredata da:
- richiesta di accatastamento dell'edificio, o variazione
catastale nel caso di opere su edifici esistenti;
- dichiarazione dell'impresa installatrice degli impianti
elettrico, idrico, gas, condizionamento ed elevatori che ne
attesti la conformità;
- certificazione energetica;
- certificato di prevenzione incendi o documento analogo
previsto dalla normativa rispetto alla classe dell'edificio
o delle opere;
- collaudo statico (nel caso di nuovi edifici o di rilevanti
opere sulle strutture);
- dichiarazione di conformità alla normativa sulle barriere
architettoniche in caso di interventi sulle parti comuni;
- parere, sul progetto, della azienda sanitaria locale
(Asl), nel caso in cui la verifica in ordine alla conformità
igienico-sanitaria comporti valutazioni
tecnico-discrezionali. Per l'edilizia residenziale la
conformità viene attestata nell'ambito del progetto edilizio
e il parere non è quindi richiesto.
Buona parte di questi documenti sono quelli che separate
normative impongono di ottenere al fine di assicurare la
presenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità,
risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli
stessi installati, tramite la dimostrazione che nelle
esecuzione delle opere sono state rispettate le specifiche
normative e i progetti presentati.
La mancata produzione dei singoli documenti è sanzionata:
- il mancato accatastamento causa l'incommerciabilità del
bene oltre che l'eventuale evasione fiscale;
- il mancato rilascio della conformità impianti è punito con
una sanzione da cento a mille euro per l'impresa
installatrice;
- la mancanza della certificazione energetica è punita con
una ammenda da 3mila a 18mila euro (si veda l'articolo a
fianco);
- la mancanza della dichiarazione di conformità alle norme
sulle barriere architettoniche non è sanzionata mentre lo è,
per i tecnici, la non rispondenza delle opere alla normativa
(da 5mila a 25mila euro);
- la mancanza del certificato di prevenzione incendi e del
collaudo statico comportano sanzioni penali.
- La mancanza della conformità igienico-sanitaria comporta
l'impossibilità di dare avvio alle attività lavorative,
sempre che essa comporti valutazioni discrezionali.
Pur in presenza di tali sanzioni, stranamente, il mancato
ottenimento dell'agibilità comporta solo una sanzione da 77
a 464 euro (di norma si applica la minima) mentre,
normativamente, nulla osta agli atti di trasferimento.
Il silenzio assenso
Trascorsi 60 giorni dal completamento della documentazione o
30 giorni nel caso di parere Asl, l'agibilità s'intende
attestata per silenzio-assenso.
In questo caso sarebbe preclusa la possibilità di rilasciare
un certificato e non esiste quindi un documento rilasciato
dal Comune, ma in molte amministrazioni comunali è prassi
rilasciare, su istanza che citi gli atti della domanda di
agibilità, una dichiarazione con le quale si attesta la
maturazione del silenzio-assenso.
I vecchi edifici
Un problema particolare è quello degli immobili privi di
agibilità rilasciata e costruiti prima dell'entrata in
vigore del silenzio-assenso (Dpr 425/1994).
In questo caso in alcuni Comuni (sicuramente Milano e
Firenze) è in atto una procedura di rilascio "ora per
allora" secondo le nuove modalità condizionata alla
presentazione della documentazione prescritta dal Dpr
380/2001.
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Gli altri adempimenti. Quando la rendita va aggiornata.
Passaggio al Catasto per tutte le opere minori.
La richiesta
di agibilità può riguardare anche opere di minor rilievo
rispetto ad una nuova costruzione o una ristrutturazione, ma
che comportano modifiche delle condizioni di sicurezza,
igiene, salubrità, risparmio energetico dell'edificio o
della parte di edificio sulla quale si è intervenuti. In
questo caso la procedura e la documentazione sono le stesse
degli interventi maggiori, ma se si rientra nell'agibilità
parziale si dovrà anche allegare una attestazione circa la
presenza delle opere di urbanizzazione primaria e i
certificati degli impianti relativi alle parti comuni
nonché, se dovuto, il collaudo delle parti strutturali.
Ma nel caso di opere più ridotte quali sono gli adempimenti
con i quali si può considerare correttamente conclusa
un'attività edilizia? Non esiste una casistica unitaria
perché gli obblighi cambiano a seconda del tipo di titolo
edilizio con il quale sono state intraprese le opere (si
veda la scheda sopra). L'adempimento che non può mai essere
omesso é quello legato all'imposizione fiscale e cioè la
variazione catastale. Ma la variazione catastale è
obbligatoria solo nel caso in cui le opere comportino una
modifica della rendita dell'unità: aumenti o diminuzioni
delle superfici (anche accessorie), fusioni e/o
frazionamenti, introduzione di migliorie sostanziali (ad es.
realizzazione di un nuovo bagno), non è invece necessaria se
si effettuano solo degli spostamenti di pareti interne per
ridefinire i locali.
Se si è ottenuto un permesso di costruire è necessario
comunicare la fine dei lavori e, entro 15 giorni, richiedere
l'agibilità. Nel caso si proceda attraverso una Dia oltre
all'obbligo di comunicare la fine dei lavori, ed
eventualmente richiedere l'agibilità, deve essere anche
presentato un certificato di collaudo finale da parte del
progettista o anche da un altro tecnico abilitato, che
attesti la conformità delle opere al progetto (comprese
eventuali varianti). Analoghi obblighi dovrebbero
sussistere, in linea di principio, anche per la Scia
(segnalazione certificata di inizio attività), per la quale
si applicano in buona parte le norme procedimentali della
Dia, ma non esiste una norma esplicita in proposito.
Caso diverso è invece quello dell'attività edilizia libera
(articolo 6 Dpr 380/2001) soggetta all'obbligo della
comunicazione d'inizio lavori asseverata da un tecnico, la
cosiddetta Cia (o Cila o Cial). In questo caso è doverosa
una premessa: l'attività edilizia libera è definita come
intervento eseguito senza alcun titolo abilitativo quindi ad
essa non si applicano le prescrizioni che riguardano i
titoli edilizi, salvo quanto previsto dall'articolo stesso
cioè comunicazione dell'inizio dei lavori, asseverazione
tecnica e aggiornamento catastale.
Non è quindi prescritto
il collaudo e nemmeno la comunicazione di fine lavori,
resteranno invece obbligatori gli adempimenti previsti,
separatamente, dalle norme tecniche: certificazione
energetica (se del caso) e conformità impianti.
---------------
La novità. L'ultima modifica per edifici «incompleti».
Strada più semplice con l'abitabilità parziale.
Il certificato
di abitabilità/agibilità, giungendo alla fine anche di
attività complesse come le ristrutturazioni, rischia spesso
di venire tralasciato. In più nei grandi Comuni capita di
non riuscire a reperire questa certificazione, specialmente
per gli edifici più vecchi.
L'obbligo di
richiedere/certificare l'abitabilità dell'edificio è stato
introdotto dal Testo unico delle leggi sanitarie del 1934;
quindi gli immobili realizzati prima non devono essere
dotati della certificazione. Questa situazione può creare
problemi nel caso in cui, nell'ambito dei trasferimenti
degli immobili o della apertura di mutui, venga comunque
richiesto il certificato.
Negli ultimi decenni la normativa ha subito importanti
innovazioni:
- a partire dal 1994 (con il Dpr 425) il rilascio della
certificazione di abitabilità/agibilità è sottoposto al
silenzio-assenso;
- con il Dpr 380/2001 (Tu edilizia) l'obbligo di ottenere
questa certificazione è stato esteso anche agli interventi
sugli edifici esistenti che possano influire sulle
condizioni di condizioni di sicurezza, igiene, salubrità,
risparmio energetico;
- con il decreto del Fare (Dl 69/2013) è possibile richiedere
l'agibilità anche per «per singoli edifici o singole
porzioni della costruzione, purché funzionalmente autonomi»
o «per singole unità immobiliari» a determinate condizioni.
È ora possibile conseguire un'agibilità parziale in un
edificio nel quale non tutte le unità immobiliari siano
state completate, ma non si esclude il caso che una singola
unità con mutate condizioni di sicurezza, igiene, salubrità,
risparmio energetico, possa conseguire un'autonoma
agibilità.
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Detrazioni fiscali.
Niente sconti senza bollino «verde».
Fra i
documenti da produrre alla fine dei lavori in casa è una
novità degli ultimi anni. L'attestato di prestazione
energetica (Ape), la targa verde che fotografa la
performance di un edificio per coprire il fabbisogno
necessario al riscaldamento, raffrescamento e alla
produzione di acqua calda sanitaria, figura –in molte
situazioni differenti– come uno degli adempimenti necessari
per poter chiudere una pratica edilizia o per ottenere
l'accesso alle detrazioni previste dallo Stato, in caso di
interventi di risparmio energetico. A prescindere dalla
successiva vendita o locazione dell'immobile.
Per i privati, l'Ape è sempre obbligatorio non solo in caso
di nuova costruzione, ma anche di «ristrutturazione
importante». La casistica è ampia, specie dopo le modifiche
introdotte al Dlgs 192/2005 dal Dl 63/2013. Se in passato,
infatti, l'obbligo di dotazione dell'attestato scattava
esclusivamente per immobili di superficie utile superiore ai
mille mq, oggetto di restyling integrale o di demolizione e
ricostruzione, oggi è richiesto per tutti gli interventi di
recupero edilizio che riguardano più del 25% della
superficie dell'involucro dell'intero edificio. Comprese le
manutenzioni straordinarie e ordinarie o i risanamenti
conservativi, che nel Testo unico per l'edilizia sono
esclusi dalla definizione di ristrutturazione.
A mettere in luce le differenze dal “prima” al “dopo” è la
stessa guida al rilascio dell'Ape diffusa dal Consiglio
nazionale del notariato dopo l'entrata in vigore del Dl
63/2013. Che spiega come la ristrutturazione rilevante ai
fini energetici –così come individuata dalla nuova
formulazione del Dlgs 192/2005– non coincida con quella che
rileva ai fini edilizi e urbanistici. «Addirittura –scrivono i notai– può verificarsi che interventi totalmente
liberi sotto il profilo edilizio, come le ordinarie
manutenzioni, una volta eseguiti facciano, invece, sorgere
la necessità di preparare un attestato di prestazione
energetica».
Tirando le somme, l'Ape sarà dunque fra i documenti da
produrre per ogni intervento significativo, compresi il
rifacimento di pareti esterne di un immobile, di intonaci
interni, del tetto o della impermeabilizzazione delle
coperture. La targa dei consumi, rilasciata da tecnico
abilitato (secondo il Dpr 75/2013 o altro sistema
regionale), dovrà essere prodotta a cura di chi ristruttura,
sia esso un committente privato o una società edile.
L'Ape è indispensabile anche quando, eseguiti lavori per il
risparmio energetico, si desidera accedere alle detrazioni
che, in questo momento e fino a dicembre 2014 (giugno 2015
per i condomìni), permettono un recupero fino al 65% della
spesa sostenuta, con tetti diversi a seconda della tipologia
di opere.
Ciò vale sia nei casi in cui l'intervento coincide con le
ristrutturazioni importanti, sia ad esempio per
l'installazione di una caldaia a biomassa o la sostituzione
degli infissi per tutto il palazzo. Non vale, invece, per
opere ritenute minori, come il cambio di finestre in un
singolo appartamento, la posa di pannelli solari o la
sostituzione dell'impianto di climatizzazione invernale con
caldaia a condensazione.
L'Ape –che se esisteva per l'edificio già prima
dell'intervento dovrà essere redatto di nuovo a fine lavori- deve essere semplicemente conservato. Insieme
all'attestato di qualificazione energetica e alla scheda
informativa dell'intervento, da inviare all'Enea, entro 90
giorni dalla chiusura del cantiere. La spesa per la
compilazione della targa verde può essere inserita fra i
costi da detrarre (articolo Il Sole 24 Ore del
17.03.2014). |
ENTI LOCALI: Il revisore «paga» l'elusione dal Patto.
Finanza pubblica. Condanna per danno.
Pesanti
conseguenze in caso d'irregolare esclusione di spese
rilevanti ai fini del patto di stabilità.
La Corte conti
Campania ha sanzionato revisori e responsabile del servizio
finanziario di un Comune che, a seguito di un'ispezione
della Ragioneria generale, risulta aver rispettato il Patto
2003 grazie alla mancata inclusione nei saldi di spese non
escludibili. In specie, non risultano nei saldi le spese di
gestione degli uffici giudiziari, per il fondo nazionale
affitti, per il fondo nazionale politiche sociali, per i
referendum a carico dello Stato che, invece, avrebbero
dovuto essere conteggiate (articolo 29 della legge
289/2002).
Il danno è stato quantificato partendo dalle spese
effettuate nel 2004 grazie all'illegittima violazione dei
divieti che non avessero rispettato i vincoli dal patto. Si
tratta di assunzioni di personale, contrazione di mutui e
mancata effettuazione delle dovute riduzioni di spesa.
L'importo così determinato, tuttavia, anche tenendo presente
l'utilitas delle spese eseguite e l'impossibilità di
quantificare in misura esatta il danno, è stato ridotto dai
giudici in modo consistente (il 7,6% di quello
complessivamente arrecato).
La sentenza, che s'inserisce in una corrente che va
consolidandosi (ad esempio, sezione Piemonte 6/2013), va
segnalata per tre aspetti.
1) Il ruolo dei revisori in materia di certificazione del
patto non è una mera presa d'atto dei dati e della
qualificazione contabile delle poste forniti dalla Pa. Al
contrario, i revisori devono vigilare sulla corretta
qualificazione contabile e finanziaria delle voci ai fini
del patto stesso.
2) La Pa danneggiata dalla condotta illecita, nel caso di
specie, va individuata in egual misura nello Stato e
nell'ente locale;
3) L'impossibilità di ricalcolare i dati finanziari
dell'anno 2001 che sono il parametro di calcolo per
accertare il rispetto del patto 2003 (nota Rgs n.
2994/2003). I dati degli anni precedenti, infatti, secondo
quanto previsto dell'articolo 29 della legge 289/2002,
avrebbero un carattere fisso e stabile. A questi devono fare
riferimento gli enti negli anni seguenti, senza possibilità
di invocarne l'erroneità, poiché sono da considerarsi
vincolanti.
I tre principi enunciati chiaramente valgono non solo per il
Patto 2003, ma anche per le versioni successive, ponendosi
come regole generali di condotta in caso di raggiungimento
degli obiettivi del patto mediante errata o omessa
imputazione delle poste (articolo Il Sole 24 Ore del
17.03.2014). |
APPALTI: Gare, istanze all'Authority anche dalle associazioni.
Contratti pubblici. Prevenzione delle controversie.
Le
associazioni e i comitati portatori di interessi diffusi
possono richiedere all'Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici un parere di risoluzione delle
controversie insorte in una procedura di gara, al pari delle
stazioni appaltanti e degli operatori economici.
L'ampliamento dei soggetti che possono sollecitare
l'intervento di precontenzioso dell'Avcp è una delle
numerose novità introdotte dal nuovo regolamento approvato
dall'organismo di vigilanza sugli appalti pubblici.
Il nuovo complesso di regole è reso applicabile (articolo
13) anche alla fase dell'esecuzione del contratto,
nell'ambito della quale la stazione appaltante o l'esecutore
possono richiedere un parere non vincolante: la previsione
consente di ipotizzare un intervento (su richiesta)
dell'Autorità su controversie insorte su riserve, varianti,
problematiche legate alla corretta esecuzione dell'appalto.
La nuova disciplina chiarisce il rapporto con le procedure
di contenzioso in sede giurisdizionale, specificando
(articolo 5, comma 6) che l'istanza diviene improcedibile in
caso di sopravvenienza di una qualunque pronuncia
giurisdizionale emessa in primo grado (ad esempio una
sentenza del Tar).
L'istanza per il parere può essere presentata anche dopo
l'aggiudicazione definitiva (articolo 4, comma 3),
delineandosi come procedura di garanzia prima della stipula
del contratto. È ammesso anche il riesame delle questioni,
ma solo quando siano documentate sopravvenute ragioni di
fatto e/o di diritto (articolo 12).
Per rendere temporalmente efficace l'intervento
dell'Autorità rispetto agli sviluppi delle procedure di gara
per cui sia richiesto il parere, il regolamento prevede
anche (articolo 10, comma 5) un nuovo termine di conclusione
per l'emissione della pronuncia, fissato in 90 giorni
(sospendibile per un periodo limitato solo per la
presentazione di memorie e controdeduzioni).
Il procedimento deve essere avviato da uno dei soggetti
interessati producendo un'ampia serie di documenti (articolo
5), per garantire all'Avcp la disponibilità di tutte le
informazioni.
Nel corso dell'istruttoria la stessa Autorità può richiedere
ulteriori informazioni ed elementi (articolo 6, comma 3),
mentre le parti interessate possono presentare memorie
(entro dieci giorni dalla comunicazione di avvio del
procedimento) e repliche (entro i dieci giorni successivi).
Inoltre, l'Avcp può richiedere un'audizione dei soggetti
coinvolti, qualora lo ritenga opportuno (articolo 9).
Il regolamento evidenzia inoltre come il parere non escluda
(articolo 10, comma 4) l'intervento dell'Autorità
nell'esercizio dei suoi poteri di vigilanza, qualora rilevi
dalla controversia elementi in tal senso significativi (articolo Il Sole 24 Ore del
17.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Sui criteri per istituire il canone previsto dal
Codice della Strada (ex art. 27 del Dlgs. 30.04.1992 n. 285,
per l'uso o l'occupazione delle strade comunali in
particolare per la posa delle reti per servizi pubblici.
L'imposizione di prestazioni patrimoniali sui servizi a rete
non deve trasformarsi in un dazio che ostacola e rende più
onerosa la circolazione delle merci (v. art. 120 Cost.).
L'eventuale previsione di un canone per l'uso o
l'occupazione delle strade comunali strutturato come tributo
ambientale violerebbe inoltre i principi comunitari.
Per evitare la qualificazione come tributo ambientale, il
canone deve essere riferito a un uso particolare di uno
specifico bene pubblico. Occorre inoltre che tale uso non
sia già remunerato mediante altre prestazioni patrimoniali,
perché se il canone costituisse mera duplicazione di queste
ultime non potrebbe che essere considerato, per residualità,
come tributo ambientale.
Se l'atto di concessione del servizio prevede il pagamento
di un canone, come nel caso della distribuzione del gas, il
canone per l'uso o l'occupazione delle strade comunali può
essere considerato assorbito solo se sia stato preso in
considerazione come voce a sé dell'offerta (sotto forma di
somma in aumento nella parte economica dell'offerta, o come
equivalente monetario di prestazioni accessorie di
manutenzione della rete stradale descritte nell'offerta
tecnica).
Diversamente, vi sono ancora margini per esigere un
corrispettivo per l'uso particolare delle strade comunali;
occorre però differenziare il canone dalla TOSAP/COSAP, che
ha come presupposto l'occupazione di spazi pubblici. Non è
sufficiente il fatto che la TOSAP/COSAP sia parametrata sul
numero di utenze (v. art. 63, c. 2-f, del Dlgs. 15.12.1997
n. 446), né la mera sottrazione della TOSAP/COSAP al canone,
ma è necessario individuare per quest'ultimo un'autonoma "base
imponibile".
I criteri per questa operazione sono contenuti nell'art. 27
c. 8 del codice della strada, la cui attuazione, mancando le
direttive nazionali ex 67, c. 5, del DPR 495/1992, è rimessa
all'iniziativa dei singoli enti proprietari delle strade. I
criteri sono le soggezioni che derivano alla strada, il
valore economico risultante dal provvedimento che autorizza
l'occupazione, e il vantaggio che l'utente ne ricava.
In sostanza sembra necessario individuare una quota del
costo di manutenzione delle strade che possa essere riferita
all'esclusivo vantaggio dei gestori dei servizi a rete e una
quota dell'utile di questi ultimi (per l'attività di
distribuzione svolta sul territorio comunale) che possa
essere destinata a remunerare l'uso particolare delle
strade, tenendo conto del risparmio conseguito rispetto alla
collocazione delle reti al di fuori del tracciato stradale
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
ordinanza 21.03.2014 n. 156 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Sull'istituto del project financing.
In materia di finanza di progetto, la procedura di scelta
del promotore presenta caratteri peculiari, in quanto è
volta alla ricerca non solo di un 'contraente' ma di
una 'proposta', che integri l'individuazione e la
specificazione dell'interesse pubblico. Il legislatore, nel
disciplinare l'istituto del project financing, ha
invero distinto le fasi in cui si articola il complesso
procedimento volto alla realizzazione di opere pubbliche
senza oneri finanziari da parte della amministrazione. La
legge prevede in particolare che, in seguito alla
presentazione di una proposta da parte dei soggetti cui è
riconosciuta detta facoltà, l'amministrazione deve operare
una valutazione della medesima a sua volta propedeuetica
all'indizione delle procedure di gara per l'aggiudicazione
della concessione.
La fase di valutazione della proposta era nel caso di specie
ratione temporis disciplinata dall'art. 37-ter della
l. n. 109/1994, che, nella formulazione allora vigente,
prevedeva che "entro il 31 ottobre di ogni anno la
amministrazioni aggiudicatrici valutano la fattibilità delle
proposte presentate ... verificano la assenza di elementi
ostativi alla loro realizzazione e, esaminate le proposte
stesse anche comparativamente, sentiti i promotori che ne
facciano richiesta, provvedono ad individuare quelle che
ritengono di pubblico interesse". Quindi, alla verifica
della fattibilità del progetto e dell'assenza di elementi
ostativi alla realizzazione dell'opera, doveva
necessariamente seguire la individuazione della proposta di
pubblico interesse e solo a seguito di tale individuazione
le amministrazioni avrebbero potuto procedere alla indizione
della gara di cui all'art. 37-quater, co. 1, lett. a), della
l.n. 109/1994 ed alla successiva aggiudicazione della
concessione mediante una procedura negoziata, da svolgersi
tra il soggetto che avesse presentato la proposta
progettuale iniziale (cd promotore) e i soggetti
presentatori delle due migliori offerte della gara in
precedenza indetta.
In materia di "project financing", anche nella
vigenza della precedente disciplina di cui agli art. 37-bis,
ter e quater della cit. l. n. 109/1994, l'amministrazione
-una volta individuato il promotore e ritenuto di pubblico
interesse il progetto dallo stesso presentato (dichiarazione
nella fattispecie non intervenuta ), non era tenuta a dare
corso alla procedura di gara, essendo libera di scegliere
-attraverso valutazioni attinenti al merito amministrativo e
non sindacabili in sede giurisdizionale- se, per la tutela
dell'interesse pubblico, fosse più opportuno affidare il
progetto per la sua esecuzione ovvero rinviare la sua
realizzazione ovvero non procedere affatto.
L'amministrazione è titolare del potere, riconosciuto
dall'art. 21-quinquies della legge n. 241 del 1990, di
revocare, per sopravvenuti motivi di pubblico interesse
ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di
una nuova valutazione dell'interesse pubblico originario, un
proprio precedente provvedimento amministrativo quando ciò
avvenga prima del consolidarsi delle posizioni delle parti
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 20.03.2014 n. 1365 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
In caso di ati costituenda la garanzia
provvisoria deve essere intestata alla capogruppo e a tutte
le partecipanti all'associazione.
In caso di a.t.i. costituenda la garanzia dev'essere
intestata a tutte le associande, atteso che il soggetto da
garantire non è l'a.t.i. nel suo complesso, non ancora
costituita, né la sola capogruppo, ma tutte le imprese
associande che durante la gara operano individualmente e
responsabilmente negli impegni connessi alla partecipazione
alla gara stessa, ivi compreso, in caso di aggiudicazione,
quello di conferire mandato collettivo alla capogruppo che
stipulerà il contratto con l'Amministrazione.
Principio, questo, per il quale non occorre espressa
previsione nella lex specialis di gara e la cui
inosservanza non abbisogna di essere sanzionata con
esplicita clausola di esclusione, discendendo da regole
generalissime desumibili dall'art. 75 del D.Lgs. n. 163/2006
(codice dei contratti), nonché dall'intero contesto della
normativa in materia di procedure ad evidenza pubblica
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 20.03.2014 n. 1364 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’approdo
interpretativo ultimo in materia di denuncia di inizio
attività include la DIA (ora SCIA) tra i moduli di
liberalizzazione dell'attività privata, escludendo che la
stessa costituisca provvedimento tacito direttamente
impugnabile.
Gli interessati possono quindi agire sollecitando
l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e,
in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui
all'art. 31 c.p.a. ovvero impugnare i "provvedimenti
espressi" adottati dall'amministrazione su sollecitazione
degli stessi controinteressati.
L’approdo interpretativo in materia di denuncia di inizio
attività -da ultimo definitivamente avallato dallo stesso
legislatore con le modifiche introdotte all’art. 19, comma
6-ter, della Legge n. 241 del 1990 dal decreto legge
13.08.2011, n. 138, convertito in legge n. 148 del 2011–
include la DIA (ora SCIA) tra i moduli di liberalizzazione
dell'attività privata, escludendo che la stessa costituisca
provvedimento tacito direttamente impugnabile.
Gli interessati possono quindi agire sollecitando
l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e,
in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui
all'art. 31 c.p.a. ovvero impugnare i "provvedimenti
espressi" adottati dall'amministrazione su
sollecitazione degli stessi controinteressati (cfr. Cons.
St., sez. IV 10.07.2013, n. 3666; TAR Napoli sez. II
21.06.2013 n. 3195) (TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 20.03.2014 n. 481 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
realizzazione di abbaini muniti di finestra sul tetto
trattasi di opera:
a) che determina un aumento di volumetria e che incide sulla
sagoma dell'edificio;
b) che, quindi, rientra nella tipologia della
ristrutturazione "con mutamento di sagoma", subordinata a
permesso di costruire ai sensi dell'art. 10, comma 1,
lettera "c" del D.P.R. n. 380/2001;
c) che, infine, fuoriuscendo dalla sagoma preesistente della
copertura del tetto, è da considerarsi "costruzione" -agli
effetti delle distanze previste dall'art. 873 del Codice
Civile e dalle norme dei regolamenti integrativi della
disciplina codicistica- come tale dovendosi intendere,
secondo consolidato indirizzo giurisprudenziale, qualsiasi
opera non completamente interrata, avente i caratteri della
solidità, stabilità ed immobilizzazione al suolo, anche
mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso ad
un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o
preesistente, e ciò indipendentemente dal livello di posa ed
elevazione dell'opera stessa, dai suoi caratteri e dalla sua
destinazione.
Quanto alla realizzazione degli
abbaini muniti di finestra sul tetto dei fabbricati, va
condivisa la conclusione cui perviene la relazione del
07.09.2010 secondo cui trattasi di opera:
a) che determina un aumento di volumetria e che incide sulla
sagoma dell'edificio (TAR Napoli, sez. VII, 09.06.2010, n.
13309; TAR Veneto, sez. II, 07.03.2003, n. 1692; Cons. St.,
sez. V, 14.06.1996, n. 689);
b) che, quindi, rientra nella tipologia della
ristrutturazione "con mutamento di sagoma",
subordinata a permesso di costruire ai sensi dell'art. 10,
comma 1, lettera "c" del D.P.R. n. 380/2001;
c) che, infine, fuoriuscendo dalla sagoma preesistente della
copertura del tetto, è da considerarsi "costruzione"
-agli effetti delle distanze previste dall'art. 873 del
Codice Civile e dalle norme dei regolamenti integrativi
della disciplina codicistica- come tale dovendosi intendere,
secondo consolidato indirizzo giurisprudenziale, qualsiasi
opera non completamente interrata, avente i caratteri della
solidità, stabilità ed immobilizzazione al suolo, anche
mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso ad
un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o
preesistente, e ciò indipendentemente dal livello di posa ed
elevazione dell'opera stessa, dai suoi caratteri e dalla sua
destinazione (Cass. civ. sez. II, 03.01.2013, n. 72; id.,
sez. II, 22.02.2011, n. 4277; id., sez. II, 04.10.2005, n.
19350)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 20.03.2014 n. 481 - link a
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APPALTI:
Sull'applicazione dell'art. 38, c. 1, lett. c),
d.lgs. n. 163/2006, in caso di cessione di ramo d'azienda.
---------------
L'integrazione dei requisiti minimi di capacità imposti
dall'amministrazione aggiudicatrice può essere dimostrata,
sia utilizzando l'avvalimento frazionato che l'avvalimento
plurimo.
La dichiarazione circa l'insussistenza di sentenze di
condanna passate in giudicato (o di decreti penali di
condanna irrevocabili, o di sentenze di applicazione della
pena su richiesta) per determinati reati nei confronti di
amministratori e direttori tecnici, prevista dall'art. 38
del d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (codice degli appalti
pubblici), va resa, a pena di esclusione, in caso di
cessione d'azienda in favore del concorrente nel triennio
anteriore al bando (un anno, a seguito delle modifiche
introdotte dalla legge 12.07.2011, n. 106), anche con
riferimento agli amministratori ed ai direttori tecnici che
hanno operato presso la impresa cedente nell'ultimo triennio
(nell'ultimo anno, a seguito delle suddette modifiche)".
Se la cessione del ramo d'azienda non determina di per sé
una discontinuità nella gestione tale da sottrarre gli
amministratori e direttori tecnici dell'impresa ceduta agli
obblighi dichiarativi di cui all'art. 38, c. 1, lett. c),
d.lgs. n. 163/2006, qualora ciò avvenga per il tramite di
una procedura di concordato preventivo, e salvo che non sia
desumibile da ulteriori elementi un intento elusivo della
prescrizione ivi contenuta, non può ritenersi che l'impresa
cessionaria concorrente nella procedura di gara sia tenuta a
rendere le dichiarazioni in questione.
La cessione dell'azienda o del ramo d'azienda a seguito del
concordato preventivo determina, infatti, una cesura nella
gestione dei beni dell'impresa, tale da escludere
un'influenza dei comportamenti degli amministratori e dei
direttori tecnici della cedente, senza che risulti rilevante
che quest'ultimi ex art. 2487-bis, terzo comma c.c.,
avvenuta l'iscrizione nel registro delle imprese dei
liquidatori, a differenza di quanto accade per gli
amministratori, non cessino dalla carica.
...
L'integrazione dei requisiti minimi di capacità imposti
dall'amministrazione aggiudicatrice può essere dimostrata,
sia utilizzando l'avvalimento frazionato che l'avvalimento
plurimo, poiché ciò che rileva è la dimostrazione da parte
del candidato o dell'offerente, che si avvale delle capacità
di uno o di svariati altri soggetti, di poter disporre
effettivamente dei mezzi di questi ultimi che sono necessari
all'esecuzione dell'appalto.
...
Nelle gare d'appalto, l'art. 38 D.L.vo 12.04.2006, n. 163,
nella parte in cui elenca i soggetti tenuti ad effettuare le
dichiarazioni di sussistenza dei requisiti morali e
professionali ha come destinatari dell'obbligo non soltanto
coloro che rivestono formalmente le cariche di
amministratori, ma anche coloro che, in qualità di
procuratore ad negotia, abbiano poteri di
rappresentanza dell'impresa e possono compiere atti
decisionali (c.d. amministratori di fatto), con l'avvertenza
che qualora la lex specialis non contenga al riguardo
una specifica comminatoria di esclusione, quest'ultima può
essere disposta non già per la mera omessa dichiarazione, ma
solo quando sia effettivamente riscontrabile l'assenza del
requisito in questione (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 17.03.2014 n. 1327 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI FORNITURE SERVIZI:
La Pa può recedere se il servizio è «caro».
Spending review. La gestione dei contratti alla luce del Dl
95/2012.
Prime
applicazioni della spending review nei contratti della
pubblica amministrazione (articolo 1, comma 13, Dl 95/2012).
Un servizio prestato al ministero per i Beni culturali, con
oneri economici superiori a quelli previsti dalla Consip
(centrale acquisti) è giunto nelle aule del Consiglio di
Stato, che nella
sentenza 17.03.2014 n. 1312 fornisce una serie
di indicazioni. Da gennaio 2013, infatti, forniture e
servizi vedono la Pa autorizzata sostituire in corsa
l'impresa aggiudicataria, anche se il contratto è già stato
stipulato e l'erogazione è in corso: basta che vi siano
condizioni economiche più vantaggiose per l'ente pubblico.
I
parametri di convenienza sono offerti dalle convenzioni Consip: se nel corso dell'esecuzione della fornitura o del
servizio il corrispettivo supera i parametri della Centrale
acquisti, l'ente pubblico si deve attivare per cambiare il
contratto. Spetta poi all'aggiudicataria valutare se
accettare le nuove condizioni economiche o subire il
recesso. L'impresa ha 15 giorni di tempo per decidere,
potendo scegliere se accettare il recesso (con indennizzo
pari a un decimo dell'utile sulle prestazioni non ancora
eseguite) oppure abbassare il prezzo del servizio o della
fornitura ai parametri Consip.
Il meccanismo previsto
dall'articolo 1, comma 13, del Dl 95/2012, secondo la
sentenza del Consiglio di Stato, colloca sullo stesso piano
le pubbliche amministrazioni e i privati, in un rapporto di
tipo civilistico in cui l'amministrazione non si svincola
affermando esigenze di interesse pubblico, ma esercita quel
diritto di recesso che ogni privato può utilizzare quando lo
ritenga opportuno, a norma dell'articolo 1671 del Codice
civile.
La norma del Codice civile impone che l'esecutore sia tenuto
indenne dalle spese sostenute, dai lavori eseguiti e del
mancato guadagno; in precedenti regimi, il contenzioso
amministrativo rendeva possibili (Consiglio di Stato
662/2012) richieste di maggior calibro, come il 2% del
valore dell'appalto o il danno curriculare (perdita di
qualificazione). Se oggi l'amministrazione si può comportare
come un privato, il giudice competente non è più quello
amministrativo, bensì quello dei privati, e cioè il
tribunale ordinario.
Ciò genera un notevole snellimento
delle liti perché dinanzi al giudice amministrativo si
discuteva ad ampio spettro, ad esempio verificando motivi di
interesse pubblico che potevano fondare la scelta
dell'importo da pagare: ad esempio, dietro un particolare
costo economico della fornitura, vi poteva essere un
vantaggio all'indotto, o una particolare qualità del
servizio, oppure un'esigenza di incentivo.
Tutto ciò poteva essere fatto valere sotto forma di difetto
di motivazione del recesso, innescando un contenzioso in cui
l'importo economico regrediva ad elemento secondario, per di
più cristallizzato con riferimento all'epoca della gara. Ora
che Consip redige parametri di costo per categorie omogenee,
basta uno scostamento da tali parametri per obbligare la Pa
(se si tratta di acquisto di beni, per i servizi è invece
una facoltà) a recedere dal contratto, se il fornitore non
accetta i parametri Consip.
Nel caso specifico esaminato dalla
sentenza 17.03.2014 n. 1312 del Consiglio di Stato,
Sez. VI, si discuteva di un servizio di gestione della
sicurezza sui luoghi di lavoro, prestazioni che Consip
offriva, attivando economie di scala, con un contenimento di
spesa di 5 milioni in tre anni. Oggi basta questo risparmio
per innescare il meccanismo di recesso, offrendo al
contraente l'alternativa tra adeguarsi ai costi Consip o
abbandonare il servizio (o la fornitura) ottenendo il
pagamento di un decimo degli utili futuri. Non conta più
aver vinto una gara contro altri agguerriti concorrenti:
basta il sopravvenire di più vantaggiosi parametri Consip
per consentire a un soggetto pubblico di sostituire il
prestatore di servizi (articolo Il Sole 24 Ore del
23.03.2014). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI:
Sulla ratio dell'art. 1, c. 13, del d.l. n.
95/2012, che consente alle stazioni appaltanti il recesso
unilaterale dai contratti di fornitura o di servizi per
ragioni di riduzione della spesa.
L'art. 1, c. 13, del d.l. 06.07.2012, n. 95, conv. dalla l.
07.08.2012, n. 135, attribuisce alle amministrazioni
pubbliche, "che abbiano validamente stipulato un autonomo
contratto di fornitura o di servizi […] il diritto di
recedere in qualsiasi tempo dal contratto, previa formale
comunicazione all'appaltatore, con preavviso non inferiore a
quindici giorni e previo pagamento delle prestazioni già
eseguite, oltre al decimo delle prestazioni non ancora
eseguite"; quanto sopra, quando "i parametri delle
convenzioni stipulate da Consip s.p.a., ai sensi dell'art.
26, c. 1, della l. 23.12.1999, n. 488, successivamente alla
stipula del predetto contratto, siano migliorativi rispetto
a quelli del contratto stipulato e l'appaltatore non
acconsenta ad una modifica delle condizioni economiche, tale
da rispettare il limite, di cui all'art. 26, c. 3, della l.
23.12.1999, n. 488".
Nella medesima disposizione è anche precisato che il diritto
di recesso di cui trattasi "si inserisce automaticamente
nei contratti in corso, ai sensi dell'art. 1339 del Cod. civ.".
L'art. 1, c. 13, del d.l. n. 95/2012 cit. non attribuisce
una potestà, che consenta all'Amministrazione -già parte di
un rapporto contrattuale a regolazione civilistica- di
intervenire ab extra sul rapporto stesso in forma e
modalità autoritativa, in modo tale da svincolarsi dagli
obblighi contrattuali assunti per affermate esigenze di
interesse pubblico.
Non confermano tale indirizzo, infatti, né il testo, né la
ratio della norma in esame: il primo, in quanto
assegna in modo esplicito all'Amministrazione un "diritto"
di recesso e la seconda (coincidente con la possibilità di
ottenere prestazioni "migliorative", in base ai
parametri delle convenzioni stipulate da Consip), poiché
detta finalità viene perseguita con una fattispecie di
recesso unilaterale del contratto, che costituisce mera
specificazione di quanto comunque consentito al committente,
nell'ambito dei contratti di appalto, a norma dell'art. 1671
Cod. civ..
---------------
Dalla norma ricognitiva del diritto in questione (lex
specialis rispetto al citato art. 1671 Cod. civ.), sono
assicurate le finalità di interesse pubblico al
perseguimento di economie di scala ed alla omogeneità dei
costi delle forniture e dei servizi, commissionati da
pubbliche amministrazioni tramite un centro specializzato
per i loro approvvigionamenti con inerente contrattazione
centralizzata, in capo a una figura, organizzativa (oggi la
Consip s.p.a.) istituita per un tale scopo.
Una volta formalizzate le convenzioni, che dovrebbero
assicurare detti parametri di maggiore convenienza, ogni
altra forma di contrattazione è dichiarata nulla (art. 1, c.
1, d.l. n. 95 del 2012) e solo in via transitoria -per i
contratti stipulati prima della data di entrata in vigore
del ricordato d.l. n. 95 del 2012 (conv. dalla l.
07.08.2012, n. 135)- si attribuisce appunto al contraente
pubblico il diritto di recesso in questione, con successiva
adesione alla convenzione Consip, ove l'appaltatore non
acconsenta a modificare in senso conforme le condizioni
contrattuali (con pagamento comunque, in caso di non
adesione di detto appaltatore, delle prestazioni già
eseguite e di un decimo di quelle da eseguire: art. 1 cit.,
comma 13).
Costituisce, pertanto, esercizio di un potere a carattere
contrattuale dell'Amministrazione -in forza di una clausola
contrattuale inserita ex lege, a norma dell'art. 1339
Cod. civ.- e non espressione di una potestà pubblica, che
sarebbe in sé estrinseca al sinallagma contrattuale,
l'esercizio del diritto di recesso, che la legge riconosce
nella situazione anzidetta.
Ne consegue che, nel caso di specie, l'appello deve essere
dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione, ai
sensi e per gli effetti dell'art. 11 del Codice del processo
amministrativo, con declaratoria della cognizione del
giudice ordinario sulla questione (Consiglio di Stato, Sez.
VI,
sentenza 17.03.2014 n. 1312 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sulle varianti progettuali migliorative
nell'appalto integrato.
Con specifico riferimento all'appalto integrato le "varianti
progettuali migliorative", qualora ammesse dalla legge
di gara, pur incidendo normalmente su aspetti in grado di
incidere in maniera rilevante e consistente sulla qualità
dell'opera (sul piano strutturale, prestazionale e
funzionale), non devono tuttavia alterare l'essenza
strutturale e prestazionale, così come fissate dal progetto
definitivo, onde non ledere lo stesso interesse della
stazione appaltante al conseguimento delle funzionalità
perseguite (TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 15.03.2014 n. 218 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sull'applicabilità anche alle concessioni di
servizi della disciplina ex art. 84, c.10, dlgs. 163/2006.
L'art. 84, c. 10, del d.lgs. n. 163 del 2006 dispone che "la
nomina dei commissari e la costituzione della commissione
devono avvenire dopo la scadenza del termine fissato per la
presentazione delle offerte".
L'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con decisione n.
13 del 2013, ha affermato che, in sede di affidamento di una
concessione di servizi con il criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa, sono applicabili, tra
l'altro, le disposizioni di cui al citato art. 84, c. 10, in
quanto espressive dei principi di trasparenza e di parità di
trattamento, richiamati dall'art. 30, c. 3, del medesimo
decreto legislativo.
Nel caso di specie, riguardante una procedura di gara, con
il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, per
l’affidamento del servizio di somministrazione di alimenti e
bevande tramite distributori automatici, l'atto di appello
non contesta, in punto di fatto, il momento temporale di
nomina della commissione ma si è limitato ad affermare che
il citato art. 84, c. 10, non può trovare applicazione.
Pertanto, una volta ritenuto, alla luce dell'orientamento
interpretativo espresso dall'Adunanza plenaria, che tale
norma trova, invece, applicazione, ne discende
l'infondatezza dell'appello (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 14.03.2014 n. 1296 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Edifici vincolati, dialogo Pa-privati.
Tar Toscana. Serve il contradditorio.
Maggiore collaborazione tra privato e Pa quando occorre
recuperare immobili vincolati: questo è l'auspicio del Tar
di Firenze, decidendo le sorti di un ex cinema destinato a
profumeria.
La vicenda riguarda
una delle più belle vie di Lucca (il cosiddetto Fillungo) e,
lungo tale direttrice, uno dei locali più rappresentativi
(un ex cinema teatro), le cui sorti sono state affidate alla
sentenza 12.03.2014 n. 487 del
TAR Toscana, Sez. III.
In particolare, recuperando i locali, si era previsto
l'inserimento di un ascensore interno, un breve camminamento
orizzontale "a sbalzo" in acciaio e una serie di strutture
leggere metalliche a gradini. Ciò, secondo la Soprintendenza
beni architettonici di Lucca e Massa Carrara, avrebbe
prodotto un totale stravolgimento dell'ex cinema teatro,
aggravato da un parziale mutamento di destinazione. Per i
proprietari, la situazione era meno problematica di quanto
apparisse alla Soprintendenza, in quanto il cambio di
destinazione riguardava solo platea e galleria dell'ex
cinema, mentre già dal 1948 la struttura teatrale e i suoi
apparati erano stati abbattuti.
Ora il Tar media tra le posizioni, con un orientamento che
si presta ad applicazioni generali: si afferma infatti che
l'intervento della Soprintendenza (articoli 21 e 22 del Dlgs
42 del 2004 codice Urbani), può (e deve), contemperare gli
interessi pubblici con quelli privati, tendendo alla
bilanciata soddisfazione sia delle esigenze di tutela di
detti beni, sia dell'interesse del privato proprietario.
Questo equilibrio impone un contraddittorio procedimentale,
senza generici dinieghi. Ciò perché entrambi i valori in
campo (tutela dei beni storici e della proprietà privata)
sono assistiti da garanzia costituzionale. Il secondo comma
dell'articolo 9 della Carta contempla il primo di essi, il
secondo comma dell'articolo 42 della stessa contempla il
secondo, prevedendo che la legge possa porre limiti alle
facoltà del proprietario, assicurando la funzione sociale di
ciò che è privato.
In questo quadro, i provvedimenti con cui l'amministrazione
esercita il potere-dovere di garantire la conservazione dei
beni storico-culturali, non hanno necessariamente un
contenuto vincolato e limitativo, ma attraverso valutazioni
ampiamente discrezionali sulla compatibilità dell'intervento
edilizio progettato rispetto alla natura del bene tutelato
devono consentire al privato proprietario un'utilizzazione
economica.
Di qui la necessità del contraddittorio procedimentale, in
rapporto alla discrezionalità valutativa attribuita
all'amministrazione che decide, dal momento che in una sorta
di colloquio con il privato l'amministrazione può vagliare
con attenzione le ragioni addotte dall'istante e di
evidenziare o specificare gli elementi di fatto e di diritto
che possano condurre a una valutazione sfavorevole
dell'istanza.
La sentenza conclude quindi in senso
sfavorevole alla Soprintendenza, annullando il diniego alla
modifica dei locali, ma lascia all'amministrazione la
possibilità di adottare ulteriori legittimi e motivati
provvedimenti. Ciò pone in condizione il privato di far
presenti gli elementi a favore della ristrutturazione,
concordandone la portata
(articolo Il Sole 24 Ore del
19.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'abuso edilizio in centro non sempre va demolito.
L'ente può irrogare sanzioni pecuniarie e deve comunque
motivare le scelta.
Consiglio di Stato. Intervento in zona storica («A»)
qualificato come ristrutturazione.
Abusi edilizi
non sempre demoliti nei centri storici: lo afferma il
Consiglio di Stato, Sez. VI, con la
sentenza 10.03.2014 n. 1084 relativa a un intervento
a Roma.
Il problema è particolarmente sentito in quanto fino ad oggi
si è considerata la "riduzione in pristino" (cioè la
demolizione dell'abuso) come strumento normale per
«riportare lo stato di fatto a quanto previsto per lo
sviluppo edilizio del territorio» (Consiglio di Stato, n.
1793 del 27.03.2012), tanto più che gli interventi nei i
centri storici (zone «A» dei piani urbanistici), sono
soggetti al severo parere della Soprintendenza.
Di qui l'importanza del caso deciso, che riguarda il
mutamento di destinazione d'uso e l'accorpamento di locali
interrati, l'ampliamento di tre bocche di lupo, una nuova
finestra e una nuova scala di un ristorante. Questi
interventi innanzi tutto sono stati qualificati come
«ristrutturazione edilizia» e non valutati come interventi
singoli. Questa qualificazione rende più grave la sanzione,
perché in caso di ristrutturazione con trasformazione
dell'organismo edilizio è irrogabile la sanzione demolitoria
(che invece per gli abusi singoli minori si può evitare).
Secondo il giudice amministrativo, l'insieme delle opere
descritte comporta una ristrutturazione in quanto le opere,
anche se realizzate singolarmente, sono tali da correlarsi
in un palese effetto di pur parziale trasformazione
dell'organismo edilizio preesistente. L'autore dell'abuso
correrrebbe quindi il rischio di una riduzione in pristino.
Invece, a suo favore, il Consiglio di Stato ipotizza una via
di uscita di carattere generale: si afferma infatti che è
sempre necessario scegliere tra sanzione demolitoria e
quella pecuniaria, anche se la demolizione è usuale.
Per
giungere a questa conclusione, il Consiglio di Stato
richiama l'articolo 33, comma 4, del testo unico
sull'edilizia 380/2001, secondo cui l'ufficio richiede
all'amministrazione competente alla tutela dei beni
culturali e ambientali apposito parere vincolante circa la
restituzione in pristino o la irrogazione della sanzione
pecuniaria di cui al precedente comma. Se il parere non
viene reso entro 90 giorni dalla richiesta «...qualora le
opere siano state eseguite su immobili, anche se non
vincolati, compresi nelle zone omogenee A, di cui al decreto
ministeriale 02.04.1968, n. 1444, il dirigente o il
responsabile provvede autonomamente».
Esiste quindi una certa elasticità e quindi il legislatore
ha ritenuto che in ordine alla sanzione va prioritariamente
effettuata una scelta tra la restituzione in pristino e il
pagamento di una sanzione pecuniaria (mantenendo i luoghi
modificati dall'abuso). Anche quando la Soprintendenza non
si pronuncia, quindi, il Comune può procedere, ma
l'espressione «autonomamente», riferita alla scelta del
Comune, presuppone che l'ente locale possa effettuare una
scelta simile a quella che spetta (entro 30 giorni) alla
Soprintendenza. Chi compie un abuso, quindi, ha sempre
diritto a una scelta motivata, che a sua volta può graduarsi
in funzione del peso dell'abuso rispetto alla situazione da
tutelare.
Si aggiunge quindi un altro tassello al rapporto tra
amministrazione che gestisce il territorio (Comune) e
Soprintendenza, accentuando l'onere di motivazione quando il
soggetto pubblico decide di demolire. Ad esempio, il privato
potrebbe proporre opere di mitigazione (come in materia
paesaggistica: Tar Brescia 317/2008), sfuggendo così a una
sanzione demolitoria, di recente nella sua severità giunta
anche all'attenzione (senza esito) della Corte di giustizia
comunitaria (06.03.2013 in causa C-206/13), su una
demolizione che il Tar Palermo riteneva eccessivamente
punitiva.
---------------
La giurisprudenza
01|LA MESSA IN PRISTINO
L'esistenza di un vincolo su un immobile, che risulti di
pregio specifico, può far ritenere la riduzione in pristino
come la misura principale da adottare laddove alla sanzione
pecuniaria l'Amministrazione può ricorrere, previa adeguata
e specifica motivazione, solo in via sussidiaria, quando il
ripristino non possa avvenire senza pregiudizio della parte
conforme -
Consiglio di Stato, 27.03.2012 n. 1793
02|LA SANZIONE PECUNIARIA
Considerato dunque che la restituzione in pristino
costituisce lo strumento normale per «riportare lo stato di
fatto al paradigma legittimamente delineato per lo sviluppo
edilizio del territorio», nella specie si deve ritenere,
secondo la ratio propria della norma, che nel
provvedimento sanzionatorio debba risultare comunque
valutata l'ipotesi del ricorso alla sanzione pecuniaria, in
assenza del relativo parere dell'organo preposto alla tutela
dei beni culturali e ambientali -
Consiglio di Stato 10.03.2014 n. 1084
03|FASCIA DI RISPETTO
Si ritiene che il ricorso meriti accoglimento in via
parziale, limitatamente alla necessità che la demolizione
quale ordinata con i gravati provvedimenti venga
circoscritta alla porzione di fabbricato rientrante nella
fascia di rispetto dei 5 metri - Tar Valle Aosta 53/2003 (articolo Il Sole 24 Ore del
18.03.2014). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Avvocati lenti a bocca asciutta.
Niente onorari a chi chiede continui rinvii dell'udienza.
CASSAZIONE/ Il legale paga in prima persona se il cliente ha
subito dei danni.
L'avvocato che chiede continui rinvii delle udienze
danneggiando gli interessi del cliente perde il diritto
all'onorario.
Lo ha stabilito la III Sez. civile della Corte di
Cassazione con la sentenza 07.03.2014 n. 5410.
I giudici di Piazza Cavour si sono espressi su un caso che
vedeva un soggetto privato della possibilità di vendere
alcuni locali di sua proprietà alla ditta che li occupava,
nonostante la parte conduttrice avesse iniziato dei lavori
di adeguamento: dapprima per la richiesta di compenso per
una prestazione svolta da un altro professionista, poi per
le continue domande di slittamento delle udienze ed altre
varie lungaggini imputabili all'avvocato al quale si era
rivolto, il quale aveva un atteggiamento ingiustificatamente
attendista.
È noto che a carico del professionista legale vi sono una
serie di obblighi informativi, essendo costui tenuto, nel
rispetto del principio di trasparenza, a rendere noto al
cliente il livello della complessità dell'incarico e degli
oneri conseguentemente ipotizzabili, dal momento del
conferimento alla conclusione dell'incarico. L'avvocato,
pertanto, sarà chiamato a effettuare una valutazione ex
ante dell'impegno che richiederà lo svolgimento della
prestazione e degli oneri ipotizzabili, comunicando il tutto
al suo assistito e cercando anche nel concreto di non
perdersi in lungaggini.
Secondo il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati, nel caso di
specie si trattava solo di «qualche lieve leggerezza»
che poteva essere imputabile all'avvocato, escludendo una
negligenza consapevole, «essendo del tutto notorio che
tali rinvii sono sempre fisiologici e dovuti alle enormi
pendenze giudiziarie che non consentono le trattazioni dei
processi in corso di una o al più di due udienze».
Secondo il soggetto danneggiato però, anche una negligenza
inconsapevole è grave e dannosa per il cliente, pertanto si
rivolge ai supremi giudici che gli danno ragione
(articolo ItaliaOggi Sette del
17.03.2014). |
APPALTI:
La stazione appaltante che opera nei settori
speciali, seppur non vincolata all'applicazione delle norme
non espressamente indicate dall'art. 206 del D.Lgs. n.
163/2006, deve conformare la disciplina di gara ai principi
fondamentali in materia di appalti.
La stazione appaltante che opera nei settori speciali,
seppur non vincolata all'applicazione delle norme non
espressamente indicate dall'art. 206 del D.Lgs. n. 163 del
2006, deve tuttavia conformare la disciplina di gara,
nell'esercizio della facoltà discrezionale alla stessa
riconosciuta, coerentemente con i principi di
proporzionalità e di ragionevolezza, in modo da dettare una
disciplina congrua con l'oggetto della gara e con le
relative caratteristiche, non potendo la mera
riconducibilità dell'oggetto ai settori esclusi giustificare
l'applicazione della disciplina derogatoria a discapito
degli ulteriori principi, immanenti in materia di appalti,
del favor partecipationis, di non discriminazione,
della concorrenza e della economicità, quest'ultimo
costituente articolazione del principio generalissimo di
buon andamento, non essendo la scelta del contraente
finalizzata all'esclusivo interesse dell'Amministrazione, ma
volta anche alla tutela degli interessi degli operatori a
poter concorrere per il mercato e a potervi accedere.
L'art. 27 del D.Lgs. n. 163 del 2006 delinea, infatti,
attraverso l'indicazione dei principi fondamentali, la
disciplina generale degli appalti pubblici, che costituisce
parametro di legittimità delle relative procedure, anche con
riferimento ai settori speciali, in relazione ai quali
occorre comunque verificare se ricorra lo scopo di tutela
sotteso alla disciplina speciale e se la riconosciuta non
applicabilità di determinate disposizioni del Codice sia
coerente e compatibile con l'interesse sotteso alla gara.
---------------
L'art. 206 del D.Lgs. n. 163 del 2006 presenta, in tema di
cauzioni, un 'vuoto normativo' nell'escludere dalle
disposizioni applicabili ai settori speciali l'art. 75 del
D.Lgs. n. 163 del 2006, conseguentemente potendo le gare in
tali settori anche prescindere del tutto dalla necessità
della cauzione a garanzia dell'offerta.
Ne discende che essendo rimessa alla lex specialis di
ogni singolo appalto la predisposizione della normativa al
riguardo, tale facoltà deve essere esercitata nel rispetto
del nesso di necessarietà della deroga rispetto all'oggetto
dell'appalto e del principio di proporzionalità, da
coniugarsi con il perseguimento della tutela della
concorrenza e del principio di massima partecipazione,
dovendo la stazione appaltante stabilire le modalità di
prestazione della cauzione ed il relativo ammontare in modo
coerente con la natura e l'oggetto dell'appalto, dovendo
garantire ai partecipanti analoghe -rispetto a quelle dei
settori classici- condizioni di accesso alla gara laddove la
stessa non abbia quel carattere di specificità che ne
giustifica la deroga alla disciplina generale.
Se, quindi, l'art. 75 cit. non trova applicazione nei
settori esclusi e la stazione appaltante è libera di
determinarsi in merito, potendo addirittura escludere del
tutto legittimamente che venga prestata una cauzione, la
stessa stazione appaltante, nella determinazione della
lex specialis, deve orientare l'esercizio del proprio
potere discrezionale in senso coerente con i principi che
presiedono alle gare, la cui razionalità intrinseca è
soggetta al sindacato di legittimità (TAR Lazio-Roma, Sez.
II,
sentenza 05.03.2014 n. 2550 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Committente pubblico con solidarietà limitata.
Appalti. Nessuna corresponsabilità sugli adempimenti
previdenziali.
Il Dl 76/03,
come ha ricordato una recente
sentenza 05.03.2014 n. 1033 della Corte d'appello
di Milano (si legga anche il Sole 24 Ore di ieri), ha
previsto che le norme della legge Biagi non si applicano ai
contratti d'appalto stipulati dalle pubbliche
amministrazioni.
Tale esclusione comporta significative differenze con
riferimento al regime di responsabilità solidale applicabile
se il committente è privato o pubblico.
Per i contratti di appalto stipulati da un committente
privato, la legge prevede la responsabilità solidale del
committente per i crediti di lavoro dei dipendenti impiegati
nell'appalto, maturati dall'impresa appaltatrice (e dalle
eventuali subappaltatrici) in relazione al periodo di
esecuzione del contratto di appalto, entro il limite di due
anni dalla cessazione di quest'ultimo; tale solidarietà
comprende i trattamenti retributivi (comprese le quote di
Tfr), nonché i contributi previdenziali e i premi
assicurativi.
Il regime solidaristico è derogabile ad opera della
contrattazione collettiva, ma soltanto per i trattamenti
retributivi; la deroga è, infatti, esclusa con riferimento
ai contributi previdenziali e assicurativi.
Il quadro della responsabilità solidale è completato dalla
previsione di cui all'articolo 35, comma 28, della legge
248/2006 che disciplina l'ambito fiscale, coobbligando in
solido l'appaltatore e il subappaltatore, nel limite del
corrispettivo dovuto, per le ritenute sui redditi da lavoro
dipendente dovute da quest'ultimo.
Il committente non è responsabile in solido ma soggiace a
sanzioni amministrative per una sorta di culpa in vigilando;
dal regime solidaristico è escluso il versamento dell'Iva a
carico del subappaltatore e dell'appaltatore.
Il quadro normativo muta qualora il committente dell'appalto
sia una Pubblica amministrazione; in questo caso, infatti,
con l'introduzione del del Dl 76/2013 l'unica forma di
solidarietà sussistente tra committente e appaltatore è
quella contenuta nell'articolo 1676 del codice civile, la
quale soffre di significative limitazioni rispetto a quella
contenuta nella legge Biagi, in quanto non solo l'oggetto è
circoscritto esclusivamente al trattamento economico dovuto
dall'appaltatore ai propri dipendenti, con conseguente
esclusione degli adempimenti previdenziali, ma la
quantificazione del debito solidale si riferisce solo alla
somma ancora dovuta dal committente all'appaltatore al
momento della domanda dei lavoratori.
Con riferimento, invece, al regime di solidarietà
applicabile all'appaltatore e al subappaltatore di un
appalto pubblico, l'articolo 118 del Dl 163/2006 sancisce la
responsabilità solidale dell'affidatario in merito
all'osservanza del trattamento economico e normativo
stabilito dai contratti collettivi da parte dei
subappaltatori nei confronti dei loro dipendenti per le
prestazioni rese nell'ambito del subappalto (articolo Il Sole 24 Ore del
20.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Per il pubblico solidarietà nelle gare fino a luglio 2013.
L'obbligo è venuto meno solo con l'arrivo del Dl 76/2013.
Appalti. La Corte d'appello di Milano sulla responsabilità
per i crediti dei lavoratori.
Il regime
della responsabilità solidale negli appalti previsto dalla
legge Biagi (articolo 29, comma 2, decreto legislativo
276/03) si applica anche nelle ipotesi in cui il committente
dell'appalto di servizi sia un ente pubblico, quanto meno
per i periodi antecedenti l'approvazione del Dl 76/2013.
Lo ha stabilito la Corte d'appello di Milano, con
sentenza 05.03.2014 n. 1033,
con la quale ha respinto l'appello dell'Inpdap (oggi Inps),
committente nell'ambito di un appalto di servizi, condannata
in primo grado al pagamento delle differenze retributive e
del Tfr dei dipendenti dell'appaltatore, in solido con
quest'ultimo.
L'Istituto appellante lamentava l'erroneità della decisione
del Tribunale di Milano per non avere quest'ultimo
interpretato correttamente l'articolo 1 del Dlgs 276/2003, che
esclude l'applicabilità del decreto legislativo alle
pubbliche amministrazioni e al suo personale.
La Corte d'appello di Milano ha respinto questo argomento,
sostenendo che l'articolo 29, comma 2, del Dlgs 276/03,
disciplina un regime unitario di responsabilità solidale tra
appaltatore e committente, senza operare alcuna distinzione
tra committente pubblico e committente privato, né tra
contratto pubblico di appalto di servizi e contratto di
appalto di diritto comune.
Secondo la Corte, la norma invocata dall'ente pubblico
(articolo 1, comma 2, Dlgs 276/2003) si limita ad escludere l'appplicabilità
della riforma Biagi ai rapporti di lavoro dei dipendenti
delle Pa; il legislatore delegato, quindi, con tale norma si
è limitato ad escludere l'applicazione della riforma al
personale delle Pa.
La norma, aggiunge la sentenza, esclude dal campo di
applicazione del Dlgs 276/2003 le pubbliche amministrazioni
solo quando operano come datori di lavoro; nessuna
esclusione, invece, viene sancita per l'attività
contrattuale degli operatori, che sono considerati come
tutti gli altri agenti contrattuali.
In virtù di tali considerazioni, la Corte conclude per la
sussistenza della responsabilità solidale anche per l'ente
pubblico che ha stipulato un appalto di servizi.
La Corte esclude, inoltre, la possibilità di applicare al
caso sottoposto al suo esame la riforma legislativa
contenuta nell'articolo 9 del Dl 76/1913. Questa norma, dopo
avere esteso il regime di solidarietà di cui all'articolo 29
anche ai trattamenti retributivi dei lavoratori autonomi,
esclude l'applicabilità di tale regime ai contratti di
appalto stipulati dalle Pa.
Per la Corte di Milano, tuttavia, tale chiarimento non ha
natura interpretativa, posto che la stessa non si esprime in
termini di chiarificazione di una precedente statuizione
legislativa, e quindi è destinato a valere solo per i
rapporti contrattuali instaurati o comunque proseguiti dopo
la sua entrata in vigore, mentre non ha alcun impatto per i
rapporti iniziati e conclusi prima (articolo Il Sole 24 Ore del
19.03.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
legittimo il diniego all'installazione
di tre
impianti pubblicitari da posizionare su un terreno di
proprietà laddove “l’impianto
di cui all’istanza ricade in area, classificata nel vigente
Piano di Governo del Territorio ad ambito agricolo e, di
conseguenza, non è ammissibile autorizzazione in base alle
disposizioni di cui agli artt. 51 e 52 delle norme di
attuazione dello stesso Piano di Governo del Territorio”.
D’altronde, va detto per completezza che anche gli artt. 59
e ss. della L.r. n. 12/2005, espressamente richiamati dal
comma 12 dell’art. 51 delle citate norme di attuazione,
considerano ammissibili, negli ambiti agricoli, solo le
opere realizzate in funzione della conduzione del fondo e
destinate alle residenze dell'imprenditore agricolo e dei
dipendenti dell'azienda, nonché alle attrezzature e
infrastrutture produttive necessarie per lo svolgimento
delle attività di cui all’articolo 2135 del codice civile
quali stalle, silos, serre, magazzini, locali per la
lavorazione e la conservazione e vendita dei prodotti
agricoli.
Con ricorso depositato in data 31.05.2013 il sig. G.D’A., in qualità di rappresentante
legale della ditta Roflex, chiedeva l’annullamento dei
provvedimenti di cui in epigrafe.
Nello specifico, premetteva di avere richiesto al comune
convenuto l’autorizzazione all’installazione di tre impianti
pubblicitari da posizionare su un terreno di proprietà della
predetta Roflex e di avere ricevuto un diniego alle proprie
istanze sulla base della seguente motivazione: “l’impianto
di cui all’istanza ricade in area, classificata nel vigente
Piano di Governo del Territorio ad ambito agricolo e, di
conseguenza, non è ammissibile autorizzazione in base alle
disposizioni di cui agli artt. 51 e 52 delle norme di
attuazione dello stesso Piano di Governo del Territorio”.
Il ricorrente deduceva l’illegittimità del provvedimento
impugnato per difetto di motivazione e falsa applicazione
degli artt. 51 e 52 sopra citati. L’amministrazione si
costituiva, eccependo preliminarmente l’inammissibilità del
ricorso per carenza di interesse, e la causa passava in
decisione alla pubblica udienza del 12.02.2014.
Il ricorso è manifestamente infondato, in relazione a quanto
espressamente disposto dalle norme richiamate
dall’amministrazione a sostegno del proprio provvedimento di
diniego, norme che peraltro non sono state impugnate dal
ricorrente.
Gli artt. 51 e 52 delle NTA del Piano di Governo
del Territorio del comune di Nerviano impongono, infatti,
una destinazione principale (agricoltura) e una destinazione
integrativa (servizi pubblici), che appaiono incompatibili
con l’installazione di impianti pubblicitari e, inoltre,
consentono un’edificazione -cui può senz’altro ritenersi
assimilabile anche il tipo di attività perseguita dal
ricorrente– strettamente legato all’attività agricola, o
comunque “finalizzato alla salvaguardia e alla
valorizzazione del paesaggio agro-forestale”.
D’altronde, va detto per completezza che anche gli artt. 59
e ss. della L.r. n. 12/2005, espressamente richiamati dal
comma 12 dell’art. 51 delle citate norme di attuazione,
considerano ammissibili, negli ambiti agricoli, solo le
opere realizzate in funzione della conduzione del fondo e
destinate alle residenze dell'imprenditore agricolo e dei
dipendenti dell'azienda, nonché alle attrezzature e
infrastrutture produttive necessarie per lo svolgimento
delle attività di cui all’articolo 2135 del codice civile
quali stalle, silos, serre, magazzini, locali per la
lavorazione e la conservazione e vendita dei prodotti
agricoli.
Il provvedimento dell’amministrazione resistente è dunque
legittimo, in relazione alla normativa in esso richiamata, e
congruamente, seppur sinteticamente, motivato, trovando la
sua espressa ragion d’essere in una strutturale
incompatibilità tra attività richiesta e destinazione dei
fondi
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 28.02.2014 n. 575 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
SICUREZZA LAVORO: Sicurezza, non è responsabile il dirigente senza fondi.
Organizzazione. Assolto chi ricopre la posizione di vertice
solo formalmente.
Non è da
considerare automaticamente responsabile per la mancata
adozione di misure di sicurezza colui cui sia attribuita,
solo formalmente, la posizione di vertice della sicurezza.
Ai fini della responsabilità per quelle omissioni non va
trascurato, infatti, se alla posizione apicale corrisponda o
meno anche una effettiva disponibilità di risorse
finanziarie.
Questo il principio espresso dalla
sentenza
11.02.2014 n. 6370 della Corte di Cassazione, Sez.
III penale (tratto da www.ilsole24ore.com).
Il caso riguarda due dirigenti comunali, responsabili in
tempi diversi del settore manutenzione anche di edifici
scolastici e condannati per aver omesso di sistemare
impianti elettrici e altre parti di una scuola. Nella
sentenza di merito, in particolare, si sostiene che la
successione nella carica non esclude la responsabilità di
entrambi, che il primo dirigente, incaricato più a lungo nel
ruolo, avrebbe dovuto chiudere la scuola dato l'evidente
rischio per gli alunni, e che il secondo, pur nominato per
breve tempo, non ha adempiuto in tempo alle prescrizioni
degli ispettori. I due ricorrono per Cassazione, sostenendo,
tra l'altro, che la responsabilità riguardasse solo il
datore di lavoro del periodo in questione e che la ritardata
osservanza delle prescrizioni ispettive fosse colpa di altri
organi comunali.
Per la Cassazione, i giudici di merito non hanno tenuto
presente l'obiezione, mossa dal secondo dirigente, per cui
la qualifica di datore di lavoro per la sicurezza era
attribuita, nel periodo delle inosservanze, ad altra
persona; né hanno considerato che il primo dirigente non
aveva appreso le prescrizioni di regolarizzazione, perché
non più responsabile, al tempo dell'ispezione, del settore.
La pronuncia di merito ha poi un errore ancora più grave:
non valuta che i due dirigenti non avevano poteri di spesa
e, di conseguenza, ha trascurato se, all'attribuzione
formale di datore di lavoro, corrispondesse o no
un'effettiva disponibilità di risorse finanziarie
nell'ambito del piano economico di gestione. La Cassazione,
pertanto, annulla senza rinvio la decisione di merito perché
il fatto contestato non è ascrivibile agli imputati.
La Cassazione puntualizza così l'interpretazione della
nozione di datore di lavoro pubblico per la sicurezza
(articolo 2, comma 1, lettera b, del Dlgs 81/2008), ribadendo
che il titolare di ruolo debba essere dotato di poteri di
spesa. La pronuncia è significativa anche per le imprese,
confermando la giurisprudenza per cui il responsabile del
servizio manutenzione e quello di reparto non sono datori di
lavoro se sono privi di poteri di spesa.
Infine, su un piano
operativo e organizzativo, la sentenza induce a verificare
la struttura per la sicurezza di medie imprese, società e
Comuni, verificando che i formali datori di lavoro per la
sicurezza siano effettivamente dotati dei poteri previsti
per essi dalla legge (articolo Il Sole 24 Ore del
17.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI SERVIZI:
Contratti di appalto di servizi - Violazione
degli obblighi assunti - Inadempimento di un contratto con
la Pubblica Amministrazione - Frode nelle pubbliche
forniture - Elementi per la configurabilità - Natura -
Giurisprudenza.
Ai fini della configurabilità del delitto di frode nelle
pubbliche forniture non è sufficiente il semplice
inadempimento del contratto, richiedendo la norma
incriminatrice un "quid pluris" che va individuato
nella malafede contrattuale, ossia nella presenza di un
espediente malizioso o di un inganno, tali da far apparire
l'esecuzione del contratto conforme agli obblighi assunti
(Cass. Sez. 6, Sentenza n. 36567 del 09/05/2001; Sez. 6,
Sentenza n. 11144 del 25/02/2010; Sez. 6, Sentenza n. 5317
del 10/01/2011).
Quanto all'elemento soggettivo, esso è costituito dalla
consapevolezza di effettuare una prestazione diversa per
quantità e qualità da quella dovuta, a meno che vengano
scoperti ed allegati ulteriori elementi che attribuiscano
all'oggettivo inadempimento una valenza colposa (Cass. Sez.
6, Sentenza n. 34952 del 23/05/2003). La giurisprudenza non
è, invece, univoca nella affermare se si tratti di reato di
evento, ritenendo tale anche il mero pericolo, (Cass.
Sentenza n. 16428 del 05/12/2007) ovvero di pura condotta:
in tale secondo caso, non è ipotizzabile in relazione ad
esso una responsabilità da causalità omissiva (Cass. Sez. 6,
Sentenza n. 771 del 31/10/2006).
Inadempimento di un contratto e frode
nelle pubbliche forniture - Natura civile e penale
dell'inadempimento - Elementi per la configurabilità.
Nella accezione civilistica del termine per inadempimento
contrattuale si intende la mancata esecuzione della
prestazione da cui dipende la realizzazione del diritto del
creditore. La prestazione potrà dirsi esattamente eseguita
in quanto realizzata in conformità del contenuto
dell'obbligazione descritta nel contratto ed il diritto del
creditore sia integralmente e tempestivamente soddisfatto.
In generale, l'inadempimento può essere anche parziale,
allorquando la prestazione venga resa in modo difforme da
come dovuto e con realizzazione di una frazione più o meno
limitata dell'interesse del creditore. In tal caso occorrerà
valutare l'importanza dell'inadempimento in relazione
all'incidenza che abbia avuto sul piano della realizzazione
dello jus credendi ed andrà quindi esclusa la
rilevanza penale di quelle condotte che, quantunque
integrative di una inesatta prestazione contrattuale,
abbiano però consentito al committente una pur imperfetta,
ma sostanziale soddisfazione del bisogno cui è finalizzato
l'obbligo di fare del contratto di fornitura.
Di sicuro, poi, l'inadempimento rilevante è solo quello
privo di giustificazioni. Lo stesso deve, invece, escludersi
quando la prestazione del privato sia divenuta impossibile
per caso fortuito o forza maggiore, ovvero per altra causa
non imputabile al debitore, secondo la formula dell'ad 1256
cc. (Cass. Sentenza n. 1174 del 17/11/1998). D'altra parte,
la fattispecie penalistica, attraverso il richiamo che
l'art. 356 cp. fa al precedente articolo 355, descrive
l'inadempimento penalmente rilevante nella condotta in
conseguenza della quel vengano a mancare cose o opere che
siano necessarie ad uno stabilimento pubblico o ad un
pubblico servizio.
Il requisito della necessità delle cose od opere deve essere
inteso in senso assoluto: le cose od opere sono quelle che
in via immediata soddisfano le necessità del pubblico
servizio (Cass. Sentenza n. 9525 del 19/06/1998). Ciò fa sì
che rientri nell'alveo della fattispecie incriminatrice non
qualsiasi difficoltà operativa ma ciò che rende
inattingibile lo scopo cui Il servizio era demandato. Non
ogni inesatto adempimento o ritardo vale a concretare un
fatto lesivo, dovendosi invece determinare un rapporto di
congruità offensiva tra inadempimento ed il venir meno delle
opere necessarie per la PA.
Da un punto di vista squisitamente penalistico, v'è da
aggiungere che la giurisprudenza sul 356 cp. indica un
criterio rigoroso di valutazione dell'inadempimento: si
richiede una speciale intensità lesiva dell'interesse del
creditore.
Occorre, quindi, una valutazione sulla intensità lesiva
dell'inadempimento. Dev'esservi una intollerabilità
verificando che l'inadempimento deve tener conto anche della
natura del contratto in questione.
Clausole generali di buona fede -
Prestazione divenuta inesigibile - Artt. 1175, 1256, 1218 e
1375 c.c..
Non può dirsi sussistente un'ipotesi di inadempimento,
neppure colposo, a ragione dell'impossibilità sopravvenuta
della prestazione (artt. 1256 e 1218 c.c.) o -quanto meno-
della sua inesigibilità da parte del presunto creditore
committente alla stregua delle clausole generali di buona
fede e di doverosa collaborazione del creditore artt. 1175 e
1375 c.c.).
Infatti, gli artt., 1175 e 1375 cc. spiegano con chiarezza,
che è contraria alla correttezza la pretesa del creditore di
voler ottenere l'inadempimento anche quando la prestazione è
divenuta inesigibile (Cass. 2007 n 26958; n 21994/20121;
Cost. 19/1994).
Contratto di appalto e quello di
trasporto - Differenze.
Il discrimen tra il contratto di appalto e quello di
trasporto prevede che il primo ha per oggetto il risultato
di un facere, il quale può concretarsi nel compimento
di un'opera o di un servizio che l'appaltatore assume verso
il committente dietro corrispettivo; esso, inoltre, è
contrassegnato dall'esistenza di un'organizzazione d'impresa
presso l'appaltatore e dal carico esclusivo del rischio
economico nella persona del medesimo; invece, si ha
contratto di trasporto, quando un soggetto si obbliga nei
confronti di un altro soggetto a trasferire persone e cose
da un luogo ad un altro mediante una propria organizzazione
di mezzi e di attività personali e con l'assunzione a suo
carico del rischio esclusivo del trasporto e della direzione
tecnica dello stesso (Cassazione 17.10.1992 n. 11430; Cass.:
16.10.1979 n. 539) (TRIBUNALE di Napoli, Sez. V,
sentenza 10.02.2014 n. 16316 - link a
www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Reato di abuso d'ufficio - Elementi per
l'integrazione - C.d. "doppia ingiustizia".
Ai sensi
dell'art 323 cp, il reato di abuso d'ufficio non può
configurarsi se non "in presenza di una violazione di
norma di legge o di regolamento", (ovvero di una
omissione del dovere di astenersi ricorrendo un interesse
proprio dell'agente o di un prossimo congiunto o negli altri
casi prescritti) (requisito sub A). Ne consegue che é stata
espunta dall'area della rilevanza penale ogni ipotesi di
abuso dei poteri o di funzioni non concretantesi nella
formale violazione di norme legislative o regolamentari o
del dovere di astensione.
Inoltre, l'ingiustizia del vantaggio -che prima rientrava
tra le finalità che l'agente doveva proporsi nel momento
della condotta, in tal modo delineando una figura di reato a
dolo specifico- rappresenta, in virtù della richiamata
modifica normativa, l'evento del reato, contribuendo a
configurare l'elemento oggettivo della fattispecie astratta
(Cass. 6561/1998) (requisito sub B).
Sicché, ai fini dell'integrazione del reato di abuso
d'ufficio, é necessario che sussista la c.d. "doppia
ingiustizia", nel senso che ingiusta deve essere la
condotta, in quanto connotata da violazione di legge, ed
ingiusto deve essere l'evento di vantaggio patrimoniale, in
quanto non spettante in base al diritto oggettivo regolante
la materia (Cass. II n. 2754 del 21.01.2010).
Abuso d'ufficio - Svolgimento della
funzione amministrativa del pubblico ufficiale - Artt. 323 e
110 cp..
In tema di abuso d'ufficio, nella formulazione dell'art. 323
cp, l'uso dell'avverbio "intenzionalmente", per
qualificare il dolo ha voluto limitare il sindacato del
giudice penale a quelle condotte del pubblico ufficiale
dirette, come conseguenza immediatamente perseguita, a
procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad arrecare
un ingiusto danno.
Ne deriva che, qualora nello svolgimento della funzione
amministrativa il pubblico ufficiale si prefigga di
realizzare un interesse pubblico legittimamente affidato
all'agente dall'ordinamento (non un fine privato per quanto
lecito, non un fine collettivo, né un fine privato di un
ente pubblico e nemmeno un fine politico), pur giungendo
alla violazione di legge e realizzando un vantaggio al
privato, deve escludersi la sussistenza del reato (Cass. n.
18149 del 16.05.2005, n. 33068 del 05.08.2003, n. 42839 del
18.12.2002, n. 38498 del 18.11.2002).
Inoltre, quando, come nel caso di specie, é ipotizzato il
concorso del privato, é necessaria la dimostrazione certa
della collusione tra il pubblico ufficiale e il richiedente
l'atto illegittimo, la quale deve risultare dal contesto
fattuale che dimostri che la richiesta -coincidente col
provvedimento adottato- é stata preceduta, accompagnata o
seguita da un'intesa con il pubblico funzionario o,
comunque, da sollecitazioni poste in essere dal privato per
l'ottenimento del provvedimento favorevole (Cass. VI
11.10.2007 n. 37531, Cass. 21/10/2004 n. 43205, Cutino;
14/10/2003 n 43020). Inoltre, può concorrere nel reato
proprio di abuso d'ufficio, ex art. 110 cp, anche la persona
che non abbia la qualità soggettiva pubblica, quando conosca
la qualità dell'"intraneo" e pone in essere una
condotta che contribuisca alla realizzazione dell'evento
(Cass. sez. VI, 11.02.1999).
Ma perché possa configurarsi un contributo efficiente,
idoneo a fondare la responsabilità concorsuale, occorre che
il privato abbia posto in essere una condotta tale da avere
svolto un ruolo causalmente rilevante nella realizzazione
della fattispecie criminosa (Cass. VI pen. 29/05/2000).
Pertanto, quando, come nel caso di specie, é ipotizzato il
concorso del privato, é necessaria la dimostrazione della
collusione tra il pubblico ufficiale e il richiedente l'atto
illegittimo. La prova che un atto amministrativo sia il
risultato di collusione tra privato e pubblico funzionario,
non può essere dedotta di per sé sola dalla mera coincidenza
tra la richiesta del primo ed il provvedimento posto in
essere dal secondo, essendo invece necessario che il
contesto fattuale sia desunto, al di là dei rapporti
personali tra le parti, da un quid pluris il quale
dimostri che la presentazione della domanda è stata
preceduta, accompagnata o seguita da un'intesa col pubblico
funzionario o, comunque, da sollecitazioni poste in essere
dal privato per l'ottenimento del provvedimento favorevole
(Cass. 21/10/2004 n. 43205, Cutino; 14/10/2003 n 43020)
(TRIBUNALE di Napoli, Sez. V,
sentenza 10.02.2014 n. 16316 - link a
www.ambientediritto.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Spese compensate in casi limite.
La Cassazione: decisione da motivare in dettaglio.
La condanna al pagamento delle spese processuali di chi
soccombe nel giudizio tributario è una forma di tutela della
parte vittoriosa, che ha fatto valere in sede giudiziale le
proprie ragioni e ha tutto l'interesse a recuperare, in
tutto o in parte, i costi sostenuti. La compensazione delle
spese deve essere limitata a casi eccezionali ed esige
un'adeguata motivazione. Quindi, il giudice tributario non
può limitarsi nella sentenza a compensare in tutto o in
parte le spese per giusti motivi. Si tratta di una formula
criptica che viola il diritto di difesa perché non consente
alle parti di esaminare le ragioni poste a base della
decisione.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con
l'ordinanza 14.01.2014 n. 766.
Secondo la Cassazione, la compensazione delle spese
giudiziali per giusti motivi è una formula «del tutto
criptica e non consente il controllo sulla motivazione e
sulla congruità delle ragioni poste dal giudice a fondamento
della sua decisione». In effetti l'obbligo di motivare la
sentenza, che già era richiesto in passato, a maggior
ragione è imposto dopo la riforma del processo civile (legge
69/2009). Il giudice è tenuto a porre a carico della parte
soccombente l'onere di pagare le spese processuali, salvo
casi eccezionali che devono essere motivati. Del resto la
nuova disposizione, che si applica al processo tributario, è
stata introdotta anche per deflazionare il contenzioso.
Secondo la commissione tributaria regionale di Catanzaro
(sentenza 495/2009), la condanna alle spese di giudizio
costituisce l'ipotesi ordinaria, legata al fatto stesso
della soccombenza, a maggior ragione dopo la modifica
dell'articolo 92 del codice di procedura civile che ammette
la compensazione delle spese solo per ragioni o eventi
eccezionali. Anche la commissione tributaria regionale di
Roma (sentenza 488/2012) ha sostenuto che commette una
violazione di legge il giudice che compensa le spese
giudiziali senza motivare le ragioni poste a base della
decisione.
Vero è che la soccombenza in giudizio del contribuente o del
fisco non comporta l'automatica condanna a pagare le spese
processuali. Infatti, come posto in rilievo dalla
commissione tributaria regionale di Milano, sezione XXX, con
la sentenza n. 103 del 02.07.2013, la novità delle
questioni trattate, la loro complessità o le contrastanti
prese di posizione della giurisprudenza su determinate
materie possono spingere una delle parti a proporre azione
giudiziale e, in caso di esito negativo, il giudice può
decidere di non addebitare i costi del processo.
Dunque,
secondo la Ctr di Milano, se le questioni che formano
oggetto di contenzioso innanzi al giudice tributario sono
dubbie, le spese processuali possono essere compensate tra
le parti «in dovuta considerazione della controversialità
delle questioni proposte». In questi casi non va sanzionato
il comportamento di chi ha dato luogo al processo, non
essendo pacifica la soluzione che il giudice può dare alla
questione sottoposta al suo esame. Vanno addebitate le
spese, invece, quando il processo può essere evitato usando
l'ordinaria diligenza.
Anche all'amministrazione pubblica che adotti un
provvedimento di autotutela, in presenza di un vizio
dell'atto impositivo o di un errore, devono essere
addebitati i costi sostenuti dal contribuente. Del resto, la
Cassazione (sentenza 14563/2008) ha affermato che qualora
l'azione giudiziaria intrapresa dal contribuente risulti
totalmente fondata, la sua difesa sarebbe compromessa se
fosse tenuto a pagare le spese di giustizia (legali e
fiscali).
Soccombenza e spese giudiziali. Prima delle riforma del
processo tributario del 1992 era esclusa l'applicazione
degli articoli da 90 a 97 del codice di procedura civile.
Questa regola faceva venire meno il principio della
responsabilità delle parti per le spese e i danni
processuali. Nella disciplina attuale, invece, la parte
soccombente è condannata a rimborsare le spese del giudizio
che sono liquidate con la sentenza. E il giudice tributario,
in seguito alla riforma del processo civile, non ha più il
potere di compensare le spese per motivi di opportunità, ma
solo per ragioni o eventi eccezionali.
Cosa vuol dire soccombenza? La Cassazione ha affermato che
per soccombenza in senso oggettivo deve intendersi la
difformità tra la domanda della parte e la pronuncia;
invece, per soccombenza in senso causale si intende la
difformità tra la pronuncia e la pretesa della sola parte
che abbia reso necessario il processo, altrimenti evitabile.
In quest'ultimo caso è necessario che la parte venga
sanzionata.
Non c'è dubbio che la possibilità di conseguire la
ripetizione delle spese processuali dà alla parte vittoriosa
maggiori garanzie per la difesa della propria posizione
processuale. Soprattutto dopo che è stato introdotto
l'obbligo della difesa tecnica. I contribuenti devono
rivolgersi a un professionista abilitato (avvocato, dottore
commercialista, ragioniere e così via) se la controversia è
di valore non modesto. È evidente che se l'interessato si
rivolge a un professionista lievitano i costi del processo.
E non va dimenticato che dal 2011, per adire la commissione
tributaria, si paga anche il contributo unificato. Il
ricorso deve essere sottoscritto dal difensore del
ricorrente, fatte salve le ipotesi in cui il contribuente
può difendersi personalmente. Ciò è consentito, però, solo
se il valore della causa sia inferiore a 2.582,28 euro. Va
precisato che per valore della lite si intende l'importo del
tributo al netto degli interessi e delle sanzioni irrogate
con l'atto impugnato. Se vengono contestate le sanzioni, il
valore è costituito dalla somma di queste
(articolo ItaliaOggi Sette del
17.03.2014). |
URBANISTICA:
PGT: l'approvazione di un documento unitario contenente le
norme tecniche non implica di per sé l’illegittimità
dell’intero PGT.
Il TAR Lombardia-Milano, si pronuncia in punto formalità
degli atti costituenti il Piano di Governo del Territorio,
affermando che la scelta di riunire le norme tecniche in un
documento unitario non viola il disposto dell'art. 7 della
L.R. 12 del 2005.
Nel ricorso avverso il PGT del Comune di Bulciago (Lc), si
censurava la circostanza di avere il PGT riunite in un unico
atto le norme tecniche di attuazione comuni ai tre atti nei
quali, secondo l’art. 7 della LR 12/2005, si articola il PGT
stesso, vale a dire il documento di piano, il piano dei
servizi ed il piano delle regole. L’unità delle norme di
attuazione, secondo il ricorrente, "finirebbe per
snaturare il contenuto e le funzioni che ciascuno dei tre
atti costituenti il PGT deve assolvere, ai sensi di legge".
Afferma il TAR che -al di là del fatto che nel caso di
specie pur all'interno del medesimo documento le norme sono
state distinte in relazione al contenuto ed agli scopi dei
tre atti nei quali si articola il documento di piano- "la
semplice approvazione di un documento unitario contenente le
norme tecniche non implica di per sé l’illegittimità
dell’intero PGT, dovendosi invece valutare in concreto le
singole norme, per accertare se il contenuto delle medesime
si ponga in contrasto con le superiori previsioni della
legge regionale".
La sentenza conferma poi che l'individuazione nel Documento
di Piano degli “Ambiti di trasformazione”,
all’interno dei quali gli interventi avvengono mediante i
Piani attuativi comunali non equivale a inserire previsioni
avente efficacia diretta sul regime dei suoli, essendo
queste affidate ai piani citati (commento tratto da e link a
http://studiospallino.blogspot.it -
TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 24.01.2014 n. 280 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il provvedimento di demolizione, in quanto atto
vincolato -al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia- non richiede una specifica motivazione,
posto che, ai fini dell’accertamento della sua legittimità,
sono indifferenti le ragioni in virtù delle quali
l’amministrazione è giunta alle determinazioni finali, in
quanto ciò che rileva e che può essere verificato senza
preclusioni è se tali determinazioni, in presenza dei
necessari presupposti, siano conformi o meno alle norme
applicate; né una valutazione delle ragioni di interesse
pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati.
---------------
La disciplina di settore (id est art. 27 del d.p.r.
380/2001) sanziona con la demolizione la realizzazione senza
titolo di nuove opere in zone vincolate e siffatta misura
resta applicabile sia che venga accertato l’inizio che
l’avvenuta esecuzione di interventi abusivi, come si evince
dall’inequivoco tenore letterale della disposizione,
specificamente modificata sul punto dall’art. 32 d.l. n. 269
del 2003, ove si fa riferimento alle ipotesi di “inizio o...
esecuzione di opere eseguite”, e non vede la sua efficacia
limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta.
---------------
Il provvedimento di demolizione, in quanto atto vincolato
-al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia
edilizia- non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati.
Infatti, "…presupposto per l'adozione dell'ordine di
demolizione di opere abusive è soltanto la constatata
esecuzione di un intervento edilizio in assenza del
prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che,
essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente
motivato con l’accertamento dell'abuso, e non necessita di
una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico
alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato,
e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi”.
---------------
In presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa
urbanistica non pone alcun obbligo in capo all’autorità
comunale, prima di emanare l’ordinanza di demolizione, di
verificare la sanabilità ai sensi dell’art. 36, d.P.R. n.
380 del 2001.
Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n.
380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del
competente ufficio comunale a reprimere l’abuso, senza
alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art.
36, d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette all’esclusiva
iniziativa della parte interessata l’attivazione del
procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi
disciplinato.
2. Con un secondo ordine di censure la
ricorrente si duole della carenza di motivazione e di
istruttoria del provvedimento sanzionatorio impugnato.
La censura di difetto di motivazione non può essere accolta,
atteso che il provvedimento di demolizione, in quanto atto
vincolato -al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia- non richiede una specifica motivazione,
posto che, ai fini dell’accertamento della sua legittimità,
sono indifferenti le ragioni in virtù delle quali
l’amministrazione è giunta alle determinazioni finali, in
quanto ciò che rileva e che può essere verificato senza
preclusioni è se tali determinazioni, in presenza dei
necessari presupposti, siano conformi o meno alle norme
applicate; né una valutazione delle ragioni di interesse
pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati (tra le molte,
Cons. Stato, sez. II, 07.11.2007; TAR Campania
Napoli, sez. VIII, 29.01.2009, n. 501).
3. Deve, inoltre, essere respinta la censura con la quale
viene fatta valere la violazione e falsa applicazione
dell’art. 27 d.P.R. 380/2001 in quanto l’amministrazione
avrebbe dovuto applicare l’art. 31 d.P.R. 380/2001, in
relazione alla circostanza che le opere abusive realizzate,
al momento dell’accertamento da parte di verbalizzanti,
erano già complete in tutti i loro elementi essenziali e in
tutte le loro parti.
Invero, la disciplina di settore (id est art. 27 del d.p.r.
380/2001) sanziona con la demolizione la realizzazione senza
titolo di nuove opere in zone vincolate e siffatta misura
resta applicabile sia che venga accertato l’inizio che
l’avvenuta esecuzione di interventi abusivi, come si evince
dall’inequivoco tenore letterale della disposizione,
specificamente modificata sul punto dall’art. 32 d.l. n. 269
del 2003, ove si fa riferimento alle ipotesi di “inizio o...
esecuzione di opere eseguite”, e non vede la sua efficacia
limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta (TAR
Campania, questa sesta sezione, sentenze n. 3372 del 23.06.2011, n. 2076 del 21.04.2010 e n. 1775 del
07.04.2010 e sezione terza, 11.03.2009, n. 1376).
Deve, inoltre, essere respinto anche il profilo della
doglianza con la quale la ricorrente sostiene la
realizzabilità degli interventi a mezzo di semplice denuncia
di inizio attività e la conseguente illegittimità della
sanzione ripristinatoria ingiunta, tanto più che non risulta
allegata e neppure provata la conformità degli interventi
agli strumenti urbanistici vigenti, ai regolamenti edilizi e
alla disciplina urbanistico-edilizia vigente, come richiesto
dall’art. 22 d.P.R. 380/2001 per la riconducibilità
dell’opera alla sfera di operatività della denuncia di
inizio attività.
4. Né può essere accolta la censura di difetto di
motivazione e di assenza di valutazione dell’interesse
pubblico, articolata con il quarto motivo di doglianza,
atteso che il difetto in questione non solo non è
ravvisabile dalla piana lettura dell’atto all’esame, ma il
provvedimento di demolizione, in quanto atto vincolato -al
pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia
edilizia- non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati (tra le molte TAR Lombardia, Milano, sez. IV,
19.04.2013, n. 992, TAR Campania, Napoli, sez. VII,
10.04.2013, n. 1906, sez. IV, 08.04.2013, n. 1821 e
sez. VIII, 29.01.2009, n. 501).
Infatti, come
costantemente affermato dalla giurisprudenza di questo
Tribunale, condivisa da questo Collegio: “…presupposto per
l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è
soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio
in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la
conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è
sufficientemente motivato con l’accertamento dell'abuso, e
non necessita di una particolare motivazione in ordine
all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che
è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto
urbanistico violato, e alla possibilità di adottare
provvedimenti alternativi” (fra molte, TAR Campania
Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n. 1999).
5. Deve essere respinto anche l’ultimo mezzo di ricorso, con
il quale la ricorrente sostiene che l’amministrazione
avrebbe violato l’art. 36 d.P.R. 380/2001, giacché, prima di
ingiungere la demolizione, avrebbe dovuto valutare la
sanabilità dell’opera.
Come costantemente affermato dalla giurisprudenza “…in
presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa
urbanistica non pone alcun obbligo in capo all’autorità
comunale, prima di emanare l’ordinanza di demolizione, di
verificare la sanabilità ai sensi dell’art. 36, d.P.R. n.
380 del 2001. Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e
31, d.P.R. n. 380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il
responsabile del competente ufficio comunale a reprimere
l’abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché
dallo stesso art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette
all’esclusiva iniziativa della parte interessata
l’attivazione del procedimento di accertamento di conformità
urbanistica ivi disciplinato” (TAR Campania, Napoli, sez. IV,
06.07.2007 n. 6552)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 09.01.2014 n. 123 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ordine ripristinatorio, come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto
vincolato che non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati, né una motivazione
sulla sussistenza di un interesse concreto ed attuale alla
demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può
legittimare, salvo peculiari situazioni legate alla
comprovata realizzazione delle opere da lungo tempo.
Quanto alla carenza di motivazione, ci si
richiama al consolidato orientamento giurisprudenziale
secondo il quale “l'ordine ripristinatorio, come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto
vincolato che non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati, né una motivazione
sulla sussistenza di un interesse concreto ed attuale alla
demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può
legittimare, salvo peculiari situazioni legate alla
comprovata realizzazione delle opere da lungo tempo” (cos’,
da ultimo, TAR Lombardia, Milano, 19.04.2013, n. 992,
nello stesso senso ex multis, TAR Campania Napoli, sez. VII, 10.04.2013, n. 1906, sez. IV, 08.04.2013, n.
1821, sez. III, 02.03.2010 , n. 1235)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 09.01.2014 n. 112 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A seguito dell'entrata in
vigore della l. 28.01.1977 n. 10, che ha previsto la
vincolante obbligatorietà degli ordini di demolizione degli
edifici abusivi, non è più necessaria l'acquisizione del
parere della Commissione Edilizia Comunale ai sensi
dell'art. 32, comma 3, l. 17.08.1942 n. 1150.
---------------
In presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa
urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità
comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di
verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n.
380 del 2001.
Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n.
380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del
competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza
alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art.
36, d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette all'esclusiva
iniziativa della parte interessata l'attivazione del
procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi
disciplinato.
---------------
Il provvedimento di demolizione, in quanto atto vincolato
-al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia
edilizia- non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati.
Dalla vincolatezza del provvedimento demolitorio di un abuso
edilizio, infine, discende l'inapplicabilità delle garanzie
partecipative e in particolare dell'invio della
comunicazione di avvio del procedimento, la cui omissione è
stata censurata con il quarto ed ultimo motivo di doglianza.
Va in primo luogo respinto il primo
motivo di doglianza, con il quale i ricorrenti hanno
sostenuto l’illegittimità del provvedimento gravato in
quanto assunto senza aver prima acquisito il parere della
sezione urbanistica regionale o degli enti a questa
succeduti.
Deve, per contro, osservarsi come a seguito dell'entrata in
vigore della l. 28.01.1977 n. 10, che ha previsto la
vincolante obbligatorietà degli ordini di demolizione degli
edifici abusivi, non è più necessaria l'acquisizione del
parere della Commissione Edilizia Comunale ai sensi
dell'art. 32, comma 3, l. 17.08.1942 n. 1150 (cfr., da
ultimo, TAR Campania, Napoli, sez. VI, 06.06.2013 n.
2980).
Né può condividersi la censura articolata con il secondo
motivo di doglianza, con il quale la ricorrente ha sostenuto
l’illegittimità del provvedimento gravato per non avere il
comune valutato la sanabilità dell’opera ai sensi dell’art.
36 del d.P.R. 380/2001, prima di ordinarne la demolizione.
Come costantemente affermato in giurisprudenza, “… in
presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa
urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità
comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di
verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n.
380 del 2001. Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e
31, d.P.R. n. 380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il
responsabile del competente ufficio comunale a reprimere
l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché
dallo stesso art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette
all'esclusiva iniziativa della parte interessata
l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità
urbanistica ivi disciplinato” (cfr. TAR Campania Napoli,
sez. VI, 21.11.2013, n. 5226, sez. IV, 06.07.2007, n. 6552).
Né può essere accolta la censura di difetto di motivazione,
articolata con il terzo motivo di doglianza, atteso che il
provvedimento di demolizione, in quanto atto vincolato -al
pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia
edilizia- non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati (ex multis TAR Campania Napoli, sez. VIII, 29.01.2009, n. 501).
Dalla vincolatezza del provvedimento demolitorio di un abuso
edilizio, infine, discende l'inapplicabilità delle garanzie
partecipative e in particolare dell'invio della
comunicazione di avvio del procedimento, la cui omissione è
stata censurata con il quarto ed ultimo motivo di doglianza
(cfr., da ultimo TAR Campania, Napoli, sez. VII ,
14/10/2013, n. 4587)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 09.01.2014 n. 111 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione della domanda di condono
edilizio, successivamente alla impugnazione dell'ordinanza
di demolizione, produce l'effetto di rendere improcedibile,
per sopravvenuta carenza di interesse, l'impugnazione
stessa.
Ed invero, il riesame dell’abusività dell'opera al fine di
verificarne la eventuale sanabilità -provocato dall'istanza
degli interessati- comporta la necessaria formazione di un
nuovo provvedimento, esplicito (di accoglimento o di
rigetto), che vale, comunque, a superare il provvedimento
tacito di diniego oggetto del presente ricorso.
Posto che, in data 10.12.2004, è stata
presentata, con riguardo alle opere realizzate abusivamente
di cui all’impugnato provvedimento sanzionatorio, domanda di
condono ai sensi della legge n. 326/2003, osserva il
Collegio che la giurisprudenza amministrativa ha già avuto
modo di rilevare come la presentazione di tali domande,
successivamente alla impugnazione dell'ordinanza di
demolizione, produca l'effetto di rendere improcedibile, per
sopravvenuta carenza di interesse, l'impugnazione stessa
(cfr. ex multis, TAR Campania, Sez. VI, TAR Napoli
Campania sez. VI, 06.02.2013, n. 757, 05.12.2012, n. 4924, 11.07.2007, n. 7129 sez. I, 18.05.2006 n. 4743).
Ed invero, il riesame dell’abusività dell'opera al fine di
verificarne la eventuale sanabilità -provocato dall'istanza
degli interessati- comporta la necessaria formazione di un
nuovo provvedimento, esplicito (di accoglimento o di
rigetto), che vale, comunque, a superare il provvedimento
tacito di diniego oggetto del presente ricorso
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 09.01.2014 n. 107 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
«Scegliere» la lite porta alla condanna.
Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Cause inutili.
Se l'avvocato
deve diventare sempre più un gestore del conflitto, anche
alla luce del riconoscimento d'ufficio del ruolo di
mediatore, allora la strada del contenzioso davanti al
giudice non può più essere considerata l'unica. Altrimenti
il rischio concreto è quello di essere condannati a una
somma aggiuntiva.
È quello che è successo, stando almeno a quanto si legge
nell'ordinanza 24.12.2013 del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere.
Il caso portato davanti
all'autorità giudiziaria è vecchio come il condominio: un
problema di infiltrazioni da un appartamento a un altro.
Peccato che una delle parti, invece di affrontare la
questione attraverso un semplice accertamento tecnico (che
nella valutazione del giudice avrebbe probabilmente
contribuito a risolvere il contenzioso), come sollecitata
dalla controparte, abbia scelto di andare in giudizio.
Una decisione che non è stata apprezzata dal giudice che,
oltre a respingere nel merito le su tesi sull'attribuzione
di responsabilità, ha anche proceduto a una sanzione
aggiuntiva di 1.200 sulla base dell'applicazione
dell'articolo 96, comma 3, del Codice di procedura civile,
che contribuisce a colpire le liti temerarie.
Il giudice ha corroborato la sua valutazione sostenendo che
la condotta della parte è stata ispirata a un'ottica
conflittuale che ormai è lontana dalla stessa prospettiva
del legislatore che, anche con il decreto “del fare”
dell'estate scorsa ha reintrodotto la mediazione
obbligatoria attribuendo al difensore «un ruolo centrale,
prima ancora che nel giudizio, nell'attività di mediazione
delle controversie».
Sino a spingersi, sottolinea ancora la pronuncia, ad
assegnare agli avvocati, dopo le modifiche introdotte in
sede di conversione, il ruolo di conciliatori di diritto
assistendo obbligatoriamente la parte durante tutto il
procedimento di mediazione delle controversie, «prospettiva
che tende sempre di più ad individuare nel ricorso al
tribunale l'extrema ratio per la soluzione della quasi
totalità delle controversie civili» (articolo Il Sole 24 Ore del
20.03.2014). |
AGGIORNAMENTO AL 22.03.2014 |
ã |
SINDACATI & ARAN |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
D.L. 101/2014: la disciplina della
stabilizzazione di LSU-LPU
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 17.03.2014). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Foglio
excel per la gestione delle risorse decentrate del fondo per
la contrattazione integrativa del comparto Regioni ed
Autonomie locali
(28.02.2014 - link a Www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
GUIDA OPERATIVA - Personale dei comparti: Modalità di
calcolo del monte ore dei permessi sindacali di spettanza
delle organizzazioni sindacali rappresentative e della RSU
nei luogo di lavoro (ARAN, novembre 2013). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
I permessi brevi (art. 20 del CCNL del 06.07.1995 del
personale del comparto Regioni e Autonomie locali)
(ARAN, luglio 2013). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
I permessi retribuiti (art. 19 del CCNL del 06.07.1995) -
Comparto Regioni e Autonomie locali (ARAN, luglio
2013). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
L’aspettativa per motivi personali (artt. 11 e 14 del CCNL
del 14.09.2000 del personale del comparto Regioni e
autonomie locali) (ARAN, marzo 2013). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
La procedura della contrattazione decentrata integrativa -
Comparto Regioni e Autonomie locali (ARAN, marzo 2013). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
APPALTI - EDILIZIA
PRIVATA: G.U.
20.03.2014 n. 66 "Disposizioni urgenti per favorire il
rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli
adempimenti a carico delle imprese" (D.L.
20.03.2014 n. 34).
---------------
Di interesse si legga:
►
Art. 4. - Semplificazioni in materia di documento di
regolarità contributiva |
PATRIMONIO:
G.U. 18.03.2014 n. 64 "Definizione di poteri derogatori
ai sindaci e ai presidenti delle province interessati che
operano in qualità di commissari governativi per
l’attuazione delle misure urgenti in materia di
riqualificazione e di messa in sicurezza delle istituzioni
scolastiche statali" (D.P.C.M.
22.01.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 11 del 14.03.2014, "Trasmissione
informatizzata della notifica e del piano per i lavori di
bonifica dei manufatti contenenti amianto (artt. 250 e 256
d.lgs. 81/2008) e delle relazioni annuali (art. 9 l.
257/1992)"
(decreto
D.G. 04.03.2014 n. 1785). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA
PRIVATA:
A. Mancini,
L’attestato di prestazione energetica negli interventi
edilizi, nei trasferimenti e nelle locazioni immobiliari
(Bollettino di
Legislazione Tecnica n. 3/2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
P. de Paolis,
Le distanze legali tra pareti finestrate con particolare
riguardo al computo di balconi e sporgenze (Bollettino
di Legislazione Tecnica n. 3/2014). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
A. Sagna,
SULL'AMMISSIBILITA' DEL RIMBORSO DELLE SPESE LEGALI
SOSTENUTE DAGLI AMMINISTRATORI DI ENTI PUBBLICI NEI
PROCEDIMENTI PENALI DEFINITI CON FORMULA ASSOLUTORIA (luglio
2001 - link a www.diritto.it).). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Oggetto: Nuove disposizioni in materia di limiti alle
retribuzioni e ai trattamenti pensionistici - Articolo 1,
commi 471 ss., della legge 27.12.2013, n. 147 (legge di
stabilità per il 2014) (circolare
18.03.2014 n. 3/2014). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: Attività di bonifica amianto: invio di notifiche
e piani tramite applicativo Ge.M.A. (ANCE Bergamo,
circolare 21.03.2014 n. 69). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Modalità operative in materia di paesaggio da
utilizzarsi nella progettazione di impianti idroelettrici
(MIBACT Veneto,
circolare 18.03.2014 n. 18/2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: VALDOBBIADENE (Treviso) - Area tutelata ai sensi
della Parte III del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, con decreto
del Ministero dei beni e delle attività culturali
30.09.2010, recante "Dichiarazione di notevole interesse
pubblico dell'area prealpina e collinare dell'alta Marca
Trevigiana, compresa tra i comuni di Valdobbiadene e
Segusino"- Quesito (MIBACT Veneto,
nota 11.03.2014 n. 4339 di prot.).
...
Con nota prot. 4652 del 14.02.2014, codesto Comune si è
interrogato (i) sulla necessità dell'autorizzazione
paesaggistica di cui all'art. 146 del d.lgs. 42/2004 per
interventi di allaccio alle infrastrutture a rete e (ii)
sulla portata della prescrizione di cui alla lettera m) del
decreto ministeriale in oggetto, relativa al divieto di
installazione di cartelli pubblicitari. (... continua). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
RIMBORSABILITÀ SPESE LEGALI EX AMMINISTRATORE.
Sono rimborsabili -a un ex
amministratore e a un dipendente comunale- le spese legali
sostenute dagli stessi per un procedimento penale a loro
carico per il reato di cui all’articolo 323 del codice
penale (abuso d’ufficio) conclusosi con decreto di
archiviazione del Gip, procedimento avviato a seguito
dell’invio degli atti alla Procura della Repubblica da parte
dello stesso Comune?
NO
In merito a quanto prospettato nel quesito,
non esiste una disposizione che obblighi il Comune a
tenere indenni gli amministratori delle spese processuali
sostenute in giudizi penali concernenti imputazioni
oggettivamente connesse all’espletamento dell’incarico,
espressamente prevista, invece, per i dipendenti comunali.
In via generale occorre sottolineare che la disposizione di
cui all’articolo 28 del Ccnl dei dipendenti degli Enti
locali del 14.09.2000 è stata considerata dalla
giurisprudenza «applicabile in via retroattiva ed anche
in via estensiva agli amministratori e non solo ai
dipendenti pubblici, ma si è ritenuta limitata ai
procedimenti giurisdizionali, senza che ciò escluda tuttavia
la rimborsabilità delle spese sopportate in sede di indagine
penale, potendosi fare ricorso all’azione di ingiustificato
arricchimento» (si veda Consiglio di Stato, sezione VI,
sentenza n. 5367/2004).
Tale estensione è stata giustificata «in considerazione
del loro status di pubblici funzionari».
In forza di tale norma, «... hanno titolo al rimborso
delle spese legali il dipendente e quindi l’amministratore
locale, sottoposti a giudizio penale per fatti o atti
direttamente connessi all’espletamento del servizio e
all’adempimento dei compiti d’ufficio, sempreché il giudizio
non si sia concluso con una sentenza di condanna e non vi
sia conflitto di interessi con l’amministrazione di
appartenenza…» (si veda Consiglio di Stato, sezione V,
sentenza n. 3946/2001).
Altra parte della giurisprudenza (si veda Consiglio di
Stato, sezione V, sentenza n. 2242/2000), non condividendo
il suddetto indirizzo, ha applicato l’analogia iuris
tramite il richiamo all’articolo 1720, comma 2, codice
civile, in base al quale «… il mandante deve inoltre
risarcire i danni che il mandatario ha subito a causa
dell’incarico».
Nella medesima decisione, il Consiglio di Stato ha comunque
evidenziato la sostanziale eccezionalità del rimborso delle
spese legali e ha ribadito, con richiamo alla giurisprudenza
ordinaria che, ai fini del rimborso, è necessario accertare
che le spese siano state sostenute a causa e non
semplicemente in occasione dell’incarico e sempre entro il
limite costituito dal positivo e definitivo accertamento
della mancanza di responsabilità penale degli amministratori
che hanno sostenuto le spese legali.
Il giudice ordinario ha, peraltro, chiarito ulteriormente
tale concetto precisando che il rimborso previsto dalla
citata norma del codice civile «concerne solo le spese
sostenute dal mandatario in stretta dipendenza
dall’adempimento dei propri obblighi. Più esattamente, esso
si riferisce alle sole spese effettuate per espletamento di
attività che il mandante ha il potere di esigere.
Perciò, il Legislatore del 1942 ha sostituito l’espressione
“a causa” all’espressione “in occasione dell’incarico”,
contenuta nell’articolo 1754 codice civile 1865. In tal
modo, si è precisato, il Legislatore si è riferito a spese
che, per la loro natura, si collegano necessariamente
all’esecuzione dell’incarico conferito, nel senso che
rappresentino il rischio inerente all’esecuzione
dell’incarico. L’ipotesi, si è chiarito, non si verifica
quando l’attività di esecuzione dell’incarico abbia in
qualsiasi modo dato luogo a un’azione penale contro il
mandatario, e questi abbia dovuto effettuare spese di difesa
delle quali intenda chiedere il rimborso ex articolo 1720
citato. Ciò è evidente nel caso in cui l’azione si riveli, a
esito del procedimento penale, fondata, e il mandatario-reo
venga condannato, giacché la commissione di un reato non può
rientrare nei limiti di un mandato validamente conferito
(articoli 1343 e 1418 codice civile). Ma il verificarsi
dell’ipotesi non è possibile neppure quando il
mandatario-imputato venga prosciolto, giacché in tal caso la
necessità di effettuare le spese di difesa non si pone in
nesso di causalità diretta con l’esecuzione del mandato, ma
tra l’uno e l’altro fatto si pone un elemento intermedio,
dovuto all’attività di una terza persona, pubblica o
privata, e dato dall’accusa poi rivelatasi infondata.
Anche in questa eventualità non è dunque ravvisabile il
nesso di causalità necessaria tra l’adempimento del mandato
e la perdita pecuniaria, di cui perciò il mandatario non può
pretendere il rimborso». (si veda Corte suprema di
cassazione, sezione I civile, sentenza del 20.12.2007,
depositata il 16.04.2008, n. 10052).
Alla luce degli orientamenti giurisprudenziali della
Cassazione e del Consiglio di Stato, le
spese legali possono essere rimborsate solo qualora vi sia
una sentenza definitiva che abbia escluso la responsabilità
del dipendente o dell’amministratore con una pronuncia di
assoluzione nel merito dalle imputazioni contestate.
Tale pronuncia, va da sé, esclude un eventuale conflitto di
interesse con l’Ente locale.
A ciò si aggiunge che, ai fini del rimborso, occorre
ravvisare il nesso di causalità necessaria tra l’adempimento
del mandato e la perdita pecuniaria.
Occorre evidenziare, però, come non sia
sufficiente che il processo penale per fatti connessi
all’espletamento di compiti d’ufficio si sia concluso con
l’assoluzione, ma debba coesistere l’ulteriore condizione
della mancanza di conflitto di interessi con l’ente
(si veda Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale
della Liguria, sentenza n. 580 del 13.10.2008)
condizione che, nel caso in questione, sembra possa
escludersi, considerato che il procedimento penale è stato
avviato a seguito dell’invio degli atti alla Procura della
Repubblica da parte dell’amministrazione di appartenenza.
È ormai opinione dominante nell’ambito della giurisprudenza
contabile che per non configurare conflitto
di interessi occorra una sentenza emessa con la formula più
ampia possibile, tale da far ritenere il comportamento degli
amministratori e/o dipendenti improntata al rispetto del
principio cardine dell’articolo 97 Costituzione.
In questo scenario, nel caso in esame non è
possibile rimborsare le spese legali sia all’ex
amministratore che al dipendente comunale in quanto, seppur
per i medesimi risulti il decreto di archiviazione, la
necessità di effettuare le spese di difesa non si pone in
nesso di causalità diretta con l’esecuzione del mandato.
A ciò si aggiunga che non risulta vi sia
stato, nel caso in esame, il coinvolgimento iniziale
dell’ente nella scelta del difensore, che deve essere scelto
preventivamente e concordemente tra le parti
(si veda sentenza del Consiglio di Stato, sezione V, n.
552/2007) (Guida agli Enti Locali n. 3-4/2012). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA
PRIVATA:
La tamponatura con materiale vario di una
precedente tettoia con correlato aumento di volumetria deve
essere qualificata, ai sensi del t.u. dell’edilizia, come
ristrutturazione edilizia in quanto comporta, in conseguenza
dell’aumento di volumetria correlata, la realizzazione di un
organismo diverso dal precedente per struttura e
destinazione; e tale intervento, che non può considerarsi
quale attività libera, doveva perciò essere autorizzato con
un titolo edilizio che l’interessato non ha mai richiesto.
La nozione di costruzione, ai fini della necessità del
rilascio di un adeguato titolo edilizio, si configura,
invero, in presenza di opere che attuino una trasformazione
urbanistico-edilizia del territorio, con perdurante modifica
dello stato dei luoghi, a prescindere dal fatto che essa
avvenga mediante realizzazione di opere murarie.
Relativamente a quanto costruito al primo piano, sopra
descritto alla lettera a), ha dedotto che tale manufatto era
stato oggetto di due istanze di condono presentate nel 1986
e nel 1994, per cui il Comune non avrebbe potuto ordinarne
la demolizione.
Sul punto va, però, osservato che dagli atti versati in
giudizio dallo stesso ricorrente emerge che con le predette
istanze di condono si era inteso sanare la costruzione di
una tettoia sita al primo piano, mentre con l’atto impugnato
è stato contestato il fatto che tale tettoia era stata
tamponata e suddivisa in più ambienti con pannellature di
materiale ligneo e materiali di recupero.
Tale ulteriore attività costruttiva non può non essere
ritenuta abusiva. Infatti, la tamponatura con materiale
vario di una precedente tettoia con correlato aumento di
volumetria deve essere qualificata, ai sensi del t.u.
dell’edilizia, come ristrutturazione edilizia in quanto
comporta, in conseguenza dell’aumento di volumetria
correlata, la realizzazione di un organismo diverso dal
precedente per struttura e destinazione; e tale intervento,
che non può considerarsi quale attività libera, doveva
perciò essere autorizzato con un titolo edilizio che
l’interessato non ha mai richiesto. La nozione di
costruzione, ai fini della necessità del rilascio di un
adeguato titolo edilizio, si configura, invero, in presenza
di opere che attuino una trasformazione urbanistico-edilizia
del territorio, con perdurante modifica dello stato dei
luoghi, a prescindere dal fatto che essa avvenga mediante
realizzazione di opere murarie.
Di qui la legittimità della prescrizione demolitoria
irrogata con il provvedimento impugnato, che involge
esclusivamente la tamponata e la suddivisione della
struttura in più ambienti con pannellature di materiale
ligneo e materiali di recupero
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 14.03.2014 n. 118 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Gli interventi consistenti nell’installazione di
tettoie o di altre strutture, che siano comunque apposte a
parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di
protezione o di riparo di spazi liberi e non compresi entro
coperture volumetriche previste in un progetto assentito,
possono ritenersi sottratti al regime del permesso di
costruire soltanto ove la loro conformazione e le loro
ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile la loro
finalità di arredo o di riparo e protezione (anche da agenti
atmosferici) dell’immobile cui accedono.
Invece, tali strutture non possono, ritenersi installabili
senza titolo edilizio quando abbiano dimensioni tali da
arrecare una visibile alterazione del prospetto
dell’edificio e ciò anche quando siano facilmente
smontabili.
Va, invero, sul punto ricordato
che -secondo quanto costantemente precisato dalla
giurisprudenza amministrativa (cfr. da ultimo, Cons. St,
sez. VI, 05.08.2013, n. 4086, e sez. V 23.07.2013, n. 3952,
e 19.07.2013, n. 3939)- gli interventi consistenti
nell’installazione di tettoie o di altre strutture, che
siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come
strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi
liberi e non compresi entro coperture volumetriche previste
in un progetto assentito, possono ritenersi sottratti al
regime del permesso di costruire soltanto ove la loro
conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano evidente
e riconoscibile la loro finalità di arredo o di riparo e
protezione (anche da agenti atmosferici) dell’immobile cui
accedono; invece, tali strutture non possono, ritenersi
installabili senza titolo edilizio quando abbiano dimensioni
tali da arrecare una visibile alterazione del prospetto
dell’edificio e ciò anche quando siano facilmente
smontabili.
Ciò posto, considerato il reale stato dei luoghi e valutate
le caratteristiche anche dimensionali di tali tettoie,
sembra evidente che tali manufatti avrebbero potuto essere
realizzati solo dopo il previo rilascio di un titolo
abilitativo espresso, che il ricorrente non ha di certo
richiesto, neanche a sanatoria
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 14.03.2014 n. 118 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Per un verso
il lasso di tempo che fa sorgere in capo all'Amministrazione
l’onere di una motivazione rafforzata per l’ingiunzione di
demolizione di opera edilizia abusivamente realizzata non è
quello che intercorre tra il compimento dell’abuso ed il
provvedimento sanzionatorio, ma tra la conoscenza da parte
dell’Amministrazione dell’abuso ed il provvedimento
sanzionatorio adottato, con la conseguenza che, in mancanza
di conoscenza dell’illecito da parte dell'Amministrazione,
non può consolidarsi in capo al privato alcun affidamento
giuridicamente apprezzabile, il cui sacrificio meriti di
essere adeguatamente considerato in sede motivazionale.
Per altro verso il carattere permanente degli abusi
edilizi comporta che il decorso del tempo non spieghi alcuna
efficacia sanante nei confronti degli abusi stessi e che,
per il principio di legalità, la sanatoria degli abusi può
avere luogo solo nei casi previsti dalla legge statale, dato
che nessuna disposizione di legge attribuisce al decorso del
tempo un rilievo ostativo all’emanazione dei dovuti atti
repressivi.
Mentre non può ritenersi che
l’atto impugnato doveva essere sorretto da una specifica
motivazione in relazione al tempo decorso dal momento in cui
gli abusi erano stati commessi, in quanto -come oggi è stato
chiarito- per un verso il lasso di tempo che fa
sorgere in capo all'Amministrazione l’onere di una
motivazione rafforzata per l’ingiunzione di demolizione di
opera edilizia abusivamente realizzata non è quello che
intercorre tra il compimento dell’abuso ed il provvedimento
sanzionatorio, ma tra la conoscenza da parte
dell’Amministrazione dell’abuso ed il provvedimento
sanzionatorio adottato, con la conseguenza che, in mancanza
di conoscenza dell’illecito da parte dell'Amministrazione,
non può consolidarsi in capo al privato alcun affidamento
giuridicamente apprezzabile, il cui sacrificio meriti di
essere adeguatamente considerato in sede motivazionale
(Cons. St., sez. V, 09.09.2013, n. 4470); e per altro
verso il carattere permanente degli abusi edilizi
comporta che il decorso del tempo non spieghi alcuna
efficacia sanante nei confronti degli abusi stessi e che,
per il principio di legalità, la sanatoria degli abusi può
avere luogo solo nei casi previsti dalla legge statale, dato
che nessuna disposizione di legge attribuisce al decorso del
tempo un rilievo ostativo all’emanazione dei dovuti atti
repressivi (Cons. St., sez. VI, 18.09.2013, n. 4651).
Per cui, in definitiva, legittimamente l’Amministrazione
comunale ha ingiunto la demolizione della tamponatura del
manufatto posto al primo piano e delle due tettoie poste al
piano terra
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 14.03.2014 n. 118 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Carattere
distintivo della ristrutturazione edilizia è la
trasformazione anche parziale dell’organismo edilizio, con
un “insieme sistematico di opere”, potendo questo “insieme”
consistere in un solo complessivo progetto di intervento o
in più interventi puntuali e separati, ma correlati e
convergenti al medesimo risultato di trasformazione.
---------------
Nella specie, legittimamente l’insieme delle opere eseguite
è stato riferito alla nozione di ristrutturazione edilizia
poiché, anche se realizzate singolarmente, sono tali da
correlarsi in un palese effetto di pur parziale
trasformazione dell’organismo edilizio in questione,
risultando questo di certo nettamente diverso da quello
preesistente, in quanto modificato con l’apertura di tre
bocche di lupo disposte sul piano di calpestio della piazza
ottenute mediante scavo della stessa, la realizzazione di
una scala a tre rampe tra piano interrato e piano terra, in
luogo dell’unica preesistente, la realizzazione di una nuova
finestra su strada e, insieme con ciò, la realizzazione di
un tratto di canna fumaria in rame e di una tenda “che si
estende dalla finestra prossima al civico 23 di piazza della
Quercia (verso via dei Venti) fin oltre i sesti all’apertura
corrispondente al civico 25”.
Non può essere accolta anzitutto la censura di cui
sopra, sub 2.a), dovendosi osservare che:
- nell’art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 06.06.2001 n.
380 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia, in seguito solo testo
unico), l’intervento di ristrutturazione è quello
comportante la “trasformazione” dell’organismo edilizio
mediante “un insieme sistematico” di opere, che possono
portare ad un organismo in tutto o “in parte” diverso dal
precedente;
- ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. c), cit. testo
unico, sono subordinati al permesso di costruire gli
interventi di ristrutturazione edilizia “che portino ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente e che comportino …modifiche dei…prospetti o delle
superfici…”;
- carattere distintivo della ristrutturazione edilizia è
perciò la trasformazione anche parziale dell’organismo
edilizio, con un “insieme sistematico di opere”, potendo
questo “insieme” consistere in un solo complessivo progetto
di intervento o in più interventi puntuali e separati, ma
correlati e convergenti al medesimo risultato di
trasformazione;
- il provvedimento impugnato sanziona “la presenza di
interventi edilizi abusivi di ristrutturazione in assenza di
titolo abilitativo” ed è emanato in applicazione dell’art.
16, legge reg. Lazio 11.08.2008 n. 15 (Vigilanza
sull’attività urbanistico–edilizia), relativo agli
interventi di ristrutturazione;
- è perciò da accertare se gli interventi censurati in primo
grado, pur singoli, concorrano ad un insieme sistematico di
opere comportanti la trasformazione anche parziale
dell’immobile e se siano stati eseguiti senza titolo
abilitativo, risultando in tale caso, in sostanza,
l’esecuzione di una ristrutturazione senza titolo.
Il collegio, riservandosi di esaminare in seguito la
sussistenza del titolo abilitativo quanto alle opere in
questione, ritiene che, nella specie, legittimamente
l’insieme delle opere eseguite sia stato riferito alla
nozione di ristrutturazione edilizia poiché, anche se
realizzate singolarmente, sono tali da correlarsi in un
palese effetto di pur parziale trasformazione dell’organismo
edilizio in questione, risultando questo di certo nettamente
diverso da quello preesistente, in quanto modificato (come
specificato, da ultimo, nell’atto di accertamento tecnico n.
12184 del 15.02.2010) con l’apertura di tre bocche di
lupo disposte sul piano di calpestio della piazza ottenute
mediante scavo della stessa, la realizzazione di una scala a
tre rampe tra piano interrato e piano terra, in luogo
dell’unica preesistente, la realizzazione di una nuova
finestra su strada e, insieme con ciò, la realizzazione di
un tratto di canna fumaria in rame e di una tenda “che si
estende dalla finestra prossima al civico 23 di piazza della
Quercia (verso via dei Venti) fin oltre i sesti all’apertura
corrispondente al civico 25”
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.03.2014 n. 1084 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’art. 23, comma 1, testo unico edilizia, dispone
che la denuncia d’inizio di attività deve essere
“accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un
progettista abilitato e dagli opportuni elaborati
progettuali, che asseveri la conformità delle opere da
realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in
contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi
vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di
quelle igienico-sanitarie.”.
È prescritto perciò con chiarezza che le opere che si
intendono eseguire devono essere tutte specificate nella
relazione del progettista; soltanto a questa è, infatti,
attribuita la funzione specifica di asseverare la loro
conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia, non
essendo quindi sufficiente che le opere siano rappresentate
negli elaborati progettuali, se di esse non risulti
attestata la detta conformità, sotto la formale
responsabilità del progettista.
---------------
Anche dopo la scadenza del termine fissato dall’art. 23,
comma 6, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, l’amministrazione
conserva il potere di verificare se le opere possono essere
realizzate sulla base della d.i.a. e può esercitare i poteri
di vigilanza e sanzionatori previsti dall’ordinamento.
L’esercizio dei poteri di vigilanza e repressivi
rappresenta, in via generale, una delle imprescindibili
modalità di cura dell’interesse pubblico affidato all’una od
all’altra branca dell’amministrazione ed è espressione del
principio di buon andamento, di cui all’art. 97, Cost..
Nella specifica materia dell’attività urbanistico-edilizia,
un potere specifico di vigilanza (esercitabile, per la sua
stessa natura, anche mediante provvedimenti innominati),
vòlto ad assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di
regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici
ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi, è
affidato dalla legge al dirigente o al responsabile del
competente ufficio comunale (art. 27, comma 1, del D.P.R. n.
380/2001).
Neppure può essere
accolta la contestazione (comune in particolare alle censure
sub 2.b.1, 2 e 3) secondo cui la d.i.a. sarebbe valida anche
riguardo a opere non asseverate nella relazione tecnica.
L’art. 23, comma 1, testo unico, dispone, infatti, che la
denuncia d’inizio di attività deve essere “accompagnata da
una dettagliata relazione a firma di un progettista
abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che
asseveri la conformità delle opere da realizzare agli
strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con
quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il
rispetto delle norme di sicurezza e di quelle
igienico-sanitarie.”.
È prescritto perciò con chiarezza che le opere che si
intendono eseguire devono essere tutte specificate nella
relazione del progettista; soltanto a questa è, infatti,
attribuita la funzione specifica di asseverare la loro
conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia, non
essendo quindi sufficiente che le opere siano rappresentate
negli elaborati progettuali, se di esse non risulti
attestata la detta conformità, sotto la formale
responsabilità del progettista.
A questo riguardo il collegio non ritiene fondata la
specifica, correlata doglianza per cui il primo giudice
avrebbe ecceduto i limiti del giudizio, con esercizio di un
potere di accertamento spettante all’amministrazione, nel
momento in cui ha ritenuto la mancanza del titolo
abilitativo per le opere di cui si tratta, non indicate
nella relazione di asseverazione.
Agli atti del procedimento sono, infatti, acquisiti gli
accertamenti tecnici eseguiti (n. 32187/2006 e n.
12184/2010) dai quali emerge con chiarezza che il
presupposto per la valutazione di conformità delle opere in
questione è la d.i.a. del 2005, con la conseguenza che,
evidentemente, nessuna questione si sarebbe posta al
riguardo se le opere fossero state tutte sin dall’inizio
asseverate nella pertinente relazione.
---------------
Non è fondata, infine, la
deduzione per cui, decorso il termine per l’inibizione
dell’esecuzione delle opere di cui all’art. 23, comma 6,
cit. testo unico, l’amministrazione potrebbe soltanto agire
in autotutela, non sanzionando gli abusi edilizi rilevati.
Questo Consiglio di Stato ha infatti chiarito al riguardo,
con indirizzo da cui non vi è motivo di discostarsi per il
caso all’esame, che “anche dopo la scadenza del termine
fissato dall’art. 23, comma 6, del d.P.R. 06.06.2001, n.
380, l’amministrazione conserva il potere di verificare se
le opere possono essere realizzate sulla base della d.i.a. e
può esercitare i poteri di vigilanza e sanzionatori previsti
dall’ordinamento” (sez. IV, sent. 12.02.2010 n. 781),
avendo specificato che “l’esercizio dei poteri di vigilanza
e repressivi rappresenta, in via generale, una delle
imprescindibili modalità di cura dell’interesse pubblico
affidato all’una od all’altra branca dell’amministrazione ed
è espressione del principio di buon andamento, di cui
all’art. 97, Cost.”, e che “nella specifica materia
dell’attività urbanistico-edilizia, un potere specifico di
vigilanza (esercitabile, per la sua stessa natura, anche
mediante provvedimenti innominati), vòlto ad assicurarne la
rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità
esecutive fissate nei titoli abilitativi, è affidato dalla
legge al dirigente o al responsabile del competente ufficio
comunale (art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001)” (sez. IV,
sent. 25.11.2008 n. 5811) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.03.2014 n. 1084 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: I
ricorrenti, nipoti della comune dante e chiamati all’eredità
a seguito di rinuncia degli stretti congiunti che li
precedono in linea di successione, non hanno mai assunto la
qualità di eredi, avendo essi stessi rinunciato con atto a
rogito del notaio.
Pertanto, è illegittima l'ordinanza adottata nei loro
confronti per la messa in sicurezza dell'immobile
pericolante.
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 32 del 15.04.2013
della Direzione Urbanistica Edilità-Servizio Risanamento
Città Vecchia del Comune di Taranto;
...
Il ricorso è fondato.
I ricorrenti, nipoti della comune dante causa, sig.ra
A.M.A., deceduta in data 19.01.2012 e chiamati
all’eredità a seguito di rinuncia degli stretti congiunti
che li precedono in linea di successione, non hanno mai
assunto la qualità di eredi, avendo essi stessi rinunciato
con atto a rogito del notaio Francesco Pizzuti il
21.06.2013.
Ora, ai sensi dell'art. 459 del c.c., l’eredità si
acquista solo con l'accettazione (470 e seguenti c.c.), il
cui effetto, retroattivo, risale al momento dell’apertura
della successione (456 c.c., 1146 c.c.).
L'accettazione, in particolare, ai sensi dell'art. 474 cc.,
può essere espressa o tacita: è espressa quando, in un atto
pubblico (2699 c.c.) o in una scrittura privata (2702 c.c.),
il chiamato all'eredità ha dichiarato di accettarla oppure
ha assunto il titolo di erede (2648 c.c.); è, invece, tacita
quando il chiamato all'eredità compie un atto che presuppone
necessariamente la sua volontà di accettare e che non
avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede
(527 c.c.).
Ora, i ricorrenti in nessuna occasione hanno espresso la
volontà di accettare alcuna eredità con atto pubblico o con
scrittura privata o né hanno assunto comportamenti che in
alcun modo potessero presuppone la volontà di assumere la
qualifica di erede della comune ascendente, non acquisendo
nemmeno il possesso dell’immobile.
Né vale all’uopo richiamare, al fine di fondarne la
legittimazione passiva come fatto dalla difesa dell’ente
comunale, il disposto di cui all’art. 460, comma 2, c.c., a
norma del quale il chiamato all’eredità (delato) è già
titolare di una serie di poteri conservativi, di vigilanza e
di amministrazione. Tale disposizione contempla una mera
facoltà e non un obbligo in capo al delato, tanto che, in
caso di successiva rinuncia, le spese eventualmente
sostenute sono a carico esclusivo dell’eredità.
Ciò premesso, deve ritenersi che i ricorrenti, in
quanto non proprietari né titolari di altro diritto reale
sull’immobile necessitante la messa in sicurezza non possano
essere ritenuti legittimi destinatari dell’ordinanza
gravata.
Per quanto sopra esposto, il ricorso va accolto, assorbite
le ulteriori censure dedotte
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 26.02.2014 n. 672 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: L’evoluzione
subita dall’istituto dell’occupazione acquisitiva e il suo
superamento da parte dell’ordinamento portano al risultato
che le occupazioni illegittimamente disposte
dall’Amministrazione, seppure accompagnate
dall’irreversibile trasformazione dei beni occupati, non
comportano la perdita della proprietà in capo ai privati e
la sua acquisizione alla mano pubblica.
Nell’attuale quadro normativo, l’Amministrazione ha
l’obbligo giuridico di fare venire meno, in ogni caso,
l’occupazione “sine titulo” e, quindi, di adeguare comunque
la situazione di fatto a quella di diritto. In tal senso, la
P.A. ha due sole alternative: o deve restituire i terreni ai
titolari, demolendo quanto realizzato e disponendo la
completa riduzione in pristino allo “status quo ante”,
oppure deve attivarsi perché vi sia un titolo di acquisto
dell’area da parte del soggetto attuale possessore.
Non è, pertanto, possibile per le Amministrazioni restare
inerti a fronte di situazioni di illecito permanente
connesso con le occupazioni usurpative. Ne consegue che, in
assenza di legittimi provvedimenti ablatori o di contratti
di acquisto delle relative aree o di provvedimenti di
acquisizione ex art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, deve
affermarsi il potere dovere di far luogo alla materiale
rimozione delle opere che risultano senza titolo e alla
restituzione ai proprietari.
Ciò posto, ferma la natura discrezionale del provvedimento
di cui all’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, che ha previsto
un meccanismo, postumo, di acquisizione coattiva del bene,
per cui è prevista una valutazione degli “interessi in
conflitto”, il privato può legittimamente domandare
l’emissione del provvedimento di acquisizione o, in difetto,
la restituzione del fondo con la sua riduzione in pristino e
l’Amministrazione ha, a fronte dell’istanza del privato,
l’obbligo di provvedere.
A prescindere dall'esistenza di una specifica disposizione
normativa, l'obbligo di provvedere sussiste in tutte quelle
fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia ed
equità impongano l'adozione di un provvedimento, cioè in
tutte quelle ipotesi in cui, in relazione al dovere di
correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica,
sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere
il contenuto e le ragioni delle determinazioni di
quest'ultima.
Ora, essendo trascorsi i termini per la conclusione del
procedimento, l’Amministrazione è venuta meno al proprio
dovere di concludere il procedimento con atto espresso e
motivato come disposto dall’art. 2 della l. n. 241/1990.
... per l'accertamento dell’illegittimità del silenzio
serbato dal Comune di Avetrana avverso l'atto di diffida
presentato dalla ricorrente in data 03.05.2013 per la
restituzione delle particelle del foglio di mappa 26 di cui
è proprietaria: ...
...
Il ricorso è fondato.
L'inerzia serbata dal Comune sulla richiesta della
ricorrente non risulta giustificata.
L’evoluzione subita dall’istituto dell’occupazione
acquisitiva e il suo superamento da parte dell’ordinamento
portano al risultato che le occupazioni illegittimamente
disposte dall’Amministrazione, seppure accompagnate
dall’irreversibile trasformazione dei beni occupati, non
comportano la perdita della proprietà in capo ai privati e
la sua acquisizione alla mano pubblica (Cass. Civ., II, 14.01.2013, n. 705).
Nell’attuale quadro normativo, l’Amministrazione ha
l’obbligo giuridico di fare venire meno, in ogni caso,
l’occupazione “sine titulo” e, quindi, di adeguare comunque
la situazione di fatto a quella di diritto. In tal senso, la
P.A. ha due sole alternative: o deve restituire i terreni ai
titolari, demolendo quanto realizzato e disponendo la
completa riduzione in pristino allo “status quo ante”,
oppure deve attivarsi perché vi sia un titolo di acquisto
dell’area da parte del soggetto attuale possessore. Non è,
pertanto, possibile per le Amministrazioni restare inerti a
fronte di situazioni di illecito permanente connesso con le
occupazioni usurpative. Ne consegue che, in assenza di
legittimi provvedimenti ablatori o di contratti di acquisto
delle relative aree o di provvedimenti di acquisizione ex
art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, deve affermarsi il potere
dovere di far luogo alla materiale rimozione delle opere che
risultano senza titolo e alla restituzione ai proprietari
(Cons. St., IV, 26.03.2013, n. 1713).
Ciò posto, ferma la natura discrezionale del
provvedimento di cui all’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, che
ha previsto un meccanismo, postumo, di acquisizione coattiva
del bene, per cui è prevista una valutazione degli
“interessi in conflitto”, il privato può legittimamente
domandare l’emissione del provvedimento di acquisizione o,
in difetto, la restituzione del fondo con la sua riduzione
in pristino e l’Amministrazione ha, a fronte dell’istanza
del privato, l’obbligo di provvedere.
A prescindere dall'esistenza di una specifica disposizione
normativa, l'obbligo di provvedere sussiste in tutte quelle
fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia ed
equità impongano l'adozione di un provvedimento, cioè in
tutte quelle ipotesi in cui, in relazione al dovere di
correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica,
sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere
il contenuto e le ragioni delle determinazioni di
quest'ultima.
Ora, essendo trascorsi i termini per la conclusione del
procedimento, l’Amministrazione è venuta meno al proprio
dovere di concludere il procedimento con atto espresso e
motivato come disposto dall’art. 2 della l. n. 241/1990.
Il ricorso va pertanto accolto e per l’effetto dichiarata
l’illegittimità del silenzio serbato dall’Amministrazione
comunale
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 26.02.2014 n. 669 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di silos costituisce di per sé
intervento di nuova costruzione, soggetto come tale a
concessione edilizia, ed ora a permesso di costruire, poiché
si tratta, come notorio, di strutture di grandi dimensioni,
ancorate in modo stabile al suolo.
La Cassazione ha poi escluso in modo espresso che si possa
trattare di volumi tecnici, atteso che questi sono opere
edilizie prive di alcuna autonomia funzionale, anche
potenziale, volte ad alloggiare impianti serventi di una
costruzione principale; quelli sono “autonome costruzioni
tecnologicamente predisposte alla conservazione e allo
stoccaggio di prodotti alimentari o minerali”.
... per l’annullamento del provvedimento 05.08.2009 prot.
n. 3852, notificato il giorno 11.08.2008, con la quale il
Responsabile del Servizio edilizia privata del Comune di Piancamuno ha impartito alla Carbofer S.r.l. ordine motivato
di non effettuare l’intervento di cui alla denuncia inizio
attività – DIA 19.06.2009, consistente nella
installazione di nuovi silos presso il compendio sito alla
locale via delle Sorti 1, sul terreno distinto al catasto
comunale al foglio 3, mappale 256, subalterno 2;
...
Il primo motivo di ricorso, incentrato sulla presunta natura
di “volumi tecnici” dei silos per cui è causa, è infondato e
va respinto.
Così come ritenuto già da TAR Veneto sez. II 21.11.2003 n. 5840 e da questo TAR con sentenza 10.09.2004 n. 1075, e da ultimo da Cass. civ. sez. II 25.05.2012 n. 6356, la realizzazione di silos costituisce di
per sé intervento di nuova costruzione, soggetto come tale a
concessione edilizia, ed ora a permesso di costruire, poiché
si tratta, come notorio, di strutture di grandi dimensioni,
ancorate in modo stabile al suolo.
Cass. civ. sez. III 26.11.2012 n. 20866 ha poi escluso in
modo espresso che si possa trattare di volumi tecnici,
atteso che questi sono opere edilizie prive di alcuna
autonomia funzionale, anche potenziale, volte ad alloggiare
impianti serventi di una costruzione principale; quelli sono
“autonome costruzioni tecnologicamente predisposte alla
conservazione e allo stoccaggio di prodotti alimentari o
minerali”.
Nel caso di specie, non constano elementi di fatto volti a
sostenere una diversa conclusione
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 26.02.2014 n. 213 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
L’affidamento provvisorio
della gestione dei campi da calcio e servizi annessi del
capoluogo, per un periodo massimo di mesi tre e senza oneri
a carico del Comune, disposto con delibera di Giunta
non rientra in alcuna delle ipotesi
specificate all’art. 42 (competenze del Consiglio) del né in
quelle di cui all’art. 107 (competenze della Dirigenza) con
la conseguenza che non può che rientrare nella competenza
residuale della Giunta comunale ai sensi dell’art. 48.
... per l'annullamento dell’affidamento provvisorio della
gestione dei campi da calcio e servizi annessi del
capoluogo, per un periodo massimo di mesi tre e senza oneri
a carico del Comune, disposto con delibera di Giunta n. 151
del 28.12.2012 in favore dell’odierna controinteressata;
...
Quanto al dedotto profilo di competenza, la ricorrente
allega la violazione degli artt. 42 e 107 del D.Lgs. n.
267/2000 affermando genericamente che la proroga impugnata
rientrerebbe nelle competenze del Consiglio comunale o, al
più, della dirigenza.
Anche tale secondo motivo è infondato.
Sul punto deve rilevarsi che il provvedimento impugnato non
rientra in alcuna delle ipotesi specificate all’art. 42
(competenze del Consiglio) del né in quelle di cui all’art.
107 (competenze della Dirigenza) con la conseguenza che non
può che rientrare nella competenza residuale della Giunta
comunale ai sensi dell’art. 48 (TAR
Emilia Romagna-Parma,
sentenza 11.02.2014 n. 40 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
La mitigazione del rumore con apposite
barriere è una misura di prevenzione materiale degli effetti
dell’inquinamento acustico che va applicata secondo scelte
tecniche da operare non in ragione del solo costo economico
ma anche, nei limiti di ragionevolezza e proporzionalità,
degli effetti e della incidenza sugli interessi
potenzialmente lesi da quell’inquinamento.
In questo quadro, una barriera di mitigazione materiale del
rumore da alta velocità ferroviaria applicata al ricettore
anziché –come qui domandato- alla sorgente appare
irragionevole e sproporzionata. Essa infatti appare muovere
dalla considerazione del fenomeno dell’inquinamento acustico
come danno da circoscrivere a un puntuale immobile che ne
sia destinatario nella sua oggettiva materialità e nel suo
uso dal solo interno, quasi si tratti di un bilaterale
rapporto di scontato danno a cose anziché di prevenzione di
un effetto diffuso nell’ambiente circostante.
Invece si tratta di contenere l’emissione, piuttosto che
prevenire l’immissione, di danni e disagi diffusi, da
propagazione in incertam personam, che compromettono beni
primari come la salute umana e la qualità della vita
(quiete) e la stessa consistenza materiale delle cose
altrui. Dunque va considerato che, ai fini dell’abbattimento
del rumore ferroviario mediante schermi fonoassorbenti o
altri mezzi passivi di contenimento, l’immobile andava
seriamente preso in considerazione come un ambiente di vita,
con tanto di spazio circostante, dal quale si va e si viene,
ed eventualmente (come è qui stato rappresentato) anche di
una fonte di reddito d’impresa.
Del resto, lo stesso art. 2, comma 1, della legge
26.10.1995, n. 447 (Legge quadro sull'inquinamento acustico)
definisce [lett. a)] “inquinamento acustico” tra l’altro
“l'introduzione di rumore nell'ambiente abitativo o
nell'ambiente esterno”; e (lett. e)) per “ricettore” non
solo l’edificio ma anche “le relative aree esterne di
pertinenza” ed altre aree all’aperto. E l’art. 4, comma 2,
del d.P.R. n. 459 del 1998 enuncia con evidenza il principio
di una preferenza per le opere di mitigazione sulla sorgente
che non può, anche ai fini di un’interpretazione
costituzionalmente orientata (artt. 3 e 32 Cost.), non
essere considerato come tendenzialmente generale.
Perciò, nei termini in cui è materialmente possibile, la
mitigazione materiale va senz’altro applicata “a monte”,
vale a dire nella maggior prossimità possibile alla sorgente
del rumore, in quanto posizione che massimizza l’effetto
schermante. A fronte di tali considerazioni circa i beni
sostanziali toccati, non appaiono ragionevoli valutazioni
restrittive, che possono apparire surrettiziamente tese a
mantenere integra, in loro danno, l’esternalizzazione del
costo dell’inquinamento.
Vengono in decisione
gli appelli proposti da RFI-Rete Ferroviaria Italiana s.p.a.
e dal Consorzio Alta Velocità Torino-Milano per ottenere la
riforma della sentenza, di estremi indicati in epigrafe, con
la quale il Tribunale amministrativo regionale per il
Piemonte ha accolto il ricorso proposto dal signor F.P. e
per l’effetto, ha annullato parzialmente, nella parte
riferita agli interventi sulla proprietà del ricorrente, la
delibera n. 65 del 02.05.2007, con la quale è stata
approvata la variante per gli interventi di mitigazione
acustica su ricettori isolati lungo la sub tratta AV/AC “Torino-Novara”,
della tratta AV/AC “Torino-Milano”.
Con la variante progettuale impugnata, si è prevista la
sostituzione di una barriera fonoassorbente-fonoriflettente,
inizialmente prevista lungo la linea ferroviaria, con un
intervento di mitigazione acustica sull’immobile di
proprietà del ricorrente (destinata ad albergo e ad
abitazione) e, quindi, esclusivamente sul ricettore.
Secondo il Tribunale amministrativo regionale, tale
soluzione non è rispettosa del dettato normativo -art. 11
(Regolamenti di esecuzione) legge 26.10.1995, n. 447 e art.
4 d.P.R. 18.11.1998, n. 459-, che impone le soluzioni di
mitigazione acustica da adottare secondo una scala di
gerarchia, in base alla quale occorre preliminarmente
intervenire sulla sorgente adottando le migliori tecnologie
disponibili. La soluzione adottata dall’Amministrazione, al
contrario, prevedendo esclusivamente l’intervento sul
ricettore non rispetta la scala di priorità normativamente
imposta e risulta giustificata da esclusive ragioni
economiche che, tuttavia, secondo la sentenza appellata, non
sono consentite dalla normativa vigente.
...
Nel merito, gli appelli sono infondati in quanto non può
condividersi l’interpretazione, prospettata dagli appellanti
RFI-Rete Ferroviaria Italiana s.p.a. e Consorzio Alta
Velocità Torino-Milano, dell’art. 4 (Infrastrutture di nuova
realizzazione con velocità di progetto superiore a 200 km/h)
del d.P.R. 18.11.1998, n. 459 (Regolamento recante norme di
esecuzione dell'articolo 11 della legge 26.10.1995, n. 447,
in materia di inquinamento acustico derivante da traffico
ferroviario), secondo cui valutazioni di opportunità, basate
anche solo su mere ragioni di convenienza economica,
potrebbero giustificare l’imposizione di soluzioni di
mitigazione acustica sul ricettore anziché sulla sorgente
del rumore.
Invero, la mitigazione del rumore con apposite barriere è
una misura di prevenzione materiale degli effetti
dell’inquinamento acustico che va applicata secondo scelte
tecniche da operare non in ragione del solo costo economico
ma anche, nei limiti di ragionevolezza e proporzionalità,
degli effetti e della incidenza sugli interessi
potenzialmente lesi da quell’inquinamento.
In questo quadro, una barriera di mitigazione materiale del
rumore da alta velocità ferroviaria applicata al ricettore
anziché –come qui domandato- alla sorgente appare
irragionevole e sproporzionata. Essa infatti appare muovere
dalla considerazione del fenomeno dell’inquinamento acustico
come danno da circoscrivere a un puntuale immobile che ne
sia destinatario nella sua oggettiva materialità e nel suo
uso dal solo interno, quasi si tratti di un bilaterale
rapporto di scontato danno a cose anziché di prevenzione di
un effetto diffuso nell’ambiente circostante. Invece si
tratta di contenere l’emissione, piuttosto che prevenire
l’immissione, di danni e disagi diffusi, da propagazione in
incertam personam, che compromettono beni primari
come la salute umana e la qualità della vita (quiete) e la
stessa consistenza materiale delle cose altrui. Dunque va
considerato che, ai fini dell’abbattimento del rumore
ferroviario mediante schermi fonoassorbenti o altri mezzi
passivi di contenimento, l’immobile andava seriamente preso
in considerazione come un ambiente di vita, con tanto di
spazio circostante, dal quale si va e si viene, ed
eventualmente (come è qui stato rappresentato) anche di una
fonte di reddito d’impresa.
Del resto, lo stesso art. 2, comma 1, della legge
26.10.1995, n. 447 (Legge quadro sull'inquinamento acustico)
definisce [lett. a)] “inquinamento acustico” tra
l’altro “l'introduzione di rumore nell'ambiente abitativo
o nell'ambiente esterno”; e (lett. e)) per “ricettore”
non solo l’edificio ma anche “le relative aree esterne di
pertinenza” ed altre aree all’aperto. E l’art. 4, comma
2, del d.P.R. n. 459 del 1998 enuncia con evidenza il
principio di una preferenza per le opere di mitigazione
sulla sorgente che non può, anche ai fini di
un’interpretazione costituzionalmente orientata (artt. 3 e
32 Cost.), non essere considerato come tendenzialmente
generale.
Perciò, nei termini in cui è materialmente possibile, la
mitigazione materiale va senz’altro applicata “a monte”,
vale a dire nella maggior prossimità possibile alla sorgente
del rumore, in quanto posizione che massimizza l’effetto
schermante. A fronte di tali considerazioni circa i beni
sostanziali toccati, non appaiono ragionevoli valutazioni
restrittive, che possono apparire surrettiziamente tese a
mantenere integra, in loro danno, l’esternalizzazione del
costo dell’inquinamento.
Il quadro normativo di riferimento imponeva dunque, nel caso
di specie, all’Amministrazione di seguire, come bene
ritenuto dal Tribunale amministrativo regionale, una linea
di priorità volta a privilegiare, sulla base delle
tecnologie disponibili, la soluzione meno gravosa per la
proprietà e la vita limitrofa.
Poiché tale priorità è stata disattesa senza alcuna
plausibile motivazione, la scelta progettuale adottata
risulta illegittima. La sentenza appellata merita, quindi,
conferma
(Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 09.01.2014 n. 35 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
In caso di determinazioni amministrative di segno
negativo fondate su una pluralità di ragioni, ciascuna delle
quali di per sé idonea a supportare la parte dispositiva del
provvedimento, è sufficiente che una sola resista al vaglio
giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso
resti indenne.
Tanto è sufficiente
per ritenere non illegittimo, rispetto alla censura svolta,
l’annullamento in autotutela qui contestato.
La motivazione dell’atto investita dal motivo d’appello
finora esaminato è infatti autonomamente in grado di
giustificare la determinazione finale, per cui va fatta
applicazione del principio, costante nella giurisprudenza di
questo Consiglio di Stato, secondo cui in caso di
determinazioni amministrative di segno negativo fondate su
una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali di per sé
idonea a supportare la parte dispositiva del provvedimento,
è sufficiente che una sola resista al vaglio giurisdizionale
perché il provvedimento nel suo complesso resti indenne,
risultando conseguentemente privo di utilità l’esame delle
altre censure (per le più recenti pronunce: Cons. Stato, IV,
05.04.2013, n. 1902; VI, 04.11.2013, n. 5286, 04.10.2013, n.
4901, 16.05.2013, n. 2664, 06.05.2013, n. 2409, 30.04.2013,
n. 2360, 30.04.2013, n. 2360)
(Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 09.01.2014 n. 25 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il preavviso di provvedimento negativo non si
applica al subprocedimento di annullamento soprintendentizio,
che è volto all’annullamento, in tempi stretti e perentori,
dell’autorizzazione paesaggistica sub specie di riesame di
quell’atto da parte dell’Autorità statale, che si configura
come una fase di riscontro della già ritenuta possibilità
giuridica di mutare lo stato dei luoghi.
Si può passare ai
motivi di ordine procedimentale, volti a stigmatizzare
l’omessa comunicazione di avvio del procedimento di
annullamento in autotutela e del preavviso di rigetto.
A questo riguardo, è il caso di richiamare quanto già
considerato dalla consolidata giurisprudenza di questo
Consiglio di Stato.
Per quanto concerne la comunicazione di avvio del
subprocedimento di annullamento soprintendentizio, vale
considerare in punto di fatto che -come bene ha rilevato la
sentenza impugnata- la ricorrente ha comunque avuto
effettiva conoscenza dell’avvio del procedimento tanto che
vi ha partecipato attivamente (ha del resto dato atto con
lettera 31.03.2005 che il suo amministratore dott. G.S.
aveva partecipato con i funzionari della Soprintendenza al
sopralluogo del 10.03.2005, facendo presente “la
situazione di lavori di urbanizzazione specificando senza
ombra di dubbio che la realizzazione del reticolo stradale
era stata già completata con gli interventi del 1989 e del
1997”). Era pertanto stata assicurata, quanto meno in
via di fatto, la partecipazione procedimentale del soggetto
destinatario del provvedimento finale e raggiunto comunque
lo scopo partecipativo che è proprio dell’invocata
comunicazione. Il che rende la doglianza comunque non
fondata (es. Cons. Stato, IV, 15.12.2011, n. 6618; IV,
18.04.2012, n. 2286.).
Per quanto concerne la pretesa violazione dell’art. 10-bis
della l. n. 241 del 1990 (introdotto dalla l. 11.02.2005, n.
15, cioè prima dell’impugnato decreto del 16.03.2005), vale
rammentare che il preavviso di provvedimento negativo non si
applica a questo tipo di procedimento, che è volto
all’annullamento, in tempi stretti e perentori,
dell’autorizzazione paesaggistica sub specie di riesame di
quell’atto da parte dell’Autorità statale, e che si
configura come una fase di riscontro della già ritenuta
possibilità giuridica di mutare lo stato dei luoghi (es.
Cons. Stato, Ad. plen. 14.12.2001, n. 9; VI, 27.08.2010, n.
5980; VI, 10.12.2010 n. 8704; Cons. Stato, VI, 21.09.2011,
n. 5293; VI, 27.11.2012, n. 5977; II, 11.01.2011, n.
4931/09).
Stante il carattere dirimente di queste considerazioni, è
dunque appena il caso di rilevare che la pretesa omissione
–visto il detto contrasto con la previsione di legge
regionale- appare comunque una mera irregolarità formale non
invalidante l’atto conclusivo, ai sensi dell'art. 21-octies,
comma 2, prima parte della legge n. 07.08.1990, n. 241,
perché il contenuto dispositivo di quest’ultimo non avrebbe
potuto essere diverso (tra le altre, per il preavviso di
rigetto: Cons. Stato, IV, 06.12.2013, n. 5818, 24.09.2013,
n. 4693, 04.09.2013, n. 4448, 20.02.2013, n. 1056,
07.12.2012, n. 6265, 16.02.2012, n. 823; Sez. V, 03.05.2012,
n. 2548; Sez. VI, 02.02.2012, n. 585; per l’omessa
comunicazione di avvio del procedimento: Sez. IV,
26.11.2013, n. 5615, 17.09.2012, n. 4925, 25.06.2013, n.
3458; Sez. V, 26.11.2013, n. 5609, 20.11.2013, n. 5465,
26.09.2013, n. 4764, 15.07.2013, n. 3803; Sez. VI,
04.10.2013 n. 4896)
(Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 09.01.2014 n. 25 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: E'
pacifico il principio che l'organo di Amministrazione attiva
nella fase istruttoria del procedimento possa munirsi ai
fini del decidere -a sua discrezione ed indipendentemente da
espressa previsione normativa- di valutazioni, sotto il
profilo tecnico o giuridico, provenienti da altri organi con
specifica qualificazione; questi sono quindi chiamati ad
esprimere il proprio avviso sull'oggetto del provvedere, che
ha natura di parere facoltativo perché non obbligatoriamente
previsto da norma di legge o di regolamento e che non
vincola l'organo al quale è rilasciato.
---------------
Il potere di autotutela amministrativa mediante annullamento
degli atti rappresenta, ai sensi dell’art. 21-nonies della
l. n. 241 del 1990, una facoltà attribuita
all’Amministrazione in presenza di provvedimenti ritenuti
illegittimi, che si esercita previa valutazione delle
ragioni di pubblico interesse.
La richiesta avanzata dai privati d’esercizio
dell’autotutela è da considerarsi “una mera denuncia, con
funzione sollecitatoria, (che) non fa sorgere in capo
all’amministrazione alcun obbligo di provvedere”.
---------------
Nel caso in cui il provvedimento amministrativo sia sorretto
da più ragioni giustificatrici fra loro autonome è
sufficiente a sorreggere la legittimità dell'atto la
conformità a legge anche di una sola di esse.
Tale circostanza risulta, peraltro, confermata dalla
giurisprudenza che sebbene riferita ad una fattispecie non
del tutto analoga, ritiene che “è pacifico il principio
che l'organo di Amministrazione attiva nella fase
istruttoria del procedimento possa munirsi ai fini del
decidere -a sua discrezione ed indipendentemente da espressa
previsione normativa- di valutazioni, sotto il profilo
tecnico o giuridico, provenienti da altri organi con
specifica qualificazione; questi sono quindi chiamati ad
esprimere il proprio avviso sull'oggetto del provvedere, che
ha natura di parere facoltativo perché non obbligatoriamente
previsto da norma di legge o di regolamento e che non
vincola l'organo al quale è rilasciato” (Cons. di Stato,
Sez. VI, 29.02.2008, n. 754).
---------------
Il Collegio osserva
che il potere di autotutela amministrativa mediante
annullamento degli atti rappresenta, ai sensi dell’art.
21-nonies della l. n. 241 del 1990, una facoltà attribuita
all’Amministrazione in presenza di provvedimenti ritenuti
illegittimi, che si esercita previa valutazione delle
ragioni di pubblico interesse.
Per quanto si è sin qui esposto e per quanto si dirà in
seguito alla lettere e), f) e g), contrariamente a quanto
affermato dall’appellante, la nota n. 45248 del 2001 non
presenta vizi d’illegittimità.
Ne deriva, quindi, che nel caso di specie non vi era alcun
obbligo per l’Amministrazione competente di esercitare il
potere di autotutela ad essa attribuito, annullando l’atto
dirigenziale n. 45248 del 2001, anche in considerazione del
fatto che la richiesta avanzata dai privati d’esercizio
dell’autotutela è da considerarsi “una mera denuncia, con
funzione sollecitatoria, (che) non fa sorgere in capo
all’amministrazione alcun obbligo di provvedere” (Cons.
di Stato, Sez. VI, 15.05.2012, n. 2774; Sez. VI, 11.02.2013,
n. 767).
---------------
A quanto rilevato va, peraltro, aggiunto che secondo una
consolidata giurisprudenza, da cui il Collegio non ravvisa
ragioni per discostarsi, “nel caso in cui il
provvedimento amministrativo sia sorretto da più ragioni
giustificatrici fra loro autonome è sufficiente a sorreggere
la legittimità dell'atto la conformità a legge anche di una
sola di esse” (Cons. di Stato, Sez. VI, 18.05.2012, n.
2894) (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 07.01.2014 n. 12 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Si ampliano le prospettive di applicazione del
Permesso di Costruire in deroga allo strumento urbanistico:
nuove opportunità per l’edilizia privata?
Il Permesso di Costruire in deroga va rilasciato anche al
privato se sono soddisfatte certe condizioni.
E’ quanto precisato dal
TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 28.11.2013 n. 1287, chiarendo alcuni aspetti relativi al rilascio del
Permesso di Costruire in deroga per gli edifici privati,
istituto introdotto dal Decreto Sviluppo (D.L. 70/2011,
convertito in Legge 106/2011).
Infatti, al fine di rilanciare l’attività edilizia e
riqualificare le aree urbane degradate, il Decreto Sviluppo
ha stabilito anche per gli edifici privati uno speciale
procedimento in deroga alle vigenti norme urbanistiche,
anche relativamente alla modifica delle destinazioni d’uso,
da attuarsi secondo le previsioni dell’art. 14 del D.P.R.
380/2001.
Il Tribunale amministrativo chiarisce che può essere
rilasciato un Permesso di Costruire in deroga per edifici
privati quando esista un bilanciamento tra interessi
pubblici e la convenienza del privato a riqualificare.
In particolare, si è pronunciato sul ricorso contro una
delibera comunale, con cui era stato rilasciato il Permesso
di Costruire, in deroga alle disposizioni urbanistiche, per
la razionalizzazione di un fabbricato a uso terziario di
quattordici piani rimasto incompiuto e abbandonato.
L’autorizzazione prevedeva anche il cambio di destinazione
d’uso da terziario a residenziale, a condizione che parte
dell’edificio fosse destinato all’edilizia convenzionata.
I Giudici hanno confermato la legittimità del Permesso di
Costruire in deroga in quanto compatibile con il rilancio
dell’edilizia in modo e con gli obiettivi di
razionalizzazione e riqualificazione delle aree degradate.
Alla luce di questa Sentenza (e altre richiamate anche nella
stessa), si potrebbero aprire nuove prospettive per il
rilancio per l’edilizia privata, con l’opportunità di
proporre alle Amministrazioni comunali nuove costruzioni o
variazioni di destinazioni d’uso per edifici già esistenti
in deroga agli strumenti urbanistici, garantendo l’interesse
pubblico, come ad esempio alloggi in edilizia convenzionata,
impianti sportivi o più in generale interessi urbanistici,
edilizi, paesistici e ambientali (TAR Calabria, Catanzaro,
sez. II, n. 375 del 2011) (commento tratto da www.acca.it).
---------------
Sullo speciale
procedimento in deroga alle vigenti norme urbanistiche,
anche in punto di modifica delle destinazioni d’uso, da
attuarsi secondo le previsioni dell’art. 14 del d.P.R. n.
380 del 2001, di cui all’art. 5, commi 9 ss., del
decreto-legge n. 70 del 2011, convertito in legge n. 106 del
2011.
Si deve nel merito correttamente
inquadrare la disposizione di legge in base alla quale è
stata approvata la “deroga” in favore dell’immobile de quo.
Si tratta, come detto, dell’art. 5, commi 9 ss., del
decreto-legge n. 70 del 2011, convertito in legge n. 106 del
2011, mediante il quale il legislatore d’urgenza, al fine di
rilanciare l’attività edilizia in modo compatibile con gli
obiettivi di razionalizzazione del patrimonio edilizio già
esistente e di riqualificazione delle aree urbane degradate,
ha stabilito uno speciale procedimento in deroga alle
vigenti norme urbanistiche, anche in punto di modifica delle
destinazioni d’uso, da attuarsi secondo le previsioni
dell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Come è noto, quest’ultima disposizione, al comma 1, così
stabilisce: “Il permesso di costruire in deroga agli
strumenti urbanistici generali è rilasciato esclusivamente
per edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico,
previa deliberazione del consiglio comunale, nel rispetto
comunque delle disposizioni contenute nel decreto
legislativo 29.10.1999, n. 490, e delle altre normative di
settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività
edilizia”. Essa è richiamata, in particolare, dall’art. 5,
comma 11, del decreto-legge n. 70 del 2011, convertito in
legge n. 106 del 2011.
Il richiamo all’art. 14 del testo unico sull’edilizia
veicola, anche per questo speciale procedimento introdotto
nel 2011, le caratteristiche generali dell’istituto del
“permesso di costruire in deroga”, quali già ricostruite
dalla giurisprudenza, che siano compatibili con la nuova
disciplina.
Si deve trattare, pertanto, di un intervento edilizio
circoscritto e predeterminato, che lasci inalterato
l’assetto urbanistico del resto della zona in cui lo stesso
è ricompreso ed avente natura discrezionale, in quanto
emanato all’esito di una comparazione dell’interesse alla
realizzazione (o al mantenimento dell’opera) con ulteriori
interessi pubblici, come quelli urbanistici, edilizi,
paesistici e ambientali.
La rilevanza dell’interesse pubblico nella complessiva
operazione è, pertanto, un elemento essenziale dell’istituto
coniato nel 2011, il quale qualifica la deroga pur
consentita alle disposizioni urbanistiche vigenti sulla base
di una scelta politica di opportunità (nonché di
compatibilità con l’esistente) che è dalla legge rimessa al
Consiglio comunale.
E’ evidente, peraltro, che tale interesse pubblico deve
risultare comunque bilanciato con quello privato alla
realizzazione o al mantenimento dell’opera, trattandosi pur
sempre di un intervento che –a differenza dell’istituto di
cui all’art. 14 d.P.R. n. 380 del 2001– va ad interessare un
edificio privato (e non pubblico o di pubblico interesse,
come richiesto dalla norma richiamata).
In ciò sta pertanto la differenza tra il nuovo procedimento
in deroga introdotto dal legislatore d’urgenza del 2011 e
quello già conosciuto ex art. 14 d.P.R. n. 380 del 2001: la
natura privata, e non pubblica, dell’edificio oggetto
dell’intervento, tale pertanto da richiedere una
conformazione, in termini di proporzionalità, del sacrificio
imposto al privato proprietario a fronte della concessione
della “deroga”.
... per l'annullamento della Deliberazione del Consiglio
Comunale n. 1 del 17.01.2013 avente per oggetto:
"PRATICA EDILIZIA N. 278/2012 DEL 22.05.2012 PROT. N.
21607/2012. PERMESSO DI COSTRUIRE IN DEROGA AI SENSI
DELL'ART. 14 D.P.R. N. 380/2001 E S.M.I. E LEGGE N. 106/2011
E S.M.I. PER CAMBIO DESTINAZIONE D'USO DI FABBRICATO
TERZIARIO A RESIDENZA E TERZIARIO SITO IN VIA ANTONELLI N.
12 - PROPRIETA' SOCIETA' METROPOLIS S.R.L. - APPROVAZIONE
DEROGA";
...
Il Consiglio comunale di Collegno (TO), nell’adunanza del 17.01.2013, ha approvato una delibera (la n. 1/2013) con la quale
è stata approvata una “deroga” –rispetto alle vigenti
disposizioni urbanistiche di cui al Piano Regolatore
Comunale– in favore di un esistente fabbricato, composto da
14 piani fuori terra ed autorimesse interrate, ubicato in
via Antonelli n. 12, di proprietà della società Metropolis
s.r.l..
Si tratta di un edificio già autorizzato a
destinazione terziaria, la cui costruzione fu iniziata nel
quadro di un Piano Esecutivo Convenzionato del 1993, ma poi
rimasto incompiuto ed abbandonato. La delibera comunale è
stata adottata ai sensi dell’art. 5, commi 9 ss., del
decreto-legge n. 70 del 2011, convertito in legge n. 106 del
2011, ossia al fine di recuperare l’edificio per ragioni di
“razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente” e per
consentire il successivo “rilascio del permesso di costruire
in deroga ai sensi dell’art. 14 D.P.R. 380/2001”, con cambio
di destinazione d’uso da terziario in terziario-residenziale.
Al contempo è stata però stabilita la condizione che la
proprietà destini ad edilizia convenzionata una quota del
50% degli alloggi da realizzare.
Siffatto provvedimento è impugnato dinnanzi a questo TAR
dalla società Centro Servizi Sistemi d’Impresa s.r.l. che ne
domanda l’annullamento previa sospensione cautelare. La
ricorrente riferisce di essere proprietaria di un immobile
“contiguo”, ragion per la quale essa sarebbe “legittimata a
proporre il presente ricorso”. In diritto il gravame è
affidato ad una pluralità di censure, riconducibili ora alla
violazione di legge (in particolare, dell’art. 5, commi 9
ss., del citato decreto-legge n. 70 del 2011, e delle norme
tecniche di attuazione del PRG comunale), ora all’eccesso di
potere per difetto di istruttoria e di motivazione.
...
Il ricorso non è fondato.
Prescindendosi dall’esame della preliminare eccezione di
difetto di interesse –rispetto alla quale, peraltro, va
osservato che la ricorrente, pur qualificandosi proprietaria
di un immobile “contiguo”, non ha però indicato il
pregiudizio concretamente subito per effetto dell’impugnata
delibera, così lasciando nell’ombra il pregiudiziale profilo
della propria legittimazione ad agir– si deve nel merito
correttamente inquadrare la disposizione di legge in base
alla quale è stata approvata la “deroga” in favore
dell’immobile de quo.
Si tratta, come detto, dell’art. 5, commi 9 ss., del
decreto-legge n. 70 del 2011, convertito in legge n. 106 del
2011, mediante il quale il legislatore d’urgenza, al fine di
rilanciare l’attività edilizia in modo compatibile con gli
obiettivi di razionalizzazione del patrimonio edilizio già
esistente e di riqualificazione delle aree urbane degradate,
ha stabilito uno speciale procedimento in deroga alle
vigenti norme urbanistiche, anche in punto di modifica delle
destinazioni d’uso, da attuarsi secondo le previsioni
dell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Come è noto,
quest’ultima disposizione, al comma 1, così stabilisce: “Il
permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici
generali è rilasciato esclusivamente per edifici ed impianti
pubblici o di interesse pubblico, previa deliberazione del
consiglio comunale, nel rispetto comunque delle disposizioni
contenute nel decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, e
delle altre normative di settore aventi incidenza sulla
disciplina dell'attività edilizia”. Essa è richiamata, in
particolare, dall’art. 5, comma 11, del decreto-legge n. 70
del 2011, convertito in legge n. 106 del 2011.
Il richiamo
all’art. 14 del testo unico sull’edilizia veicola, anche per
questo speciale procedimento introdotto nel 2011, le
caratteristiche generali dell’istituto del “permesso di
costruire in deroga”, quali già ricostruite dalla
giurisprudenza, che siano compatibili con la nuova
disciplina.
Si deve trattare, pertanto, di un intervento
edilizio circoscritto e predeterminato, che lasci inalterato
l’assetto urbanistico del resto della zona in cui lo stesso
è ricompreso (così, con riferimento all’istituto ex art. 14 d.P.R. n. 380 del 2001, TAR Campania, Salerno, sez. II, n.
1803 del 2011) ed avente natura discrezionale, in quanto
emanato all’esito di una comparazione dell’interesse alla
realizzazione (o al mantenimento dell’opera) con ulteriori
interessi pubblici, come quelli urbanistici, edilizi,
paesistici e ambientali (così, sempre sul permesso di
costruire in deroga, TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, n.
375 del 2011).
La rilevanza dell’interesse pubblico nella
complessiva operazione è, pertanto, un elemento essenziale
dell’istituto coniato nel 2011, il quale qualifica la deroga
pur consentita alle disposizioni urbanistiche vigenti sulla
base di una scelta politica di opportunità (nonché di
compatibilità con l’esistente) che è dalla legge rimessa al
Consiglio comunale.
E’ evidente, peraltro, che tale
interesse pubblico deve risultare comunque bilanciato con
quello privato alla realizzazione o al mantenimento
dell’opera, trattandosi pur sempre di un intervento che –a
differenza dell’istituto di cui all’art. 14 d.P.R. n. 380
del 2001– va ad interessare un edificio privato (e non
pubblico o di pubblico interesse, come richiesto dalla norma
richiamata).
In ciò sta pertanto la differenza tra il nuovo
procedimento in deroga introdotto dal legislatore d’urgenza
del 2011 e quello già conosciuto ex art. 14 d.P.R. n. 380
del 2001: la natura privata, e non pubblica, dell’edificio
oggetto dell’intervento, tale pertanto da richiedere una
conformazione, in termini di proporzionalità, del sacrificio
imposto al privato proprietario a fronte della concessione
della “deroga” (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 28.11.2013 n. 1287 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA: Per
variante allo strumento urbanistico deve intendersi
la modifica generale ed astratta della destinazione
urbanistica ovvero delle prescrizioni, dei parametri o degli
standard, relativa ad un’intera zona territoriale;
Per deroga allo strumento urbanistico deve invece
intendersi un mutamento limitato ad un intervento edilizio
circoscritto e predeterminato, che lasci inalterato
l’assetto urbanistico del resto della zona in cui lo stesso
è ricompreso, da realizzare nel più ristretto alveo delle
possibilità concesse dall’art. 14 D.P.R. 06.06.2001 n. 380.
I due sostantivi (variante e deroga), che non
a caso il legislazione regionale utilizza in forma
alternativa nei vari commi di cui si compone l’art. 7, non
sono assimilabili tra loro: per variante allo
strumento urbanistico deve infatti intendersi la modifica
generale ed astratta della destinazione urbanistica ovvero
delle prescrizioni, dei parametri o degli standard, relativa
ad un’intera zona territoriale; per deroga allo
strumento urbanistico deve invece intendersi un mutamento
limitato ad un intervento edilizio circoscritto e
predeterminato, che lasci inalterato l’assetto urbanistico
del resto della zona in cui lo stesso è ricompreso, da
realizzare nel più ristretto alveo delle possibilità
concesse dall’art. 14 D.P.R. 06.06.2001 n. 380
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, Sez. II,
sentenza 09.11.2011 n. 1803 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire in deroga agli strumenti
urbanistici - Rilascio al di fuori dei casi previsti dalla
legge - Violazione - Normativa antisimica e vincoli
paesaggistici - Fattispecie - Artt. 14 e 44, lett. b),
D.P.R. n. 380/2001 - Art. 146 D.L.vo n. 42/2004 - Art. 7
D.M. n. 1444/1968.
Il permesso di costruire in deroga agli strumenti
urbanistici è istituto di carattere eccezionale giustificato
dalla necessità di soddisfare esigenze straordinarie
rispetto agli interessi primari garantiti dalla disciplina
urbanistica generale e, in quanto tale, applicabile
esclusivamente entro i limiti tassativamente previsti
dall'articolo 14 D.P.R. 380/2001 e mediante la specifica
procedura.
Tale sua particolare natura porta ad escludere che possa
essere rilasciato "in sanatoria" dopo l'esecuzione
delle opere.
Nella specie, l'intervento edilizio risultava eseguito sulla
base di un permesso di costruire in deroga rilasciato al di
fuori dei casi previsti dalla legge, mancanza di
autorizzazione dell'ente preposto alla tutela del vincolo
paesaggistico e violazione della disciplina antisismica e
sul cemento armato.
PRG - Permesso di costruire - Rilascio
di permessi in deroga - Limiti - Variante urbanistica -
Specifica disciplina - Art. 14 D.P.R. n. 380/2001.
La deroga al permesso di costruire non può incidere sulle
scelte di tipo urbanistico, potendo operare solo nel caso in
cui l'area sia edificabile secondo le previsioni di piano,
con la conseguenza che non può ritenersi ammissibile il
rilascio di permessi in deroga, ad esempio, per aree a
destinazione agricola o a verde pubblico o privato mancando
in tal caso il presupposto dell'edificabilità dell'area
necessario non per il rilascio in deroga del permesso di
costruire ma per il permesso stesso.
Analogamente, si è escluso che la deroga possa riguardare
aumenti di volumetria rispetto a quelli oggetto di
pianificazione potendo consentire soltanto, a parità di
volume edificabile, che l'intervento si concretizzi, ad
esempio, con altezza, superficie coperta, destinazione
diverse da quelle previste dal PRG. (Cons. Stato Sez. V n.
46, 11.01.2006; Sez. VI n. 4568, 07.08.2003).
Ne consegue che, al di fuori dei limiti indicati dalla
disposizione contenuta nell’art. 14 D.P.R. n. 380/2001,
viene a configurarsi un'ipotesi di variante urbanistica la
cui approvazione è soggetta alla specifica disciplina.
Difetto di motivazione -
Configurabilità.
Il difetto di motivazione integra gli estremi della
violazione di legge solo quando l'apparato argomentativo che
dovrebbe giustificare il provvedimento o manchi del tutto o
risulti privo dei requisiti minimi di coerenza, di
completezza e di ragionevolezza, in guisa da apparire
assolutamente inidoneo a rendere comprensibile l'itinerario
logico seguito dall'organo investito del procedimento (Cass.
SS. UU. n. 25932, 26/06/2008, Conf. Cass. Sez. V n. 43068,
11/09/2009) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.04.2011 n. 16591 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli immobili di interesse pubblico possono anche
essere di proprietà privata, purché la loro destinazione
assolva finalità di interesse pubblico (tra l'altro, è stato
affermato che anche le strutture alberghiere rientrano fra
gli impianti di interesse pubblico).
---------------
Il permesso di costruire in deroga di cui all’art. 14 del
d.p.r. n. 380/2001 non è un atto dovuto a fronte della
realizzazione di opere di interesse pubblico, ma costituisce
un provvedimento discrezionale, emanato all’esito di una
comparazione dell’interesse alla realizzazione (o al
mantenimento dell’opera) con ulteriori interessi, come
quelli urbanistici, edilizi, paesistici e ambientali.
Come affermato dalla giurisprudenza amministrativa, gli immobili di
interesse pubblico possono anche essere di proprietà
privata, purché la loro destinazione assolva finalità di
interesse pubblico (cfr. Cons. St., IV, n. 7031/2005, in cui
si chiarisce che anche le strutture alberghiere rientrano
fra gli impianti di interesse pubblico).
Il permesso di costruire in deroga di cui all’art. 14 del
d.p.r. n. 380/2001 non è un atto dovuto a fronte della
realizzazione di opere di interesse pubblico, ma costituisce
un provvedimento discrezionale, emanato all’esito di una
comparazione dell’interesse alla realizzazione (o al
mantenimento dell’opera) con ulteriori interessi, come
quelli urbanistici, edilizi, paesistici e ambientali (cfr.
Cons. St., n. 4568/2003) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 11.03.2011 n. 375 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Deve smentirsi
l’affermazione circa la presunta inderogabilità assoluta
della distanza minima di 10 m. tra fabbricati di nuova
costruzione, prevista per le Zone omogenee diverse da quella
A.
Come noto, l’ordinamento statale consente deroghe alle
distanze minime con normative locali, purché siffatte
deroghe siano previste in strumenti urbanistici funzionali
ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone
del territorio.
Tali principi si ricavano dall’art. 873 c.c. e dall’ultimo
comma dell’art. 9, d.m. n. 1444 del 1968 emesso ai sensi
dell’art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1941, avente
efficacia precettiva ed inderogabile, secondo un consolidato
indirizzo giurisprudenziale.
In primo luogo deve smentirsi l’affermazione circa la presunta
inderogabilità assoluta della distanza minima di 10 m. tra
fabbricati di nuova costruzione, prevista per le Zone
omogenee diverse da quella A.
Come noto, l’ordinamento statale consente deroghe alle
distanze minime con normative locali, purché siffatte
deroghe siano previste in strumenti urbanistici funzionali
ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone
del territorio.
Tali principi si ricavano dall’art. 873 c.c.
e dall’ultimo comma dell’art. 9, d.m. n. 1444 del 1968
emesso ai sensi dell’art. 41-quinquies della l. n. 1150 del
1941, avente efficacia precettiva ed inderogabile, secondo
un consolidato indirizzo giurisprudenziale (cfr. Corte
cost., 16.06.2005, n. 232; Cass., sez. un., 22.11.1994, n.
9871) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.03.2007 n. 1206 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le norme in materia di
concessioni edilizie in deroga devono essere interpretate
restrittivamente, e cioè nel senso:
• che le deroghe al p.r.g. non possono travolgere le
esigenze di ordine urbanistico a suo tempo recepite nel
piano;
• e che non possono costituire oggetto di deroga le
destinazioni di zona che attengono all'impostazione stessa
del piano regolatore generale e ne costituiscono le norme
direttrici, cosicché rientrano tra le prescrizioni
derogabili solo le norme di dettaglio, che non involgono i
criteri di impostazione e le linee direttrici dello
strumento urbanistico.
---------------
L'adozione di un provvedimento concessorio "in deroga"
presuppone una congrua valutazione comparativa tra le
"eccezionali" ragioni che potrebbero giustificare la deroga
e la situazione di diritto e di fatto sulla quale il
provvedimento verrebbe ad incidere. Di tale valutazione deve
adeguatamente darsi atto nella motivazione del
provvedimento.
Nel caso di specie tale congrua motivazione difetta
palesemente, essendosi il Consiglio Comunale limitato ad
osservare che <la domanda di concessione edilizia ha per
oggetto … la realizzazione di una pista di Kart fuoristrada,
struttura idonea a favorire la promozione di attività
sportivo-ricreative e pertanto di un’opera “di interesse
qualificato dalla sua rispondenza ai fini perseguiti
dall’Amministrazione Pubblica>, laddove, era, viceversa
richiesta una specifica giustificazione in ordine
all’effettiva finalità pubblicistica non già di un consueto
impianto sportivo, bensì di una così particolare struttura
ricreativo-sportiva.
Invero, come ancora correttamente rilevato dalla citata memoria
conclusiva, le norme in materia di concessioni edilizie in
deroga devono essere interpretate restrittivamente, e cioè
nel senso:
• che le deroghe al p.r.g. non possono travolgere le
esigenze di ordine urbanistico a suo tempo recepite nel
piano;
• e che (diversamente da quanto opinato nelle premesse della
deliberazione consiliare n. 23/2002, sulla scorta del
richiamo a risalenti pronunce giurisprudenziali) non possono
costituire oggetto di deroga le destinazioni di zona che
attengono all'impostazione stessa del piano regolatore
generale e ne costituiscono le norme direttrici (cfr. da
ultimo: TAR Lombardia, Milano, sez. II, 20.12.2004,
n. 6486), cosicché rientrano tra le prescrizioni derogabili
solo le norme di dettaglio, che non involgono i criteri di
impostazione e le linee direttrici dello strumento
urbanistico (Consiglio di Stato, Sez. V, 05.11.1999, n.
1841; Sez. IV, 01.07.1997, n. 1057).
---------------
Costituisce,
infatti, principio pacifico in giurisprudenza che l'adozione
di un provvedimento concessorio "in deroga" presuppone una
congrua valutazione comparativa tra le "eccezionali" ragioni
che potrebbero giustificare la deroga e la situazione di
diritto e di fatto sulla quale il provvedimento verrebbe ad
incidere; e che di tale valutazione deve adeguatamente darsi
atto nella motivazione del provvedimento (Consiglio Stato,
sez. V, 03.02.1997, n. 132, richiamata anche da parte
ricorrente): principio recentemente ribadito dallo stesso
Consiglio di Stato (Sez. V, 28.06.2004, n. 4759), con
riferimento al rilascio di una concessione in deroga al
regime delle distanze come disciplinato dal p.r.g..
Orbene, nel caso di specie tale congrua motivazione difetta
palesemente, essendosi il Consiglio Comunale limitato ad
osservare che <la domanda di concessione edilizia ha per
oggetto … la realizzazione di una pista di Kart fuoristrada,
struttura idonea a favorire la promozione di attività
sportivo-ricreative e pertanto di un’opera “di interesse
qualificato dalla sua rispondenza ai fini perseguiti
dall’Amministrazione Pubblica>, laddove, era, viceversa
richiesta una specifica giustificazione in ordine
all’effettiva finalità pubblicistica non già di un consueto
impianto sportivo, bensì di una così particolare struttura ricreativo-sportiva
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 21.06.2006 n. 875 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La possibilità di rilasciare permessi di
costruire in deroga anche ai limiti di densità edilizia,
quando l’intervento corrisponda ad un interesse pubblico, è
stata espressamente confermata dall’art. 14 del t.u.
approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380, senza, però, la
limitazione alle sole ipotesi espressamente previste dal
piano regolatore e dal regolamento edilizio, come a suo
tempo stabilito dall’abrogato art. 41-quater della legge
urbanistica n. 1150/1942, e questa nuova previsione del
testo unico prevale, ai sensi del relativo l’art. 2, III
comma, anche sulle norme regionali sino a quando non saranno
ad esso adeguate.
Orbene, proprio perché il permesso di costruire in deroga
agli strumenti urbanistici vigenti è subordinata ad un
discrezionale apprezzamento dell’interesse pubblico che ne
giustifica il rilascio, è evidente che la sua valutazione
attiene al merito amministrativo.
E’ noto, però, che il merito amministrativo non è
sindacabile dal Giudice amministrativo, se non per manifesta
erroneità o illogicità, che, ad avviso del Collegio, non
sono affatto ravvisabili nel caso in esame: infatti, non è
affatto di per sé illogico o manifestamente erroneo
ravvisare un effettivo interesse generale della collettività
a che siano incrementati i servizi svolti anche da soggetti
privati nell’ambito di una zona portuale di notoria
rilevanza nazionale e internazionale.
Sussistono, inoltre, ad avviso del Collegio, anche i
presupposti indicati nell’art. 11, I comma, della legge n.
241/1990, per l’adozione di un accordo sostitutivo del
formale provvedimento altrimenti necessario, cioè la sua
discrezionalità e la contemporanea presenza, appunto, di un
interesse pubblico.
Dall’esame della deliberazione 27.10.2004 n. 132 del
Consiglio comunale di Ancona e dell’allegato schema di
convenzione, deduce il Collegio che, in sostanza, il Comune
di Ancona ha inteso rilasciare –tramite, appunto, accodo
sostitutivo del formale provvedimento amministrativo ai
sensi dell’art. 11 della legge n. 241/1990- un permesso di
costruire “temporaneo” ed in “deroga” -anche
se questa ultima espressione non è espressamente menzionata
negli atti sopra indicati– ritenendo ciò possibile per due
distinti motivi, cioè l’interesse pubblico insito nella
realizzazione del progetto, in quanto diretto ad
incrementare i servizi svolti nell’ambito dell’area
portuale, e la sua conformità alle previsioni del piano
particolareggiato esecutivo del Porto, allo stato solo
adottato.
La possibilità di rilasciare permessi di costruire in deroga
anche ai limiti di densità edilizia, quando l’intervento
corrisponda ad un interesse pubblico, è stata, infatti,
espressamente confermata dall’art. 14 del t.u. approvato con
D.P.R. 06.06.2001 n. 380, senza, però, la limitazione alle
sole ipotesi espressamente previste dal piano regolatore e
dal regolamento edilizio, come a suo tempo stabilito
dall’abrogato art. 41-quater della legge urbanistica n.
1150/1942, e questa nuova previsione del testo unico
prevale, ai sensi del relativo l’art. 2, III comma, anche
sulle norme regionali sino a quando non saranno ad esso
adeguate.
Orbene, proprio perché il permesso di costruire in deroga
agli strumenti urbanistici vigenti è subordinata ad un
discrezionale apprezzamento dell’interesse pubblico che ne
giustifica il rilascio, è evidente che la sua valutazione
attiene al merito amministrativo.
E’ noto, però, che il merito amministrativo non è
sindacabile dal Giudice amministrativo, se non per manifesta
erroneità o illogicità, che, ad avviso del Collegio, non
sono affatto ravvisabili nel caso in esame: infatti, non è
affatto di per sé illogico o manifestamente erroneo
ravvisare un effettivo interesse generale della collettività
a che siano incrementati i servizi svolti anche da soggetti
privati nell’ambito di una zona portuale di notoria
rilevanza nazionale e internazionale.
Sussistono, inoltre, ad avviso del Collegio, anche i
presupposti indicati nell’art. 11, I comma, della legge n.
241/1990, per l’adozione di un accordo sostitutivo del
formale provvedimento altrimenti necessario, cioè la sua
discrezionalità e la contemporanea presenza, appunto, di un
interesse pubblico.
Per altro verso, neppure sussiste l’impedimento del
pregiudizio ai diritti dei terzi, in quanto questi diritti
–proprio perché si tratta di accordo sostitutivo di uno
specifico provvedimento amministrativo- sono quelli
strettamente connessi alla natura ed alle finalità del
permesso di costruire, cioè quelli derivanti dalla piena
disponibilità dell’area da parte del richiedente e, di
contro, dall’assenza di eventuali limitazioni a favore di
terzi e sulla stessa gravanti.
Del resto, ipotizzare che ogni pregiudizio, anche indiretto,
possa impedire l’utilizzo dell’accordo sostitutivo di un
provvedimento amministrativo, comporta, di fatto, la sua
inutilità pratica, dal momento che ogni atto amministrativo
arreca, in linea di principio, dei vantaggi per alcuni
soggetti e dei pregiudizi per altri soggetti (TAR Marche,
sentenza 14.06.2006 n. 441 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Sotto
il profilo formale, il rilasciato titolo edilizio "in
deroga" difetta di idonea motivazione.
Trattandosi, invero, di determinazione in deroga rispetto al
regime ordinario di PRG, la stessa avrebbe dovuto essere
adeguatamente motivata; non si verte più, infatti, al
contrario di quanto dedotto dagli appellati, in tema di atto
vincolato, ma, al contrario, di provvedimento caratterizzato
proprio dalla più ampia discrezionalità (come osservato dal
Comune nelle proprie difese, esso poggerebbe, in effetti, su
valutazioni discrezionali e di opportunità; salvo, poi,
nelle stesse difese affermarsi che, trattandosi di atto
vincolato, lo stesso non avrebbe richiesto motivazione
alcuna; ma, se si tratta di atto in deroga basato su scelte
discrezionali, non può, poi, logicamente parlarsi di
vincolatezza dell’atto medesimo).
Per ciò stesso, tale provvedimento -anche in quanto
manifestamente in grado di incidere sugli interessi di altri
consociati che, nelle norme sulle distanze, vedono legittimi
strumenti di tutela sia sotto il profilo di un dignitoso
assetto urbanistico, sia sotto quello della tutela
dell’incolumità in zona sismica, sia sotto quello, pure
sotteso alla disciplina pianificatoria urbanistica, della
tutela igienico-sanitaria- avrebbe richiesto una specifica e
puntuale motivazione circa le ragioni giustificatrici della
deroga e della prevalenza, in particolare, delle
considerazioni relative alla coerenza del tessuto urbano
sulle altre ora dette.
Ragioni che, si ripete, avrebbero dovuto estendersi anche a
considerare l’interesse di quei soggetti, protetti e
tutelati dalla disciplina sulle distanze, che il
provvedimento stesso era in grado di sacrificare; soggetti
che, anche tenuto conto dei principi enucleabili dalla legge
n. 241/1990, avrebbero dovuto, quanto meno, poter conoscere,
attraverso idonea motivazione dell’atto discrezionale
impugnato, le ragioni specifiche poste a supporto di una
deroga siffatta e tali da consentire il legittimo sacrificio
dell’interesse tutelato ora detto.
Il provvedimento impugnato, per contro, si limita ad
esprimere “parere favorevole in quanto la proposta
progettuale rispecchia la caratteristica edilizia ed
urbanistica della zona”, laddove, dagli atti istruttori
allegati alla pratica edilizia, emergeva chiaramente –e la
questione era espressamente rimessa alle valutazioni della
Commissione edilizia– la problematica relativa al mancato
rispetto delle distanze dalle strade comunali; per converso,
non affronta assolutamente la tematica relativa alle
posizioni tutelate di altri soggetti e, in particolare,
all’eventuale presenza in loco di luci o vedute che, data la
notevole ristrettezza del vico comunale, sarebbero state, se
direttamente prospicienti, sicuramente sacrificate.
Nel difetto di ogni valida motivazione sul punto in
questione, il provvedimento appare, per ciò stesso,
illegittimo, non potendo, comunque, la motivazione medesima
essere integrata in sede defensionale, né, tanto meno, dal
giudice chiamato a pronunciarsi sulla controversia insorta
in proposito.
---------------
Sotto il profilo sostanziale, vi è da rilevare che le
concessioni in deroga possono essere accordate in casi
eccezionali ai sensi del disposto di cui all’art. 41-quater
della L.U. n. 1150/1942, secondo cui: “i poteri di deroga
previsti da norme di piano regolatore e di regolamento
edilizio possono essere esercitati limitatamente ai casi di
edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico e
sempre con l'osservanza dell'art. 3 della legge 21.12.1955, n. 1357. L’autorizzazione è accordata dal sindaco
previa deliberazione del Consiglio comunale”.
Ebbene, nella specie non solo i poteri di deroga non sono
contemplati dalla norma di PRG, ma la deroga non consegue
neppure a delibera consiliare.
Ritenere, poi, che la deroga sia ammissibile
in quanto si tratterebbe, nella specie, di intervento
edilizio del tutto residuale in un ambito edilizio già
completamente asservito all’edificazione, appare conclusione
non corretta, sia perché non sorretta da alcun argomento
normativo testuale, sia perché si rivela contraria ad
elementari principi della logica e del diritto urbanistico,
posto che in tal modo il Comune verrebbe a consentire il
libero svolgimento di un’attività edificatoria svincolata da
qualunque limite o indice che non sia quello di ordine
estetico dell’allineamento dei fabbricati, con intuibili
effetti devastanti sul corretto assetto dell’insediamento
abitativo.
E ciò non senza considerare, inoltre, che l'articolo 3,
primo comma, della legge 21.12.1955, n. 1357, prevede
che: "il rilascio di licenza edilizia in applicazione di
disposizioni le quali consentono ai Comuni di derogare alle
norme di regolamento edilizio e di attuazione dei piani
regolatori è subordinato al preventivo nulla osta della
Sezione urbanistica regionale….”; e che nella specie non vi
è stata alcuna richiesta in tal senso.
Ma vi è anche da notare che l’art. 19 delle NTA del PRG non
prevede la possibilità di derogare alle altre disposizioni
ivi contenute, se è vero che esso stesso disciplina le
distanze dai fabbricati, senza alcun riferimento, per
queste, a possibili deroghe; e che, laddove prevede che, in
margine allo spazio pubblico, la costruzione di edifici di
tipo a cortina (che non rientrano nelle ordinarie
caratteristiche di zona, che è caratterizzata da edifici
isolati) può essere consentita, ciò fa recando deroga solo
per quanto attiene alla distanza dalla strada pubblica o dai
confini di proprietà, ma non da altri edifici, ancorché da
quella separati; e, inoltre, lo fa solo ai fini del
“completamento del contorno di un isolato prevalentemente
costruito in tal modo, per evitare l’esposizione di muri
nudi di frontespizio”, laddove, nel caso in esame, l’isolato
di cui si tratta si estendeva per una lunghezza di circa mt.
32, ma era occupato per una lunghezza di soli mt. 14 e,
quindi, non poteva logicamente parlarsi di completamento di
un isolato già prevalentemente costruito a cortina, dal
momento che l’isolato stesso era, in prevalenza almeno,
inedificato.
La norma, in conclusione, vale a consentire, essenzialmente,
di derogare alla tipologia edilizia di zona, individuata
espressamente nell’edilizia a tipo aperto ad edifici
isolati, risolti architettonicamente su tutte le fronti,
consentendo, così, di realizzare il completamento di edifici
a cortina anche in margine allo spazio pubblico; e se,
quindi, consente di derogare alla disciplina relativa alle
distanze dal ciglio stradale e dai confini di proprietà, non
altrettanto fa, invece, con riguardo alla disciplina sulle
distanze rispetto ad altri fabbricati che, nel caso di
completamento edilizio, è di mt. 12, mentre in caso di
ristrutturazione è di mt. 14.
Né, in contrario, può essere utilmente invocato l’art. 31
del locale regolamento edilizio, che consente l’allineamento
con riguardo alle nuove costruzioni previste in aderenza con
il suolo pubblico; si tratta, infatti, di una disposizione
di carattere generale in grado di operare fino a che non si
scontri con altre disposizioni con essa incompatibili, quali
quelle di cui si discute; la norma, del resto, appare
conforme alla disciplina di PRG sugli edifici a cortina, il
cui completamento può avvenire anche lungo la strada
pubblica e in deroga, dallo stesso PRG ammessa, alla
disciplina sulle distanze dalla strada e dai confini, ma
non, come si ripete, alla disciplina sulle distanze da altri
fabbricati.
Con la sentenza appellata il TAR ha respinto il ricorso
proposto dall’odierna appellante per l’annullamento della
concessione edilizia 26.01.1995, n. 16, rilasciata al
controinteressato, sig. M.B., dal Comune di Reggio
Calabria, per la realizzazione di un edificio di civile
abitazione in località Gallico.
Per l’appellante la sentenza sarebbe erronea in quanto il
titolo edificatorio sarebbe stato rilasciato in dispregio
della disciplina urbanistica di zona e di disposizioni
normative che non avrebbero ammesso, contrariamente a quanto
ritenuto dai primi giudici, il rilascio di concessione in
deroga; inoltre, il titolo in questione, pur derogatorio,
non sarebbe stato accompagnato da alcuna valida motivazione.
...
4) - Nel merito, deduce, anzitutto, l’appellante che non
sarebbero affatto sussistiti i requisiti per accordare la
concessione in regime derogatorio e che, comunque,
l’Amministrazione non avrebbe offerto alcuna valida
motivazione in merito alle ragioni che supportavano la
deroga stessa.
Tali censure appaiono fondate.
Lo stesso TAR, con capo di decisione che non è stato fatto
oggetto di gravame incidentale da parte del Comune e del
controinteressato, ha riconosciuto che, effettivamente,
nella specie si sia derogato al regime delle distanze, così
come disciplinato dal PRG con riguardo alla zona in
questione (pag. 11 della sentenza appellata: “deve, inoltre,
evidenziarsi come la questione sottoposta al Collegio –stante la difformità della costruzione assentita dalle
prescrizioni di cui all’art. 19 delle NTA relative alle
distanze da osservarsi sia con riguardo agli interventi di
completamento edilizio, sia di ristrutturazione– coinvolge
l’esame della problematica relativa alla possibilità di
rilascio di concessioni edilizie in deroga a dette
prescrizioni in relazione alle caratteristiche urbanistiche
ed edilizie già impresse alla zona sulla quale va ad
incidere l’erigenda costruzione”).
Per tale ragione, essendo mancato ogni motivo d’appello
incidentale volto a sindacare il riconoscimento, da parte
dei primi giudici (in adesione a quanto dedotto dalla
ricorrente con il primo motivo dell’originario ricorso),
della violazione del disposto sulle distanze di cui all’art.
19 del PRG, ne discende che sulla violazione di tale norma
da parte del Comune, in sede di rilascio del titolo
concessorio, non è più possibile discutere.
5) - Il discorso si sposta, allora, sulla legittimità della
deroga posta a fondamento del provvedimento impugnato.
Ad avviso del Collegio, il rilascio della concessione in
deroga appare viziato sia sotto il profilo formale che sotto
quello sostanziale.
5.1) - Sotto il profilo formale, il titolo in questione
difetta di idonea motivazione.
Trattandosi, invero, di determinazione in deroga rispetto al
regime ordinario di PRG, la stessa avrebbe dovuto essere
adeguatamente motivata; non si verte più, infatti, al
contrario di quanto dedotto dagli appellati, in tema di atto
vincolato, ma, al contrario, di provvedimento caratterizzato
proprio dalla più ampia discrezionalità (come osservato dal
Comune nelle proprie difese, esso poggerebbe, in effetti, su
valutazioni discrezionali e di opportunità; salvo, poi,
nelle stesse difese affermarsi che, trattandosi di atto
vincolato, lo stesso non avrebbe richiesto motivazione
alcuna; ma, se si tratta di atto in deroga basato su scelte
discrezionali, non può, poi, logicamente parlarsi di
vincolatezza dell’atto medesimo).
Per ciò stesso, tale provvedimento -anche in quanto
manifestamente in grado di incidere sugli interessi di altri
consociati che, nelle norme sulle distanze, vedono legittimi
strumenti di tutela sia sotto il profilo di un dignitoso
assetto urbanistico, sia sotto quello della tutela
dell’incolumità in zona sismica, sia sotto quello, pure
sotteso alla disciplina pianificatoria urbanistica, della
tutela igienico-sanitaria- avrebbe richiesto una specifica
e puntuale motivazione circa le ragioni giustificatrici
della deroga e della prevalenza, in particolare, delle
considerazioni relative alla coerenza del tessuto urbano
sulle altre ora dette.
Ragioni che, si ripete, avrebbero dovuto estendersi anche a
considerare l’interesse di quei soggetti, protetti e
tutelati dalla disciplina sulle distanze, che il
provvedimento stesso era in grado di sacrificare; soggetti
che, anche tenuto conto dei principi enucleabili dalla legge
n. 241/1990, avrebbero dovuto, quanto meno, poter conoscere,
attraverso idonea motivazione dell’atto discrezionale
impugnato, le ragioni specifiche poste a supporto di una
deroga siffatta e tali da consentire il legittimo sacrificio
dell’interesse tutelato ora detto.
Il provvedimento impugnato, per contro, si limita ad
esprimere “parere favorevole in quanto la proposta
progettuale rispecchia la caratteristica edilizia ed
urbanistica della zona”, laddove, dagli atti istruttori
allegati alla pratica edilizia, emergeva chiaramente –e la
questione era espressamente rimessa alle valutazioni della
Commissione edilizia– la problematica relativa al mancato
rispetto delle distanze dalle strade comunali; per converso,
non affronta assolutamente la tematica relativa alle
posizioni tutelate di altri soggetti e, in particolare,
all’eventuale presenza in loco di luci o vedute che, data la
notevole ristrettezza del vico comunale, sarebbero state, se
direttamente prospicienti, sicuramente sacrificate.
Nel difetto di ogni valida motivazione sul punto in
questione, il provvedimento appare, per ciò stesso,
illegittimo, non potendo, comunque, la motivazione medesima
essere integrata in sede defensionale, né, tanto meno, dal
giudice chiamato a pronunciarsi sulla controversia insorta
in proposito.
5.2) – Sotto il profilo sostanziale, vi è da rilevare che le
concessioni in deroga possono essere accordate in casi
eccezionali ai sensi del disposto di cui all’art. 41-quater
della L.U. n. 1150/1942, secondo cui: “i poteri di deroga
previsti da norme di piano regolatore e di regolamento
edilizio possono essere esercitati limitatamente ai casi di
edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico e
sempre con l'osservanza dell'art. 3 della legge 21.12.1955, n. 1357. L’autorizzazione è accordata dal sindaco
previa deliberazione del Consiglio comunale”.
Ebbene, nella specie non solo i poteri di deroga non sono
contemplati dalla norma di PRG, ma la deroga non consegue
neppure a delibera consiliare.
Ritenere, poi, come fa il TAR, che la deroga sia ammissibile
in quanto si tratterebbe, nella specie, di intervento
edilizio del tutto residuale in un ambito edilizio già
completamente asservito all’edificazione, appare conclusione
non corretta, sia perché non sorretta da alcun argomento
normativo testuale, sia perché si rivela contraria ad
elementari principi della logica e del diritto urbanistico,
posto che in tal modo il Comune verrebbe a consentire il
libero svolgimento di un’attività edificatoria svincolata da
qualunque limite o indice che non sia quello di ordine
estetico dell’allineamento dei fabbricati, con intuibili
effetti devastanti sul corretto assetto dell’insediamento
abitativo (cfr. la decisione della Sezione 30.09.2002
n. 5059).
E ciò non senza considerare, inoltre, che l'articolo 3,
primo comma, della legge 21.12.1955, n. 1357, prevede
che: "il rilascio di licenza edilizia in applicazione di
disposizioni le quali consentono ai Comuni di derogare alle
norme di regolamento edilizio e di attuazione dei piani
regolatori è subordinato al preventivo nulla osta della
Sezione urbanistica regionale….”; e che nella specie non vi
è stata alcuna richiesta in tal senso (in punto di
illegittimità della deroga in carenza di acquisizione del
detto N.O., cfr. la decisione della Sezione 20.06.2001,
n. 3254).
Ma vi è anche da notare che l’art. 19 delle NTA del PRG non
prevede la possibilità di derogare alle altre disposizioni
ivi contenute, se è vero che esso stesso disciplina le
distanze dai fabbricati, senza alcun riferimento, per
queste, a possibili deroghe; e che, laddove prevede che, in
margine allo spazio pubblico, la costruzione di edifici di
tipo a cortina (che non rientrano nelle ordinarie
caratteristiche di zona, che è caratterizzata da edifici
isolati) può essere consentita, ciò fa recando deroga solo
per quanto attiene alla distanza dalla strada pubblica o dai
confini di proprietà, ma non da altri edifici, ancorché da
quella separati; e, inoltre, lo fa solo ai fini del
“completamento del contorno di un isolato prevalentemente
costruito in tal modo, per evitare l’esposizione di muri
nudi di frontespizio”, laddove, nel caso in esame, l’isolato
di cui si tratta si estendeva per una lunghezza di circa mt.
32, ma era occupato per una lunghezza di soli mt. 14 e,
quindi, non poteva logicamente parlarsi di completamento di
un isolato già prevalentemente costruito a cortina, dal
momento che l’isolato stesso era, in prevalenza almeno,
inedificato.
La norma, in conclusione, vale a consentire, essenzialmente,
di derogare alla tipologia edilizia di zona, individuata
espressamente nell’edilizia a tipo aperto ad edifici
isolati, risolti architettonicamente su tutte le fronti,
consentendo, così, di realizzare il completamento di edifici
a cortina anche in margine allo spazio pubblico; e se,
quindi, consente di derogare alla disciplina relativa alle
distanze dal ciglio stradale e dai confini di proprietà, non
altrettanto fa, invece, con riguardo alla disciplina sulle
distanze rispetto ad altri fabbricati che, nel caso di
completamento edilizio, è di mt. 12, mentre in caso di
ristrutturazione è di mt. 14.
Né, in contrario, può essere utilmente invocato l’art. 31
del locale regolamento edilizio, che consente l’allineamento
con riguardo alle nuove costruzioni previste in aderenza con
il suolo pubblico; si tratta, infatti, di una disposizione
di carattere generale in grado di operare fino a che non si
scontri con altre disposizioni con essa incompatibili, quali
quelle di cui si discute; la norma, del resto, appare
conforme alla disciplina di PRG sugli edifici a cortina, il
cui completamento può avvenire anche lungo la strada
pubblica e in deroga, dallo stesso PRG ammessa, alla
disciplina sulle distanze dalla strada e dai confini, ma
non, come si ripete, alla disciplina sulle distanze da altri
fabbricati.
6) – Come deduce l’appellante, la concessione edilizia in
esame è illegittima anche per violazione del disposto di cui
all’art. 9 del D.M. 02.04.1968, secondo cui: “le distanze
minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali
omogenee sono stabilite come segue:…….2) - nuovi edifici
ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la
distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti……..Le distanze minime tra
fabbricati -tra i quali siano interposte strade destinate
al traffico dei veicoli-.…….debbono corrispondere alla
larghezza della sede stradale maggiorata di: ml. 5 per lato,
per strade di larghezza inferiore a ml. 7…….”.
Ebbene, è vero, come rilevato dal TAR, che si tratta di
disciplina che si applica ai nuovi piani regolatori generali
e relativi piani particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate; non di meno, una volta recepita, come nella
specie, nello strumento pianificatorio, essa viene a far
parte integrante dello stesso e, come tale, non può essere
derogata.
È anche vero, come osservato dal controinteressato nelle
proprie difese, che, ai sensi dell’ultimo comma del citato
art. 9, “sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate
nei precedenti commi nel caso di gruppi di edifici che
formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate con previsioni planovolumetriche”; ma tale
facoltà derogatoria, proprio per il carattere di
eccezionalità e, quindi, di stretta interpretazione della
norma, può essere esercitata solo in tali limitate
fattispecie (e proprio in stretta relazione al fatto che la
pianificazione di dettaglio può, eccezionalmente,
consentire, sulla base di un supporto logico-giuridico
adeguato, soluzioni differenti), mentre non può esserne
estesa l’operatività anche ad altre e differenti ipotesi
che, di fatto, verrebbero a sfuggire illogicamente ad ogni
forma pianificatoria.
Può anche convenirsi, con il controinteressato, nel ritenere
che, in presenza di interventi edilizi ricadenti in zone già
ampiamente urbanizzate può, entro certi limiti e a
determinate condizioni, eccezionalmente conseguirsi il
rilascio del singolo titolo concessorio anche nell’ipotesi
in cui, per la zona stessa, sarebbe richiesta l’approvazione
del previo strumento attuativo; ciò, però, non significa
affatto che quelle zone debbano, per ciò stesso, ritenersi
in tutto e per tutto parificate a quelle dotate di strumento
attuativo, così da ammettere la deroga al regime delle
distanze perché, al contrario, la disciplina eccezionale di
cui si discute postula proprio la presenza concreta dello
strumento attuativo.
E, del resto, sarebbe del tutto illogica e incongruente la
possibilità di cumulare il regime che ammette la deroga alla
disciplina sulle distanze -in quanto intimamente correlata,
questa, alla presenza dello strumento attuativo che, in
determinati contesti può, per ragioni connesse alle
caratteristiche dei luoghi, prevedere distanze minori
rispetto a quelle indicate dal citato D.M. del 1968– con
l’ulteriore regime derogatorio che consente, nelle zone per
le quali è espressamente prevista, dal PRG, la redazione
dello strumento attuativo, l’eccezionale realizzazione di
edifici anche in presenza di concessione singola, al di
fuori dello strumento pianificatorio di dettaglio; in tal
caso, infatti, la zona in questione verrebbe, in realtà, ad
essere privata di ogni supporto normativo posto a tutela di
un ordinato assetto urbanistico con specifico riferimento,
almeno per quanto qui interessa, al regime sulle distanze.
8) - Per tali motivi l’appello in epigrafe appare fondato e
va accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza
appellata e in accoglimento del ricorso di primo grado, deve
essere annullata la concessione edilizia in quella sede
impugnata
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 28.06.2004 n. 4759 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla questione se gli
alberghi siano o meno qualificabili come opere di interesse
pubblico risulta ad oggi risolta in maniera oscillante e non
univoca dalla giurisprudenza soprattutto a proposito
dell’ammissibilità della concessione edilizia in deroga
(ammessa per gli impianti e edifici pubblici o di interesse
pubblico).
Anche a voler qualificare gli alberghi, in via di mera
ipotesi, come opere di interesse pubblico, tale
qualificazione non crea alcun obbligo, per
l’amministrazione, né di rilasciare la concessione edilizia
in deroga, né di adottare una variante dello strumento
urbanistico.
Invero, sia la concessione in deroga, sia la variante dello
strumento urbanistico, non sono atti dovuti a fronte di
opere di interesse pubblico, ma sono oggetto di poteri
discrezionali, che devono comparare l’interesse alla
realizzazione dell’opera di interesse pubblico con
molteplici altri interessi, quali quello urbanistico,
edilizio, paesistico, ambientale.
---------------
L'art. 41-quater della legge 17.08.1942 n. 1150 e l'art. 3
della legge 21.12.1957 n. 1357, che disciplinano la
possibilità di rilasciare concessioni edilizie in deroga ai
piani regolatori ed alle norme di regolamento edilizio,
vanno interpretati restrittivamente, nel senso che tali
deroghe non possono travolgere le esigenze di ordine
urbanistico a suo tempo recepite nel piano.
Ne consegue che non possono costituire oggetto di deroga le
destinazioni di zona che attengono all'impostazione stessa
del piano regolatore generale e ne costituiscono le norme
direttrici.
Ora, si veda espressamente, l’art. 14, t.u. edilizia secondo
cui il permesso di costruire in deroga è ammissibile solo se
la deroga riguardi i limiti di densità edilizia, di altezza
e di distanza tra i fabbricati.
Si può prescindere dalla questione se gli alberghi
siano o meno qualificabili come opere di interesse pubblico,
risolta sinora in maniera oscillante e non univoca dalla
giurisprudenza soprattutto a proposito dell’ammissibilità
della concessione edilizia in deroga (ammessa per gli
impianti e edifici pubblici o di interesse pubblico) in
senso negativo, v.:
● Cass., VI, 26.03.1999: <<La
ristrutturazione di un albergo non rientra fra le opere
pubbliche o di interesse pubblico per le quali, ai sensi
dell’art. 1, 1º comma, lett. l), d.l. 04.11.1988 n. 465, conv. con modif. in l. 30.12.1988 n. 556, la
dichiarazione di compatibilità con i vincoli ambientali e
con gli strumenti urbanistici, ai fini dell’ottenimento del
contributo finanziario dello Stato, può essere sostituita da
una deliberazione del consiglio comunale, adottata ai sensi
dell’art. 1, 4º comma, l. 03.01.1978 n. 1>>.
● C. Stato, sez. V, 11.12.1992, n.1428: <<Ai sensi
dell’art. 30 l.reg. Puglia 31.05.1980 n. 56, la
concessione edilizia in deroga può essere rilasciata
«limitatamente ai casi di edifici ed impianti pubblici o di
interesse pubblico», tra i quali non può includersi un
albergo, atteso che l’espressione impianti «di interesse
pubblico», deve essere interpretata in senso restrittivo,
facendovi rientrare solo quegli interventi che, seppure
eseguiti da privati, corrispondono a compiti assunti
direttamente dalla p.a. (quali, per esempio, la
realizzazione di una strada o di un acquedotto)>>.
● C. Stato, sez. V, 25.11.1988, n.774: <<In forza
dell’art.41-quarter, l. 17.08.1942, n. 1150, introdotto
con l’art. 16, l. 06.08.1967, n. 765, la deroga alle norme
del piano regolatore generale o del regolamento edilizio,
può essere esercitata «limitatamente ai casi di edifici ed
impianti pubblici o d’interesse pubblico» e non anche per
l’ampliamento di un edificio privato con destinazione
alberghiera pur se situato in una zona turistica (nella
specie, si è ritenuto che l’interesse turistico ad una
maggiore ricettività alberghiera non potesse essere
preminente rispetto a quello configurato dalle norme del
regolamento edilizio>>.
In senso affermativo v.:
● C. Stato, sez. IV, 28.10.1999,
n. 1641 e C. Stato, sez. V, 15.07.1998, n. 1044:
<<L’ampliamento di una struttura alberghiera rientra fra gli
impianti di interesse pubblico per i quali è consentito il
rilascio di concessione edilizia in deroga ai sensi
dell’art. 41-quater l. 17.08.1942 n. 1150>>.
● C. Stato, sez. V, 10.11.1992, n. 1257: <<La costruzione
da adibire ad esercizio di affittacamere, è annoverabile
nell’ambito degli edifici di interesse pubblico, avuto
riguardo alla sua natura alberghiera, per cui ben può godere
del beneficio previsto dall’art. 80 l.reg. Veneto 27.06.1985 n. 61 (concessione in deroga alle norme e previsioni
nello stesso indicate)>>.
● C. Stato, sez. IV,
06.10.1983, n. 700: <<Ai sensi
dell’art. 16 l. 06.08.1967, n.765, per la qualificazione
di edifici ed impianti di interesse pubblico, occorre avere
riguardo all’interesse pubblico, inteso nella sua accezione
tecnico-giuridica come tipico, qualificato per la sua
corrispondenza agli scopi perseguiti dall’amministrazione, a
prescindere dalla qualità pubblica o privata dei soggetti
che realizzano la costruzione: rientra pertanto nella
previsione dell’art. 16 l’edificio alberghiero che, per le
sue strutture, realizzi funzionalmente l’interesse
turistico, cui la rilevanza pubblica è strettamente
connessa>>).
Invero, anche a voler qualificare gli alberghi, in
via di mera ipotesi, come opere di interesse pubblico, tale
qualificazione non crea alcun obbligo, per
l’amministrazione, né di rilasciare la concessione edilizia
in deroga, né di adottare una variante dello strumento
urbanistico.
Invero, sia la concessione in deroga, sia la variante dello
strumento urbanistico, non sono atti dovuti a fronte di
opere di interesse pubblico, ma sono oggetto di poteri
discrezionali, che devono comparare l’interesse alla
realizzazione dell’opera di interesse pubblico con
molteplici altri interessi, quali quello urbanistico,
edilizio, paesistico, ambientale.
Sin da ora si può osservare, anche al fine dell’esame dei
motivi di ricorso relativi al difetto di motivazione degli
atti impugnati, quanto segue.
Il progetto di ampliamento e ristrutturazione
dell’albergo, nel caso di specie, era in contrasto con la
destinazione di zona dell’area secondo il vigente strumento
urbanistico del Comune di Peschici.
Sicché, non era ammissibile la concessione edilizia in
deroga, consentita dall’art. 41-quater, l. 17.08.1942,
n. 1150, per gli edifici e impianti pubblici e di interesse
pubblico, purché la deroga non riguardi le destinazioni di
zona (in tal senso C. Stato, sez. IV, 01.07.1997, n. 1057:
<<L'art. 41-quater della legge 17.08.1942 n. 1150 e
l'art. 3 della legge 21.12.1957 n. 1357, che disciplinano la
possibilità di rilasciare concessioni edilizie in deroga ai
piani regolatori ed alle norme di regolamento edilizio,
vanno interpretati restrittivamente, nel senso che tali
deroghe non possono travolgere le esigenze di ordine
urbanistico a suo tempo recepite nel piano; ne consegue che
non possono costituire oggetto di deroga le destinazioni di
zona che attengono all'impostazione stessa del piano
regolatore generale e ne costituiscono le norme direttrici>>,
e, ora, espressamente, l’art. 14, t.u. edilizia, non ancora
in vigore, ma che qui si richiama per il suo valore
esegetico, secondo cui il permesso di costruire in deroga è
ammissibile solo se la deroga riguardi i limiti di densità
edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati) (Consiglio di Stato Sez. VI,
sentenza 07.08.2003 n. 4568 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 18.03.2014 |
ã |
IN EVIDENZA |
APPALTI: Sulla
distinzione tra l’istituto delle passività pregresse
e quello del riconoscimento di debiti fuori bilancio.
Le passività
pregresse si collocano all’interno di un ordinario
procedimento di spesa (art. 183 Tuel): si tratta, infatti,
di spese per le quali l’ente locale ha proceduto a un
regolare impegno, ma che, per fatti non prevedibili, di
norma collegati alla natura della prestazione, hanno dato
luogo a un debito non assistito da idonea copertura (art.
191 Tuel), che può rilevare come mancanza o come
insufficienza dell’impegno contabile. In tal caso, l’ente
locale dovrà adottare i provvedimenti necessari al fine di
soddisfare la copertura delle passività (art. 193 Tuel).
I debiti fuori bilancio identificano, invece,
obbligazioni assunte in assenza della necessaria preventiva
assunzione dell’impegno di spesa: in sostanza, a fronte di
un’obbligazione giuridicamente valida dal punto di vista
civilistico, difetta il relativo provvedimento di impegno.
---------------
Al fine di evitare l’insorgere di
situazioni debitorie non assistite dai relativi impegni, il
legislatore ha previsto che solo in alcuni casi tassativi
tali debiti possano essere riconosciuti, attraverso il
procedimento di riconoscimento di legittimità di debiti
fuori bilancio; ciò è infatti possibile solo qualora tali
debiti derivino da:
a) sentenze esecutive;
b) copertura di disavanzi di consorzi, di aziende speciali e
di istituzioni, nei limiti degli obblighi derivanti da
statuto, convenzione o atti costitutivi, purché sia stato
rispettato l’obbligo di pareggio del bilancio di cui
all’articolo 114 ed il disavanzo derivi da fatti di
gestione;
c) ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme previste dal
codice civile o da norme speciali, di società di capitali
costituite per l’esercizio di servizi pubblici locali;
d) procedure espropriative o di occupazione d’urgenza per
opere di pubblica utilità;
e) acquisizione di beni e servizi, in violazione degli
obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell’articolo 191, nei
limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento
per l’ente, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche
funzioni e servizi di competenza (art. 194, comma 1, lett.
a)-e), Tuel).
---------------
Il sindaco del Comune di Mozzo, mediante nota n.
13176 del 19.12.2013, chiede se, a fronte di uno
stanziamento di bilancio pari ad euro 1.000,00 e ad un onere
effettivo pari ad euro 13.736,00, i maggiori esborsi
connessi all’adesione, da parte del Comune, alla società
Uniacque S.p.A., possano essere considerati quali passività
pregresse o se trovi applicazione la disciplina dei debiti
fuori bilancio ai sensi dell’art. 194 del d.lgs. n. 267/2000
(Tuel).
...
Con la richiesta di parere in premessa, il Comune di Mozzo
chiede di conoscere quale sia la corretta modalità di
contabilizzazione degli oneri da sostenere per l’adesione
del Comune alla società Uniacque S.p.A.; in particolare, se
tali oneri essi possano essere considerati quali passività
pregresse o se, invece, debba applicarsi la disciplina dei
debiti fuori bilancio di cui all'art. 194 del d.lgs. n.
267/2000 (Tuel).
Il Consiglio comunale aveva deliberato l’adesione del Comune
alla società Uniacque S.p.A. (società individuata a livello
provinciale quale unico gestore del servizio idrico
integrato) con delibera n. 43 del 19.12.2006. La quota di
partecipazione del Comune corrispondeva a 808 azioni del
valore nominale di 1 euro ciascuna, per un totale -quindi-
di 808,00 euro. In bilancio veniva allocata una somma pari a
1.000,00 euro.
Tuttavia, alla delibera consiliare non faceva seguito il
versamento del corrispettivo previsto al fine di
perfezionare l’adesione del Comune alla società, sicché la
somma di 1.000,00 euro veniva riportata a residuo.
Passati alcuni anni -ben sette-, ed essendosi verificato un
aumento del capitale sociale, ad oggi l’adesione del Comune
alla società Uniacque S.p.A. è condizionata
all’acquisizione, da parte del Comune di 13.736 azioni del
valore nominale di 1 euro ciascuna, per corrispettivo pari a
13.736,00 euro.
Al fine di valutare quale sia la disciplina applicabile e se
tali oneri possano essere considerati quali passività
pregresse o se, invece, debba applicarsi la disciplina
dei debiti fuori bilancio di cui all’art. 194 del
d.lgs. n. 267/2000 (Tuel), occorre ricordare la distinzione
tra l’istituto delle passività pregresse e quello
del riconoscimento di debiti fuori bilancio.
Le passività pregresse si collocano
all’interno di un ordinario procedimento di spesa (art. 183
Tuel): si tratta, infatti, di spese per le quali l’ente
locale ha proceduto a un regolare impegno, ma che, per fatti
non prevedibili, di norma collegati alla natura della
prestazione, hanno dato luogo a un debito non assistito da
idonea copertura (art. 191 Tuel), che può rilevare come
mancanza o come insufficienza dell’impegno contabile. In tal
caso, l’ente locale dovrà adottare i provvedimenti necessari
al fine di soddisfare la copertura delle passività (art. 193
Tuel).
I debiti fuori bilancio identificano, invece,
obbligazioni assunte in assenza della necessaria preventiva
assunzione dell’impegno di spesa: in sostanza, a fronte di
un’obbligazione giuridicamente valida dal punto di vista
civilistico, difetta il relativo provvedimento di impegno.
Al fine di evitare l’insorgere di
situazioni debitorie non assistite dai relativi impegni, il
legislatore ha previsto che solo in alcuni casi tassativi
tali debiti possano essere riconosciuti, attraverso il
procedimento di riconoscimento di legittimità di debiti
fuori bilancio; ciò è infatti possibile solo qualora tali
debiti derivino da: “a) sentenze esecutive; b) copertura
di disavanzi di consorzi, di aziende speciali e di
istituzioni, nei limiti degli obblighi derivanti da statuto,
convenzione o atti costitutivi, purché sia stato rispettato
l’obbligo di pareggio del bilancio di cui all’articolo 114
ed il disavanzo derivi da fatti di gestione; c)
ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme previste dal
codice civile o da norme speciali, di società di capitali
costituite per l’esercizio di servizi pubblici locali; d)
procedure espropriative o di occupazione d’urgenza per opere
di pubblica utilità; e) acquisizione di beni e servizi, in
violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3
dell’articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati
utilità ed arricchimento per l’ente, nell’ambito
dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di
competenza” (art. 194, comma 1, lett. a)-e), Tuel).
Quanto alla tassatività delle fattispecie di cui all’art.
194, comma 1, Tuel), occorre ricordare la parte del
principio contabile n. 2 per gli enti locali (“Gestione
nel sistema del bilancio”) in base alla quale: “Il
debito riconoscibile di cui alla lettera c) dell’art. 194
comma del TUEL è quello derivante da ricapitalizzazione, nei
limiti e nelle forme previste dal codice civile o da norme
speciali, delle sole società di capitali costituite per
l’esercizio di servizi pubblici locali. Il termine
ricapitalizzazione identifica un’azione specifica, di
ricostituzione del capitale deliberato dai soci per la
costituzione della società, normativamente disciplinata e
non è suscettibile di interpretazione estensiva ad altre
fattispecie di ripianamento di perdile d’esercizio. La
posizione debitoria non è riconoscibile nel caso di società
di capitali non costituite per l’esercizio di servizi
pubblici” (princ. cont. n. 2, cpv. 106).
Inoltre, “La formulazione della lettera c) dell’art. 194
del TUEL comporta che può essere riconosciuta la tipologia
di debito fuori bilancio ivi prevista soltanto laddove la
reintegrazione del capitale sociale della società di cui
l’Ente possiede una quota avvenga nelle forme e nei limiti
della disciplina di cui al codice civile o di altre norme
speciali cui il legislatore fa espresso rinvio. Il
riconoscimento del debito deve prevedere anche una
valutazione sulla progettazione e organizzazione dei
controlli interni che devono ricomprendere il controllo
sugli organismi partecipati e l’organizzazione del
monitoraggio sull’andamento gestionale dei medesimi” (princ.
cont. n. 2, cpv. 107).
Il Consiglio comunale, verificata la “pertinenza” del
titolo (rispetto alle competenze attribuite dalla legge
all’ente), la sua “continenza” (relativa
all’esercizio delle competenze stesse in modo conforme
all’ordinamento), nonché la sussistenza di adeguati mezzi di
copertura, adotta un’apposita delibera, con cui riconosce la
legittimità dei debiti fuori bilancio (che vengono, così,
ricondotti nella contabilità dell’ente).
Occorre, altresì, ricordare che l’art. 23, comma 5, della
legge 27.12.2002, n. 289 (Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge
finanziaria 2003) ha previsto che “I provvedimenti di
riconoscimento di debito posti in essere dalle
amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2,
del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, sono trasmessi
agli organi di controllo ed alla competente procura della
Corte dei conti”.
Premesso quanto sopra, e alla luce degli elementi forniti
con la richiesta di parere, si ritiene che
i nuovi e maggiori oneri connessi alla sottoscrizione
dell’aumento del capitale sociale non possano essere
considerati quali passività pregresse e che non possa
neanche applicarsi la disciplina dei debiti fuori
bilancio di cui all’art. 194 del d.lgs. n. 267/2000 (Tuel).
In ogni caso, inoltre, v’è da sottolineare che
l’obbligazione pecuniaria nasce nel momento in cui
l’ente locale delibera la sottoscrizione di aumento del
capitale (e ciò vale anche nel caso in cui grava sull’ente
l’obbligo di aderire alla società); alla delibera deve poi
seguire l’adozione di un impegno di spesa, relativo
all’esercizio cui si riferisce
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 05.02.2014 n. 41). |
SINDACATI |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Società
pubbliche - Obbligatori i dipendenti nei C.D.A.
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 05.03.2014). |
UTILITA' |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Tutto
quello che c’è da sapere sulla firma digitale nello Speciale
di BibLus-net.
In allegato proponiamo un
documento di approfondimento con tutte le caratteristiche
della firma digitale e le risposte alle domande più
frequenti
(13.03.2014 - link a www.acca.it). |
SICUREZZA
LAVORO: Guida
all’elaborazione del DUVRI: schemi, tavole di sintesi,
modelli ed esempi di valutazione dei rischi da interferenza.
Il DUVRI è il documento contenente tutte le misure
preventive da adottare al fine di prevenire o ridurre i
rischi dovuti alle interferenze presenti sul luogo di
lavoro.
La redazione del DUVRI (art. 26 del D.Lgs. 81/2008) è sempre
obbligatoria in caso di affidamento di lavori, servizi e
forniture all’impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi.
Anche nel caso in cui non siano presenti rischi dovuti a
interferenze, il datore di lavoro committente ha l’obbligo
di elaborare il DUVRI, in quanto la compilazione di tale
modello testimonia l’avvenuta valutazione dei rischi.
L’INAIL ha pubblicato la nuova edizione della
Guida all’elaborazione del DUVRI, utile a tutti i
tecnici e ai datori di lavoro committenti cui spetta il
compito di informare i lavoratori dell’impresa appaltatrice
circa i rischi e di verificare l’idoneità tecnico
professionale dell’impresa appaltatrice stessa.
La guida fornisce dapprima le definizioni (contratti,
appalti, concessioni, figure della sicurezza, elaborati
della sicurezza) per poi affrontare le questioni più
specifiche in maniera semplice e comprensibile, grazie anche
all’ausilio di schemi e immagini esplicative.
Sono presenti i diagrammi di flusso relativi
all’elaborazione del DUVRI da parte del datore di lavoro
committente.
Inoltre, il documento illustra le differenze tra DUVRI e PSC
nei cantieri temporanei e mobili e riporta una utile tabella
con i principali adempimenti in capo ai vari soggetti
coinvolti, evidenziando la necessità o meno della redazione
del PSC, del DUVRI o di entrambi i documenti e i riferimenti
normativi.
È presente un intero capitolo relativo ai costi della
sicurezza (costi speciali e costi ordinari) contenente
esempi su come computare i costi della sicurezza da
interferenze.
Sono infine presenti:
►
un modello per la valutazione dei rischi da interferenza
►
un esempio di valutazione dei rischi da interferenza
(13.03.2014 - link a www.acca.it). |
INCARICHI
PROGETTUALI: Decreto
Parametri-bis e calcolo dei compensi professionali, ecco un
utile strumento per professionisti e RUP.
Il 21.12.2013 è entrato in vigore il Decreto Parametri-bis
(D.M. 143/2013) per il calcolo dei compensi professionali
per le gare pubbliche.
In base a quanto stabilito dal Decreto, il corrispettivo del
professionista sarà ottenuto come somma di
compenso, determinato in base alle singole categorie
componenti l'opera, alla complessità e la specificità della
prestazione
spese ed oneri accessori, definiti in percentuale rispetto
all’importo dell’opera
Recentemente ACCA ha rilasciato in forma gratuita uno
strumento utilissimo sia per i RUP che devono determinare i
corrispettivi a base di gare che per i professionisti, che a
loro volta devono calcolare il corrispettivo per la
prestazione da eseguire per l’opera pubblica.
Stiamo parlando di
Compensus-LP FREE, il freeware compatibile con PriMus e
PriMus-DCF per acquisire automaticamente dal computo
l’importo dei lavori previsti dalla prestazione.
In particolare, il corrispettivo è calcolato automaticamente
dal software tenendo conto dei parametri stabiliti dal D.M.
143/2013:
● singole categorie componenti l'opera (Parametro "V")
●
complessità dell'opera (Parametro "G")
●
specificità della prestazione (Parametro "Q")
●
classificazione delle prestazioni professionali (Tavola Z-1)
Il corrispettivo può essere ulteriormente dettagliato
considerando
●
prestazioni a vacazione
●
spese forfettarie
●
oneri accessori
(13.03.2014 - link a www.acca.it). |
SICUREZZA
LAVORO: Sicurezza
nei lavori stradali, arrivano nuovi obblighi dal 20.03.2014.
Il Decreto Interministeriale 04.03.2013 relativo alla “Segnaletica
stradale per attività lavorative svolte in presenza di
traffico veicolare” all’articolo 4 stabilisce che dal
20.03.2014 gli indumenti ad alta visibilità di classe 1 non
sono più ammessi.
Gli indumenti ad alta visibilità dovranno avere come minimo
le seguenti caratteristiche:
►
classe 3, o equivalente, per tutte le attività lavorative su
strade di categoria A, B, C, e D
►
classe 2 per le strade E ed F urbane ed extraurbane
Pertanto, entro il 20.03.2014, tutte le aziende interessate
devono organizzare quanto necessario per adempiere
all’obbligo di
►
formazione e addestramento sui DPI (Dispositivi di
Protezione Individuale)
►
dotazione DPI ad alta visibilità
Anche i documenti relativi alla sicurezza (DVR, DUVRI o POS)
devono riportare le evidenze della relativa valutazione e
delle procedure corrette di segnalazione relative ai DPI
appropriati.
Da evidenziare che queste norme riguardano tutte le imprese,
non solo quelle edili, che svolgono la propria attività
esponendo i lavoratori ad interferenze dovute al traffico
veicolare su strada
(13.03.2014 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
EDILIZIA PRIVATA: RISTRUTTURAZIONI
EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI (Agenzia delle
Entrate, febbraio 2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
VARI: Bonus
mobili ed elettrodomestici: Come e quando richiedere
l’agevolazione fiscale (Agenzia delle Entrate,
febbraio 2014). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: Legislazione nazionale – Nuova delibera
06.02.2014 n. 40/2014 dell’AEEG per gli accertamenti sulla
sicurezza degli impianti di utenza gas (ANCE Bergamo,
circolare 14.03.2014 n. 66).
---------------
L’AUTORITÀ PER L’ENERGIA ELETTRICA IL GAS ED IL SISTEMA
IDRICO con la
deliberazione 06.02.2014 n. 40/2014/R/GAS "Disposizioni
in materia di accertamenti della sicurezza degli impianti di
utenza a gas: modifiche e integrazioni alla deliberazione
18.03.2004, n. 40/04" approva nuove disposizioni (in
vigore dall'01.07.2014)
in materia di accertamenti della sicurezza degli impianti di
utenza a gas e da avvio alla disciplina degli accertamenti
per gli impianti di utenza modificati o trasformati. |
EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: Legislazione nazionale - Nuovi modelli di
libretto di impianto per la climatizzazione e di rapporto di
efficienza energetica (ANCE Bergamo,
circolare 14.03.2014 n. 65). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: Recupero rifiuti inerti in procedura
semplificata: sentenza n. 534/2014 del TAR Lombardia-Milano
(ANCE Bergamo,
circolare 14.03.2014 n. 63). |
LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: Pasticcio all’italiana: subappalti delle
categorie super specializzate, si torna alla
liberalizzazione. Legge 15/2014: rinvio dell’obbligo
centrali di committenza per i piccoli Comuni; sospensione
del sistema AVCPass; ripristino temporaneo della soglia di
tolleranza dei requisiti per la revisione SOA (ANCE
Bergamo,
circolare 14.03.2014 n. 60). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Autorizzazioni paesaggistiche: visibili on-line per tutti.
I provvedimenti paesaggistici rilasciati dagli Enti locali,
ed inseriti in MAPEL, sono visibili on-line per tutti i
cittadini lombardi:
http://www.mapel.servizirl.it/viewer255/index.jsp?config=config-mapel-stat.xml
Questa nuova importante iniziativa, ha dichiarato
l'Assessore all'Ambiente, Energia e Sviluppo Sostenibile
Claudia Maria Terzi, viene lanciata a poche settimane
dall'avvio di MAPEL (Monitoraggio Autorizzazioni
Paesaggistiche Enti Locali), quale naturale prosecuzione
delle azioni di Regione Lombardia a seguito della
sottoscrizione del Protocollo d'Intesa tra Regione
Lombardia, Direzione regionale del Ministero dei Beni e
delle Attività Culturali e del Turismo e Soprintendenze per
i beni architettonici e paesaggistici di Brescia e Milano.
Dopo l'eliminazione, dal 01.02.2014, della trasmissione
cartacea dei provvedimenti paesaggistici rilasciati dagli
Enti locali lombardi questo nuova iniziativa vuole essere un
contributo per far crescere una maggior consapevolezza e
sensibilità delle comunità lombarde verso i temi della
tutela e valorizzazione del paesaggio (11.03.2014 -
link a www.regione.lombardia.it).
---------------
Sul MAPEL
(Monitoraggio Autorizzazioni Paesaggistiche Enti Locali) si
vedano anche:
-1)
il sito web dedicato;
-2)
la locandina;
-3)
il manuale Utente-Operatore per
l’applicazione MAPEL;
-4)
il PROTOCOLLO D'INTESA tra la Regione
Lombardia ed il MIBACT Lombardia, la Soprintendenza di
Brescia e la Soprintendenza di Milano. |
COMMERCIO - EDILIZIA
PRIVATA: Oggetto:
D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 - articolo 21: necessità
dell'autorizzazione del Soprintendente per l'occupazione del
suolo pubblico
(MIBACT,
nota 03.03.2014 n. 5817 di prot.).
---------------
Sedie al bar, ok delle Belle arti. Applicazione ampia
dell'autorizzazione monumentale. Pronuncia ministeriale. E in Friuli scoppia un caso
sull'applicazione del codice Urbani.
La Soprintendenza ha un ruolo fondamentale per il corretto
uso del territorio e, di conseguenza, niente tavolini e
sedie davanti ai bar senza la previa autorizzazione delle
Belle arti.
Il direttore del servizio II della direzione
generale per il paesaggio del ministero per i beni culturali
(con la
nota 03.03.2014 n. 5817 di prot.) mette con le spalle al muro la presidente della regione
Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani, che si era
rivolta al ministero per ottenere lumi circa la corretta
applicazione da dare al codice Urbani, in relazione al fatto
che con l'approssimarsi della bella stagione i sindaci dei
comuni capoluogo si erano preoccupati dalla chiusura
dimostrata dagli uffici periferici del dicastero che hanno
imposto una interpretazione restrittiva delle norme.
Essa imporrebbe l'obbligo della cosiddetta autorizzazione
monumentale non solo per le opere edilizie realizzate nelle
zone soggette a vincolo, ma anche per collocare i normali
elementi di arredo davanti ai bar. La tesi del direttore,
che ha condiviso in sostanza l'interpretazione della sede
regionale è che sia specifiche disposizioni del codice sia
la direttiva dell'ottobre 2012 sono orientate a stabilire
obblighi di conservazione e protezione dei beni culturali
tra i quali rientrano anche le strade e le piazze realizzate
da più di settant'anni.
Una interpretazione, tuttavia, che non tiene conto della
recente modifica introdotta lo scorso anno dal decreto
cultura all'art. 52 del codice che tratta specificatamente
la questione relativa al commercio sulle aree di interesse
storico e che attribuisce al soprintendente la facoltà di
dettare prescrizioni ma non certamente a carattere generale
(articolo ItaliaOggi del 14.03.2014). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Oggetto: D.P.R. 28.12.2000, n. 445 - Art. 38, comma 3-bis
- Modalità di invio e sottoscrizione delle istanze
(Ministero dello Sviluppo Economico,
risoluzione 20.01.2014 n. 8753 di prot.). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Oggetto: Pratiche trasmesse dalle imprese al SUAP a mezzo
PEC - Ammissibilità (Ministero
dello Sviluppo Economico,
risoluzione 24.12.2013 n. 212434 di prot.). |
ENTI LOCALI -
VARI: Oggetto:
Comune di Tempio Pausania. Parcheggi a pagamento.
Illegittima applicazione delle norme del Codice della Strada
(Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti,
nota 05.07.2011 n. 3615 di prot.). |
ENTI LOCALI -
VARI: Oggetto:
Richiesta di parere in materia di parcheggi a pagamento (Ministero
delle Infrastrutture e dei Trasporti,
nota 22.03.2010 n. 25783 di prot.). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
L. Prati,
Messa in sicurezza e misure di prevenzione: cosa può essere
richiesto al proprietario o al gestore del sito non
responsabili della contaminazione (17.03.2014 -
tratto da www.ambientediritto.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
M. Rossi,
Reclutamento dei dipendenti pubblici e prevalenza della
mobilità pre-concorso sullo scorrimento di una graduatoria
concorsuale (marzo 2014 - link a
www.lexitalia.it). |
APPALTI SERVIZI
- PATRIMONIO:
S. C. Cereda,
I comuni possono vendere le loro reti pubbliche del gas?
Disamina della disciplina in Lombardia (03.03.2014
- link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI SERVIZI
- PATRIMONIO:
G. Totino,
Il servizio pubblico di distribuzione del gas. L'Antitrust
ed il Giudice Amministrativo. Nota a margine alla sentenza
del Consiglio di Stato n. 6256 del 27.12.2013 (17.02.2014
- link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI SERVIZI
- PATRIMONIO:
S. Ferla,
Rimborsi ai gestori uscenti, tariffe e gare d'ambito per la
distribuzione gas. Note critiche sulla disposizione
introdotta dal Decreto “Destinazione Italia” per
porre rimedio al differenziale V.I.R./R.A.B. (art. 1, comma
16, d.l. n. 145/2013) (04.02.2014
- link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA
PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 12 del 17.03.2014, "Sostegno
ai cittadini per l’abbattimento delle barriere
architettoniche negli edifici abitativi privati –
Attivazione di una misura sperimentale ai sensi del comma
3-bis della legge regionale 20.02.1989 n. 6 “Norme sulle
barriere architettoniche e prescrizioni tecniche di
attuazione”"
(deliberazione
G.R. 13.03.2014 n. 1506). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
15.03.2014 n. 62 "Attuazione della direttiva 2011/65/UE
sulla restrizione dell’uso di determinate sostanze
pericolose nelle apparecchiature elettriche ed elettroniche" (D.Lgs.
04.03.2014 n. 27). |
EDILIZIA
PRIVATA:
G.U. 15.03.2014 n. 62 "Modifiche ed integrazioni
all’allegato al decreto 14.05.2004, recante approvazione
della regola tecnica di prevenzione incendi per
l’installazione e l’esercizio dei depositi di gas di
petrolio liquefatto con capacità complessiva non superiore a
13 m³"
(Ministero dell'Interno,
decreto 04.03.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: G.U.
15.03.2014 n. 62 "Modifica
del Titolo IV - del decreto 09.04.1994, in materia di regole
tecniche di prevenzione incendi per i rifugi alpini"
(Ministero dell'Interno,
decreto 03.03.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: G.U.
14.03.2014 n. 61 "Regola tecnica di prevenzione incendi
per la progettazione, la costruzione e l’esercizio delle
strutture turistico-ricettive in aria aperta (campeggi,
villaggi turistici, ecc.) con capacità ricettiva superiore a
400 persone" (Ministero dell'Interno,
decreto 28.02.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA - TRIBUTI: G.U.
12.03.2014 n. 59 "Delega
al Governo recante disposizioni per un sistema fiscale più
equo, trasparente e orientato alla crescita" (Legge
11.03.02014 n. 23). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: G.U.
12.03.2014 n. 59 "Regole
tecniche in materia di sistema di conservazione ai sensi
degli articoli 20, commi 3 e 5 -bis, 23-ter, comma 4, 43,
commi 1 e 3, 44 , 44-bis e 71, comma 1, del Codice
dell’amministrazione digitale di cui al decreto legislativo
n. 82 del 2005" (D.P.C.M.
03.12.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: G.U.
12.03.2014 n. 59 "Regole
tecniche per il protocollo informatico ai sensi degli
articoli 40-bis , 41, 47, 57-bis e 71, del Codice
dell’amministrazione digitale di cui al decreto legislativo
n. 82 del 2005" (D.P.C.M.
03.12.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: G.U.
12.03.2014 n. 59 "Linee guida per l’applicazione
«dell’indennizzo da ritardo nella conclusione dei
procedimenti ad istanza di parte»" (Dipartimento
Funzione Pubblica,
direttiva 09.01.2014). |
VARI:
G.U. 11.03.2014 n. 58
"Attuazione della direttiva 2011/83/UE sui diritti dei
consumatori, recante modifica delle direttive 93/13/CEE e
1999/44/CE e che abroga le direttive 85/577/CEE e 97/7/CE"
(D.Lgs.
21.02.2014 n. 21). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 11.03.2014 n. 58
"Istituzione del Catasto nazionale delle sorgenti dei
campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici e delle zone
territoriali interessate al fine di rilevare i livelli di
campo presenti nell’ambiente" (Ministero dell'Ambiente e
della Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 13.02.2014). |
APPALTI SERVIZI:
G.U. 11.03.2014 n. 58
"Criteri ambientali minimi per «Affidamento del servizio
di gestione dei rifiuti urbani» e «Forniture di cartucce
toner e cartucce a getto di inchiostro e affidamento del
servizio integrato di ritiro e fornitura di cartucce toner e
a getto di inchiostro»" (Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 13.02.2014). |
ENTI LOCALI:
G.U. 11.03.2014 n. 58
"Attuazione del comma 19 dell’articolo 31 della legge
12.11.2011, n. 183" (Ragioneria Generale dello Stato,
decreto 10.02.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: G.U.
07.03.2014 n. 55 "Modelli di libretto di impianto per la
climatizzazione e di rapporto di efficienza energetica di
cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 74/2013" (Ministero
dello Sviluppo Economico,
decreto 10.02.2014).
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Libretto dell’impianto e rapporto di efficienza energetica,
ecco i nuovi modelli.
Il libretto dell’impianto costituisce la “carta di identità”
di un impianto termico; esso riporta tutti i dati relativi
all’installatore, all’utilizzatore, al manutentore e
all’eventuale terzo responsabile della gestione.
Sulla Gazzetta Ufficiale n. 55 del 07.03.2014 è stato
pubblicato il Decreto Ministeriale 10 febbraio 2014,
contenente i modelli di libretto di impianto per la
climatizzazione e di rapporto di efficienza energetica di
cui al decreto del Presidente della Repubblica 74/2013.
Precisamente, il decreto definisce:
►
il modello di libretto di impianto per la climatizzazione
che dovrà essere utilizzato dal 01.06.2014
►
i modelli di rapporto di efficienza energetica da utilizzare
dal 01.06.2014, in occasione di controlli ed eventuale
manutenzione di cui all'art. 7 del D.P.R. 74/2013, sui
seguenti impianti termici
● impianti di climatizzazione invernale di potenza
utile nominale maggiore di 10 kW
●
impianti di climatizzazione estiva di potenza utile nominale
maggiore di 12 kW
con o senza produzione di acqua calda sanitaria (ad
esclusione degli impianti termici alimentati esclusivamente
con fonti rinnovabili di cui al D.Lgs. 03.03.2011, n. 28,
ferma restando la compilazione del libretto).
In ottemperanza a quanto previsto dal D.P.R. 74/2013, i
modelli di rapporto sono differenziati in 4 tipologie:
►
gruppi termici
►
gruppi frigo
►
scambiatori
►
cogeneratori
Inoltre, in allegato al Decreto sono fornite 14 schede di
cui è costituito il libretto, da compilare ed aggiornare ad
ogni intervento di manutenzione.
Per gli impianti già esistenti al 01.06.2014, sarà
necessario comunque allegare ai nuovi modelli il vecchio
libretto di impianto (per impianti con potenza termica
inferiore a 35 kW) o di centrale (con potenza termica
superiore o uguale a 35 kW) (commento tratto da e link a
www.acca.it). |
SICUREZZA
LAVORO: Linee
guida per l'utilizzo di scale portatili nei cantieri
temporanei e mobili
(Regione Lombardia, Direzione Generale Salute,
decreto D.G. 05.03.2014 n. 1819).
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Lavori in quota e caduta dall’alto, le nuove linee guida e
check-list sulle scale portatili.
Nelle numerose analisi statistiche disponibili in
letteratura, le cadute dall'alto si attestano sempre tra i
primi posti degli infortuni gravi, soprattutto nei cantieri
edili.
Al riguardo, la Regione Lombardia ha pubblicato le nuove
“Linee Guida per l’utilizzo di Scale Portatili nei cantieri
temporanei e mobili” con il Decreto 05.03.2014, n. 1819.
Scopo della Linea Guida è fornire ai diversi soggetti
operanti in cantiere uno strumento di semplice
consultazione, al fine di prevenire i rischi di caduta.
La parte generale tratta i seguenti argomenti:
►
definizioni generali
►
riferimenti normativi
►
misure generali di sicurezza nell’utilizzo delle scale
►
concetti di base in materia di sorveglianza sanitaria e
idoneità
Sono presenti, inoltre, le “schede di attività” che
riguardano i diversi utilizzi in cantiere delle scale
portatili:
►
opere di scavo di pozzi, cunicoli, trincee, etc.
►
posizionamento di manufatti per il getto di pilastri e travi
►
superamento di dislivelli per passaggio da solaio a solaio
►
movimentazione di monoblocchi di cantiere quali baracche,
casseri e ferri da armatura
►
lavori di assistenza ai fini della realizzazione di impianti
►
esecuzione e manutenzione di impianti
►
attività di smontaggio e smantellamento di strutture ed
impianti. (strip out)
►
apertura e chiusura della copertura superiore degli
automezzi telonati
►
esecuzione di finiture ed intonaci
►
posa e disarmo dei casseri di armatura
La pubblicazione è, infine, corredata da una sintetica
check-list dedicata all'utilizzo delle scale (commento
tratto da e link a www.acca.it). |
CORTE DEI CONTI |
CONSIGLIERI
COMUNALI: La p.a. paga i contributi se il sindaco lascia il lavoro.
Gli amministratori locali lavoratori autonomi qualora
richiedano il versamento degli oneri previdenziali a carico
dell'ente presso cui esercitano il loro mandato, ai sensi
dell'articolo 86, comma 2 del Tuel, devono astenersi del
tutto dall'attività lavorativa. Tale sospensione deve essere
messa nero su bianco in un'apposita certificazione da
inoltrare all'ente e all'istituto previdenziale.
È quanto ha
osservato la Sez. regionale di controllo della Corte dei
conti per la Lombardia, nel testo del
parere
05.03.2014 n. 95,
confermando le conclusioni cui nei mesi scorsi era pervenuta
la sezione regionale della Basilicata (si veda ItaliaOggi
del 24 gennaio), in merito al pagamento, da parte degli enti
locali, della somma forfetaria annua per oneri
previdenziali, assistenziali e assicurativi nel caso di
amministratori lavoratori autonomi.
Il casus belli sollevato
si fonda sulla presunta diversità di trattamento per gli
amministratori lavoratori dipendenti i quali, per aver
diritto al pagamento degli oneri da parte dell'ente, devono
necessariamente collocarsi in aspettativa non retribuita dal
proprio datore di lavoro ed è palese che, nel caso di
lavoratori autonomi, tale differenza sia più marcata in
quanto non è contemplato, in tali evenienze, l'istituto
dell'aspettativa.
Per la magistratura contabile lombarda, l'opzione del
collocamento in aspettativa non può essere misurata
differentemente per il lavoratore dipendente rispetto a
quello autonomo. La ratio dell'articolo 86 Tuel è, infatti,
quello di «premiare» l'amministratore che sceglie di non
esercitare più il suo lavoro da dipendente o la sua
professione, per dedicarsi alle attività
politico-istituzionali presso l'ente ove esercita il proprio
mandato.
Se si giungesse a una diversa soluzione, si legge nel
parere, stabilendo che l'ente sia tenuto a corrispondere gli
oneri contributivi dell'amministratore-lavoratore autonomo,
si avallerebbe un'interpretazione che faciliterebbe
quest'ultimo, aggravando il bilancio comunale di tali oneri
senza che, dall'altra parte, ci sia «una corrispettiva
dedizione del tempo lavorato ai soli compiti di
amministratore locale».
Senza dimenticare che, come ha
rilevato anche la Corte dei conti lucana, permettendogli di
svolgere ugualmente la sua professione, si finirebbe per
consentire l'alterazione delle condizioni di mercato, dal
momento che, in questo modo, l'amministratore locale non
sarebbe gravato dall'obbligo di versamento degli oneri
contributivi e assistenziali.
Pertanto, conclude la Corte,
il secondo comma dell'articolo 86 Tuel, può trovare
applicazione solo quando il lavoratore autonomo che svolga
le funzioni di amministratore locale si astenga del tutto
dall'attività lavorativa
(articolo ItaliaOggi del 12.03.2014). |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE: Non
pare che la fonte regolamentare dell'incentivo alla
progettazione possa stabilire che al di sotto di un
determinato ammontare dei lavori non spetti alcun tipo di
incentivo, ponendosi in contrasto con la fonte legislativa
che pare riconoscere ai dipendenti la spettanza di una
somma.
La previsione di legge infatti pur rinviando all’autonomia
regolamentare per la determinazione in concreto dell’entità
dell’incentivo, prevedendo in particolare la possibilità di
una modulazione dello stesso “in rapporto all’entità e alla
complessità dell’opera da realizzare”, non pare ammettere un
completo azzeramento dello stesso.
Del resto posto che la ratio della previsione di cui
all’art. 92, co. 5, del Codice dei contratti pubblici è
indubbiamente il contenimento dei costi connessi alla
progettazione delle opere pubbliche mediante la
valorizzazione delle professionalità interne alla pubblica
amministrazione è indubbio che l’introduzione di norme
regolamentari volte ad escludere la spettanza dell’incentivo
in presenza di lavori aventi importi inferiore ad una
determinata soglia apparirebbe in contrasto con la suddetta
ratio.
D’altro canto una siffatta previsione regolamentare
apparirebbe in contrasto con i principi di ragionevolezza ed
imparzialità posto che determinerebbe un trattamento
differenziato dei lavoratori dell’amministrazione a fronte
dell’espletamento di attività del tutto analoghe
(progettazione interna per realizzazione di opera pubblica)
in considerazione di un dato in alcun modo significativo ed
idoneo a giustificare un trattamento antitetico dei
dipendenti.
Del resto innanzi all’eventuale introduzione in sede
regolamentare di una previsione che escludesse il diritto al
percepimento dell’incentivo per lavori di importi inferiori
ad un determinato importo i lavoratori potrebbero insorgere
contestando in sede giurisdizionale l’illegittimità della
previsione anche sotto il profilo della disparità di
trattamento rispetto ad altri dipendenti che si vedessero
riconosciuto l’incentivo solo perché coinvolti nella
progettazione di un lavoro di importo superiore (anche se di
poco) alla soglia.
---------------
L’incentivo alla progettazione non può venire riconosciuto
per qualunque lavoro di manutenzione ordinaria/straordinaria
su beni dell’ente locale ma solo per lavori di realizzazione
di un’opera pubblica alla cui base vi sia una necessaria
attività di progettazione.
Esulano, dunque, tutti quei lavori manutentivi per la cui
realizzazione non è necessaria l’attività progettuale
richiamata negli articoli 90, 91 e 92 del d.lgs. n.
163/2006.
---------------
L’erogazione dell'incentivo alla progettazione può avvenire
solo a favore dei dipendenti che abbiano espletato gli
incarichi tassativamente indicati nella norma ovvero:
responsabile del procedimento, incaricati della redazione
del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei
lavori, del collaudo, e loro collaboratori.
La legge prevede quindi che possano essere coinvolti e come
tali regolarmente ricompensati altresì i collaboratori che
abbiano svolto compiti di ausilio e supporto al personale
prettamente tecnico incaricato della predisposizione degli
atti tipici, strumentali alla realizzazione dell’opera
pubblica.
In proposito la normativa non reca alcuna distinzione né
limitazione in ordine ai collaboratori che possono essere
remunerati, sicché pare possibile che anche collaboratori
amministrativi, a prescindere dalle mansioni proprie dei
rispettivi profili professionali, che partecipino in modo
effettivo mediante contributo intellettuale e materiale alle
attività del responsabile del procedimento, alla
realizzazione del progetto del piano di sicurezza, alla
direzione lavori ecc… possano essere inclusi nell’ambito del
gruppo di lavoro destinatario dell’incentivo di cui al
citato art. 92.
Il dirigente preposto alla struttura competente pertanto,
dopo aver accertato l’effettivo espletamento delle
specifiche attività da parte dei collaboratori
amministrativi, potrà corrispondere loro l’incentivo in
conformità alle previsioni contenute nel regolamento
dell’amministrazione.
---------------
Considerata la sedes materiae della norma sugli incentivi
alla progettazione (Codice degli appalti), nonché la ratio
della disposizione, secondo quanto affermato da consolidata
giurisprudenza, “la norma àncora chiaramente il
riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso
incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di
pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non ad atti di
pianificazione del territorio, sia avvenuta all’interno
dell’Ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a
far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai
dipendenti degli Uffici tecnici dell’Ente”.
In relazione specifica poi alla posizione del responsabile
del procedimento (r.u.p.), si osserva che questi
normalmente, in base alle previsioni contenute nei singoli
Regolamenti degli enti, attuativi del citato comma 5
dell’art. 92 del D.lgs. n. 163/2006, prende parte alla
ripartizione dell’incentivo in relazione ad atti di
progettazione interna collegati alla realizzazione di opere
pubbliche.
La partecipazione del responsabile del procedimento al
riparto degli emolumenti tuttavia non avviene in ragione
della sua qualifica, ma in relazione al complessivo
svolgimento interno dell’attività di progettazione. In
sostanza, qualora l’attività venga svolta internamente tutti
i soggetti che, a qualsivoglia titolo, collaborano hanno
diritto, in base alle previsioni del regolamento dell’ente,
a partecipare alla distribuzione dell’incentivo.
Viceversa nel caso contrario in cui l’attività venga svolta
all’esterno, non sorgendo il presupposto per la ripartizione
di un incentivo fra i vari dipendenti dell’ufficio, non vi è
neppure un autonomo diritto del responsabile del
procedimento ad ottenere un compenso per un’attività che, al
contrario, rientra fra i suoi compiti e doveri d’ufficio.
---------------
Nell'ipotesi in cui un privato esegua direttamente le opere
di urbanizzazione previste da un piano di lottizzazione a
scomputo, totale o parziale, del contributo degli oneri di
urbanizzazione la realizzazione delle opere a scomputo
prevede la redazione ed approvazione, da parte del soggetto
attuatore, di progetti redatti in conformità ai tre livelli
di progettazione, le attività di direzione lavori e
contabilità, sotto il diretto controllo del Responsabile del
procedimento nominato dall'Amministrazione.
I lavori in discorso sono previsti dall’art. 32, lettera g),
del Codice dei contratti pubblici e ai soggetti privati ivi
indicati, titolari di permesso di costruire, non si applica
l’art. 92 del Codice stesso, relativo agli incentivi in
trattazione.
In siffatta fattispecie l’Amministrazione non può
corrispondere l’incentivo per la progettazione né a favore
del responsabile del procedimento né a favore di altro
dipendente incaricato di controllare per conto dell’Ente
locale le opere oggetto di realizzazione, essendo nella
fattispecie ogni onere posto a carico del privato attuatore
dell’intervento.
---------------
Con la nota pervenuta in data 24.01.2014 il Sindaco del
Comune di Rivoli (TO) ha posto alla Sezione una serie di
quesiti in materia di compensi incentivanti ex art. 92
d.lgs. 12.04.2006 n. 163 e s.m.i..
Nello specifico, i quesiti sono stati articolati nei
seguenti termini:
Quesito n° 1:
il Sindaco del Comune di Grugliasco chiede se l’Ente può
porre una soglia minima all’importo dei lavori relativi
all’opera pubblica al di sotto della quale non si eroga
alcun incentivo, né per la progettazione né per l’eventuale
atto di pianificazione che si dovesse rendere necessario per
consentire la realizzazione dell’opera stessa;
Quesito n° 2:
Viene chiesto se la manutenzione ordinaria deve essere
considerata o meno attività soggetta ad incentivi, chiedendo
inoltre in caso di risposta affermativa se è necessario che
l’attività preveda effettivamente la redazione di progetti
preliminari definitivi ed esecutivi comprendenti anche atti
tecnici, computo metrici e contabili;
Quesito n° 3:
Il Sindaco chiede se tra i collaboratori che partecipano
al gruppo di lavoro possono essere inclusi anche
collaboratori amministrativi che attraverso prestazioni che
non rientrano nelle ordinarie attività d’ufficio insite nei
relativi profili professionali partecipano direttamente con
contributi di natura materiale ed intellettuale alla
realizzazione del progetto, all’attività del responsabile
del procedimento, al piano di sicurezza, alla direzione
lavori ed alla loro contabilizzazione, nonché agli studi e
alle valutazioni di carattere urbanistico e alla redazione
di atti di pianificazione.
Quesito n° 4:
L’ente domanda inoltre se in caso di progettazione
esterna al RUP spetti comunque l’incentivo.
Quesito n° 5:
Viene infine richiesto se l’incentivo spetta al
dipendente che non svolge funzioni di RUP, non firma
progetti, ma è referente dell’impresa con incarico di
controllare le opere oggetto di progettazione e
realizzazione da parte di soggetti privati mediante scomputo
degli oneri di urbanizzazione.
...
Per fornire risposta ai vari quesiti posti dal Comune di
Rivoli appare opportuno richiamare la normativa di
riferimento e segnatamente l’art. 92, co. 5, d.lgs n.
163/2006 secondo cui “Una somma non superiore al due per
cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un
lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e
assistenziali a carico dell'amministrazione, a valere
direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93,
comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con
le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione
decentrata e assunti in un regolamento adottato
dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e
gli incaricati della redazione del progetto, del piano della
sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché
tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel
limite massimo del due per cento, è stabilita dal
regolamento in rapporto all'entità e alla complessità
dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle
responsabilità professionali connesse alle specifiche
prestazioni da svolgere. La corresponsione dell'incentivo è
disposta dal dirigente preposto alla struttura competente,
previo accertamento positivo delle specifiche attività
svolte dai predetti dipendenti; limitatamente alle attività
di progettazione, l'incentivo corrisposto al singolo
dipendente non può superare l'importo del rispettivo
trattamento economico complessivo annuo lordo; le quote
parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte
dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale
esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero
prive del predetto accertamento, costituiscono economie. I
soggetti di cui all'articolo 32, comma 1, lettere b) e c),
possono adottare con proprio provvedimento analoghi criteri.”
Secondo quanto già chiarito anche recentemente da questa
Sezione (cfr.
parere 16.01.2014 n. 8)
la norma va letta nel complessivo contesto delle modalità
d’affidamento degli incarichi tecnico professionali,
previste dalla legislazione in materia di contratti
pubblici. Quest’ultima è informata da un principio generale,
già codificato dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001,
in base al quale i predetti incarichi
possono essere conferiti a soggetti esterni alla struttura
amministrativa solo se non si disponga di professionalità
adeguate nel proprio organico e tale carenza non sia
altrimenti risolvibile con strumenti flessibili di gestione
delle risorse umane. Tale presupposto mira a preservare le
finanze pubbliche oltre che a valorizzare il personale
interno alle amministrazioni.
Pertanto, nelle ipotesi ordinarie in cui
gli incarichi tecnici sono espletati da personale interno,
ai fini della loro remunerazione, occorre far riferimento
alle regole generali previste per il pubblico impiego, il
cui sistema retributivo è conformato da due principi
cardine, quello di definizione contrattuale delle componenti
economiche e quello di onnicomprensività della retribuzione
(cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001, nonché
Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per la Puglia,
sentenza 20.07.2010 n. 464,
sentenza 22.07.2010 n. 475 e
sentenza 02.08.2010 n. 487).
Secondo i predetti principi nulla è dovuto,
oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio
stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che ha
svolto una prestazione che rientra nei suoi doveri
d’ufficio, anche se di particolare complessità. Il c.d. “incentivo
alla progettazione”, previsto dal Codice dei contratti
pubblici, costituisce uno di quei casi nei quali il
legislatore, derogando al principio per cui il trattamento
economico è fissato dai contratti collettivi, attribuisce un
compenso ulteriore e speciale, rinviando ai regolamenti
dell’amministrazione aggiudicatrice, previa contrattazione
decentrata, i criteri e le modalità di ripartizione.
L’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006 deroga ai principi
di onnicomprensività e determinazione contrattuale della
retribuzione del dipendente pubblico e, come tale,
costituisce un’eccezione che si presta a stretta
interpretazione e per la quale sussiste il divieto di
analogia posto dall’art. 12 delle diposizioni preliminari al
codice civile
(cfr. Sez. contr. Umbria,
parere 09.07.2013 n. 119,
Sez. contr. Marche,
parere 04.10.2013 n. 67).
I. Come
si desume dalla lettura della norma la legge in ordine al
quantum dell’incentivo fissa un limite massimo
inderogabile al due per cento dell’importo a base di gara,
rinviando per la disciplina di dettaglio e segnatamente per
i criteri e le modalità di erogazione, nonché per l’entità
effettiva della percentuale da ripartire, alla
regolamentazione assunta dal singolo ente.
La littera legis è chiara nel disporre che il
regolamento debba fissare (entro il citato limite massimo
del 2%) la percentuale effettiva della somma destinata ad
essere ripartita tra i dipendenti che hanno partecipato alle
attività volte alla realizzazione dell’opera pubblica. In
forza di tale dato testuale non pare dunque
che la fonte regolamentare possa stabilire che al di sotto
di un determinato ammontare dei lavori non spetti alcun tipo
di incentivo, ponendosi in contrasto con la fonte
legislativa che pare riconoscere ai dipendenti la spettanza
di una somma. La citata previsione di legge infatti pur
rinviando all’autonomia regolamentare per la determinazione
in concreto dell’entità dell’incentivo, prevedendo in
particolare la possibilità di una modulazione dello stesso “in
rapporto all’entità e alla complessità dell’opera da
realizzare”, non pare ammettere un completo azzeramento
dello stesso.
Del resto posto che la ratio della
previsione di cui all’art. 92, co. 5, del Codice dei
contratti pubblici è indubbiamente il contenimento dei costi
connessi alla progettazione delle opere pubbliche mediante
la valorizzazione delle professionalità interne alla
pubblica amministrazione è indubbio che l’introduzione di
norme regolamentari volte ad escludere la spettanza
dell’incentivo in presenza di lavori aventi importi
inferiore ad una determinata soglia apparirebbe in contrasto
con la suddetta ratio.
D’altro canto una siffatta previsione
regolamentare apparirebbe in contrasto con i principi di
ragionevolezza ed imparzialità posto che determinerebbe un
trattamento differenziato dei lavoratori
dell’amministrazione a fronte dell’espletamento di attività
del tutto analoghe (progettazione interna per realizzazione
di opera pubblica) in considerazione di un dato in alcun
modo significativo ed idoneo a giustificare un trattamento
antitetico dei dipendenti. Del resto innanzi all’eventuale
introduzione in sede regolamentare di una previsione che
escludesse il diritto al percepimento dell’incentivo per
lavori di importi inferiori ad un determinato importo i
lavoratori potrebbero insorgere contestando in sede
giurisdizionale l’illegittimità della previsione anche sotto
il profilo della disparità di trattamento rispetto ad altri
dipendenti che si vedessero riconosciuto l’incentivo solo
perché coinvolti nella progettazione di un lavoro di importo
superiore (anche se di poco) alla soglia.
Infatti –come già detto– in assenza di un elemento
significativo e convincente (che non pare possa essere il
diverso importo dei lavori oggetto di realizzazione), atto a
giustificare compiutamente il differente trattamento
economico, la decisione
dell’amministrazione si configurerebbe in contrasto con il
principio di parità di trattamento nei luoghi di lavoro,
oggetto di riconoscimento e di tutela sia livello europeo
che in sede nazionale quale esplicitazione dei principi
della Costituzione.
Va infine rammentato che il Regolamento
della singola amministrazione viceversa potrebbe, come
espressamente previsto dalla legge, articolare diversamente
la percentuale dell’incentivo da riconoscere ai dipendenti
in ragione dell’entità e del diverso grado di complessità
delle opere da realizzare, senza giungere ad escludere
completamente l’erogazione di alcuna somma.
II.
Proseguendo nell’esame della normativa in questione occorre
evidenziare che come ancora recentemente affermato da questa
Sezione (cfr.
parere 16.01.2014 n. 8)
“l’incentivo alla progettazione non può
venire riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione
ordinaria/straordinaria su beni dell’ente locale ma solo per
lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla cui base
vi sia una necessaria attività di progettazione. Esulano,
dunque, tutti quei lavori manutentivi per la cui
realizzazione non è necessaria l’attività progettuale
richiamata negli articoli 90, 91 e 92 del d.lgs. n. 163/2006.”
La consolidata giurisprudenza della Corte dei Conti ha
infatti affermato che l’incentivo alla progettazione non può
venire riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione
ordinaria/straordinaria su beni dell’ente locale, ma solo
per lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla cui
base vi sia una necessaria attività di progettazione (cfr.
Sez. reg. controllo Lombardia,
parere 15.10.2013 n. 442;
parere 06.03.2013 n. 72; Sez. reg. controllo
Toscana,
parere 19.03.2013 n. 15).
III. La
norma recata dall’art. 92, co. 5, d.lgs 163/2006, come già
accennato, indica le condizioni fondamentali che devono
essere rispettate al fine dell’erogazione dell’incentivo; in
particolare dalla stessa discende che
l’erogazione possa avvenire solo a favore dei dipendenti che
abbiano espletato gli incarichi tassativamente indicati
nella norma ovvero: responsabile del procedimento,
incaricati della redazione del progetto, del piano della
sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro
collaboratori.
La legge prevede quindi che possano essere
coinvolti e come tali regolarmente ricompensati altresì i
collaboratori che abbiano svolto compiti di ausilio e
supporto al personale prettamente tecnico incaricato della
predisposizione degli atti tipici, strumentali alla
realizzazione dell’opera pubblica.
In proposito la normativa non reca alcuna distinzione né
limitazione in ordine ai collaboratori che possono essere
remunerati, sicché pare possibile che anche
collaboratori amministrativi, a prescindere dalle mansioni
proprie dei rispettivi profili professionali, che
partecipino in modo effettivo mediante contributo
intellettuale e materiale alle attività del responsabile del
procedimento, alla realizzazione del progetto del piano di
sicurezza, alla direzione lavori ecc… possano essere inclusi
nell’ambito del gruppo di lavoro destinatario dell’incentivo
di cui al citato art. 92.
Il dirigente preposto alla struttura competente pertanto,
dopo aver accertato l’effettivo espletamento delle
specifiche attività da parte dei collaboratori
amministrativi, potrà corrispondere loro l’incentivo in
conformità alle previsioni contenute nel regolamento
dell’amministrazione.
IV. Va
inoltre rilevato che, considerata la sedes materiae
della norma sugli incentivi alla progettazione (Codice degli
appalti), nonché la ratio della disposizione (come
già detto contenere i costi connessi alla progettazione
delle opere pubbliche valorizzando le professionalità
interne alla pubblica amministrazione), secondo quanto
affermato da consolidata giurisprudenza, “la
norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad
ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la
redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere
pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio,
sia avvenuta all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta
all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun
compenso in capo ai dipendenti degli Uffici tecnici
dell’Ente” (in
termini, Sezione contr. Piemonte,
parere 19.12.2013 n. 434;
cfr. altresì Sezione contr. Lombardia,
parere 30.05.2012 n. 259;
parere 06.03.2012 n. 57; Sezione contr. Puglia,
parere 16.01.2012 n. 1; Sezione contr. Toscana,
parere 18.10.2011 n. 213).
In relazione specifica poi alla posizione
del responsabile del procedimento (r.u.p.), si osserva che
questi normalmente, in base alle previsioni contenute nei
singoli Regolamenti degli enti, attuativi del citato comma 5
dell’art. 92 del D.lgs. n. 163/2006, prende parte alla
ripartizione dell’incentivo in relazione ad atti di
progettazione interna collegati alla realizzazione di opere
pubbliche. La partecipazione del responsabile del
procedimento al riparto degli emolumenti tuttavia non
avviene in ragione della sua qualifica, ma in relazione al
complessivo svolgimento interno dell’attività di
progettazione. In sostanza, qualora l’attività venga svolta
internamente tutti i soggetti che, a qualsivoglia titolo,
collaborano hanno diritto, in base alle previsioni del
regolamento dell’ente, a partecipare alla distribuzione
dell’incentivo.
Viceversa nel caso contrario in cui l’attività venga svolta
all’esterno, non sorgendo il presupposto per la ripartizione
di un incentivo fra i vari dipendenti dell’ufficio, non vi è
neppure un autonomo diritto del responsabile del
procedimento ad ottenere un compenso per un’attività che, al
contrario, rientra fra i suoi compiti e doveri d’ufficio
(cfr. Sez. contr. Piemonte,
parere 30.08.2012 n. 290).
V. Si
può infine procedere a prendere in esame
l'ipotesi in cui un privato esegua direttamente le opere di
urbanizzazione previste da un piano di lottizzazione a
scomputo, totale o parziale, del contributo degli oneri di
urbanizzazione.
La realizzazione delle opere a scomputo
prevede la redazione ed approvazione, da parte del soggetto
attuatore, di progetti redatti in conformità ai tre livelli
di progettazione, le attività di direzione lavori e
contabilità, sotto il diretto controllo del Responsabile del
procedimento nominato dall'Amministrazione. I lavori in
discorso sono previsti dall’art. 32, lettera g), del Codice
dei contratti pubblici e ai soggetti privati ivi indicati,
titolari di permesso di costruire, non si applica l’art. 92
del Codice stesso, relativo agli incentivi in trattazione
(cfr. sez. contr. Piemonte,
parere 16.01.2014 n. 8).
In siffatta fattispecie l’Amministrazione
non potrà corrispondere l’incentivo per la progettazione né
a favore del responsabile del procedimento né a favore di
altro dipendente incaricato di controllare per conto
dell’Ente locale le opere oggetto di realizzazione, essendo
nella fattispecie ogni onere posto a carico del privato
attuatore dell’intervento
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 28.02.2014 n. 39). |
APPALTI: Sulle Centrali di committenza un rinvio che fa chiarezza.
In principio fu il Piemonte, con il
parere 06.07.2012 n. 271 con il quale la Corte dei conti della regione
definì l'ambito di operatività delle Centrali di committenza
cui sono obbligati i piccoli comuni. Per la Corte, anche se
in presenza di importi irrisori, resta obbligatorio il
ricorso alla Centrale se si tratta di una procedura
comparativa tra più soggetti.
Posizione non pienamente accolta dalla Corte dei conti della
Lombardia,
col
parere 23.04.2013 n. 165, che ha ritenuto di dover escludere
dall'obbligatorietà anche il cottimo fiduciario, oltre gli
affidamenti diretti. La novella del comma 3-bis dell'art. 33
(art. 1, comma 343, legge n. 147 del 2013) ha chiarito che
«le disposizioni di cui al presente comma non si applicano
alle acquisizioni di lavori, servizi e forniture, effettuate
in economia mediante amministrazione diretta, nonché nei
casi di cui al secondo periodo del comma 8 e al secondo
periodo del comma 11 dell'articolo 125»: prevale quindi la
Corte dei conti del Piemonte: restano esclusi i soli
affidamenti diretti.
Altra questione chiarita dalle Corti dei conti è stata la
natura dell'accordo consortile. Unanime in questo caso
l'orientamento: la dicitura «accordo consortile» non
indica un atto istitutivo di un nuovo Consorzio (Umbria,
parere 04.06.2013 n. 112). Infatti la gestione consortile della
centrale di committenza non può essere confusa né con l'idea
di costituire un consorzio di funzioni tra enti (vietato
dalla legge); né con le funzioni associate fondamentali
(Lazio
parere 26.06.2013 n. 138
e
parere 26.06.2013 n. 139).
Il legislatore ha
ribadito di non voler sovrapporre l'obbligo delle funzioni
associate con l'obbligo di centralizzazione della
committenza, rigettando la proposta di emendamento che
voleva equiparare l'obbligatorietà della Centrale unica di
committenza (Cuc) al completamento (teorico) della gestione
associata delle funzioni (31/12/2014). L'accorpamento delle
funzioni fondamentali è del resto ben diverso dalla
razionalizzazione delle spese attraverso il ricorso alle
centrali di committenza.
In definitiva, quindi, il Milleproroghe ha tenuto separati i due processi fissando
l'obbligatorietà della Cuc al 30/06/2014. Ultima questione
da segnalare è quella della mancata sovrapponibilità delle
attività della Centrale di committenza con quelle introdotte
dalla legge n. 136/2010 istitutiva delle Stazioni uniche
appaltanti (Sua). Come ha ben chiarito la Corte dei conti
della Basilicata,
deliberazione 01.07.2013 n. 98,
«entrambe le figure organizzative hanno la natura di
centrali di committenza (art. 3, n. 34, «Codice»).
Tuttavia, l'una non è perfettamente sovrapponibile in quanto
«alla Sua non è consentito rendersi, essa stessa,
acquirente di lavori, servizi e forniture destinate ad altre
amministrazioni aggiudicatrici, come è consentito alle
centrali di committenza previste dall'art. 33 del Codice».
Su questa linea è molto chiara la nuova direttiva appalti
dell'Unione europea che disciplina in maniera puntuale
l'ambito di operatività e i vantaggi competitivi che possono
essere raggiunti attraverso un ricorso diffuso alle centrali
di committenza (articolo ItaliaOggi del 14.03.2014). |
APPALTI SERVIZI
- INCARICHI PROFESSIONALI: Se
le spese relative alla predisposizione degli atti di gara e
alla successiva gestione della gara stessa per l’affidamento
del servizio di distribuzione del gas naturale siano
riconducibili nei limiti stabiliti dal decreto legge n.
101/2013 (convertito, con modificazioni, dalla legge n.
125/2013) per studi e incarichi di consulenza.
Per quanto concerne il presupposto che
giustifica il conferimento, da parte del Comune, di
incarichi di studio e consulenza, occorre rilevare che il
ricorso, da parte del Comune, quale stazione appaltante,
all’affidamento di incarichi di studio e consulenza
necessari alla predisposizione degli atti di gara e alla
gestione di questa dovrà in ogni caso avvenire nel rispetto
della disciplina (art. 7, comma 6, d.lgs. n. 165/2001) che
prevede il ricorso a tali istituti nei soli casi in cui
l’amministrazione non disponga, al suo interno, di soggetti
dotati delle necessarie professionalità e competenze per
l’espletamento degli incarichi.
Nel caso in esame, quindi, perché il
Comune di possa conferire a un soggetto esterno l’attività
necessaria alla predisposizione degli atti di gara
(comprensiva della valutazione preliminare degli impianti) e
alla successiva gestione della gara stessa, occorre che il
Comune non disponga di uffici o strutture deputati, tra
l’altro, alle attività di valutazione preliminare degli
impianti e alla gestione della gara.
-------------
La copertura degli oneri di gara è a carico del gestore
aggiudicatario, che è tenuto, al pagamento del corrispettivo
una tantum ai sensi dell’art. 8, comma 1, d.m. 12.11.2011,
n. 226, e a una serie di altri oneri, compresi quelli
connessi agli interventi di efficienza energetica
(art. 8, commi 2-6, d.m. 12.11.2011, n. 226).
Pertanto, tali spese non rientrano nei limiti di cui al
decreto legge n. 101/2013 nella misura in cui siano
strettamente e imprescindibilmente connesse alla definizione
e gestione della gara che il legislatore impone per
l’attività di distribuzione del gas naturale (art. 14,
comma 1, d.lgs. n. 164/2000) e, in ogni caso, è necessario
che oggetto del conferimento dell’incarico da parte del
Comune siano attività che non gravino già sul gestore
uscente, il quale è tenuto ad adempiere una serie di
obblighi nei confronti dell’ente locale
(ad esempio, art. 4, “Obblighi informativi dei gestori”,
d.m. 12.11.2011, n. 226).
Naturalmente, tali spese sono
soggette al rispetto dei generali criteri della
ragionevolezza e della proporzionalità.
---------------
Quanto alla rappresentazione
contabile delle somme anticipate dal Comune quale stazione
appaltante e, successivamente, corrisposte al Comune dal
gestore aggiudicatario a copertura degli oneri della gara,
la Sezione concorda sulla necessità che tali somme vengano
registrate in un capitolo di spesa ad hoc –diverso dal
capitolo “servizi per conto terzi”– e con un’opportuna
specificazione relativamente alle modalità e ai tempi del
loro “rimborso” al Comune da parte del gestore
aggiudicatario.
---------------
Il sindaco del Comune di Brescia, mediante nota n.
126111 del 28.11.2013, chiede se le spese relative alla
predisposizione degli atti di gara e alla successiva
gestione della gara stessa per l’affidamento del servizio di
distribuzione del gas naturale siano riconducibili nei
limiti stabiliti dal decreto legge n. 101/2013
(convertito, con modificazioni, dalla legge n. 125/2013)
per studi e incarichi di consulenza.
...
L’art. 1, comma 5, decreto legge
31.08.2013, n. 103, convertito, con modificazioni, dalla
legge 30.10.2013, n. 125, dispone limiti alle spese,
relativamente agli anni 2014 e 2015, per studi e incarichi
di consulenza, incluse quelle relative a studi e incarichi
di consulenza conferiti a pubblici dipendenti, sostenute
dalle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico
consolidato della pubblica amministrazione e dalle autorità
indipendenti.
La ratio della norma, così come di altre simili,
previste in precedenti provvedimenti (ad esempio, l’art. 6,
comma 7, decreto legge 31.05.2010, n. 78, convertito dalla
legge 30.07.2010, n. 122), è quella di operare un
consistente contenimento di dette spese, la cui entità ha
raggiunto, nel corso degli anni, dimensioni che il
legislatore ha valutato esorbitanti rispetto alle effettive
esigenze delle amministrazioni.
L’estensione dell’ambito applicativo della norma alle
amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico
consolidato della pubblica amministrazione rende evidente
che anche le autonomie locali sono chiamate a partecipare,
nel rispetto degli articoli 117, comma 3, e 119, comma 2,
della Costituzione, al raggiungimento degli obiettivi di
sana gestione finanziaria pubblica che la Repubblica si è
impegnata a realizzare.
L’art. 1, comma 5, decreto legge n.
101/2013 fa espresso riferimento alla spesa annua sostenuta,
dalle amministrazioni pubbliche di cui s’è detto, per studi
e incarichi di consulenza, conferiti sia a soggetti esterni
alla pubblica amministrazione, sia a pubblici dipendenti.
Gli incarichi di studio e consulenza cui la norma si
riferisce sono quelli conferiti per approfondire tematiche
di interesse dell’amministrazione; si tratta, inoltre, di
prestazioni di cui l’amministrazione, nell’esercizio della
sua discrezionalità, decide di avvalersi per il
conseguimento delle proprie finalità.
Al fine di valutare se le spese relative alla
predisposizione degli atti di gara e alla successiva
gestione della gara stessa per l’affidamento del servizio di
distribuzione del gas naturale, sostenute dal Comune di
Brescia quale stazione appaltante, rientrino o meno nei
limiti di cui all’art. 1, comma 5, decreto legge n.
101/2013, occorre esaminare il contenuto delle prestazioni
professionali oggetto dell’incarico e se i relativi oneri
siano determinati da servizi o adempimenti cui l’ente è
tenuto per legge (cfr. Corte conti, SS.RR. in sede di
controllo, delibera n. 6/CONTR/05).
Nel caso in esame, fra le spese che il comune di Brescia,
quale stazione appaltante dell’Atem Brescia 3 Città e
impianto di Brescia per la gara unica avente ad oggetto
l’affidamento del servizio di distribuzione del gas
naturale, si propone di sostenere rientrano quelle di
valutazione preliminare degli impianti (di cui, però, la
richiesta di parere non specifica in che cosa consistano),
oltre alle spese connesse alla gestione della gara (anche in
tal caso, su tali spese non sono forniti ulteriori
elementi).
Si tratterebbe, nella prospettazione del Comune di Brescia,
di spese funzionalmente connesse alla procedura di gara, sia
nella fase preliminare al suo svolgimento, sia in quella
successiva della gestione della gara.
Per quanto concerne il presupposto che giustifica il
conferimento, da parte del Comune di Brescia, di incarichi
di studio e consulenza, occorre rilevare che
il ricorso, da parte del Comune, quale stazione
appaltante, all’affidamento di incarichi di studio e
consulenza necessari alla predisposizione degli atti di gara
e alla gestione di questa dovrà in ogni caso avvenire nel
rispetto della disciplina (art. 7, comma 6, d.lgs. n.
165/2001) che prevede il ricorso a tali istituti nei soli
casi in cui l’amministrazione non disponga, al suo interno,
di soggetti dotati delle necessarie professionalità e
competenze per l’espletamento degli incarichi.
Nel caso in esame, quindi, perché il Comune
di Brescia possa conferire a un soggetto esterno l’attività
necessaria alla predisposizione degli atti di gara
(comprensiva della valutazione preliminare degli impianti) e
alla successiva gestione della gara stessa, occorre che il
Comune non disponga di uffici o strutture deputati, tra
l’altro, alle attività di valutazione preliminare degli
impianti e alla gestione della gara.
Quanto alla riconducibilità o meno di tali spese nei limiti
di cui al decreto legge n. 101/2013, si rileva che le spese
vengono anticipate dal Comune, stazione appaltante, per
essere poi a questo rimborsate dall’aggiudicatario-gestore
mediante un corrispettivo che quest’ultimo dovrà versare al
Comune.
L’art. 8, comma 1, del decreto del Ministero dello sviluppo
economico 12.11.2011, n. 226 chiarisce, infatti, che “il
gestore aggiudicatario della gara corrisponde alla stazione
appaltante un corrispettivo una tantum per la copertura
degli oneri di gara, ivi inclusi gli oneri di funzionamento
della commissione di gara”. Il riferimento alla “copertura
degli oneri di gara” appare essere comprensivo di tutte
le spese necessarie alla predisposizione e gestione della
gara (il legislatore ha, inoltre, specificato che vi
rientrano anche gli oneri per il funzionamento della
commissione di gara). La copertura degli
oneri di gara è a carico, quindi, del gestore
aggiudicatario, che è tenuto, al pagamento del corrispettivo
una tantum ai sensi dell’art. 8, comma 1, d.m.
12.11.2011, n. 226, e a una serie di altri oneri, compresi
quelli connessi agli interventi di efficienza energetica
(art. 8, commi 2-6, d.m. 12.11.2011, n. 226).
Pertanto, tali spese non rientrano nei
limiti di cui al decreto legge n. 101/2013 nella misura in
cui siano strettamente e imprescindibilmente connesse alla
definizione e gestione della gara che il legislatore impone
per l’attività di distribuzione del gas naturale
(art. 14, comma 1, d.lgs. n. 164/2000) e,
in ogni caso, è necessario che oggetto del conferimento
dell’incarico da parte del Comune siano attività che non
gravino già sul gestore uscente, il quale è tenuto ad
adempiere una serie di obblighi nei confronti dell’ente
locale (ad
esempio, art. 4, “Obblighi informativi dei gestori”,
d.m. 12.11.2011, n. 226).
Naturalmente, tali spese sono soggette al
rispetto dei generali criteri della ragionevolezza e della
proporzionalità.
Inoltre, nella quantificazione del corrispettivo che il
gestore dovrà versare alla stazione appaltante, lo stesso
art. 8, comma 1, d.m. 12.11.2011, n. 226 dispone che i
criteri per la definizione del corrispettivo siano definiti
dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas (l’Autorità
vi ha provveduto con delibera 11.10.2012, n. 407/2012/R/gas,
“Criteri per la definizione del corrispettivo una tantum
per la copertura degli oneri di gara per l’affidamento del
servizio di distribuzione del gas naturale”); nello
stabilire il quantum del corrispettivo, la stazione
appaltante dovrà, quindi, rispettare tali criteri.
Del resto, la verifica di ragionevolezza e proporzionalità
delle spese che il Comune si propone di sostenere per la
definizione e gestione della gara per l’affidamento
dell’attività di distribuzione del gas naturale è funzionale
ad evitare che vengano caricati sul gestore oneri ulteriori
ed eccedenti a quelli strettamente necessari. In caso
contrario, potrebbe verificarsi una traslazione (almeno di
parte) degli oneri sostenuti dal gestore sui consumatori,
quali utenti tenuti al pagamento del prezzo per il servizio.
Quanto alla rappresentazione contabile
delle somme anticipate dal Comune quale stazione appaltante
e, successivamente, corrisposte al Comune dal gestore
aggiudicatario a copertura degli oneri della gara, la
Sezione concorda sulla necessità che tali somme vengano
registrate in un capitolo di spesa ad hoc –diverso
dal capitolo “servizi per conto terzi”– e con
un’opportuna specificazione relativamente alle modalità e ai
tempi del loro “rimborso” al Comune da parte del
gestore aggiudicatario
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 17.01.2014 n. 23). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Incompatibilità del consigliere comunale.
La circostanza che un incarico
professionale, affidato dall'ufficio comune di una
associazione intercomunale al consigliere comunale di uno
dei comuni associati, venga da costui svolto nei confronti
di tutti i Comuni appartenenti all'associazione e, quindi,
anche per il Comune presso cui esercita il proprio munus,
comporta un potenziale conflitto di interessi tra i due
ruoli dallo stesso ricoperti: quello di soggetto
controllato, in relazione all'incarico professionale
conferitogli e quello di controllore in relazione alla
propria appartenenza all'organo consiliare del Comune, con
il conseguente sorgere della causa d'incompatibilità di cui
all'articolo 63, comma 1, n. 2 del d.lgs. 267/2000.
Il Comune chiede di conoscere se sussistano cause di
incompatibilità nel caso in cui al consigliere di un Comune,
partecipante a un'associazione intercomunale, venga
affidato, con procedura aperta, da un Ufficio comune
dell'associazione, un incarico professionale da svolgersi
presso i comuni associati.
Esaminato il quadro normativo di riferimento e sentito il
Servizio elettorale, si formulano le seguenti
considerazioni.
In relazione alla situazione prospettata dall'Ente instante,
rilevano le disposizioni di cui all'articolo 63, comma 1, n.
2 del d.lgs. 267/2000 (TUEL).
Tale comma prevede che non può ricoprire la carica di
sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale,
provinciale o circoscrizionale: '2) colui che, come
titolare, amministratore, dipendente con poteri di
rappresentanza o di coordinamento ha parte, direttamente o
indirettamente, in servizi, esazioni di diritti,
somministrazioni o appalti, nell'interesse del comune o
della provincia [...]'.
Nel caso in esame, l'incarico professionale affidato al
consigliere può essere ricondotto alternativamente ai 'servizi'
o agli 'appalti' contemplati dalla citata norma.
Come affermato dalla Cassazione civile, Sez. I, nella
sentenza n. 550 del 16.01.2004, la ratio della causa
di incompatibilità di cui all' articolo 63, comma 1, n. 2,
del TUEL 'risiede nell'esigenza di impedire che possano
concorrere all'esercizio delle funzioni dei consigli
comunali soggetti portatori di interessi configgenti con
quelli del comune o i quali si trovino comunque in
condizioni che ne possano compromettere l'imparzialità'.
In altri termini, la norma è finalizzata ad evitare che la
medesima persona fisica rivesta contestualmente la carica di
amministratore di un comune e la qualità di titolare,
amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di
coordinamento di un soggetto che si trovi in rapporti
giuridici con l'ente locale, caratterizzati da una
prestazione da effettuare all'ente o nel suo interesse,
atteso che tale situazione potrebbe determinare l'insorgere
di una posizione di conflitto di interessi.
Pertanto, deve sussistere una duplice, concorrente
condizione: la prima, di natura soggettiva; la seconda, di
natura oggettiva.
È necessario, innanzitutto, che il soggetto -in ipotesi
incompatibile all'esercizio della carica elettiva- rivesta
una di quelle qualità indicate dalla legge. Come rilevato
dalla giurisprudenza nella sentenza citata, tale condizione
può essere integrata anche in ipotesi di esercizio di una
professione intellettuale; il secondo requisito consiste nel
fatto che il soggetto sia parte in servizi o appalti,
assunti nell'interesse del comune.
La circostanza che l'incarico professionale in argomento
venga svolto nei confronti di tutti i Comuni appartenenti
all'associazione intercomunale [1]
in parola e, quindi, anche per il Comune presso cui il
consigliere esercita il proprio munus, comporta un
potenziale conflitto di interessi tra i due ruoli dallo
stesso ricoperti: quello di soggetto controllato, in
relazione all'incarico professionale conferitogli e quello
di controllore in relazione alla propria appartenenza
all'organo consiliare del Comune, con il conseguente sorgere
della causa d'incompatibilità prospettata.
---------------
[1] Nelle associazioni intercomunali, costituite ai sensi
dell'articolo 22 della lr 1/2006, prive di personalità
giuridica, l'ufficio comune svolge le funzioni pubbliche in
luogo dei comuni associati che ne rimangono titolari
(14.03.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Micro-enti senza giunta.
Niente assessori nei centri sotto i mille abitanti.
Negli altri casi il numero non deve superare un terzo dei
consiglieri.
Quale disposizione normativa regola la composizione numerica
della giunta comunale di un ente?
In merito alla composizione della giunta comunale l'art. 47
del dlgs n. 267/2000 stabilisce che il numero degli
assessori non deve superare un terzo del numero dei
consiglieri, con ciò ancorando ai componenti del consiglio,
e quindi al momento della loro determinazione numerica,
l'indicazione del numero massimo da parte dello statuto.
Inoltre, l'art. 16, comma 17, del decreto legge n. 138 del
2011, convertito nella legge n. 148 del 2011 non prevede,
per i comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti, la
figura degli assessori, risultando attribuite solamente al
sindaco le competenze della giunta comunale.
L'ente in argomento ha rinnovato i propri organi a seguito
delle elezioni amministrative svoltesi a maggio 2012.
Considerato che, a tale data, non era ancora stato
pubblicato nella gazzetta ufficiale il censimento del 2011,
i seggi sono stati assegnati in base ai dati risultanti
dall'ultimo censimento ufficiale del 2001, che indicava una
popolazione inferiore ai mille abitanti.
Ciò in quanto, ai sensi dell'art. 37, comma 4, del dlgs n.
267 del 2000, la popolazione dell'ente «è determinata in
base ai risultati dell'ultimo censimento ufficiale».
Nel caso di specie, alla data del rinnovo elettorale, il
numero dei consiglieri è stato stabilito in base all'ultimo
censimento, quello del 2001, in quanto a quella data, maggio
2012, non erano ancora disponibili i dati relativi al
censimento del 2011.
Infatti, il dpr adottato in data 06/11/2012, recante
«determinazione della popolazione legale della repubblica in
base al 15° censimento generale della popolazione e delle
abitazioni del 09.10.2011», acquisisce la sua efficacia,
anche ai fini in argomento, a decorrere dalla data della sua
pubblicazione avvenuta sulla G.U. n. 294 del 18.12.2012.
Poiché alla data delle elezioni il comune risultava con
popolazione inferiore a 1.000 abitanti, ai fini del quesito
posto trova applicazione il citato art. 16, comma 17, del dl
n. 138/2011 relativa alla mancata previsione della figura
degli assessori (articolo ItaliaOggi del 14.03.2014). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Surroga del Sindaco.
È possibile procedere alla surrogazione del sindaco di un
comune, recentemente deceduto, con attribuzione del seggio
rimasto vacante, ai sensi degli articoli 53 e 45, comma 1,
del dlgs n. 267/2000?
Il caso di specie è disciplinato dall'art. 141, comma 1,
lett. b), del dlgs n. 267/2000 secondo cui, in caso di
decesso del sindaco, il consiglio comunale viene sciolto con
decreto del presidente della repubblica su proposta del
ministro dell'interno.
In presenza di tale fattispecie non è possibile procedere
alla surroga dei consiglieri, stante l'esplicita previsione
in tal senso contenuta nell'art. 38, comma 8, dello stesso
decreto legislativo.
A maggior ragione, non è possibile procedere alla surroga
del sindaco con la nomina del primo candidato alla carica di
consigliere non eletto, in quanto, tra l'altro, l'articolo
45 del dlgs. n. 267/2000, recante la disciplina in materia
di surrogazione e supplenza dei consiglieri provinciali,
comunali e circoscrizionali, si riferisce esclusivamente
alla ipotesi di vacanza del seggio di consigliere e non
anche alla diversa fattispecie del decesso del sindaco,
disciplinata dall'art. 53 del richiamato decreto legislativo
(articolo ItaliaOggi del 14.03.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Nudo proprietario e ristrutturazione edilizia.
In caso di ristrutturazione di un
immobile la cui proprietà è suddivisa in usufrutto e nuda
proprietà, chi può usufruire della detrazione se la spesa è
sostenuta dal nudo proprietario?
La detrazione delle spese di ristrutturazione edilizia può
essere usufruita da tutti i soggetti tenuti al pagamento
dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, residenti o
meno nel territorio dello Stato. In particolare,
l’agevolazione spetta ai contribuenti che possiedono o
detengono, sulla base di un titolo idoneo, l’immobile sul
quale sono effettuati gli interventi (articolo 16-bis del
Tuir).
Ha, pertanto, facoltà di usufruire del bonus fiscale anche
il nudo proprietario dell’immobile oggetto di
ristrutturazione edilizia, qualora ne sostenga le relative
spese (circolare 57/E del 1998) (11.03.2014 - link a
www.fiscooggi.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Tettoia
ricavata da un pergolato.
Domanda
Si chiede se, in una zona paesaggisticamente vincolata,
possa essere sanata, dal punto di vista paesaggistico, una
tettoia ricavata su un vecchio pergolato.
Risposta
Già si è avuto modo di scrivere che la Corte di cassazione,
con la sentenza del 23.03.2011, numero 25016, ha
affermato che nelle zone paesaggisticamente vincolate deve
essere inibita ogni modificazione dell'assetto del
territorio attuata attraverso lavori di qualsiasi genere,
non soltanto edilizi.
Si è detto pure che il Consiglio di
stato, sezione IV, con la sentenza del 29.09.2011,
numero 5409, ha puntualizzato che la realizzazione di un
pergolato, da intendere come un manufatto avente natura
ornamentale, realizzato in struttura leggera di legno o
altro materiale di minimo peso, facilmente amovibile in
quanto privo di fondamenta, che funge da sostegno per piante
rampicanti, attraverso le quali realizzare riparo e/o
ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni, deve
essere subordinato all'autorizzazione paesaggistica di cui
all'articolo 145 del decreto legislativo n. 42 del 2004.
Ora la domanda che viene posta dal lettore è se l'abusiva
trasformazione in tettoia di un pergolato posa essere sanato
con un successivo, e, quindi, postumo, nulla osta
paesaggistico.
La Corte di cassazione, sezione III penale, con le sentenze
del 10.03.2009, numero 10534, e del 19.05.2008,
numero 19973, ha sentenziato che la tettoia aumenta
l'abitabilità dell'immobile, dato che essa può essere
utilizzata anche come riparo, mente il pergolato costituisce
una struttura aperta sia nei lati esterni che nella parte
superiore ed è destinato a creare ombra.
Inoltre, il Tribunale regionale amministrativo della
Campania (Tar), Sezione Settima, con la sentenza del
22.02.2012, numero 885, ha sottolineato che «l'articolo
146, comma 4, del decreto legislativo numero 42 del 2004,
esclude dal divieto di rilasciare l'autorizzazione
paesaggistica in sanatoria (ossia successivamente alla
realizzazione, anche parziale, degli interventi) i casi
previsti dall'articolo 167, comma 4, del medesimo decreto
legislativo, costituiti, oltre che dall'impiego di materiali
in difformità dall'autorizzazione paesaggistica e dai lavori
comunque configurati quali interventi di manutenzione
ordinaria o straordinaria, dai lavori realizzati in assenza
o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non
abbiano determinato creazioni di superfici utili ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati»
(articolo ItaliaOggi Sette del
10.03.2014). |
APPALTI: Centrale
di committenza.
Domanda
Buongiorno, scrivo dall'Abruzzo e volevo chiedere se è
corretto che due Comuni che insieme non arrivano a 2.500
abitanti possono firmare una convenzione ad hoc creando tra
loro una centrale di committenza. Se non ho male
interpretato la legge del codice degli appalti, all'art. 33,
comma 3-bis, parla di minimo 5.000 abitanti.
Faccio presente che i due comuni condividono lo stesso
segretario comunale.
Risposta
L'art. 33, comma 3-bis, del dlgs n. 163/2006 stabilisce che:
«I Comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti
ricadenti nel territorio di ciascuna Provincia affidano
obbligatoriamente ad un'unica centrale di committenza
l'acquisizione di lavori, servizi e forniture_».
Tale previsione normativa si applica ai Comuni con
popolazione fino a 5.000 abitanti indipendentemente dalla
distinzione tra Comuni «piccolissimi» (sino a 1.000
abitanti) e «piccoli» (da 1.001 a 5.000 abitanti).
Sotto il profilo territoriale è necessario che si tratti di
enti della medesima Provincia essendo esclusa la gestione
associata tra amministrazioni limitrofe site in due diversi
territori provinciali.
Il legislatore ha introdotto una forma di accentramento
della gestione delle gare al fine di eliminare i costi
inutili connessi alla frammentazione della fase di
acquisizione di lavori, servizi e forniture.
La normativa prevede che i piccoli Comuni debbano effettuare
i propri acquisti attraverso una Centrale di Committenza
associandosi nell'ambito di una Unione di Comuni o
consorziandosi con un apposito accordo consortile. Se le
Amministrazioni decidono di stipulare una convenzione ex
art. 30 Tuel, per la gestione associata delle funzioni
fondamentali, graverà su di esse l'obbligo di stipulare un
accordo consortile.
È in capo al Consorzio istituito l'obbligo di dare vita a un
proprio ufficio di committenza accentrata o comunque di
attribuire tale funzione ad uno dei Comuni consorziati quale
«capo-fila». In alternativa è possibile far ricorso a
strumenti elettronici, gestiti da altre centrali di
committenza, tra i quali la normativa stessa include le
convenzioni Consip e il Mercato elettronico della p.a.
Anche le acquisizioni in economia mediante procedura di
cottimo fiduciario, che quindi prevedono l'indizione di una
gara informale, devono essere effettuate attraverso le
centrali di committenza. Possano escludersi, dalla gestione
obbligatoria delle Centrali uniche di committenza, le
acquisizioni in economia mediante amministrazione diretta e
l'affidamento diretto per importi inferiori ai 40 mila euro
così come previsto dall'art. 125, commi 8 e 11, del dlgs n.
163/2006
(articolo ItaliaOggi Sette del
10.03.2014). |
ATTI
AMMINISTRATI: Annullamento
in autotutela.
Domanda
Vorrei sapere quali sono i limiti per l'annullamento
d'ufficio di un provvedimento amministrativo. Mi chiedo, in
particolare, se la pubblica amministrazione possa procedere
all'annullamento di un provvedimento che riconosce a un
dipendente l'inquadramento, non dovuto, in una categoria
superiore. Preciso che l'atto è ancora in corso di
esecuzione e sono trascorsi più di due anni dalla sua
adozione.
Risposta
L'art. 21-nonies della Legge 241/1990 stabilisce che il
provvedimento amministrativo illegittimo può essere
annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse
pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli
interessi dei destinatari e dei controinteressati.
L'amministrazione può procedere, al ritiro d'ufficio
dell'atto illegittimo, dopo aver verificato che l'interesse
pubblico all'annullamento è prevalente rispetto a quello
alla conservazione dell'atto, alla luce degli interessi
privati coinvolti.
Per quanto riguarda la ragionevolezza del temine il Tar
Campania, con sentenza 7503/2006, ha precisato che
l'illegittimità della delibera annullata in autotutela e
avente a oggetto l'inquadramento, non dovuto, del dipendente
in una categoria superiore «...comporta l'indebita
erogazione di somme di denaro da parte dell'amministrazione,
il che integra un interesse pubblico alla rimozione
dell'atto in riferimento al quale l'interesse del privato
alla conservazione del provvedimento deve essere valutato
con estremo rigore».
Pertanto, a fronte di tale rilevante interesse pubblico e
degli effetti dell'illegittimità dell'atto, non può
ritenersi che l'annullamento intervenuto a più di due anni
di distanza superi il «termine ragionevole», il cui rispetto
è previsto dall'art. 21-novies della legge 241/1990.
In ogni caso il provvedimento di annullamento appare
legittimo anche alla luce dell'art. 1, comma 136, della
legge n. 311/2004 secondo cui, «al fine di conseguire
risparmi o minori oneri finanziari per le amministrazioni
pubbliche, può sempre esser disposto l'annullamento di
ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi, anche
se l'esecuzione degli stessi sia ancora in corso»
(articolo ItaliaOggi Sette del
10.03.2014). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Convenzione. Uffici comuni e
nomina datore di lavoro.
L'art. 3, comma 6, del d.lgs. 81/2008,
prevede che, per il personale delle pubbliche
amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs.
165/2001, che presta servizio con rapporto di dipendenza
funzionale presso altre amministrazioni pubbliche, gli
obblighi imposti dal medesimo decreto sono a carico del
datore di lavoro designato dall'amministrazione ospitante
(nel caso di associazione intercomunale, l'amministrazione
presso cui ha sede l'ufficio comune cui viene assegnato il
personale).
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla corretta
procedura da seguire per la nomina del datore di lavoro, ai
sensi del d.lgs. 81/2008, nella fattispecie in cui,
nell'ambito della convenzione quadro di un'associazione
intercomunale, tre amministrazioni comunali abbiano
stipulato una convenzione attuativa che prevede la
costituzione di 12 uffici comuni, distribuiti variamente nei
tre Comuni interessati. Le predette amministrazioni
intendono individuare una figura unitaria di datore di
lavoro, anche al fine di evitare la coincidenza di tale
figura con il Sindaco oppure di frazionare la figura tra 12
diversi titolari di p.o..
L'Ente istante precisa che intende procedere alla nomina del
funzionario in argomento mediante l'adozione di tre decreti
sindacali da parte dei rispettivi sindaci, in considerazione
del fatto che ognuno dei tre comuni conserva personalità
giuridica e costituisce 'autorità ospitante', ai
sensi dell'art. 3, comma 6, del d.lgs. 81/2008, del
personale che presta servizio presso l'Ente con rapporto di
dipendenza funzionale.
L'art. 2 del d.lgs. 81/2008 definisce la figura del 'datore
di lavoro' nell'ambito delle pubbliche amministrazioni
di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001 (enti
locali compresi).
La citata disposizione precisa che, per datore di lavoro, si
intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione,
ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei
soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio
avente autonomia gestionale, individuato dall'organo di
vertice delle singole amministrazioni tenendo conto
dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei
quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri
decisionali e di spesa.
Pertanto, il datore di lavoro, individuato ai sensi e per le
finalità della normativa di cui trattasi, è in sostanza il
dipendente (dirigente o titolare di p.o.) cui, a termini di
regolamento, viene affidata la responsabilità di un
determinato ufficio/servizio, all'interno della struttura
organizzativa dell'ente [1].
L'art. 18 del citato decreto elenca esaurientemente gli
obblighi organizzativi e gestionali propri del datore di
lavoro e dei dirigenti/responsabili che collaborano con lui,
vigilando sulla sicurezza dell'attività lavorativa dei
rispettivi settori.
Premesso un tanto, si osserva che lo scrivente Ufficio ha in
precedenza affrontato problematica analoga a quella
prospettata (con riferimento all'individuazione del datore
di lavoro nell'ambito di un'associazione intercomunale), nei
termini di seguito riportati [2].
L'art. 3, comma 6, del del d.lgs. 81/2008 prevede che, per
il personale delle pubbliche amministrazioni di cui
all'articolo 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001 che presta
servizio con rapporto di dipendenza funzionale presso altre
amministrazioni pubbliche, organi o autorità nazionali, gli
obblighi imposti dall'art. 18 del citato decreto sono a
carico del datore di lavoro designato dall'amministrazione,
organo o autorità ospitante.
Pertanto, nel caso di associazione intercomunale,
l'amministrazione ospitante risulta individuata nell'ente
locale presso cui ha sede l'ufficio comune e al quale viene
assegnato il personale dei Comuni associati, in dipendenza
funzionale. Detta amministrazione deve quindi procedere a
designare il datore di lavoro responsabile per la sicurezza,
ai fini del d.lgs. 81/2008.
Infatti, l'art. 47, comma 1, del CCRL del 07.12.2006
stabilisce che il personale degli enti che costituiscono
uffici comuni nell'ambito delle forme associative, ai quali
sia affidato l'esercizio delle funzioni pubbliche in luogo
degli enti partecipanti all'accordo costitutivo, viene
assegnato dagli enti stessi agli uffici comuni.
Come precisato dal successivo comma 2 dell'articolo in
esame, detta assegnazione avviene automaticamente in forza
della stipula della convenzione attuativa che costituisce
l'ufficio della forma associativa.
Il comma 3 del citato art. 47 precisa inoltre che
l'assegnazione del personale non comporta la costituzione di
un distinto rapporto di lavoro, il vincolo di dipendenza
organica permane con l'ente di provenienza, e (ciò che
rileva ai fini della questione sottoposta) il rapporto di
servizio si svolge nell'ambito dell'ufficio della forma
associativa [3].
Pertanto, appare corretta la procedura indicata dall'Ente,
che vede coinvolti, per la designazione del datore di
lavoro, i sindaci dei tre comuni in cui hanno sede gli
Uffici comuni dell'Associazione.
---------------
[1] L'art. 16 del d.lgs. 81/2008 prevede inoltre che il
datore di lavoro possa delegare le proprie funzioni ad altri
soggetti, con determinati limiti e condizioni.
[2] Cfr. prot. n. 20833 dell'08.07.2013.
[3] Cfr. anche Comparto unico e contrattazione/Pareri -
Convenzioni e forme associative, parere n. 7., consultabile
sul sito della regione.fvg.it
(07.03.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
NEWS |
EDILIZIA
PRIVATA:
Sconti fiscali e cubature per il social housing.
Semplificazione. Possibile l'approvazione di piani anche in
variante urbanistica, nessun limite minimo per gli alloggi
sociali.
Tra le pieghe del decreto
Lupi sull'emergenza casa approvato mercoledì scorso spuntano
due forti misure per incentivare gli operatori privati
(imprese di costruzione, società immobiliari, cooperative
edilizie o di abitazione) ad aumentare l'offerta di alloggi
sociali, a far cioè decollare finalmente quel social housing
di cui si parla dal 2008 senza i massicci risultati sperati.
Si tratta di una maxi-deduzione dai redditi di impresa pari
al 40% dei ricavi da canone di locazione per le aziende che
costruiscono o recuperano alloggi da destinare a edilizia
sociale, e varianti iper-semplificate per riconvertire
all'edilizia sociale piani urbanistici già rilasciati al 31.12.2013.
L'obiettivo del governo è sbloccare una buona volta in tempi
rapidi gli investimenti del fondo Fia di Cassa Depositi. Gli
sconti fiscali si applicheranno per interventi di
realizzazione di alloggi sociali, sia di nuova costruzione
sia mediante manutenzione straordinaria o recupero di
alloggi esistenti. Le imprese che realizzano tali interventi
potranno dedurre ai fini Ires e Irap, per un periodo non
superiore a dieci anni, il 40% dei redditi da locazione.
Non c'è nessun altro paletto, e dunque lo sconto dovrebbe
applicarsi anche agli investimenti già realizzati. L'onere
netto per lo Stato è stimato a regime in 15 milioni di euro
all'anno. La definizione di «alloggio sociale» è quella del
Dm Infrastrutture del 22.04. 2008, molto ampia: tutti gli
alloggi dati in locazione (permanente o per almeno 8 anni) o
venduti, a condizioni più vantaggiose di quelle di mercato,
«alloggi realizzati o recuperati da operatori pubblici e
privati, con il ricorso a contributi o agevolazioni
pubbliche», quali finanziamenti, esenzioni fiscali,
assegnazione di aree o immobili, incentivi urbanistici.
Per spingere l'edilizia sociale il decreto legge consente
anche l'approvazione di piani urbanistici in variante, con
una norma che si presta ad applicazioni molto flessibili,
anche per sbloccare o incentivare operazioni miste di
riqualificazione urbana, purché venga inserita una quota
minima (non specificata) di edilizia sociale.
In questo caso si parla solo di alloggi in locazione, e
«senza consumo di nuovo suolo», dunque solo per operazioni
di ristrutturazione edilizia, demolizione e ricostruzione
anche con cambio di sagoma o anche diversa localizzazione
dell'immobile ricostruito (purché all'interno dello stesso
lotto), variazione di destinazione d'uso senza opere. È
ammessa anche la «creazione di servizi e funzioni connesse e
complementari alla residenza» compreso il commercio (con
esclusione delle grandi strutture di vendita), ai fini di
«garantire integrazione sociale agli inquilini» (evitare
quartieri dormitorio), in misura comunque non superiore al
20% della superficie utile.
Per fare tutto questo è ammesso,
su titoli edilizi rilasciati o convenzioni urbanistiche
firmate entro il 31 dicembre scorso, fare veloci e rapide
riconversioni dei progetti, con convenzioni dirette Comune-operatore anche in variante agli strumenti
urbanistici. Sono escluse solo le aree vincolate, quella a
inedificabilità assoluta e i centri storici (articolo Il Sole 24 Ore del
16.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti elettronici, la differenziata sale a 4 chili per
abitante.
Ambiente. Il decreto legislativo.
Via libera definitivo del
Consiglio dei ministri al nuovo decreto legislativo sui Raee
(rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche) che
attua la direttiva 2012/19/Ue e archivia, quasi
integralmente, il precedente Dlgs 151/2005.
Il testo approvato ieri recepisce molte osservazioni
formulate sullo schema preliminare dalle competenti
Commissioni di Camera e Senato e dalle Regioni.
Uno degli obiettivi della nuova disciplina risiede
nell'incremento dei livelli di raccolta differenziata e
recupero. I primi si attestano su almeno 4 chili/abitante
fino al 31.12.2015 e all'01.01.2019 l'asticella si
alzerà fino al 65%/anno delle apparecchiature nuove immesse
sul mercato nei tre anni precedenti oppure l'85% dei Raee
prodotti in Italia.
Gli obiettivi di recupero, riciclo e preparazione per il
riutilizzo sono ricompresi tra il 50 e l'85% in base alle
categorie di Raee e al periodo d'applicazione del nuovo
decreto. Infatti, fino al 14.08.2018 il decreto si
applica alle apparecchiature elettriche ed elettroniche (Aee)
presenti nell'allegato I (che ora comprendono anche i
pannelli fotovoltaici). Alcune Aee, come materiali bellici e
lampade a incandescenza, sono escluse. Dal 15.08.2018,
però, il campo di applicazione si estende a tutte le Aee
presenti nell'allegato III e classificate in sei categorie.
Il futuro ampliamento non tocca alcune Aee come quelle da
inviare nello spazio e quelle mediche, se infette.
Se i Raee potranno essere riutilizzati dovranno andare ai
centri accreditati di preparazione per il riutilizzo. Ma
occorre aspettare il Dm di cui all'articolo 180-bis comma 2,
del "Codice ambientale". Il nuovo decreto introduce il
cosiddetto "uno contro zero", che si ha quando il cittadino
consegna gratuitamente ad un distributore il proprio Raee
con dimensioni esterne inferiori a 25 cm anche senza
l'acquisto di una nuova Aee equivalente. Il ritiro è
obbligatorio per le superfici di vendita di Aee al dettaglio
di almeno 400 mq e facoltativo per le aree minori.
I vari stoccaggi non sono soggetti ad autorizzazione ma (si
legge nella relazione al decreto) «i distributori sono
comunque tenuti» alla gestione nel rispetto del Codice
ambientale. Pertanto, sembra di capire che fino al previsto
decreto sulle procedure semplificate, almeno le procedure
ordinarie sulla tracciabilità vanno osservate. Per ridurre
al minimo l'immissione dei Raee domestici nei cassonetti con
i rifiuti urbani misti, i centri di raccolta comunale
accettano gratuitamente quelli conferiti da cittadini,
distributori, installatori e gestori dei centri di
assistenza tecnica prodotti nel territorio ove è ubicato il
centro di raccolta (salvo convenzione).
L'indicazione dell'ecocontributo
è sempre facoltativa sia sulla fattura tra operatori
economici, sia sul prezzo di vendita al consumatore finale.
I sistemi individuali opereranno previo riconoscimento
ministeriale, mentre quelli collettivi si adegueranno ad uno
statuto tipo oggetto di un futuro Dm. I sistemi collettivi
assumeranno la forma consortile e saranno partecipati anche
da distributori, raccoglitori, trasportatori, riciclatori e
recuperatori di Raee, previo accordo con i produttori di Aee.
Inoltre, con il rafforzamento dei criteri di qualità voluti
dal nuovo decreto, continueranno ad assicurare elevati
standard di riciclo e sicurezza.
Contro lo "scippo" di
materiali e risorse perpetrato a danno dell'economia
nazionale dalle esportazioni di Raee mascherati da Aee
usate, l'allegato VI reca i requisiti minimi che il
possessore deve dimostrare; in difetto, si presume si tratti
di un tentativo di esportazione illegale di Raee per la
quale scatta il traffico illecito di rifiuti (si deroga in
caso di accordo di trasferimento tra imprese di Aee
difettose da restituire o riparare) (articolo Il Sole 24 Ore del
15.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI -
VARI: Autovelox valido solo con segnali giusti.
Codice della strada. Sentenza rigorosa sui preavvisi di
controllo.
Non basta che l'autovelox
sia visibile e presegnalato. E nemmeno che il verbale
d'infrazione dia atto dell'esistenza dei cartelli di
presegnalazione: per garantire al cittadino il diritto di
difesa, l'atto deve anche specificare se la postazione di
controllo della velocità e la relativa segnaletica era
temporanea o permanente. Cioè se il controllo è stato
effettuato da una pattuglia appostata a bordo strada oppure
con un apparecchio non presidiato da agenti e come
quest'attività era stata resa nota ai guidatori in transito.
Lo ha stabilito la VI Sez. civile della Corte di Cassazione,
con la sentenza 14.03.2014 n. 5997.
La pronuncia non è chiarissima. Nella massima, richiama solo
l'obbligo di indicare se la postazione era temporanea o
permanente. Ma lo fa trattando un motivo d'impugnazione con
cui il ricorrente solleva dubbi sulla segnaletica, che
peraltro occupa una cospicua parte della motivazione della
sentenza, prima che venga enunciata la massima.
Dunque, il principio stabilito dalla Cassazione sembra
applicabile anche alla segnaletica e ciò rischia di creare
più di un problema alle forze dell'ordine: finora dai
verbali era spesso possibile evincere se la postazione fosse
temporanea o permanente, ma nulla si poteva capire riguardo
alla presegnalazione. Non solo: la stessa segnaletica
normalmente è apposta senza distinguere i due tipi di
postazione, nonostante già la direttiva sui controlli
emanata dal ministero dell'Interno il 14.08.2009 –riprendendo precedenti pareri delle Infrastrutture– al
paragrafo 7 stabilisca che i segnali permanenti possono
essere usati anche per accertamenti temporanei solo se gli
appostamenti sono sistematici. Negli altri casi, le
pattuglie dovrebbero ogni volta piazzare cartelli di
preavviso mobili (prassi piuttosto rara), per rispettare la
direttiva e il principio di credibilità della segnaletica,
anche a scapito della praticità e della sicurezza degli
operatori.
La Cassazione sembra porsi in linea con questo indirizzo,
perché nella sentenza di ieri parte da un'ampia citazione di
tutte le norme che impongono di rendere noti i controlli di
velocità (legge 168/2002 e Dl 117/2007 che ha aggiunto
all'articolo 142 del Codice della strada il comma 6-bis) per
concludere che esse sono cogenti e quindi che «la preventiva
segnalazione univoca ed adeguata...non può non riverberarsi
sulla legittimità degli accertamenti, determinandone la
nullità, poiché, diversamente, risulterebbe una prescrizione
priva di conseguenze, che sembra esclusa dalla stessa
ragione logica della previsione normativa...senza, quindi,
lasciare alcun margine di discrezionalità alla pubblica
amministrazione».
Frasi nette, che indicano una posizione "rigorista"
della Cassazione sulla segnaletica dei controlli di
velocità. E che potrebbero probabilmente essere utilizzate
per ricorsi che riguardano le svariate altre regole sui
segnali per autovelox (articolo Il Sole 24 Ore del
15.03.2014). |
ENTI LOCALI -
VARI: Autovelox, sul verbale va segnalato il tipo di postazione.
Sentenza della cassazione.
In caso di eccesso di velocità rilevato con dispositivi
elettronici l'agente accertatore deve attestare sul verbale
di contestazione se la postazione di controllo è temporanea
o permanente.
Lo ha stabilito la VI Sez. civile della
Corte di Cassazione con la sentenza 14.03.2014 n. 5997.
L'obbligo della preventiva segnalazione dell'apparecchio di
rilevamento della velocità, previsto in un primo momento
dall'art. 4 del decreto legge n. 121 del 20.06.2002
(convertito nella legge n. 168 del 2002) per i soli
dispositivi di controllo remoto senza la presenza diretta
dell'operatore di polizia, è stato successivamente esteso
dall'art. 3 del decreto legge n. 117 del 03.08.2007
(convertito nella legge n. 160 del 02.10.2007), a tutti
i tipi e modalità di controllo effettuati con apparecchi
fissi o mobili installati sulla sede stradale.
Il comma
6-bis dell'art. 142, introdotto dal dl n. 117/2007, dispone
che le postazioni di controllo sulla rete stradale per il
rilevamento della velocità devono essere preventivamente
segnalate e ben visibili. In attuazione di tale disposto, il
decreto del ministero dei trasporti del 15.08.2007 ha
disciplinato le modalità di segnalazione delle postazioni di
controllo, prevedendo anche l'impiego di segnali stradali di
indicazione temporanei o permanenti. Come da costante
giurisprudenza, il mancato preventivo presegnalamento della
postazione determina l'illegittimità dell'accertamento
dell'eccesso di velocità effettuato con dispositivi
elettronici.
Ma con la sentenza n. 5997 del 14.03.2014, la sesta sezione
civile della Cassazione si è espressa in senso ancor più
restrittivo, affermando che nel verbale di contestazione
deve essere attestata dall'agente accertatore compiutamente
la modalità di accertamento e quindi anche il carattere
temporaneo oppure permanente della postazione di controllo.
Questo per consentire al trasgressore di essere posto nella
condizione di poter valutare la legittimità o meno
dell'accertamento eseguito in relazione ai prescritti
adempimenti normativi e regolamentari (articolo ItaliaOggi del 15.03.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Più controlli sullo smaltimento di pc e tv.
Prevenire o ridurre gli impatti sull'ambiente connessi alla
produzione di apparecchiature elettriche ed elettroniche,
incrementarne i livelli di raccolta e di recupero,
migliorare la qualità del trattamento dei Raee, rafforzare
le misure di controllo, ridurre i costi amministrativi
mantenendo al contempo un elevato livello di tutela
dell'ambiente.
Lo prevede il decreto legislativo approvato
ieri dal Governo che recepisce la direttiva 2012/19 con
l'obiettivo di prevenire o ridurre gli impatti sull'ambiente
connessi ai rifiuti elettrici ed elettronici (Raee).
Varato
anche un decreto legislativo recepisce l'articolo 30 della
direttiva 2012/18UE in materia di controllo del pericolo di
incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze
pericolose; il provvedimento modifica la sezione «prodotti
petroliferi» della parte 1 dell'allegato I della direttiva
96/82CE (cosiddetta «Seveso»), aggiungendo gli oli
combustibili densi all'elenco delle sostanze pericolose ai
fini dell'applicazione delle misure di prevenzione dei
rischi. Sul testo sono stati acquisiti i pareri della
Conferenza unificata e delle Commissioni parlamentari
competenti.
Il Consiglio ha poi deliberato l'approvazione di
due regolamenti da emanarsi con decreto del presidente della
Repubblica in materia di individuazione delle procedure per
l'attivazione dei poteri speciali nei settori dell'energia,
dei trasporti e delle comunicazioni, a norma dell'articolo
2, comma 9, del decreto-legge 15.03.2012, n. 21, nonché in
materia di individuazione degli attivi di rilevanza
strategica nei medesimi settori, a norma del medesimo
decreto-legge, articolo 2, comma 1, con l'obiettivo di
adeguare la normativa nazionale alle regole e ai principi
del diritto europeo in materia di esercizio di poteri
speciali da parte del Governo a tutela dei propri asset
strategici, in caso ricorra una situazione eccezionale di
minaccia effettiva di grave pregiudizio per gli interessi
pubblici.
In particolare, per i settori dell'energia, dei
trasporti e delle comunicazioni, si è tenuto conto della
necessità di tutelare le attività di realizzazione e
gestione delle reti energetiche di interesse nazionale, le
grandi reti e impianti di trasporto di interesse nazionale,
destinate anche a garantire i principali collegamenti trans
europei, nonché le attività di realizzazione e di gestione
delle reti e degli impianti di comunicazione utilizzati per
la fornitura dell'accesso agli utenti finali dei servizi
rientranti negli obblighi del servizio universale.
Ilva di Taranto. Approvato il Piano delle misure e delle
attività di tutela ambientale e sanitaria riguardante lo
stabilimento dell'Ilva di Taranto. Il Piano, con il relativo dpcm,
prevede le azioni e i tempi necessari per garantire il
rispetto delle prescrizioni di legge e dell'Autorizzazione
integrata ambientale (Aia).
Il Piano inoltre modifica l'Aia limitatamente alla
modulazione dei tempi di attuazione delle relative
prescrizioni, in modo da consentire il completamento degli
adempimenti non oltre trentasei mesi dopo l'entrata in
vigore della legge n. 61/2013 sul Commissariamento
dell'Ilva, approvata il 3 agosto scorso. Il decreto di
approvazione del piano, infine, conclude i procedimenti di
riesame previsti dall'Aia e ne costituisce integrazione (articolo ItaliaOggi del 15.03.2014). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Contro la p.a. lumaca è possibile chiedere ai Tar decreti
ingiuntivi. In Gazzetta Ufficiale la direttiva che prevede 30 euro
d'indennizzo al giorno.
Imprese all'incasso se la p.a. ritarda. Contro gli uffici
lumaca è possibile chiedere al Tar un decreto ingiuntivo per
ottenere l'indennizzo da ritardo nella conclusione del
procedimento.
La direttiva della Funzione pubblica del 09.01.2014 (in G.U. n. 59 del 12.03.2014) fornisce
linee guida per l'applicazione sull'applicazione
dell'articolo 28 del dl 69/2013, che ha introdotto
l'indennizzo da ritardo nella conclusione dei procedimenti
ad istanza di parte (si veda ItaliaOggi del 7 marzo scorso).
Peraltro anche per ottenere l'indennizzo bisogna sottostare
a vari passaggi burocratici con qualche trabocchetto e
comunque si tratta di 30 euro al giorno per un massimo di 2
mila euro.
La novità ha carattere transitorio (18 mesi), riguarda solo
le imprese e i procedimenti relativi all'avvio e
all'esercizio dell'attività di impresa e solo i procedimenti
iniziati a partire dal 21.08.2013. Per i procedimenti a
cavallo di quella data l'indennizzo non si applica.
La norma punta a favorire le imprese. L'indennizzo, infatti,
viene pagato per il solo fatto che è scaduto il tempo utile
all'amministrazione per il compimento del procedimento. In
altre parole, non bisogna provare che la pubblica
amministrazione è stata negligente e colpevole del ritardo
(come, invece, bisogna fare se si richiede il risarcimento
dei «danni»). Anche se il ritardo è scusabile o se la p.a.
ha agito in buona fede o, ancora, se il ritardo è dovuto a
caso fortuito o forza maggiore, nonostante tutto questo
l'indennizzo è dovuto.
Bisogna però intendersi sul momento, superato il quale si
può pretendere l'indennizzo. Non basta che sia decorso il
termine per la conclusione del procedimento, ma occorre
avere attivato (entro perentori 20 giorni) l'intervento
sostitutivo; e l'indennizzo scatta solo dopo il decorso del
termine (la metà di quello ordinario) concesso, per chiudere
la pratica, al funzionario, chiamato a sostituire il primo
funzionario, rimasto inerte
La circolare spiega il sistema con l'esempio di
un'autorizzazione da rilasciare entro 60 giorni; scaduto il
60° giorno l'interessato ha 20 giorni per ricorrere
all'intervento sostitutivo (ciascun ente pubblico deve
designare i responsabili); a questo punto il secondo
funzionario ha 30 giorni di tempo per concludere i
procedimento; solo decorso inutilmente quest'ultimo termine
è comunque dovuto l'indennizzo da ritardo. Attenzione però:
se non si chiede l'intervento sostitutivo, si può dire addio
all'indennizzo. Anzi la circolare riferisce che quando si
chiede l'intervento sostitutivo l'impresa si deve chiedere
anche l'indennizzo da ritardo. Mettiamo poi che, scaduti
tutti i termini, l'amministrazione adotti l'atto: non fa
niente, l'indennizzo è dovuto lo stesso.
Ancora la circolare stabilisce che una volta scaduto il
tempo a disposizione del funzionario sostituto, questi deve
liquidare l'indennizzo senza un'ulteriore richiesta
dell'interessato.
E se non lo fa l'impresa può andare al Tar e chiedere un
decreto ingiuntivo, che ordini il pagamento dell'indennizzo;
certo l'impresa ha anche la possibilità di agire contro il
silenzio della p.a. al fine di ottenere una sentenza, che la
condanni ad adottare il provvedimento. Anzi le due azioni
sono cumulabili e, quindi, si può andare contestualmente al
Tar per contestare l'inerzia dell'amministrazione e la
condanna al pagamento dell'indennizzo.
L'indennizzo da ritardo non è applicabile nelle ipotesi di
Denunzia di inizio attività (o di Segnalazione certificata
di inizio attività), anche se relative all'esercizio
dell'attività di impresa (articolo ItaliaOggi del 15.03.2014). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: P.a., chi non paga non assume. Blocco assunzioni per i
ritardi oltre 60 giorni. Ssn escluso.
Lo prevede il ddl sui pagamenti dei debiti. Niente premi
Patto agli enti lumaca.
Le pubbliche amministrazioni che pagano in ritardo i
fornitori non potranno più assumere dipendenti a nessun
titolo (co.co.co. compresi) e se hanno in corso procedure di
stabilizzazione di precari dovranno interromperle.
La
regola, che si applica a tutte le p.a. centrali e locali e
prevede solo un'eccezione per gli enti del Servizio
sanitario nazionale, è contenuta nel ddl sul pagamento dei
debiti p.a. che il consiglio dei ministri ha iniziato a
esaminare mercoledì.
In attesa che il governo Renzi sveli definitivamente le
carte sulle risorse messe in campo per chiudere gli
arretrati del 2012 e iniziare il pagamento dei debiti
maturati dalle p.a. nel 2013 (la bozza di ddl abbonda di
omissis in proposito e le poche cifre disponibili si
ricavano dalla relazione di accompagnamento, si veda
ItaliaOggi di ieri), il provvedimento contiene molte norme
più strettamente «ordinamentali» volte a prevenire
l'accumulo di un ulteriore debito monstre come quello che
attualmente Bankitalia stima in 90 miliardi di euro (di cui
22 sono stati pagati per effetto del dl 35/2013).
Tra queste la più dissuasiva è di sicuro quella sul blocco
delle assunzioni per gli enti che registreranno ritardi medi
nei pagamenti superiori a 60-90 giorni per il 2014 e a 30-60
giorni dal 2015.
La base di partenza per l'accertamento del livello di
virtuosità nei pagamenti saranno i prospetti che dovranno
essere allegati alle relazioni di accompagnamento ai bilanci
consuntivi. Questi prospetti, sottoscritti dal legale
rappresentante dell'ente e dal responsabile finanziario,
dovranno indicare l'importo dei pagamenti effettuati in
ritardo e il tempo medio impiegato per saldare le fatture.
In caso di superamento dei termini, la relazione dovrà
indicare le misure che l'amministrazione intende adottare
per onorare tempestivamente i debiti.
Fermo restando che, se
lo sforamento dei tempi previsti dalla normativa europea
supera la soglia massima di tollerabilità (90 giorni per
quest'anno e 60 a regime), dall'anno successivo a quello in
cui si è registrata la violazione, scatterà la sanzione del
blocco delle assunzioni «con qualsivoglia tipologia
contrattuale, compresi i rapporti di collaborazione
coordinata e continuativa e di somministrazione, anche con
riferimento ai processi di stabilizzazione in atto». Gli
enti non potranno fare i furbi perché sarà vietato
accordarsi con i privati per aggirare la norma, per esempio
concordando una tempistica di pagamento più lunga.
Gli enti locali avranno poi un incentivo ulteriore a saldare
tempestivamente le fatture. Solo le amministrazioni
rispettose dei tempi di pagamento potranno infatti
beneficiare di sconti sul patto di stabilità.
Obbligo di protocollare le fatture. Dal 1° luglio le p.a.
dovranno protocollare le fatture (o le richieste di
pagamento) per somministrazioni, forniture, appalti e
prestazioni professionali, annotandole entro 10 giorni nel
registro fatture. I creditori, dal canto loro, a decorrere
dal 01.06.2014, potranno comunicare, mediante la
piattaforma elettronica per la certificazione dei crediti, i
dati delle fatture emesse dal 1° gennaio.
Entro il 15 di
ogni mese le p.a. dovranno comunicare, sempre tramite la
piattaforma elettronica gestita dal Mef, i dati relativi ai
debiti non estinti, certi, liquidi ed esigibili per i quali
siano stati superati i termini di pagamento imposti
dall'Europa con conseguente applicazione del tasso di mora
previsto dal dlgs 192/2012 (8% più il tasso Bce).
Anticipazioni di tesoreria.
Per non rallentare le procedure di pagamento dei debiti
arretrati, la bozza di ddl proroga fino a fine anno la
possibilità per gli enti locali di fare ricorso ad
anticipazioni di tesoreria pari a 5/12 (al posto di 3/12) (articolo ItaliaOggi del 15.03.2014). |
APPALTI - EDILIZIA
PRIVATA:
Incentivi anche se il Durc è negativo
Stop allo stop agli incentivi se il Durc è negativo. Anche
se prive di regolarità contributiva, le imprese avranno
comunque diritto alle agevolazioni. Tuttavia, prima di
finire nelle casse aziendali, esse serviranno a saldare le
scoperture contributive.
È quanto prevede la bozza di decreto legge approvata dal
consiglio dei ministri di mercoledì recante «disposizioni
urgenti per favorire il rilancio dell'occupazione e per la
semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese».
La regolarità contributiva.
Per regolarità contributiva s'intende la correntezza nei
pagamenti ed adempimenti previdenziali, assistenziali e
assicurativi (Inps e Inail, nonché casse edili nel caso di
imprese di tale settore) con riferimento ai tutti gli
obblighi ricadenti sull'intera situazione aziendale. Il Durc
è un certificato che attesta tale regolarità per un'impresa.
La regolarità contributiva (ossia il possesso del Durc da
parte dell'azienda) è richiesta in diversi casi: appalti,
lavori edili ecc. La Finanziaria 2007 (art. 1, comma 1175,
della legge n. 296/2007) ha esteso tale vincolo anche ai
benefici normativi e contributivi previsti dalla normativa
in materia di lavoro e legislazione sociale, fermo restando
il rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali
nonché di quelli regionali, territoriali o aziendali.
Il decreto Fare.
La legge n. 98/2013 (conversione del dl n. 69/2013) ha
previsto che alle erogazioni di sovvenzioni, contributi,
sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici, di
qualunque genere, compresi quelli di cui all'art. 1, comma
553, della legge n. 266/2005 (cioè i benefici e le
sovvenzioni comunitarie per la realizzazione
d'investimenti), da parte di pubbliche amministrazioni, per
le quali e «prevista» l'acquisizione del Durc, si applicano
«in quanto compatibili» le previsione del comma 3 dell'art.
31 della stessa legge.
Quest'ultima norma disciplina il c.d. «intervento
sostitutivo», vale a dire l'obbligo per le pubbliche
amministrazioni di trattenere dal pagamento da fare a
un'impresa non in regolarità contributiva, l'importo
corrispondente alle inadempienze evidenziate dal Durc. In
pratica è previsto che in presenza di un Durc negativo con
irregolarità nei versamenti dovuti a Inail, Inps o casse
edili, le stazioni appaltanti si sostituiscano all'impresa
debitrice (appaltatrice o subappaltatrice avente) e
procedano a pagare, in tutto o in parte, il debito
contributivo (a Inps, Inail o casse edili) trattenendo il
relativo importo dal corrispettivo dovuto in forza
dell'appalto.
La legge n. 98/2013, dunque, ha esteso l'utilizzo di questa
disciplina (l'intervento sostitutivo) prevedendone
l'applicazione «in quanto compatibile» anche alle
amministrazioni pubbliche che erogano contributi,
sovvenzioni, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici
di qualunque genere per i quali sia «prevista»
l'acquisizione d'ufficio del Durc.
Le novità.
Il dl approvato mercoledì interviene proprio su questa norma
della legge n. 98/2013. Due le novità. La prima rende
obbligatorio il Durc a tutte le erogazioni di sovvenzioni,
contributi, sussidi, ausili finanziarie e vantaggi economici
di qualunque genere, compresi benefici e sovvenzioni Ue per
la realizzazione d'investimenti. La seconda rende
obbligatoria negli stessi casi l'intervento sostitutivo.
La conseguenza più interessante sembra quella a favore delle
aziende. Oggi, infatti, è previsto che in caso di Durc
negativo l'azienda perda il diritto agli incentivi per un
mese ovvero, in caso di Durc positivo, ne abbia diritto per
quattro mesi (si veda la recente disciplina dettata
dall'Inps a proposito del «Durc interno»). In altri casi,
l'assenza di regolarità contributiva nega addirittura
l'accesso a un bando di assegnazione di agevolazioni: è il
caso, per esempio, dei finanziamenti Inail (Isi).
In questi
due esempi, allora, le modifiche del decreto legge
dovrebbero comportare che l'azienda sarà comunque e sempre
ammessa agli incentivi, cioè anche se in possesso di Durc
negativo. Tuttavia, con l'obbligatorietà dell'intervento
sostitutivo, Inps o Inail copriranno prima le scoperture
contributive e poi potranno erogare gli incentivi
all'azienda (articolo ItaliaOggi del 15.03.2014). |
VARI:
Il bonus mobili diventa grande.
L'importo può superare quello della ristrutturazione.
PIANO CASA/ Il decreto impone comunque di rispettare il
limite dei 10 mila euro.
Bonus mobili riconosciuto anche quando l'importo sostenuto
per l'acquisto degli arredi risulta superiore a quello della
ristrutturazione edilizia, sempre nel rispetto del limite
massimo di 10 mila euro.
Lo prevede il decreto legge in
materia di emergenza abitativa (il cosiddetto Piano Casa)
approvato mercoledì scorso dal Consiglio dei ministri (si
veda ItaliaOggi di ieri).
L'interpretazione fornita chiude una diatriba sorta fin dal
momento dell'approvazione del bonus che, come noto, risulta
intimamente collegato alle spese di ristrutturazione
edilizia, di cui al comma 2, art. 16, dl 04/06/2013 n. 63,
convertito nella legge n. 90/2013 come recentemente
modificato dal comma 139, dell'art. 1, della legge 147/2013
(Stabilità 2014). Come si evince chiaramente dalla relazione
illustrativa al decreto in commento le detrazioni Irpef per
l'acquisto di mobili ed elettrodomestici sono fruibili
ancorché l'ammontare sia nettamente superiore a quello
sostenuto per la ristrutturazione edilizia, di cui al comma
1, dell'art. 16-bis, del dl 63/2013.
In estrema sintesi, tenendo conto che il contribuente può
acquistare mobili per un ammontare massimo di 10 mila euro,
incamerando un bonus pari al 50% (5 mila euro) da spalmare
in 10 anni per abbattere l'Irpef dovuta, il legislatore ha
voluto confermare che detta detrazione risulta spendibile
anche se le spese per la ristrutturazione edilizia,
necessarie anche per l'ottenimento della detrazione sui
mobili ed elettrodomestici, risultano sostenute per un
ammontare inferiore, per esempio per un ammontare pari a 2
mila euro.
Con riferimento alle norme sul social housing si conferma
che il legislatore prevede un riconoscimento di un
abbattimento pari al 40% del ricavo da locazione ai fini
della determinazione del reddito d'impresa (si tassa il 60%
del canone), sia ai fini dell'Irpef che dell'imposta
regionale sulle attività produttive (Irap), a decorrere
dalla data di fine lavori di costruzione, di manutenzione
ordinaria o di recupero dell'alloggio sociale (dm
22/04/2008), sempreché la Commissione europea conceda il via
libera per assenza di aiuti di stato mascherati, in ossequio
alla clausola «standstill».
Per i conduttori, titolari di contratti di locazione di
alloggi di questo tipo, che li utilizzano quale propria
abitazione principale, viene riconosciuta una detrazione
variabile, ai fini dell'imposizione diretta (900 euro per
redditi fino a euro 15.493,71 e 450 euro per redditi
maggiori di detto tetto ma non superiori a euro 30.987,41),
per il triennio 2014/2015; detta agevolazione, essendo del
tutto transitoria (triennio), non sarà inserita all'interno
del testo unico delle imposte dirette.
Un'ulteriore agevolazione (si veda ItaliaOggi, 13/03/2014)
concerne la possibilità, per il conduttore di un alloggio
sociale, di portare in abbattimento, in tutto o in parte, i
canoni di locazione, pagati fino al riscatto dell'immobile,
dal prezzo finale di acquisto, in relazione alla possibilità
concessa di procedere, trascorso un periodo minimo di sette
anni, al riscatto dell'unità immobiliare ricevuta in
godimento.
Sulla base dei recenti chiarimenti forniti dall'Agenzia
delle entrate (parere n. 954-63/2013) per i quali, senza una
clausola di trasferimento vincolante per entrambe le parti
(proprietario e conduttore), l'affitto di un immobile con
opzione all'acquisto da parte del conduttore deve essere
trattato fiscalmente, e fino al trasferimento, come una
semplice locazione, con imputazione dei canoni in ogni
periodo d'imposta, il legislatore ha confermato, nello
schema di decreto in commento, che anche in tal caso i
corrispettivi delle cessioni degli alloggi si considerano
conseguiti alla data dell'esercizio del riscatto dell'unità
immobiliare da parte del conduttore:
La conseguenza è che detti ricavi, ai fini fiscali, si
considerano realizzati al momento dell'effetto traslativo
della proprietà e che le imposte versate sugli acconti
prezzo costituiscono un credito d'imposta, da definirsi con
un provvedimento interministeriale ad hoc.
Come si legge dalla relazione di accompagnamento, infatti,
stante il fatto che le disposizioni in commento vincolano
esclusivamente il proprietario dell'unità immobiliare e non
anche il conduttore, il quale ha soltanto la facoltà
(opzione) di procedere nel riscatto del bene, l'operazione,
in completa aderenza alle indicazioni di prassi, è soggetta
a un duplice trattamento fiscale disposto da una parte per
le locazioni e dall'altra per l'acquisto, con il
riconoscimento di un credito d'imposta per gli acconti
prezzo versati durante il periodo di locazione (articolo ItaliaOggi del 14.03.2014
- tratto da www.fiscooggi.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Compensi raddoppiati.
La difesa in giudizio costerà fino al 190% in più.
AVVOCATI/È questo il primo effetto dei nuovi parametri
forensi.
Compensi più che raddoppiati per gli avvocati con i nuovi
parametri forensi. Confrontando infatti i valori del dm
140/2012 con quelli contenuti nelle tabelle del regolamento
appena emanato dal ministro della giustizia, Andrea Orlando,
in fase di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, la
differenza è più che evidente.
Il Consiglio nazionale forense ha pubblicato sul proprio
sito un raffronto esemplificativo, prendendo in
considerazione un giudizio ordinario e sommario di
cognizione, per una causa di valore pari a 15 mila euro.
Andando per fasi processuali, quella di studio della
controversia, con
il dm Orlando, è liquidata dal giudice con un compenso
superiore del 59,1% rispetto al vecchio decreto parametri.
La fase introduttiva passa invece da 300 a 740 euro, con un
aumento del 146,7%.
Ancora più elevata la differenza per la fase istruttoria,
che sale da 550 euro a 1.600. Mentre quella decisionale
passa da 700 a 1.620 euro. In totale, il giudice, con il dm
140/2012, avrebbe dovuto liquidare, in media 2.100 euro. Con
il dm Orlando il 130,2% in più, ovvero 4.835 euro. Se invece
prendiamo una causa da 75 mila euro, vediamo che per la fase
di studio il compenso passa da 1.900 a 2.430 euro, per
quella introduttiva da mille euro a 1.550. Netta la
differenza per la fase istruttoria, che sale da due mila a
5.400 euro, mentre la fase decisoria passa da 2.600 a 4.050
euro.
Andando a vedere il totale, con il dm parametri il giudice
avrebbe dovuto liquidare un compenso intorno ai 7.500 euro.
Con il dm Orlando si sale a 13.430 euro, praticamente il
doppio (articolo ItaliaOggi del 14.03.2014
-
tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI - EDILIZIA
PRIVATA:
Il Durc si scarica da internet.
Consultazione esclusivamente telematica e in tempo reale.
La novità introdotta dal decreto legge in materia di
occupazione e semplificazione.
Durc consultabile in tempo reale. Il decreto legge con le
«Disposizioni urgenti per favorire il rilancio
dell'occupazione e per la semplificazione degli adempimenti
a carico delle imprese» approvato mercoledì dal governo,
interviene per risolvere uno dei problemi più intricati
della burocrazia: l'acquisizione del documento unico di
regolarità amministrativa.
Precedenti interventi normativi hanno insistito per la
gestione in modalità informatica e telematica del Durc, ma
sbagliando regolarmente strada. Infatti, in particolare per
le verifiche che le stazioni appaltanti sono chiamate a
svolgere sulle autocertificazioni delle imprese, di
telematico c'è solo la procedura. Le amministrazioni sono
comunque chiamate a «fare istanza», sia pure per via
telematica e attendere che entro i successivi 30 giorni
Inps, Inail o Cassa edile rispondano, sempre per via
telematica. Con il risultato che il lasso di 30 giorni tra
richiesta e acquisizione del Durc spesso produce estreme
difficoltà a rispettare i tempi di pagamento di 30 giorni.
Il decreto approvato dal governo pone rimedio a questi modi
scorretti di interpretare l'utilizzo della telematica. E
stabilisce che dalla data di entrata in vigore di un
successivo decreto ministeriale attuativo, da adottare entro
60 giorni, «chiunque vi abbia interesse verifica con
modalità esclusivamente telematiche e in tempo reale la
regolarità contributiva nei confronti dell'Inps, dell'Inail
e, per le imprese tenute ad applicare i contratti del
settore dell'edilizia, nei confronti delle Casse edili.
L'esito dell'interrogazione ha validità di 120 giorni dalla
data di acquisizione» e sostituisce ad ogni effetto il Durc,
salvo ipotesi di esclusione individuate dal decreto
ministeriale citato.
Insomma, si decreta la fine del «diritto di proprietà» sulle
informazioni relative al Durc, strenuamente fin qui difeso
da Inps, Inail e Cassa edile. Non sarà più necessario
«chiedere» e aspettare: basterà solo consultare online i
dati che riguarderanno «i pagamenti scaduti sino all'ultimo
giorno del secondo mese antecedente a quello in cui la
verifica è effettuata, a condizione che sia scaduto anche il
termine di presentazione delle relative denunce retributive
e comprende anche le posizioni dei lavoratori con contratto
di collaborazione coordinata e continuativa anche a progetto
che operano nell'impresa».
Il decreto attuativo disporrà che la verifica della
posizione contributiva delle imprese avvenga tramite
un'unica interrogazione telematica che agirà sugli archivi
dell'Inps, dell'Inail e delle Casse edili, utilizzando la
«cooperazione applicativa» dei software, per farli
comunicare tra loro. Basterà solo indicare il codice fiscale
del soggetto da verificare.
Il decreto legge contiene anche un embrione di
semplificazione della «banca dati dei contratti pubblici» e
di conseguenza nel complessissimo sistema dell'AvcPass.
Infatti, stabilisce che dalla data di entrata in vigore del
decreto ministeriale attuativo non vi sarà più l'obbligo di
verificare la sussistenza del requisito di ordine generale
di cui all'articolo 38, comma 1, lettera i), del dlgs
163/2006 (cioè il rispetto delle normative previdenziali)
presso la Banca dati nazionale dei contratti pubblici,
istituita presso l'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici di lavori. Del resto, l'accesso online in tempo
reale ai dati del Durc renderebbe inutile l'intreccio di
scambio dati tra amministrazioni appaltanti, Authority e
Inps-Inail-Casse edili.
Un passo avanti ulteriore sarebbe, a questo punto, l'intera
revisione dell'AvcPass, che al pari del Durc riformato,
dovrebbe essere nulla più di una banca dati da consultare in
tempo reale e non la procedura estremamente complessa, la
cui farraginosità ha indotto a un rinvio della sua piena
operatività al prossimo mese di luglio.
Infine, il decreto rende obbligatorio acquisire il Durc con
la nuova modalità anche per le erogazioni di sovvenzioni,
contributi, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici,
di qualunque genere, sempre a partire dalla vigenza del
decreto ministeriale attuativo (articolo ItaliaOggi del 14.03.2014). |
ENTI LOCALI: Salvo l'associazionismo dei piccoli comuni.
Lo stato, per contenere la spesa pubblica, può
legittimamente imporre ai piccoli comuni l'obbligo di
gestire in forma associata le proprie funzioni e i relativi
servizi.
Lo afferma la sentenza 13.03.2014 n. 44 della Corte
costituzionale, depositata ieri, con la quale sono state
quasi interamente respinte le censure di incostituzionalità
mosse da una decina di regioni nei confronti dell'art. 16
del dl 138/2011.
Tale disposizione, poi ampiamente
modificata dall'art. 19 della cd spending review (dl
95/2012), ha imposto a tutti i comuni con meno di 5.000
abitanti (limite che scende a 3.000 per quelli appartenenti
o appartenuti a comunità montane) di gestire mediante unione
o convenzione il proprio «core business», ovvero le funzioni
identificate come fondamentali dalla legge statale.
Tale
disciplina è stata immediatamente contestata dai sindaci dei
mini-enti, che l'hanno considerata come un attentato
all'autonomia comunale. Non avendo, peraltro, accesso
diretto alla Consulta, essi hanno investito della questione
le regioni, che hanno sollevato una lunga serie di questioni
di legittimità costituzionale, perlopiù lamentando la
lesione delle proprie prerogative (rafforzate dalla
vituperata riforma del Titolo V, ora in procinto di essere
nuovamente messa in discussione) in materia di ordinamento
degli enti locali.
La battaglia, però, è stata perduta quasi su tutta la linea:
i giudici delle leggi, infatti, hanno ritenuto la gran parte
delle argomentazioni utilizzate dai governatori infondate o
inammissibili. Le uniche pronunce di accoglimento hanno
riguardato aspetti del tutto marginali, relativi alle
procedure (e relative maggioranze consiliari) necessarie per
il varo delle forme associative.
Il cuore della motivazione della corposa pronuncia sta nel
passaggio in cui la Corte chiarisce che l'associazionismo
coatto ha come obiettivo la riduzione della spesa pubblica
corrente. In questa prospettiva, esso costituisce un
principio fondamentale di «coordinamento della finanza
pubblica», legittimamente fissato dalla legislazione statale
in un ambito di competenza concorrente ex art. 117, comma 3, Cost..
A questo punto, i piccoli comuni non hanno alternative: per
evitare di accorparsi, dovranno ottenere una modifica
normativa.
Per ora, l'attività di lobbying ha già prodotto una lunga
serie di proroghe dei termini per adempiere, l'ultima delle
quali (disposta dalla legge di stabilità) ha individuato due
scadenze: 30 giugno per altre 3 funzioni fondamentali (oltre
alle 3 già associate entro la fine del 2012), 31 dicembre
per le restanti 3.
In mezzo, però, ci sono le elezioni per oltre 4.000 comuni
(molti dei quali soggetti all'obbligo) e un ddl (il cd
Delrio) che punta a cambiare ancora le regole del gioco: una
nuova proroga, quindi, è già nell'aria (articolo ItaliaOggi del 14.03.2014). |
LAVORI PUBBLICI:
Appalti, si cambia ancora.
Lavori specialistici con obbligo di subappalto.
Nel Piano casa l'ennesimo colpo di scena (il quarto) sui
bandi di gara.
Ennesimo colpo di scena, il quarto, per i bandi di gara per
i lavori specialistici pubblicati da inizio 2014, fatti
salvi dopo un balletto durato due settimane; entro un anno
avverrà la riscrittura delle norme del regolamento del
codice sulla qualificazione delle imprese generali e di
quelle specialistiche; più spazi per il subappalto da parte
delle imprese generali.
È questo il risultato
dell'estenuante via vai di soluzioni adottate dal governo
per risolvere il rebus della qualificazione da produrre per
la realizzazione degli appalti pubblici che hanno a oggetto
interventi specialistici e «superspecialistici», materia che
era stata affrontata nel decreto legge 151/2013 (il «Salva Roma-bis» poi decaduto un paio di settimane fa).
Adesso, dopo che una soluzione ponte era stata prima
inserita nel «Salva Roma-ter» e poi ritirata nel testo
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, è nel decreto legge del
«Piano casa», varato dal consiglio dei ministri di
mercoledì, che si recupera la soluzione già adottata a fine
dicembre 2013, scegliendo una soluzione che cerca di mediare
le posizioni dei due fronti (imprese generali e imprese
specialistiche). Infatti la mancata conversione in legge del
decreto 151 (e del suo articolo 3, comma 9) aveva
determinato la perdita di efficacia di tutti gli atti di
gara emanati.
La scelta compiuta nel decreto legge del «Piano casa» è
quella di sospendere nuovamente (come il decreto 151) gli
effetti della cancellazione delle due norme del dpr 207/2010
(l'articolo 107, comma 2 e l'articolo 109, comma 2, oltre
all'allegato A) operata dal consiglio di stato con il
parere, recepito dal dpr 30.10.2013, a seguito del
ricorso straordinario al capo dello stato, rendendo quindi
vigente l'obbligo di subappalto e di raggruppamento
verticale fra general contractor e imprese specialistiche.
Si prevede poi un anno di tempo, a decorrere dall'entrata in
vigore del decreto che verrà a breve pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale, per sostituire le disposizioni
cancellate dal consiglio di stato. Si salvano poi gli
effetti dei provvedimenti adottati nella vigenza del decreto
151, con ciò mettendo in sicurezza i bandi pubblicati a
gennaio e a febbraio.
Per i nuovi bandi però si dovrà tenere
conto di alcune ulteriori scelte effettuate dal decreto che,
da subito, elimina sette categorie di interventi a
qualificazione obbligatoria e tocca anche le lavorazioni
«superspecialistiche» per le quali, in virtù della loro
complessità, se superano il 15% del totale dei lavori
oggetto dell'appalto, scattano l'impossibilità di subappalto
e l'obbligo di associarsi con l'impresa specialistica come
raggruppamento di tipo verticale.
In particolare il
provvedimento prevede l'eliminazione di sette categorie su
un totale di 34. Si tratta delle opere specialistiche n. 9
(segnaletica luminosa e sicurezza del traffico), Os 12B
(barriere paramassi, fermaneve e simili), 15 (pulizia acque
marine, lacustri e fluviali), 16 (centrali di produzione di
energia elettrica), 17 (impianti di telefonia), 19 (reti
Telecomunicazioni) e 31 (impianti mobilità sospesa); viene
invece inserita la OS 32 (strutture in legno). Sulle «superspecialistiche»
invece ne spariscono dieci su 24 e entra sempre la OS 32 (articolo ItaliaOggi del 14.03.2014). |
ENTI LOCALI -
VARI:
Comuni tra l'incudine e il martello sulle multe
È caos multe nei parcheggi a pagamento dopo le ultime
indicazioni fornite lunedì scorso dal ministero dei
trasporti puntualmente contraddette dalla pratica operativa
e da alcune importanti pronunce della giurisprudenza (si
veda ItaliaOggi del 11/03/2014). In attesa di un chiarimento
definitivo e formale del Viminale, i comuni navigano a
vista.
Formalmente per il ministero dei trasporti nel caso
in cui la sosta in zona blu è consentita senza limitazioni
temporali, se il ticket è stato pagato ed esposto e la sosta
si prolunga oltre il termine consentito, non si configura
alcuna violazione e sanzione del codice della strada ma solo
un'inadempienza contrattuale con recupero delle somme
corrisposte a titolo di penali e di rimborso delle spese (da
quantificare sulla base di un regolamento comunale), come
previsto dall'art. 17, comma 132, della legge n. 127/1997.
Le pronunce della Cassazione si pongono in contrasto con la
linea interpretativa assunta dal ministero.
Si richiama, per
esempio, la sentenza sez. II civ., n. 20308 del 04/10/2011.
Secondo la Corte, la sanzione di cui all'art. 157, c. 8, Cds
per la violazione dell'art. 157, c. 6, si applica sia quando
non si attiva il disco orario sia quando non si mette in
funzione il parchimetro a pagamento. Al prolungarsi della
violazione oltre le 24 ore, si applica l'art. 7, c. 15 Cds,
con una sanzione per ogni periodo in cui si protrae la
negligenza. Tale principio è stato ribadito dalla
Cassazione, sez. civ., con la sentenza n. 30 del 09.01.2012.
La Corte dei conti, sezione Lazio, nella sentenza n. 888 del
19/09/2012 ha condannato al risarcimento del danno erariale
la società concessionaria perché consentiva ai trasgressori,
entro 24 ore dall'accertamento effettuato dall'ausiliario
del traffico, di regolarizzare il mancato pagamento del
ticket della sosta senza procedere alla contestazione della
violazione del codice della strada.
Secondo i giudici contabili dalla lettura dell'art. 7 del
codice stradale non si evince la possibilità di
differenziare e/o graduare le violazioni a seconda che il
ticket sia scaduto oppure manchi completamente. E in molti
comandi di polizia locale l'attività operativa è orientata
in questo senso.
Tuttavia, in considerazione dei profili di responsabilità
erariale enunciati dalla sentenza della Corte dei conti n.
888/2012, i comuni potranno almeno richiedere chiarimenti
urgenti ai giudici contabili (articolo ItaliaOggi del 14.03.2014). |
PATRIMONIO:
Gli enti si rifanno le caldaie.
Contributi a fondo perduto per sostituire gli impianti.
Il Gestore servizi energetici ha pubblicato il bando 2014
per gli interventi oltre i 500 kw.
Gli enti locali possono ottenere un contributo a fondo
perduto per la sostituzione di impianti di climatizzazione
invernale esistenti. Il Gestore servizi energetici (Gse) ha
pubblicato il bando 2014 per la procedura di iscrizione ai
registri riservata agli interventi con potenza maggiore di
500 kW e inferiore o uguale a 1.000 kW.
Il bando, disponibile sul sito internet del Gse
(www.gse.it), prevede che l'iscrizione sia possibile dal 31.03.2014 alle ore 9 e fino al giorno 29.05.2014 alle
ore 21.
Le risorse destinate all'incentivazione degli
interventi per i quali ricorre l'obbligo di iscrizione ai
registri, definite in termini di spesa cumulata annua, sono
pari a 6,91 milioni di euro per gli interventi realizzati
dalle amministrazioni pubbliche e a 22,81 milioni di euro
per gli interventi realizzati dai soggetti privati.
Contributi per la sostituzione di caldaie. Il bando finanzia la sostituzione di impianti di
climatizzazione invernale esistenti con impianti di
climatizzazione invernale utilizzanti pompe di calore
elettriche o a gas, anche geotermiche con potenza termica
utile nominale superiore a 500 kWt e fino a 1000 kWt.
Inoltre finanzia la sostituzione di impianti di
climatizzazione invernale o di riscaldamento delle serre
esistenti e dei fabbricati rurali esistenti con generatori
di calore alimentati da biomassa con potenza termica
nominale superiore a 500 kWt e fino a 1.000 kWt.
La
richiesta di iscrizione, a pena di esclusione, deve essere
trasmessa esclusivamente per via telematica, entro e non
oltre il termine di chiusura dei registri e prima di
realizzare l'investimento, mediante l'applicazione
informatica Portaltermico predisposta dal Gse.
L'applicazione è disponibile al sito applicazioni.gse.it,
accessibile tutti i giorni del periodo di apertura dei
registri, 24 ore su 24, ad eccezione dei giorni di apertura
e di chiusura. La graduatoria è redatta applicando, in
ordine gerarchico, i criteri di priorità di seguito
elencati: minor potenza degli impianti; anteriorità del
titolo autorizzativo/abilitativo; precedenza della data
della richiesta di iscrizione al registro.
Sempre accessibile il contributo per interventi di potenza
fino a 500 kWt. Oltre agli interventi di sostituzione di
caldaie, gli enti locali possono finanziare interventi per
l'isolamento termico di superfici opache, delimitanti il
volume climatizzato e la sostituzione di chiusure
trasparenti comprensive di infissi delimitanti il volume
climatizzato, nonché l'installazione di sistemi di
schermatura e/o ombreggiamento di chiusure trasparenti con
esposizione al sole.
Gli enti locali possono accedere al
conto termico anche per interventi di piccole dimensioni di
produzione di energia termica da fonti rinnovabili e di
sistemi ad alta efficienza. L'incentivo spetta anche per
l'installazione di collettori solari termici, anche abbinati
a sistemi di solar cooling, nonché per la sostituzione di
scaldacqua elettrici con scaldacqua a pompa di calore.
Contributo a fondo perduto in due o cinque anni. L'incentivo
consiste in un contributo a fondo perduto che viene erogato
in rate annuali per un periodo di due o cinque anni a
seconda del tipo di intervento. Solo nel caso di incentivo
fino a 600 euro l'erogazione è a saldo in un'unica rata.
L'entità dell'incentivo varia da tipologia a tipologia.
A
titolo esemplificativo, per un generatore di calore a
condensazione con potenza maggiore di 35 kWt l'incentivo
massimo è del 40% della spesa che non può risultare maggiore
di 130 euro/kWt, con un incentivo massimo che può ammontare
a 26 mila euro. Se la potenza del generatore si abbassa
sotto i 35 kWt, il costo ammissibile è pari a 160 euro/kWt e
l'incentivo massimo può ammontare a 2.300 euro.
Per gli scaldacqua a pompa di calore l'incentivo è pari al
40% del costo di acquisto, per un massimo erogabile pari a
400 euro per prodotti con capacità uguale o inferiore a 150
litri e a 700 euro per prodotti con capacità maggiori (articolo ItaliaOggi del 14.03.2014). |
VARI:
Bonus mobili libero dal «tetto» delle spese di
ristrutturazione.
Agevolazioni. Scompare il limite massimo pari all'importo
dei lavori edili.
Il bonus fiscale per
l'acquisto di mobili o elettrodomestici in classe A+ torna a
essere slegato dal livello di spesa per il recupero
edilizio, com'era prima del pasticcio decadenza del decreto
legge Salva Roma bis.
La norma, come anticipato dal Sole 24 Ore di martedì, è
contenuta nel decreto legge sull'emergenza casa approvato
ieri dal Consiglio dei ministri.
Resta confermato che la detrazione Irpef del 50% (in dieci
anni) sulla spesa per i mobili deve essere legata a lavori
di recupero edilizio, ma scompare la norma della legge di
Stabilità 2014 che imponeva un limite, cioè che la spesa per
i mobili non fosse superiore a quella per i lavori edili.
Oggi dunque, con il decreto legge, si può ad esempio
spendere per i mobili 8mila euro, a fronte di una spesa di
recupero edilizio di 5mila. Purché la spesa per i mobili
resti entro il tetto massimo di 10mila euro.
Il bonus mobili è stato introdotto dal Dl 63/2013, in vigore
dal 6 giugno scorso, senza alcun limite tra l'entità delle
due spese. La legge di stabilità, tuttavia, nel prorogare di
un anno il bonus al recupero e lo stesso bonus mobili,
introduceva il limite di cui sopra.
Ma il governo Letta, subito "pentito" della norma
limitativa, la neutralizzava (prima dell'entrata in vigore)
con il Dl 151 del 30 dicembre scorso (Salva Roma bis).
Tutto bene, dunque, finché il decreto non è decaduto, il 28
febbraio, riportando in vita il limite di spesa per i mobili
(non superiore alle spese edilizie). Ieri l'esecutivo ha
rimediato, e dunque il bonus mobili torna, per tutto il
2014, esattamente come l'abbiamo conosciuto nel 2013 e nei
primi tre mesi di quest'anno.
Possono utilizzarlo i soggetti (proprietari, titolari di
diritti reali o anche inquilini) che usufruiscono sullo
stesso immobile del bonus fiscale al recupero, cioè che
effettuano in questo periodo interventi edilizi tra quelli
rientranti nell'articolo 16-bis del Tuir: manutenzione
straordinaria, restauro e risanamento conservativo,
ristrutturazione edilizia, ricostruzione post-calamità,
ristrutturazione di interi edifici effettuata da imprese di
costruzione o cooperative (bonus fiscali a beneficio di
acquirenti/assegnatari). Sono invece esclusi i
mini-interventi non edilizi rientranti nell'articolo 16-bis,
come quelli per la prevenzione degli infortuni domestici o
di atti illeciti (allarmi, porte blindate, etc..), o quelli
di risparmio energetico senza opere edilizie (sostituzione
di finestre o caldaie).
Il mobile (o l'elettrodomestico in classe almeno A+, solo A
per i forni) può essere destinato anche a una stanza diversa
da quella oggetto di lavori (ad esempio: ristrutturo il
bagno e compro un divano).
L'acquisto di mobili deve essere effettuato tra il 06.06.2013 e il 31.12.2014, in relazione a interventi
edilizi avviati prima di tale acquisto, ma possono essere
anche già terminati, ma «entro un lasso di tempo
sufficientemente contenuto» (Agenzia Entrate) (articolo Il Sole 24 Ore del
13.03.2014). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: Terzo mandato nei comuni fusi.
Nota Viminale. Nel 2014 già 26 fusioni.
I sindaci che hanno alle spalle due mandati presso lo stesso
ente possono ricandidarsi se nel frattempo il loro comune si
è fuso con altri.
Lo ha chiarito una nota il ministero
dell'interno (dipartimento per gli affari interni e
territoriali, direzione centrale per gli uffici
territoriali), con il parere 21.02.2014.
Quest'ultimo è stato adottato in risposta ad un quesito
concernente la possibilità per un sindaco, che ha già
espletato due mandati consecutivi in un ente che si è fuso
con altri enti in un unico comune, di ricandidarsi alla
carica sindacale nel nuovo ente.
Al riguardo, il ministero dell'interno ha chiarito che il
divieto del terzo mandato, di cui all'art. 51 del Testo
unico sugli enti locali (dlgs 267/2000), opera solo se la
candidatura a sindaco viene presentata dall'interessato
nello stesso comune dove già ha ricoperto la medesima carica
per due mandati consecutivi.
Nel caso di fusione, invece, gli enti che si sono fusi sono
estinti e hanno dato origine ad un nuovo comune, per cui, in
tale specifica ipotesi, il divieto del terzo mandato non è
applicabile.
Ricordiamo che la fusione è disciplinata dagli artt. 15-17
del Tuel e dalle leggi adottate dalle diverse regioni, cui
la Costituzione assegna il compito di provvedere alla
modifica delle circoscrizioni territoriali dei comuni
interessati.
Negli anni passati, le fusioni portate a termine sono state
assai poche, ma ultimamente si è registrato un interesse
crescente per tale istituto.
Dal mese di gennaio di quest'anno, sono state approvate già
26 fusioni, che hanno portato alla soppressione di ben 62
comuni. Ciò si deve, in parte, agli incentivi messi in campo
dallo stato, ma in molti casi si tratta di un tentativo di
razionalizzazione delle strutture per renderle più moderne e
aderenti ai bisogni delle comunità amministrate e in grado
di reggere l'urto delle sempre più pesanti manovre
correttive.
La strada della fusione, inoltre, consente ai comuni di
uscire per un triennio dal patto di stabilità interno
(articolo ItaliaOggi del 13.03.2014). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Avvocati, compensi vecchio stile.
Parametri minimi e massimi in base al valore della causa.
Debuttano i nuovi importi. Il giudice valuterà anche il
comportamento del legale.
Da 630 euro per una causa di valore minimo (fino a 1.100
euro) a 21 mila euro per la controversia che vale tra 260
mila e 520 mila euro.
Sono questi i nuovi parametri in mano
al giudice chiamato a liquidare il compenso di un avvocato
per l'assistenza prestata, dall'inizio alla fine, in giudizi
innanzi al tribunale.
Per le prestazioni di assistenza stragiudiziale si oscilla
invece da 270 a 5.870 euro, mentre il compenso di un
arbitrato va da 1.620 euro per i procedimenti fino a 26 mila
euro, a 16.200 euro se il valore è tra 260 mila e 520 mila
euro.
Sono
i nuovi parametri forensi, emanati l'altro ieri dal
ministro della giustizia, Andrea Orlando, e in attesa di
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
Il compenso dell'avvocato sarà liquidato per fasi,
generalmente quattro per quanto riguarda l'attività
giudiziale. La fase di studio della controversia, che
prevede l'esame e lo studio degli atti a seguito della
consultazione con il cliente, le ispezioni dei luoghi, la
ricerca dei documenti e la conseguente relazione o parere,
scritti oppure orali, al cliente, precedenti la costituzione
in giudizio. La fase introduttiva del giudizio, che consiste
negli atti introduttivi e di costituzione in giudizio e il
relativo esame. Si procede con la fase istruttoria, con le
richieste di prova, le memorie illustrative o di
precisazione o integrazione delle domande o dei motivi di
impugnazione. E infine la fase decisionale, che consiste,
tra l'altro, nelle precisazioni delle conclusioni e
nell'esame di quelle delle altre parti illustrative o
conclusionali anche in replica, compreso il loro deposito ed
esame, la discussione orale, sia in camera di consiglio che
in udienza pubblica.
Il nuovo decreto, inoltre, dà gas alla conciliazione
giudiziale, prevedendo, in questo caso, un aumento fino a un
quarto del compenso liquidato dal giudice rispetto a quello
liquidabile per la fase decisionale. Mentre costituisce
elemento di valutazione negativa, in sede di liquidazione
giudiziale del compenso, l'adozione di condotte abusive tali
da ostacolare la definizione dei procedimenti in tempi
ragionevoli. Il compenso da liquidare giudizialmente a
carico del soccombente costituito può inoltre essere
aumentato fino a un terzo rispetto a quello altrimenti
liquidabile quando le difese della parte vittoriosa sono
risultate manifestamente fondate
(articolo ItaliaOggi del 12.03.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Parcelle legali con nuovi parametri.
Aumenti sino al 50% - Soddisfazione di Consiglio nazionale
forense e Oua. Giustizia. Il decreto firmato dal ministro Orlando - Al 15%
la determinazione per il rimborso delle spese generali.
Gli avvocati possono
contare sui nuovi parametri per la liquidazione giudiziale
dei compensi. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha
emanato ieri il
regolamento con i nuovi indici di
riferimento. Ora il testo del decreto ministeriale dovrà
essere pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale».
Per Orlando
«l'emanazione del regolamento è il frutto di un costruttivo
confronto con il Consiglio nazionale forense che, in
particolare, ha visto recepire da parte del ministero la
richiesta di una più precisa quantificazione delle spese
generali e la valorizzazione di ogni specifica attività
dell'avvocato, sia sotto il profilo giudiziale che sotto
quello della composizione stragiudiziale delle
controversie».
Nel dettaglio dei contenuti e soprattutto delle modifiche
introdotte in seguito ai pareri delle commissioni
parlamentari e del Consiglio di Stato scende il
sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri: «importi
più elevati, spese generali tendenzialmente fisse al 15% ed
eliminazione della riduzione del gratuito patrocinio penale
di un terzo ma solo perché è ora prevista da norma primaria
della legge di stabilità ultima e per evitare anche il
dubbio, affacciato, di una duplicazione delle riduzioni».
Respinte, invece, spiega la relazione al testo, come frutto
di «un'ottica tariffaria con la quale non ci si può più
confrontare», l'individuazione nell'ambito degli scaglioni
di un compenso minimo non inferiore a una determinata somma,
la sollecitazione a non ridurre i compensi per le cause di
minore valore e di prevedere uno scaglione per determinate
cause.
In termini generali, sottolinea ancora la relazione,
rispetto alla proposta che era stata messa a punto dal
Consiglio nazionale forense, che sin dall'estate del 2012
quando entrò in vigore la versione attuale dei parametri si
è mosso per le modifiche, «si è pertanto ritenuto di dover
modificare gli importi proposti e ciò si è fatto
individuando, per ogni fascia e corrispondente scaglione, la
media tra gli importi attuali (ove previsti, ovviamente) e
quelli proposti e intervenendo, quindi, sull'importo "medio"
con una riduzione del 25%. L'utilizzo di tale criterio ha
comportato la individuazione di un compenso medio certamente
ridotto rispetto a quello proposto, ma incrementato almeno
del 50% rispetto a quello attuale (spesso anche di più)».
Il decreto, osserva il Cnf, si compone di una parte
normativa e di tabelle parametriche che per il civile
corrispondono ciascuna al tipo di procedimento/giudizio
(comprese la materia stragiudiziale, la mediazione, le
procedure concorsuali, quelle arbitrali, i processi
amministrativi e tributari, i processi davanti alle
giurisdizioni superiori) e una per il penale. Ogni tabella è
poi divisa per fasi (da quella di studio a quella
decisionale, eliminata invece quella post decisionale).
All'interno i parametri sono indicati con una somma fissa
che il giudice potrà innalzare fino all'80% o ridurre fino
al 50% motivando lo scostamento. Per il Cnf, il decreto del
ministero, che conferma l'impianto della proposta del
Consiglio «garantisce la prevedibilità dei costi legali, in
modo che cittadini e imprese possano valutare economicamente
i costi/benefici della prestazione professionale.
Contribuisce inoltre alla celerità dei processi in quanto il
calcolo dei costi della prestazione è completamente
svincolato dal numero di atti legali compiuti durante il
giudizio. Favorisce la conciliazione della controversie, con
evidente e positivo effetto deflattivo del carico presso i
tribunali».
Positivo anche il giudizio dell'Oua. Per il presidente
Nicola Marino «Il ministro ha rispettato un impegno frutto
dell'incontro della scorsa settimana con l'Oua, il che è
profondamente positivo. Tutto ciò grazie alle manifestazioni
del 20 febbraio, del corteo e del presidio a Montecitorio,
ma anche della capacità di proposta unitaria dell'avvocatura
tutta, a livello politico, istituzionale, ordinistico e
associativo» (articolo Il Sole 24 Ore
dell'11.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Tassativi i motivi di esclusione da gare pubbliche.
Consiglio di Stato. Candidature.
Ancora una volta il
Consiglio di Stato cerca di far chiarezza su questioni
controverse in tema di appalti pubblici e cioè sui vizi
formali e sull'ordine di esame da parte del giudice dei
ricorsi proposti dalle parti (Consiglio di Stato, adunanza
plenaria 23/2013).
Il caso è uno dei più tipici. L'Autorità portuale di Napoli
esclude dalla gara per la concessione in uso di uno specchio
d'acqua del porto una ditta perché nelle buste con l'offerta
mancava la fotocopia del documento di identità del legale
rappresentante. L'impresa, prima nella graduatoria, ritiene
irrilevante questo vizio e presenta ricorso al Tar Campania.
La seconda in graduatoria propone ricorso incidentale perché
la ricorrente doveva essere esclusa anche per un'altra
ragione.
In sede di appello contro la sentenza del Tar che ha
respinto il ricorso principale, l'Adunanza plenaria fa
anzitutto il punto su una novità del Codice dei contratti
pubblici: la tassatività delle cause di esclusione (articolo
46, comma 1-bis). La norma restringe i vizi formali
rilevanti a un elenco di casi: le clausole dei bandi che ne
aggiungono altri sono nulle. Ciò per evitare che siano
escluse offerte competitive per qualità e prezzo.
Inoltre la
sentenza illustra il principio del "soccorso istruttorio",
cioè il dovere della stazione appaltante di consentire la
sanatoria delle offerte irregolari. Per i requisiti previsti
a pena di esclusione è possibile solo la regolarizzazione di
dichiarazioni o documenti già presentati, ma non la
produzione di nuovi documenti per completare l'offerta. Ciò
violerebbe infatti il principio della parità tra
concorrenti.
Il secondo tema riguarda i rapporti tra ricorso principale,
proposto nel caso di specie dalla ditta esclusa, e ricorso
incidentale del controinteressato, cioè nel caso di specie
il secondo classificato. Qui la sentenza procede in modo
acrobatico: non smentire un proprio precedente (Consiglio di
Stato, adunanze plenarie n. 4/2011) e conformarsi
all'orientamento difforme della Corte di Giustizia
dell'Unione europea (sentenza Fastweb del 04.07.2013,
C-100/12).
Il Consiglio di Stato aveva stabilito infatti che il ricorso
incidentale deve essere esaminato sempre per primo e, se
accolto, determina l'inammissibilità del ricorso principale,
salvaguardando così l'aggiudicazione. Per Corte di Giustizia
invece deve essere esaminato anche il ricorso principale,
così da tutelare l'interesse alla regolarità complessiva
della gara anche a costo di azzerarla del tutto.
Il
Consiglio di Stato prospetta ora una distinzione tra fasi
interne della procedura e vizi simmetrici rilevati in
ciascuna di esse. Il principio della Corte di giustizia si
così applica così solo se i vizi dedotti in modo incrociato
afferiscono alla stessa fase. Una soluzione sofisticata che
ritornerà prima o poi al vaglio della corte europea (articolo Il Sole 24 Ore
dell'11.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Ok ai nuovi parametri forensi.
Sui compensi armonizzazione con le altre professioni.
Il ministro Orlando ha emanato il regolamento che attua
l'ordinamento dei legali.
Via libera ai nuovi parametri forensi. Il nuovo ministro
della giustizia, Andrea Orlando, ha infatti emanato ieri il
regolamento recante la determinazione dei parametri per la
liquidazione dei compensi per la professione di avvocato, in
attuazione del nuovo ordinamento forense (legge n.
247/2012).
Il nuovo regolamento. Le modifiche, si legge in una nota
diffusa da via Arenula, «hanno riguardato essenzialmente
l'armonizzazione al decreto ministeriale n. 140 del 2012,
che riguarda i compensi di tutti gli altri professionisti».
«L'emanazione del regolamento», ha dichiarato Orlando, «è il
frutto di un costruttivo confronto con il Consiglio
nazionale forense che, in particolare, ha visto recepire da
parte del ministero la richiesta di una più precisa
quantificazione delle spese generali e la valorizzazione di
ogni specifica attività dell'avvocato, sia sotto il profilo
giudiziale che sotto quello della composizione
stragiudiziale delle controversie».
«Come ho annunciato nei
positivi incontri che si sono tenuti nei giorni scorsi», ha
detto ancora il nuovo ministro, «è mia intenzione promuovere
un tavolo di lavoro che affronti in modo organico il tema
dell'essenziale ruolo dell'avvocatura nel sistema giustizia.
Al contempo ribadisco l'intenzione di promuovere un serrato
confronto tra tutti i soggetti della giurisdizione per
quanto attiene la riforma del processo civile».
La cronistoria. Ricordiamo che fino a oggi gli avvocati sono
stati l'unica categoria a non aver beneficiato dei
correttivi del ministero della giustizia al dm n. 140/2012,
apportati più di un anno fa perché i compensi erano ritenuti
troppo bassi. In proposito, nel novembre 2012 l'allora
ministro della giustizia, Paola Severino, aveva avviato una
trattativa con parte dell'avvocatura per valutare l'ipotesi
di emanare un decreto correttivo migliorativo. Strada però
che il Consiglio nazionale forense ha deciso di non
percorrere per dare attuazione alla riforma forense, entrata
in vigore nel gennaio 2013, che dà competenza allo stesso Cnf di elaborare una proposta di decreto.
Nel maggio 2013,
il Cnf ha quindi inviato all'ex ministro Anna Maria
Cancellieri la bozza di regolamento, che via Arenula ha
corretto e, a novembre 2013, reinviato al Cnf e al Consiglio
di stato per i relativi pareri. Il decreto è quindi arrivato
sulla scrivania delle commissioni Bilancio e Giustizia di
Camera e Senato, per gli ulteriori pareri non vincolanti,
nel gennaio scorso. Pareri che poi sono stati emanati a fine
febbraio.
In proposito, il Consiglio nazionale forense aveva
giudicato «condivisibili» le osservazioni del Parlamento,
«che vanno nella direzione dei rilievi avanzati dallo stesso Cnf in occasione del proprio parere reso nel novembre
scorso». Orlando aveva annunciato giusto settimana scorsa,
nel corso dell'incontro che si è tenuto in via Arenula con
Cnf e Oua, che avrebbe proceduto celermente all'emanazione
dei nuovi parametri forensi, per la cui entrata in vigore
non resta quindi che la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
Lo stesso Cnf considera la firma del decreto «un traguardo
importante di un lavoro iniziato a maggio 2013 con la
proposta avanzata dal Consiglio al Ministero e proseguito
con determinazione per ristabilire quella equità e
correttezza che si erano persi con il decreto 140/2012 e con
il suo sistematico ed ingiustificato abbattimento dei
compensi»
(articolo ItaliaOggi
Sette dell'11.03.2014
-
tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI -
VARI: Chi
sosta con il ticket scaduto non deve pagare la multa
Chi paga la tariffa base del parcheggio a pagamento e
prolunga la sosta abusivamente oltre alla scadenza del
tagliando non può essere multato: dovrà pagare solo la
tariffa evasa maggiorata dalle spese (importi che possono
cambiare da comune a comune). In questo caso si tratta
infatti di una semplice evasione tariffaria senza verbali da
elevare ai sensi del codice stradale.
Lo ha ribadito ieri il Ministero dei trasporti evidenziando
due precedenti specifici pareri già rilasciati sul tema
negli anni precedenti (22.03.2010 n. 25783
di prot. e
05.07.2011 n. 3615
di prot.).
I comuni
hanno piena facoltà di istituire aree destinate al
parcheggio (normalmente illimitato) sulle quali la sosta del
veicolo è subordinata al pagamento di una somma, da
riscuotere mediante dispositivi di controllo, anche senza
custodia. In tal caso l'utente che parcheggia il proprio
mezzo ha l'obbligo di corrispondere la tariffa richiesta e
di attivare il dispositivo di controllo, pena la sanzione di
41 euro.
Se non viene effettuato il pagamento o si prolunga
la sosta oltre al periodo negoziato si configura anche una
inadempienza contrattuale che comporta il risarcimento
conseguente al mancato introito. Diversamente, prosegue il
ministero, se la sosta in zona blu è limitata temporalmente
con segnaletica ad hoc l'utente che parcheggia abusivamente
sarà soggetto alla multa prevista dall'art. 7/15° del codice
della strada di euro 25.
In pratica questa sanzione
amministrativa si riferisce alla sosta limitata o
regolamentata, qualora la sosta si protragga oltre l'orario
consentito, ovvero sia effettuata da diversa categoria di
veicoli o di utenti. Questa sanzione è applicata per ogni
periodo per il quale si protrae la violazione, essendo
implicita la segnalazione dell'orario di inizio della sosta,
ovvero la messa in funzione del dispositivo di controllo
della durata.
In buona sostanza, conclude il direttore
generale della sicurezza stradale Dondolini, se la sosta si
protrae abusivamente in area a pagamento senza limite orario
o di categoria di veicoli il trasgressore che ha pagato un
ticket sarà soggetto solo a una misura punitiva locale.
Diversamente se il parcheggiatore abusivo lascia il veicolo
nelle rare zone blu con sosta massima consentita sarà
soggetto alla sanzione periodica prevista dal codice
stradale
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.03.2014). |
TRIBUTI: Sulle esenzioni per i rifiuti assimilati.
Tari, contenziosi dietro l'angolo.
L'esenzione Tari per i rifiuti assimilati rischia di mettere
in difficoltà non pochi comuni. Le amministrazioni, quindi,
devono cautelarsi con opportune misure in grado di mettere
in sicurezza piani finanziari e bilanci.
Il dl 16/2014 ha stabilito che la nuova tassa sui rifiuti
non è dovuta per quelli che il produttore dimostri di avere
avviato al recupero, come già previsto dal comma 661 della l.
147/2013. È stata, invece, abrogata la seconda parte del
precedente comma 649, che (con una palese contraddizione)
lasciava alla discrezionalità dei sindaci l'introduzione e
la modulazione dei relativi sconti.
A rigore, la detassazione non compete per tutte le superfici
su cui si producono rifiuti assimilati: essa, al contrario,
dovrebbe essere proporzionale alla quantità di rifiuti che
il produttore smaltisca autonomamente e a proprie spese.
Tuttavia, delimitare il suddetto rapporto di proporzionalità
è tutt'altro che agevole. Gli enti che applicano il
cosiddetto «metodo normalizzato» di cui al dpr 158/1999
possono utilizzare lo stesso criterio suggerito dallo schema
di regolamento Tares elaborato dal Mef, ossia confrontando
il quantitativo dichiarato dal produttore e quello
teoricamente producibile in base al coefficiente Kd (senza
più, però, la possibilità di prevedere tetti massimi).
Tutto
da inventare, invece, il criterio per chi utilizzata il
cosiddetto «metodo semplificato» di cui al comma 652 della
stessa legge 147. In ogni caso, occorre che i comuni si
preparino ad affrontare numerose richieste di riduzione o
esenzione da parte dei contribuenti interessati, cui si
accoderanno anche quelli che producono rifiuti speciali non
assimilati in via prevalente e non esclusiva e che, a
differenza di quanto accadeva in regime Tares, possono
anch'essi invocare la detassazione in base alla prima parte
del citato comma 649. Ovviamente, il rischio è più elevato
laddove vi sia una maggiore incidenza di insediamenti
produttivi
In un simile contesto, le contromisure non possono che
passare, nell'attuale fase dell'esercizio, attraverso la
revisione del piano finanziario definito lo scorso anno, con
la redistribuzione del carico sulle utenze diverse da quelle
«in odore» di sconti
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.03.2014). |
TRIBUTI: Aree scoperte libere dalla Tasi.
Impossibile tassare ciò che non ha una rendita catastale.
Immobili: si restringe il campo di applicazione dell'imposta
sui servizi comunali indivisibili.
Si restringe il campo di applicazione della Tasi. Non sono
più soggette al prelievo le aree scoperte. La nuova imposta
sui servizi comunali indivisibili si paga solo sui
fabbricati, comprese le abitazioni principali, e le aree
edificabili. Esclusi espressamente dall'imposizione anche i
terreni agricoli.
Non devono versare l'imposta neppure i titolari degli
immobili che sono esonerati dal pagamento dell'Imu. Ai
comuni, inoltre, per il 2014 viene consentito di maggiorare
dello 0,8 per mille l'aliquota massima (2,5 per mille)
stabilita dalla legge, purché concedano per le unità
immobiliari destinate a abitazione principale e assimilate
detrazioni o qualsiasi altro trattamento agevolato che
consenta di ridurre il carico fiscale, così come previsto
per l'imposta municipale.
Sono alcune delle novità contenute
negli articoli 1 e 2 del dl sulla finanza locale.
Aree scoperte. L'articolo 2 del dl esclude le aree scoperte
dal pagamento del tributo. In questo modo il legislatore
rimedia all'errore commesso nella legge di Stabilità
(147/2013), che aveva assoggettato all'imposta sui servizi
le aree scoperte. Considerato che la base imponibile della Tasi è la stessa dell'Imu, ciò porta a escludere che siano
soggette al prelievo le aree scoperte, per le quali
mancherebbe il criterio per calcolare il tributo. L'articolo
1, comma 669, della legge 147/2013 istitutiva del nuovo
balzello, infatti, ricomprendeva nel presupposto della Tasi
oltre ai fabbricati e alle aree edificabili anche le aree
scoperte. La disposizione contenuta nel nuovo dl, invece,
sostituisce il comma 669 e non fa più riferimento alle aree
scoperte tra gli immobili soggetti. Vengono tra l'altro
esclusi anche i terreni agricoli che, in realtà, già non
rientravano nel campo di applicazione dell'imposta.
È impossibile tassare autonomamente le aree scoperte in
quanto non hanno una rendita catastale, come i fabbricati,
né un valore di mercato, come le aree edificabili. È
evidente, quindi, che il legislatore ha fatto confusione
poiché ha assoggettato alla Tasi locali e aree che sono
tenuti al pagamento della tassa rifiuti (Tari). Questo si
evince, tra l'altro, anche dal fatto che il dl sulla finanza
locale abroga il comma 670 che esonera le aree pertinenziali
di locali tassabili, non operative, e quelle condominiali a
meno che non siano occupate in via esclusiva. È l'effetto
consequenziale dell'esclusione dall'imposizione delle aree
scoperte. Del resto per le aree scoperte cosiddette
operative, per i locali in multiproprietà, i centri
commerciali integrati e via dicendo, i criteri per calcolare
la Tari sono la superficie dell'immobile e la tariffa
deliberata dal comune. Mentre, per la Tasi è espressamente
stabilito che la base di calcolo del tributo è quella dell'Imu.
Sono soggetti all'imposta sui servizi i fabbricati in
generale. Quindi, devono passare alla cassa anche i titolari
di immobili adibiti a prima casa. Il tributo è dovuto da
chiunque possieda o detenga a qualsiasi titolo fabbricati e
aree edificabili. Qualora vi siano più possessori o
detentori, tutti sono tenuti in solido all'adempimento
dell'obbligazione tributaria. In base a quanto stabilito dal
comma 672, se è stato stipulato un contratto di locazione
finanziaria il tributo è dovuto dal locatario a partire
dalla data di stipula del contratto e per tutta la sua
durata. La norma precisa che per durata del contratto si
intende il periodo che va dalla data di stipula a quella di
riconsegna del bene al locatore, che deve essere comprovata
da un apposito verbale.
Agevolazioni fiscali. Il decreto sulla finanza locale nella
prima versione limitava l'esenzione dalla Tasi solo per
alcuni immobili di proprietà della Santa sede indicati nei
Patti lateranensi. In un primo momento, nonostante siano le
stesse le modalità di calcolo rispetto all'Imu, l'esenzione
Tasi era circoscritta agli immobili della Santa sede
disciplinati dal Concordato con l'Italia senza alcun
riferimento, per esempio, a quelli adibiti al culto. In sede
di approvazione definitiva del testo del dl, l'articolo 1
stabilisce che l'esenzione Tasi si applichi negli stessi
casi in cui il beneficio spetti per l'Imu.
Nello specifico, sono esonerati gli immobili posseduti da
stato, regioni, province, comuni, comunità montane, consorzi
fra detti enti, ove non soppressi, dagli enti del servizio
sanitario nazionale, purché destinati esclusivamente ai
compiti istituzionali.
Inoltre, le agevolazioni si estendono agli immobili adibiti
al culto, a quelli utilizzati dagli enti non commerciali e
così via. Per questi ultimi viene ribadito che l'esenzione,
totale o parziale, è condizionata dalla destinazione degli
immobili allo svolgimento delle attività elencate
dall'articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo
504/1992, con modalità non commerciali.
Alle agevolazioni fissate dalla legge, poi, si aggiungono
quelle che possono deliberare i comuni. Per il 2014 possono
anche maggiorare dello 0,8 per mille l'aliquota massima (2,5
per mille) stabilita dalla legge, ma a condizione che
concedano per le unità immobiliari destinate a abitazione
principale e assimilate detrazioni o altri benefici fiscali
tali da ridurre il carico d'imposta come per l'Imu.
Un'attenzione particolare deve essere rivolta ai
contribuenti meno abbienti, che hanno una ridotta capacità
contributiva misurata anche attraverso l'Isee. Le
amministrazioni locali hanno la facoltà di stabilire
riduzioni o detrazioni, senza un tetto massimo, e esenzioni.
Le agevolazioni possono essere concesse per: abitazioni con
unico occupante; abitazioni tenute a disposizione per uso
stagionale o altro uso limitato e discontinuo; locali e aree
scoperte adibiti a uso stagionale; abitazioni occupate da
soggetti che risiedono o hanno la dimora, per più di sei
mesi all'anno, all'estero; fabbricati rurali a uso abitativo
(articolo ItaliaOggi
Sette dell'11.03.2014). |
URBANISTICA: Lottizzazioni ante-2012, proroga ad ampio raggio.
Urbanistica. Le disposizioni del decreto
«del fare».
Proroga ad ampio raggio
anche per i termini indicati nelle convenzioni di
lottizzazione stipulate fino al 31.12.2012.
È questa
la lettura che pare più condivisibile –in attesa di
conferma ufficiale– in relazione alle disposizioni
contenute nel decreto "del fare" (Dl 69/2013, convertito
dalla legge 98).
Per venire incontro alla crisi che ha colpito anche il
settore immobiliare, il legislatore ha introdotto
disposizioni volte ad ampliare le tempistiche previste per
il completamento degli interventi edilizi già programmati.
Le due «proroghe»
Il decreto, da un lato, con l'articolo 30, comma 3, ha
previsto la proroga di due anni –previa comunicazione
dell'interessato– dei termini di inizio e ultimazione dei
lavori indicati nei titoli edilizi rilasciati o formati
prima dell'entrata in vigore del decreto, precisando però
che possono essere prorogati i soli termini che non siano
già decorsi al momento della comunicazione dell'interessato.
Dall'altro lato, con il comma 3-bis dello stesso articolo
(inserito in fase di conversione in legge), ha disposto una
generale proroga di tre anni dei termini di validità e dei
termini di inizio e fine lavori indicati nel l'ambito delle
convenzioni di lottizzazione stipulate fino al 31.12.2012.
A breve distanza dalla sua introduzione, la normativa sta
generando notevoli criticità interpretative. E infatti la
norma sui termini previsti nell'ambito delle convenzioni di
lottizzazione ha una formulazione che lascia ampi margini
interpretativi: la disposizione, diversamente da quanto
previsto per la proroga dei termini dei titoli edilizi, non
contiene alcuna precisazione in merito all'eventuale
possibilità di applicare l'estensione ai termini
convenzionali che siano già scaduti.
Non è dunque chiaro se la proroga sia efficace anche
rispetto ai termini che, al momento dell'entrata in vigore
della legge n. 98/2013, erano già scaduti, ma che, proprio
in forza della stessa proroga di tre anni, potrebbero
tornare in corso di validità. Da notare che il decreto è
entrato in vigore il 22.06.2013, mentre la sua legge di
conversione il 21 agosto.
La portata dell'estensione
È ben possibile che una convenzione stipulata prima del 31.12.2012 preveda un termine che –anche se già scaduto
al momento dell'entrata in vigore della legge n. 98/2013–
se venisse prorogato di tre anni, tornerebbe in corso di
validità. Si pensi, ad esempio, a una convenzione di
lottizzazione stipulata nell'anno 2009 che preveda il
completamento delle opere di urbanizzazione entro tre anni
e, dunque, entro l'anno 2012.
In relazione a simili fattispecie, ci si domanda se la
mancata indicazione nel comma 3-bis dell'impossibilità di
applicare la norma stessa ai termini convenzionali di inizio
o fine lavori già scaduti sia stata una "svista" del
legislatore o se, per contro, la mancata indicazione di
questo elemento sia indice della chiara volontà di estendere
di tre anni la validità di tutti i termini previsti nelle
convenzioni stipulate sino al 31.12.2012, anche se già
scaduti.
La scelta interpretativa genera rilevanti effetti in sede
applicativa. In particolare, si possono ipotizzare due
letture:
- se si ritiene che siano prorogati ex lege i soli termini in
corso di validità, la sfera di applicabilità della norma
risulta pesantemente ridimensionata. Questa tesi è
supportata dall'utilizzo del termine "proroga" che
normalmente presuppone la vigenza del termine, dovendosi
diversamente far ricorso al l'istituto della rinnovazione
degli atti.
- se si ritiene, per contro, che la norma sia applicabile a
tutti i termini previsti dalle convenzioni, la disposizione
si rivela ininfluente solamente rispetto a quei termini che,
anche se prorogati di tre anni, non tornerebbero in corso di
validità.
In forza di questa interpretazione, il novero dei
procedimenti che giovano della disposizione sarebbe
decisamente più ampio e la norma potrebbe persino ripianare
situazioni di conflittualità sorte con le Amministrazioni in
merito a possibili inadempimenti degli operatori colpiti
dalla crisi.
Questa tesi è supportata dal l'evidente diversità nel tenore
letterale del comma 3-bis rispetto al precedente comma 3 e
dalla chiara finalità perseguita dal legislatore. In questo
senso –pur in attesa di un "perfezionamento" del dettato
letterale della norma o un'interpretazione autentica–
l'interpretazione più largheggiante appare essere quella più
corretta.
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Le regole. Decorsi due anni dal termine per completare.
Per i piani attuativi scaduti la via del recupero parziale.
Il decreto del Fare (Dl
69/2013, convertito con legge n. 98/2013) ha introdotto una
disposizione volta ad ampliare le tempistiche di
completamento degli interventi edilizi assoggettati a
pianificazione attuativa, prevedendo una proroga di tre anni
dei termini di validità e dei termini di inizio e fine
lavori nell'ambito delle convenzioni di lottizzazione
stipulate sino al 31.12.2012 (si veda l'articolo
sopra).
I piani scaduti
Ma cosa accade in relazione ai piani attuativi non
completati, i cui termini siano già scaduti e non siano più
utilmente prorogabili in forza di questa disposizione?
La giurisprudenza amministrativa sul punto ha più volte
affermato che, in applicazione degli articoli 16 e 17 della
legge urbanistica (la n. 1150/1942), i piani di
lottizzazione devono essere attuati entro il termine di
validità decennale, decorso il quale divengono inefficaci
per la parte inattuata.
Una volta decorso il termine, il Comune può disciplinare la
parte di piano che non ha avuto attuazione mediante un nuovo
piano (tra le altre Tar Lombardia-Milano, sezione II,
sentenza n. 1979/2011).
Scaduto il piano, il Comune potrà pertanto disciplinare la
parte non sviluppata mediante un nuovo piano attuativo.
Questa strada non è però l'unica percorribile per completare
l'esecuzione degli interventi.
I sub-comparti
In forza del comma 3, dell'articolo 17 della legge
urbanistica, introdotto mediante la legge n. 106/2011,
infatti, qualora decorsi due anni dal termine per
l'esecuzione del piano particolareggiato non sia stato
presentato un nuovo piano relativo alla parte rimasta
inattuata, il Comune, limitatamente all'attuazione anche
parziale di comparti o comprensori del piano
particolareggiato decaduto, accoglie le proposte di
formazione e attuazione di singoli sub-comparti,
indipendentemente dalla parte restante del comparto, per
iniziativa dei privati che abbiano la titolarità dell'intero
sub-comparto, purché non modifichino la destinazione d'uso
delle aree pubbliche o fondiarie rispettando gli stessi
rapporti dei parametri urbanistici dello strumento attuativo
decaduti.
I sub-comparti di attuazione non costituiscono variante
urbanistica e sono approvati dal Consiglio comunale senza
l'applicazione delle procedure dettate per l'approvazione
dei piani particolareggiati.
In assenza di un nuovo piano che interessi l'intera area non
ancora attuata, i proprietari di singoli sub-comparti
inclusi nei piani attuativi decaduti, potranno quindi
presentare proposte finalizzate allo sviluppo edilizio della
medesima specifica porzione rimasta inattuata (articolo Il Sole 24 Ore del
10.03.2014). |
GIURISPRUDENZA |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Cassazione. L'impresa deve limitare i rumori
notturni.
Maggiori rischi di sanzioni penali per l'imprenditore che
procura rumori molesti negli orari notturni.
È questo il principio espresso dalla
sentenza 14.03.2014
n. 12274 della Corte di Cassazione, Sez. I penale, in relazione a
rumori molesti emessi da una carpenteria per la lavorazione
di materiali pesanti.
Due imprenditori condannati in appello (a una multa di
10.500 euro ciascuno) hanno impugnato la sentenza chiedendo
che fosse applicata la semplice sanzione amministrativa per
violazione della normativa acustica. La Cassazione ha
tuttavia rigettato il ricorso poiché gli imprenditori non
solo hanno superato i limiti di normale tollerabilità, ma lo
hanno fatto abusando degli strumenti di lavoro, e cioè i
rumori sono stati emessi in orario notturno e senza
l'assunzione di accorgimenti per evitarne la diffusione.
I ricorrenti, infatti, non avrebbero ponderato che lo
svolgimento di attività rumorose all'aperto, in orario
notturno, vicino a una zona residenziale, avrebbe potuto
determinare il disturbo al riposo delle persone. Tale
ipotesi è disciplinata dall'articolo 659 del Codice penale
che distingue la punizione di rumori molesti da quelli
emessi nell'esercizio di una professione.
La distinzione è
rilevante in quanto il reato che scaturisce da rumori emessi
nell'esercizio di una professione o di un'impresa, è stato
depenalizzato nel 1995 e ha condotto al precetto per cui
l'imprenditore o il professionista che produca rumori
molesti risponde solo di una mera sanzione amministrativa.
Occorre, dunque, valutare se tutti i rumori prodotti
nell'esercizio dell'impresa sono esclusi dalla punibilità
penale e quindi ricondotti a una mera sanzione
amministrativa.
La risposta la fornisce la Cassazione che distingue tra
superamento dei limiti massimi o di differenziali di rumore
fissati per legge, per i quali non vi è reato (Cassazione
25601/2013, per i rumori emessi da un bar), da quelli
commessi con abuso degli strumenti lavorativi. In questa
ipotesi, come nel caso esaminato dalla Cassazione del 14
marzo n. 12274/2014, i rumori non solo sono stati
molesti, ma sono stati emessi senza l'utilizzo di
precauzioni che l'imprenditore accorto avrebbe dovuto
assumere vista la vicinanza alle abitazioni, l'orario
notturno e le lavorazioni all'aperto (articolo Il Sole 24 Ore del
15.03.2014).
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Condannato per avere, nella qualità di
titolare e legale rappresentante della ditta di costruzioni,
realizzando manufatti di carpenteria metallica pesante,
mediante l’abuso di strumenti di lavoro, cagionato e non
impedito la diffusione anche di notte di emissioni rumorose
gravemente moleste per le persone residenti nella zona
circostante lo stabilimento ed, in specie, non impedendo e
consentendo la prosecuzione dell’attività lavorativa senza
adozione di modalità che limitassero la produzione di
rumori. |
PUBBLICO
IMPIEGO: Concussore chi minaccia. Induzione se chi paga ha il suo
tornaconto. RIFORMA SEVERINO/ Le motivazioni delle S.u. della Cassazione.
Concussione se c'è minaccia, induzione quando chi paga ha il
suo tornaconto. Scatta la vecchia concussione quando il
pubblico ufficiale minaccia un danno all'imprenditore
qualora questi decida di non pagare la tangente o fargli
avere altra utilità: il privato è dunque posto di fronte a
un'alternativa secca, tipo bere o affogare.
Si configura invece il nuovo reato di indebita induzione
laddove chi esercita una funzione o un servizio pubblici
pone sì in essere una condotta di pressione morale sulla
parte privata, ma lasciandole comunque un margine
decisionale più ampio, tanto che in tal caso l'imprenditore
si convince a pagare per la prospettiva di un indebito
tornaconto personale e dunque diventa complice dell'altro.
La differenza con le fattispecie corruttive è che in queste
ultime c'è par condicio fra le parti, con un incontro delle
volontà che stavolta risulta assolutamente libero.
Lo
precisa la Corte
di Cassazione, Sezz. Unite penali, con la
sentenza 14.03.2014 n. 12228, che contiene le motivazioni della decisione
anticipata il 25 ottobre scorso.
Danno ingiusto
Il collegio esteso «spiega» la legge 190/2012 a 15 mesi
dall'entrata in vigore con la sentenza 12228/2014: nella concussione la minaccia che fa il
pubblico ufficiale può ben essere implicita ma il reato ex
articolo 317 cp si configura ugualmente.
E ciò anche se la
capacità di autodeterminazione del destinatario della
condotta non risulta del tutto annullata: conta solo che
egli sia posto di fronte all'alternativa secca di subire il
male prospettatogli, inteso come danno ingiusto, o di
evitarlo con la dazione o la promessa dell'indebito, sia
denaro o altre utilità.
Sanzione meritata
L'indebita induzione di cui all'articolo 319-quater cp
introdotto dalla riforma Severino si distingue perché manca
la minaccia: la condotta dell'agente, pubblico ufficiale o
incaricato di un pubblico servizio, si connota come
persuasione e suggestione, come una forma di pressione
morale o inganno, a patto che quest'ultimo non si risolva in
induzione in errore sulla doverosità della dazione: in
questa fattispecie, comunque, il comportamento dell'agente
condiziona pure la libertà di scelta del destinatario della
condotta ma in un modo più tenue rispetto all'ipotesi
perseguita dall'articolo 317 cp.
La differenza è che in tal
caso il destinatario della (im)moral suasion finisce con il
prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non
dovuta, cioè del pagamento della tangente (e così via), ciò
che lo rende complice del pubblico agente e dunque
meritevole di sanzione penale.
Nei casi ambigui, ad esempio
nella «zona grigia» dell'abuso della qualità, bisogna
individuare i dati più qualificanti dopo un'approfondita ed
equilibrata valutazione complessiva del fatto (articolo ItaliaOggi del 15.03.2014). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
REATI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – MODIFICHE
INTRODOTTE DALLA LEGGE N. 190 DEL 2012
– DELITTI DI CONCUSSIONE ED INDEBITA INDUZIONE – CRITERI
DISCRETIVI.
Le Sezione Unite della Suprema Corte, risolvendo un
contrasto interpretativo insorto nella giurisprudenza di
legittimità a seguito della riforma dei reati contro la
pubblica amministrazione da parte della l. n. 190 del 2012,
hanno individuato il discrimine fra il delitto di
concussione e quello di indebita induzione, ritenendo, in
particolare, che:
• il primo reato sussiste in presenza di un abuso
costrittivo del pubblico ufficiale attuato mediante violenza
o minaccia, da cui deriva una grave limitazione della
libertà di autodeterminazione del destinatario che, senza
ricevere alcun vantaggio, viene posto di fronte
all’alternativa di subire il male prospettato o di evitarlo
con la dazione o la promessa dell’utilità;
• il secondo, invece, consiste nell’abuso induttivo posto in
essere dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico
servizio che con una condotta di persuasione, suggestione,
inganno o pressione morale condizioni in modo più tenue la
libertà di autodeterminazione del privato, il quale
disponendo di ampi margini decisori, accetta di prestare
acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta,
nella prospettiva di un tornaconto personale;
• nei casi ambigui o di confine, i criteri di valutazione
del danno antigiuridico e del vantaggio indebito devono
essere utilizzati nella loro operatività dinamica ed
all’esito di una complessiva ed equilibrata valutazione del
fatto (Corte
di Cassazione, Sezz. Unite penali,
sentenza 14.03.2014 n. 12228 - tratto da www.cortedicassazione.it).
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Spacchettamento della concussione: le motivazioni delle
Sezioni Unite.
Sono state depositate oggi le 63 pagine di motivazioni della
pronuncia numero 12228/2014 delle Sezioni Unite a proposito
del cd. spacchettamento della concussione e, prontamente, le
pubblichiamo.
E’ ormai noto che la riforma dei reati contro la pubblica
amministrazione -legge 190 del 2012– ha dato a luogo a
quello che è stato ribattezzato come il cd. “spacchettamento”
della concussione, ossia l’aver suddiviso le originarie
condotte di “costrizione” e “induzione” in due
autonome fattispecie criminose. La legge di riforma ha, in
altri termini, eliminato dall’art. 317 c.p. la condotta di “induzione”,
lasciando come unica condotta incriminatrice la “costrizione”
creando una nuova fattispecie per la condotta di induzione.
Come avevamo anticipato, lo scorso 24 ottobre le Sezioni
Unite si erano pronunciate sull’individuazione della precisa
linea di demarcazione tra la fattispecie di concussione
(prevista dal novellato art. 317 cod. pen.) e quella di
induzione indebita a dare o promettere utilità (prevista
dall’art. 319-quater cod. pen. di nuova introduzione),
affermando il seguente principio di diritto: "La
linea di discrimine tra le due fattispecie ruota intorno al
fatto che, nell’induzione indebita prevista
dall’articolo 319-quater del Codice Penale, si assiste ad
una condotta di pressione non irresistibile da parte del
pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio
che lascia al destinatario della stessa un margine
significativo di autodeterminazione e si coniuga con il
perseguimento di un suo indebito vantaggio. Al contrario,
nel reato, più grave, della concussione per costrizione
si sarebbe in presenza di una condotta del pubblico
ufficiale che limita radicalmente la libertà di
autodeterminazione del destinatario".
Oggi sono state depositate le motivazioni.
Le Sezione Unite della Suprema Corte risolvendo un contrasto
interpretativo insorto nella giurisprudenza di legittimità a
seguito della riforma dei reati contro la pubblica
amministrazione da parte della legge n. 190 del 2012, hanno
individuato il discrimine fra il delitto di concussione e
quello di indebita induzione, ritenendo, in particolare,
che:
►
il delitto di concussione sussiste in presenza di un
abuso costrittivo del pubblico ufficiale attuato mediante
violenza o minaccia, da cui deriva una grave limitazione
della libertà di autodeterminazione del destinatario che,
senza ricevere alcun vantaggio, viene posto di fronte
all’alternativa di subire il male prospettato o di evitarlo
con la dazione o la promessa dell’utilità;
►
il delitto di indebita induzione, invece,
consiste nell’abuso induttivo posto in essere dal pubblico
ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio che con una
condotta di persuasione, suggestione, inganno o pressione
morale condizioni in modo più tenue la libertà di
autodeterminazione del privato, il quale disponendo di ampi
margini decisori, accetta di prestare acquiescenza alla
richiesta della prestazione non dovuta, nella prospettiva di
un tornaconto personale.
Posta in questi termini la distinzione tra “abuso
costrittivo” e “abuso induttivo”, la Corte ha
anche specificato che, nei casi ambigui o di confine, i
criteri di valutazione del danno antigiuridico e del
vantaggio indebito devono essere utilizzati nella loro
operatività dinamica ed all’esito di una complessiva ed
equilibrata valutazione del fatto (commento tratto da e link
a www.giurisprudenzapenale.com). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
REATI CONTRO L’AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA – OMESSA
DENUNCIA DI REATO DA PARTE DEL PUBBLICO UFFICIALE
– ACCERTAMENTI DISPOSTI DAL PUBBLICO UFFICIALE PER
VERIFICARE L’EFFETTIVA SUSSISTENZA DI UNA “NOTIZIA CRIMINIS”,
E NON DI UN MERO SOSPETTO – CONFIGURABILITÀ DEL REATO –
ESCLUSIONE.
Non integra il reato di cui all’art. 361 cod. pen. la
condotta del pubblico ufficiale che, dinanzi alla
segnalazione di un fatto avente connotazioni di possibile
rilievo penale, disponga i necessari approfondimenti
all’interno del proprio ufficio, al fine di verificare
l’effettiva sussistenza di una “notitia criminis”, e non di
elementi di mero sospetto
(Corte di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 13.03.2014 n. 12021 - tratto da
www.cortedicassazione.it). |
TRIBUTI:
C'è l'Ici sui santuari con negozio.
Pagano l'Ici i santuari religiosi che svolgono attività
commerciali o comunque di lucro.
È quanto afferma la Corte
di Cassazione con l'ordinanza 13.03.2014 n. 5871, pubblicata dalla
VI Sez. civile.
Piazza Cavour
accoglie il ricorso del Comune di Pompei contro la decisione
della Ctr Campania. Il giudice di secondo grado sottolineava
che l'atto impositivo emesso nei confronti di un santuario
era carente di motivazioni. Infatti, ad avviso della Ctr,
non veniva meno l'esenzione che si intende estesa anche a
queste precise unità immobiliari, a prescindere
dall'attività svolta in concreto e dalla loro destinazione.
Inoltre, il Comune non aveva fornito la prova che su alcuni
immobili venissero esercitate attività commerciali dopo la
cessazione di quella alberghiera. Ricorre per Cassazione
l'ente locale e la tesi fa breccia presso i Supremi giudici.
L'esenzione prevista dall'articolo 7 del dlgs n. 504/1992, «è
limitata all'ipotesi in cui gli immobili siano destinati in
via esclusiva allo svolgimento di una delle attività di
religione o di culto indicate nell'articolo 16 della legge
n. 222/1985» (articolo ItaliaOggi del 14.03.2014). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L'adozione nelle more del giudizio contro il
silenzio-rifiuto di un provvedimento esplicito fa venire
meno i presupposti per la condanna dell'Amministrazione a
provvedere sull'istanza, con improcedibilità del ricorso
proposto per sopravvenuto difetto d'interesse.
Come è noto, secondo la costante giurisprudenza amministrativa,
l'adozione nelle more del giudizio contro il
silenzio-rifiuto di un provvedimento esplicito fa venire
meno i presupposti per la condanna dell'Amministrazione a
provvedere sull'istanza, con improcedibilità del ricorso
proposto per sopravvenuto difetto d'interesse (ex multis,
Cons. Stato, n. 179 del 2009; Tar Calabria, Catanzaro, n.
1171 del 2013; Tar Umbria, n. 425 del 2013).
Poiché nel caso di specie, il provvedimento richiesto
dall’istante è stato adottato dall’Amministrazione
provinciale successivamente alla notifica e al deposito del
ricorso (ancorché di pochi giorni), il ricorso va dichiarato
improcedibile (TAR Abruzzo-L’aquila,
sentenza 13.03.2014 n. 227 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’art. 33, comma secondo, del d.P.R. n. 380 del
2001 stabilisce che “qualora, sulla base di motivato
accertamento dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino
dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il
responsabile dell'ufficio irroga una sanzione pecuniaria
pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile,
conseguente alla realizzazione delle opere…”.
La norma costituisce eccezione a quella contenuta nel primo
comma dello stesso articolo, il quale sanziona con
l’ingiunzione al ripristino la realizzazione di opere di
ristrutturazione edilizia in assenza di titolo o in
difformità da esso.
La sanzione ordinaria consiste dunque nel ripristino, mentre
quella pecuniaria può essere applicata solo al ricorrere di
particolari circostanze tali da rendere il ripristino dello
stato dei luoghi impossibile.
---------------
Secondo la giurisprudenza, proprio in quanto la demolizione
costituisce sanzione principale che l’ente deve comunque in
prima battuta irrogare, il giudizio sintetico-valutativo, di
natura discrezionale, circa la rilevanza dell'abuso e la
possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione
pecuniaria può essere effettuato soltanto in una fase
successiva a quella di emanazione del provvedimento che
ingiunge la demolizione stessa, e cioè quando il soggetto
privato non abbia ottemperato spontaneamente e l'organo
competente, per tale motivo, emetta l'ordine di esecuzione
in danno.
Pertanto, soltanto nella predetta seconda fase può
formularsi il giudizio di illegittimità dell'ingiunzione a
demolire.
Con il quinto motivo, parte ricorrente
denuncia la violazione dell’art. 33, comma 2, del d.P.R. n.
380 del 2001, in quanto l’Amministrazione non avrebbe
valutato l’impatto degli interventi di ripristino e la
conseguente opportunità di applicare la sanzione pecuniaria
in luogo di quella ripristinatoria.
Anche questa doglianza non può essere condivisa.
L’art. 33, comma secondo, del d.P.R. n. 380 del 2001
stabilisce che “qualora, sulla base di motivato accertamento
dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei
luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile
dell'ufficio irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio
dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente alla
realizzazione delle opere…”.
La norma costituisce eccezione a quella contenuta nel
primo comma dello stesso articolo, il quale sanziona con
l’ingiunzione al ripristino la realizzazione di opere di
ristrutturazione edilizia in assenza di titolo o in
difformità da esso.
La sanzione ordinaria consiste dunque nel ripristino,
mentre quella pecuniaria può essere applicata solo al
ricorrere di particolari circostanze tali da rendere il
ripristino dello stato dei luoghi impossibile (cfr. TAR
Puglia Bari, Sez. III, 04.04.2013 n. 471).
Ciò premesso va osservato che, nel caso concreto, queste
speciali circostanze non sembrano ricorrere posto che dalla
sostituzione del materiale usato per la copertura della
serra e dalla rimozione dell’impianto di condizionamento non
pare possa derivare l’assoluta impossibilità di utilizzo del
manufatto realizzato.
In ogni caso va osservato che, secondo la
giurisprudenza, proprio in quanto la demolizione costituisce
sanzione principale che l’ente deve comunque in prima
battuta irrogare, il giudizio sintetico-valutativo, di
natura discrezionale, circa la rilevanza dell'abuso e la
possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione
pecuniaria può essere effettuato soltanto in una fase
successiva a quella di emanazione del provvedimento che
ingiunge la demolizione stessa, e cioè quando il soggetto
privato non abbia ottemperato spontaneamente e l'organo
competente, per tale motivo, emetta l'ordine di esecuzione
in danno. Pertanto, soltanto nella predetta seconda fase può
formularsi il giudizio di illegittimità dell'ingiunzione a
demolire (cfr. TAR Lazio Roma, Sez. I, 04.04.2012 n.
3105; id., 02.03.2012 n. 2165).
Nel caso concreto, la ricorrente ha contestato
l’illegittimità dell’ordinanza di ingiunzione alla
demolizione indipendentemente dall’emanazione del
provvedimento di esecuzione in danno; ed anche per questo
motivo la doglianza esaminata non può essere condivisa
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 12.03.2014 n. 628 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
A differenza dal regime in precedenza vigente,
alla stregua del quale spettavano all'Autorità regionale, o
ad altra da questa delegata, i compiti di amministrazione
attiva in materia di gestione dei vincoli paesaggistici,
rimanendo alle Soprintendenze solo funzioni di controllo sui
provvedimenti autorizzatori, consistenti nella possibilità
di procedere al loro annullamento entro il termine
perentorio di gg. 60 dal rilascio, qualora fosse stata
ravvisata la sussistenza di vizi di legittimità), quello
attuale, di cui all'art. 146 dello stesso decreto, delinea
una situazione di co-gestione del vincolo, in sede di
amministrazione attiva, da parte dell'Autorità regionale (o
di quella delegata) e dell'Autorità statale periferica, con
una chiara prevalenza delle valutazioni fatte da
quest'ultima, sebbene effettuate in sede consultiva.
Sicché l’approvazione del progetto con condizioni o
prescrizioni, peraltro pacificamente ammessa anche nel
sistema previgente, non trova oggi alcun ostacolo nel
disposto in alcuna norma, spettando alla Soprintendenza il
potere di vagliare l’inserimento ambientale dell’opera sotto
tutti i profili e, se necessario, imporne tutti gli
adattamenti necessari per il rispetto dei valori protetti
dal vincolo.
---------------
La Soprintendenza non ha fornito alcuna evidenza delle
ragioni per le quali l’esigenza di preservare le peculiarità
del paesaggio tutelate dal vincolo avrebbero imposto la
riduzione delle dimensioni del manufatto, né ha puntualmente
spiegato il perché le numerose prescrizioni costruttive già
dettate dalla Commissione paesaggistica del Comune al fine
di armonizzare l’opera con l’ambiente circostante non
possano ritenersi sufficienti allo scopo anche alla luce di
un criterio di proporzionalità.
L’autorizzazione paesaggistica deve essere, quindi,
annullata.
In esecuzione della presente pronuncia la Soprintendenza,
entro 45 giorni dalla comunicazione della presente sentenza,
dovrà nuovamente pronunciarsi sulla istanza della ricorrente
rivalutandola integralmente e motivando in modo puntuale le
sue determinazioni secondo i criteri sopra stabiliti, non
ostando la perentorietà del termine previsto dall’art. 146,
comma nono, del D.Lgs. 42/2004 alla rinnovazione “ora per
allora” del provvedimento annullato.
... per l'annullamento:
- del provvedimento del Ministero per i Beni e le Attività
Culturali - Soprintendenza per i Beni Architettonici,
Paesaggistici, Storici, Artistici e Etnoantropologici di
Arezzo del 30.05.2011, comunicato in data 21.06.2011, prot.
P9/221/11 a firma del Soprintendente Arch. Agostino Bureca e
del Responsabile del Procedimento Arch. Massimo Bucci, con
il quale è stata autorizzata la realizzazione dell’opera di
cui alla DIA presentata dal sig. Taddeucci Sassolini al
Comune di Castelfranco di Sopra in data 02.04.2011 con la
prescrizione, tra le altre, che le dimensioni nette della
stessa non potevano essere superiori a metri 4x8;
- della Autorizzazione Paesaggistica n. 7 del 09.06.2011 (P.E.27/11),
del Comune di Castelfranco di Sopra, con il quale viene
rilasciata autorizzazione paesaggistica con prescrizioni
per la realizzazione di piscina e locale tecnico a servizio
della stessa da eseguirsi in Loc. San Godenzo nel Comune di
Castelfranco di Sopra, nella parte in cui viene limitata la
dimensione dell’opera a metri 4x8;
...
FATTO
Il Sig. Taddeucci, premesso di aver presentato al Comune di
Castelfranco di Sopra una d.i.a. con la quale annunciava la
realizzazione di una piscina ed un locale tecnico al
servizio della stessa, di aver altresì richiesto al medesimo
comune la prescritta autorizzazione paesaggistica, di aver
ottenuto da parte della Commissione per il paesaggio una
prima delibazione favorevole del progetto sia pure con
prescrizioni, lamenta che la Sopraintendenza ai beni
Architettonici e paesaggisti di Arezzo in sede di rilascio
del parere previsto dall’art. 146 del D.Lgs. 42/2004 avrebbe
assentito l’opera ma imponendo una consistente riduzione
delle sue dimensioni.
La prescrizione sarebbe stata recepita nella autorizzazione
paesaggistica definitivamente rilasciata dal Comune di
Castelfranco di Sopra che il Sig. Taddeucci impugna insieme
all’atto soprintendentizio.
A sostegno del gravame il ricorrente pone i vizi di
violazione degli artt. 146 e ss. del Codice del paesaggio e
dei beni culturali poiché la Soprintendenza, anziché
valutare la compatibilità dell’intervento nel suo complesso
con il vincolo, sarebbe entrata nel merito tecnico
dell’opera da realizzare, e di difetto di motivazione in
quanto la prescritta riduzione del manufatto si porrebbe in
contrasto con il regolamento edilizio comunale, non sarebbe
stata giustificata da alcuna esigenza di rispetto delle
caratteristiche ambientali che il vincolo intenderebbe
preservare.
DIRITTO
Il primo motivo di ricorso è privo di fondamento.
Occorre in proposito rammentare che, a differenza dal regime
in precedenza vigente, alla stregua del quale spettavano
all'Autorità regionale, o ad altra da questa delegata, i
compiti di amministrazione attiva in materia di gestione dei
vincoli paesaggistici, rimanendo alle Soprintendenze solo
funzioni di controllo sui provvedimenti autorizzatori,
consistenti nella possibilità di procedere al loro
annullamento entro il termine perentorio di gg. 60 dal
rilascio, qualora fosse stata ravvisata la sussistenza di
vizi di legittimità), quello attuale, di cui all'art. 146
dello stesso decreto, delinea una situazione di co-gestione
del vincolo, in sede di amministrazione attiva, da parte
dell'Autorità regionale (o di quella delegata) e
dell'Autorità statale periferica, con una chiara prevalenza
delle valutazioni fatte da quest'ultima, sebbene effettuate
in sede consultiva (TAR Napoli Campania sez. VII, 12.03.2013 n. 1404).
Sicché l’approvazione del progetto con condizioni o
prescrizioni, peraltro pacificamente ammessa anche nel
sistema previgente, non trova oggi alcun ostacolo nel
disposto in alcuna norma, spettando alla Soprintendenza il
potere di vagliare l’inserimento ambientale dell’opera sotto
tutti i profili e, se necessario, imporne tutti gli
adattamenti necessari per il rispetto dei valori protetti
dal vincolo.
---------------
Fondato è,
invece, il secondo motivo di ricorso.
La Soprintendenza non ha
fornito alcuna evidenza delle ragioni per le quali
l’esigenza di preservare le peculiarità del paesaggio
tutelate dal vincolo avrebbero imposto la riduzione delle
dimensioni del manufatto (TAR Venezia Veneto sez. II, 13.09.2013 n. 1104), né ha puntualmente spiegato il
perché le numerose prescrizioni costruttive già dettate
dalla Commissione paesaggistica del Comune di Castelfranco
di Sopra al fine di armonizzare l’opera con l’ambiente
circostante non possano ritenersi sufficienti allo scopo
anche alla luce di un criterio di proporzionalità.
L’autorizzazione paesaggistica deve essere, quindi,
annullata.
In esecuzione della presente pronuncia la Soprintendenza,
entro 45 giorni dalla comunicazione della presente sentenza,
dovrà nuovamente pronunciarsi sulla istanza della ricorrente
rivalutandola integralmente e motivando in modo puntuale le
sue determinazioni secondo i criteri sopra stabiliti, non
ostando la perentorietà del termine previsto dall’art. 146,
comma nono, del D.Lgs. 42/2004 alla rinnovazione “ora per
allora” del provvedimento annullato (Consiglio di Stato
sez. V, 17.02.2006 n. 640; Consiglio Stato sez. V 08.07.1995
n. 1034)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 12.03.2014 n. 494 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La novazione soggettiva nei rapporti inerenti il
titolo edilizio avviene con la voltura non essendo, invece,
sufficiente, a realizzare tale effetto il mero acquisito
dell’immobile. Tant’è che, secondo la giurisprudenza, del
pagamento dei contributi di urbanizzazione risponde
direttamente e per intero il titolare della concessione
edilizia, essendo i successivi acquirenti estranei al
rapporto che al riguardo si è instaurato col Comune.
Peraltro, la titolarità del permesso edilizio incide solo
sul profilo passivo della obbligazione relativa al pagamento
del contributo ma nulla, invece, ha a che vedere con
l’azione di ripetizione dell’indebito.
Questa, infatti, trae fonte dal pagamento di un debito non
dovuto ed inerisce esclusivamente al rapporto fra chi lo ha
effettuato e chi lo ha ricevuto. Legittimato ad esigere la
restituzione è, quindi, il soggetto che ha effettuato (a
nome proprio) il pagamento rivelatosi privo di causa.
Nessuna rilevanza assume ai fini della legittimazione ad
esercitare l’azione in discorso il fatto che l’onere
economico del pagamento indebito sia poi stato trasferito da
parte del solvens su un soggetto terzo. Infatti, il
presupposto della azione di ripetizione, è esclusivamente
quello del pagamento di un debito non dovuto e non quello
dell’”arricchimento ai danni di altra persona” che è,
invece, proprio della diversa azione di arricchimento senza
causa.
... per l'annullamento del provvedimento prot. 61108 del
14.10.2010, notificato al difensore della ricorrente in data
18.10.2010, con il quale il Dirigente del Servizio
Urbanistica del Comune di Pistoia ha respinto l’istanza
presentata dalla ricorrente per il rimborso degli oneri di
urbanizzazione pagati nell’intervento di ristrutturazione
p.e. n. 2003/2008 in Pistoia, Viale ..., piano primo
(v. DOC.1);
...
La Sig.ra Giuliana Vitale ha acquistato nel 2009 una
porzione di fabbricato destinato a civile abitazione nel
comune di Pistoia.
La sua dante causa, Sig.ra Vettori Antonella, prima della
vendita aveva già presentato al predetto comune una d.i.a.
per l’esecuzione di lavori di ristrutturazione e pagato i
relativi oneri di urbanizzazione.
I predetti oneri, in forza di apposito patto contrattuale,
sono stati poi posti a carico dell’acquirente che ha poi
portato a termine i lavori.
La Sig.ra Vitale si è, tuttavia, avveduta che l’ammontare
degli oneri di urbanizzazione richiesti dal Comune di
Pistoia superava la somma effettivamente dovuta.
In particolare, il predetto ente, in applicazione della
delibera consiliare n. 225 del 21/12/2007, aveva calcolato
gli oneri sulla base della superficie lorda dell’intero
fabbricato anziché prendere a riferimento la sola unità
immobiliare interessata dal progetto di ristrutturazione.
Ritenendo, anche sulla scorta di precedenti pronunce di
questo Tribunale Amministrativo, tale sistema di calcolo
palesemente illegittimo, la Sig.ra Vitale ha intentato
azione di ripetizione dell’indebito contro il Comune di
Pistoia per ottenere la ripetizione delle somme pagate in
eccesso a titolo di oneri di urbanizzazione.
Nel costituirsi in giudizio il Comune di Pistoia ha
preliminarmente eccepito la carenza di legittimazione attiva
della ricorrente osservando che l’azione di ripetizione
potrebbe essere esercitata solo da chi ha eseguito il
pagamento non dovuto e, quindi, nella specie, dalla Sig.ra
Vettori che ha versato alla tesoreria comunale le somme
richieste a titolo di oneri di urbanizzazione.
Al riguardo la ricorrente ha replicato di essere subentrata,
per effetto dell’acquisto dell’immobile, in tutti i rapporti
attivi e passivi facenti capo al titolo edilizio. Sicché,
così come l’obbligo di pagare gli oneri concessori (qualora
questi fossero ancora insoluti) si sarebbe trasferito su di
lei, allo stesso modo, essa sarebbe divenuta titolare
dell’azione di ripetizione di quanto indebitamente
corrisposto a tale titolo dalla sua dante causa.
Gli argomenti dedotti dalla ricorrente per contrastare
l’eccezione formulata dal Comune non appaiono, tuttavia,
convincenti.
Occorre in primo luogo osservare che la novazione soggettiva
nei rapporti inerenti il titolo edilizio avviene con la
voltura non essendo, invece, sufficiente, a realizzare tale
effetto il mero acquisito dell’immobile. Tant’è che, secondo
la giurisprudenza, del pagamento dei contributi di
urbanizzazione risponde direttamente e per intero il
titolare della concessione edilizia, essendo i successivi
acquirenti estranei al rapporto che al riguardo si è
instaurato col Comune (Cons. Stato, V, 26/06/1996 n. 793).
Peraltro, la titolarità del permesso edilizio incide solo
sul profilo passivo della obbligazione relativa al pagamento
del contributo ma nulla, invece, ha a che vedere con
l’azione di ripetizione dell’indebito.
Questa, infatti, trae fonte dal pagamento di un debito non
dovuto ed inerisce esclusivamente al rapporto fra chi lo ha
effettuato e chi lo ha ricevuto. Legittimato ad esigere la
restituzione è, quindi, il soggetto che ha effettuato (a
nome proprio) il pagamento rivelatosi privo di causa
(Cassazione civile sez. III, 01.12.2009 n. 25276;
TAR Napoli Campania sez. V, 05.04.2011 n. 1916).
Nessuna rilevanza assume ai fini della legittimazione ad
esercitare l’azione in discorso il fatto che l’onere
economico del pagamento indebito sia poi stato trasferito da
parte del solvens su un soggetto terzo. Infatti, il
presupposto della azione di ripetizione, è esclusivamente
quello del pagamento di un debito non dovuto e non quello
dell’”arricchimento ai danni di altra persona” che è,
invece, proprio della diversa azione di arricchimento senza
causa.
Il ricorso deve essere, quindi, dichiarato inammissibile per
difetto di legittimazione attiva
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 12.03.2014 n. 493 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA
PRIVATA:
Il principio del legittimo affidamento può essere
invocato a tutela di coloro che, sulla scorta di un atto o
di un comportamento della p.a., abbiano in buona fede
confidato di poter conservare una determinata situazione di
vantaggio rivelatasi a posteriori non conforme a legge.
Il principio del legittimo
affidamento può essere invocato a tutela di coloro che,
sulla scorta di un atto o di un comportamento della p.a.,
abbiano in buona fede confidato di poter conservare una
determinata situazione di vantaggio rivelatasi a posteriori
non conforme a legge.
A prescindere dal problema se il protrarsi dell'inerzia
della p.a. nella irrogazione di una sanzione possa
considerarsi un comportamento astrattamente suscettibile di
ingenerare una legittima aspettativa nel trasgressore, è da
escludere che ciò possa avvenire allorché, come accade nella
fattispecie in esame, la contestazione del fatto sia stata
tempestivamente effettuata e ad essa non abbia fatto seguito
la comminazione della misura repressiva.
In tale ipotesi, infatti, il comportamento della p.a.
-benché possa qualificarsi come negligente dal punto di
vista della tutela dell'interesse pubblico- non lascia adito
ad alcun legittimo affidamento
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 12.03.2014 n. 491 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La giurisprudenza ricollega alla presentazione
dell’istanza di accertamento di conformità la conseguenza
processuale di far venir meno l’interesse a coltivare
l’impugnativa del pregresso provvedimento di demolizione,
dal momento che il riesame dell'abusività dell'opera
provocato dall'istanza determina la necessaria formazione di
un nuovo provvedimento, di accoglimento o di reiezione, che
vale comunque a rendere inefficace il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell'originario ricorso.
Orbene, la giurisprudenza ricollega alla presentazione
dell’istanza di accertamento di conformità la conseguenza
processuale di far venir meno l’interesse a coltivare
l’impugnativa del pregresso provvedimento di demolizione,
dal momento che il riesame dell'abusività dell'opera
provocato dall'istanza determina la necessaria formazione di
un nuovo provvedimento, di accoglimento o di reiezione, che
vale comunque a rendere inefficace il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell'originario ricorso (TAR
Piemonte–Torino, II, 18.01.2013, n. 48; Consiglio di
Stato, IV, 12.05.2010, n. 2844)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 12.03.2014 n. 483 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La motivazione esternata dall’amministrazione nel
denegare la sanatoria è generica e stereotipata; essa
consiste nel rilievo che "i materiali e le forme utilizzate
non sono idonei al contesto ambientale tutelato in
considerazione dell'impatto negativo creato in un contesto
in cui le innumerevoli case rurali distribuite
armoniosamente nell'intera zona configurano quadri e scorci
panoramici di notevole valore anche da un punto di vista
estetico ed ambientale, godibili da vari punti di vista
accessibili al pubblico, che con i loro valori tradizionali
si ritengono degni di particolare tutela e salvaguardia".
---------------
Pur essendo di indubbia rilevanza il bene paesaggio
richiamato nel diniego impugnato, bene cui l’ordinamento
appresta particolare tutela e che è provvisto di copertura
costituzionale (art. 9, comma secondo, Cost.), è tuttavia
necessario che le amministrazioni a vario titolo deputate
alla cura di esso tengano conto -nel necessario
contemperamento degli interessi pubblici e privati che
coesistono e confliggono in ogni situazione in cui un
diritto del privato viene inciso da provvedimenti
amministrativi- delle facoltà ricomprese nel diritto di
proprietà (pure assistito da garanzia costituzionale, ai
sensi dell’art. 42 Cost.).
Non può sottacersi, infatti, che rientra nelle facoltà del
titolare di un diritto reale, anzi, del diritto reale più
pieno, quello dominicale, la possibilità di recintare il
proprio fondo con finalità protettive; e, se è vero che
l’attività edificatoria a ciò finalizzata deve essere svolta
nel rispetto dei vincoli (nella specie paesaggistici) che
caratterizzano la zona in cui si trova il bene interessato,
è altrettanto vero che non è possibile comprimere del tutto
tale facoltà, che può trovare limitazioni nei limiti della
necessità effettiva e della ragionevolezza, oltre che con
adeguata proporzionalità tra il sacrificio imposto al
privato e il beneficio per la collettività e per il pubblico
interessa alla tutela del paesaggio.
Proprio per dare conto di questo delicato bilanciamento
degli interessi pubblici e privati il provvedimento che
esita negativamente l’istanza di accertamento di conformità
deve essere congruamente ed esaustivamente motivato, non
potendo limitarsi a invocare una generica disarmonia del
manufatto con l’ambiente circostante e con i valori che lo
connotano, risolvendosi altrimenti in mera tautologia.
Si ritiene fondata
l’assorbente censura di difetto di motivazione.
Più precisamente, il Collegio rileva che la motivazione
esternata dall’amministrazione nel denegare la sanatoria è
generica e stereotipata; essa consiste nel rilievo che "i
materiali e le forme utilizzate non sono idonei al contesto
ambientale tutelato in considerazione dell'impatto negativo
creato in un contesto in cui le innumerevoli case rurali
distribuite armoniosamente nell'intera zona configurano
quadri e scorci panoramici di notevole valore anche da un
punto di vista estetico ed ambientale, godibili da vari
punti di vista accessibili al pubblico, che con i loro
valori tradizionali si ritengono degni di particolare tutela
e salvaguardia".
Pur essendo di indubbia rilevanza il bene paesaggio
richiamato nel diniego impugnato, bene cui l’ordinamento
appresta particolare tutela e che è provvisto di copertura
costituzionale (art. 9, comma secondo, Cost.), è tuttavia
necessario che le amministrazioni a vario titolo deputate
alla cura di esso tengano conto -nel necessario
contemperamento degli interessi pubblici e privati che
coesistono e confliggono in ogni situazione in cui un
diritto del privato viene inciso da provvedimenti
amministrativi- delle facoltà ricomprese nel diritto di
proprietà (pure assistito da garanzia costituzionale, ai
sensi dell’art. 42 Cost.).
Non può sottacersi, infatti, che
rientra nelle facoltà del titolare di un diritto reale,
anzi, del diritto reale più pieno, quello dominicale, la
possibilità di recintare il proprio fondo con finalità
protettive; e, se è vero che l’attività edificatoria a ciò
finalizzata deve essere svolta nel rispetto dei vincoli
(nella specie paesaggistici) che caratterizzano la zona in
cui si trova il bene interessato, è altrettanto vero che non
è possibile comprimere del tutto tale facoltà, che può
trovare limitazioni nei limiti della necessità effettiva e
della ragionevolezza, oltre che con adeguata proporzionalità
tra il sacrificio imposto al privato e il beneficio per la
collettività e per il pubblico interessa alla tutela del
paesaggio.
Proprio per dare conto di questo delicato
bilanciamento degli interessi pubblici e privati il
provvedimento che esita negativamente l’istanza di
accertamento di conformità deve essere congruamente ed
esaustivamente motivato, non potendo limitarsi a invocare
una generica disarmonia del manufatto con l’ambiente
circostante e con i valori che lo connotano, risolvendosi
altrimenti in mera tautologia.
Del resto, dalla documentazione fotografica versata in atti
è agevole desumere che la recinzione di cui trattasi non ha
carattere di stabilità, che è facilmente amovibile e non
implicante una trasformazione definitiva e irreversibile del
territorio, essendo sostenuta da palificazione in legno
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 12.03.2014 n. 483 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il
Collegio, pur dando conto del contrasto esistente in
giurisprudenza circa le conseguenze dell’omissione
dell’indicazione degli oneri per i rischi propri all’interno
dell’offerta economica, non ravvisa ragione di discostarsi
dai propri precedenti, in cui si è aderito all’orientamento
che consente l’applicazione del potere di soccorso, a tutela
della buona fede dei concorrenti, quando l’omessa
indicazione degli oneri per i rischi propri sia imputabile
alla stazione appaltante come conseguenza dell’imperfetta
redazione della lex specialis, così facendo proprio il
principio espresso nella sentenza del Cons. Stato, n.
3706/2013).
Più precisamente, si è affermato che la quantificazione a
posteriori degli oneri per i rischi è ammissibile a
condizione che i relativi costi siano desumibili in modo
oggettivo da documenti predisposti anteriormente alla
procedura. In tal caso, la commissione di gara, verificato
che tali costi non siano stati sottostimati, deve procedere
alla loro aggiunta, fittiziamente, all’offerta economica,
così da rideterminare di conseguenza il punteggio.
Ritenuto, dunque, di non abbandonare tale orientamento,
anche nel caso in esame si è constatato, in sede cautelare,
che il bando di gara richiedeva la formulazione dell’offerta
economica al netto dei costi per la sicurezza, nonostante
ciò non fosse corretto, essendo gli oneri per i rischi
propri una componente necessaria dell’offerta, da scorporare
solo per valutarne la congruità. Si è dunque ritenuto che la
lex specialis avesse indirizzato erroneamente i concorrenti
e che, in ragione di ciò, la commissione di gara fosse
tenuta a riesaminare l’offerta della ricorrente, previa
convocazione della stessa.
Ritenendo illegittima l’esclusione e gli atti
conseguenti, la ricorrente ha dedotto:
1. con riferimento all’esclusione, la violazione della lex
specialis, che non solo non conteneva indicazioni
sull’obbligo di esporre gli oneri per la sicurezza, ma, al
punto 8 del bando, prevedeva che l’offerta economica fosse
formulata con il massimo ribasso sull’importo a base di gara
“al netto degli oneri per l’attuazione dei piani della
sicurezza”;
2. l’illegittimità dell’invito a partecipare rivolto alla
controinteressata, in quanto quest’ultima, essendo il
gestore uscente, avrebbe dovuto essere pretermessa per il
principio di rotazione ex art. 57, comma 6, del Dlgs.
163/2006.
Rispetto al primo profilo, il Collegio, pur dando conto del
contrasto esistente in giurisprudenza circa le conseguenze
dell’omissione dell’indicazione degli oneri per i rischi
propri all’interno dell’offerta economica (cfr. Tar Milano
Sez. IV 09.01.2014 n. 36), non ravvisa ragione di
discostarsi dai propri precedenti, in cui si è aderito
all’orientamento che consente l’applicazione del potere di
soccorso, a tutela della buona fede dei concorrenti, quando
l’omessa indicazione degli oneri per i rischi propri sia
imputabile alla stazione appaltante come conseguenza
dell’imperfetta redazione della lex specialis, così facendo
proprio il principio espresso nella sentenza del Cons.
Stato, Sez. III, 10.07.2013 n. 3706).
Più precisamente, con le sentenze TAR Brescia Sez II 08.05.2013 n. 442 e TAR Brescia Sez. II 13.01.2014 n.
18, si è affermato che la quantificazione a posteriori degli
oneri per i rischi è ammissibile a condizione che i relativi
costi siano desumibili in modo oggettivo da documenti
predisposti anteriormente alla procedura. In tal caso, la
commissione di gara, verificato che tali costi non siano
stati sottostimati, deve procedere alla loro aggiunta, fittiziamente, all’offerta economica, così da rideterminare
di conseguenza il punteggio.
Ritenuto, dunque, di non abbandonare tale orientamento,
anche nel caso in esame si è constatato, in sede cautelare
(ordinanza n. 45/2014), che il bando di gara richiedeva la
formulazione dell’offerta economica al netto dei costi per
la sicurezza, nonostante ciò non fosse corretto, essendo gli
oneri per i rischi propri una componente necessaria
dell’offerta, da scorporare solo per valutarne la congruità.
Si è dunque ritenuto che la lex specialis avesse
indirizzato erroneamente i concorrenti e che, in ragione di
ciò, la commissione di gara fosse tenuta a riesaminare
l’offerta della ricorrente, previa convocazione della
stessa, determinando a posteriori gli oneri per i rischi
propri e valutandone la congruenza, come sopra precisato
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 12.03.2014 n. 250 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
deposito di materiale (in questione) non può ritenersi
irrilevante dal punto di vista urbanistico, essendo stato da
tempo chiarito che deve essere assentita dal Comune ogni
attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia
del territorio, ivi comprese quelle non consistenti in
attività di edificazione, ma nella modificazione dello stato
materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad
un impiego diverso da quello che gli è proprio, in relazione
alla sua condizione naturale e alla sua qualificazione.
---------------
Anche l'attività di spargimento di ghiaia, su di un'area che
ne era precedentemente priva, è soggetta a concessione
edilizia, allorché appaia preordinata alla modifica della
precedente destinazione d'uso, nel caso in esame
pacificamente agricola.
Detta impostazione <<...sembra, oggi, avere un testuale
riscontro nel nuovo Testo unico in materia edilizia … (che
non ha certo potenzialità applicativa e di risoluzione del
caso in esame, ma che può rappresentare un valido ausilio
interpretativo, specie ove "codifica" un orientamento
giurisprudenziale pregresso): l'art. 3, in materia di
definizione degli interventi edilizi, assoggetta a permesso
di costruire -ascrivendole al genus delle nuove costruzioni-
"la realizzazione di infrastrutture e di impianti, anche per
pubblici servizi, che comporti la trasformazione in via
permanente di suolo inedificato" (lett. e. 3) e "la
realizzazione di depositi di merci o di materiali, la
realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto
ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la
trasformazione permanente del suolo inedificato" (e. 7); si
tratta, come è facile rilevare, di interventi privi di
connotazione strettamente edilizia e, nondimeno,
assoggettati a titolo abilitativo (oggi permesso di
costruire)>>.
---------------
A prescindere dal titolo edilizio valido per richiedere
l’assenso all’intervento posto in essere (D.I.A. o domanda
di concessione edilizia), decisiva è la circostanza messa in
evidenza dalla difesa comunale, ossia la collocazione in
zona E1 “agricola produttiva”, ove lo strumento urbanistico
per tempo vigente ammetteva esclusivamente la destinazione
ad attrezzature di servizio dell’agricoltura e di
allevamenti zootecnici, nonché a residenza a servizio
dell’azienda agricola.
Pertanto è irrilevante la previsione di uno specifico e
puntuale divieto per i depositi, quando l’incompatibilità
degli stessi si evince “a contrario” dalla norme
pianificatorie evocate dal Comune.
---------------
La tolleranza ventennale non integra un’aspettativa
tutelabile alla luce del consolidato orientamento ai sensi
del quale gli illeciti in materia urbanistica, edilizia e
paesistica hanno carattere di illeciti permanenti, che si
protraggono nel tempo e vengono meno solo con il cessare
della situazione di illiceità, vale a dire con il
conseguimento delle prescritte autorizzazioni: pertanto il
potere amministrativo repressivo può essere esercitato senza
limiti di tempo e senza necessità di motivazione in ordine
al ritardo nell'esercizio del potere.
In altri termini, l'autorità non emana un atto "a distanza
di tempo" dall'abuso, ma reprime una situazione
antigiuridica ancora sussistente.
Peraltro, nel caso di specie il Comune ha sottolineato che
l’autorizzazione era stata sempre accordata in via
provvisoria, e detta “qualità” dei provvedimenti rende non
configurabile un affidamento meritevole di protezione
giuridica.
... per l'annullamento:
- DEL PROVVEDIMENTO IN DATA 17/07/1996, RECANTE IL PARERE
CONTRARIO SULLA D.I.A. PER IL DEPOSITO DI MATERIALE SUL
TERRENO DI PROPRIETA’;
- DELL’ORDINANZA 01/10/1996, CHE HA DISPOSTO IL RIPRISTINO
DELLO STATO DEI LUOGHI SECONDO L’ACCERTAMENTO EFFETTUATO CON
ORDINANZA N. 16/1996;
...
Il thema decidendum del presente gravame verte sulla
legittimità dei provvedimenti che hanno dapprima manifestato
la contrarietà alla D.I.A. presentata per regolarizzare il
deposito di materiale inerte sul terreno di proprietà, e di
seguito ordinato il ripristino dello stato dei luoghi.
Il ricorso è infondato e deve essere respinto, per le
ragioni di seguito precisate.
1. Anzitutto, osserva il Collegio che il deposito in
questione non può ritenersi irrilevante dal punto di vista
urbanistico, essendo stato da tempo chiarito che deve essere
assentita dal Comune ogni attività comportante
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, ivi
comprese quelle non consistenti in attività di edificazione,
ma nella modificazione dello stato materiale e della
conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso
da quello che gli è proprio, in relazione alla sua
condizione naturale e alla sua qualificazione (Consiglio di
Stato, sez. V – 31/12/2008 n. 6756, che ha rammentato la
rilevanza urbanistica anche del solo spianamento di un
terreno agricolo con riporto di sabbia e ghiaia, al fine di
ottenere un piazzale per deposito e smistamento di
autocarri).
2. Secondo un condivisibile indirizzo giurisprudenziale,
anche l'attività di spargimento di ghiaia, su di un'area che
ne era precedentemente priva, è soggetta a concessione
edilizia, allorché appaia preordinata alla modifica della
precedente destinazione d'uso, nel caso in esame
pacificamente agricola (Consiglio di Stato, sez. V –
27/04/2012 n. 2450, che ha richiamato i propri precedenti
sez. V – 22/12/2005 n. 7343 e 11/11/2004 n. 7324). La
pronuncia da ultimo citata ha altresì evidenziato come detta
impostazione <<...sembra, oggi, avere un testuale riscontro
nel nuovo Testo unico in materia edilizia … (che non ha
certo potenzialità applicativa e di risoluzione del caso in
esame, ma che può rappresentare un valido ausilio
interpretativo, specie ove "codifica" un orientamento
giurisprudenziale pregresso): l'art. 3, in materia di
definizione degli interventi edilizi, assoggetta a permesso
di costruire -ascrivendole al genus delle nuove costruzioni- "la realizzazione di infrastrutture e di impianti, anche
per pubblici servizi, che comporti la trasformazione in via
permanente di suolo inedificato" (lett. e. 3) e "la
realizzazione di depositi di merci o di materiali, la
realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto
ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la
trasformazione permanente del suolo inedificato" (e. 7); si
tratta, come è facile rilevare, di interventi privi di
connotazione strettamente edilizia e, nondimeno,
assoggettati a titolo abilitativo (oggi permesso di
costruire)>>.
3. In ogni caso, a prescindere dal titolo edilizio valido
per richiedere l’assenso all’intervento posto in essere
(D.I.A. o domanda di concessione edilizia), decisiva è la
circostanza messa in evidenza dalla difesa comunale, ossia
la collocazione in zona E1 “agricola produttiva”, ove lo
strumento urbanistico per tempo vigente ammetteva
esclusivamente la destinazione ad attrezzature di servizio
dell’agricoltura e di allevamenti zootecnici, nonché a
residenza a servizio dell’azienda agricola. Pertanto è
irrilevante la previsione di uno specifico e puntuale
divieto per i depositi, quando l’incompatibilità degli
stessi si evince “a contrario” dalla norme pianificatorie
evocate dal Comune nell’impugnata nota del 17/07/1996, poi
chiaramente illustrata dalla difesa comunale nella propria
memoria di costituzione.
4. La tolleranza ventennale non integra un’aspettativa
tutelabile alla luce del consolidato orientamento ai sensi
del quale gli illeciti in materia urbanistica, edilizia e
paesistica hanno carattere di illeciti permanenti, che si
protraggono nel tempo e vengono meno solo con il cessare
della situazione di illiceità, vale a dire con il
conseguimento delle prescritte autorizzazioni: pertanto il
potere amministrativo repressivo può essere esercitato senza
limiti di tempo e senza necessità di motivazione in ordine
al ritardo nell'esercizio del potere. In altri termini,
l'autorità non emana un atto "a distanza di tempo"
dall'abuso, ma reprime una situazione antigiuridica ancora
sussistente (cfr. sentenze sez. I – 21/05/2012 n. 848;
16/01/2012 n. 59 e la giurisprudenza ivi richiamata).
Peraltro, nel caso di specie il Comune ha sottolineato che
l’autorizzazione era stata sempre accordata in via
provvisoria, e detta “qualità” dei provvedimenti rende non
configurabile un affidamento meritevole di protezione
giuridica.
5. Non è degna di apprezzamento neppure l’ulteriore
argomentazione del ricorrente, circa l’avvenuta maturazione
del silenzio-assenso, in quanto l’intervento repressivo è
comunque intervenuto a distanza di breve tempo (poco più di
1 mese), circostanza che depotenzia l’obbligo di motivazione
dell’esercizio del potere di autotutela.
In conclusione il ricorso è privo di fondamento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 12.03.2014 n. 245 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’utilizzo di una DIA ex art. 22, comma 2, del DPR 380/2001
(DIA semplice) per regolarizzare le opere difformi è una
strada impercorribile, in quanto, una volta ultimati i
lavori, l’unico strumento utilizzabile è l’accertamento di
conformità previsto dall’art. 36 del DPR 380/2001.
Oltretutto, l’impiego della DIA semplice è limitato alle
opere minori, ossia agli interventi diversi dalla nuova
costruzione e dalla ristrutturazione pesante.
Quando la difformità rispetto al titolo edilizio riguardi
opere già eseguite che avrebbero potuto essere autorizzate
mediante DIA semplice, si applica la speciale sanatoria ex
art. 37 del DPR 380/2001.
Nel caso in esame, invece, poiché le difformità riguardano
opere inserite in un nuovo edificio, il regime sostanziale è
quello della costruzione nel suo complesso. Di conseguenza,
le difformità riscontrate possono essere sanate solo nei
limiti in cui è ammesso l’accertamento di conformità ex art.
36 del DPR 380/2001.
---------------
L’accertamento di conformità presuppone che le opere
rispettino la disciplina urbanistica sostanziale in vigore
sia al momento della realizzazione delle stesse sia al
momento della presentazione della domanda di sanatoria
(questo secondo riferimento temporale, vista la
particolarità della fattispecie, può essere ricondotto al
04.09.2004, data di presentazione della DIA).
Nel definire se un’opera risulti conforme alla disciplina
urbanistica vengono in rilievo le norme sulle variazioni
essenziali. Se il progetto della nuova costruzione,
regolarmente assentito, esauriva in tutto o in parte le
facoltà edificatorie, la qualificazione delle opere difformi
come variazioni non essenziali estende l’area
dell’accertamento di conformità, preservando le opere così
qualificabili dalla sanzione della rimessione in pristino,
anche se di fatto comportino un incremento degli indici
edificatori ammessi;
In altri termini, la qualificazione degli interventi
difformi come variazioni non essenziali non fa rientrare i
suddetti interventi nella categoria dell’attività edilizia
libera ex art. 6 del DPR 380/2001, ma consente di collocarli
tra quelli sanabili ai sensi dell’art. 36 del DPR 380/2001
per accessione rispetto alla nuova costruzione (o alla
ristrutturazione pesante).
Una precisazione deve essere fatta per il parametro
dell’altezza, che svolge anche una funzione di garanzia per
i diritti dei terzi. La circostanza che la maggiore altezza
sia considerata variazione essenziale solo quando eccede il
progetto di oltre un metro (v. art. 54, comma 1.c.1, della
LR 11.03.2005 n. 12) non significa che le altezze di zona
possano sistematicamente essere sforate di un metro, ma
costituisce un canone interpretativo a favore della
conservazione di quanto edificato, nel senso che nei casi
dubbi (come quello in esame) deve essere preferita la
lettura più estensiva delle norme tecniche.
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 6 del 27.12.2004, con la quale il responsabile del Settore Edilizia e
Urbanistica ha ingiunto la demolizione delle opere
realizzate in difformità dalla concessione edilizia n. 17
del 04.10.2001;
...
Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono
svolgere le seguenti considerazioni:
(a) la revoca del provvedimento impugnato determina la
sopravvenuta carenza di interesse per la parte impugnatoria
del ricorso;
(b) rimane però ferma l’esigenza di una valutazione dei
profili urbanistici della vicenda, in quanto occorre
decidere sulla domanda risarcitoria e sulle spese di
giudizio;
(c) in proposito, si osserva in primo luogo che l’utilizzo
di una DIA ex art. 22, comma 2, del DPR 380/2001 (DIA
semplice) per regolarizzare le opere difformi è una strada
impercorribile, in quanto, una volta ultimati i lavori,
l’unico strumento utilizzabile è l’accertamento di
conformità previsto dall’art. 36 del DPR 380/2001.
Oltretutto, l’impiego della DIA semplice è limitato alle
opere minori, ossia agli interventi diversi dalla nuova
costruzione e dalla ristrutturazione pesante. Quando la
difformità rispetto al titolo edilizio riguardi opere già
eseguite che avrebbero potuto essere autorizzate mediante
DIA semplice, si applica la speciale sanatoria ex art. 37
del DPR 380/2001;
(d) nel caso in esame, invece, poiché le difformità
riguardano opere inserite in un nuovo edificio, il regime
sostanziale è quello della costruzione nel suo complesso. Di
conseguenza, le difformità riscontrate possono essere sanate
solo nei limiti in cui è ammesso l’accertamento di
conformità ex art. 36 del DPR 380/2001;
(e) a sua volta, l’accertamento di conformità presuppone che
le opere rispettino la disciplina urbanistica sostanziale in
vigore sia al momento della realizzazione delle stesse sia
al momento della presentazione della domanda di sanatoria
(questo secondo riferimento temporale, vista la
particolarità della fattispecie, può essere ricondotto al 04.09.2004, data di presentazione della DIA). Nel
definire se un’opera risulti conforme alla disciplina
urbanistica vengono in rilievo le norme sulle variazioni
essenziali. Se il progetto della nuova costruzione,
regolarmente assentito, esauriva in tutto o in parte le
facoltà edificatorie, la qualificazione delle opere difformi
come variazioni non essenziali estende l’area
dell’accertamento di conformità, preservando le opere così
qualificabili dalla sanzione della rimessione in pristino,
anche se di fatto comportino un incremento degli indici
edificatori ammessi;
(f) in altri termini, la qualificazione degli interventi
difformi come variazioni non essenziali (qui effettuata
direttamente dal Comune con il provvedimento del 24.03.2005) non fa rientrare i suddetti interventi nella categoria
dell’attività edilizia libera ex art. 6 del DPR 380/2001, ma
consente di collocarli tra quelli sanabili ai sensi
dell’art. 36 del DPR 380/2001 per accessione rispetto alla
nuova costruzione (o alla ristrutturazione pesante). Una
precisazione deve essere fatta per il parametro
dell’altezza, che svolge anche una funzione di garanzia per
i diritti dei terzi. La circostanza che la maggiore altezza
sia considerata variazione essenziale solo quando eccede il
progetto di oltre un metro (v. art. 54, comma 1.c.1, della LR
11.03.2005 n. 12) non significa che le altezze di zona
possano sistematicamente essere sforate di un metro, ma
costituisce un canone interpretativo a favore della
conservazione di quanto edificato, nel senso che nei casi
dubbi (come quello in esame) deve essere preferita la
lettura più estensiva delle norme tecniche;
(g) in contrasto con la tesi dell’attività edilizia libera,
è poi evidente che almeno alcune delle opere difformi
realizzate dalla ricorrente, se considerate isolatamente,
costituiscono veri e propri ampliamenti, come tali
assimilabili alle nuove costruzioni ex art. 3, comma 1.e.1,
del DPR 380/2001 e sottoposti a permesso di costruire. È
questo il caso dell’incremento di volumetria
dell’autorimessa (che è solo parzialmente interrata) e della
traslazione verso l’alto dell’intero edificio. Inoltre, se
si considera l’insieme di queste e delle altre opere
difformi (con particolare riferimento a quelle che
comportano incremento della superficie residenziale), emerge
chiaramente un nuovo disegno edilizio, con utilità
aggiuntive, la cui sanabilità deve parimenti essere valutata
ai sensi dell’art. 36 del DPR 380/2001;
(h) il fatto che gli interventi difformi siano stati
qualificati dal Comune come variazioni non essenziali e la
possibilità di interpretare le norme tecniche nel senso
dell’osservanza dell’altezza massima di zona sono senz’altro
elementi a favore della ricorrente. Si deve però ritenere
che l’attività di vigilanza del Comune sia stata
correttamente svolta sotto i seguenti profili: (1)
nell’individuazione delle difformità rispetto all’originaria
concessione edilizia; (2) nel giudizio di inidoneità
espresso sulla DIA semplice presentata a lavori conclusi;
(3) nell’esclusione delle opere difformi dalla categoria
dell’attività edilizia libera. Di conseguenza, anche se
l’ordinanza di demolizione è stata adottata prima dello
svolgimento della procedura ex art. 36 del DPR 380/2001, non
sembra essere sorta alcuna obbligazione risarcitoria in capo
al Comune, tenuto conto della tempestività della revoca in
autotutela
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 12.03.2014 n. 235 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Per
il procedimento di condono delle opere realizzate su aree
sottoposte a vincolo, la giurisprudenza ha precisato che il
parere previsto dall'art. 32 della legge 28.02.1985 n. 47,
ha natura e funzioni identiche all'autorizzazione
paesaggistica ex art. 7 della legge 29.06.1939 n. 1497,
essendo entrambi gli atti il presupposto che legittima la
trasformazione urbanistico edilizia della zona protetta,
sicché resta fermo il potere ministeriale di annullamento
del parere favorevole alla sanatoria di un manufatto
realizzato in zona vincolata, in quanto strumento affidato
dall'ordinamento allo Stato, come estrema difesa del
paesaggio, valore costituzionale primario.
Pertanto, pur essendo l'autorizzazione paesaggistica
condizione di efficacia e non di validità del titolo
edilizio, ne costituisce tuttavia il presupposto che
legittima la trasformazione urbanistico edilizia della zona
protetta, con la conseguenza che venuta meno
l'autorizzazione paesaggistica, l'Amministrazione deve
ordinarne la demolizione delle opere, prive di un titolo
sanante che permetta il loro mantenimento.
Nello stesso tempo va anche ribadito come la consolidata
giurisprudenza (a partire dalla decisione dell'Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato n. 9 del 14.12.2001,
confermata da successive decisioni, si veda, ad esempio,
Cons. Stato, 207/2006), ha affermato il principio che il
provvedimento statale di annullamento dell'autorizzazione
paesaggistica concessa dalla Regione (ovvero dal Comune
delegato dalla medesima) non può basarsi su una propria
valutazione tecnico-discrezionale, ma deve trovare il suo
presupposto unicamente su riscontrati vizi di legittimità.
---------------
Come è noto, il potere ministeriale di annullamento del
nulla osta ambientale è circoscritto ai vizi di sola
legittimità: il potere di annullamento dell'Amministrazione
statale non comporta un riesame complessivo e la
Sovrintendenza non può sovrapporre, o sostituire, il proprio
apprezzamento di merito alle valutazioni discrezionali
compiute in sede di rilascio del nulla osta da parte
dell'ente locale. Il riesame dell'Amministrazione, infatti,
è meramente estrinseco ed è diretto all'accertamento
dell'assenza di vizi di legittimità comprendenti quello di
eccesso di potere nelle diverse forme sintomatiche.
In altri termini, l'Amministrazione non può rinnovare il
giudizio tecnico-discrezionale sulla compatibilità
paesaggistico-ambientale dell'intervento, che appartiene in
via esclusiva all'Autorità preposta alla tutela del vincolo.
L’orientamento giurisprudenziale che si è formato
successivamente all’arresto della Plenaria ed ancora oggi
viene costantemente confermato dai giudici amministrativi
tende a valorizzare la previsione della normativa di settore
in base alla quale il potere esercitato dall'Amministrazione
statale sull'autorizzazione paesaggistica rilasciata
dall'autorità regionale, va definita in termine di
"cogestione dei valori paesistici", essendo l'autorità
locale deputata alla valutazione della compatibilità
paesistica dell'intervento ed il potere di intervento
dell'Autorità statale è limitato al solo controllo di
legittimità che può comportare l'annullamento dell'atto per
tutti i vizi di legittimità, ivi compresi quelli relativi a
tutte le figure di eccesso di potere (per sviamento,
insufficiente motivazione, difetto di istruttoria,
illogicità manifesta).
L'Amministrazione statale deve pertanto limitarsi a
verificare dall'esterno la coerenza, la logicità e la
completezza istruttoria dell'iter procedimentale seguito
dall'Amministrazione emanante, controllando se la
motivazione espressa nel rendere il giudizio positivo sia
sufficiente.
Nel contempo e in considerazione della tendenziale
irreversibilità dell'alterazione dello stato dei luoghi,
un'adeguata gestione dei vincoli paesistici impone che
l'autorizzazione paesistica rilasciata sia congruamente
motivata, esponendo le ragioni di effettiva compatibilità
delle opere da realizzare con gli specifici valori
paesistici dei luoghi, con la conseguenza che il difetto di
motivazione dell'autorizzazione giustifica per ciò solo il
suo annullamento in sede di controllo.
---------------
Il provvedimento della Soprintendenza qui oggetto di gravame
presenta un contenuto che si pone ad di fuori dei postulati
sopra richiamati, essendosi detta Soprintendenza sostituita
alla valutazione in termini di compatibilità paesaggistica
dell’edificio in questione già espressa, in sede di
esercizio del relativo potere valutativo, dal Comune
sovrapponendo, rispetto all’esito dell’indagine circa la
compatibilità paesaggistica dell’edificio rispetto al quale
si chiedeva il condono espresso da quell’ente locale, la
formulazione di un opposto giudizio di incompatibilità
manifestato in sede di merito e non limitandosi, come
avrebbe dovuto, a rilevare una eventuale carenza di
motivazione ovvero di indagine istruttoria che rendevano
l'avviso dell’ente locale inadeguato rispetto alla corretta
espressione del potere in materia di compatibilità
paesaggistico ambientale delle opere edilizie realizzate
nell’area territoriale di competenza che la normativa gli ha
attribuito.
Nel caso di specie, in conclusione, la Soprintendenza ha
sovrapposto il proprio autonomo giudizio di compatibilità
paesaggistico ambientale dell’edificio abusivo rispetto al
quale si chiedeva il condono sovrapponendolo rispetto a
quello, favorevole, già espresso dal Comune di Frascati,
eccedendo quindi dall’ambito dell’esercizio del potere di
annullamento che la normativa di settore le attribuisce.
Va premesso che per il procedimento di
condono delle opere realizzate su aree sottoposte a vincolo,
la giurisprudenza ha precisato che il parere previsto
dall'art. 32 della legge 28.02.1985 n. 47, ha natura e
funzioni identiche all'autorizzazione paesaggistica ex art.
7 della legge 29.06.1939 n. 1497, essendo entrambi gli
atti il presupposto che legittima la trasformazione
urbanistico edilizia della zona protetta, sicché resta fermo
il potere ministeriale di annullamento del parere favorevole
alla sanatoria di un manufatto realizzato in zona vincolata,
in quanto strumento affidato dall'ordinamento allo Stato,
come estrema difesa del paesaggio, valore costituzionale
primario (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 15.03.2007 n. 1255).
Pertanto, pur essendo l'autorizzazione paesaggistica
condizione di efficacia e non di validità del titolo
edilizio, ne costituisce tuttavia il presupposto che
legittima la trasformazione urbanistico edilizia della zona
protetta, con la conseguenza che venuta meno
l'autorizzazione paesaggistica, l'Amministrazione deve
ordinarne la demolizione delle opere, prive di un titolo
sanante che permetta il loro mantenimento.
Nello stesso tempo va anche ribadito come la consolidata
giurisprudenza (a partire dalla decisione dell'Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato n. 9 del 14.12.2001,
confermata da successive decisioni, si veda, ad esempio,
Cons. Stato, Sez. VI, 24.01.2006 n. 207), ha affermato
il principio che il provvedimento statale di annullamento
dell'autorizzazione paesaggistica concessa dalla Regione
(ovvero dal Comune delegato dalla medesima) non può basarsi
su una propria valutazione tecnico-discrezionale, ma deve
trovare il suo presupposto unicamente su riscontrati vizi di
legittimità.
È anche vero, però, che nella specie la Soprintendenza ha
annullato il provvedimento comunale sul presupposto che,
tenuto conto delle prescrizioni recate dal P.T.P.R., “il
fabbricato, collocato in zona ancora sostanzialmente
integra, costituisce un’alterazione negativa e non è
conforme alle norme urbanistiche e paesaggistiche.
L’intervento pertanto non è da ritenersi conforme alle norme
di tutela e compatibile con il contesto paesaggistico
tutelato” (così, testualmente, nella motivazione del
provvedimento qui impugnato).
Ancor più nello specifico nella presente vicenda si
“confrontano” due provvedimenti dall’opposto contenuto:
-A) in primo luogo viene in evidenza la relazione tecnica
illustrativa trasmessa dal Comune di Frascati alla
Soprintndenza in data 10.03.2011, con la quale, con
riferimento al Piano territoriale paesistico si conferma che
l’area ove insiste l’edificio abusivo è collocata in ambito
territoriale n. 9, zona 4, con la specificazione che si
tratta di “Zone agricole non compromesse con modesto valore
paesaggistico territoriale, di talché si decretava l’assentibilità
del condono purché all’edificio vengano apportate le
seguenti modifiche: “l’edificio dovrà essere completamente
intonacato e tinteggiato con le coloriture esistenti, la
pavimentazione della rampa dovrà essere rivestita con
materiale lapideo della zona, le grondaie ed i discendenti
dovranno essere tinteggiate con le stesse coloriture
esistenti”;
-B) all’opposto la Soprintendenza, nel provvedimento qui
impugnato e nella nota prodotta a seguito dell’invito
istruttorio espresso dal Tribunale, oppone la non
assentibilità del condono con riferimento all’edificio
costruito abusivamente “poiché il fabbricato, pur non avendo
caratteristiche architettoniche in contrasto con gli edifici
esistenti nelle zone a destinazione residenziale, è
collocato in una zona in cui il P.R.G. di Frascati ha
confermato la destinazione agricola anche a seguito della perimetrazione dei nuclei abusivi; si tratta infatti di una
zona ancora sostanzialmente integra, che il PTPR classifica
come Paesaggio agrario di valore”.
Come è noto, secondo il costante orientamento della
giurisprudenza amministrativa, il potere ministeriale di
annullamento del nulla osta ambientale è circoscritto ai
vizi di sola legittimità: il potere di annullamento
dell'Amministrazione statale non comporta un riesame
complessivo e la Sovrintendenza non può sovrapporre, o
sostituire, il proprio apprezzamento di merito alle
valutazioni discrezionali compiute in sede di rilascio del
nulla osta da parte dell'ente locale. Il riesame
dell'Amministrazione, infatti, è meramente estrinseco ed è
diretto all'accertamento dell'assenza di vizi di legittimità
comprendenti quello di eccesso di potere nelle diverse forme
sintomatiche.
In altri termini, l'Amministrazione non può rinnovare il
giudizio tecnico-discrezionale sulla compatibilità paesaggistico-ambientale dell'intervento, che appartiene in
via esclusiva all'Autorità preposta alla tutela del vincolo
(cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 11.06.2012 n.
3401, 21.09.2011 n. 5192, 03.12.2010 n. 8441,
tutte sulla scia della già citata pronuncia dell'Adunanza
Plenaria n. 9 del 2001).
L’orientamento giurisprudenziale
che si è formato successivamente all’arresto della Plenaria
ed ancora oggi viene costantemente confermato dai giudici
amministrativi tende a valorizzare la previsione della
normativa di settore in base alla quale il potere esercitato
dall'Amministrazione statale sull'autorizzazione
paesaggistica rilasciata dall'autorità regionale, va
definita in termine di "cogestione dei valori paesistici",
essendo l'autorità locale deputata alla valutazione della
compatibilità paesistica dell'intervento ed il potere di
intervento dell'Autorità statale è limitato al solo
controllo di legittimità che può comportare l'annullamento
dell'atto per tutti i vizi di legittimità, ivi compresi
quelli relativi a tutte le figure di eccesso di potere (per
sviamento, insufficiente motivazione, difetto di
istruttoria, illogicità manifesta).
L'Amministrazione
statale deve pertanto limitarsi a verificare dall'esterno la
coerenza, la logicità e la completezza istruttoria dell'iter
procedimentale seguito dall'Amministrazione emanante,
controllando se la motivazione espressa nel rendere il
giudizio positivo sia sufficiente.
Nel contempo e in considerazione della tendenziale
irreversibilità dell'alterazione dello stato dei luoghi,
un'adeguata gestione dei vincoli paesistici impone che
l'autorizzazione paesistica rilasciata sia congruamente
motivata, esponendo le ragioni di effettiva compatibilità
delle opere da realizzare con gli specifici valori
paesistici dei luoghi, con la conseguenza che il difetto di
motivazione dell'autorizzazione giustifica per ciò solo il
suo annullamento in sede di controllo (cfr., ancora, Cons.
Stato n. 3401 del 2012, cit.).
Questo essendo il pacifico -e qui condiviso- quadro
giurisprudenziale entro il quale operare l'esame delle
censure in trattazione, deve convenirsi che il provvedimento
della Soprintendenza qui oggetto di gravame presenta un
contenuto che si pone ad di fuori dei postulati sopra
richiamati, essendosi detta Soprintendenza sostituita alla
valutazione in termini di compatibilità paesaggistica
dell’edificio in questione già espressa, in sede di
esercizio del relativo potere valutativo, dal Comune di
Frascati sovrapponendo, rispetto all’esito dell’indagine
circa la compatibilità paesaggistica dell’edificio rispetto
al quale si chiedeva il condono espresso da quell’ente
locale, la formulazione di un opposto giudizio di
incompatibilità manifestato in sede di merito e non
limitandosi, come avrebbe dovuto, a rilevare una eventuale
carenza di motivazione ovvero di indagine istruttoria che
rendevano l'avviso dell’ente locale inadeguato rispetto alla
corretta espressione del potere in materia di compatibilità
paesaggistico ambientale delle opere edilizie realizzate
nell’area territoriale di competenza che la normativa gli ha
attribuito.
Nel caso di specie, in conclusione, la Soprintendenza ha
sovrapposto il proprio autonomo giudizio di compatibilità
paesaggistico ambientale dell’edificio abusivo rispetto al
quale si chiedeva il condono sovrapponendolo rispetto a
quello, favorevole, già espresso dal Comune di Frascati,
eccedendo quindi dall’ambito dell’esercizio del potere di
annullamento che la normativa di settore le attribuisce.
In ragione delle suesposte osservazioni il ricorso può
trovare accoglimento nei termini di cui in motivazione
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 11.03.2014 n. 2771 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Ai
fini della individuazione del periodo da prendere in
considerazione per la determinazione in concreto del danno
risarcibile, una volta accertata la sussistenza di un
provvedimento illegittimo, la prova del danno subito dal
destinatario dello stesso interviene soltanto in base ad una
verifica del caso concreto che faccia concludere per la sua
"certezza".
Secondo il Consiglio di Stato "il danno, per essere
risarcibile, deve essere certo e non meramente probabile, o
comunque deve esservi una rilevante probabilità del
risultato utile" e ciò è quello che "distingue la chance
risarcibile dalla mera e astratta possibilità del risultato
utile, che costituisce aspettativa di fatto, come tale
irrisarcibile".
In tal senso, la giurisprudenza ha ancorato il risarcimento
del danno c.d. "da perdita di chance" a indefettibili
presupposti di certezza dello stesso, escludendo il caso in
cui l'atto, ancorché illegittimo, abbia determinato solo la
perdita di una "eventualità" di conseguimento del bene della
vita. Ed infatti, in tale ultimo caso, risulta pienamente
esaustiva la tutela ripristinatoria offerta
dall'annullamento e dalle sue conseguenze.
Va ribadito che, ai fini della individuazione del
periodo da prendere in considerazione per la determinazione
in concreto del danno risarcibile, una volta accertata la
sussistenza di un provvedimento illegittimo, la prova del
danno subito dal destinatario dello stesso interviene
soltanto in base ad una verifica del caso concreto che
faccia concludere per la sua "certezza".
Secondo il Consiglio di Stato (cfr., ad esempio, Sez. V, 02.02.2008 n. 490)
"il danno, per essere risarcibile, deve
essere certo e non meramente probabile, o comunque deve
esservi una rilevante probabilità del risultato utile" e ciò
è quello che "distingue la chance risarcibile dalla mera e
astratta possibilità del risultato utile, che costituisce
aspettativa di fatto, come tale irrisarcibile".
In tal senso, la giurisprudenza ha ancorato il risarcimento
del danno c.d. "da perdita di chance" a indefettibili
presupposti di certezza dello stesso, escludendo il caso in
cui l'atto, ancorché illegittimo, abbia determinato solo la
perdita di una "eventualità" di conseguimento del bene della
vita. Ed infatti, in tale ultimo caso, risulta pienamente
esaustiva la tutela ripristinatoria offerta
dall'annullamento e dalle sue conseguenze (cfr., in tal
senso, Cons. Stato, Sez. VI, 23.07.2009 n. 4628; Sez. V,
03.08.2004 n. 5440 e 25.02.2003 n. 1014; Cass. civ., Sez. I,
17.07.2007 n. 15947)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 11.03.2014 n. 2767 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Edilizia, nessun «falso» senza atto di notorietà.
Le dichiarazioni dei proprietari. Modelli standard.
Rischi ridotti di
sanzioni penali per dichiarazioni inesatte, se redatte su
stampati forniti dalla pubblica amministrazione.
È il
principio espresso dalla Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.03.2014 n. 11384, in una procedura di sanatoria edilizia.
Le
norme che hanno consentito, nel 1985, 1994 e 2004 la
sanatoria di manufatti irregolari prevedevano che si
dichiarasse l'epoca dell'avvenuto abuso. Dapprima ciò
avveniva con dichiarazioni sostitutive dell'atto di
notorietà, ma successivamente i Comuni si sono accontentati
della compilazione di stampati in cui, in specifiche
caselle, si precisava l'anno dell'abuso edilizio. Appunto in
uno di questi casi è emersa una dichiarazione non veritiera,
che ha fatto scattare per il dichiarante un processo per
falso ideologico.
Dopo alcuni anni è giunta l'assoluzione,
in quanto non tutte le dichiarazioni false hanno rilevanza
penale. La Cassazione precisa che, se si allega alla domanda
di sanatoria un allegato fornito dal Comune, che consente di
precisare una circostanza, senza tuttavia sottolineare la
particolare importanza di tale dichiarazione, il privato non
risponde dell'eventuale falso. La compilazione di uno
stampato, seppur indirizzato alla Pa, non ha un valore pari
all'atto di notorietà. Solo se l'attestazione di un fatto
non veritiero avviene nel corpo di una dichiarazione
sostitutiva di atto notorio, vi sarà un illecito penale,
poiché si attenta alla pubblica fede. Ma un semplice
stampato non fa presumere che la dichiarazione sia destinata
a colmare vuoti di conoscenza della Pa, generando
responsabilità per il privato.
Ciò significa che sussiste il
reato di cui all'articolo 483 del Codice penale nell'ipotesi
in cui vengano rese, in una dichiarazione espressamente
dichiarata «sostitutiva dell'atto notorio», delle false
attestazioni su fatti dei quali l'atto è destinato a provare
la verità; la dichiarazione, anche se contenuta in un atto
non solenne, si considera come resa a pubblico ufficiale e
le dichiarazioni del privato in essa contenute hanno una
rilevanza probatoria che integra il contenuto dell'atto
stesso e devono quindi corrispondere alla verità. La
responsabilità penale vale anche quando la dichiarazione
sostitutiva non è autenticata da un pubblico ufficiale, ma
il peso della dichiarazione incide su interessi di natura
pubblica.
È il caso delle dichiarazioni espressamente
sostitutive di atto notorio in materia edilizia. Con
l'abrogazione della legge 04.01.1968 n. 15, attuata con
legge 445/2000, che attribuisce valenza pubblica ad un atto
anche se non autenticato da pubblico ufficiale, l'atto
stesso conserva fede pubblica e implica per il privato che
attesta il falso una responsabilità penale. Ma ciò, solo se
la dichiarazione è destinata a dimostrare la verità dei
fatti cui si riferisce (articolo Il Sole 24 Ore del
12.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: In
materia di impianti destinati alla produzione di energia
elettrica da fonti rinnovabili il legislatore nazionale, nel
dare attuazione alla direttiva comunitaria 2001/77/CE del
27.09.2001 (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio
sulla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti
energetiche rinnovabili nel mercato interno
dell'elettricità), ha previsto una disciplina legislativa
speciale finalizzata a disciplinare uniformemente e ad
incentivare tali forme di produzione di energia, anche a
mezzo della semplificazione dei procedimenti autorizza tori.
Il procedimento autorizzatorio culmina nel rilascio (o nel
diniego) della c.d. autorizzazione unica regionale alla
realizzazione e all’esercizio dell’impianto (ivi comprese le
opere di connessione alla rete elettrica ed ogni altro
intervento necessario allo scopo).
La disciplina procedimentale è definita dal richiamato art.
12 del d.lgs. 29.12.2003, n. 387.
Il tratto peculiare di tale disposizione, frutto delle
suindicate finalità di semplificazione e di concentrazione
del procedimento, consiste nel fatto che la stessa ha
individuato nella conferenza di servizi il modulo
procedimentale ordinario essenziale alla formazione del
successivo titolo abilitativo funzionale alla costruzione e
all'esercizio degli impianti di produzione di energia
elettrica alimentati da fonti rinnovabili.
Questa disciplina –incentrata sulla concentrazione
procedimentale in ragione del confronto richiesto
dall’approvvigionamento energetico mediante tecnologie che
non immettano in atmosfera sostanze nocive, e sul valore
aggiunto intrinseco allo stesso confronto dialettico delle
amministrazioni interessate– presenta, ratione materiae, un
carattere speciale (proprio a causa di quel modulo
procedimentale, che altrimenti sarebbe attenuato) anche per
ciò che riguarda le valutazioni dell’impatto paesaggistico e
ambientale, rispetto a quelle ordinarie: di guisa che il
modello procedimentale e provvedimentale legittimante
l'installazione di siffatti impianti è esclusivamente quello
dell’autorizzazione unica regionale, tipizzato espressamente
dal richiamato art. 12 d.lgs. n. 387/2003 (e secondo le
previsioni ivi stabilite).
Pertanto, l'organo competente al rilascio
dell'autorizzazione unica compie la valutazione comparativa
di tutti gli interessi coinvolti, tenendo conto delle
eventuali posizioni di dissenso espresse dai partecipanti
alla conferenza di servizi.
Stante il rinvio operato dall’art. 12 d.lgs. n. 387 del
2003, alla legge n. 241 del 1990 in tema di conferenza di
servizi, ne consegue che, ai sensi dell’art. 14-quater legge
n. 241 del 1990, le amministrazioni convocate devono
esprimere il proprio eventuale dissenso, a pena di
inammissibilità, motivatamente e all’interno della
conferenza di servizi. Ove, poi, il dissenso sia espresso,
tra l’altro, da amministrazioni preposte alla tutela
ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio
storico-artistico, sono previste specifiche norme
procedurali per il superamento del dissenso.
In particolare, è previsto che ove venga espresso motivato
dissenso da parte di un'amministrazione preposta alla tutela
ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio
storico-artistico o alla tutela della salute e della
pubblica incolumità, la questione, in attuazione e nel
rispetto del principio di leale collaborazione e
dell'articolo 120 della Costituzione, è rimessa
dall'amministrazione procedente alla deliberazione del
Consiglio dei Ministri, che si pronuncia entro sessanta
giorni, previa intesa con la Regione o le Regioni e le
Province autonome interessate, in caso di dissenso tra
un'amministrazione statale e una regionale o tra più
amministrazioni regionali, ovvero previa intesa con la
Regione e gli enti locali interessati, in caso di dissenso
tra un'amministrazione statale o regionale e un ente locale
o tra più enti locali.
Se l'intesa non è raggiunta entro trenta giorni, la
deliberazione del Consiglio dei Ministri può essere comunque
adottata. Se il motivato dissenso è espresso da una Regione
o da una Provincia autonoma in una delle materie di propria
competenza, ai fini del raggiungimento dell'intesa, entro
trenta giorni dalla data di rimessione della questione alla
delibera del Consiglio dei Ministri, viene indetta una
riunione dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con la
partecipazione della Regione o della Provincia autonoma,
degli enti locali e delle amministrazioni interessate,
attraverso un unico rappresentante legittimato, dall'organo
competente, ad esprimere in modo vincolante la volontà
dell'amministrazione sulle decisioni di competenza.
---------------
E' ravvisabile un’ipotesi di nullità dell’autorizzazione
unica regionale (per difetto assoluto di attribuzione o
rispettivamente per difetto dell’elemento essenziale
dell’assenza di dissensi qualificati nella previa conferenza
di servizi), nel caso di sostanziale e radicale
pretermissione delle prerogative delle amministrazioni
preposte alla tutela paesaggistica e ambientale, e cioè nel
caso di mancata applicazione del modulo previsto dall’art.
14-quater della legge n. 241 del 1990 per il superamento del
motivato dissenso dell’amministrazione preposta alla tutela
degli interessi sensibili ivi indicati.
Anzitutto giova ricordare che in materia di
impianti destinati alla produzione di energia elettrica da
fonti rinnovabili il legislatore nazionale, nel dare
attuazione alla direttiva comunitaria 2001/77/CE del 27.09.2001 (Direttiva del Parlamento europeo e del
Consiglio sulla promozione dell'energia elettrica prodotta
da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno
dell'elettricità), ha previsto una disciplina legislativa
speciale finalizzata a disciplinare uniformemente e ad
incentivare tali forme di produzione di energia, anche a
mezzo della semplificazione dei procedimenti autorizza tori.
Il procedimento autorizzatorio culmina nel rilascio (o nel
diniego) della c.d. autorizzazione unica regionale alla
realizzazione e all’esercizio dell’impianto (ivi comprese le
opere di connessione alla rete elettrica ed ogni altro
intervento necessario allo scopo).
La disciplina procedimentale è definita dal richiamato art.
12 del d.lgs. 29.12.2003, n. 387.
Il tratto peculiare di tale disposizione, frutto delle
suindicate finalità di semplificazione e di concentrazione
del procedimento, consiste nel fatto che la stessa ha
individuato nella conferenza di servizi il modulo
procedimentale ordinario essenziale alla formazione del
successivo titolo abilitativo funzionale alla costruzione e
all'esercizio degli impianti di produzione di energia
elettrica alimentati da fonti rinnovabili.
Questa disciplina
–incentrata sulla concentrazione procedimentale in ragione
del confronto richiesto dall’approvvigionamento energetico
mediante tecnologie che non immettano in atmosfera sostanze
nocive, e sul valore aggiunto intrinseco allo stesso
confronto dialettico delle amministrazioni interessate–
presenta, ratione materiae, un carattere speciale (proprio a
causa di quel modulo procedimentale, che altrimenti sarebbe
attenuato) anche per ciò che riguarda le valutazioni
dell’impatto paesaggistico e ambientale, rispetto a quelle
ordinarie: di guisa che il modello procedimentale e
provvedimentale legittimante l'installazione di siffatti
impianti è esclusivamente quello dell’autorizzazione unica
regionale, tipizzato espressamente dal richiamato art. 12
d.lgs. n. 387/2003 (e secondo le previsioni ivi stabilite).
Pertanto, l'organo competente al rilascio
dell'autorizzazione unica compie la valutazione comparativa
di tutti gli interessi coinvolti, tenendo conto delle
eventuali posizioni di dissenso espresse dai partecipanti
alla conferenza di servizi.
Stante il rinvio operato dall’art. 12 d.lgs. n. 387 del
2003, alla legge n. 241 del 1990 in tema di conferenza di
servizi, ne consegue che, ai sensi dell’art. 14-quater legge
n. 241 del 1990, le amministrazioni convocate devono
esprimere il proprio eventuale dissenso, a pena di
inammissibilità, motivatamente e all’interno della
conferenza di servizi. Ove, poi, il dissenso sia espresso,
tra l’altro, da amministrazioni preposte alla tutela
ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio
storico-artistico, sono previste specifiche norme
procedurali per il superamento del dissenso.
In particolare,
è previsto che ove venga espresso motivato dissenso da parte
di un'amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico
o alla tutela della salute e della pubblica incolumità, la
questione, in attuazione e nel rispetto del principio di
leale collaborazione e dell'articolo 120 della Costituzione,
è rimessa dall'amministrazione procedente alla deliberazione
del Consiglio dei Ministri, che si pronuncia entro sessanta
giorni, previa intesa con la Regione o le Regioni e le
Province autonome interessate, in caso di dissenso tra
un'amministrazione statale e una regionale o tra più
amministrazioni regionali, ovvero previa intesa con la
Regione e gli enti locali interessati, in caso di dissenso
tra un'amministrazione statale o regionale e un ente locale
o tra più enti locali.
Se l'intesa non è raggiunta entro
trenta giorni, la deliberazione del Consiglio dei Ministri
può essere comunque adottata. Se il motivato dissenso è
espresso da una Regione o da una Provincia autonoma in una
delle materie di propria competenza, ai fini del
raggiungimento dell'intesa, entro trenta giorni dalla data
di rimessione della questione alla delibera del Consiglio
dei Ministri, viene indetta una riunione dalla Presidenza
del Consiglio dei Ministri con la partecipazione della
Regione o della Provincia autonoma, degli enti locali e
delle amministrazioni interessate, attraverso un unico
rappresentante legittimato, dall'organo competente, ad
esprimere in modo vincolante la volontà dell'amministrazione
sulle decisioni di competenza.
Ciò premesso sul piano del quadro normativo, va
aggiunto che secondo la più recente giurisprudenza di questa
sezione (formatasi a partire da Cons. St., Sez. VI,
23.05.2012, n. 3039) è ravvisabile un’ipotesi di nullità
dell’autorizzazione unica regionale (per difetto assoluto di
attribuzione o rispettivamente per difetto dell’elemento
essenziale dell’assenza di dissensi qualificati nella previa
conferenza di servizi), nel caso di sostanziale e radicale
pretermissione delle prerogative delle amministrazioni
preposte alla tutela paesaggistica e ambientale, e cioè nel
caso di mancata applicazione del modulo previsto dall’art.
14-quater della legge n. 241 del 1990 per il superamento del
motivato dissenso dell’amministrazione preposta alla tutela
degli interessi sensibili ivi indicati
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.03.2014 n. 1144 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: L'istituto
della retrocessione, prima disciplinato dagli artt. 60-63
della Legge n. 2359/1865, è oggi scolpito dagli artt. 46-48
del D.P.R. n. 327/2001 (T.U. Espropriazione per p.u.).
Nell'ambito delle procedure di espropriazione per pubblica
utilità, l'istituto della retrocessione dà titolo alla
restituzione dei beni espropriati ove non sia stata posta in
essere o non sia più utilizzabile l'opera alla cui
realizzazione gli stessi erano stati destinati dalla
dichiarazione di pubblica utilità.
Ricorre in tale evenienza la fattispecie della c.d.
“retrocessione totale”, laddove sussiste un vero e proprio
diritto soggettivo dell'originario proprietario ad ottenere
la restituzione del bene oggetto della procedura ablatoria
devoluto alla giurisdizione del Giudice ordinario.
Ulteriore ipotesi normativa si invera allorché, pur essendo
stata eseguita l'opera pubblica o di pubblica utilità,
emerga che uno o più fondi espropriati non hanno ricevuto,
in tutto o in parte, la prevista destinazione: ricorre in
tale fattispecie la c.d. “retrocessione parziale”, laddove
la posizione soggettiva ha consistenza di interesse
legittimo, e la cognizione della stessa pertiene alla
giurisdizione amministrativa. Secondo la giurisprudenza di
merito, l'ipotesi di retrocessione totale, è contraddistinta
dalla mancata realizzazione dell'opera prevista dalla
dichiarazione di pubblica utilità: ivi parimenti è compreso
il caso della sostituzione con un'opera completamente
diversa da quella programmata.
Come ha a più riprese chiarito la giurisprudenza, invece, la
retrocessione parziale si ha quando, dopo l'esecuzione
totale o parziale dell'opera, alcuni dei fondi espropriati
non abbiano ricevuto la prevista destinazione. La posizione
giuridica soggettiva attiva nasce solo se e in quanto
l'Amministrazione, nel compimento di una valutazione
discrezionale in ordine alla quale il privato è titolare di
un mero interesse legittimo, abbia dichiarato che quei fondi
più non servono all'opera pubblica.
Come è noto, l'istituto della
retrocessione, prima disciplinato dagli artt. 60-63 della
Legge n. 2359/1865, è oggi scolpito dagli artt. 46-48 del
D.P.R. n. 327/2001 (T.U. Espropriazione per p.u.).
Nell'ambito delle procedure di espropriazione per pubblica
utilità, l'istituto della retrocessione dà titolo alla
restituzione dei beni espropriati ove non sia stata posta in
essere o non sia più utilizzabile l'opera alla cui
realizzazione gli stessi erano stati destinati dalla
dichiarazione di pubblica utilità.
Ricorre in tale evenienza la fattispecie della c.d.
“retrocessione totale”, laddove sussiste un vero e proprio
diritto soggettivo dell'originario proprietario ad ottenere
la restituzione del bene oggetto della procedura ablatoria
devoluto alla giurisdizione del Giudice ordinario.
Ulteriore ipotesi normativa si invera allorché, pur essendo
stata eseguita l'opera pubblica o di pubblica utilità,
emerga che uno o più fondi espropriati non hanno ricevuto,
in tutto o in parte, la prevista destinazione: ricorre in
tale fattispecie la c.d. “retrocessione parziale”, laddove
la posizione soggettiva ha consistenza di interesse
legittimo, e la cognizione della stessa pertiene alla
giurisdizione amministrativa. Secondo la giurisprudenza di
merito, l'ipotesi di retrocessione totale, è contraddistinta
dalla mancata realizzazione dell'opera prevista dalla
dichiarazione di pubblica utilità: ivi parimenti è compreso
il caso della sostituzione con un'opera completamente
diversa da quella programmata (TAR Campania Napoli Sez.
V, 01.06.2011, n. 2937).
Come ha a più riprese chiarito la giurisprudenza, invece, la
retrocessione parziale si ha quando, dopo l'esecuzione
totale o parziale dell'opera, alcuni dei fondi espropriati
non abbiano ricevuto la prevista destinazione. La posizione
giuridica soggettiva attiva nasce solo se e in quanto
l'Amministrazione, nel compimento di una valutazione
discrezionale in ordine alla quale il privato è titolare di
un mero interesse legittimo, abbia dichiarato che quei fondi
più non servono all'opera pubblica
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.03.2014 n. 1110 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L'ingiunzione
di demolizione, in quanto atto dovuto in presenza della
constatata realizzazione dell'opera edilizia senza titolo
abilitativo o in totale difformità da esso, è in linea di
principio sufficientemente motivata con l'affermazione
dell'accertata abusività dell'opera; ma deve intendersi
fatta salva l'ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo
trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi
dell'inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza,
si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato;
ipotesi questa in relazione alla quale si ravvisa un onere
di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche
all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico
interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino
della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato.
Parimenti infondato si appalesa il secondo
motivo di appello (già primo motivo del mezzo di primo
grado). L'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive
è sufficientemente motivata con riferimento all'oggettivo
riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura
assoggettabilità di queste al regime del permesso di
costruire; nel caso di specie è anche rimasto inimpugnato il
diniego di condono: non è dato comprendere qual sorta di
“convalescenza” possa ex post vanificare l’abusività
dell’avvenuta edificazione della sopraelevazione, mai in
passato assentita,ovvero di quale ulteriore motivazione
necessitasse il provvedimento, tanto più che era stata
espressamente disattesa la domanda di condono.
E’ ben noto al Collegio che recente giurisprudenza abbia
fatto presente che (Consiglio di Stato sez. V 15/07/2013
n. 3847) “l'ingiunzione di demolizione, in quanto atto dovuto
in presenza della constatata realizzazione dell'opera
edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da
esso, è in linea di principio sufficientemente motivata con
l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera; ma deve
intendersi fatta salva l'ipotesi in cui, per il lungo lasso
di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso ed il
protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione preposta alla
vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento
nel privato; ipotesi questa in relazione alla quale si
ravvisa un onere di congrua motivazione che indichi, avuto
riguardo anche all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il
pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al
ripristino della legalità, idoneo a giustificare il
sacrificio del contrapposto interesse privato.”.
Sennonché, nel caso di specie, appare evidente che non v’è
alcun affidamento da tutelare
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.03.2014 n. 1109 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
collegio non ritiene di doversi discostare dall’indirizzo
giurisprudenziale consolidato che individua l’abuso edilizio
come illecito permanente, che vincola l’amministrazione a
ripristinare lo stato dei luoghi e a sanzionare la condotta
contra legem, con impraticabilità di qualsiasi comparazione,
al riguardo, fra l’interesse del privato alla conservazione
del bene e l’interesse pubblico, sotteso alla garanzia di
effettività della disciplina dell’assetto del territorio, a
tutela degli interessi collettivi della popolazione.
Il collegio non ritiene di doversi discostare,
infine, dall’indirizzo giurisprudenziale consolidato che
individua l’abuso edilizio come illecito permanente, che
vincola l’amministrazione a ripristinare lo stato dei luoghi
e a sanzionare la condotta contra legem, con impraticabilità
di qualsiasi comparazione, al riguardo, fra l’interesse del
privato alla conservazione del bene e l’interesse pubblico,
sotteso alla garanzia di effettività della disciplina
dell’assetto del territorio, a tutela degli interessi
collettivi della popolazione (cfr. in tal senso, fra le
tante, Cons. St., sez. IV, sentt. 27.12.2011 n. 6873 e
08.01. 2013 n. 32; sez. VI, sent. 15.03.2007 n. 1255).
Anche alcuni isolati precedenti giurisprudenziali, che
avevano riconosciuto la necessità di detta comparazione,
erano per lo più riferiti a situazioni peculiari (come nel
caso di manufatti esistenti da tempo immemorabile, la cui
stessa irregolarità alla data della relativa edificazione
risultava di difficile individuazione): fattispecie non
rapportabili al caso in esame
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.03.2014 n. 1104 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
giurisprudenza è sempre stata orientata alla tutela
dell’insopprimibile funzione agricola del territorio sotto
il profilo produttivo, ambientale, paesaggistico ed
idrogeologico.
Le normative comunali che ammettono una limitata possibilità
di realizzare in zona E3 interventi edilizi devono sempre
essere interpretate nel senso che si debba assicurare
comunque la tutela del territorio agricolo e alla sua
concreta utilizzazione ai fini alimentari, dovendo al
contrario ritenersi del tutto inconciliabili con le finalità
di una zona agricola, la realizzazione di strutture che ne
pregiudichino definitivamente la destinazione naturale del
territorio.
--------------
E’ del tutto inconciliabile con la finalità agricola, e non
può dunque essere ammissibile, la realizzazione in area
agricola di opere di battitura del terreno, riporto di
sabbia e di materiali inerti con asfaltatura per la
realizzazione di una pavimentazione per uno spessore di
circa 50 cm..
La realizzazione del piazzale- deposito altera lo stato dei
luoghi e costituisce un intervento di permanente
trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio
disciplinato dall'art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001 che, essendo
subordinato al permesso di costruire, deve necessariamente
rispettare le tipologia e le destinazioni d'uso funzionali
consentite per la zona agricola.
Si deve ricordare che la giurisprudenza è
sempre stata orientata alla tutela dell’insopprimibile
funzione agricola del territorio sotto il profilo
produttivo, ambientale, paesaggistico ed idrogeologico. Le
normative comunali che ammettono una limitata possibilità di
realizzare in zona E3 interventi edilizi devono sempre
essere interpretate nel senso che si debba assicurare
comunque la tutela del territorio agricolo e alla sua
concreta utilizzazione ai fini alimentari, dovendo al
contrario ritenersi del tutto inconciliabili con le finalità
di una zona agricola, la realizzazione di strutture che ne
pregiudichino definitivamente la destinazione naturale del
territorio (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 04.10.2011
n. 5442; Consiglio di Stato sez. IV 18/03/2010 n. 1624;
Consiglio di Stato sez. IV 23/07/2012 n. 4204).
E’ dunque del tutto inconciliabile con la finalità agricola,
e non può dunque essere ammissibile, la realizzazione in
area agricola di opere di battitura del terreno, riporto di
sabbia e di materiali inerti con asfaltatura per la
realizzazione di una pavimentazione per uno spessore di
circa 50 cm..
La realizzazione del piazzale- deposito altera lo stato dei
luoghi e costituisce un intervento di permanente
trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio
disciplinato dall'art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001 che, essendo
subordinato al permesso di costruire, deve necessariamente
rispettare le tipologia e le destinazioni d'uso funzionali
consentite per la zona agricola.
Nella specie la realizzazione di un parcheggio scoperto è
assolutamente fuori dalle ipotesi di legittima utilizzazione
che il proprietario ritenga di fare del proprio terreno.
Infatti le NTA del PRG che in “Zona E) "rurale" prevedono
che:
“Gli interventi in queste zone devono essere rivolti allo
sviluppo delle attività agricola - produttive ed alla tutela
del territorio non edificato. Sono consentiti esclusivamente
le attività di coltivazione agricola, quelle residenziali
connesse, nonché le attività di trasformazione e
commercializzazione di prodotti agricoli produzione propria.
Sono consentiti, altresì, le attività di tipo agrituristico,
nel rispetto delle normative vigenti in materia".
In base alla predetta disposizione, l’area in questione non
poteva essere assolutamente essere finalizzata alla
realizzazione di un piazzale destinato all'attività di
deposito giudiziario ed amministrativo di autoveicoli in
quanto si risolveva in una sostanziale inammissibile “deruralizzazione”
dell’area
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.03.2014 n. 1099 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'istituto dell'avvalimento deve essere pur
sempre contemperato con la esigenza di assicurare idonee
garanzie alla stazione appaltante per la corretta esecuzione
degli appalti.
Pur essendo pacifico in giurisprudenza il carattere
generalizzato dell'istituto dell'avvalimento, finalizzato a
favorire la massima partecipazione nelle gare di appalto e
la effettività della concorrenza secondo i principi di
rilievo comunitario, tale istituto deve essere pur sempre
contemperato con la esigenza di assicurare idonee garanzie
alla stazione appaltante per la corretta esecuzione degli
appalti.
Pertanto, nel caso di specie, è illegittima l'ammissione in
una gara di appalto di progettazione e di esecuzione lavori
di una ati, facente capo alla società che ha fatto ricorso
all'istituto dell'avvalimento (art. 49, del d lgs. n.
163/2006), in quanto:
a ) il criterio letterale posto dall'art. 49, per il quale
solo "il concorrente" singolo, consorziato o
raggruppato può ricorrere all'avvalimento trattandosi di un
istituto di soccorso al concorrente in sede di gara per cui
va escluso chi si avvale di soggetto ausiliario a sua volta
privo del requisito richiesto dal bando;
b) se il progettista indicato non è legato da un vincolo
negoziale con la stazione appaltante, a maggior ragione non
è legato il suo ausiliario che è soggetto terzo che non può
offrire alcuna garanzia alla amministrazione.
Solo il concorrente assume infatti obblighi contrattuali con
la p.a. appaltante tanto che l'ausiliario, a mente dell'art.
49, co. 2, lett. d), si obbliga verso il concorrente e la
stazione appaltante a mettere a disposizione le risorse
necessarie di cui è carente il concorrente mediante apposita
dichiarazione; inoltre l'ausiliario diventa ex lege
responsabile in solido con il concorrente in relazione alle
prestazioni oggetto del contratto (art. 49, co. 4). La
responsabilità solidale, che è garanzia di buona esecuzione
dell'appalto, può sussistere solo in quanto la impresa
ausiliaria sia collegata contrattualmente al concorrente
tant'è che l'art. 49 prescrive l'allegazione, già in
occasione della domanda di partecipazione, del contratto di
avvalimento mentre tale vincolo contrattuale diretto con il
concorrente e con la stazione appaltante non sussiste nel
caso in cui sia lo stesso ausiliario che ricorre ai
requisiti posseduti da terzi.
D'altro canto la estensione della categoria di "concorrente"
sino a comprendere l'ausiliario e/o il soggetto indicato dal
concorrente per la progettazione, comportando potenzialmente
una catena di avvalimenti di "ausiliari dell'ausiliario"
non consente un controllo agevole da parte della stazione
appaltante in sede di gara sul possesso dei requisiti dei
partecipanti (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 07.03.2014 n. 1072 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Sul dolo intenzionale nel reato di abuso d’ufficio.
Nel reato di abuso d’ufficio deve
ritenersi configurato il dolo (intenzionale) qualora si
accerti che il pubblico ufficiale o l’incaricato di un
pubblico servizio abbia agito con lo scopo immediato e
finale di non perseguire, attraverso la condotta posta in
essere, una finalità pubblica, il cui conseguimento deve
essere escluso non soltanto nei casi nei quali essa manchi
del tutto ma anche nei casi in cui rappresenti una mera
occasione della condotta illecita, posta in essere invece al
preciso scopo di realizzare, in via immediata ed attraverso
la violazione di legge o di regolamento o l’omissione del
dovere di astensione nei casi prescritti, un danno ingiusto
ad altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto per sé o per
altri.
La qualificazione del dolo intenzionale come scopo finale
dell’evento perseguito implica, quindi, che la realizzazione
del fatto di reato costituisca la finalità immediata
dell’agente ed esige che, quanto al reato di abuso d’ufficio
in cui l’interesse pubblico riveste un ruolo assolutamente
centrale nell’economia della fattispecie, la
rappresentazione e la volizione dell’evento di danno
(altrui) o di vantaggio patrimoniale (proprio o altrui) sia
una conseguenza diretta ed immediata della condotta
dell’agente e costituisca l’obiettivo primario da questi
perseguito.
La giurisprudenza di questa Corte ha espresso in modo chiaro
siffatti concetti quando ha precisato che, ai fini della
sussistenza dell’elemento soggettivo nel delitto di abuso di
ufficio di cui all’art. 323 cod. pen., non è sufficiente né
il dolo eventuale –e cioè l’accettazione del rischio del
verificarsi dell’evento– né quello diretto –e cioè la
rappresentazione dell’evento come realizzabile con elevato
grado di probabilità o addirittura con certezza, senza
essere un obiettivo perseguito– ma è richiesto il dolo
intenzionale: cioè la rappresentazione e la volizione
dell’evento di danno altrui o di vantaggio patrimoniale,
proprio o altrui, come conseguenza diretta e immediata della
condotta dell’agente e obiettivo primario da costui
perseguito.
L’uso dell’avverbio “intenzionalmente” per qualificare il
dolo implica, pertanto, che sussiste il reato solo quando
l’agente si rappresenta e vuole l’evento di danno altrui o
di vantaggio patrimoniale proprio o altrui come conseguenza
diretta ed immediata della sua condotta e come obiettivo
primario perseguito, e non invece quando egli intende
perseguire l’interesse pubblico come obiettivo primario.
Con la sentenza n. 10810, le cui motivazioni sono state
depositate il 06.03.2014, la III Sez. penale della Corte di
Cassazione ha fatto il punto sull’elemento soggettivo del
dolo intenzionale richiesto dal reato di abuso di ufficio
(art. 323 c.p.) nei casi di compresenza, nell’operato del
pubblico ufficiale, del perseguimento di un interesse
pubblico e di uno privato.
[Art. 323 c.p. Abuso d’ufficio
Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il
pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che,
nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in
violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero
omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o
di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti,
intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto
vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno
ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni.
La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno
hanno un carattere di rilevante gravità.]
Soffermandoci sul primo motivo di ricorso (con il quale si
sosteneva la mancanza del dolo intenzionale da parte dei
ricorrenti e dunque l’insussistenza dell’elemento
psicologico richiesto dalla fattispecie di reato) la Corte
ha osservato come, nel reato di abuso d’ufficio, debba
ritenersi configurato il dolo (intenzionale) qualora si
accerti che il pubblico ufficiale o l’incaricato di un
pubblico servizio abbia agito con lo scopo immediato e
finale di non perseguire, attraverso la condotta posta in
essere, una finalità pubblica, il cui conseguimento deve
essere escluso non soltanto nei casi nei quali essa manchi
del tutto ma anche nei casi in cui rappresenti una mera
occasione della condotta illecita, posta in essere invece al
preciso scopo di realizzare, in via immediata ed attraverso
la violazione di legge o di regolamento o l’omissione del
dovere di astensione nei casi prescritti, un danno ingiusto
ad altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto per sé o per
altri.
La qualificazione del dolo intenzionale come scopo finale
dell’evento perseguito implica, quindi, che la realizzazione
del fatto di reato costituisca la finalità immediata
dell’agente ed esige che, quanto al reato di abuso d’ufficio
in cui l’interesse pubblico riveste un ruolo assolutamente
centrale nell’economia della fattispecie, la
rappresentazione e la volizione dell’evento di danno
(altrui) o di vantaggio patrimoniale (proprio o altrui) sia
una conseguenza diretta ed immediata della condotta
dell’agente e costituisca l’obiettivo primario da questi
perseguito.
La giurisprudenza di questa Corte –proseguono i giudici– ha
espresso in modo chiaro siffatti concetti quando ha
precisato che, ai fini della sussistenza dell’elemento
soggettivo nel delitto di abuso di ufficio di cui all’art.
323 cod. pen., non è sufficiente né il dolo eventuale –e
cioè l’accettazione del rischio del verificarsi dell’evento–
né quello diretto –e cioè la rappresentazione dell’evento
come realizzabile con elevato grado di probabilità o
addirittura con certezza, senza essere un obiettivo
perseguito– ma è richiesto il dolo intenzionale: cioè la
rappresentazione e la volizione dell’evento di danno altrui
o di vantaggio patrimoniale, proprio o altrui, come
conseguenza diretta e immediata della condotta dell’agente e
obiettivo primario da costui perseguito (Sez. 6, Sentenza n.
21091 del 24/02/2004, Percoco, Rv. 228811).
L’uso dell’avverbio “intenzionalmente” per
qualificare il dolo implica, pertanto, che sussiste il reato
solo quando l’agente si rappresenta e vuole l’evento di
danno altrui o di vantaggio patrimoniale proprio o altrui
come conseguenza diretta ed immediata della sua condotta e
come obiettivo primario perseguito, e non invece quando egli
intende perseguire l’interesse pubblico come obiettivo
primario (Sez. 6, n. 708 del 08/10/2003, (dep. 15/01/2004),
Mannello Rv. 227280).
Di conseguenza, quando l’evento tipico sia una semplice
conseguenza accessoria dell’operato dell’agente -il quale
persegue in via primaria l’obiettivo dell’interesse pubblico
di preminente rilievo, riconosciuto dall’ordinamento e
idoneo ad oscurare il concomitante favoritismo o danno per
il privato– si può ritenere che l’evento sia voluto ma non
sia intenzionale (Sez. 6 n. n. 21091 del 2004 cit.)
occupando, come è stato sottolineato in dottrina, una
posizione defilata, e rappresenta soltanto un effetto
secondario della condotta posta in essere, avendo il
legislatore inteso attribuire rilievo penale esclusivamente
alle condotte ispirate in via immediata non dalla volontà
accettante (caratteristica del dolo eventuale) ma dalla
prava voluntas del favoritismo privatistico.
Quando, al contrario, manchi del tutto l’interesse pubblico
e l’evento (illecito) sia conseguenza immediatamente
perseguita dal soggetto attivo, l’accertamento del dolo
(intenzionale) si esaurisce nella oggettiva verifica del
favoritismo posto in essere con l’abuso dell’atto d’ufficio,
senza che rilevi la motivazione che abbia indotto l’agente a
perseguire, come fine della condotta, la realizzazione del
reato; né è necessaria la prova della collusione del
pubblico ufficiale con i beneficiari dell’abuso.
Nei casi, infine, di concorrente verificazione di un evento
lecito e di uno illecito, occorrerà accertare quale di
questi abbia costituito l’obiettivo principale della
condotta del soggetto; occorrerà cioè indagare quale sia
l’evento preso di mira, ossia l’evento desiderato come
primario dall’agente, essendo caratteristica del dolo
intenzionale quella di agire allo scopo di produrre
l’effetto previsto, essendo la direzione della volontà
rivolta verso un evento assunto quale scopo finale della
condotta.
In altri termini, l’intenzionalità del dolo non è esclusa
dalla compresenza di una finalità pubblicistica nella
condotta del pubblico ufficiale, dovendosi ritenere
necessario, per escludere la configurabilità dell’elemento
soggettivo, che il perseguimento del pubblico interesse
costituisca l’obiettivo principale dell’agente, con
conseguente degradazione del dolo di danno o di vantaggio da
dolo di tipo intenzionale a mero dolo diretto od eventuale
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.03.2014 n. 10810 - commento tratto da
e link a link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Non
appare illegittimo l’operato dell’amministrazione che
approvi in un’unica soluzione il progetto definitivo ed
esecutivo dell’opera pubblica.
---------------
L'approvazione del progetto preliminare è adempimento
previsto, ai sensi dell’art. 128 del D.Lgs n. 163/2006, per
le sole opere pubbliche di importo superiore a euro
1.000.000,00.
Quanto al primo ricorso per motivi aggiunti, in relazione
alle tre censure ivi dedotte, è sufficiente richiamare
quanto rilevato nel provvedimento cautelare e quindi: che in
relazione alle opere da realizzare (cfr. per tutte TAR
Puglia Bari, sez. 2^ n. 594/2005 e 2919/2005) non appare
illegittimo l’operato dell’amministrazione che approvi in
un’unica soluzione il progetto definitivo ed esecutivo
dell’opera pubblica; che non risulta smentito che il
progetto preliminare sia stato approvato con delibera C.C.
del 31.03.2006, pur trattandosi di adempimento previsto, ai
sensi dell’art. 128 del D.Lgs n. 163/2006, per le sole opere
pubbliche di importo superiore a euro 1.000.000,00 (laddove
l’opera in questione è di importo ampiamente inferiore a
detto limite).
E, infine, quanto allo studio di fattibilità va richiamato
il disposto dell’art. 128 del d.Lgs 163/2006, il quale
prevede che “Il programma triennale costituisce momento
attuativo di studi di fattibilità e di identificazione e
quantificazione dei propri bisogni che le amministrazioni
aggiudicatrici predispongono nell'esercizio delle loro
autonome competenze e, quando esplicitamente previsto, di
concerto con altri soggetti, in conformità agli obiettivi
assunti come prioritari”.
La norma non si riferisce quindi al singolo progetto ma allo
stesso programma triennale, che non è oggetto di impugnativa
e quindi la censura appare non solo generica ma inconferente,
ove indirizzata nei confronti del progetto approvato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.03.2014 n. 602 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Il
presunto vizio di legittimità del decreto di esproprio
riguarda in realtà l’attività materiale di immissione in
possesso, che sarebbe avvenuta senza il rispetto del termine
di sette giorni dalla notifica dello stesso decreto.
Al riguardo, l’eventuale violazione del detto termine
potrebbe rendere illecita l’immissione in possesso, alla
quale i ricorrenti potrebbero opporsi, agendo nelle sedi
opportune, ma non invalidare il decreto di esproprio, la cui
legittimità non può essere influenzata da eventuali
irregolarità che attengono alla fase della sua esecuzione
materiale.
Quanto al secondo ricorso per
motivi aggiunti il Collegio osserva che il presunto vizio di
legittimità del decreto di esproprio riguarda in realtà
l’attività materiale di immissione in possesso, che sarebbe
avvenuta senza il rispetto del termine di sette giorni dalla
notifica dello stesso decreto.
Sennonché, anche a prescindere dal fatto che la censura
appare infondata perché la notifica si è perfezionata il
24.01.2008 e quindi che il termine di legge di sette giorni
è stato rispettato, l’eventuale violazione del detto termine
avrebbe potuto rendere illecita l’immissione in possesso,
alla quale i ricorrenti avrebbero potuto opporsi, agendo
nelle sedi opportune, ma non invalidare il decreto di
esproprio, la cui legittimità non può essere influenzata da
eventuali irregolarità che attengono alla fase della sua
esecuzione materiale (cfr C.d.S. sez. 4^ n. 2481/2012; id.
n. 2286/2012)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.03.2014 n. 602 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: Imu, aumenti per tempo. Nulli gli incrementi decisi dopo il
30/11/2013. Tar Calabria: la proroga assegnata dal prefetto vale solo
per il bilancio.
Deve essere annullata la delibera del Consiglio comunale che
incrementa le aliquote Imu adottata dopo il 30 novembre
scorso: va infatti ritenuto perentorio il termine che emerge
dal combinato disposto della legge di stabilità 2013 e dallo
stesso decreto Imu per l'adozione dei provvedimenti
necessari.
È quanto emerge dalla
sentenza
06.03.2014 n. 366, pubblicata
dalla II Sez. del TAR Calabria-Catanzaro.
È stata considerata fuori tempo massimo la delibera
approvata a Lamezia Terme il 2 dicembre, qualche giorno dopo
la dead line indicata dalla legge 228/12 (stabilità 2013) e
dal decreto legge 102/2013, che pure differiva al 30 novembre
scorso il termine per la deliberazione del bilancio annuale
di previsione 2013 degli enti locali. Lo stesso collegio dei
revisori dei conti esclude che l'incremento dell'aliquota
possa avere efficacia nell'annualità di riferimento. Non
conta che nella specie l'approvazione del bilancio sia stata
assunta a seguito di intimazione-diffida del prefetto di
Catanzaro. L'ulteriore periodo di 20 giorni, assegnato
dall'ufficio territoriale del governo, riguarda unicamente
l'approvazione del bilancio preventivo.
Si tratta in
particolare di un provvedimento funzionale allo scioglimento
d'imperio del Consiglio comunale dell'ente locale in caso di
persistenza nell'inadempimento. Insomma, scatta la decadenza
se si supera il termine finale del 30.11.2013, per
l'approvazione da parte degli enti locali delle aliquote che
riguardano l'imposta municipale propria (Imu) per il 2013.
Si tratta infatti di una scadenza prestabilita dal
legislatore, accompagnata da sanzioni ad hoc, comminate in
modo testuale per l'ipotesi di inosservanza.
Una conferma arriva dalla Corte dei conti che con la
precedente delibera 263/2007 in relazione a una fattispecie
analoga ha stabilito in modo esplicito che l'aumento delle
tariffe e delle aliquote decise oltre il termine indicato
dalle leggi dello stato, anche se prorogato a seguito dei
termini ulteriori concessi dal prefetto per la sola
l'approvazione del bilancio di previsione, non hanno valore
e, quindi, non possono essere applicate, mentre producono
effetto soltanto le tariffe dell'anno precedente
(articolo ItaliaOggi dell'11.03.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
J. Cortinovis,
Vincolo ambientale: l'esclusione di volumi e superfici dalla
sanatoria paesaggistica non è tema che appartiene al diritto
dell'Unione.
Per i giudici comunitari nessuna delle
disposizioni contenute nel decreto legislativo n. 42/2004 e
ss.mm.ii. rientrano nell’ambito di applicazione del diritto
dell’Unione Europea. Tali disposizioni non costituiscono,
infatti, attuazione di norme del diritto dell’Unione,
restando conseguentemente ai Giudici nazionali la verifica
delle sanzioni relative agli abusi edilizi in zone
sottoposte a vincolo paesaggistico.
La questione che ha portato i giudici di Lussemburgo a
pronunciare la
sentenza 06.03.2014 C-206/13 prende spunto da una
questione sorta in Sicilia. In particolare, con riferimento
ad un nuovo volume, già oggetto di domanda di sanatoria, la
competente Soprintendenza, con provvedimento amministrativo
del 2011, aveva ingiunto la rimessione in pristino dello
stato dei luoghi mediante la dismissione dell’abuso; il
tutto in applicazione dell'art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004 e
ss.mm.ii., (c.d. Codice Urbani) che impone sempre la
demolizione di volumi e superfici non autorizzate qualora
edificate in aree sottoposte a vincolo ambientale. Ad
eccezione delle previsioni di cui all’art. 167, comma 4, del
Codice Urbani e delle disposizioni introdotte dal più
recente D.P.R. n. 139/2010, all'edificazione di un'opera non
assentita, in area sottoposta vincolata paesaggistico, segue
sempre la demolizione anche quando questa pare
irragionevole.
E’ proprio stata l'irragionevole sproporzione tra l'abuso e
la sanzione demolitoria, dell'opera non assentita, ad
indurre il Giudice nazionale, in particolare del TAR di
Palermo, a rimettere, con
ordinanza 10.04.2013 n. 802,
ai giudici di comunitari la valutazione sulla conformità
dell'art. 167 del Codice Urbani rispetto al dettato
dell'art. 17 della Carta dei diritti fondamentali UE (c.d.
Carta), ove questa fosse interpretata nel senso che le
limitazioni al diritto di proprietà possano essere imposte
solo a seguito di un accertamento della effettiva, e non
solo astratta, esistenza di un interesse contrapposto.
Il TAR di Palermo, a sostegno, aveva evidenziato come, nel
diritto dell’Unione, la materia della tutela del paesaggio
non è autonoma né concettualmente distinta rispetto alla
materia della tutela dell’ambiente, bensì che è parte di
essa. Il giudice del rinvio nel richiamare una serie di
norme comunitarie, aveva altresì evidenziato che non ogni
attività edificatoria, anche se comportante aumento di
volumetria, risulta sempre e comunque lesiva dei valori
tutelati dalla normativa in questione. Secondo lo stesso
giudice, un accertamento che includa la possibilità di
sanatoria dietro pagamento di una sanzione pecuniaria
potrebbe essere effettuato in concreto se il Codice Urbani
non prevedesse la rigida, astratta e presuntiva esclusione
delle opere comportanti «creazione di superfici utili o
volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati».
In questa ipotesi la tutela del paesaggio potrebbe
risultare, da una valutazione concreta, compatibile con il
mantenimento dell’opera. Sul tema, i giudici di Lussemburgo,
non sono però intervenuti nella competenza del Codice Urbani
lasciando, di fatto, ai giudici nazionali la verifica della
sanzione demolitoria per gli abusi edilizi realizzati in
zone sottoposte a vincolo paesaggistico.
I giudici comunitari, pur riconoscendo che il procedimento
amministrativo in esame presenta un collegamento con il
diritto dell’Unione in materia di ambiente, hanno però
evidenziato che la nozione di «attuazione del diritto
dell’Unione», di cui all’art. 51 della Carta, richiede
l’esistenza di un collegamento di una certa consistenza, che
vada al di là dell’affinità tra le materie prese in
considerazione o dell’influenza indirettamente esercitata da
una materia sull’altra.
Per stabilire, infatti, se una normativa nazionale rientri
nell’attuazione del diritto dell’Unione, occorre verificare,
tra le altre cose, se essa abbia lo scopo di attuare una
disposizione del diritto dell’Unione, quale sia il suo
carattere e se essa persegua obiettivi diversi da quelli
contemplati dal diritto dell’Unione, anche se è in grado di
incidere indirettamente su quest’ultimo, nonché se esista
una normativa di diritto dell’Unione che disciplini
specificamente la materia o che possa incidere sulla stessa.
In tal senso, la Corte ha, pertanto, precisato che nessun
elemento permette di concludere che le disposizioni del
D.Lgs. n. 42/2004 e ss.mm.ii. rientrino nell’ambito di
applicazione del diritto dell’Unione. Occorre, inoltre,
tenere conto dell’obiettivo della tutela dei diritti
fondamentali nel diritto dell’Unione, che è quello di
vigilare a che tali diritti non siano violati negli ambiti
di attività dell’Unione. Il perseguimento di tale obiettivo
è motivato dalla necessità di evitare che una tutela dei
diritti fondamentali, variabile a seconda del diritto
nazionale considerato, pregiudichi l’unità, il primato e
l’effettività del diritto dell’Unione (link a http://studiospallino.blogspot.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il locale pubblico occupa uno spazio superiore rispetto
quello autorizzato? Non è abuso edilizio.
Non integra reato l'installazione, in
assenza di permesso di costruire, di mezzi mobili di
pernottamento, anche in via permanente, entro il perimetro
delle strutture turistico-ricettive all'aperto regolarmente
autorizzate ed in ottemperanza dei requisiti stabiliti dagli
ordinamenti regionali, non versandosi in presenza di
un'attività rilevante ai fini urbanistici, edilizi e
paesaggistici come previsto dall'art. 3, comma nono, della
L. n. 99 del 2009.
2. Il ricorso -nei suoi primi due motivi, esaminati
congiuntamente in quanto connessi, ed assorbiti gli altri- è
fondato.
La sentenza impugnata si fonda essenzialmente su due
rilevazioni in punto di fatto.
Innanzi tutto da conto del fatto che gli imputati, titolari
di un esercizio commerciale, avevano chiesto ed ottenuto
autorizzazione temporanea di occupazione di suolo pubblico
con validità dal 06.04.2009 al 30.04.2009 per collocare una
pedana con tavoli e sedie all'esterno, in continuità
spaziale con l'edificio dove era situato l'esercizio
commerciale da essi gestito.
Questa autorizzazione veniva dopo poco ampliata con altro
provvedimento del 05.08.2009 che consentiva l'installazione
di una pergotenda con obbligo di lasciare aperti i lati. Una
terza autorizzazione veniva rilasciata il 21.09.2009 che
consentiva di ampliare la copertura e di collegarla
all'edificio rispettando le prescrizioni che avrebbe
impartito l'ASL. L'autorizzazione di occupazione di suolo
pubblico, così progressivamente ampliata nel suo contenuto,
veniva prorogata con atto del 28.09.2009 al 31.03.2010.
Della legittimità di queste autorizzazioni non si dubita
sicché non pone un problema di disapplicazione dell'atto
amministrativo di assenso.
Rispetto a quanto autorizzato -ed è questo il primo dato di
fatto che pone in rilevo la sentenza impugnata- gli
imputati, nel realizzare questa struttura esterna asservita
all'esercizio commerciale (c.d. de hors), non si sono
attenuti strettamente alla definitiva conformazione del
provvedimento autorizzatorio perché: a) il marciapiede
adiacente all'esercizio commerciale, invece di rimanere
libero, era stato inglobato nella pedana (ma non è
contestato che sia rimasto comunque libero al transito
pedonale); b) lo spazio compreso tra la pergotenda e la
pedana non era rimasto aperto in tutti i lati ma era stato
chiuso con teli in PVC.
È abbastanza intuitiva la ragione di questo sforamento da
quanto autorizzato. La pedana in continuità con l'edificio
dov'era collocato l'esercizio commerciale agevolava il
continuo passaggio, di entrata ed uscita, da quest'ultimo
alla struttura de hors per servire la clientela ai
tavoli esterni. I teli in PVC avevano una funzione di
protezione da possibili intemperie.
Ciò certo non giustificava la difformità nell'occupazione
dello spazio pubblico; ma tale difformità rilevava innanzi
tutto come violazione del contenuto del provvedimento
autorizzatorio, pur progressivamente ampliato di contenuto,
e ne avrebbe legittimato la revoca in chiave anche
sanzionatoria sul piano amministrativo. In particolare
l'allargamento della pedana sino ad aderire all'edificio
significava null'altro che occupazione (abusiva) anche di
un'ulteriore striscia di suolo pubblico, ma non aveva un
rilievo urbanistico.
La Corte d'appello invece non valuta l'impatto dei teli in
PVC: se fossero questi idonei, o no, a trasformare una
struttura au dehors in un vero e proprio volume
rilevante sul piano urbanistico.
L'altro elemento di fatto che la sentenza impugnata prende
in considerazione è la presenza di stufe a fungo ed
apparecchi di condizionamento che “evidenziavano la
destinazione d'uso non temporanea”. Queste “dotazioni
interne” avevano trasformato -secondo la Corte
d'appello- la struttura de hors in un “manufatto
stabilmente destinato allo svolgimento dell'attività
commerciale sia nella stagione estiva che in quella
invernale”.
Vi è poi un terzo elemento di fatto che la sentenza
impugnata enuncia nella parte narrativa, ma del quale non
tiene conto nella motivazione: l'occupazione di suolo
pubblico a mezzo della suddetta struttura de hors era
stata autorizzata fino al 31.03.2010.
Tutto ciò -valutato complessivamente- mostra l'intrinseca
contraddittorietà dell'argomentare della Corte d'appello. La
quale da una parte enuncia la difformità tra la struttura
de hors autorizzata e quella realizzata, ma non ne
valuta la portata nel senso che non chiarisce se la
difformità sia rimasta nei limiti del mancato rispetto di
quanto autorizzato (e quindi attenga alla regolamentazione
dell'occupazione del suolo pubblico) ovvero sia stata di
tale rilievo ed impatto sul territorio da travalicare la
fattispecie della (seppur eccedente) occupazione di suolo
pubblico sì da ridondare in un vero e proprio abuso edilizio
(ciò che implicherebbe che quanto in effetti realizzato
avrebbe dovuto essere stato assentito con permesso di
costruire).
D'altra parte poi la Corte d'appello valuta la ritenuta non
temporaneità dell'opera suddetta (i.e. struttura de hors
che occupava il suolo pubblico eccedendo da quanto
autorizzato) valorizzando un solo elemento -quello della
presenza di stufe a fungo ed apparecchi di condizionamento-
di per sé solo poco significativo e non considerando affatto
che l'opera era stata autorizzata ad tempus (fino al
31.03.2010).
Può richiamarsi, per una fattispecie contigua, Cass., sez.
III, 15/12/2009-14/01/2010, n. n. 1610, che ha affermato che
non integra reato l'installazione, in assenza di permesso di
costruire, di mezzi mobili di pernottamento, anche in via
permanente, entro il perimetro delle strutture
turistico-ricettive all'aperto regolarmente autorizzate ed
in ottemperanza dei requisiti stabiliti dagli ordinamenti
regionali, non versandosi in presenza di un'attività
rilevante ai fini urbanistici, edilizi e paesaggistici come
previsto dall'art. 3, comma nono, della L. n. 99 del 2009.
3. Pertanto il ricorso va accolto con conseguente
annullamento della sentenza impugnata e rinvio alla Corte
d'appello di Perugina per nuovo esame (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 05.03.2014 n. 10482 - link a
www.avvocatocassazionista.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’annullamento
del titolo edilizio di cui alla denuncia di inizio attività
è stato preceduto dall’avviso dell’avvio del relativo
procedimento ed è intervenuto a distanza di meno di due anni
dalla formazione dell’assenso sulla denuncia stessa, a
seguito della verifica tecnica della documentazione
integrativa presentata dall’interessato.
Il procedimento è stato, quindi, tempestivamente attivato e
si è concluso in tempi ragionevoli.
Il provvedimento oggetto del giudizio di primo grado non
contrasta, contrariamente a quanto pretende il ricorrente,
con l’art. 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241, che
prescrive all’Amministrazione di procedere in autotutela
entro un termine ragionevole: come ha rilevato il Tar,
l’annullamento del titolo edilizio di cui alla denuncia
pervenuta il 15.062009 è stato preceduto dall’avviso
dell’avvio del relativo procedimento, comunicato il 26.11.2010, ed è intervenuto a distanza di meno di due
anni dalla formazione dell’assenso sulla denuncia stessa, a
seguito della verifica tecnica della documentazione
integrativa presentata dall’interessato il 06.12.2010.
Il procedimento è stato, quindi, tempestivamente attivato e
si è concluso in tempi ragionevoli; per questo motivo deve
anche essere respinta la domanda di risarcimento dei danni asseritamente subiti per il ritardo dell’Amministrazione nel
provvedere in autotutela (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.03.2014 n. 1054 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
richiamo all’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, che
prescrive la distanza di 10 metri per l’apertura di finestre
antistanti l’edificio confinante, si fonda sull’interesse
pubblico di impedire la formazione di intercapedini nocive
sotto il profilo igienico-sanitario: trattasi, come ha
rilevato la giurisprudenza, di prescrizione avente carattere
di assolutezza ed inderogabilità, risultante da fonte
normativa statuale, sovraordinata rispetto agli strumenti
urbanistici locali (ed è quindi irrilevante il riferimento,
operato dall’appellante, all’art. 27 del regolamento
edilizio del Comune di Milano), da sola sufficiente a
fondare la legittimità dell’annullamento del titolo edilizio
senza spazio per la considerazione e la ponderazione di
opposti interessi.
L’appellante asserisce
poi l’irrilevanza della mancata rappresentazione, nella
documentazione originaria, di una finestra sull’immobile
antistante la parete dell’immobile da ristrutturare: ma è
argomentazione fuorviante, dal momento che il provvedimento
impugnato in primo grado si basa non sulla presenza di una
tale finestra, ma sulla circostanza che il manufatto “non è
stato ricostruito fedelmente quanto a volumetria e sagoma,
giacché sono state operate correzioni dell’area di sedime,
traslate pareti, ampliate le aree, razionalizzata la
conformazione delle aree di sedime, comportando la modifica
del perimetro considerato in senso orizzontale e verticale,
in difetto pertanto del principio di mantenimento della
sagoma”; che il manufatto adibito a box e caldaia “si pone a
distanza inferiore ai tre metri dal confine con una
proprietà di terzi”; che, infine, “nel recupero del
sottotetto, sul lato fronteggiante la proprietà confinante,
è stata aperta una finestra a distanza inferiore a mt. 10”.
Queste sono, pertanto, le motivazioni che sorreggono il
provvedimento in esame, rispetto alle quali la
considerazione della mancata rappresentazione della finestra
sull’edificio confinante non assume alcuna decisiva
rilevanza, essendo la distanza appena richiamata considerata
con riferimento, invece, alla finestra aperta sul manufatto
oggetto dell’intervento contestato.
Il richiamo, pure operato dal provvedimento, all’art. 9 del
d.m. 02.04.1968, n. 1444 che prescrive la distanza di 10
metri per l’apertura di finestre antistanti l’edificio
confinante, si fonda sull’interesse pubblico di impedire la
formazione di intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario: trattasi, come ha rilevato la
giurisprudenza, di prescrizione avente carattere di
assolutezza ed inderogabilità, risultante da fonte normativa
statuale, sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici
locali (ed è quindi irrilevante il riferimento, operato
dall’appellante, all’art. 27 del regolamento edilizio del
Comune di Milano), da sola sufficiente a fondare la
legittimità dell’annullamento del titolo edilizio senza
spazio per la considerazione e la ponderazione di opposti
interessi (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.03.2014 n. 1054 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Anche
in caso di interventi di recupero del sottotetto ad uso
abitativo deve essere rispettata la normativa statale in
tema di distanze tra edifici, dato che, come ha rilevato la
sentenza della Corte Costituzionale n. 173 del 2011, la
deroga prevista dalla norma regionale (lombarda) richiamata
ai limiti e alle prescrizioni degli strumenti di
pianificazione comunale “non può ritenersi estesa anche alla
disciplina civilistica in materia di distanze, né può
operare nei casi in cui lo strumento urbanistico riproduce
disposizioni normative di rango superiore, a carattere
inderogabile, quali sono quelle dell'art. 41-quinques della
legge 17.08.1942, n. 1150, introdotto dall'art. 17 della
legge 06.08.1967, n. 765, e dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del
1968, nella parte in cui regolano le distanze tra
fabbricati.
Sostiene ancora il
ricorrente che l’intervento non sarebbe da qualificare come
nuova costruzione, contrariamente a quanto ha ritenuto
l’Amministrazione: perciò, l’art. 9 del d.m. n. 1444 del
1968 non sarebbe applicabile.
La censura non è condivisibile: il provvedimento oggetto del
giudizio ha evidenziato gli indici
che hanno determinato la definizione dell’intervento,
consistenti, in particolare, nella correzione dell’area di
sedime, nella traslazione di pareti, nella modifica del
perimetro e della sagoma.
Rispetto a tali elementi
l’appellante si limita ad eccepire che l’art. 64, comma 2,
della legge regionale n. 2 del 2005 qualifica il recupero ai
fini abitativi del sottotetto come ristrutturazione
edilizia, ma tale argomentazione è palesemente inefficace a
scalfire la legittimità del provvedimento impugnato, dato
che l’intervento edilizio in esame consiste (non nel mero
recupero del sottotetto, ma) nella parziale demolizione e
ricostruzione dell’edificio originario.
Inoltre, ed è
considerazione conclusiva, anche in caso di interventi di
recupero del sottotetto ad uso abitativo deve essere
rispettata la normativa statale in tema di distanze tra
edifici, dato che, come ha rilevato la sentenza della Corte
Costituzionale n. 173 del 2011, la deroga prevista dalla
norma regionale richiamata ai limiti e alle prescrizioni
degli strumenti di pianificazione comunale “non può
ritenersi estesa anche alla disciplina civilistica in
materia di distanze, né può operare nei casi in cui lo
strumento urbanistico riproduce disposizioni normative di
rango superiore, a carattere inderogabile, quali sono quelle
dell'art. 41-quinques della legge 17.08.1942, n. 1150,
introdotto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, e
dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, nella parte in cui
regolano le distanze tra fabbricati”
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.03.2014 n. 1054 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Ai
fini del rilascio dell’assenso edilizio in sanatoria è
necessario dimostrare che l’opera abusiva è conforme non
solo alla disciplina urbanistica vigente alla data in cui
l’assenso viene richiesto, ma anche a quella vigente
all’atto della realizzazione dell’opera.
Invero, l'art. 36 del d.p.r. 06.06.20012, n. 380, come già
l'art. 13 della legge n. 47 del 1985, pone come condizione
inderogabile, ai fini del rilascio della sanatoria, che
“l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica
ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello
stesso, sia al momento della presentazione della domanda".
Ai fini del rilascio dell’assenso edilizio in sanatoria è,
infatti, necessario dimostrare che l’opera abusiva è
conforme non solo alla disciplina urbanistica vigente alla
data in cui l’assenso viene richiesto, ma anche a quella
vigente all’atto della realizzazione dell’opera.
Come ha
chiarito la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (da
ultimo, sez. V, 11.06.2013, n. 3220), l'art. 36 del
d.p.r. 06.06.20012, n. 380, come già l'art. 13 della
legge n. 47 del 1985, pone come condizione inderogabile, ai
fini del rilascio della sanatoria, che “l'intervento risulti
conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia
al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento
della presentazione della domanda"
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.03.2014 n. 1040 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La modifica della sagoma e dell’altezza
dell’edificio è sufficiente a rendere l'intervento edilizio
non riconducibile al paradigma normativo della
ristrutturazione e all'esonero dall'osservanza delle
distanze legali previsto per detto tipo di interventi.
---------------
La semplice "ristrutturazione" si verifica ove gli
interventi, comportando modificazioni esclusivamente
interne, abbiano interessato un edificio del quale
sussistano e rimangano inalterate le componenti essenziali,
quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la
copertura, mentre è ravvisabile la "ricostruzione" allorché
dell'edificio preesistente siano venute meno, per evento
naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e
l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle stesse,
operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie
dimensioni dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti
della volumetria.
In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di
"nuova costruzione", come tale sottoposta alla disciplina in
tema di distanze vigente al momento della medesima.
La modifica della sagoma e dell’altezza dell’edificio
è sufficiente a rendere l'intervento edilizio non
riconducibile al paradigma normativo della ristrutturazione
e all'esonero dall'osservanza delle distanze legali previsto
per detto tipo di interventi (cfr. Cassazione civile, sez.
un., 19.10.2011, n. 21578; Consiglio di Stato, sez. IV,
06.10.2011, n. 5490).
Per giurisprudenza costante, invero, “la semplice
"ristrutturazione" si verifica ove gli interventi,
comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano
interessato un edificio del quale sussistano e rimangano
inalterate le componenti essenziali, quali i muri
perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre
è ravvisabile la "ricostruzione" allorché dell'edificio
preesistente siano venute meno, per evento naturale o per
volontaria demolizione, dette componenti, e l'intervento si
traduca nell'esatto ripristino delle stesse, operato senza
alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni
dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della
volumetria. In presenza di tali aumenti, si verte, invece,
in ipotesi di "nuova costruzione", come tale sottoposta alla
disciplina in tema di distanze vigente al momento della
medesima” (cfr. fra le tante Cassazione civile, sez. II,
21/05/2012, n. 8015; Consiglio di Stato, sez. V, 11.06.2013,
n. 3221)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.03.2014 n. 585 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'omessa indicazione in sede di offerta economica
del separato costo da sostenere per gli oneri di sicurezza
non comporta di per sé l'esclusione dalla gara.
---------------
Sugli obblighi di dichiarazione dei requisiti di moralità ex
art. 38, del d.lgs. n. 163 del 2006, nelle fattispecie
relative alla cessione di azienda o di ramo di azienda.
Nel caso di appalti non aventi ad oggetto l'esecuzione di
lavori pubblici -nei cui confronti si applica la norma
dettata ad hoc dall'art. 131 d.lgs. n 163 del 2006-
ed il cui bando di gara non contenga una comminatoria
espressa, l'omessa indicazione nell'offerta dello scorporo
matematico degli oneri di sicurezza per rischio specifico
non comporta di per sé l'esclusione dalla gara, ma rileva ai
soli fini dell'anomalia del prezzo offerto, nel senso che,
per scelta della stazione appaltante, il momento di
valutazione dei suddetti oneri non è eliso, ma è posticipato
al sub-procedimento di verifica della congruità dell'offerta
nel suo complesso.
---------------
Nelle fattispecie relative alla cessione di azienda o di
ramo di azienda, stante la non univocità della norma circa
l'onere dichiarativo dell'impresa (cui va aggiunta
l'incertezza degli indirizzi giurisprudenziali), in assenza
nella disciplina di gara di una specifica comminatoria di
esclusione, quest'ultima potrà essere disposta non già per
la mera omessa dichiarazione dei requisiti di moralità ex
art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, prescritti per
l'ammissione alle procedure di affidamento di concessioni e
di appalti pubblici, ma soltanto là dove sia effettivamente
riscontrabile l'assenza del requisito in questione
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 04.03.2014 n. 1030 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: La
disciplina autorizzatoria degli scarichi è stata introdotta
dall’art. 9 della legge 319/1976, quindi è pacifico che al
momento della costruzione dell’edificio di cui si discute
essa non fosse ancora esistente.
In via transitoria la normativa ha previsto l’obbligo di
autorizzazione solo per gli scarichi degli insediamenti
produttivi anche se antecedenti, mentre per gli insediamenti
civili non recapitanti in pubbliche fognature ha
semplicemente previsto un obbligo di denunzia (nel caso di
specie ottemperato) stabilendo che la relativa disciplina
tesa all’adeguamento fosse definita dalle Regioni attraverso
l’adozione di “piani di risanamento delle acque”.
In questo quadro normativo, sostenere –come ha fatto il
primo giudice- che all’obbligo di denuncia possa
sostituirsi, senza bisogno di alcuna espressa previsione,
l’obbligo di autorizzazione ove la Regione non proceda alla
redazione del Piano di risanamento, è interpretazione che,
se da un lato assicura il perseguimento degli obiettivi di
salubrità, dall’altro tradisce la lettera della legge ed il
principio di affidamento nel disposto legislativo (ne è
prova del resto il regolamento da ultimo approvato dalla
Regione Puglia, 12.12.2011, n. 26, il quale all’art. 7
prescrive un obbligo di adeguamento degli impianti già
esistenti non recapitanti nella rete fognaria, entro due
anni dalla sua entrata in vigore).
Piuttosto deve affermarsi che per gli scarichi degli
insediamenti civili assentiti prima dell’entrata in vigore
della legge 319/1976 non occorre autorizzazione ex post,
essendo già la licenza edilizia comprensiva delle
prescrizioni in ordine agli scarichi.
Ovviamente ciò non significa che l’impianto di smaltimento a
dispersione sia conforme o possa essere mantenuto in essere:
piuttosto esso deve essere adeguato nei tempi e nei modi
previsti dalla normativa regionale primaria e secondaria.
... per la riforma della sentenza del TAR PUGLIA - SEZ.
STACCATA DI LECCE: SEZIONE II n. 2700/2005, resa tra le
parti, concernente autorizzazione agli scarichi di edifici
costruiti in epoca remota.
...
E’ gravata una sentenza del TAR Puglia avente ad oggetto la
sorte degli scarichi fognanti a dispersione, autorizzati
unitamente all’intervento edilizio, prima dell’entrata in
vigore delle norme di tutela delle acque di cui alla legge
319/1976.
Questi in sintesi i fatti di causa rilevanti:
- Lo stabile condominiale “Rosa marina residence”
posto a pochissima distanza dal mare (300 mt.), era
assentito nel 1973 con licenza edilizia contemplante, tra
l’altro, prescrizioni in ordine allo smaltimento degli
scarichi in vasca Imhoff.
- Nel 1987 il servizio igiene e prevenzione della locale USL
rilevava la mancanza di un depuratore fognario e la
dispersione del sottosuolo delle acque reflue proveniente
dallo stabile condominiale.
- Il sindaco del Comune di Pulsano emetteva ordinanza con la
quale, constatata la mancanza di autorizzazione specifica di
cui alla legge 319/1976, revocava l’abitabilità e
l’agibilità ordinando all’amministratore di adeguare
l’impianto di scarico.
- Il condominio adiva il TAR, ritenendo che la disciplina
autorizzatoria di cui all’art. 9 della legge 319/1976 non
potesse applicarsi ad edifici costruiti ed assentiti in data
precedente, disponendo -le norme transitorie- un obbligo in
tal senso solo per gli insediamenti produttivi (vi era,
secondo il ricorrente solo un obbligo di denuncia, tra
l’altro ottemperato nell’87).
- Il TAR, pur non negando che la disciplina transitoria
effettivamente distinguesse tra insediamenti produttivi
(obbligati a richiedere autorizzazione anche se edificati in
precedenza) ed insediamenti civili non recapitanti in
pubbliche fognature, imponendo per questi ultimi il solo
obbligo di denuncia, ha sostenuto tuttavia che l’assenza di
autorizzazione potesse giustificarsi per il periodo
transitorio (13.06.1976/13.06.1986) e non anche nel periodo
successivo, retto da una diversa e più rigorosa disciplina
integrata dagli artt. 8, 14 e 25 della legge 319/1976 e
dall’art. 43 della l.r. Puglia 24/1983.
- Ha proposto appello il Condominio “Rosa marina
residence”.
...
L’appello è fondato.
La disciplina autorizzatoria degli scarichi è stata
introdotta dall’art. 9 della legge 319/1976, quindi è
pacifico che al momento della costruzione dell’edificio di
cui si discute essa non fosse ancora esistente.
In via transitoria la normativa ha previsto l’obbligo di
autorizzazione solo per gli scarichi degli insediamenti
produttivi anche se antecedenti, mentre per gli insediamenti
civili non recapitanti in pubbliche fognature ha
semplicemente previsto un obbligo di denunzia (nel caso di
specie ottemperato) stabilendo che la relativa disciplina
tesa all’adeguamento fosse definita dalle Regioni attraverso
l’adozione di “piani di risanamento delle acque”.
In questo quadro normativo, sostenere –come ha fatto il
primo giudice- che all’obbligo di denuncia possa
sostituirsi, senza bisogno di alcuna espressa previsione,
l’obbligo di autorizzazione ove la Regione non proceda alla
redazione del Piano di risanamento, è interpretazione che,
se da un lato assicura il perseguimento degli obiettivi di
salubrità, dall’altro tradisce la lettera della legge ed il
principio di affidamento nel disposto legislativo (ne è
prova del resto il regolamento da ultimo approvato dalla
Regione Puglia, 12.12.2011, n. 26, il quale all’art. 7
prescrive un obbligo di adeguamento degli impianti già
esistenti non recapitanti nella rete fognaria, entro due
anni dalla sua entrata in vigore).
Piuttosto deve affermarsi che per gli scarichi degli
insediamenti civili assentiti prima dell’entrata in vigore
della legge 319/1976 non occorre autorizzazione ex post,
essendo già la licenza edilizia comprensiva delle
prescrizioni in ordine agli scarichi (questa è del resto la
tesi recentemente sostenuta dalla Cassazione, sez. II,
24/11/2008, n. 27895).
Ovviamente ciò non significa che l’impianto di smaltimento a
dispersione sia conforme o possa essere mantenuto in essere:
piuttosto esso deve essere adeguato nei tempi e nei modi
previsti dalla normativa regionale primaria e secondaria.
In conclusione, l’appello è accolto e, per l’effetto, in
riforma della sentenza di primo grado, è accolto anche il
ricorso introduttivo
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.03.2014 n. 1023 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Deve
respingersi la prima censura a mente delle cui indicazioni
il parere (ndr: della Soprintenzdenza) sarebbe stato reso
tardivamente in palese elusione della perentorietà del
termine di cui all’art. 146, VIII comma, d. lgs n. 42/2004.
E’ agevole osservare che, in alcun modo, la citata norma
individua il termine di 45 giorni come perentorio, per cui
permane il potere del Soprintendente di fornire il proprio
apporto anche oltre il termine individuato ed il dovere
dell’amministrazione di tenerne conto, senza tuttavia
esserne vincolata. Né la perentorietà del termine può
desumersi aliunde, atteso che l’art. 152 c.p.c. stabilisce
espressamente che i termini stabiliti dalla legge sono
ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari
perentori.
L’impianto dell’art. 146 citato non lascia trasparire
decadenze o sanzioni, per cui la tesi attorea può ritenersi
destituita di fondamento.
---------------
Anche il Consiglio di Stato si è pronunciato con la
decisione che di seguito si riporta in quanto condivisa: “In
secondo luogo, la sentenza ha rilevato la mera tardività del
parere reso dalla Soprintendenza, senza esaminare il quadro
normativo di riferimento, dal quale si evince che –nel caso
di mancato rispetto del termine fissato dall’art. 146, comma
5, così come del termine fissato dall’art. 167, comma 5, del
decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni
culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della
legge 06.07.2002, n. 137)– il potere della Soprintendenza
continua a sussistere (tanto che un suo parere tardivo resta
comunque disciplinato dai richiamati commi 5 e mantiene la
sua natura vincolante), ma l’interessato può proporre
ricorso al giudice amministrativo, per contestare
l’illegittimo silenzio-inadempimento dell’organo statale: la
perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del
potere o la legittimità del parere, ma l’obbligo di
concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto
inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice,
con le relative conseguenze sulle spese del giudizio
derivato dall’inerzia del funzionario).
Poiché nel caso di superamento del termine in questione il
Codice non ha determinato né la perdita del relativo potere,
né alcuna ipotesi di silenzio qualificato o significativo,
va riformata la sentenza con cui il TAR ha rilevato la
tardività del parere, senza nemmeno occuparsi delle
conseguenze della constatata tardività.”
E’ infondato il primo motivo di ricorso con il quale la
parte lamenta, in relazione agli atti trasmessi alla
Soprintendenza in data 06.07.2012, la tardività del parere
espresso in data 22.10.2012, ben oltre il termine, asseritamente perentorio, di 45 giorni prescritto dall’art.
146, comma VIII, d.lgs n. 42/2004.
La censura non risulta condivisibile alla luce della
giurisprudenza in materia.
In fattispecie analoga, questo Tribunale ha già
ritenuto di dovere disattendere analoga censura affermando
quanto segue: “Deve, infatti, respingersi la prima censura
a mente delle cui indicazioni il parere sarebbe stato reso
tardivamente in palese elusione della perentorietà del
termine di cui all’art. 146, VIII comma, d. lgs n. 42/2004.
E’ agevole osservare che, in alcun modo, la citata norma
individua il termine di 45 giorni come perentorio, per cui
permane il potere del Soprintendente di fornire il proprio
apporto anche oltre il termine individuato ed il dovere
dell’amministrazione di tenerne conto, senza tuttavia
esserne vincolata. Né la perentorietà del termine può
desumersi aliunde, atteso che l’art. 152 c.p.c. stabilisce
espressamente che i termini stabiliti dalla legge sono
ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari
perentori. L’impianto dell’art. 146 citato non lascia
trasparire decadenze o sanzioni, per cui la tesi attorea può
ritenersi destituita di fondamento.”
Sul punto anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato
sostiene le riferite conclusioni.
Basterà richiamare in questa sede quanto affermato dal Consiglio di Stato con la decisione n. 4914 del 2013 che di
seguito si riporta in quanto condivisa:
“In secondo luogo, la sentenza ha rilevato la mera tardività
del parere reso dalla Soprintendenza, senza esaminare il
quadro normativo di riferimento, dal quale si evince che –nel caso di mancato rispetto del termine fissato dall’art.
146, comma 5, così come del termine fissato dall’art. 167,
comma 5, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42
(Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi
dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137)– il
potere della Soprintendenza continua a sussistere (tanto che
un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dai
richiamati commi 5 e mantiene la sua natura vincolante), ma
l’interessato può proporre ricorso al giudice
amministrativo, per contestare l’illegittimo
silenzio-inadempimento dell’organo statale: la perentorietà
del termine riguarda non la sussistenza del potere o la
legittimità del parere, ma l’obbligo di concludere la fase
del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può
essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative
conseguenze sulle spese del giudizio derivato dall’inerzia
del funzionario).
Poiché nel caso di superamento del termine in questione il
Codice non ha determinato né la perdita del relativo potere,
né alcuna ipotesi di silenzio qualificato o significativo,
va riformata la sentenza con cui il TAR ha rilevato la
tardività del parere, senza nemmeno occuparsi delle
conseguenze della constatata tardività.”
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 04.03.2014 n. 520 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Con
l’entrata in vigore, a regime (dal 01.01.2010), dell’art.
146 sulla disciplina autorizzatoria prevista dal Codice dei
beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 22.01.2004, n. 42),
la Soprintendenza esercita non più un sindacato di mera
legittimità (come previsto dall’art. 159 d.lgs. n. 42/2004
nel regime transitorio vigente fino al 31.12.2009) sull’atto
autorizzatorio di base adottato dalla Regione o dall’ente
subdelegato, con il correlativo potere di annullamento ad
estrema difesa del vincolo, ma una valutazione di “merito
amministrativo”, espressione dei nuovi poteri di cogestione
del vincolo paesaggistico (art. 146 d.lgs. 42/2004).
Quanto, infine,
all’ulteriore considerazione per la quale l’amministrazione
ministeriale si sarebbe pronunciata illegittimamente anche
su questioni di natura edilizia (mancato completamento delle
opere) non può che richiamarsi in questa sede quanto
affermato dalla stessa giurisprudenza e segnatamente, ex multis, da Cons. St. n. 5082 del 2013, a mente delle cui
indicazioni: ”… l’art. 82, comma 9, del decreto del Presidente della
Repubblica 24.07.1977, n. 616 (Attuazione della delega
di cui all'art. 1 della legge 22.07.1975, n. 382) e
successivamente l’art. 151, comma 4, del decreto legislativo
29.10.1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni
legislative in materia di beni culturali e ambientali, a
norma dell’articolo 1 della legge 08.10.1997, n. 352),…
prevedevano che il Ministero potesse annullare
l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dalle
amministrazioni competenti.
Tali disposizioni contemplavano un potere ‘successivo’ di
annullamento per qualsiasi vizio di legittimità, e non anche
per ragioni di merito, dell’autorizzazione paesaggistica
rilasciata (Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9).
L’art. 146, comma 5, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai
sensi dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137),…
ha, invece, previsto che la Soprintendenza esercita i suoi
poteri nell’ambito del procedimento di rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica mediante l’adozione di un
parere vincolante, che può, in quanto tale, contenere anche
valutazioni di merito (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 11.09.2013, n. 4492).
….Sotto tale profilo, va richiamato l’orientamento di questo
Consiglio (Sez. VI, 25.02.2013, n. 1129), per il quale
l’autorità statale preposta alla tutela del vincolo
paesaggistico ben può tenere conto del significativo
mutamento del quadro normativo, in ordine ai suoi poteri da
esercitare nel corso del procedimento di valutazione di una
domanda volta ad ottenere un titolo abilitativo
paesaggistico.
Ed infatti con l’entrata in vigore, a regime (dal 01.01.2010), dell’art. 146 sulla disciplina autorizzatoria
prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio
(d.lgs. 22.01.2004, n. 42), la Soprintendenza esercita
non più un sindacato di mera legittimità (come previsto
dall’art. 159 d.lgs. n. 42/2004 nel regime transitorio vigente
fino al 31.12.2009) sull’atto autorizzatorio di base
adottato dalla Regione o dall’ente subdelegato, con il
correlativo potere di annullamento ad estrema difesa del
vincolo (su cui Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n.
9), ma una valutazione di “merito amministrativo”,
espressione dei nuovi poteri di cogestione del vincolo
paesaggistico (art. 146 d.lgs. 42/2004)“
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 04.03.2014 n. 520 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Nei
procedimenti in materia di bonifica, anche dei siti di
interesse nazionale, è necessario che i destinatari delle
prescrizioni stabilite dall’Amministrazione siano messi
nelle condizioni di partecipare al relativo procedimento,
articolato in una o più conferenze di servizi istruttorie e
decisorie, quantomeno con riferimento alle fasi
procedimentali che hanno ad oggetto l’accertamento dei
presupposti per l’emanazione di ordini e prescrizioni che
riguardano lo specifico sito, mediante un completo
contraddittorio procedimentale.
Nel merito il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Infatti dalla documentazione versata in atti risulta che il
Ministero si è rivolto alle imprese conduttrici dell’area e
ha appreso in data 27.08.2007 dalla ditta TST Arreda che la
proprietà dell’area è del ricorrente, mentre in data
26.08.2007 la Fonderia Fratelli Bon Snc di Bon G. e C. ha
comunicato di non essere più affittuaria del capannone.
Solo a seguito di tali comunicazioni la conferenza di
servizi decisoria ha rivolto al ricorrente le prescrizioni
fino a prima formulate alle imprese conduttrici, senza che
prima di allora vi fosse stato alcun tipo di coinvolgimento
del ricorrente.
Risulta pertanto fondata la censura di violazione dell’art.
7 della legge 07.08.1990, n. 241.
Infatti nei procedimenti in materia di bonifica, anche dei
siti di interesse nazionale, è necessario che i destinatari
delle prescrizioni stabilite dall’Amministrazione siano
messi nelle condizioni di partecipare al relativo
procedimento, articolato in una o più conferenze di servizi
istruttorie e decisorie, quantomeno con riferimento alle
fasi procedimentali che hanno ad oggetto l’accertamento dei
presupposti per l’emanazione di ordini e prescrizioni che
riguardano lo specifico sito, mediante un completo
contraddittorio procedimentale (cfr. Tar Toscana, Sez. II,
06.07.2010, n. 2316; id. 06.05.2009, n. 762; Tar Lombardia,
Milano, Sez. I, 19.04.2007, n. 1913; Tar Friuli Venezia
Giulia, 27.07.2001, n. 488).
Nel caso di specie non è mai stato acquisito l’apporto
procedimentale del ricorrente che è venuto a conoscenza
dell’esistenza di un procedimento amministrativo avviato nei
confronti della propria area solo a seguito della
comunicazione del 07.01.2008, con la quale gli sono state
richiamate implicitamente una serie articolata di numerose
prescrizioni definite in precedenti conferenze di servizi.
A fronte di tale censura l’Amministrazione non ha dedotto in
giudizio alcun elemento dal quale si possa desumere
l’inutilità dell’eventuale apporto procedimentale
dell’interessato e le prescrizioni impartite non hanno
carattere vincolato.
Ne consegue che la mancata acquisizione dell’apporto
procedimentale del ricorrente, non potendo trovare
applicazione la c.d. sanatoria procedimentale di cui
all’art. 21-octies, comma 2, ultimo periodo, della legge
07.08.1990, n. 241, comporta l’annullamento degli atti
impugnati
(TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 04.03.2014 n. 276 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Sulla partecipazione alle gare anche alle imprese
prive della qualificazione nelle categorie scorporabili, se
in possesso della qualificazione nella categoria prevalente.
I concorrenti, a prescindere dalla forma che rivestano
(impresa singola, R.T.I. orizzontale o R.T.I. verticale), ai
fini della dimostrazione del possesso dei requisiti di
partecipazione alla gara, e per colmare eventuali carenze
sul piano delle qualificazioni prescritte dalla lex
specialis per le categorie scorporabili, possono
limitarsi a dichiarare di voler ricorrere al subappalto
[come prescritto dall'art. 118, c. 2, n. 1 del D.Lgs. n.
163/2006), che impone una generica dichiarazione in tal
senso], ove non si tratti di categorie scorporabili a
qualificazione obbligatoria (o categorie di opere speciali)
e ove venga dimostrato il possesso (da parte dell'impresa
singola o dell'impresa mandataria) della qualificazione
nella categoria prevalente con classifica idonea a
ricomprendere anche l'importo dei lavori delle categorie
scorporabili.
La conclusione trova riscontro nell'indirizzo recentemente
affermato dal Consiglio di Stato, che, muovendo dalla
premessa che "l'identificazione del subappaltatore e (la)
verifica del possesso da parte di questi di tutti i
requisiti richiesti dalla legge e dal bando (…)attiene solo
al momento dell'esecuzione" rileva (richiamando a
sostegno anche la determinazione dell'AVCP n. 4 del
10.10.2012) che "come voluto dall'art. 92 del d.p.r. n. 207
del 2010, "i requisiti relativi alle categorie
scorporabili non posseduti dall'impresa devono da questa
essere posseduti con riferimento alla categoria prevalente".
La stessa determinazione precisa che la normativa "non
comporta l'obbligo di indicare i nominativi dei
subappaltatori in sede di offerta, ma solamente di indicare
le quote che il concorrente intende subappaltare, qualora
non in possesso della qualificazione per le categorie
scorporabili".
Non può, quindi, nel caso che trovare applicazione la regola
generale dettata dall'art. 118 del d.lgs. n. 163 del 2006 e
dall'art. 109 del d.p.r. n. 207 del 2010, che non impongono
di indicare già in sede di qualificazione l'appaltatore,
rimandano anche il controllo dei requisiti al momento in cui
verrà depositato il contratto di subappalto.
Il principio generale ricavabile dall'art. 92, commi 1, 3 e
7, del D.P.R. n. 207/2010, consente -quindi- la
partecipazione anche alle imprese prive della qualificazione
nelle categorie scorporabili, se in possesso della
qualificazione nella categoria prevalente con classifica
adeguata a ricomprendere anche le lavorazioni appartenenti a
categorie scorporabili; e, dunque, consente in tal modo di
supplire, in sede di partecipazione, agli eventuali
requisiti mancanti per le categorie scorporabili (salva la
possibilità di subappaltare in fase di esecuzione dei
lavori) (TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 03.03.2014 n. 1969 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Non ha carattere direttamente interdittivo
l'informativa antimafia c.d. "atipica".
L'informativa antimafia c.d. "atipica", a differenza
di quella c.d. "tipica", non ha carattere
direttamente interdittivo, consentendo al più alla stazione
appaltante di valutare discrezionalmente se avviare o
proseguire i rapporti contrattuali, alla luce dell'idoneità
morale dell'imprenditore d'assumere la posizione di
contraente con la P.A. Sicché tal efficacia interdittiva può
se del caso scaturire dall'autonoma valutazione
discrezionale della P.A. (o, il che è lo stesso, nel caso di
specie dell'ente appaltante, qual è l'ANAS s.p.a,)
destinataria della predetta informativa prefettizia atipica.
È dunque assodato che quest'ultima, ancorché non priva di
effetti nei confronti della P.A., non ne comprime
interamente l'autonoma capacità di apprezzamento del dato
fornito, onde il mantenimento o la risoluzione del rapporto
contrattuale dev'esser comunque il frutto di una scelta
motivata della stazione appaltante.
È ben noto in giurisprudenza, il principio per cui non
serve, anche a fronte di un'informativa "atipica" una
motivazione molto ampia, se non quando la stazione
appaltante decidesse d'instaurare o di proseguire il
rapporto con l'impresa, pur a seguito dell'informativa che
la riguardi. La ragione di ciò risiede nella natura
dell'accertamento antimafia (prescindendo dagli effetti
automatici che la legge, a seconda dei casi, gli accorda, o
no), nonché nella correlata esigenza di tutelare in via
preferenziale, quand'anche con meccanismi di tipo
indiziario, la trasparenza e l'immunità del settore dei
pubblici appalti da fenomeni invasivi, anche interposti, da
parte della criminalità organizzata (Consiglio di Stato,
Sez. III,
sentenza 28.02.2014 n. 944 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA: Non
sono precisate le ragioni che inducono l’amministrazione
provinciale a distinguere tra l’attività di recupero di
frazioni di inerti da impiegare nell’attività edilizia e
quelli da impiegare in fondi e sottofondi stradali. Per i primi sarebbe necessaria e
sufficiente l’operazione di trattamento meccanico a far
cessare al materiale trattato la qualifica di rifiuto; per i
secondi, invece, il solo trattamento meccanico non sarebbe
più sufficiente a concludere l’attività di recupero,
divenendo necessaria l’osservanza del procedimento ordinario
e, quindi, l’ottenimento dell’autorizzazione.
Tale distinzione appare non solo ingiustificata, ma anche
irrazionale perché sarebbe stato più ragionevole invertire
le posizioni; in altri termini potrebbe apparire plausibile
pretendere il procedimento ordinario per l’utilizzo di
frazione di inerti nell’attività edilizia, che vanno a
stretto e continuativo contatto con l’uomo, ma se si ammette
per tale destinazione l’utilizzo di aggregati riciclati
derivati da impianti operanti in procedura semplificata,
risulta poi illogico escludere l’impiego dello stesso
materiale per la realizzazione di rilevati e sottofondi
stradali.
In ogni caso la distinzione appare irragionevole e
non motivata dall’amministrazione.
Del resto, è emerso in maniera incontestata nel corso del
presente giudizio che il procedimento di trattamento dei
rifiuti è identico in relazione all’attività edilizia e ai
fondi e sottofondi stradali. Ciò accentua i profili di
irragionevolezza sopra visti.
Inoltre, l’art. 183 d.lgs. 152/2006 definisce “rifiuto”
qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o
abbia l'intenzione o l'obbligo di disfarsi e l’art. 181-bis
del d.lgs. 152/2006 ha chiarito che non rientrano nella
definizione di cui all'articolo 183, comma 1, lettera a), le
materie, le sostanze e i prodotti secondari che siano
prodotti da un'operazione di riutilizzo, di riciclo o di
recupero di rifiuti.
La Corte di Cassazione, in sede penale, ha chiarito che
affinché un materiale perda la qualifica di rifiuto non è
più necessario il requisito del valore economico, come
richiesto dall'art. 181-bis, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 152
del 2006, in quanto l'art. 184-ter, introdotto dall'art. 13
d.lgs. n. 205 del 2010, richiede solo che vi sia "un mercato
o una domanda per tale sostanza o oggetto".
Né la ricostruzione fornita dall’amministrazione può trarsi
dal D.M. 05.02.1998 da cui non emerge nitidamente che
l’attività di recupero per il materiale inerte impiegato in
fondi e sottofondi richieda il rispetto della procedura
ordinaria di autorizzazione.
Né una diversa ricostruzione pare emergere dalla L. 71/2013,
la quale stabilisce che, in attesa dell’attuazione dell’art.
184-ter, comma 2, del d.lgs. 152/2006, per le opere in corso
di realizzazione e da realizzare da parte di Expo 2015
s.p.a., che riguardano recuperi ambientali, rilevati e
sottofondi stradali e ferroviari nonché piazzali, è
consentito l’utilizzo delle materie prime secondarie, di
cui al punto 7.1.4 dell’allegato 1, sub allegato 1, del D.M.
05.02.1998 e successive modificazioni, acquisite o da
acquisire da impianti autorizzati con procedura
semplificata, ai sensi degli artt. 214 e 216 del d.lgs.
152/2006.
Tale norma va interpretata nel senso che in attesa
dell’attuazione dell’art. 184-ter del Codice dell’Ambiente
per le materie prime secondarie prodotte da impianti
operanti in procedura semplificata continua ad applicarsi -per gli interventi Expo 2015- la disciplina previgente, in
modo tale che tali materiali possano essere utilizzati per
la realizzazione di rilevati e sottofondi stradali. Del
resto, tale interpretazione è legittimata dallo stesso art.
184-ter, secondo cui nelle more di approvazione dei decreti
attuativi sulla modalità di recupero dei rifiuti continuano
ad applicarsi le disposizioni di cui al D.M. 05.02.1998.
per l'annullamento:
- del rapporto di ispezione della Provincia di Milano, prot.
105293 del 19.03.2013, ricevuto per estratto all'esito di
istanza di accesso agli atti, nella parte in cui afferma che
"alla luce delle recenti interpretazioni ministeriali, gli
aggregati riciclati derivanti da impianti operanti in
procedura semplificata (art. 216 del 152/2006) possono
essere utilizzati esclusivamente come M.P.S. per l'edilizia
e non per la formazione di rilevati e sottofondi stradali";
- della comunicazione prot. 134974 del 24.05.2013,
laddove si afferma che "nella fase temporale che precede
l'utilizzo del materiale e nella stessa fase di utilizzo il
materiale continua ad essere un rifiuto e come tale deve
essere trattato", ove intesa come riferita ai materiali
derivanti dagli impianti operanti in procedura semplificata
ai sensi degli artt. 214-216 d.lgs. 152/2006;
- nonché per quanto occorrer possa della Nota del Ministero
dell'Ambiente prot. 18563 del 07.03.2013 (doc. 3), nella
non creduta ipotesi in cui debba essere intesa come
presupposto delle note provinciali gravate,
...
Il ricorso è fondato.
Come già evidenziato in sede cautelare, non sono precisate
le ragioni che inducono l’amministrazione a distinguere tra
l’attività di recupero di frazioni di inerti da impiegare
nell’attività edilizia e quelli da impiegare in fondi e
sottofondi stradali. Per i primi sarebbe necessaria e
sufficiente l’operazione di trattamento meccanico a far
cessare al materiale trattato la qualifica di rifiuto; per i
secondi, invece, il solo trattamento meccanico non sarebbe
più sufficiente a concludere l’attività di recupero,
divenendo necessaria l’osservanza del procedimento ordinario
e, quindi, l’ottenimento dell’autorizzazione.
Tale distinzione appare non solo ingiustificata, ma anche
irrazionale perché sarebbe stato più ragionevole invertire
le posizioni; in altri termini potrebbe apparire plausibile
pretendere il procedimento ordinario per l’utilizzo di
frazione di inerti nell’attività edilizia, che vanno a
stretto e continuativo contatto con l’uomo, ma se si ammette
per tale destinazione l’utilizzo di aggregati riciclati
derivati da impianti operanti in procedura semplificata,
risulta poi illogico escludere l’impiego dello stesso
materiale per la realizzazione di rilevati e sottofondi
stradali. In ogni caso la distinzione appare irragionevole e
non motivata dall’amministrazione.
Del resto, è emerso in maniera incontestata nel corso del
presente giudizio che il procedimento di trattamento dei
rifiuti è identico in relazione all’attività edilizia e ai
fondi e sottofondi stradali. Ciò accentua i profili di
irragionevolezza sopra visti.
Inoltre, l’art. 183 d.lgs. 152/2006 definisce “rifiuto”
qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o
abbia l'intenzione o l'obbligo di disfarsi e l’art. 181-bis
del d.lgs. 152/2006 ha chiarito che non rientrano nella
definizione di cui all'articolo 183, comma 1, lettera a), le
materie, le sostanze e i prodotti secondari che siano
prodotti da un'operazione di riutilizzo, di riciclo o di
recupero di rifiuti.
La Corte di Cassazione, in sede penale, ha chiarito che
affinché un materiale perda la qualifica di rifiuto non è
più necessario il requisito del valore economico, come
richiesto dall'art. 181-bis, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 152
del 2006, in quanto l'art. 184-ter, introdotto dall'art. 13
d.lgs. n. 205 del 2010, richiede solo che vi sia "un mercato
o una domanda per tale sostanza o oggetto" (cfr., Cassazione
penale, sez. III, 25.05.2011, n. 24427).
Né la ricostruzione fornita dall’amministrazione può trarsi
dal D.M. 05.02.1998 da cui non emerge nitidamente che
l’attività di recupero per il materiale inerte impiegato in
fondi e sottofondi richieda il rispetto della procedura
ordinaria di autorizzazione.
Né una diversa ricostruzione pare emergere dalla L. 71/2013,
la quale stabilisce che, in attesa dell’attuazione dell’art.
184-ter, comma 2, del d.lgs. 152/2006, per le opere in corso
di realizzazione e da realizzare da parte di Expo 2015
s.p.a., che riguardano recuperi ambientali, rilevati e
sottofondi stradali e ferroviari nonché piazzali, è
consentito l’utilizzo delle materie prime secondarie, di
cui al punto 7.1.4 dell’allegato 1, sub allegato 1, del D.M.
05.02.1998 e successive modificazioni, acquisite o da
acquisire da impianti autorizzati con procedura
semplificata, ai sensi degli artt. 214 e 216 del d.lgs.
152/2006.
Tale norma va interpretata nel senso che in attesa
dell’attuazione dell’art. 184-ter del Codice dell’Ambiente
per le materie prime secondarie prodotte da impianti
operanti in procedura semplificata continua ad applicarsi -per gli interventi Expo 2015- la disciplina previgente, in
modo tale che tali materiali possano essere utilizzati per
la realizzazione di rilevati e sottofondi stradali. Del
resto, tale interpretazione è legittimata dallo stesso art.
184-ter, secondo cui nelle more di approvazione dei decreti
attuativi sulla modalità di recupero dei rifiuti continuano
ad applicarsi le disposizioni di cui al D.M. 05.02.1998.
Da quanto esposto emerge che la L. 71/2013 non ha portata
innovativa e di carattere eccezionale, limitandosi solo a
specificare l’applicabilità della normativa previgente che
non esclude l’utilizzo di materie prime secondarie
provenienti da impianti operanti in procedura semplificata.
Ne deriva, pertanto, che il ricorso va accolto e, per
l’effetto, i provvedimenti impugnati vanno annullati
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 27.02.2014 n. 534 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La
comunicazione dei motivi che ostano all’accoglimento
dell’istanza “interrompe” i termini per
concludere il procedimento che iniziano nuovamente a
decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o,
in mancanza (come nel caso in esame), dalla scadenza del
termine di 10 giorni concesso a tal fine all’istante.
Secondo quanto previsto dall’articolo 10-bis della legge n.
241/1990, la comunicazione dei motivi che ostano
all’accoglimento dell’istanza “interrompe” i termini per
concludere il procedimento che iniziano nuovamente a
decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o,
in mancanza (come nel caso in esame), dalla scadenza del
termine di 10 giorni concesso a tal fine all’istante
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 24.02.2014 n. 459 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Anche
se il parere (ndr: della Soprintendenza) fosse intervenuto
oltre il termine di legge, il Comune, qualora non avesse
ancora provveduto, vi si sarebbe comunque dovuto attenere.
Non vi è infatti nell’invocato articolo 146 del Codice dei
beni culturali e del paesaggio alcuna espressa comminatoria
di decadenza della Soprintendenza dall’esercizio del
relativo potere, decorso il termine ivi previsto, né si è in
presenza di un’ipotesi di silenzio significativo.
In tal senso si è espresso anche il Consiglio di Stato: “nel
caso di mancato rispetto del termine fissato dall'art. 146,
comma 5,…il potere della Soprintendenza continua a
sussistere (tanto che un suo parere tardivo… mantiene la sua
natura vincolante)”, “la perentorietà del termine riguarda
non la sussistenza del potere o la legittimità del parere,
ma l'obbligo di concludere la fase del procedimento”, “nel
caso di superamento del termine in questione il Codice non
ha determinato né la perdita del relativo potere, né alcuna
ipotesi di silenzio qualificato o significativo”.
Deve comunque rilevarsi
che, come già più volte ribadito da questo Tribunale, anche
se il parere fosse intervenuto oltre il termine di legge, il
Comune, qualora non avesse ancora provveduto, vi si sarebbe
comunque dovuto attenere. Non vi è infatti nell’invocato
articolo 146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio
alcuna espressa comminatoria di decadenza della
Soprintendenza dall’esercizio del relativo potere, decorso
il termine ivi previsto, né si è in presenza di un’ipotesi
di silenzio significativo.
In tal senso si è espresso anche il Consiglio di Stato: “nel
caso di mancato rispetto del termine fissato dall'art. 146,
comma 5,…il potere della Soprintendenza continua a
sussistere (tanto che un suo parere tardivo… mantiene la sua
natura vincolante)”, “la perentorietà del termine riguarda
non la sussistenza del potere o la legittimità del parere,
ma l'obbligo di concludere la fase del procedimento”, “nel
caso di superamento del termine in questione il Codice non
ha determinato né la perdita del relativo potere, né alcuna
ipotesi di silenzio qualificato o significativo” (sezione VI,
sentenza n. 4914/2013)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 24.02.2014 n. 459 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
funzione della domanda di autorizzazione paesaggistica è
quella di accertare in concreto la compatibilità
dell’intervento -che pure esprime lo ius aedificandi che
pertiene alla proprietà del suolo- col mantenimento e
l’integrità di valore dei luoghi.
Il provvedimento con il quale l’autorizzazione viene negata
deve essere pertanto corredato di una motivazione adeguata,
che cioè metta l'interessato nella condizione di comprendere
per quali specifiche caratteristiche il suo progetto non si
armonizza con l'ambiente protetto. Sicché deve ritenersi
illegittimo un diniego fondato su enunciazioni generiche o
di stile, che facciano mero riferimento all'antiesteticità
del costruito o al pregiudizio dei valori panoramici.
In fattispecie analoghe alla presente, la giurisprudenza
amministrativa ha avuto modo di precisare che "nei casi in
cui -come quello in esame- la discrezionalità
tecnico/amministrativa abbia un ruolo considerevole, un
diniego di nulla osta deve essere assistito da una
motivazione concreta sulla realtà dei fatti e sulle ragioni
ambientali ed estetiche che sconsigliano alla P.A. di
ammettere un determinato intervento: affermare che un
determinato intervento compromette gli equilibri ambientali
della zona interessata per le incongruenze fra tipologia e
materiali scelti e contesto paesaggistico senza nulla
aggiungere, non spiega alcunché sul futuro danno alle
bellezze ambientali che ne deriverebbe ed è un mero
postulato apodittico".
E ancora: “Per quanto concerne la motivazione idonea a
sorreggere un provvedimento di diniego del richiesto nulla
osta per la costruzione in area soggetta a vincolo
paesaggistico, deve chiarirsi che l’Amministrazione non può
limitare la sua valutazione al mero riferimento ad un
pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni vaghe o
formule stereotipate, ma tale motivazione deve contenere una
sufficiente esternazione delle specifiche ragioni per le
quali si ritiene che un’opera non sia idonea ad inserirsi
nell’ambiente, attraverso l’individuazione degli elementi di
contrasto; pertanto, occorre un concreto ed analitico
accertamento del disvalore delle valenze paesaggistiche”.
Come
osservato dal Consiglio di Stato, la funzione della domanda
di autorizzazione è quella di accertare in concreto la
compatibilità dell’intervento -che pure esprime lo ius
aedificandi che pertiene alla proprietà del suolo- col
mantenimento e l’integrità di valore dei luoghi (così, Ad. Plen. 14.12.2001, n. 9). Il provvedimento con il quale
l’autorizzazione viene negata deve essere pertanto corredato
di una motivazione adeguata, che cioè metta l'interessato
nella condizione di comprendere per quali specifiche
caratteristiche il suo progetto non si armonizza con
l'ambiente protetto. Sicché deve ritenersi illegittimo un
diniego fondato su enunciazioni generiche o di stile, che
facciano mero riferimento all'antiesteticità del costruito o
al pregiudizio dei valori panoramici.
In fattispecie analoghe alla presente, la giurisprudenza
amministrativa ha avuto modo di precisare che "nei casi in
cui -come quello in esame- la discrezionalità
tecnico/amministrativa abbia un ruolo considerevole, un
diniego di nulla osta deve essere assistito da una
motivazione concreta sulla realtà dei fatti e sulle ragioni
ambientali ed estetiche che sconsigliano alla P.A. di
ammettere un determinato intervento: affermare che un
determinato intervento compromette gli equilibri ambientali
della zona interessata per le incongruenze fra tipologia e
materiali scelti e contesto paesaggistico senza nulla
aggiungere, non spiega alcunché sul futuro danno alle
bellezze ambientali che ne deriverebbe ed è un mero
postulato apodittico" (TAR Liguria, sez. I, 22.12.2008, n. 2187).
E ancora: “Per quanto concerne la motivazione idonea a
sorreggere un provvedimento di diniego del richiesto nulla
osta per la costruzione in area soggetta a vincolo
paesaggistico, deve chiarirsi che l’Amministrazione non può
limitare la sua valutazione al mero riferimento ad un
pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni vaghe o
formule stereotipate, ma tale motivazione deve contenere una
sufficiente esternazione delle specifiche ragioni per le
quali si ritiene che un’opera non sia idonea ad inserirsi
nell’ambiente, attraverso l’individuazione degli elementi di
contrasto; pertanto, occorre un concreto ed analitico
accertamento del disvalore delle valenze paesaggistiche”
(TAR Campania Napoli, sez. VIII, 10.11.2010, n.
23751; TAR Piemonte Torino, sez. I, 04.11.2011, n.
1153).
La lamentata genericità della motivazione dell’atto di
diniego non risulta superata attraverso la lettura della
memoria presentata dalla resistente Avvocatura distrettuale
dello Stato.
Alla luce di tali considerazioni, i rilievi posti a
fondamento dell’impugnato parere della Soprintendenza
risultano inidonei a costituire sufficiente supporto
motivazionale dello stesso, poiché non rendono conto
adeguatamente delle specifiche ragioni per le quali il
fabbricato che si vuole costruire sarebbe incompatibile con
le caratteristiche del bene tutelato .
La motivazione, in ultima analisi, non consente
all’interessata di individuare gli elementi dell’opera che
contraddicono la tutela del paesaggio, né di apprestare
eventuali interventi di adeguamento alle esigenze di tale
tutela.
Come già rilevato in una recente pronuncia di questo
Tribunale, “anche l’estensione del fondo, interessato dal
progettato intervento, non costituisce parametro
normativamente definito e rilevante, né in virtù della
legislazione in materia di tutela paesaggistico-ambientale,
né in ragione della disciplina urbanistica” (TAR Campania
Salerno, sez. II, sent., 01.08.2012, n. 1591).
L’illegittimità dell’atto presupposto e vincolante determina
l’invalidità derivata del diniego adottato
dall’Amministrazione comunale di Battipaglia, il quale
rinvia ai profili motivazionali dedotti nel parere contrario
della Soprintendenza.
Alla luce di tali considerazioni il ricorso merita di essere
accolto
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 24.02.2014 n. 459 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Onorari dei legali al Tar.
Strada obbligata per i pareri di congruità.
AVVOCATI/ Una sentenza del tribunale amministrativo del
Veneto.
Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo una
controversia avente a oggetto l'impugnazione del parere di
congruità espresso dall'Ordine degli avvocati per la
liquidazione di onorari professionali.
Lo ha sancito il TAR Veneto, Sez. I, con la
sentenza 13.02.2014 n. 183.
Nel caso in esame i ricorrenti si erano avvalsi del
patrocinio di uno studio legale per attività stragiudiziale
e giudiziale in materia successoria conclusa nei loro
riguardi con sentenza pienamente favorevole.
A conclusione di tale incarico era giunto il preavviso di
parcella per il compenso dell'attività svolta quantificata
in complessive euro 333.639,76, con richiesta di pagamento
della somma residua di euro 231.879,76.
Dal momento che la richiesta appariva eccessiva rispetto
all'attività professionale concretamente svolta, i
ricorrenti avevano agito in giudizio in sede civile
prospettando «l'infondatezza della pretesa».
Il professionista aveva, così, inoltrato ai ricorrenti il
preavviso di parcella corredato del relativo parere di
congruità emesso dall'Ordine degli avvocati di Padova.
Con ricorso al Tar i clienti avevano impugnato il parere
reso e ne avevano chiesto l'annullamento: oltre a ritenere
la giurisdizione del g.a. avevano lamentato, vista la natura
amministrativa dei provvedimenti impugnati, la violazione
dell'art. 7 della legge 241 del 1990 per l'omessa
comunicazione di avvio del procedimento.
Si era costituito l'Ordine degli avvocati di Padova
eccependo il difetto di giurisdizione del g.a. in favore del
g.o. e l'infondatezza delle pretese.
Il Tar accoglie il ricorso.
Compete al g.a., infatti, decidere sul parere di congruità
espresso dall'Ordine degli avvocati: il parere sulle
parcelle professionali è un atto soggettivamente e
oggettivamente amministrativo, poiché non si esaurisce in
una mera certificazione della rispondenza del credito alla
tariffa professionale, ma implica una valutazione di
congruità della prestazione, «che trova inequivocabile
presupposto nel rapporto di supremazia che intercorre tra
l'Ordine o il Collegio professionale (soggetto, questo,
indubitabilmente pubblico) e i propri iscritti».
Tutto ciò premesso, il Collegio ritiene altresì illegittimo
il parere di congruità nel caso in cui sia stato espresso
senza che, alla parte nei confronti della quale il parere
stesso è destinato a produrre effetti, sia stata
preventivamente effettuata la comunicazione di avvio del
relativo procedimento amministrativo, ai sensi degli artt. 7
e segg. della legge n. 241 del 1990
(articolo ItaliaOggi Sette del
10.03.2014). |
APPALTI: -
l'interdittiva prefettizia antimafia cd. interdittiva
antimafia "tipica", prevista dall’art. 4 del d.lgs. n. 490
del 1994 e dall’art. 10 del D.P.R. 03.06.1998, n. 252 (ed
oggi dagli articoli 91 e segg. del d.lgs. 06.09.2011, n.
159, recante il Codice delle leggi antimafia e delle misure
di prevenzione), costituisce una misura preventiva volta a
colpire l'azione della criminalità organizzata impedendole
di avere rapporti contrattuali con la pubblica
amministrazione;
- l’interdittiva, trattandosi di una misura a carattere
preventivo, prescinde dall'accertamento di singole
responsabilità penali nei confronti dei soggetti che,
nell’esercizio di attività imprenditoriali, hanno rapporti
con la pubblica amministrazione e si fonda sugli
accertamenti compiuti dai diversi organi di polizia
valutati, per la loro rilevanza, dal Prefetto
territorialmente competente;
- tale valutazione costituisce espressione di ampia
discrezionalità che può essere assoggettata al sindacato del
giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua
logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati;
- la misura interdittiva, essendo il potere esercitato
espressione della logica di anticipazione della soglia di
difesa sociale, finalizzata ad assicurare una tutela
avanzata nel campo del contrasto alle attività della
criminalità organizzata, non deve necessariamente collegarsi
ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e
certi sull'esistenza della contiguità dell’impresa con
organizzazione malavitose, e quindi del condizionamento in
atto dell'attività di impresa, ma può essere sorretta da
elementi sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti
elementi del pericolo che possa verificarsi il tentativo di
ingerenza nell’attività imprenditoriale della criminalità
organizzata;
- anche se occorre che siano individuati (ed indicati)
idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente
sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o possibili
collegamenti con le organizzazioni malavitose, che
sconsigliano l’instaurazione di un rapporto dell’impresa con
la pubblica amministrazione, non è necessario un grado di
dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per
dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di
tipo camorristico o mafioso, potendo l’interdittiva fondarsi
su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario
e con l’ausilio di indagini che possono risalire anche ad
eventi verificatisi a distanza di tempo;
- il mero rapporto di parentela con soggetti risultati
appartenenti alla criminalità organizzata di per sé non
basta a dare conto del tentativo di infiltrazione (non
potendosi presumere in modo automatico il condizionamento
dell’impresa), ma occorre che l’informativa antimafia
indichi (oltre al rapporto di parentela) anche ulteriori
elementi dai quali si possano ragionevolmente dedurre
possibili collegamenti tra i soggetti sul cui conto
l’autorità prefettizia ha individuato i pregiudizi e
l’impresa esercitata da loro congiunti;
- gli elementi raccolti non vanno considerati separatamente
dovendosi piuttosto stabilire se sia configurabile un quadro
indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi
attendibile l’esistenza di un condizionamento da parte della
criminalità organizzata.
Al riguardo, si deve ricordare che, secondo la consolidata
giurisprudenza di questa Sezione (fra le tante n. 4663 del
03.09.2012, n. 1068 del 23.02.2012):
- l'interdittiva prefettizia antimafia cd. interdittiva
antimafia "tipica", prevista dall’art. 4 del d.lgs.
n. 490 del 1994 e dall’art. 10 del D.P.R. 03.06.1998, n. 252
(ed oggi dagli articoli 91 e segg. del d.lgs. 06.09.2011, n.
159, recante il Codice delle leggi antimafia e delle misure
di prevenzione), costituisce una misura preventiva volta a
colpire l'azione della criminalità organizzata impedendole
di avere rapporti contrattuali con la pubblica
amministrazione;
- l’interdittiva, trattandosi di una misura a carattere
preventivo, prescinde dall'accertamento di singole
responsabilità penali nei confronti dei soggetti che,
nell’esercizio di attività imprenditoriali, hanno rapporti
con la pubblica amministrazione e si fonda sugli
accertamenti compiuti dai diversi organi di polizia
valutati, per la loro rilevanza, dal Prefetto
territorialmente competente;
- tale valutazione costituisce espressione di ampia
discrezionalità che può essere assoggettata al sindacato del
giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua
logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati;
- la misura interdittiva, essendo il potere esercitato
espressione della logica di anticipazione della soglia di
difesa sociale, finalizzata ad assicurare una tutela
avanzata nel campo del contrasto alle attività della
criminalità organizzata, non deve necessariamente collegarsi
ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e
certi sull'esistenza della contiguità dell’impresa con
organizzazione malavitose, e quindi del condizionamento in
atto dell'attività di impresa, ma può essere sorretta da
elementi sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti
elementi del pericolo che possa verificarsi il tentativo di
ingerenza nell’attività imprenditoriale della criminalità
organizzata;
- anche se occorre che siano individuati (ed indicati)
idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente
sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o possibili
collegamenti con le organizzazioni malavitose, che
sconsigliano l’instaurazione di un rapporto dell’impresa con
la pubblica amministrazione, non è necessario un grado di
dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per
dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di
tipo camorristico o mafioso, potendo l’interdittiva fondarsi
su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario
e con l’ausilio di indagini che possono risalire anche ad
eventi verificatisi a distanza di tempo;
- il mero rapporto di parentela con soggetti risultati
appartenenti alla criminalità organizzata di per sé non
basta a dare conto del tentativo di infiltrazione (non
potendosi presumere in modo automatico il condizionamento
dell’impresa), ma occorre che l’informativa antimafia
indichi (oltre al rapporto di parentela) anche ulteriori
elementi dai quali si possano ragionevolmente dedurre
possibili collegamenti tra i soggetti sul cui conto
l’autorità prefettizia ha individuato i pregiudizi e
l’impresa esercitata da loro congiunti;
- gli elementi raccolti non vanno considerati separatamente
dovendosi piuttosto stabilire se sia configurabile un quadro
indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi
attendibile l’esistenza di un condizionamento da parte della
criminalità organizzata.
A ciò si deve aggiungere che gli accertamenti preventivi
sulla non permeabilità dell’impresa alla malavita
organizzata devono essere effettuati in modo particolarmente
rigoroso nei casi in cui, come nella fattispecie, è
richiesta l’erogazione di contributi pubblici
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 05.02.2014 n. 570 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
SICUREZZA
LAVORO: Il
datore di lavoro è sempre responsabile degli infortuni sui
luoghi di lavoro?
Ancora una sentenza in materia di infortuni sui luoghi di
lavoro ed eventuali responsabilità del datore di lavoro.
Questa è la volta della Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
con la
sentenza 04.02.2014 n. 2455,
relativa all’infortunio di un dipendente precipitato durante
il montaggio di un ponteggio per non aver utilizzato i
dispositivi di protezione individuale fornitogli, seppur non
idonei alle lavorazioni svolte.
In base a quanto stabilito dai giudici, il datore di lavoro
è responsabile dell’accaduto in quanto ha l’obbligo di
adottare tutte le misure di sicurezza e di vigilare sulla
effettiva applicazione delle stesse, al fine di evitare che
i dipendenti operino senza le precauzioni necessarie a
garantire la loro sicurezza.
In definitiva, il datore di lavoro che non sia in grado di
dimostrare di aver ottemperato ai predetti obblighi è
comunque responsabile degli eventuali infortuni dei propri
dipendenti
(tratto da www.acca.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Non si può installare la cabina elettrica senza verificare i
rischi per i condomini.
Quella cabina elettrica non s'ha da fare, almeno per ora.
Stop all'esproprio di parte del giardino condominiale
chiesto dalla compagnia di distribuzione dell'energia e
ordinato dall'amministrazione per installare d'imperio il
manufatto senza però verificare la pericolosità delle onde
elettromagnetiche per i residenti e i rischi di cedimento
che possono derivare dalla friabilità del terreno.
È quanto
emerge dalla
sentenza
04.02.2014 n. 1360, pubblicata dalla III Sez. del TAR Lazio-Roma.
Precauzioni stile Ue
Vittoria del condominio: sbaglia la provincia a
sottovalutare il progetto dell'azienda che vuole installare
nel giardino una cabina della potenza 20 kv: è il trattato
Ue che impone l'applicazione del principio di precauzione
secondo cui, ogni qual volta non siano conosciuti con
certezza i rischi indotti da un'attività potenzialmente
pericolosa, l'azione dei pubblici poteri debba tradursi in
una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle
conoscenze scientifiche, anche nei casi in cui i danni siano
poco conosciuti o solo potenziali.
E deve ricordarsi che l'impianto di condutture elettriche
deve essere sempre eseguito in modo da riuscire il meno
dannoso possibile al fondo servente: quando la struttura è
destinata a gravare su di un fondo privato la pubblica
amministrazione deve innanzitutto valutare se non può essere
realizzata altrove, magari su terreno demaniale.
E in effetti la vecchia cabina era stata spostata in strada
proprio perché il terreno su cui deve oggi sorgere il
manufatto già in passato si è mostrato inaffidabile,
costringendo la compagnia elettrica a spostare la centrale
altrove. Non risultano soddisfacenti quindi le osservazioni
della compagnia elettrica secondo le quali per la
realizzazione del manufatto destinato a ospitare la cabina
saranno utilizzare le stesse fondazioni utilizzate per la
realizzazione dell'immobile di proprietà del condominio. E
ciò anche se il progetto presentato dall'azienda prevede il
consolidamento strutturale dei muri perimetrali.
Tutto da rifare, insomma, per il procedimento che ha
dichiarato la pubblica utilità dell'opera, che risulta
illegittimo per illogicità e irragionevolezza. Spese
compensate (articolo ItaliaOggi del 14.03.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Certificato di abitabilità manca? Sì al recesso dal
preliminare
Nella vendita di immobile destinato ad
abitazione, il certificato di abitabilità costituisce
requisito giuridico essenziale del bene compravenduto poiché
vale a incidere sull'attitudine del bene stesso ad assolvere
la sua funzione economico-sociale, assicurandone il
legittimo godimento e la commerciabilità.
Pertanto, il mancato rilascio della licenza di abitabilità
integra inadempimento del venditore per consegna di aliud
pro alio, adducibile da parte del compratore in via di
eccezione, ai sensi dell'art. 1460 cod. civ., o come fonte
di pretesa risarcito ria per la ridotta commerciabilità del
bene, a meno che egli non abbia espressamente rinunciato al
requisito dell'abitabilità o esonerato comunque il venditore
dall'obbligo di ottenere la relativa licenza.
Questo principio di diritto, già formulato in precedenza,
viene confermato dalla II Sez. sezione civile della Corte di
Cassazione con la
sentenza 14.01.2014 n. 629 e vale a testimoniare la
costanza dell’orientamento giurisprudenziale in materia di
compravendita qualora vi sia carenza del certificato di
abitabilità. Nel caso di specie, due venditori ricorrono in
cassazione per contestare la sentenza adottata dai giudici
di merito che li vedono gravemente inadempienti nei
confronti dell’acquirente di un immobile non avendogli
rilasciato il certificato di abitabilità dello stesso.
Quest’ultimo si configura come requisito essenziale del bene
oggetto di compravendita in quanto idoneo ad incidere
sull’attitudine del bene stesso ad assolvere la sua funzione
economico-sociale. La mancata consegna dello stesso
costituisce inadempimento da parte dei promittenti
alienanti, giustificando il recesso dal contratto. Da
chiarire che, al contrario, il giudice di prime cure aveva
dichiarato legittimo il recesso degli attori dal contratto
preliminare per il grave inadempimento del convenuto, con
diritto a trattenere a titolo di risarcimento danni la somma
ricevuta a titolo di caparra confirmatoria.
Infatti, il Tribunale territoriale riteneva che dalla
documentazione allegata, emergeva con tutta evidenza
l’adempimento da parte dei promittenti venditori alle
obbligazioni assunte con il contratto preliminare. Come si è
visto, in sede di Cassazione, gli Ermellini ritengono
essenziale il certificato di abitabilità precisando che la
mancata consegna non può essere superata neppure dalla
circostanza –pur opposta dai ricorrenti– che oggetto della
compravendita fossero un complesso di beni, posto che
l’assenza del certificato riguardava la parte del complesso
di beni più significativa sul piano economico e sul piano
funzionale rispetto al contratto.
Secondo il Palazzaccio a nulla rileva la circostanza di una
precedente vendita e dell’affermata commerciabilità del
bene, anche con riguardo alla Convenzione urbanistica
stipulata dal Comune con il costruttore dell'immobile. Ciò
in quanto –come si legge nella sentenza- la precedente
vendita non impedisce di valutare la situazione esistente al
momento della stipula del secondo atto, sia in quanto la
convenzione col Comune non poteva derogare alla normativa
generale, anche tenuto conto del notevole lasso di tempo
intercorso durante il quale non risulta comunque intervenuta
tale certificazione.
Da qui il rigetto del ricorso con la condanna alle spese di
giudizio (link a www.altalex.com). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Certificato di abitabilità, mancata consegna: risarcimento
si prescrive in 10 anni.
Il diritto al risarcimento del danno,
anche quando viene azionato per effetto della mancata
realizzazione di un diritto indisponibile, conservando la
propria autonomia rispetto al diritto originario, non ne
assume il carattere della indisponibilità ed è, pertanto,
soggetto alla prescrizione decennale di cui all'art. 2934
c.c.
Di conseguenza il diritto dell'acquirente all'indennizzo da
mancato rilascio del certificato di abitabilità si prescrive
decorso il termine di dieci anni dalla stipula del contratto
o dalla fissazione da parte del giudice di un diverso
termine per adempiere (1).
--------------
(*) Riferimenti normativi: artt. 1381, 1453, 1477 e 2934,
comma 2 c.c.
(1) In senso conforme alla massima si veda Cass. Civ.,
SS.UU., sentenza n. 1744/1975; Cass. Civ., sentenza n.
3921/1982; Cass. Civ., sentenza n. 4317/1981, Cass. Civ.,
sentenza n. 2197/1978 e Cass. Civ., sentenza n. 26509/2006.
---------------
Il diritto al risarcimento del danno,
anche quando viene azionato per effetto della mancata
realizzazione di un diritto indisponibile, conservando la
propria autonomia rispetto al diritto originario, non ne
assume il carattere della indisponibilità ed è, pertanto,
soggetto alla prescrizione decennale di cui all'art. 2934
c.c..
E’ questo il principio di diritto ribadito dalla
Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la
sentenza 21.09.2011 n. 19204.
Nel caso di specie, dopo l’acquisto di un appartamento da
parte di due coniugi, la società venditrice si impegnava a
rendere nel più breve tempo possibile il certificato di
abitabilità dell’immobile. Il certificato, tuttavia, non
risultava mai consegnato, costringendo i due coniugi a
proporre ricorso, dopo quattordici anni dall’avvenuta
vendita,contro la società per la condanna al pagamento del
risarcimento dei danni. La società chiedeva il rigetto della
domanda per sopravvenuta prescrizione del diritto per
decorso del termine decennale.
I giudici di merito, in entrambi i gradi di giudizio,
condannavano al convenuta al risarcimento, rilevando che il
diritto ad ottenere il certificato di abitabilità è diritto
indisponibile e, pertanto, anche il diritto al risarcimento
che scaturisce dalla mancata consegna del certificato è
indisponibile e quindi non soggetto a prescrizione.
I giudici di Piazza Cavour confermano l’assunto di quelli di
merito articolando l’elaborazione della figura della
indisponibilità del diritto. In particolare, si legge nella
sentenza, essa costituisce una qualificazione secondaria di
determinati diritti soggettivi in funzione di rafforzamento
della tutela ad essi apprestata dall'ordinamento giuridico,
il quale ne vieta la negoziabilità preventiva per sottrarre
la parte più debole alle pressioni del contraente
economicamente più attrezzato.
La sua funzione – proseguono gli ermellini - di precipuo
stampo garantistico, non esclusa dal concorso con esigenze
di più ampia protezione, inerenti non alle posizioni
singole, ma alla collettività nel suo insieme, si esaurisce,
non potendo altrimenti esplicarsi, allorché il diritto abbia
subito una compromissione irretrattabile, sia per la lesione
diretta arrecatagli, sia per l'inadempimento di
un'obbligazione corrispondente, sia perché sia mancato il
fatto del terzo necessario a soddisfare il diritto stesso.
Ne deriva il sorgere di una diversa obbligazione
risarcitoria o indennitaria a carattere succedaneo, essa
stessa soggetta a un proprio termine di prescrizione,
decorrente, ai sensi dell'art. 2935 c.c., dal momento in cui
il diritto può essere fatto valere, e non assistita dal
carisma di indisponibilità che presidiava la tutela del
diritto leso o insoddisfatto.
Nel caso de quo il mancato rilascio del certificato di
abitabilità costituisce inadempimento contrattuale, sia
perché trattasi di obbligazione connaturata alla natura
abitativa dell’immobile sia perché la parte venditrice si è
contrattualmente obbligata a fornire, in favore della parte
acquirente, nel minore tempo possibile, il certificato di
abitabilità. Scaduto tale termine, come accertato dalla
Corte d'appello con statuizione implicita, deve escludersi
che l'inadempimento abbia carattere permanente, essendo la
permanenza categoria omogenea all'illecito, con conseguente
immediata decorrenza del termine di prescrizione del diritto
succedaneo al risarcimento o all'indennizzo per il mancato
rilascio della certificazione di abitabilità.
Ponendosi il problema del termine da cui far decorrere la
prescrizione, la Cassazione precisa che nel contratto le
parti non avevano individuato un termine determinato o
determinabile. Correttamente il giudice di merito ha
superato la questione individuando il termine iniziale nel
momento stesso della stipula del contratto di vendita.
Pertanto, essendo decorsi più di quattordici anni dalla
conclusione del contratto di vendita a quella di
introduzione della domanda e comunque ben più di dieci anni
al netto del termine ("il più breve possibile")
contrattualmente fissato per il rilascio del certificato di
abitabilità, il diritto azionato deve ritenersi prescritto,
con conseguente rigetto della domanda (link
a www.altalex.com). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Manca il certificato di abitabilità? La locazione può
comunque salvarsi. Il contratto di locazione non è sempre
“legato” al certificato di abitabilità.
La mancanza delle autorizzazioni o
concessioni amministrative che condizionano la regolarità
dell'immobile sotto il profilo edilizio, ed in particolare
la sua abitabilità e la sua idoneità all'esercizio di
attività commerciale, costituisce inadempimento del locatore
che giustifica la risoluzione del contratto ai sensi
dell'art. 1578 cod. civ..
Così la
sentenza 07.06.2011 n. 12286 della Suprema Corte di
Cassazione, Sez. III civile, in materia.
Con questa sentenza i giudici della Corte hanno precisato
che il locatore ha senz’altro diritto all’ottenimento del
certificato di abitabilità; ma non è così “pacifico”
che la mancanza di tale documentazione possa essere di
ostacolo alla valida costituzione del rapporto di locazione,
nel caso in cui il conduttore ne fosse stato a conoscenza o,
comunque, se lo stesso abbia utilizzato il bene secondo la
destinazione d’uso convenuta.
Un cenno al documento di cui trattasi appare d’obbligo; il
certificato (o licenza) di abitabilità, che viene rilasciato
dal comune in base al D.P.R. 22.04.1994, n. 425, ha una
duplice funzione: da un lato attestare l’idoneità
dell'immobile ad essere adibito ad uso abitativo, previa
valutazione della sua conformità agli standards minimi di
stabilità, sicurezza ed igiene degli edifici (sul punto cfr.
Cass. pen., 13.12.1996, n. 4311, in Dir. pen. e processo,
1998, 215 e ss.); dall’altro quella di garantire l’idoneità
dell’immobile ad assolvere una determinata funzione
economico sociale e quindi a soddisfare in concreto i
bisogni che hanno indotto l’acquirente ad effettuare
l’acquisto (cfr. Cass., 10.06.1991, n. 6576, in Giust. civ.,
1992, I, 1333 e ss.).
In linea di principio, secondo il pensiero dei giudici di
legittimità nella decisione in oggetto, in tema di locazione
di immobili, la mancanza delle concessioni amministrative o
delle autorizzazioni (che condizionano la regolarità dello
stesso immobile sotto il profilo edilizio) costituisce
inadempimento del locatore; un simile comportamento
giustifica, quindi, la risoluzione del contratto ai sensi e
per gli effetti di cui all’articolo 1578 del codice civile,
a meno che il conduttore, come sopra evidenziato, non sia a
conoscenza della situazione e non l’abbia, pertanto,
conseguentemente accettata.
In base a quanto precisato dalla Corte nella sentenza che
qui si commenta, è irrilevante la circostanza secondo cui il
conduttore abbia proposto, poi, domanda di concessione in
sanatoria; la domanda di risoluzione del contratto può
essere proposta solo dopo che il provvedimento
autorizzatorio sia stato definitivamente negato solo quando
il conduttore sia a conoscenza della situazione
dell’immobile alla data della conclusione del contratto
oppure ne abbia accettato il rischio, non dichiarando l’uso
al quale intende destinare i locali o, ancora, manifestando
l’intenzione di voler accettare l’immobile nello stato di
fatto e di diritto nel quale si trova.
Le eccezioni da parte del conduttore possono concernere vizi
che portano alla diminuzione, in modo apprezzabile, della
idoneità del bene all’uso protetto, salvo che si tratti di
vizi a lui noti o, comunque, facilmente conoscibili.
In definitiva, la mancanza del rilascio delle concessioni
relative alla destinazione d’uso di un bene non può, quindi,
essere di ostacolo alla valida costituzione del rapporto
locatizio purché vi sia stata concreta utilizzazione del
bene, da parte del conduttore, secondo la destinazione d’uso
convenuta (link a www.altalex.com). |
AGGIORNAMENTO ALL'11.03.2014 |
ã |
UTILITA' |
SICUREZZA LAVORO: Sicurezza
sui luoghi di lavoro, la guida agli obblighi e alle sanzioni
per datori di lavoro e lavoratori.
Gli adempimenti in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro
previsti dal D.Lgs. 81/2008 e s.m.i. in capo al datore di
lavoro e ai lavoratori sono davvero numerosi: basti pensare
che per una media impresa gli obblighi per il solo datore
sono oltre 300.
Al fine di avere una visione unitaria di tutti gli
adempimenti e delle sanzioni previste, l’EBINTER (Ente
BIlaterale Nazionale TERziario) ha pubblicato una
guida utile ai professionisti, responsabili della sicurezza,
datori di lavoro e lavoratori.
La pubblicazione, per ciascun soggetto coinvolto, fornisce:
●
i principali adempimenti e obblighi normativi, come ad
esempio:
- procedure di gestione della prevenzione
- valutazione dei rischi
- istituzione del servizio di prevenzione e protezione
- formazione, informazione ed addestramento dei lavoratori,
dalla sorveglianza sanitaria fino alla gestione delle
emergenze
●
le modalità di espletamento degli adempimenti e i
riferimenti alla modulistica opportuna
●
la frequenza di aggiornamento della modulistica
●
le sanzioni previste
All’interno del manuale sono inoltre presenti:
►
esempi pratici
►
modulistica di riferimento
►
questionari
►
check-list
(06.03.2014 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA: APE
e obblighi correlati. Il nuovo Speciale di BibLus-net dopo
la Legge di conversione del Decreto Destinazione Italia.
Dopo il grande successo dello Speciale di BibLus-net
sull’APE e i relativi obblighi connessi (dotazione,
allegazione e inserimento della clausola nei contratti di
trasferimento/locazione), proponiamo ai lettori la
versione aggiornata del documento (marzo 2014),
coordinata con le modifiche introdotte dalla Legge 9/2014 di
conversione del Decreto Destinazione Italia.
Nel documento sono presenti anche le tabelle sinottiche
aggiornate con obblighi e sanzioni previste nei vari casi
possibili e un’appendice normativa con tutte le Leggi
intervenute in materia
(06.03.2014 - link a www.acca.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Parametri-bis,
disponibile la guida per il calcolo dei compensi
professionali dei geologi.
Dal 21.12.2013 è in vigore il Decreto “Parametri-bis”
per il calcolo dei corrispettivi da porre a base di gara
nelle procedure di affidamento di contratti pubblici dei
servizi relativi all’architettura ed all’ingegneria di cui
al Decreto Legislativo 12.04.2006, n. 163.
Al riguardo, l’Ordine dei Geologi ha pubblicato la
guida per una corretta determinazione delle aliquote di
incidenza relative a servizi di geologia.
Sulla base di alcuni esempi di calcolo e delle disposizioni
presenti nel Decreto, vengono determinati i parametri di
incidenza (parametro “Q”) da utilizzare per il calcolo delle
prestazioni relative ai servizi di geologia.
Il parametro “Q”, relativo alla specificità della
prestazione, è individuato per ciascuna categoria d’opera
(06.03.2014 - link a www.acca.it). |
SINDACATI |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Il foglio dei lavoratori della Funzione
Pubblica (CGIL-FP
di Bergamo,
febbraio 2014). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Linee guida sull'applicazione dell'art. 28 del decreto
legge 21.06.2013 n. 69 - Indennizzo da ritardo nella
conclusione dei procedimenti ad istanza di parte (direttiva
09.01.2014). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 11 del 10.03.2014,
"Nuova procedura Barch regionale - Legge 09.12.1989 n. 13
e legge regionale 20.02.1989 n. 6 – Disposizioni in merito
al fabbisogno statale 2014 e al fabbisogno statale 2015"
(comunicato
regionale 04.03.2014 n. 26). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 11 del 10.03.2014, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei Tecnici competenti in
Acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia
alla data del 28.02.2014, in attuazione dell’articolo 2,
commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della
deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935"
(comunicato
regionale 04.03.2014 n. 25). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO -
TRIBUTI:
G.U. 06.03.2014 n. 54 "Disposizioni urgenti in materia di
finanza locale, nonché misure volte a garantire la
funzionalità dei servizi svolti nelle istituzioni
scolastiche" (D.L.
06.03.2014 n. 16). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Gli enti non possono riassumere il personale trasferito alle
partecipate.
Illegittimo il riassorbimento automatico del personale ex
comunale dipendente da società partecipate che l'ente abbia
deciso di mettere in liquidazione, reinternalizzando i
servizi.
La Corte dei Conti, Sez. regionale di controllo
della Lombardia, col
parere 18.02.2014 n. 76, «gela»
gli enti locali sulla possibilità di riacquisire il
personale a suo tempo trasferito in società partecipate
costituite per la gestione di alcuni servizi, laddove
rivedendo la decisione stabiliscano di riacquisirli e
svolgerli direttamente, senza più l'operato della
partecipata.
Il parere osserva che gli enti locali sono
tenuti a rispettare tutti i vincoli e limiti alla spesa
posti dalla normativa vigente, anche nel caso della reinternalizzazione dei servizi, dal momento che la
«riassunzione» del personale a suo tempo trasferito finisce
per essere, sostanzialmente, una nuova assunzione. Dunque,
occorre il rispetto del rapporto tra spesa di personale e
totale della spesa corrente, che risulti inferiore al 50% e
in costante riduzione; allo stesso modo, è necessario che
l'ente interessato effettui le nuove assunzioni nel limite
del 40% del costo delle cessazioni avvenute l'anno
precedente. Ovviamente, occorre anche il rispetto del patto
di Stabilità.
Non sono accoglibili escamotage, per superare
questi vincoli, i quali di fatto non consentono il pieno
riassorbimento del personale ex comunale trasferito alle
partecipate, come quelli proposti dal comune che ha
sollecitato con un quesito l'intervento della magistratura
contabile. L'idea proposta è stata quella di considerare il
transito dei dipendenti ex comunali dalla partecipata
liquidata al comune come una mobilità, il che avrebbe
consentito di ritenere neutra la manovra, sul piano
finanziario.
Il no della Corte dei conti è secco. I limiti
alle assunzioni sono un vincolo di finanza pubblica non
suscettibile di deroghe interpretative. Per altro, l'ipotesi
della mobilità, oltre a contrastare con i vincoli si pone in
chiaro contrasto con l'assetto normativo che, per effetto
della legge di stabilità per l'anno 2014 (legge 147/2013),
in modo molto più chiaro impedisce l'osmosi tra personale
delle partecipate e gli enti locali.
Infatti, l'articolo 1,
comma 563 della legge 147/2013 vieta espressamente processi
di mobilità, cioè di trasferimenti, tra le società
controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche
amministrazioni e le pubbliche amministrazioni stesse.
Né, prosegue la Corte dei conti, è possibile «gonfiare»
la spesa di personale, includendo quella delle partecipate,
da consolidare solo nei limiti imposti dalla legge, per la
verifica finanziaria del rispetto del rapporto col totale
della spesa corrente (articolo ItaliaOggi del
07.03.2014). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nelle partecipate vincoli «flessibili».
Società. Le istruzioni della Corte dei conti sui tetti ai
costi.
Le società
partecipate non sono assoggettate direttamente ai vincoli di
assunzione e retributivi in materia di personale previsti
per le amministrazioni locali controllanti, ma devono
rispettare i limiti stabiliti dagli stessi enti soci
mediante specifici atti di indirizzo.
La sezione regionale di controllo per la Lombardia della
Corte dei Conti ha analizzato la portata delle nuove
disposizioni in materia di società partecipate introdotte
dalla legge n. 147/2013 (legge di stabilità), valutando in
particolare la situazione delle società in house in materia
di limiti riferiti al reclutamento di risorse umane.
Nel
parere 23.01.2014 n. 28 la
Corte evidenzia come quando venga in gioco il tema del
contenimento degli oneri contrattuali e delle altre voci di
natura indennitaria e retributiva per una società che
gestisce servizi pubblici locali a rilevanza economica,
assume rilievo il quarto periodo dell'articolo 18, comma
2-bis della legge n. 133/2008 nella nuova formulazione
determinata dalla legge di stabilità 2014.
La disposizione sembra peraltro porsi come autonoma rispetto
ai tre periodi precedenti, riferiti alle società
partecipate, però comprese nell'elenco Istat, avendo quindi
una portata molto ampia.
Di conseguenza, ai dipendenti di tali società non si
applicano più direttamente i vincoli, ma nonostante ciò la
spesa per il personale dei dipendenti della società concorre
al rispetto dei vincoli di finanza pubblica imposti all'ente
locale.
La Corte dei conti evidenzia quindi come spetti all'ente
locale socio, nell'ambito dei poteri di direzione e
controllo assicurare il rispetto del vincolo di spesa per il
personale complessivamente fissato dall'articolo 76, comma 7,
della legge n. 133/2008, nonché assicurare che consolidando
la spesa per il personale della società partecipata a quella
dell'ente locale vengano raggiunti i risultati di
contenimento della dinamica retributiva individuale e
complessiva del personale.
Il particolare percorso di regolazione viene esteso dal
comma 559 dell'articolo 1 della legge n. 147/2013 a tutte le
società in house, mediante la sua riproposizione nel comma 6
dell'articolo 3-bis della legge n. 148/2011, con rinvio
dinamico al sistema delineato nell'innovato comma 2-bis
dell'articolo 18.
Trattandosi di indirizzi rivolti alle società partecipate,
rientrano nelle competenze del consiglio comunale, in base
all'articolo 42, comma 2, lett. i), del Dlgs n. 267/2000.
La particolare rilevanza dell'atto di definizione di
eventuali vincoli per le assunzioni da parte dell'ente
locale viene ad essere confermata dalla Corte dei conti
anche in relazione alla sua funzione propedeutica
all'efficace gestione dei controlli sugli organismi
partecipati, sia in funzione della linea di confronto
specifico determinata dall'articolo 147-quater del Tuel sia
per il necessario riscontro dell'azione delle stesse in
rapporto agli equilibri di bilancio, come previsto dall'art.
147-quinquies dello stesso Dlgs 267/2000 (articolo Il Sole 24 Ore del 03.03.2014). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Corte dei Conti: Il Direttore Lavori è sempre
responsabile dei difetti dell’opera.
Con
sentenza 03.01.2014 n. 3, la Corte dei Conti
(Sez. III centrale di appello), ha stabilito un punto fermo
circa la responsabilità del direttore dei lavori per
l’impossibilità di fruizione di un’opera nella quale sono
stati riscontrati dei vizi.
Il caso in esame riguarda la mancata fruizione di un campo
sportivo per la quale il direttore dei lavori ne additava la
responsabilità all’impresa appaltatrice ed al Responsabile
del Procedimento. Contraddicendone la tesi, invece, la Corte
dei Conti ha ritenuto responsabile il direttore dei lavori
in quanto direttamente designato per la vigilanza nella
corretta esecuzione dei lavori: se così non fosse, infatti,
quale sarebbe il suo ruolo specifico in ordine a
responsabilità?
A carico del direttore dei lavori pesa la responsabilità
connessa al controllo nell’esecuzione dei lavori. I giudici
asseriscono che “rientrava pienamente nei compiti in capo
alla direzione lavori la vigilanza sulla corretta esecuzione
dei lavori e sulla conformità qualitativa e quantitativa dei
materiali utilizzati, ed i fatti dimostrano chiaramente che
ciò non è avvenuto e che, di conseguenza, si è verificato
l'evento lesivo. Competeva al direttore dei lavori
verificare l'idoneità dei materiali, la rispondenza alle
regole dell'arte delle modalità esecutive degli interventi e
la verifica dell'adeguatezza del piano di posa”
(commento tratto da www.lavoripubblici.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Complessi cimiteriali - Verifica dell'interesse
culturale ai sensi del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 (MIBACT
Veneto,
circolare 05.03.2014 n.
16/2014). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Linee di indirizzo sull’obbligo di assicurazione
professionale
(Centro Studi Consiglio Nazionale Ingegneri, 05.03.2014).
---------------
Dal CNI le Linee di indirizzo sull’obbligo di stipula
dell’assicurazione professionale degli ingegneri.
L’obbligo di stipulare una polizza assicurativa
professionale non ricade indistintamente su tutti gli
ingegneri iscritti all’Ordine, ma solo su quelli che
esercitano in modo effettivo e in forma autonoma la
professione, non in forza di un rapporto di lavoro
dipendente.
In particolare, il professionista collaboratore che è
assunto da uno studio con un contratto di lavoro subordinato
non avrà alcun obbligo di stipulare una polizza personale e
autonoma, in quanto le sue prestazioni rientrano all’interno
della struttura organizzativa dello studio e saranno perciò
coperte dall’assicurazione del titolare.
Qualora, invece, il rapporto di collaborazione si instauri
secondo forme contrattuali diverse, inclusa l’attività di
collaborazione con partita Iva o consulenza esterna, il
professionista sarà formalmente tenuto ad attivare una
formale copertura assicurativa.
Questi sono alcuni dei chiarimenti forniti dal Centro Studi
del Consiglio nazionale degli ingegneri (CNI) nella
pubblicazione “Linee di indirizzo sull'assicurazione
professionale”.
Il documento, proposto in allegato, cerca di fornire una
risposta ai seguenti quesiti:
►
che natura ha e quali caratteristiche presenta l’obbligo di
assicurazione per responsabilità civile professionale?
►
l’obbligo di assicurazione ricade su tutti i professionisti
ingegneri iscritti all’Albo?
►
i professionisti ingegneri che operano in qualità di
dipendenti di pubbliche amministrazioni, enti pubblici o
aziende private sono quindi esonerati dall’obbligo?
►
nel caso in cui un ingegnere svolga la propria attività
professionale esclusivamente in qualità di collaboratore o
di consulente di uno studio professionale, sarà esonerato
dall’obbligo assicurativo?
►
gli ingegneri che svolgono la professione in qualità di soci
di società di ingegneria o di professionisti hanno l’obbligo
di assicurarsi personalmente o è sufficiente la copertura
assicurativa della società?
►
è necessario stipulare una polizza per responsabilità civile
professionale anche per lo svolgimento di attività che non
rientrano tra quelle riservate in via esclusiva ai
professionisti ingegneri?
►
Il CTU è obbligato a stipulare una polizza per
responsabilità civile professionale?
►
è necessario stipulare una polizza per responsabilità
civile professionale per lo svolgimento di attività di
docenza, a carattere continuativo od occasionale, o di
attività di ricerca? (06.03.2014 - link a
www.acca.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
DECRETO-LEGGE 30.12.2013, N. 150, COME MODIFICATO DALLA
LEGGE DI CONVERSIONE 27.02.2014, N. 15, RECANTE «PROROGA DI
TERMINI PREVISTI DA DISPOSIZIONI LEGISLATIVE» IN GAZZETTA
UFFICIALE N. 49 DEL 28.02.2014 - NORME DI INTERESSE DEGLI
ENTI LOCALI (ANCI,
nota febbraio 2014). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
G. Aiello,
Regione Campania: la gestione dei rifiuti provenienti dai
lavori edili ed il rilascio dei titoli abilitativi da parte
dei comuni. L’istituzione del registro delle aree
interessate da abbandono e rogo di rifiuti (05.03.2014
- link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Verderosa,
La
attualità dell’art. 9, DM 1444/1968 in materia di distanza
tra edifici e dalle strade (04.03.2014 - link a www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
L. Prati,
Le responsabilità dell’Amministrazione e dei funzionari
nell’ambito del procedimento amministrativo diretto
all’individuazione del soggetto responsabile per la bonifica (03.03.2014
- link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
S. Amorosino,
Autorizzazioni paesaggistiche: se la sopraintendenza non fa
pervenire il parere entro il termine la regione, o l’ente
locale, deve provvedere (Urbanistica e appalti n.
3/2014). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
A. Savatteri,
Il risarcimento del danno da ritardo nel rilascio del titolo
edilizio (Urbanistica e appalti n. 3/2014). |
APPALTI:
P. Amovilli,
Obbligatorietà delle convenzioni Consip e nullità del
contratto (Urbanistica e appalti n. 3/2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
S. Maglia,
I rifiuti pericolosi e le voci a specchio: come
classificarli correttamente? (28.02.2014 - link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
M. Grisanti,
I funzionari e i tecnici comunali rispondono, mediante
concorso da esterni, nei reati di edificazione e
lottizzazione abusiva. E perché non anche per truffa
contrattuale e risarcimento del danno? (nota a Cass.
penale, Sez. III, n. 7765/2014 – nonché a Cass. penale, Sez.
III, n. 5912/2014) (28.02.2014 - link a www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
M. Sanna,
Classificazione dei rifiuti e Codici CER. La Decisione
2000/532/CE (27.02.2014 - link a
www.industrieambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G. Amendola,
Imballaggi, rifiuti di imballaggi e cassazione (26.02.2014
- link a www.industrieambiente.it). |
URBANISTICA:
L. M. Pelusi,
La destinazione urbanistica a verde privato come vincolo
meramente conformativo della proprietà rispetto alla tutela
ambientale (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.12.2012
n. 6656) (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2013). |
APPALTI - ENTI LOCALI:
A. V. Castorina,
Il principio di concorrenza come limite agli accordi tra
pubbliche amministrazioni (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza
08.04.2013 n. 3517) (Rassegna Avvocatura dello Stato
n. 3/2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
F. Spada,
Le disposizioni in materia di inconferibilità e
incompatibilità di incarichi di cui al D.lgs. n. 39/2013
(Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2013). |
APPALTI:
A. V. Castorina,
L’onere della prova in tema di illegittima aggiudicazione di
appalti pubblici e il recente orientamento della Corte di
Giustizia (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.11.2012
n. 5686) (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2013). |
APPALTI:
C. Trecroci,
Il risarcimento del danno per equivalente da aggiudicazione
illegittima. Osservazioni in materia di decadenza
dell’azione di condanna, prescrizione e quantum
risarcibile (Rassegna Avvocatura dello Stato n.
2/2013). |
PUBBLICO IMPIEGO:
S. Bini,
Il mobbing: tra tutela delle condizioni di lavoro ed
efficienza organizzativa (Rassegna Avvocatura dello
Stato n. 1/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
S. Ottoni,
Silenzio-assenso ed ipotesi non regolate di nulla osta
paesaggistico: l’interpretazione teleologica del Consiglio
di Stato (nota a Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza
21.06.2011 n. 3723) (Rassegna Avvocatura dello Stato
n. 4/2012). |
PUBBLICO IMPIEGO:
V. Rago,
Rimborso spese legali a pubblico dipendente ex art. 18 D.L.
67/1997 - Nel caso di specie: imputazione di
concussione per fatti che esulano da fini istituzionali e
assoluzione con formula parzialmente liberatoria (nota a
Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.02.2013 n. 1190) (Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 4/2012). |
AUTORITA' VIGILANZA
CONTRATTI PUBBLICI |
APPALTI:
Regolamento 24.02.2014 sul procedimento per la
soluzione delle controversie ai sensi dell’art. 6, comma 7,
lettera n), del decreto legislativo 12.04.2006 n. 163
(link a www.autoritalavoripubblici.it). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
L'art. 17, co. 1, lett. a) e b), della legge 11.02.1994,
n.109 e s.m. deve essere interpretato nel senso che
l'attività di progettazione svolta da funzionari pubblici è
attività non di libera professione, ma pur sempre
professionalmente qualificata, come confermato, tra l'altro,
dalla previsione del requisito dell'abilitazione
all'esercizio della professione, ovvero, per i tecnici
diplomati, del pregresso esercizio di analoghi incarichi.
---------------
La disciplina contenuta nell'art. 18 della legge 11.02.1994,
n. 109 e s. m. deve essere intesa nel senso che le
prestazioni di lavoro dei dipendenti delle pubbliche
amministrazioni, di cui all'art. 2 della stessa legge,
comportano, nel caso di progettazione interna il diritto
degli stessi alla corresponsione, in aggiunta al trattamento
stipendiale, della sola incentivazione prevista dall'art.18
della stessa legge quadro.
L'art. 18, co. 2-ter, della legge 11.02.1994, n.109 e s.m.,
nella parte in cui dispone che i dipendenti delle pubbliche
amministrazioni con un rapporto di lavoro a tempo parziale
non possono espletare incarichi professionali nell'ambito
territoriale dell'ufficio di appartenenza, interpretato alla
luce dell'esigenza di assicurare e rendere visibile la
correttezza e la trasparenza dell'attività amministrativa,
deve essere inteso nel senso che al dipendente a tempo
definito e con orario di lavoro pari o inferiore al 50 per
cento del normale, in possesso dei necessari requisiti
(iscrizione all'albo e esercizio della corrispondente
attività professionale), che non sia dipendente
dell'amministrazione aggiudicatrice e sempre che l'incarico
non debba essere espletato nell'ambito territoriale di
pertinenza dell'ufficio di dipendenza, possono essere
affidati incarichi di progettazione esterna, nel rispetto
delle procedure concorsuali ad evidenza pubblica; lo stesso
principio trova altresì applicazione per quanto riguarda il
conferimento ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni
dell'incarico relativo alla direzione dei lavori, salve le
specifiche regole dettate dall'art. 27 della legge quadro
per l'individuazione dei soggetti cui le stesse possono
essere affidate (atto
di regolazione 04.11.1999 n. 6 - link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
INCARICHI PROGETTAZIONE:
Il disposto dell'art. 28, co. 4, della legge 11.02.1994, n.
109 e s.m., laddove detta la disciplina per la nomina dei
soggetti ai quali affidare il collaudo, deve essere inteso
nel senso che è prioritaria la scelta da parte delle
amministrazioni aggiudicatrici del collaudatore nell'ambito
delle proprie strutture, essendo ammissibile una deroga solo
in caso di carenza di organico, accertata e certificata dal
responsabile del procedimento.
---------------
L'art. 19, co. 3, della legge 11.02.1994, n. 109 e s.m.,
nella parte in cui prevede la possibilità di affidare, sulla
base di apposito disciplinare, le funzioni di stazione
appaltante ai Provveditorati alle Opere Pubbliche od alle
Amministrazioni Provinciali, rappresenta applicazione del
generale divieto di ricorrere alla concessione di
committenza per la realizzazione di lavori pubblici;
inoltre, nel caso dell'utilizzazione da parte dei
Provveditorati e delle Amministrazioni Provinciali delle
prestazioni dei propri dipendenti interni, è ammissibile la
devoluzione della quota di fondo di incentivazione, prevista
dall'art. 18 della stessa.
---------------
L'art. 17, co. 1, della legge 11.02.1994, n. 109 e s.m.,
nella parte in cui individua i soggetti ai quali possono
essere richieste dalle amministrazioni aggiudicatrici e
dagli altri enti aggiudicatori o realizzatori di lavori
pubblici le prestazioni relative alla progettazione
preliminare, definitiva od esecutiva, deve essere inteso nel
senso che, come si desume dall'uso della locuzione «sono
espletate», secondo un criterio di interpretazione
letterale, l'elencazione dei possibili soggetti affidatari
delle prestazioni di progettazione ivi contenuta è
tassativa.
Il disposto dell'art. 17, co. 4, della legge 11.02.1994,
n.109 e s.m., nella parte in cui è stato espunto, ad opera
dell'art. 6 della legge 18.11.1998, n. 415, il riferimento
alla «assoluta priorità» del ricorso
all'utilizzazione dei propri uffici interni per
l'espletamento delle prestazioni riguardanti la
progettazione, deve essere interpretato nel senso che è
venuto meno il disvalore, precedentemente contenuto nella
legge 20.03.1865, all. F, e nell'art. 1 del R.D. 08.02.1923,
n. 422, nei confronti dell'affidamento della progettazione a
soggetti estranei all'apparato tecnico pubblico, fermo
restando che si può ricorrere alla progettazione esterna
solo in presenza delle specifiche e tassative situazioni di
fatto individuate nell'art. 17, co. 4, della legge quadro,
accertate e certificate dal responsabile del procedimento.
L'art. 17 della legge 11.02.1994, n. 109 e s.m., laddove
contempla la possibilità di conferire l'incarico di
progettazione esterna, deve essere inteso nel senso che il
legislatore ha concepito la prestazione svolta da soggetti
esterni all'apparato tecnico pubblico con riferimento a
persone fisiche che individualmente, autonomamente (senza
alcun vincolo di subordinazione con il committente), in modo
continuativo e con assunzione in proprio dei relativi
rischi, esercitano la libera professione: a siffatto
principio è informata, altresì, la disciplina concernente le
società di professionisti e di ingegneria, precisando in tal
senso l'art. 17, co. 8, della L. 109/1994 che i
professionisti, che devono espletare l'incarico, sono
personalmente responsabili, prescindendosi dalla natura
giuridica, individuale o collettiva, del soggetto
affidatario.
--------------
L'attività professionale di cui all'art. 17 della legge
11.02.1994, n. 109 e s. m., va individuata con riferimento
alla descrizione di cui alla categoria 12, numero di
riferimento PC 867, della tabella 1/A della Direttiva
92/50/CEE del 18.06.1992, recepita con il decreto
legislativo 17.03.1995, n. 157 (atto
di regolazione 04.11.1999 n. 6 - link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Il gruppo si scioglie da sé.
Se dopo le dimissioni resta con un componente.
Il consigliere superstite può sceglierne un altro o aderire
al misto.
È possibile costituire, in corso di mandato, un nuovo gruppo
consiliare formato da consiglieri che hanno revocato
l'adesione a un gruppo preesistente, ai sensi del
regolamento del consiglio comunale? È legittima l'iscrizione
del presidente dell'originario gruppo consiliare al gruppo
misto sulla base delle disposizioni del regolamento
comunale?
L'art. 38, comma 2, del Tuel n. 267/2000, demanda al
regolamento, «nel quadro dei principi stabiliti dallo
statuto», la disciplina del funzionamento dei consigli;
pertanto, le problematiche relative alla costituzione e al
funzionamento dei gruppi consiliari devono essere valutate
alla stregua delle specifiche norme statutarie e
regolamentari di cui l'ente locale si è dotato.
Il caso prospettato si inquadra nell'ambito dei possibili
mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze
politiche presenti in consiglio comunale per effetto di
dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza,
comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari
ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti.
Il principio generale del divieto di mandato imperativo
sancito dall'articolo 67 della Costituzione, pacificamente
applicabile a ogni assemblea elettiva, assicura a ogni
consigliere l'esercizio del mandato ricevuto dagli elettori
-pur conservando verso gli stessi la responsabilità
politica- con assoluta libertà, ivi compresa quella di far
venir meno l'appartenenza dell'eletto alla lista o alla
coalizione di originaria appartenenza (cfr. Tar,
Trentino-Alto Adige, Trento n. 75/2009).
Il regolamento del consiglio del comune in questione prevede
che «quando i componenti di un gruppo costituito nel corso
del mandato amministrativo si riducono ad un numero
inferiore a due, il gruppo è considerato automaticamente
sciolto e i consiglieri che ne facevano parte, e che non
abbiano aderito entro tre giorni dallo scioglimento ad altro
gruppo, vengono iscritti al gruppo misto».
Il regolamento citato dispone altresì che i consiglieri che
non intendano più far parte di un gruppo possono, se
raggiungono il numero minimo di due, costituire un nuovo
gruppo consiliare. Possono altresì confluire nel gruppo
misto, ovvero aderire ad altro gruppo già costituito. Nel
caso di specie, pertanto, l'effetto dissolutorio del gruppo
consiliare che, a seguito di dissociazioni avvenute nel
corso del mandato, sia rimasto con un solo componente, si
realizza ope legis quale conseguenza del verificarsi dei
presupposti previsti dalla norma, con la conseguente
iscrizione di quell'unico componente al gruppo misto qualora
il medesimo non abbia aderito ad altro gruppo entro tre
giorni dallo «scioglimento» del precedente gruppo di
appartenenza.
Se, come nella fattispecie in esame, il presidente del
gruppo consiliare originario, rimasto unico componente nello
stesso, non è stato messo nella condizione di poter
manifestare, entro tre giorni dallo scioglimento, la volontà
di aderire ad altro gruppo, ma si è proceduto all'iscrizione
automatica del medesimo al gruppo misto, spetterà
all'autonoma potestà regolamentare dell'ente prevedere
termini e forme di comunicazione idonee a consentire agli
interessati di esercitare l'opzione prevista dalla norma
suindicata o disporre correttivi e rimedi come nel caso del
regolamento del consiglio comunale in questione, che
attribuisce alla conferenza dei capigruppo la potestà di
esaminare le controversie inerenti l'applicazione e
l'interpretazione della normativa statutaria e regolamentare
dell'ente (articolo ItaliaOggi del
07.03.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Art. 53, comma 6, lett. f-bis,
del d.lgs. 165/2001. Attività di docenza e ricerca
scientifica.
La formulazione novellata della lett.
f-bis) del comma 6 dell'art. 53 del d.lgs. 165/2001, che ha
esteso l'esclusione dell'autorizzazione alla fattispecie
dell'attività di 'docenza e ricerca scientifica', non
specifica che tale attività sia diretta a dipendenti delle
pubbliche amministrazioni, come invece previsto per l'
'attività di formazione'.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine all'interpretazione
di alcune norme contenute in diverse disposizioni
legislative.
Preliminarmente è doveroso osservare che i quesiti
rappresentati sub) 1 e sub 3), concernenti il collocamento
in aspettativa e l'assegnazione temporanea di dipendenti,
affrontano problematiche connotate da particolare incertezza
interpretativa, sulle quali non sono intervenuti, allo stato
attuale, chiarimenti da parte degli organi statali deputati.
Pertanto, si è ritenuto opportuno investire delle questioni
il Dipartimento della funzione pubblica, al fine di
acquisire un autorevole orientamento in merito. Sarà cura
dello scrivente Ufficio informare codesto Ente, non appena
pervenuti i chiarimenti richiesti.
L'Ente chiede inoltre di conoscere, in ordine alla novella
introdotta dal d.l. 101/2013, convertito in l. 125/2013,
alla lett. f-bis) del comma 6 dell'art. 53 del d.lgs.
165/2001, la corretta interpretazione di tale modifica
legislativa e, in particolare, se con riferimento alla
fattispecie della 'docenza e ricerca scientifica'
(svolta in regime di prestazione non di lavoro subordinato),
si intenda come tale l'attività generalmente svolta presso
scuole o enti sia pubblici che privati e, quindi, non
necessariamente diretta a dipendenti delle pubbliche
amministrazioni.
La modifica apportata alla lettera f-bis) citata amplia
all'attività di 'docenza e di ricerca scientifica' il
particolare regime di favore che consente ai dipendenti
pubblici di svolgere incarichi retribuiti anche senza
conseguire la preventiva autorizzazione dell'amministrazione
di appartenenza.
Considerata la formulazione della predetta norma, che non
contiene alcuna specificazione, sembra ragionevole ritenere
che l'esclusione dall'autorizzazione riguardi qualsiasi
attività didattica e di ricerca svolta nei confronti di enti
pubblici o di privati [1].
Infatti, solo la prima parte della lettera f-bis) si
riferisce ad 'attività di formazione diretta ai dipendenti
della pubblica amministrazione'.
---------------
[1] Sempre che la stessa non configuri, per l'impegno
richiesto, una delle incompatibilità previste dall'art. 53
del d.lgs. 165/2001 (03.03.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Art. 4, D.Lgs. n. 149/2011. Relazione di fine mandato.
L'art. 4, D.Lgs. n. 149/2011, prevede
l'obbligo per comuni e province di redigere una relazione di
fine mandato, da sottoscriversi dal presidente della
provincia o dal sindaco non oltre il novantesimo giorno
antecedente la data di scadenza del mandato.
Per esigenze di certezza nell'applicazione della norma, si
ritiene che il termine cui fare riferimento per il conteggio
dei 90 giorni sia quello delle ultime elezioni riferite al
mandato in scadenza. In tal modo, infatti, il termine dei 90
giorni scade nella data (certa) che precede di 90 giorni la
scadenza del periodo di mandato.
L'Ente, con riferimento a quanto disposto dall'art. 4,
D.Lgs. n. 149/2011 [1],
in ordine alla relazione di fine mandato del sindaco, chiede
chiarimenti in ordine al computo dei termini per la sua
redazione.
Sentito il Servizio elettorale di questa Direzione centrale,
si esprime quanto segue.
L'art. 4, D.Lgs. n. 149/2011, prevede l'obbligo per comuni e
province di redigere una relazione di fine mandato, al fine
di garantire il coordinamento della finanza pubblica, il
rispetto dell'unità economica e giuridica della Repubblica,
il principio di trasparenza delle decisioni di entrata e di
spesa (comma 1).
L'art. 4 richiamato precisa poi che la redazione di fine
mandato, redatta dal responsabile del servizio finanziario o
dal segretario generale, è sottoscritta dal presidente della
provincia o dal sindaco non oltre il novantesimo giorno
antecedente la data di scadenza del mandato (comma 2).
Con riferimento a quest'ultima previsione, il Comune,
ricordato che il mandato del sindaco ha durata di 5 anni,
chiede se il termine di 90 giorni vada calcolato con
riferimento alla data delle ultime elezioni (nel caso di
specie, 08.06.2009) oppure vada calcolato avuto riguardo
alle data delle nuove elezioni per il rinnovo degli organi
dell'amministrazione comunale.
Il conteggio nell'uno o nell'altro modo produce,
indubbiamente, risultati diversi: nel primo caso, il termine
per la redazione della relazione scade nella data (certa)
che precede di 90 giorni la scadenza del periodo di mandato,
al termine dei 5 anni; nel secondo caso, invece, posto che
occorre fare riferimento alla data delle nuove elezioni, ne
deriva che il termine per la redazione della relazione può
retrocedere o slittare in avanti per ogni giorno,
rispettivamente in meno o in più, che la data effettiva
delle elezioni dovesse registrare, rispetto alla scadenza
dei 5 anni dalle precedenti elezioni.
Avuto riguardo a un tanto, si ritiene, per esigenze di
certezza nell'applicazione della norma di cui all'art. 4,
D.Lgs. n. 149/2011, che il termine cui fare riferimento per
il conteggio dei 90 giorni sia quello delle ultime elezioni
riferite al mandato in scadenza (09.06.2009).
Tale posizione appare, invero, coerente con la formulazione
testuale della norma che correla i 90 giorni alla scadenza
del mandato (in questo caso del Sindaco), rinvenibile alla
scadenza dei 5 anni dalla data delle ultime elezioni.
---------------
[1] D.Lgs. 06.09.2011, n. 149, recante: 'Meccanismi
sanzionatori e premiali relativi a regioni, province e
comuni, a norma degli articoli 2, 17 e 26 della legge
05.05.2009, n. 42' (25.02.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Oneri ed incentivi ex art. 92, co. 5, D.Lgs. n.
163/2006.
Con due diverse note vengono sottoposti diversi quesiti
attinenti agli incentivi ed ai compensi per collaudo
statico, per collaudo tecnico-amministrativo, per
l’espletamento di attività di segreteria
tecnico-amministrativa unificata, in regime di convenzione
con altri enti.
***
Con la nota prot. n. 12970 del 05.12.2012, il Provveditorato
Interregionale alle OO.PP. per la Lombardia e la Liguria fa
riferimento ad una convenzione tra il medesimo
Provveditorato e la Società di Gestione Expo 2015-SOGE
s.p.a. per l’espletamento di attività di collaudo e di
attività di segreteria tecnico-amministrativa unificata,
premesso che, ai sensi dell’art. 4, comma 9, DPCM
22.10.2008, “la SOGE, sulla base di convenzioni può anche
avvalersi degli uffici tecnici e amministrativi degli enti
pubblici interessati e può disporre di personale comandato
degli stessi”.
Il Provveditorato chiede quindi:
1) “se l’incentivo alla progettazione ex art. 92 del
D.Lgs. n. 163/2006 possa considerarsi giuridicamente un
emolumento retributivo ovvero un compenso per prestazioni
occasionali, ancorché di carattere professionale, poiché
prestate da dipendenti appartenenti all’Amministrazione”,
tenendo presente che, ai sensi dell’art. 61, comma 9, D.L.
n. 112/2008, viene riassegnato ad apposito capitolo di
bilancio l’importo corrispondente al 50% dei “compensi”
spettanti al dipendente pubblico per l’attività di collaudo
in sede di contratti di lavori, servizi e forniture;
2) “se debba ritenersi applicabile il disposto di cui
all’art. 61, comma 9, D.L. n. 112/2008, in caso di
erogazione dell’incentivo di cui all’art. 92 del decreto
legislativo 163/2006”;
3) “se la convenzione stipulata fra Expo 2015 s.p.a.
ed il Provveditorato Interregionale alle OO.PP. per la
Lombardia e la Liguria, per effetto delle previsioni
normative di cui al DPCM 22.10.2008 e ss. modificazioni,
costituisca di fatto espletamento di compiti di istituto”,
posto che l'espletamento di compiti di istituto rappresenta
il presupposto imprescindibile per l'assegnazione degli
incentivi ex art. 92, comma 5, D.Lgs. n. 163/2006.
Al riguardo si osserva quanto segue. (... continua).
***
Con la nota prot. n.
16332 del 30.11.2012, il Provveditorato Interregionale alle
OO.PP. per l’Emilia Romagna e le Marche fa riferimento ad
una convenzione tra il medesimo Provveditorato, l’Università
degli Studi di Parma ed il Comune di Parma-Assessorato ai
Lavori Pubblici per la ristrutturazione ed il restauro
dell’ex carcere di San Francesco, destinato ad ospitare
strutture dell’ateneo parmense.
Il Provveditorato chiede dunque:
4)
se, per i dirigenti delle pubbliche amministrazione, i
compensi per incarichi di collaudo statico ovvero
tecnico-amministrativo rientrino o meno nel trattamento
economico dirigenziale, tenendo presente il principio di
onnicomprensività della retribuzione spettante ai dirigenti
medesimi;
5)
chi debba intendersi per membro interno ovvero esterno
alla stazione appaltante ai fini dell’applicazione
rispettivamente degli incentivi ex art. 92, comma 5, D.Lgs.
n. 163/2006, ovvero dei compensi per le attività
professionali di collaudo tecnico-amministrativo, ai sensi
dell'art. 90, comma 1, lett. d) e ss., D.Lgs. n. 163/2006,
nonché degli articoli 210, DPR n. 554/1999, e 238, DPR n.
207/2010;
6)
se, per le attività di collaudo tecnico-amministrativo
svolte da dipendenti pubblici sulla base di convenzioni tra
più amministrazioni, si debba fare riferimento -in deroga
rispetto agli incentivi ex art. 92, comma 5, Cod. Contr.
Pubbl.- alle tariffe professionali di ingegneri ed
architetti, posto che, ai sensi dell’art.
120, comma 2-bis, del D.Lgs. n. 163/2006, “nell’ipotesi
di carenza di organico all’interno della stazione appaltante
di soggetti in possesso dei necessari requisiti, accertata e
certificata dal responsabile del procedimento, ovvero di
difficoltà a ricorrere a dipendenti di amministrazioni
aggiudicatrici con competenze specifiche in materia, la
stazione appaltante affida l’incarico di collaudatore ovvero
di presidente o componente della commissione collaudatrice a
soggetti esterni scelti secondo le procedure e con le
modalità previste per l’affidamento dei servizi; nel caso di
collaudo di lavori l’affidamento dell'incarico a soggetti
esterni avviene ai sensi dell'articolo 91. Nel caso di
interventi finanziati da più amministrazioni aggiudicatrici,
la stazione appaltante fa ricorso prioritariamente a
dipendenti appartenenti a dette amministrazioni
aggiudicatrici sulla base di specifiche intese che
disciplinano i rapporti tra le stesse”.
Al riguardo si osserva quanto segue. ... (continua).
***
Conclusivamente:
Quesito n. 1)
“Se l’incentivo alla progettazione ex art. 92 del D.Lgs.
n. 163/2006 possa considerarsi giuridicamente un emolumento
retributivo ovvero un compenso per prestazioni occasionali,
ancorché di carattere professionale, poiché prestate da
dipendenti appartenenti all’Amministrazione".
Nonostante abbiano natura retributiva, gli
incentivi ex art. 92, comma 5, D.Lgs. n. 163/2006, non
equivalgono ai compensi per attività di collaudo svolta
fuori dai compiti istituzionali e dall'orario di lavoro,
occasionalmente, anche dal pubblico
dipendente-professionista.
***
Quesito n. 2)
“Se debba ritenersi applicabile il disposto di cui
all’art. 61, comma 9, D.L. n. 112/2008, in caso di
erogazione dell’incentivo di cui all’art. 92 del decreto
legislativo 163/2006”.
La ritenuta del 50%, prevista dall’art. 61,
comma 9, D.Lgs. n. 112/2008, è inapplicabile agli incentivi
ex art. 92, comma 5, D.Lgs. n. 163/2006.
Gli incentivi spettano anche per l'attività di segreteria
tecnico-amministrativa unificata soltanto se quest'ultima ha
ad oggetto un "contributo intellettuale e materiale
all'attività del responsabile del procedimento, alla
redazione del progetto, del piano della sicurezza, alla
direzione dei lavori ed alla loro contabilizzazione".
Occorre motivare in tal senso i provvedimenti di
riconoscimento e di ripartizione degli incentivi.
***
Quesito n. 3)
“Se la convenzione stipulata fra Expo 2015 s.p.a. ed il
Provveditorato Interregionale alle OO.PP. per la Lombardia e
la Liguria, per effetto delle previsioni normative di cui al
DPCM 22.10.2008 e ss. modificazioni, costituisca di fatto
espletamento di compiti di istituto”.
Ai fini dell’applicazione degli incentivi
ex art. 92, comma 5, D.Lgs. n. 163/2006, rientra tra i
compiti di istituto l’attività di collaudo e di segreteria
tecnico-amministrativo unificata, svolta dal Provveditorato
Interregionale alle OO.PP. per la Lombardia e la Liguria in
attuazione della convenzione con la SOGE spa, ai sensi
dell’art. 5, comma 9, DPCM 06.05.2013, il quale ha abrogato
il DPCM 22.10.2008.
***
Quesito n. 4)
"Se, per i dirigenti delle pubbliche amministrazione, i
compensi per incarichi di collaudo statico ovvero
tecnico-amministrativo rientrino o meno nel trattamento
economico dirigenziale, tenendo presente il principio di
onnicomprensività della retribuzione spettante ai dirigenti
medesimi".
Ai sensi del comb. disp. degli articoli 24,
D.Lgs. n. 165/2001, e 92, comma 5, D.Lgs. n. 163/2006, in
base all'orientamento del Consiglio di Stato espresso in
sede consultiva, si ritiene che i pubblici dirigenti siano
da escludere dall'ambito di applicazione degli incentivi ex
art. 92, comma 5, cit..
Ad ogni modo, si auspica un intervento chiarificatore del
legislatore ovvero l'adozione di clausole normative ad hoc
in sede di contrattazione collettiva.
***
Quesiti nn. 5 e 6
"Chi debba intendersi per membro interno ovvero esterno
alla stazione appaltante ai fini dell’applicazione
rispettivamente degli incentivi ex art. 92, comma 5, D.Lgs.
n. 163/2006, ovvero dei compensi basati sulle tariffe
professionali di ingegneri ed architetti per le attività di
collaudo tecnico-amministrativo, ai sensi dell'art. 90,
comma 1, lett. d) e ss., D.Lgs. n. 163/2006, nonché degli
articoli 210, DPR n. 554/1999, e 238, DPR n. 207/2010".
"Se, per le attività di collaudo tecnico-amministrativo
svolte da dipendenti pubblici sulla base di convenzioni tra
più amministrazioni, si debba fare riferimento -in deroga
rispetto agli incentivi ex art. 92, comma 5, Cod. Contr.
Pubbl.- alle tariffe professionali di ingegneri ed
architetti".
Con riferimento all’attività di collaudo
statico, ovvero tecnico-amministrativo, -regolarmente
autorizzata dall'amministrazione- svolta dal Provveditorato
nell’ambito di una convenzione con altra amministrazione,
non si esula dai compiti di istituto e si applicano gli
incentivi ex art. 92, comma 5, D.Lgs. n. 163/2006, a nulla
rilevando la distinzione tra collaudo statico e collaudo
tecnico-amministrativo.
Tali incentivi, comunque, si applicano sempre laddove
l’attività di collaudo rientra tra i compiti di istituto, ad
esempio in attuazione di una convenzione stipulata dal
Provveditorato in attuazione del dovere di concedere l'avvalimento.
Per converso, il pubblico dipendente-collaudatore riceve un
compenso, parametrato secondo le modalità previste dal D.M.
Giustizia n. 140/2012, nel solo caso residuale in cui
l’attività viene espletata al di fuori delle funzioni
istituzionali e dell’orario di lavoro.
Infine, l'art. 8 della Convenzione tra il Provveditorato,
l'Università ed il Comune di Parma, deve essere interpretato
nel senso che l'Università ed il Provveditorato concordano
sulla scelta dei collaudatori o di altri professionisti
tecnici esclusivamente nell'ambito dei dipendenti del
Provveditorato medesimo che siano inquadrati come
ingegneri-architetti
(Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2013,
parere 21.12.2013 n. 513720/23 di prot.). |
APPALTI:
Composizione/modificazione del Raggruppamento
temporaneo di imprese, ex art. 97, co. 9, Codice appalti.
Con la nota che si riscontra, codesto Ministero chiede di
conoscere il parere di questo G.U. in ordine alla
applicabilità del disposto di cui al comma 9 dell’art. 37
del d.lgs. 163/2006 rispetto alle sopravvenute modificazioni
della composizione dell’ATI promotore finanziario,
successivamente all’esperimento della procedura negoziata ai
fini della aggiudicazione della concessione di cui
all’oggetto, fase questa conclusasi senza l’individuazione
di alcuna offerta concorrente con l’ATI promotore, e senza
che sia intervenuta l’aggiudicazione provvisoria “per
motivazioni non note a questa struttura di vigilanza”.
Riferisce ancora codesto Ministero che all’esito della
procedura di selezione del promotore venne dichiarata di
pubblico interesse “la proposta formulata dalla Prima ATI
Si.”, proposta delibata positivamente dal Cipe, e,
successivamente, il promotore “per poter prendere parte alla
successiva fase di procedura negoziata” ha “costituito,
nel rispetto delle disposizioni normative il Raggruppamento
Temporaneo con l’aggiunta della M. s.p.a (di seguito Seconda
ATI Si.)”.
Peraltro, nel corso della fase istruttoria posteriore
all’espletamento della procedura negoziata comportante il
diritto del promotore ad ottenere l’aggiudicazione della
concessione di che trattasi in relazione alla già
rappresentata carenza di partecipanti alla procedura stessa,
il promotore (Seconda Ati Si.) “ha rappresentato la
necessità di procedere ad un’ulteriore modifica della
compagine del Raggruppamento Temporaneo”, in relazione
alla procedura ex art. 160 e ss. della legge fallimentare
che ha colpito l’Impresa S. ausiliaria di Si. s.pa.: in
particolare, l’impresa Costruzioni G.M. s.p.a. non sarebbe
più componente dell’ATI promotrice ma acquisirebbe il ruolo
di ausiliaria di Seconda Ati Si. s.pa. in sostituzione di
Impresa S., e, con nota del 01.10.2013, codesto Ministero ha
trasmesso il relativo contratto di avvalimento.
In subordine, poi, rispetto al quesito dell’applicabilità al
contesto del disposto dell’art. 37, comma 9, del d.lgs.
163/2006, codesta Amministrazione richiede l’avviso di
questo G.U. circa “l’opportunità di procedere
all’annullamento del bando relativo all’affidamento in
oggetto, dato il notevole tempo trascorso e le conseguenti
modifiche normative intervenute”.
Ritiene al riguardo questa Avvocatura Generale di dover
rappresentare quanto segue. (... continua) (Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 4/2013,
parere 05.11.2013 n. 439812 di prot.). |
NEWS |
APPALTI: Appalti specialistici, rischio caos. Il governo fa ancora
dietrofront.
Di nuovo a rischio caos gli appalti di lavori pubblici e i
bandi di gara pubblicati negli ultimi due mesi: all'ultimo
secondo è saltata la norma che faceva salvi gli effetti dei
bandi pubblicati in base alle norme regolamentari (abrogate
dal Consiglio di stato) in materia di qualificazione delle
imprese di costruzioni per interventi «specialistici», che
erano state fatte rivivere dal decreto «Salva-Roma bis» (dl
151/2013) poi decaduto per mancata conversione in legge.
È
questa la paradossale situazione verificatasi nel giro di
tre giorni e che sembrava conclusa mercoledì 5 marzo, quando
il testo del decreto-legge «Salva Roma-ter», bollinato dalla
Ragioneria generale dello Stato, era stato poi inviato in
Gazzetta per la pubblicazione (vedi ItaliaOggi del 6 marzo).
È invece avvenuto l'ennesimo colpo di scena, nella ormai non
più nascosta «guerra» fra imprese generali e imprese
specialistiche, che si è concretizzato nella cancellazione
della norma che, da un lato, dava sei mesi al governo per
scrivere le nuove disposizioni sostitutive degli articoli
107, comma 2 e 109, comma 2 del dpr 207/2010 (con relativa
revisione dell'allegato A).
Difficile sapere effettivamente
quali siano state le ragioni, anche se da più parti si
sosteneva che la presidenza della repubblica, nei giorni
precedenti, quando la prima bozza non conteneva la
norma-tampone, aveva sostenuto l'impossibilità di riproporre
tal quale la norma del decreto-legge 151 non convertito
dalle camere. Le conseguenze più pesanti per il mercato dei
lavori pubblici sono adesso quelle connesse alla possibile
attivazione di ricorsi per tutti i procedimenti attivati da
inizio anno ad oggi sulla base delle norme regolamentari
(art. 107, comma 2 e 109, comma 2) che, abrogate dal
Consiglio di stato, erano poi state fatte rivivere dal
decreto 151/2013 (Salva-Roma bis) con la sospensione degli
effetti della decisione di palazzo Spada fino a settembre
2014, in attesa di un nuovo dpr che avrebbe sostituito le
norme censurate dai giudici.
Sulla base di quelle due norme sono stati infatti pubblicati
dei bandi e saranno anche stipulati dei contratti. È quindi
immaginabile che il governo individui al più presto una
nuova soluzione almeno su questo aspetto, accelerando nel
contempo, la messa a punto del nuovo decreto che, comunque,
all'esito della decisione del Consiglio di stato, dovrebbe
essere al più presto varato anche per ridare certezza a
tutti gli operatori, pubblici e privati.
Da ieri, quindi, le amministrazioni non potranno più
ritenere applicabili le due norme del dpr 207/2010 la cui
cancellazione era stata sospesa: la prima che consentiva
all'affidatario qualificato nella sola categoria prevalente
di non eseguire direttamente le opere generali rientranti
nelle categorie scorporabili a qualificazione obbligatoria,
individuate come tali nell'allegato A al dpr 207/2010; la
seconda che, per le opere «superspecialistiche» individuate
al comma 2 dell'articolo 107, permetteva all'affidatario non
in possesso della relativa qualificazione di subappaltarle
solo nel limite del 30%
(articolo ItaliaOggi dell'08.03.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Mininterno sugli spettacoli dal vivo.
Locali, si danza fino alle 24.
Via libera agli spettacoli dal vivo di portata minore in
bar, locali ed aree aperte al pubblico fino alle ore 24 con
un massimo di 200 persone previa presentazione di una scia
corredata da adeguate certificazioni tecniche e nel rispetto
delle disposizioni in materia di inquinamento acustico.
Lo
ha chiarito il Ministero dell'Interno con il parere
27.02.2014 indirizzato alla prefettura di Ravenna.
La sostanziale liberalizzazione dei concertini, piano bar e
piccoli trattenimenti anche danzanti è stata introdotta con
l'art. 7 del dl 91/2013 che ha innestato modifiche nel corpo
degli artt. 68 e 69 del tulps disponendo di fatto la
sostituzione della licenza con una scia per gli eventi di
minore portata da concludersi entro mezzanotte. Ma non sono
mancate problematiche operative e per questo il comune di
Ravenna ha richiesto chiarimenti al Viminale.
Innanzitutto la novella si deve applicare a qualsiasi
spettacolo e trattenimento pubblico dal vivo, specifica
l'importante parere, allargando di fatto la previsione anche
ai piccoli trattenimenti danzanti. Ovvero agli eventi dove
il pubblico può essere non solo spettatore ma anche
partecipe, purché non ci sia un'affluenza superiore a 200
persone. Circa questo dato numerico, prosegue la nota,
occorre fare riferimento alla oggettiva capienza
dell'impianto, del locale o dell'area aperta disponibile.
Molto importanti le considerazioni sulla verifica della
sicurezza dei locali idonei per questo tipo di spettacoli. I
requisiti di sicurezza sottesi alla manifestazione non sono
stati modificati dalla novella, prosegue il ministero.
Pertanto la Scia dovrà essere corredata da tutta la
documentazione normalmente richiesta per il tipo di
allestimento proposto. In buona sostanza la segnalazione di
inizio attività di uno spettacolo di minore portata da
concludersi entro mezzanotte dovrà sempre essere corredata
dalla documentazione tecnica idonea ad attestare la
sicurezza dell'allestimento con piena assunzione di
responsabilità da parte dell'organizzatore e dei tecnici
preposti. È il caso per esempio della dichiarazione di
corretto montaggio e di certificazione elettrica o di
collaudo dell'impianto
(articolo ItaliaOggi dell'08.03.2014). |
VARI: Bonus mobili limitato al conto dei lavori.
Incentivi. Le conseguenze della mancata conversione del
primo Dl salva-Roma.
Alle spese per
l'acquisto di mobili e grandi elettrodomestici, effettuate
nel 2014 e detraibili dall'Irpef al 50% in 10 anni, non si
applica solo il limite di 10mila euro, come previsto per il
2013, ma va considerato anche quello relativo al valore dei
lavori di ristrutturazione effettuati dal 26.06.2012 al
31.12.2015. Le spese incentivate per l'arredo,
infatti, «non possono essere superiori a quelle sostenute
per i lavori di ristrutturazione».
È questa una delle
conseguenze della mancata conversione in legge del primo
decreto «salva-Roma» e della mancata inclusione di una norma
ad hoc nel nuovo decreto pubblicato giovedì nella Gazzetta
ufficiale n. 54.
Restano spiazzati, quindi, quei contribuenti che dal 01.01.2014 hanno pagato l'acquisto di mobili ed
elettrodomestici per importi inferiori ai 10mila euro, ma
superiori a quelli dei lavori edili effettuati (o da
effettuare entro il 31.12.2015).
Solo per il 2014, la legge di stabilità 2014 aveva previsto
che le spese per gli arredi e gli elettrodomestici potessero
essere detraibili dall'Irpef al 50% nel limite di quanto
pagato per le spese «sostenute per i lavori di
ristrutturazione». Tre giorni dopo, il decreto «salva-Roma»
aveva soppresso questa nuova condizione.
La pubblicazione in
Gazzetta è avvenuta il 30.12.2013, quindi la proroga
del bonus mobili per il 2014 è entrata in vigore il 01.01.2014 senza il nuovo limite di spesa. Il decreto «salva-Roma»,
però, non è stato convertito in legge nel termine di 60
giorni dalla sua pubblicazione, quindi risulta applicabile
l'articolo 77, comma 3, della Costituzione, che in questi
casi prevede la perdita della sua «efficacia sin
dall'inizio», come se non fosse mai entrato in vigore.
Quindi, chi contava sul fatto che dal 01.01.2014, il
decreto «salva-Roma» avesse abrogato questo limite e
conseguentemente ha pagato mobili ed elettrodomestici per
importi superiori a quelli pagati per i lavori non potrà
beneficiare del bonus-mobili per gli importi eccedenti. Per
non perdere questa detrazione potrà solo pagare entro il 31.12.2015 questa eccedenza, come lavori edili, anche in
acconto di interventi da fare negli anni successivi.
Per i pagamenti effettuati dal 06.06.2013 al 31.12.2013 per l'acquisto di mobili ed elettrodomestici, spettava
la detrazione del 50%, per una spesa massima di 10.000 euro,
solo se erano state pagate con bonifico “parlante” spese di
ristrutturazione agevolate al 50% dal 26.06.2012 al 31.12.2013. Queste ultime potevano anche essere di
importi piccoli, anche se le Entrate, contrariamente alla
norma, non considerano rilevanti lavori come le opere per il
contenimento dell'inquinamento acustico o per il risparmio
energetico, l'adozione di misure antisismiche o volte a
evitare gli infortuni domestici, la realizzazione di
autorimesse pertinenziali, l'eliminazione delle barriere
architettoniche, la cablatura degli edifici.
Per l'agenzia, infatti, sono rilevanti solo la manutenzione
straordinaria (ordinaria solo su parti comuni condominiali),
il restauro e risanamento conservativo, la ristrutturazione,
la ricostruzione o ripristino di immobili danneggiati da
eventi calamitosi e l'acquisto di abitazioni in fabbricati
completamente ristrutturati (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.03.2014). |
TRIBUTI:
Esenzioni, la Tasi come l'Imu.
Niente tassa su terreni e aree scoperte. Le Cciaa pagano.
In Gazzetta il decreto Salva Roma ter. I comuni avranno
ampia libertà sulle aliquote.
Niente Tasi per le aree scoperte e per i terreni agricoli.
Alla luce delle modifiche previste dal decreto legge
n. 16/2014 (pubblicato sulla G.U. n. 54 di ieri), il nuovo
tributo sui servizi indivisibili dei comuni colpirà solo
fabbricati ed aree edificabili. Inoltre, sono state
recuperate diverse esenzioni previste dalla normativa Ici ed
applicabili anche all'Imu.
In base al testo originario dell'art. 1, comma 669, della
legge 147/2013, il presupposto impositivo della Tasi è il
possesso o la detenzione a qualsiasi titolo di fabbricati,
ivi compresa l'abitazione principale, e di aree edificabili,
a qualsiasi uso adibiti, ad eccezione dei terreni agricoli.
L'art. 2, comma 1, lett. f), del dl corregge tale
formulazione eliminando il riferimento alle aree scoperte.
Coerentemente, è stato abrogato anche il comma 670, che
esentava dalla Tasi le aree scoperte pertinenziali o
accessorie non operative (oltre alle aree comuni
condominiali non detenute o occupate in via esclusiva): tali
fattispecie, ora, sono ricomprese nella più generale
esclusione che riguarda, come detto, tutti gli immobili che
non siano fabbricati o aree edificabili.
Il nuovo comma 669, inoltre, esclude espressamente i terreni
agricoli, anche se non collocati in comuni montani o
parzialmente montani. L'esenzione dovrebbe valere anche per
i terreni incolti. È ancora incerto, invece, il trattamento
da riservare alle aree edificabili possedute e condotte come
terreni agricoli da coltivatori diretti e imprenditori
agricoli professionali: tali immobili, che rispetto all'Imu
sono equiparati ai terreni agricoli, ai fini Tasi
tornerebbero ad essere aree edificabili, con conseguente
(notevole) aggravio del prelievo.
Questa, almeno, è la tesi
fin qui sostenuta dagli uffici ministeriali. Peraltro, il dl
richiama, anche per le aree edificabili (oltre che per i
fabbricati), la definizione prevista ai fini Imu, per cui si
potrebbe anche sostenere la sopravvivenza dell'agevolazione.
Stesso dubbio riguarda i fabbricati inagibili/inabitabili e
quelli di interesse storico/artistico, che pagano l'Imu su
una base imponibile ridotta del 50%.
L'art. 1, comma 3 del dl, invece, reintroduce alcune
fattispecie di esenzione previste per l'Ici e per l'Imu. Si
tratta, innanzitutto, degli immobili posseduti dallo Stato,
nonché di quelli posseduti, nel proprio territorio, dalle
regioni, dalle province, dai comuni, dalle comunità montane,
dai consorzi fra detti enti, ove non soppressi, e dagli enti
del Ssn, destinati esclusivamente ai compiti istituzionali.
In secondo luogo, sono estese alla Tasi le esenzioni
previste dall'art. 7, comma 1, lett. b), c), d), e), f) ed
i) del dlgs. 504/1992, riguardanti i fabbricati classificati
o classificabili nelle categorie catastali da E/1 a E/9, i
fabbricati con destinazione ad usi culturali, i fabbricati
destinati esclusivamente all'esercizio del culto, i
fabbricati di proprietà della Santa sede indicati negli artt.
13, 14, 15 e 16 del Trattato lateranense, i fabbricati
appartenenti agli Stati esteri e alle organizzazioni
internazionali, i fabbricati dichiarati inagibili o
inabitabili e recuperati al fine di essere destinati ad
attività assistenziali e gli immobili utilizzati da enti non
commerciali destinati esclusivamente allo svolgimento con
modalità non commerciali di attività assistenziali,
previdenziali ecc.. Per quest'ultima fattispecie, la norma
precisa che l'esenzione spetta limitatamente alle parti
dell'immobile utilizzato per le predette attività, secondo
quanto previsto dall'art. 91-bis del dl 1/2012.
In generale,
comunque, viene indirettamente confermato che le
agevolazioni non espressamente richiamate non valgono in
automatico per la Tasi, anche se l'ampia discrezionalità di
cui godono i comuni nella modulazione del tributo consente
di riprodurne gli effetti con norma regolamentare o agendo
sulle aliquote. In mancanza, pagheranno il tributo, ad
esempio, gli immobili delle camere di commercio (che erano
esenti dall'Ici) e quelli degli enti territoriali collocati
fuori dalla loro giurisdizione.
Ricordiamo, infine, che per i fabbricati rurali strumentali
l'aliquota massima della Tasi è l'1 per mille (articolo ItaliaOggi del
07.03.2014). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Fine mandato, proroga al 25/3.
Più tempo per gli enti al voto a maggio.
È finalmente arrivata la proroga dei termini per la
presentazione della relazione di fine mandato, che concede
un mese in più di tempo ai circa 4.000 comuni delle regioni
a statuto ordinario che a maggio andranno al voto.
Dopo una lunga attesa, il correttivo è stato inserito
nell'art. 11 del decreto legge che contiene anche le novità
su Imu e Tasi. In base a tale norma, il documento andrà
sottoscritto non oltre il sessantesimo giorno antecedente la
scadenza del mandato e non più (come previsto finora) almeno
90 giorni prima della fine della consiliatura: la dead-line,
quindi, si sposta al prossimo 25 marzo, dando un po' di
respiro agli uffici.
Ricordiamo, infatti, che la relazione,
prima di essere sottoscritta dal sindaco o dal presidente
della provincia uscente, deve essere predisposta dal
responsabile del servizio finanziario o dal segretario
generale, che come gli amministratori pagano eventuali
ritardi con il dimezzamento per tre mesi dei rispettivi
emolumenti.
In diversi casi, peraltro, lo slittamento non basterà a
rendere disponibili i dati del rendiconto 2013, da approvare
entro il 30 aprile. In proposito, il Viminale ha già
chiarito che occorre fare riferimento ai dati di
preconsuntivo (si veda ItaliaOggi del 18.02.2014).
Come anticipato da ItaliaOggi del 20 febbraio, la nuova
disciplina non si limita a questa modifica, ma riscrive
completamente la tempistica degli adempimenti. L'organo di
revisione avrà 15 giorni di tempo, invece che 10, per
certificare il documento che nei tre giorni successivi dovrà
essere trasmesso (assieme alla certificazione dei revisori)
alla competente sezione regionale di controllo della Corte
dei conti. Entro sette giorni dalla certificazione, la
relazione dovrà essere pubblicata sul sito web del comune o
della provincia. In caso di scioglimento anticipato del
consiglio comunale o provinciale, la sottoscrizione della
relazione e la certificazione dei revisori dovranno avvenire
entro 20 giorni (fino a oggi 15) dall'indizione delle
elezioni.
Infine, è stato cancellato l'obbligo di trasmissione e
controllo delle relazioni al (mai convocato) tavolo tecnico
interistituzionale presso la conferenza permanente per il
coordinamento della finanza pubblica (articolo ItaliaOggi del
07.03.2014). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La p.a. lumaca paga sempre.
Ma prima è necessario attivare il potere sostitutivo.
Funzione pubblica: indennizzo anche se il ritardo dipende da
caso fortuito o forza maggiore.
I danni da ritardo previsti dall'articolo 28 del decreto
legge del «Fare» (il n. 69/2013), configurandosi
giuridicamente come un indennizzo per la concreta inerzia
della pubblica amministrazione, vanno liquidati
indipendentemente se l'immobilismo della stessa p.a. sia
dovuto ad un caso fortuito o a un'ipotesi di forza maggiore.
L'indennizzo, infatti, prescinde da un comportamento
negligente o doloso dell'amministrazione procedente ed è
dovuto per il solo fatto che sono stati superati i termini
che norme o regolamenti assegnano a un determinato
provvedimento. Tuttavia, in caso di inerzia della p.a. è
preciso interesse del soggetto privato richiedere
l'intervento del titolare del potere sostitutivo entro il
termine di 20 giorni dalla scadenza entro cui il
provvedimento avrebbe dovuto concludersi. Se non dovesse
attivarsi, infatti, perde ogni diritto a richiedere il
ristoro economico per le lungaggini subite.
Queste alcune
delle interessanti precisazioni che sono contenute nella
direttiva
09.01.2014 emanata dal dipartimento della funzione pubblica
per chiarire i principali aspetti della norma sopra
richiamata al fine di spronare le p.a. a concludere un
procedimento avviato d'ufficio o a istanza di parte,
prevedendo, in caso di inerzia, il pagamento di una somma di
30 euro per ogni giorno di ritardo rispetto alla naturale
conclusione del termine assegnato, fino a un massimo di 2
mila euro.
Norma che, in sede di prima applicazione, viene
circoscritta ai procedimenti in materia di esercizio di
attività d'impresa iniziati a partire dal 21.08.2013
(data di entrata in vigore della legge di conversione del dl
n. 69/2013).
La direttiva, a firma dell'allora ministro Giampiero D'Alia,
precisa che il legislatore, nell'utilizzare il termine
«indennizzo», ha voluto rimarcare il carattere risarcitorio
del provvedimento contemperando l'esigenza di sanzionare
comportamenti inerti della p.a., prevedendo forme di ristoro
economico per il disagio sopportato dal privato a seguito
dell'avvenuta violazione di precisi termini di legge.
Pertanto, si ritiene che l'indennizzo è dovuto anche
nell'eventualità in cui la mancata emanazione del
provvedimento sia riconducibile ad un comportamento
«scusabile ed astrattamente lecito» dell'amministrazione
procedente. Allo stesso modo, rientrano nell'alveo della
disposizione sanzionatoria anche tutte quelle ipotesi in cui
la violazione del termine sia da ricondurre a un caso
fortuito a un'ipotesi di forza maggiore. Ipotesi queste, che
non possono certo farsi ricadere sulle spalle dei cittadini.
L'ambito di applicazione della disposizione coinvolge tutte
le amministrazioni pubbliche e i soggetti privati che sono
preposti all'esercizio di attività amministrative e riguarda
tutti i procedimenti avviati ad istanza di parte, per i
quali sussiste l'obbligo della p.a. di pronunciarsi.
Ne consegue, che restano al di fuori tutte le ipotesi in cui
è possibile l'esercizio del silenzio-assenso e del silenzio
rifiuto, in quanto si è in presenza di un «silenzio-significativo». Per ottenere l'indennizzo, poi, la direttiva
della funzione pubblica ammette che l'eventuale liquidazione
deve essere preceduta dall'attivazione del potere
sostitutivo presso l'autorità preposta, da parte del
soggetto interessato. È lui che deve ricorrere per
richiedere l'emanazione del provvedimento non adottato e,
contestualmente, richiedere l'indennizzo qualora il soggetto
adito non provveda nel termine assegnato.
L'istanza che
sollecita l'intervento sostitutivo, a pena di decadenza,
deve essere presentata entro venti giorni dal termine entro
il quale il procedimento avrebbe dovuto concludersi.
Ad esempio, se un'autorizzazione deve essere rilasciata
entro 60 giorni, l'autorità sostitutiva deve procedere entro
30 giorni dalla ricezione dell'istanza da parte del privato.
Se non lo fa, scatta l'indennizzo (articolo ItaliaOggi del
07.03.2014). |
APPALTI SERVIZI: Strasburgo riconosce l'in house.
La direttiva appalti ha recepito la giurisprudenza Ue.
Ammessa la partecipazione dei privati a condizione che non
esercitino controllo o veto.
I princìpi sanciti nel corso degli ultimi anni dalla
consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia delle
Comunità europee in materia di in house providing (modello
organizzativo attraverso il quale le amministrazioni
pubbliche possono produrre in proprio o autoprodurre beni,
servizi e lavori) sono stati finalmente tradotti in un atto
normativo con la recente approvazione da parte del
parlamento europeo della nuova Direttiva sugli appalti
pubblici.
L'in house providing nasce nel 1999 con la famosa sentenza
Teckal della Corte di giustizia (causa C-107/98) e le sue
peculiarità sono state progressivamente affinate nel corso
del tempo dalla giurisprudenza comunitaria. Con
l'approvazione della nuova direttiva sugli appalti pubblici,
i princìpi affermati dalla Corte di giustizia vengono
tradotti in un atto normativo che, previo recepimento,
finirà per vincolare tutti gli Stati membri della Ue.
Per il nostro stato non è questione di poco conto, in
considerazione del fatto che fino a poco tempo fa avevamo
una normativa interna (art. 4 del dl 138/2011 e art. 4 del
dl 95/2012) che permetteva il ricorso agli affidamenti in
house solo in ipotesi assolutamente residuali. Solo in
seguito all'intervento della Corte costituzionale (sentenza
199/2012) e all'approvazione della recente legge di
stabilità 2014 (art. 1, comma 562), le limitazioni previste
sono state abrogate, facendo così tornare l'in house providing ad essere un modello organizzativo a cui le
amministrazioni pubbliche possono legittimamente ricorrere.
E non poteva essere altro che questo l'epilogo, visto che si
trattava comunque di previsioni normative in contrasto con
la giurisprudenza comunitaria.
Con l'art. 12 della nuova direttiva vengono messe nero su
bianco importanti precisazioni che, in futuro, renderanno
ancora più attraente il modello di delegazione
interorganica, con buona pace per i fautori delle
privatizzazioni a ogni costo. Per apprezzare l'intervento
del parlamento europeo è necessario ricordare che l'in house providing poggia su tre pilastri fondamentali: (I) il
soggetto affidatario diretto deve essere a capitale
completamente pubblico, (II) deve operare prevalentemente
con il socio o con i soci pubblici e, infine, (III) l'ente
pubblico affidante deve esercitare nei suoi confronti un
controllo analogo a quello esercitato sui propri Servizi
interni.
Una prima precisazione della nuova Direttiva riguarda il
concetto di «prevalenza»: in pratica, la condizione viene
ritenuta soddisfatta qualora oltre l'80% delle attività del
soggetto affidatario in house siano effettuate nello
svolgimento dei compiti ad esso affidati
dall'amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre
persone giuridiche controllate dall'amministrazione
aggiudicatrice.
Sul fronte della natura pubblica del soggetto affidatario,
la nuova direttiva introduce una novità di rilievo
stabilendo che la condizione è soddisfatta non solo quando
non vi e alcuna partecipazione diretta di capitali privati,
ma anche, in via eccezionale, quando ci troviamo in presenza
di forme di partecipazione di capitali privati, prescritte
dalle disposizioni legislative nazionali in conformità dei
trattati, che non comportano controllo o potere di veto,
attraverso le quali non può essere esercitata alcuna
influenza determinante sul soggetto affidatario in house.
Per quanto riguarda il c.d. «controllo analogo», la
direttiva precisa che tale condizione risulta soddisfatta
qualora l'amministrazione aggiudicatrice eserciti
un'influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle
decisioni significative dell'affidatario in house.
L'attività di controllo deve quindi essere sempre più
finalizzata a definire preventivamente gli obiettivi a cui
l'organismo partecipato deve tendere ed a prevenire
problematiche di ordine economico e finanziario, piuttosto
che sulla semplice approvazione o presa d'atto dei risultati
economico-finanziari della gestione, in momenti in cui, fra
l'altro, non è più possibile intervenire sui singoli
accadimenti gestionali. Occorre quindi esercitare un
controllo di tipo «preventivo» attraverso l'adozione di
strumenti di programmazione come business plan, piani
industriali, bilanci di previsione annuali, ecc., e un
controllo di tipo «concomitante» attraverso la revisione
degli Statuti finalizzata a garantire che l'organo
amministrativo dell'organismo partecipato non abbia
rilevanti poteri gestionali di carattere autonomo e che il
socio pubblico eserciti poteri di ingerenza e di
condizionamento superiori a quelli tipici del diritto
societario, così come affermato dal Consiglio di stato
(sentenza n. 1447/2011).
Vengono poi risolti dalla direttiva anche i dubbi che
esistevano sul concetto del c.d. «controllo analogo
indiretto», in quanto la stessa prevede che il controllo
possa essere esercitato anche da una persona giuridica
diversa, a sua volta controllata nello stesso modo
dall'amministrazione aggiudicatrice. È il caso, per esempio,
delle holding di partecipazioni, che s'interpongono fra
l'amministrazione aggiudicatrice e la società beneficiaria
in house, o di alcuni particolari modelli organizzativi di
tipo consortile, dove gli enti pubblici esercitano il
controllo della società consortile non direttamente, ma
attraverso le società consorziate, che a loro volta sono
controllate da tali enti.
La direttiva chiarisce anche le modalità attraverso le quali
le amministrazioni pubbliche in possesso di partecipazioni
di minoranza possono esercitare il controllo analogo; in
pratica, tali amministrazioni potranno esercitare il
controllo in modo «congiunto» con le altre (così come
affermato più volte dal Consiglio di stato) a condizione
che: (I) gli organi decisionali dell'organismo controllato
siano composti da rappresentanti di tutti i soci pubblici
affidanti, ovvero, da soggetti che possano rappresentare più
o tutti i soci pubblici affidanti, (II) i soci pubblici
siano in grado di esercitare congiuntamente un'influenza
determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni
significative dell'organismo controllato, (III) l'organismo
controllato non persegua interessi contrari a quelli dei
soci pubblici affidanti (articolo ItaliaOggi del
07.03.2014). |
LAVORI PUBBLICI: Per i lavori specialistici salta l'obbligo di subappalto.
La guerra
degli appalti si consuma all'ombra del decreto Salva Roma:
con la terza marcia indietro nel giro di una settimana
sull'obbligo di subappalto dei lavori specialistici da parte
dei costruttori privi di specifica qualificazione.
Da ieri
la terza versione del decreto Salva Roma è in vigore. Il
provvedimento varato in tutta fretta dal Consiglio dei
ministri del 28 febbraio per tamponare gli effetti
conseguenti alla decadenza del Dl 151/2013, è stato
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 54 del 06.03.2014 con il
numero 16/2014.
La principale novità, rispetto alla bozza circolata ieri e
già vidimata dalla Ragioneria, riguarda la cancellazione
dell'articolo destinato a recuperare la soluzione tampone
prevista dal Dl 151/2013 nei confronti del parere del
Consiglio di Stato che permette alle imprese generali di
eseguire in proprio le opere specializzate, pur essendo
prive della specifica qualificazione. Il provvedimento di
Palazzo Spada, che ha accolto un ricorso presentato dalle
grandi imprese (Agi), era stato congelato fino a settembre
dal Dl 151/2013, in modo da permettere alle Infrastrutture
di varare un riassetto complessivo del sistema di
qualificazione agli appalti pubblici.
La soluzione-cuscinetto non c'è più. Evidentemente le
obiezioni del Quirinale sull'impossibilità di reiterare nel
nuovo provvedimento misure (considerate peraltro fuori
materia) di un decreto ritirato dal Governo a un passo dalla
conversione, si sono rivelate insuperabili. E forse nella
valutazione avrà pesato anche il fatto che per rendere
operativo il parere di Palazzo Spada, trattandosi di un
ricorso al Capo dello Stato, era stato necessario varare un
decreto firmato proprio dal Presidente della Repubblica, il
Dpr 30.10.2013 appunto.
L'effetto rischia però di mandare in fibrillazione il
mercato degli appalti pubblici. Da una parte facendo saltare
tutto d'un colpo gli equilibri tra imprese generali e
specialistiche consolidati negli anni a furia di sgomitate
in cantiere. Dall'altra esponendo al rischio di una valanga
di ricorsi i bandi pubblicati dalle amministrazioni sulla
base delle regole previste dal Dl 151/2013. Dopo la
decadenza è come se quel decreto non fosse mai esistito e
dunque anche le norme che rinviavano a settembre
l'applicazione del parere del Consiglio di Stato. Con quel
provvedimento Palazzo Spada ha di fatto cancellato le norme
del regolamento appalti (articolo 107, comma 2, 109, comma 2
compresi i riferimenti all'Allegato A) che impongono alle
imprese generali prive di qualificazione di subappaltare i
lavori specialistici e di associare in Ati verticale le
ditte qualificate in caso di lavori di particolare
complessità. Ora toccherà al Governo trovare una soluzione,
almeno per fare salvi i bandi pubblicati e i contratti già
firmati.
Per il resto il decreto legge 16/2014 conferma le misure già
annunciate (vedi Il Sole 24 Ore di ieri). Oltre alle regole
sulla Tasi «modello Imu» , il cuore del provvedimento
riguarda i conti della Capitale. Confermato il rinvio di due
mesi (30 aprile) per affidare i lavori del piano di edilizia
scolastica varato dal decreto Fare, per i Comuni salta uno
dei vincoli (il rapporto dell'8% tra finanziamenti e
entrate) che impedivano di contrarre nuovi mutui (articolo Il Sole 24 Ore del 07.03.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Appalti specialistici, bandi salvi.
Le imprese generali devono ancora subappaltare i lavori.
Nella versione definitiva del dl sulla finanza locale
rispunta la norma del Salva Roma bis.
Salvi i bandi per l'affidamento di appalti specialistici
(lavori stradali, beni culturali, segnaletica, scavi
archeologici, tanto per fare qualche esempio) Per questi
bandi, l'obbligo per l' impresa generale di subappaltare i
lavori a imprese specialistiche o raggrupparsi con esse in
Associazioni temporanee di imprese, (obbligo abrogato dal
Consiglio di stato e fatto rivivere dal dl Salva Roma bis
non convertito in legge dal governo) resterà in vigore
almeno fino al mese di settembre e in ogni caso non oltre il
31.12.2014.
È quanto prevede l'articolo 20 del decreto
legge sulla finanza locale che sta per essere pubblicato in
Gazzetta Ufficiale.
Il colpo di scena è spuntato all'ultimo secondo nel testo
definitivo del decreto, visto che fino a due giorni fa il
provvedimento non conteneva la norma del dl 151 (si veda
ItaliaOggi del 04.03.2014).
Ciò aveva determinato una situazione di non poco conto
rispetto ai bandi pubblicati nei primi due mesi dell'anno,
quando era stato possibile qualificare le imprese che
dovevano svolgere lavori di natura specialistica e
superspecialistica sulla base delle norme del regolamento
del codice dei contratti pubblici (articolo 109, comma 2,
articolo 107, comma 2, oltre all'allegato A). Le due norme,
ancorché bocciate dal Consiglio di Stato, a seguito del
ricorso straordinario al Capo dello Stato presentato e vinto
dall'Agi (Associazione grandi imprese), erano state fatte
rivivere in virtù della sospensione degli effetti del
ricorso accolto.
Nell'articolo 20 del nuovo decreto si
prevede quindi che entro sei mesi dalla data di entrata in
vigore del presente decreto, siano adottate, secondo la
procedura prevista all'articolo 5, comma 4, del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163 (l'iter di modifica del
regolamento attuativo del Codice dei contratti pubblici, con
parere del Consiglio di stato), le disposizioni
regolamentari sostitutive delle norme del dpr 207/2010
(artt. 107, comma 2, 109, comma 2) e l'adeguamento
dell'allegato A che elenca le tipologie di lavori oggetto
della qualificazione specialistica.
Inoltre il secondo comma dell'articolo 20, come il
precedente decreto 151, rende ancora applicabili le
disposizioni regolamentari già oggetto di abrogazione da
parte del Consiglio di stato, «al fine di garantire la
stabilità del mercato dei lavori pubblici», e ciò fino a
quando non saranno emanate le nuove disposizioni sostitutive
«e in ogni caso non oltre la data del 31.12.2014».
L'articolo 20 chiude con la salvezza degli atti emanati
dalle amministrazioni sulla base della norma del decreto 151
non convertita in legge, e con essi «gli effetti prodottisi
e i rapporti giuridici sorti» in base alle norme
regolamentari che il decreto «Salva-Roma- bis» aveva
consentito di applicare ancora per qualche mese.
Vengono
quindi congelati ancora per sei mesi o più (fine anno) gli
effetti del parere del Consiglio di stato n. 3014 del 26.06.2013, confluito nel dpr 30.10.2013, pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale n. 280 del 29.11.2013, che
aveva cancellato dall'ordinamento gli articoli 109, comma 2
(in relazione all'allegato A al regolamento) e 107 comma 2
del dpr 207/2010.
Nel dettaglio si tratta delle disposizioni
che vietano alle imprese generali (general contractor) di
eseguire direttamente lavori specialistici per i quali
occorrerebbe sempre essere qualificati (c.d. lavori a
qualificazione obbligatoria), anche se sprovviste di
certificazione Soa per quei determinati interventi. La norma
regolamentare, adesso di nuovo in vigore, dispone che in
tali fattispecie l'impresa general contractor debba
scegliere se subappaltare l'esecuzione dei lavori ad una
impresa specializzata in possesso dell'apposita attestazione Soa,
oppure raggrupparsi temporaneamente con l'impresa
specialistica (e ovviamente si tratterà di una associazione
temporanea di tipo verticale, in cui ogni impresa svolge una
tipologia di lavorazione per il suo intero).
I giudici avevano peraltro annullato le disposizioni che
consentono di utilizzare, per qualificarsi, anche i lavori
affidati in subappalto, ma su questo il decreto-legge non
interviene (articolo ItaliaOggi del 06.03.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI: Soluzione ponte.
Sui lavori specialistici obbligo di subappalto.
Nuovo giro di
valzer sull'obbligo di subappalto dei lavori specialistici.
Il decreto «salva-Roma» ter recupera a sorpresa la
norma-tampone prevista dal decreto 151/2013 ormai decaduto.
La misura serve a garantire una soluzione-cuscinetto
rispetto al parere del Consiglio di Stato che -su ricorso
delle grandi imprese- ha bocciato, cancellandole, le norme
del regolamento appalti che impongono ai costruttori di
affidare in subappalto le attività specialistiche, se
sprovvisti della specifica qualificazione.
Decisione che, in
assenza di un riassetto complessivo, permetterebbe alle
imprese generali di eseguire in proprio tutti i lavori,
rimescolando di colpo i rapporti di forza in cantiere e
rischiando di gettare nel caos il mercato degli appalti.
L'articolo 20 del «salva-Roma» ter congela per altri sei
mesi la cancellazione degli articoli (107, comma 2 e 109,
comma 2) del regolamento appalti (Dpr 207/2010) disposta dal
Consiglio di Stato. In più, «al fine di garantire la
stabilità del mercato dei lavori pubblici», viene spostato
al 31.12.2014 il termine entro il quale comunque
«continuano a trovare applicazione le regole previgenti».
Tre mesi in più per trovare una soluzione definitiva
rispetto al termine del 30 settembre previsto dal decreto
151/2013.
Da ultimo è entrata anche la norma che fa salvi i bandi
pubblicati nel periodo di vigenza del Dl 151/2013 non
convertito in legge, salvando la Pa dal rischio-ricorsi.
Pericolo più che concreto senza la marcia indietro rispetto
alle indiscrezioni, circolate subito dopo il Consiglio dei
ministri di venerdì 28 febbraio, che davano per certa
l'esclusione della norma-tampone sui lavori specialistici
dal nuovo decreto «salva Roma» (articolo Il Sole 24 Ore del 06.03.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il Sistri diventa più «leggero».
Ridotto l'elenco dei soggetti obbligati tra i produttori con
meno di 10 dipendenti.
Ambiente. Nello schema del decreto di semplificazione
procedurale versamento annuale spostato dal 30 aprile al 30
giugno.
Come
anticipato in questi giorni dal neo ministro dell'Ambiente
Gian Luca Galletti (si veda Il Sole 24 Ore di ieri), gli
uffici ministeriali stanno definendo i contenuti del decreto
che si candida a sfoltire la platea dei soggetti obbligati
all'adesione e all'utilizzo del Sistri e a fornire alcune
semplificazioni procedurali. L'analisi dello schema del
decreto ministeriale evidenzia che il versamento del
contributo annuale si sposta dal 30 aprile al 30.06.2014
e sarà effettuato «nella misura e con le modalità previste
dalle disposizioni vigenti».
Inoltre, usando la "delega"
conferita al Governo dall'articolo 11 della legge 125/2013,
il Ministero rimodula i destinatari, modificando l'articolo
188-ter del "Codice ambientale" (Dlgs 152/2006) ed esclude
dal Sistri enti e imprese con non più di 10 dipendenti
produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi da scavo,
costruzione e demolizione; da lavorazioni industriali e
artigianali; da attività commerciali, di servizio e
sanitarie.
Secondo lo schema, restano obbligati a Sistri enti e imprese
- i produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi da
attività agricole ed agroindustriali (escluse le attività di
cui all'articolo 2135 del codice civile che li conferiscono
a circuiti organizzati di raccolta), da pesca e
acquacoltura;
- con più di 10 dipendenti produttori iniziali di rifiuti
speciali pericolosi da scavo, costruzione e demolizione; da
lavorazioni industriali e artigianali; da attività
commerciali, di servizio e sanitarie;
- produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi che ne
effettuano lo stoccaggio (operazioni R13 o D15);
- soggetti che raccolgono, trasportano, recuperano e
smaltiscono rifiuti urbani nella Regione Campania.
Per i non obbligati o per chi non aderisce volontariamente,
restano fermi gli adempimenti relativi a registri di carico
e scarico e formulari.
Le semplificazioni successive interverranno sulla base dei
risultati dei lavori dei tavoli tecnici attivati presso il
ministero dell'Ambiente per microraccolta, interoperabilità
del Sistri con i sistemi gestionali aziendali e trasporto
intermodale. A quest'ultimo, comunque, già lo schema del Dm
dedica particolare attenzione e stabilisce che «fino alla
presa in carico dei rifiuti da parte di un'impresa navale o
ferroviaria o altra impresa per il successivo trasporto, i
rifiuti restano sotto la responsabilità del produttore»; ma
questo non significa che tutta la filiera precedente a tale
momento sia esente da responsabilità, come chiarito dal
decreto ministeriale.
Per i rifiuti urbani della Campania, lo schema stabilisce
che il trasportatore compili la scheda Sistri anche per la
parte del produttore, prima dell'inizio della raccolta. Se
l'impianto finale non è in Campania, il gestore non è
obbligato al Sistri, però controfirma la scheda Sistri
all'atto dell'accettazione dei rifiuti in impianto. Finite
le operazioni, il Sistri genera in automatico le
registrazioni di carico e scarico nell'area registro
cronologico del Comune.
Sul sito www.sistri.it sono presenti gli aggiornamenti alle
Guide rapide per produttori, trasportatori,
recuperatori/smaltitori e intermediari. Mentre un'assoluta "new
entry" è la guida per la Regione Campania. È stato anche
pubblicato un nuovo "Video Tutorial" per gli operatori.
Dal 03.03.2014 il Sistri va usato da produttori iniziali
di rifiuti speciali pericolosi e da trasportatori di rifiuti
speciali pericolosi da loro stessi prodotti (articolo 212,
commi 5 e 8, Dlgs 152/2006). Per la sola Regione Campania si
aggiungono i Comuni e le imprese di trasporto di rifiuti
urbani. La legge 15/2014 ("milleproroghe") ha confermato
l'utilizzo del Sistri e ha solo spostato la moratoria delle
sanzioni e la convivenza di registri e formulari con il
Sistri fino al 31.12.2014 (articolo Il Sole 24 Ore del 05.03.2014). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Micro-progetti, stop al massimo ribasso.
Contratti pubblici. Le indicazioni dell'Autorità
sugli incarichi professionali.
Valutare i piccoli progetti sulla
base della qualità della prestazione, limitando il peso
attribuito allo sconto sul prezzo proposto
dall'amministrazione.
È una delle indicazioni che l'Autorità di vigilanza sui
contratti pubblici darà a stazioni appaltanti e progettisti
nella determinazione destinata ad aggiornare le linee guida
per l'assegnazione degli incarichi professionali diffuse nel
2010 (determinazione n. 5/2010) e poi aggiornate nel 2012
con la deliberazione n. 49, in seguito all'abolizione delle
tariffe decisa dal decreto sulle liberalizzazioni varato dal
governo Monti (Dl 1/2012).
L'indicazione sfrutta il "destro" offerto dalla nuove
direttive europee che contengono una netta preferenza per il
criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa ,
rispetto al semplice sconto offerto in gara, con l'obiettivo
di estendere la valutazione basata sul binomio
qualità-prezzo anche alle procedure sottosoglia comunitaria
(207mila euro). Il tentativo è quello di arginare il
fenomeno della guerra dei prezzi con cui i progettisti si
disputano le (ormai poche) gare per servizi di ingegneria
bandite dalle amministrazioni pubbliche.
Difficile invece che possa essere accolta la richiesta,
proveniente da una parte del mondo professionale, mirata a
introdurre l'esclusione automatica delle offerte anomale
anche per i servizi di progettazione: servirebbe una
modifica normativa.
Anche se l'Autorità sottolinea che «sarebbe opportuno che
la stazione appaltante verificasse sempre la congruità
dell'offerta dell'aggiudicatario». Stesso discorso per
la richiesta di limitare per un periodo temporaneo il
ricorso alla progettazione interna alle pubbliche
amministrazioni prevista dal codice degli appalti, «anche
in considerazione delle istanze di spending review».
Esclusa anche la possibilità di allegare alle offerte il
calcolo analitico dei costi di produzione. Soluzione che
sembrerebbe «volta a ripristinare i minimi tariffari»,
aboliti per legge.
Al provvedimento lavora una commissione interna all'Autorità
guidata dal consigliere Giuseppe Borgia, che ha già
effettuato un primo giro di tavolo con le categorie. Secondo
i programmi la determinazione dovrebbe vedere ufficialmente
la luce entro il mese di aprile
(articolo
Il Sole 24 Ore del 05.03.2014 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Calcolatore Aran per i contratti locali di Regioni e Comuni.
Personale. Fondi decentrati.
Il decreto «salva-Roma»
imbarca anche la sanatoria per i contratti decentrati fuori
linea che le Regioni hanno adottato entro il 2011 e gli enti
locali entro il 2012, e che in un numero di casi crescenti,
dopo le contestazioni sollevate dalla Ragioneria generale o
dalla Corte dei conti, hanno rischiato di essere travolti
dalla nullità automatica delle clausole e dai conseguenti
obblighi di recupero con tagli in busta paga ai dipendenti.
La nuova regola (si veda anche Il Sole 24 Ore del 1° marzo)
blocca la tagliola per gli enti che hanno rispettato il
Patto e i tetti alle spese di personale, e chiede un piano
di razionalizzazione che riporti l'organico entro le medie
nazionali della loro classe demografica (alle Regioni si
chiede invece un taglio del 20% nella spesa per i dirigenti
e del 10% in quella per il personale), ma si occupa anche
del futuro.
I recuperi delle somme in eccesso finite in busta paga per
integrativi siglati dopo gli anni "sanati" potranno essere
effettuati in un periodo pari a quello in cui i vincoli sono
stati sforati.
Il blocco dei contratti pubblici in vigore dal 2010 (e ora
riportato all'attenzione della Consulta dal Tribunale di
Ravenna dopo un ricorso della Confsal-Unsa) limita
ovviamente i casi di integrativi nuovi nei contenuti, ma
nella maggioranza degli enti sono ancora in vigore i vecchi
contratti decentrati.
La loro analisi non è semplice, anche perché le
interpretazioni sulle norme che limitano la dotazione del
fondo non sono univoche: ora l'Aran ha messo a disposizione
sul proprio sito (www.aranagenzia.it) un calcolatore excel
con cui gli enti possono verificare se i loro contratti
rispettano i limiti, ma anche in questo caso c'è un nodo
interpretativo: nelle istruzioni sul conto annuale la
Ragioneria ha sostenuto che il fondo vada sempre ridotto in
proporzione alle cessazioni dell'anno precedente, mentre
dalle tabelle Aran sembra che il taglio non vada effettuato
se la dotazione è già inferiore a quella del limite 2010
rideterminato in base alla riduzione dei dipendenti (articolo Il Sole 24 Ore del 05.03.2014). |
APPALTI: Nuovo slittamento per Ato e centrale unica.
Milleproroghe. Le istruzioni Anci.
Il nuovo
slittamento, al 30.06.2014, dell'obbligo per i piccoli
Comuni di rivolgersi a centrali uniche di committenza per
gli acquisti di lavori, servizi e forniture è il rinvio più
importante portato agli enti locali dal decreto milleproroghe, pubblicato definitivamente in «Gazzetta
Ufficiale» nella legge di conversione il 28 febbraio scorso.
Alla razionalizzazione dei servizi sul territorio guarda
anche l'altra proroga chiave per gli enti locali, quella che
sposta a fine anno la decadenza per gli affidamenti di
servizi pubblici slegati dagli ambiti territoriali ottimali,
la cui istituzione avrebbe dovuto essere completata fin dal
30.06.2012.
A passare in rassegna gli spostamenti interessanti per le
amministrazioni locali nell'ultimo milleproroghe è una nota
diffusa ieri dall'Anci, che cerca e illustra nella selva di
dati dell'ultimo provvedimento le regole che impattano sulla
gestione dei Comuni.
Per le amministrazioni locali le
notizie non sono però tutte "di favore": all'articolo 1,
comma 10, la legge 15/2014 mantiene in vita anche nel 2014 il
limite compensi per i componenti degli organi collegiali,
che non possono superare gli importi registrati al 30.04.2010 tagliati del 10%.
Ancora in vigore, infine, lo
scioglimento dei consigli negli enti che non approvano in
tempo i documenti di bilancio (articolo Il Sole 24 Ore del 05.03.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Obbligo
di Pos, calendario da chiarire.
La proroga al
30.06.2014 dell'obbligo di permettere pagamenti anche
attraverso bancomat da un lato favorisce un migliore
adeguamento ad imprese e professionisti. Ma dall'altro
genera incertezze sulla sua concreta operatività almeno
quanto all'individuazione della platea di soggetti
interessati.
In sede di conversione del decreto milleproroghe (Dl
150/2013), è stato infatti inserito il comma 15-bis
all'articolo, 9 con differimento del termine a partire dal
quale i soggetti privati, che effettuano attività di vendita
di prodotti o prestazioni di servizi, anche professionali,
sono obbligati ad accettare pagamenti anche attraverso carte
di debito (Dl 179/2012). Prima che intervenisse la proroga,
nella Gazzetta Ufficiale del 27.01.2014, n. 21, era
stato nel frattempo pubblicato il decreto del ministro dello
Sviluppo economico datato 24.01.2014 attuativo
dell'ambito di applicazione dei pagamenti mediante carte di
debito.
Tale regolamento, stanti gli effetti della
particolare disciplina ed il rilevante numero dei soggetti
potenzialmente destinatari della stessa, aveva individuato,
secondo criteri di gradualità e sostenibilità, un limite
minimo di acquisto, pari a trenta euro, nonché le categorie
di operatori nei confronti delle quali trovasse gradualmente
applicazione la misura.
Il criterio utilizzato a tal fine è stato quello
dell'ammontare del fatturato dell'anno precedente a quello
nel corso del quale è effettuato il pagamento. In ragione di
questo criterio, era stato previsto che dal prossimo 28.03.2014 e sino al 30.06.2014 l'obbligo interessasse
esclusivamente imprese e professionisti che avessero un
fatturato annuo superiore ai 200.000 euro. Tali operatori,
per acquisti oltre i 30 euro, sarebbero stati obbligati ad
accettare pagamenti effettuati da persone fisiche, soggetti
privati, anche con carte di debito.
Con successivo decreto, da adottarsi entro 90 giorni
dall'entrata in vigore dell'obbligo (e quindi
originariamente entro il 26.06.2014), potevano essere
individuate nuove soglie e nuovi limiti minimi di fatturato,
con possibilità inoltre di estendere gli obblighi ad
ulteriori strumenti di pagamento elettronico anche con
tecnologie mobili. La modifica della decorrenza
dell'obbligo, differita al 30.06.2014, renderà
probabilmente necessaria l'adozione di un nuovo decreto
ministeriale che vada a fissare la nuova tempistica in
ragione di quelle esigenze di gradualità e sostenibilità che
hanno guidato il ministero dello Sviluppo economico nella
stesura del decreto attuativo.
Finché il decreto non ci sarà, la data del 30.06.2014
dovrebbe essere necessariamente intesa come momento di avvio
a regime dell'obbligo per tutti gli operatori economici.
Peraltro, questa ultima interpretazione sembrerebbe in grado
di anticipare quanto dispone l'articolo 9, comma 1, lettera
d), della legge di delega fiscale. Per il rafforzamento dei
controlli si cerca infatti di incentivare, mediante una
riduzione degli adempimenti amministrativi e contabili a
carico dei contribuenti, non solo l'utilizzo della
fatturazione elettronica e la trasmissione telematica dei
corrispettivi, ma anche adeguati meccanismi di riscontro tra
la documentazione in materia di Iva e le transazioni
effettuate, potenziando a tal fine i relativi sistemi di
tracciabilità dei pagamenti.
Da parte delle professioni, il Consiglio nazionale
ingegneri, commenta così la conferma della proroga «Rinvio
utile, purché finalizzato alle doverose modifiche e non a
consentire alle banche di avere più tempo per mettere a
punto le proprie offerte commerciali» (articolo Il Sole 24 Ore del 04.03.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI: Lavori pubblici. La nuova situazione.
Lavori specialistici: cancellato l'obbligo del subappalto.
Ancora rischio
caos per i lavori ad alta specializzazione nel settore delle
opere pubbliche. Le imprese generali ritrovano la
possibilità di eseguire in proprio anche i lavori per i
quali non possiedono specifica qualificazione, tra le
proteste delle ditte specializzate.
La norma-tampone
studiata dal ministero delle Infrastrutture, per rinviare a
settembre la cancellazione dell'obbligo di subappalto delle
opere specialistiche da parte delle imprese generali prive
della specifica qualificazione, non ha trovato posto nella
terza versione del decreto salva Roma varato dal Consiglio
dei ministri venerdì 28 febbraio.
Tutto nasce con la scelta del Governo di ritirare il decreto
151 di fronte ai problemi sorti in Parlamento agli sgoccioli
per la conversione in legge. Nel decreto 151 -noto anche
come salva Roma-bis- era stata infatti inserita una misura
(articolo 3, comma 9) per rinviare a settembre
l'applicazione del parere del Consiglio di Stato recepito
nel Dpr 30.10.2013: quella soluzione, accogliendo un
ricorso presentato dalle grandi imprese rappresentate
dall'Agi, aveva cancellato dal regolamento appalti le norme
che impongono il subappalto dei lavori specializzati (e il
vincolo a creare una Ati verticale nel caso di opere a
particolare contenuto tecnologico), in assenza di
qualificazione del titolare dell'appalto principale.
Il problema è che il decreto è decaduto, senza che
un'analoga norma abbia trovato posto nella nuova versione
del decreto legge, sembra anche per l'opposizione del
Quirinale a recepire nel nuovo decreto norme-fotocopia del
vecchio. Tutt'al più sarà prevista nel disegno di legge
parallelo una norma che salvi gli effetti delle norme
contenute nel decreto legge 151 per il periodo di vigenza.
Per ora restano "scoperte", quindi, le amministrazioni che
avevano pubblicato bandi di gara confidando nella
conversione in legge del decreto. E che potrebbero ora
venire travolte dai ricorsi per aver bandito gare basate su
norme decadute e dunque mai esistite per l'ordinamento.
I tempi di un disegno di legge mal si conciliano, infatti,
con la necessità di dare risposte immediate a Pa e imprese
che rischiano di vedersi bloccare in corsa gare e cantieri
avviati sulla base di regole mai entrate in vigore. Tra le
soluzioni che sarebbero allo studio in questo momento c'è
quella di inserire la norma salva-effetti (e salva-bandi) in
uno dei decreti in corso di conversione in Parlamento. Una
soluzione che permetterebbe di mettere una pietra sul
passato, sanando gli effetti giuridici di bandi già
pubblicati, senza però risolvere le incertezze che rischiano
di inceppare un mercato già pesantemente provato dalla
crisi.
Da oggi le amministrazioni intenzionate a pubblicare
un bando di gara dovranno infatti tenere conto degli effetti
del parere del Consiglio di Stato, tornato pienamente
operativo, senza la bussola di una circolare ministeriale o
di un atto di interpretazione dell'Autorità di vigilanza (articolo Il Sole 24 Ore del 04.03.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
TRIBUTI:
Tasi, le aree scoperte sono esenti.
Sono soggetti solo i fabbricati e le aree edificabili.
Il decreto sulla finanza locale rimedia all'errore contenuto
nella legge di Stabilità.
Le aree scoperte non pagano più la Tasi. Sono soggette al
nuovo tributo sui servizi comunali indivisibili (Tasi) solo
i fabbricati, comprese le abitazioni principali, e le aree
edificabili. Esclusi espressamente dall'imposizione anche i
terreni agricoli.
È quanto prevede l'articolo 5 dello schema
di dl sulla finanza locale, con il quale il legislatore
intende rimediare all'errore commesso nella legge di
Stabilità che aveva assoggettato all'imposta sui servizi le
aree scoperte.
Dunque, dopo tanti dubbi e incertezze che erano emerse sulle
modalità d'imposizione delle aree scoperte, più volte
sollevati dalle pagine di questo giornale, si prende atto
dell'inconciliabilità di due disposizioni contenute nella
legge di Stabilità (147/2013).
In particolare, la norma che dispone che la base imponibile
della Tasi sia la stessa dell'Imu porta a escludere che
siano soggette al prelievo le aree scoperte, per le quali
manca il criterio per calcolare il tributo. Questa evidente
anomalia emerge dall'articolo 1, comma 669, della legge
147/2013 istitutiva del nuovo balzello, che ricomprende nel
presupposto del tributo oltre ai fabbricati e alle aree
edificabili anche le aree scoperte. La disposizione
contenuta nel nuovo dl, invece, sostituisce il comma 669 e
non fa più riferimento alle aree scoperte tra gli immobili
soggetti alla Tasi. Ad abundantiam vengono esclusi anche i
terreni agricoli che, in realtà, già non rientravano nel
campo di applicazione dell'imposta.
In effetti, è impossibile tassare autonomamente le aree
scoperte in quanto sono prive di rendita. Considerato,
infatti, che la base imponibile della Tasi è la stessa dell'Imu,
manca il parametro di riferimento per assoggettare le aree
scoperte a tassazione, poiché non hanno una rendita
catastale, come i fabbricati, né un valore di mercato, come
le aree edificabili. È evidente, quindi, che il legislatore
ha fatto confusione poiché ha assoggettato alla Tasi locali
e aree che sono tenuti al pagamento della tassa rifiuti
(Tari). Questo si evince, tra l'altro, anche dal fatto che
il dl sulla finanza locale abroga il comma 670 che esonera
le aree pertinenziali di locali tassabili, non operative, e
quelle condominiali a meno che non siano occupate in via
esclusiva. È l'effetto consequenziale dell'esclusione
dall'imposizione delle aree scoperte.
Del resto per le aree scoperte cosiddette operative, per i
locali in multiproprietà, i centri commerciali integrati e
via dicendo, i criteri per calcolare la Tari sono la
superficie dell'immobile e la tariffa deliberata dal comune.
Mentre, per la Tasi è espressamente stabilito che la base di
calcolo del tributo è quella dell'Imu. E il criterio per
quantificare il tributo non può che essere la rendita
catastale o, in alternativa, il valore di mercato.
All'imposta sui servizi sono soggetti anche gli immobili
adibiti a prima casa. Il tributo è dovuto da chiunque
possieda o detenga a qualsiasi titolo fabbricati, aree
scoperte e edificabili. Qualora vi siano più possessori o
detentori, tutti sono tenuti in solido all'adempimento
dell'obbligazione tributaria. In base a quanto stabilito dal
comma 672, se è stato stipulato un contratto di locazione
finanziaria il tributo è dovuto dal locatario a partire
dalla data di stipula del contratto e per tutta la sua
durata. La norma poi precisa che per durata del contratto si
intende il periodo che va dalla data di stipula a quella di
riconsegna del bene al locatore, che deve essere comprovata
da un apposito verbale (articolo ItaliaOggi del
04.03.2014). |
LAVORI PUBBLICI:
Lavori specialistici, appalti pubblici nel caos.
Rischio caos per gli appalti pubblici dopo che nel
decreto-legge «Salva-Roma» non è stata riproposta la norma
sulla disciplina della qualificazione nei lavori
specialistici.
La mancata riproposizione della norma del
decreto-legge «Salva-Roma bis» adesso rende vano lo sforzo
compiuto dal ministero delle infrastrutture che aveva preso
tempo, da qui a settembre, per individuare una soluzione
definitiva alla qualificazione nei lavori complessi.
La
soluzione messa a punto dal ministero di Porta Pia con il
decreto non convertito era stata quella di differire a
settembre la soppressione dell'obbligo di subappalto delle
opere specialistiche da parte delle imprese general
contractor e di costituzione dell'Ati verticale con le
imprese qualificate nelle opere cosiddette
«superspecialistiche», risultato ottenuto dall'Agi
(Associazione delle imprese generali) con un ricorso
straordinario al Capo dello stato, accolto dal Consiglio di
stato tale risultato.
La norma era contenuta nel
decreto-legge 151/2013 (articolo 3, comma 9) che, in quanto
non convertito, perde di efficacia e con esso anche tutti
gli atti che le stazioni appaltanti hanno emanato sulla base
di tale norma. Adesso quindi sia l'articolo 109, comma 2,
sia l'articolo 107, comma 2 del dpr 207/2010, oltre
all'allegato A dello stesso decreto, nelle parti oggetto di
censura, devono essere considerati abrogati, con il
risultato che le stazioni appaltanti si trovano a gestire un
quadro del tutto cambiato rispetto a procedimenti avviati
tenendo conto che le due norme fossero invece in vigore
(anche se soltanto fino a settembre). Tutti gli atti di gara
che non trovano più copertura normative sono infatti nulli
ex lege per mancata conversione del decreto legge
151.
In sostanza da venerdì scorso, le amministrazioni non
potranno più ritenere applicabili le due norme la cui
cancellazione era stata sospesa: la prima che consentiva
all'affidatario qualificato nella sola categoria prevalente
di non eseguire direttamente le opere generali rientranti
nelle categorie scorporabili a qualificazione obbligatoria,
individuate come tali nell'allegato A al dpr 207/2010; la
seconda che, per le opere «superspecialistiche»
individuate al comma 2 dell'articolo 107, permetteva
all'affidatario che non fosse stato in possesso della
relativa qualificazione, di subappaltarle solo nel limite
del 30% (articolo ItaliaOggi del
04.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Sistri, ora tocca ai produttori.
L'adempimento informatico si affianca al tradizionale.
Operativa dal 3 marzo la fase due del sistema di
tracciamento telematico dei rifiuti.
Dal 03.03.2014, anche enti e imprese produttori iniziali
di rifiuti speciali pericolosi devono utilizzare il
«Sistri», colloquiando con trasportatori e impianti di
destinazione dei propri residui attraverso il nuovo sistema
di tracciamento telematico.
Questo godendo fino al 31.12.2014 di un'impunità per l'eventuale violazione
delle relative regole, ma con il parallelo obbligo di
osservare comunque, fino alla stessa data, i tradizionali
obblighi di tracciamento dei rifiuti (registri e formulari
di trasporto), in relazione ai quali le sanzioni mantengono
invece il loro vigore. Il tutto con un occhio alla scadenza
del 30.04.2014, data entro la quale i soggetti
individuati dalle relative norme di settore devono adempiere
anche alla comunicazione «Mud».
Il rinnovato quadro normativo. A confermare l'operatività
della «fase 2» del Sistri è la legge di conversione del dl
150/2013 (c.d. «Milleproroghe») licenziato in via definitiva
dal parlamento lo scorso 26.02.2014, legge che lascia
immutati i termini iniziali sanciti dall'ultimo
provvedimento sulla partenza del nuovo sistema (il dl
101/2013, in virtù del quale già dallo scorso 01.10.2013 il tracciamento telematico è obbligatorio per i gestori
degli stessi rifiuti) limitandosi a spostare dall'originario
01.08.2014 al successivo 31 dicembre la vigenza del c.d.
«regime binario» che impone agli operatori di onorare sia le
scritture elettroniche sia quelle cartacee.
I soggetti interessati dalla «fase 2». La data del
03.03.2014 interessa i produttori «iniziali» di rifiuti speciali
pericolosi inquadrati in enti o imprese, a esclusione
(dunque) dei professionisti che tali vesti non assumono
(come chiarito dalla circolare Minambiente 31.10.2013,
n. 1). Una figura, quella dei produttori iniziali, da non
confondere con quella dei «nuovi» produttori di rifiuti
(ossia i soggetti che sottopongono i rifiuti ad attività di
trattamento e ottengono nuovi rifiuti), per i quali gli
adempimenti Sistri sono da osservare fin dallo scorso 01.10.2013.
Dal 03.03.2014 l'operatività del Sistri
scatta altresì per i comuni e le imprese di trasporto
rifiuti «urbani» (pericolosi e non) del territorio della
regione Campania, a esclusione (quindi) dei soggetti
operanti in altre regioni (per alcuni dei quali l'obbligo
del tracciamento telematico partirà solo, previa adozione di
specifico dm Ambiente, dal giugno 2014).
Gli adempimenti «Sistri». Oltre agli adempimenti formali
costituiti dall'iscrizione al sistema e pagamento del
relativo contributo 2014 (entro il 30 aprile), dal punto di
vista operativo ai produttori di rifiuti speciali pericolosi
è richiesto di utilizzare (a fianco di quelle tradizionali)
le due versioni «informatiche» del registro di
carico/scarico e formulario di trasporto dei rifiuti,
costituite (rispettivamente) dalle schede Sistri «registro
cronologico» e «area movimentazione».
La sequenza «base»
degli atti da compiere (secondo la tempistica stabilita dal
dm 52/2011) è sostanzialmente la seguente: dopo la
produzione dei rifiuti il produttore ne inserisce i relativi
dati quali/quantitativi nella scheda «registro cronologico»;
prima di procedere alla loro movimentazione compila la
scheda «movimentazione»; il trasportatore di rifiuti (con il
quale, se diverso dal produttore, questi ha preso preventivi
accordi contrattuali) prima di procedere al loro ritiro
compila la sua parte di «registro cronologico», prende in
carico i rifiuti unitamente a una stampa cartacea della
«scheda area movimentazione» effettuata dal produttore
(stampa che li dovrà accompagnare per tutto il viaggio,
unitamente al certificato analitico delle caratteristiche,
ove richiesto); a valle, l'impianto che riceve i rifiuti
compila la propria parte del «registro cronologico»,
completare la scheda «movimentazione» online e firma la
copia cartacea di accompagnamento (che resta al
trasportatore). All'esito di tale ultima operazione il
Sistri invia automaticamente al produttore, per mezzo della
casella di posta elettronica dedicata, la comunicazione di
accettazione dei rifiuti.
La responsabilità del produttore
per la corretta gestione dei propri rifiuti, lo ricordiamo,
è esclusa solo con il ricevimento di detta comunicazione o,
in caso di mancato ricevimento della stessa nei 30 giorni
successivi al conferimento al trasportatore, di relativa
segnalazione fatta sia al Sistri che alla provincia
competente. Casi critici di malfunzionamento del sistema
informatico, così come di mancata accettazione (totale o
parziale) del carico di rifiuti da parte dell'impianto di
destinazione, vanno gestiti e risolti secondo le procedure
stabilite dallo stesso dm 52/2011.
Gli adempimenti «tradizionali». Insieme al nuovo
tracciamento telematico per la durata del regime
transitorio, i soggetti che operano in Sistri devono
parallelamente (come accennato) continuare a tenere i
tradizionali registri di carico/scarico dei rifiuti e
formulario di trasporto ed effettuare la comunicazione
ambientale «Mud».
Le regole da osservare in relazione alle
citate scritture ambientali sono quelli previste dagli
articoli 190 e 193 del dlgs 152/2006 (c.d. «Codice
Ambientale») nella versione precedente alle modifiche «pro
Sistri» introdotte dal dlgs 205/2010 (in vigore solo dopo la
fine del citato «periodo binario», quando a osservarle
resteranno solo i soggetti non aderenti al nuovo sistema
informatico).
Le norme, invece, da osservare per la
comunicazione annuale «Mud» sono da rintracciarsi nella
legge istitutiva 70/1994 e provvedimenti connessi, come
richiamati e sintetizzati dal Dpcm 12.12.2013 (S.o. n.
89 alla G.U. del 27 dicembre, n. 302), il regolamento
governativo recante istruzione e modulistica per la denuncia
da presentare entro il prossimo 30.04.2014.
Il quadro sanzionatorio. Come accennato, fino al 31.12.2014 a essere sanzionati sono solo gli inadempimenti
relativi al tracciamento tradizionale dei rifiuti
(registri/formulari/Mud), secondo il relativo regime «ratione
temporis» sopra delineato, mentre dal 01.01.2015 saranno
pienamente sanzionabili le violazioni degli obblighi
relativi al tracciamento Sistri.
Tale è il quadro disegnato dall'articolo 11 del dl
31.08.2013, n. 101 (come convertito in legge 125/2013 e
successivamente modificato dalla legge citata di conversione
del dl 150/2013) (articolo ItaliaOggi Sette
del 03.03.2014). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Contratti integrativi, così le nuove regole fermano i
recuperi.
Niente nullità delle clausole pre-2011 se l'ente rispetta il
Patto.
Personale. Gli effetti del correttivo approvato dal Governo.
Il "condono"
sul fondo delle risorse decentrate degli enti locali
accelera e si infila nei provvedimenti approvati venerdì in
consiglio dei ministri che, almeno secondo i testi circolati
finora, riprendono il correttivo prima inserito nel disegno
di legge n. 1322 sugli enti locali, presentato al Senato
(primo firmatario: Zanda). La disposizione, di fatto, rende
inapplicabile la nullità delle clausole contrattuali
stipulate in violazione delle norme vigenti.
Il recupero
L'articolo 40, comma 3-quinquies, del Dlgs 165/2001, come
rivisto dalla riforma Brunetta, ha dato indicazioni in
merito al superamento dei vincoli finanziari del salario
accessorio: le somme sono da recuperare nel contesto della
contrattazione successiva. Ma in che modo? La risposta viene
data dal nuovo provvedimento, precisando che il reintegro
delle somme deve avvenire in un numero di anni pari agli
anni in cui vi è stata la violazione.
C'è anche una scappatoia. Se l'ente ha rispettato il patto
di stabilità, anziché recuperare l'indebito, lo può
compensare con le economie che si realizzano dall'adozione
dei piani di razionalizzazione previsti dall'articolo 16,
comma 4 e 5, del Dl 98/2001. E questo è quanto accade per il
futuro.
La nuova regola interviene, però, anche sugli atti di
"autorizzo dei fondi" per la contrattazione decentrata
adottatati antecedentemente al 31.12.2011, ovvero il
termine voluto dal Dlgs 150/2009 per l'adeguamento alla
riforma Brunetta. All'ente locale che ha rispettato il patto
di stabilità, le norme sul contenimento della spesa di
personale e l'articolo 9 del Dl n. 78/2010 non si applica,
infatti, quanto previsto dall'articolo 40, comma
3-quinquies, quinto capoverso ovvero la nullità delle
clausole e l'inapplicabilità delle stesse nei casi di
violazione dei vincoli e dei limiti di competenze imposti
dalla contrattazione nazionale o dalle norme di legge. In
altre parole: un "mini-condono".
Mentre gli operatori tirano qualche sospiro di sollievo per
il passato, non si è, però, ancora chiusa la partita per il
corretto calcolo della riduzione del salario accessorio ai
sensi dell'articolo 9, comma 2-bis, del Dl 78/2010.
Nonostante siano passati quasi quattro anni dall'entrata in
vigore del taglio ai fondi delle risorse decentrate, troppi
pareri ed interpretazioni hanno lasciato dubbi sulle
corrette modalità operative. Sezioni regionali della Corte
dei conti, Ragioneria dello Stato e Aran hanno provato a
dare risposte, ma senza giungere ad una chiara intesa.
Non
ci sono dubbi sulla quantificazione del tetto: se il fondo
dell'anno di competenza è superiore rispetto al
corrispondente importo dell'anno 2010, va operata una prima
decurtazione per riportare il salario accessorio al valore
limite. Non ci sono neppure dubbi (almeno per Aran e Rgs)
sulle voci da escludere dal confronto: economie del fondo
anno precedente, economie fondo straordinario, progettazione
interna, compensi per l'avvocatura in presenza di sentenza
favorevoli, economie derivanti dai piani di
razionalizzazione.
Le uscite
Ciò che crea maggiori problemi è la riduzione del fondo
sulla base delle cessazioni dei dipendenti dal servizio.
Ripercorrendo le istruzioni e le tabelle predisposte lo
scorso anno dalla Ragioneria Generale dello Stato in
occasione del conto annuale, risulta che tale riduzione sia
da effettuare a prescindere che il fondo di competenza sia
già inferiore rispetto al 2010. Per l'Aran, invece, la
percentuale di riduzione sulla base della semisomma dei
dipendenti, abbassa il limite del 2010 e quindi non appare
obbligatoria la riduzione se il fondo di competenza è già
inferiore a tale limite rideterminato (si veda la nota n.
5401/2013). Chissà, se con il conto annuale 2013,
arriveranno istruzioni definitive (articolo Il Sole 24 Ore del 03.03.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO: Vigili urbani, l'altalena del doppio compenso.
Giurisprudenza. La Corte di appello di Milano riammette i
pagamenti multipli negati da Cassazione, Aran, Ragioneria e
Funzione pubblica.
La lunga
diatriba del trattamento economico da corrispondere ai
vigili urbani che prestano attività di lavoro in turno per
le giornate di festività infrasettimanali si arricchisce di
sempre nuove puntate o, meglio, di nuove sentenze. Ed ognuna
ribalta le indicazioni fornite dalla precedente. Siamo in
una vicenda che può essere assunta come un vero e proprio
paradigma del clima di incertezza che avvolge la
contrattazione e le relazioni sindacali nel pubblico
impiego.
La Corte di appello di Milano, con la sentenza n. 11102/2013,
ha fatto proprie le tesi dei vigili e delle organizzazioni
sindacali ribaltando la sentenza del giudice del lavoro di
primo grado.
La Corte cioè stavolta afferma che quando i
vigili svolgono attività lavorative in turno in una giornata
di festività infrasettimanali essi debbano sommare i
compensi di cui all'articolo 22 del Ccnl del 14.09.2000 (le cosiddette code contrattuali), cioè il turno, e
quelli dell'articolo 24 dello stesso contratto, cioè il
trattamento per le attività prestate in giorno festivo, con
diritto al riposo compensativo. Al riguardo viene
richiamata, tra le tante, la sentenza delle sezioni unite
della Corte di Cassazione n. 907/2007.
Questa tesi smentisce completamente le indicazioni dettate
da altrettanto copiose sentenze dei giudici del lavoro, ivi
comprese le pronunce della Corte di Cassazione n. 8458/2010
e 2888/2012, che invece hanno sostenuto che quando il vigile
è di turno nella giornata festiva infrasettimanale gli
spetta unicamente il compenso per il turno festivo, in
quanto lo stesso assorbe ogni altra remunerazione.
Occorre ricordare che questo è anche l'orientamento
dell'Aran e del Dipartimento della Funzione Pubblica e che
le ispezioni della Ragioneria Generale dello Stato bollano
come illegittime le interpretazioni che accolgono la tesi
della sommabilità delle due disposizioni contrattuali,
segnalando l'accaduto alla Procura della Corte dei Conti per
valutare il possibile danno erariale.
È evidente che occorre fare chiarezza ed è necessario che
ciò avvenga rapidamente così da fare uscire le
amministrazioni dalla condizione di incertezza e dagli
scontri che si determinano di conseguenza.
Per la verità nell'articolo 7 dell'ultimo contratto
nazionale del personale degli enti locali (Ccnl 31.07.2009), è stato assunto l'impegno a rivedere la disciplina
del turno. Sicuramente si può sostenere che nel pubblico
impiego si applica il divieto di estensione del giudicato,
per cui non si può che consigliare alle amministrazioni di
attenersi alla lettura data dall'Aran, in quanto soggetto
che rappresenta gli enti nella contrattazione. Ma è una
risposta insufficiente a placare le tensioni e i contrasti,
per cui si deve sollecitare una definizione chiara della
materia e lo strumento è quello di un contratto di
interpretazione autentica (articolo Il Sole 24 Ore del 03.03.2014). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Non integra reato l’installazione, in assenza di
permesso di costruire, di mezzi mobili di pernottamento,
anche in via permanente, entro il perimetro delle strutture
turistico-ricettive all’aperto regolarmente autorizzate ed
in ottemperanza dei requisiti stabiliti dagli ordinamenti
regionali, non versandosi in presenza di un’attività
rilevante ai fini urbanistici, edilizi e paesaggistici come
previsto dall’art. 3, comma nono, della L. n. 99 del 2009.
Può richiamarsi, per una fattispecie contigua, Cass., sez.
III, 15/12/2009–14/01/2010, n. 1610, che ha affermato che
non integra reato l’installazione, in assenza di permesso di
costruire, di mezzi mobili di pernottamento, anche in via
permanente, entro il perimetro delle strutture turistico-ricettive all’aperto regolarmente autorizzate ed
in ottemperanza dei requisiti stabiliti dagli ordinamenti
regionali, non versandosi in presenza di un’attività
rilevante ai fini urbanistici, edilizi e paesaggistici come
previsto dall’art. 3, comma nono, della L. n. 99 del 2009 (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.03.2014 n. 10482 -
link a http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
Anche in caso di
interventi di recupero del sottotetto ad uso abitativo deve
essere rispettata la normativa statale in tema di distanze
tra edifici, dato che, come ha rilevato la sentenza della
Corte Costituzionale n. 173 del 2011, la deroga prevista
dalla norma regionale richiamata ai limiti e alle
prescrizioni degli strumenti di pianificazione comunale “non
può ritenersi estesa anche alla disciplina civilistica in
materia di distanze, né può operare nei casi in cui lo
strumento urbanistico riproduce disposizioni normative di
rango superiore, a carattere inderogabile, quali sono quelle
dell'art. 41-quinques della legge 17.08.1942, n. 1150,
introdotto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, e
dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, nella parte in cui
regolano le distanze tra fabbricati”.
Sostiene ancora il ricorrente che
l’intervento non sarebbe da qualificare come nuova
costruzione, contrariamente a quanto ha ritenuto
l’Amministrazione: perciò, l’art. 9 del d.m. n. 1444 del
1968 non sarebbe applicabile.
La censura non è condivisibile: il provvedimento oggetto del
giudizio ha evidenziato gli indici
che hanno determinato la definizione dell’intervento,
consistenti, in particolare, nella correzione dell’area di
sedime, nella traslazione di pareti, nella modifica del
perimetro e della sagoma. Rispetto a tali elementi
l’appellante si limita ad eccepire che l’art. 64, comma 2,
della legge regionale n. 2 del 2005 qualifica il recupero ai
fini abitativi del sottotetto come ristrutturazione
edilizia, ma tale argomentazione è palesemente inefficace a
scalfire la legittimità del provvedimento impugnato, dato
che l’intervento edilizio in esame consiste (non nel mero
recupero del sottotetto, ma) nella parziale demolizione e
ricostruzione dell’edificio originario.
Inoltre, ed è
considerazione conclusiva, anche in caso di interventi di
recupero del sottotetto ad uso abitativo deve essere
rispettata la normativa statale in tema di distanze tra
edifici, dato che, come ha rilevato la sentenza della Corte
Costituzionale n. 173 del 2011, la deroga prevista dalla
norma regionale richiamata ai limiti e alle prescrizioni
degli strumenti di pianificazione comunale “non può
ritenersi estesa anche alla disciplina civilistica in
materia di distanze, né può operare nei casi in cui lo
strumento urbanistico riproduce disposizioni normative di
rango superiore, a carattere inderogabile, quali sono quelle
dell'art. 41-quinques della legge 17.08.1942, n. 1150,
introdotto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, e
dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, nella parte in cui
regolano le distanze tra fabbricati”
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.03.2014 n. 1054 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 36 del d.p.r.
06.06.20012, n. 380, come già l'art. 13 della legge n. 47
del 1985, pone come condizione inderogabile, ai fini del
rilascio della sanatoria, che “l'intervento risulti conforme
alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al
momento della realizzazione dello stesso, sia al momento
della presentazione della domanda".
Ai fini del rilascio dell’assenso edilizio
in sanatoria è, infatti, necessario dimostrare che l’opera
abusiva è conforme non solo alla disciplina urbanistica
vigente alla data in cui l’assenso viene richiesto, ma anche
a quella vigente all’atto della realizzazione dell’opera.
Come ha chiarito la giurisprudenza di questo Consiglio di
Stato (da ultimo, sez. V, 11.06.2013, n. 3220), l'art. 36
del d.p.r. 06.06.20012, n. 380, come già l'art. 13 della
legge n. 47 del 1985, pone come condizione inderogabile, ai
fini del rilascio della sanatoria, che “l'intervento risulti
conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia
al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento
della presentazione della domanda"
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.03.2014 n. 1040 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA:
Ai fini
dell’inquadramento di un atto amministrativo non assume
rilievo dirimente l’autoqualificazione datane
dall’amministrazione emanante, dovendosi invece aver
riguardo al suo contenuto sostanziale ed alla funzione da
esso perseguita.
---------------
L’istituto della rettifica consiste nella eliminazione di
errori ostativi o di errori materiali in cui
l’amministrazione sia incappata, di natura non invalidante
ma che diano luogo a mere irregolarità.
Affinché ricorra un’ipotesi di errore materiale in senso
tecnico-giuridico, occorre che esso sia il frutto di una
svista che determini una discrasia tra manifestazione della
volontà esternata nell’atto e volontà sostanziale
dell’autorità emanante, obiettivamente rilevabile dall’atto
medesimo e riconoscibile come errore palese secondo un
criterio di normalità, senza necessità di ricorrere ad un
particolare sforzo valutativo e/o interpretativo, valendo il
requisito della riconoscibilità ad escludere l’insorgenza di
un affidamento incolpevole del soggetto destinatario
dell’atto in ordine alla corrispondenza di quanto dichiarato
nell’atto a ciò che risulti effettivamente voluto. Né alla
rettifica si può far luogo oltre un congruo limite
temporale, onde non pregiudicare la certezza dei rapporti,
specie in caso di incidenza pregiudizievole sulla situazione
giuridica del destinatario dell’atto.
---------------
Il provvedimento di rettifica è espressione di una funzione
amministrativa di contenuto identico, seppure di segno
opposto, a quella esplicata in precedenza. Tale funzione
deve, dunque, articolarsi secondo gli stessi moduli già
adottati, senza i quali rischia di risultare monca o,
comunque, difettosa rispetto all’identica causa del potere,
sicché l’amministrazione è tenuta a porre in essere un
procedimento omologo, anche per quel che concerne le
formalità pubblicitarie, di quello a suo tempo seguito per
l’adozione dell’atto modificato, richiedendosi una
speculare, quanto pedissequa, identità dello svolgimento
procedimentale.
---------------
Una rettifica delle previsioni del piano urbanistico
comunale adottato/approvato è ammissibile solo in presenza
di un errore materiale nel senso sopra chiarito, il quale
abbia inciso nella fase di redazione e/o assemblaggio dei
diversi atti che formano lo strumento urbanistico, senza che
lo stesso abbia influito sulla scelta urbanistica
sottostante, dovendo la divergenza esistente tra previsioni
solo apparentemente diverse dello strumento pianificatorio
essere risolvibile per mezzo dell’individuazione, sulla base
di un vincolato procedimento logico, di una soluzione
univoca che s’imponga in modo manifesto ed immediato dalla
lettura della documentazione del piano, senza dover
ricorrere ad alcuna attività di interpretazione della
volontà dell’amministrazione deliberante.
Premesso che ai fini
dell’inquadramento di un atto amministrativo non assume
rilievo dirimente l’autoqualificazione datane
dall’amministrazione emanante, dovendosi invece aver
riguardo al suo contenuto sostanziale ed alla funzione da
esso perseguita, si osserva che l’istituto della rettifica
consiste nella eliminazione di errori ostativi o di errori
materiali in cui l’amministrazione sia incappata, di natura
non invalidante ma che diano luogo a mere irregolarità.
Affinché ricorra un’ipotesi di errore materiale in senso
tecnico-giuridico, occorre che esso sia il frutto di una
svista che determini una discrasia tra manifestazione della
volontà esternata nell’atto e volontà sostanziale
dell’autorità emanante, obiettivamente rilevabile dall’atto
medesimo e riconoscibile come errore palese secondo un
criterio di normalità, senza necessità di ricorrere ad un
particolare sforzo valutativo e/o interpretativo, valendo il
requisito della riconoscibilità ad escludere l’insorgenza di
un affidamento incolpevole del soggetto destinatario
dell’atto in ordine alla corrispondenza di quanto dichiarato
nell’atto a ciò che risulti effettivamente voluto. Né alla
rettifica si può far luogo oltre un congruo limite
temporale, onde non pregiudicare la certezza dei rapporti,
specie in caso di incidenza pregiudizievole sulla situazione
giuridica del destinatario dell’atto.
Con particolare riguardo alla materia urbanistica, una
rettifica delle previsioni del piano urbanistico comunale
adottato/approvato è ammissibile solo in presenza di un
errore materiale nel senso sopra chiarito, il quale abbia
inciso nella fase di redazione e/o assemblaggio dei diversi
atti che formano lo strumento urbanistico, senza che lo
stesso abbia influito sulla scelta urbanistica sottostante,
dovendo la divergenza esistente tra previsioni solo
apparentemente diverse dello strumento pianificatorio essere
risolvibile per mezzo dell’individuazione, sulla base di un
vincolato procedimento logico, di una soluzione univoca che
s’imponga in modo manifesto ed immediato dalla lettura della
documentazione del piano, senza dover ricorrere ad alcuna
attività di interpretazione della volontà
dell’amministrazione deliberante.
Si aggiunga che, per consolidato orientamento
giurisprudenziale di questo Consiglio di Stato, il
provvedimento di rettifica è espressione di una funzione
amministrativa di contenuto identico, seppure di segno
opposto, a quella esplicata in precedenza. Tale funzione
deve, dunque, articolarsi secondo gli stessi moduli già
adottati, senza i quali rischia di risultare monca o,
comunque, difettosa rispetto all’identica causa del potere,
sicché l’amministrazione è tenuta a porre in essere un
procedimento omologo, anche per quel che concerne le
formalità pubblicitarie, di quello a suo tempo seguito per
l’adozione dell’atto modificato, richiedendosi una
speculare, quanto pedissequa, identità dello svolgimento
procedimentale (v. in tal senso, per tutte, Cons. Stato,
Sez. VI, 11.05.2007, n. 2306)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.03.2014 n. 1036 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La
pronunzia di decadenza del permesso di costruire è connotata
da un carattere strettamente vincolato, dovuto
all'accertamento del mancato inizio e completamento dei
lavori entro i termini stabiliti ed ha natura ricognitiva
del venir meno degli effetti del permesso a costruire per
l'inerzia del titolare a darvi attuazione. Pertanto, un tale
provvedimento ha carattere meramente dichiarativo di un
effetto verificatosi ex se, in via diretta, con
l'infruttuoso decorso del termine prefissato con conseguente
decorrenza ex tunc.
Al
contrario, la proroga dei termini stabiliti da un
atto amministrativo ha la natura giuridica di provvedimento
di secondo grado, in quanto modifica, ancorché parzialmente,
il complesso degli effetti giuridici delineati dall'atto
originario.
Nell’ambito della materia
edilizia, la differente qualificazione tra provvedimenti di
rinnovo della concessione edilizia e di proroga dei termini
di ultimazione dei lavori è riscontrabile nel senso che,
mentre il rinnovo della concessione presuppone la
sopravvenuta inefficacia dell'originario titolo concessorio
e costituisce, a tutti gli effetti, una nuova concessione,
la proroga è atto sfornito di propria autonomia che accede
all'originaria concessione ed opera semplicemente uno
spostamento in avanti del suo termine finale di efficacia.
La proroga è quindi disposta con provvedimento motivato
sulla scorta di una valutazione discrezionale, che in
termini tecnici si traduce nella verifica delle condizioni
oggettive che la giustificano, tenendo presente che, proprio
perché il risultato è quello di consentire una deroga alla
disciplina generale in tema di edificazione, i presupposti
che fondano la richiesta di proroga sono espressamente
indicati in norma e sono di stretta interpretazione.
---------------
La proroga può aver luogo per factum principis, ossia, come afferma la norma, “per
fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del
permesso” o per ragioni collegate alla natura
dell’opera, ossia “esclusivamente in considerazione della
mole dell'opera da realizzare o delle sue particolari
caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti
di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più
esercizi finanziari”.
In secondo luogo, la disciplina
dell’art. 15 “Efficacia temporale e decadenza del permesso
di costruire” del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 “Testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia” mette in luce l’esistenza di un diverso regime che
distingue, da un lato, il provvedimento di decadenza da
quello di proroga e, all’interno delle tipologie di proroga,
quella determinata dal sopravvenire di un fatto esterno da
quella determinata da profili ontologici dell’opera.
La prima diade si basa sulla distanza esistente tra un
provvedimento legato ai soli presupposti di legge e uno
caratterizzato dalla scelta discrezionale. Infatti, la
pronunzia di decadenza del permesso di costruire è connotata
da un carattere strettamente vincolato, dovuto
all'accertamento del mancato inizio e completamento dei
lavori entro i termini stabiliti ed ha natura ricognitiva
del venir meno degli effetti del permesso a costruire per
l'inerzia del titolare a darvi attuazione. Pertanto, un tale
provvedimento ha carattere meramente dichiarativo di un
effetto verificatosi ex se, in via diretta, con
l'infruttuoso decorso del termine prefissato con conseguente
decorrenza ex tunc (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV,
21.08.2013, n. 4206; id., 07.09.2011, n. 5028).
Al
contrario, la proroga dei termini stabiliti da un atto
amministrativo ha la natura giuridica di provvedimento di
secondo grado, in quanto modifica, ancorché parzialmente, il
complesso degli effetti giuridici delineati dall'atto
originario (ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 18.09.2008, n. 4498).
Nell’ambito della materia
edilizia, la differente qualificazione tra provvedimenti di
rinnovo della concessione edilizia e di proroga dei termini
di ultimazione dei lavori è riscontrabile nel senso che,
mentre il rinnovo della concessione presuppone la
sopravvenuta inefficacia dell'originario titolo concessorio
e costituisce, a tutti gli effetti, una nuova concessione,
la proroga è atto sfornito di propria autonomia che accede
all'originaria concessione ed opera semplicemente uno
spostamento in avanti del suo termine finale di efficacia.
La proroga è quindi disposta con provvedimento motivato
sulla scorta di una valutazione discrezionale, che in
termini tecnici si traduce nella verifica delle condizioni
oggettive che la giustificano, tenendo presente che, proprio
perché il risultato è quello di consentire una deroga alla
disciplina generale in tema di edificazione, i presupposti
che fondano la richiesta di proroga sono espressamente
indicati in norma e sono di stretta interpretazione.
La seconda diade evidenzia come la proroga possa aver luogo
per factum principis, ossia, come afferma la norma, “per
fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del
permesso” o per ragioni collegate alla natura
dell’opera, ossia “esclusivamente in considerazione della
mole dell'opera da realizzare o delle sue particolari
caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti
di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più
esercizi finanziari”
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.03.2014 n. 1013 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’impugnazione della concessione edilizia
rilasciata a terzi decorre dalla piena conoscenza del
provvedimento, coincidente con la effettiva conoscenza degli
elementi essenziali del titolo ad aedificandum, del suo
contenuto specifico o della esistenza ed entità delle
violazioni urbanistiche, tali da far desumere la
consapevolezza della portata lesiva dell’intervento
assentito, senza che possa assumere decisiva rilevanza la
conoscenza di solo alcuni elementi esteriori del
provvedimento stesso.
Questo Consesso sempre sul punto, ha avuto modo altresì di
affermare come in assenza di elementi probatori idonei a far
constare una conoscenza anticipata, il termine
d’impugnazione decorre, di solito, dal completamento dei
lavori ed inoltre la prova della tardività facente carico in
capo a chi la eccepisce deve rivestire carattere rigoroso,
non essendo sufficiente fornire degli elementi indiziari.
Avuto riguardo al termine decadenziale di cui
all’art. 21 u.c. della legge n. 1034/1971, la giurisprudenza
si è consolidata nel ritenere che l’impugnazione della
concessione edilizia rilasciata a terzi decorre dalla piena
conoscenza del provvedimento, coincidente con la effettiva
conoscenza degli elementi essenziali del titolo ad aedificandum, del suo contenuto specifico o della esistenza
ed entità delle violazioni urbanistiche, tali da far
desumere la consapevolezza della portata lesiva
dell’intervento assentito, senza che possa assumere decisiva
rilevanza la conoscenza di solo alcuni elementi esteriori
del provvedimento stesso (Cons. Stato Sez. IV 20.07.2011
n. 4374; idem 23/07/2009 n. 4616).
Questo Consesso sempre sul punto, ha avuto modo altresì di
affermare come in assenza di elementi probatori idonei a far
constare una conoscenza anticipata, il termine
d’impugnazione decorre, di solito, dal completamento dei
lavori (Cons. Stato Sez. IV 10.12.2007 n. 6342) ed
inoltre la prova della tardività facente carico in capo a
chi la eccepisce deve rivestire carattere rigoroso, non
essendo sufficiente fornire degli elementi indiziari (Cons.
Stato sez. IV 18.06.2009 n. 4015)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.03.2014 n. 999 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
scelte espresse dall’Amministrazione nello strumento
urbanistico generale sono connotate da amplissima
discrezionalità e pertanto non necessitano di altra
motivazione se non quella costituita dal riferimento operato
dal Piano ai criteri tecnico- urbanistici seguiti nella sua
redazione e rinvenibili nella relazione di accompagnamento.
Tale discrezionalità, inoltre, è sottratta al sindacato di
legittimità non potendo il Giudice amministrativo
interferire con le scelte riservate all’Amministrazione, se
non nei limiti della verifica della loro manifesta
irragionevolezza o arbitrarietà, dovendo comunque
l’Amministrazione ispirarsi a criteri di ponderazione tra
gli interessi pubblici e privati e di coerenza delle scelte
pianificatorie con la funzione propria della programmazione
urbanistica.
E’ principio consolidato, infatti, che le scelte
espresse dall’Amministrazione nello strumento urbanistico
generale sono connotate da amplissima discrezionalità e
pertanto non necessitano di altra motivazione se non quella
costituita dal riferimento operato dal Piano ai criteri
tecnico- urbanistici seguiti nella sua redazione e
rinvenibili nella relazione di accompagnamento (Cons. Stato,
Sez. IV, 08.06.2011, n. 3497; 18.01.2011 n. 352; 09.12.2010 n. 8682).
Tale discrezionalità, inoltre, è sottratta al sindacato di
legittimità non potendo il Giudice amministrativo
interferire con le scelte riservate all’Amministrazione, se
non nei limiti della verifica della loro manifesta
irragionevolezza o arbitrarietà, dovendo comunque
l’Amministrazione ispirarsi a criteri di ponderazione tra
gli interessi pubblici e privati e di coerenza delle scelte
pianificatorie con la funzione propria della programmazione
urbanistica (Cons. Stato, Sez. IV, 27.07.2011, n. 4505;
09.07.2002, n. 3817; 06.02.2002, n. 664)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 04.03.2014 n. 701 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente
all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce
l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento e,
quindi, improcedibile l'impugnazione stessa, per
sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il riesame
dell'abusività dell'opera provocato da detta istanza,
comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento,
esplicito o implicito (di rigetto o di accoglimento), che
vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio
oggetto dell'impugnativa.
Secondo l’orientamento consolidato della
giurisprudenza anche di questo Tribunale, la presentazione
dell'istanza di sanatoria successivamente all'impugnazione
dell'ordinanza di demolizione produce l'effetto di rendere
inefficace tale provvedimento e, quindi, improcedibile
l'impugnazione stessa, per sopravvenuta carenza di
interesse, in quanto il riesame dell'abusività dell'opera
provocato da detta istanza, comporta la necessaria
formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito
(di rigetto o di accoglimento), che vale comunque a superare
il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 04.03.2014 n. 697 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: Canna fumaria, limiti solo dal regolamento.
Condominio. Solo l'accordo contrattuale può stabilire
divieti all'uso delle parti comuni che non siano previsti
dal Codice civile.
Quando si
tratta di installare una nuova canna fumaria (in genere per
esercizi pubblici di ristorazione) occorre fare i conti con
i divieti imposti dal regolamento di condominio e con le
caratteristiche minime di funzionalità e di efficienza
fissati da ponderose normative di sicurezza e di igiene.
Superati tutti questi ostacoli, spesso scatta l'opposizione
del vicino che lamenta la violazione delle distanze legali e
invoca il proprio diritto di condomino.
La materia era stata perfettamente illustrata dalla
giurisprudenza dei nostri Tribunali, in particolare dal
Tribunale di Milano (sentenza dell'08.02.2013) che
hanno dettato princìpi condivisi dalla Corte di Cassazione,
Sez. II civile,
con la recentissima
sentenza
03.03.2014 n. 4936.
Appunto la sentenza della Corte di Cassazione permette di
fornire un chiaro vademecum.
In primo luogo, è stato ribadito che le canne fumarie non
hanno natura di costruzione e quindi non sono soggette alle
precisa distanza legale di cui all'articolo 907 del Codice
civile (tre metri dal fondo del vicino).
L'indicazione è puntuale e merita di essere ribadita, per
evitare inutili contenziosi: in materia di canne fumarie, si
possono individuare ed invocare le norme richiamate più
avanti ma non può invocarsi il rispetto della distanza di
tre metri che riguarda le vere e proprie costruzioni
suscettibili di determinare intercapedine e non i semplici
impianti tecnologici, accessori di unità immobiliari.
In secondo luogo, è stato ribadito che l'installazione di
una canna fumaria lungo il muro perimetrale di un edificio
condominiale non è in contrasto con la natura del muro
comune e quindi può essere attuata dal singolo condomino,
purché nel rispetto dell'articolo 1102 del Codice civile,
per il quale il nuovo manufatto deve rispettare il decoro
architettonico dell'edificio e non violare il pari diritto
degli altri condòmini ad usare la parete comune. E deve
superare la doverosa comparazione tra i diritti chiamati in
discorso (bilanciamento degli interessi).
Da ultimo, poiché la canna fumaria comporta anche emissioni
di fumi o di vapori, occorrerà avere attenzione per la
salubrità e per l'eliminazione di odori.
Succinto è il compendio finale: non entra in discorso una
distanze legale fissa ma la disciplina che i condomini si
siano data in virtù del regolamento contrattuale.
In difetto di regolamento contrattuale la canna fumaria può
dirsi illegittima soltanto se viola apprezzabilmente i
diritti degli altri partecipanti al condominio al decoro
architettonico ed alla salubrità (articolo Il Sole 24 Ore del 04.03.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli interventi
consistenti nell’istallazione di tettoie o altre strutture
analoghe che siano comunque apposte a parti di preesistenti
edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo
di spazi liberi –cioè non compresi entro coperture
volumetriche previste in un progetto assentito– possono
ritenersi sottratti al regime del permesso di costruire
soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte
dimensioni ne rendano evidente e riconoscibile la finalità
di arredo o di riparo e protezione dell’immobile cui
accedono, mentre non possono ritenersi installabili senza
permesso di costruire allorquando le dimensioni siano di
entità tale da arrecare una visibile alterazione
all’edificio o alle parti dello stesso su cui vengono
inserite, in particolare quando ne modifichino in modo
significativo il prospetto o la sagoma e non possano quindi
considerarsi le relative opere come mere pertinenze
dell’immobile preesistente.
---------------
Una tettoia per le rilevanti dimensioni (mq. 29) e
l’oggettiva capacità di variare il prospetto dell’edificio
del ricorrente è assoggettata al regime del permesso di
costruire e quindi correttamente è stata interessata da un
provvedimento repressivo di demolizione per l’assenza di
titolo edilizio.
... per l'annullamento:
- dell’ordinanza dirigenziale n. 15 del 21.11.2013,
con cui il Comune di Cento - Settore Lavori pubblici ed
Assetto del territorio ha ingiunto al ricorrente la
rimozione della tettoia di mq. 29.16 ubicata nell’immobile
distinto in catasto al fg. 49 mapp. 2219 sub. 6 (in Via De
Curtis n. 30);
- del provvedimento del Comune di Cento prot. n. 40609 del
20.09.2013, relativo al rigetto della domanda di
sanatoria presentata dal ricorrente in ordine alla
suindicata tettoia.
...
-
Ritenuto che, per un consolidato orientamento
giurisprudenziale (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI,
05.08.2013 n. 4086 e 18.12.2012 n. 6493; TAR
Campania, Napoli, Sez. VI, 04.12.2013 n. 5519) da cui
il Collegio non ha motivo di discostarsi, gli interventi
consistenti nell’istallazione di tettoie o altre strutture
analoghe che siano comunque apposte a parti di preesistenti
edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo
di spazi liberi –cioè non compresi entro coperture
volumetriche previste in un progetto assentito– possono
ritenersi sottratti al regime del permesso di costruire
soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte
dimensioni ne rendano evidente e riconoscibile la finalità
di arredo o di riparo e protezione dell’immobile cui
accedono, mentre non possono ritenersi installabili senza
permesso di costruire allorquando le dimensioni siano di
entità tale da arrecare una visibile alterazione
all’edificio o alle parti dello stesso su cui vengono
inserite, in particolare quando ne modifichino in modo
significativo il prospetto o la sagoma e non possano quindi
considerarsi le relative opere come mere pertinenze
dell’immobile preesistente;
-
che la tettoia in questione, per le rilevanti dimensioni
(mq. 29) e l’oggettiva capacità di variare il prospetto
dell’edificio del ricorrente (come si evince
inequivocabilmente dagli atti di causa), era assoggettata al
regime del permesso di costruire e quindi correttamente è
stata interessata da un provvedimento repressivo di
demolizione per l’assenza di titolo edilizio;
- che non rilevava, poi, l’astratta possibilità di una
riduzione dell’estensione della tettoia per ricondurla entro
il limite di distanza di cinque metri dalla strada
(condizione per la sanatoria dell’abuso), in quanto
l’Amministrazione è in simili casi tenuta unicamente ad
accertare la regolarità urbanistico/edilizia del manufatto
in ragione delle sue effettive ed attuali caratteristiche,
indipendentemente dalle soluzioni alternative di cui dispone
il privato per usufruire di analoghe utilità attraverso
opere compatibili con la disciplina di settore
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 28.02.2014 n. 233 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' notorio che vale in
materia il principio dell’inesauribilità del potere
amministrativo di vigilanza e controllo e della
sanzionabilità del comportamento illecito dei privati,
qualunque sia l’entità dell’infrazione e il lasso temporale
trascorso, e ciò in ragione dell’inconfigurabilità di un
affidamento alla conservazione della situazione di fatto
abusiva in forza di una legittimazione fondata unicamente
sul tempo.
---------------
Il carattere vincolato del potere repressivo degli abusi
edilizi si oppone a che la mancata partecipazione del
privato infici la legittimità dell’atto finale.
-
che neppure si rendeva necessaria una motivazione legata
alla circostanza che l’abuso fosse stato commesso quattro
anni prima e che il privato confidasse oramai da tempo nella
regolarità edilizia del manufatto, essendo notorio che vale
in materia il principio dell’inesauribilità del potere
amministrativo di vigilanza e controllo e della
sanzionabilità del comportamento illecito dei privati,
qualunque sia l’entità dell’infrazione e il lasso temporale
trascorso, e ciò in ragione dell’inconfigurabilità di un
affidamento alla conservazione della situazione di fatto
abusiva in forza di una legittimazione fondata unicamente
sul tempo (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. IV, 04.05.2012 n. 2592);
-
che quanto, infine, a presunte carenze della fase di
comunicazione di avvio del procedimento, appare sufficiente
rilevare che il carattere vincolato del potere repressivo
degli abusi edilizi si oppone a che la mancata
partecipazione del privato infici la legittimità dell’atto
finale (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI,
05.08.2013 n. 4075)
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 28.02.2014 n. 233 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza civile
e amministrativa, pronunciandosi in relazione a fattispecie
analoghe a quella ora all'esame, ha costantemente affermato
che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la
controversia avente ad oggetto la richiesta di pagamento del
canone dovuto per l'occupazione abusiva di un'area
demaniale, trattandosi di questione che investe nella
sostanza la quantificazione dell'indennizzo preteso dalla
p.a. per l'occupazione sine titulo del bene.
Il ricorso è inammissibile per difetto di
giurisdizione del giudice adito.
La domanda ha, infatti, per oggetto la contestazione della
ingiunzione di pagamento di somme di denaro richieste dalla
Agenzia del Demanio sul presupposto della occupazione
abusiva di un terreno demaniale.
Come da ultimo ricordato da TAR Puglia-Bari Sez. II, 28.03.2013, n. 442 “la giurisprudenza civile e
amministrativa, pronunciandosi in relazione a fattispecie
analoghe a quella ora all'esame, ha costantemente affermato
che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la
controversia avente ad oggetto -come nel caso concreto- la
richiesta di pagamento del canone dovuto per l'occupazione
abusiva di un'area demaniale, trattandosi di questione che
investe nella sostanza la quantificazione dell'indennizzo
preteso dalla p.a. per l'occupazione sine titulo del bene
(Cass. SS.UU., 31.07.2008, n. 20749, Consiglio di Stato,
Sez. IV, 12.06.2012 n. 3456; Sez. VI, 06.02.2010 n.
874; Sez. VI, 19.03.2008, n. 1185; TAR Lazio, Roma,
Sez. II, 09.06.2008, n. 5705; TAR Abruzzo, Pescara,
Sez. I, 16.12.2008 n. 1045; TAR Basilicata, 16.05.2008, n. 206; TAR Sicilia, Catania, Sez. III,
14.05.2008 n. 901; TAR Liguria, Sez. I, 21.04.2008, n. 651)”
(TAR Molise,
sentenza 28.02.2014 n. 143 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 24, comma secondo,
del D.P.R. n. 380/2001 dispone che la mancata presentazione
della domanda di agibilità, entro 15 giorni dall’ultimazione
dei lavori, da parte di un soggetto titolare di permesso di
costruire o d.i.a., comporta l’applicazione di una sanzione
pecuniaria (non già il divieto di utilizzo dell’immobile).
Invero, la citata normativa di cui all’art. 24, comma
secondo, non include tutti gli interventi edilizi tra quelli
assoggettati alla certificazione di agibilità. L’obbligo,
semmai, vige per le nuove costruzioni, le ricostruzioni, le
sopraelevazioni totali o parziali e gli interventi che
possano influire sulle condizioni di sicurezza, salubrità o
igienicità degli edifici.
Nel caso di specie, si è trattato di una semplice
ristrutturazione (sistemazione del tetto e dei solai,
tinteggiatura, infissi, ordinaria manutenzione), senza
modifica della sagoma, né aumento di superfici o di
cubature, talché esso non sembrerebbe rientrare nel novero
di quelli soggetti a certificazione di agibilità o
abitabilità, a meno che non si affermi –ma il provvedimento
impugnato non lo fa– che detto intervento di risanamento
abbia, in qualche modo, peggiorato o diminuito le condizioni
di sicurezza, salubrità e igienicità dell’edificio.
E’ evidente che una simile affermazione non sarebbe
plausibile, in assenza di una perizia tecnica che
dimostrasse l’inadeguatezza dell’intervento risanativo,
ovvero il carattere peggiorativo di esso.
---------------
Ai sensi dell'art. 24, comma primo, del D.P.R. 06.06.2001,
n. 380, il certificato di agibilità attesta la sussistenza
delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità. Si tratta
di un provvedimento che reca in sé un accertamento e fa
propria l'integrale conformità delle opere realizzate al
progetto approvato. La mancanza di esso non pregiudica, né
condiziona il potere comunale di dichiarazione di
inagibilità di un edificio, ai sensi dell'art. 222 del R.D.
27.07.1934 n. 1265, quando siano stati tecnicamente
riscontrati problemi di sicurezza o di igienicità.
E’ del tutto inappropriato, tuttavia, ordinare un implicito
sgombero dell’edificio, come fa il provvedimento impugnato,
allorché diffida <<a non utilizzare l’immobile sopra
descritto privo del regolare certificato di agibilità>>,
senza che vi sia stato un concreto accertamento tecnico
sulla sicurezza o sulla igienicità dell’edificio.
... per l'annullamento dei seguenti atti: 1) la nota prot.
n. 0024629 datata 02.10.2008, con la quale il dirigente della
Ripartizione Urbanistica del Comune di Campobasso, ha
diffidato la ricorrente <<a non utilizzare l’immobile sopra
descritto privo del regolare certificato di agibilità>>;
...
Il ricorso è fondato.
La ricorrente, proprietaria di una abitazione nel
centro storico di Campobasso, avendo realizzato alcuni
lavori di ristrutturazione dell’immobile (previa la
concessione edilizia n. 97/2002, nonché la d.i.a prot. n.
3058 del 12.06.2006), insorge per impugnare la nota datata
02.10.2008, con la quale il dirigente della Ripartizione
Urbanistica del Comune di Campobasso, l’ha diffidata <<a non
utilizzare l’immobile sopra descritto privo del regolare
certificato di agibilità>>.
La nota, invero, richiama l’art.
24, comma secondo, del D.P.R. n. 380/2001 (Testo unico
dell’edilizia), a tenore del quale la mancata presentazione
della domanda di agibilità, entro 15 giorni dall’ultimazione
dei lavori, da parte di un soggetto titolare di permesso di
costruire o d.i.a., comporterebbe l’applicazione di una
sanzione pecuniaria (non già il divieto di utilizzo
dell’immobile).
Invero, la citata normativa di cui all’art. 24, comma
secondo, non include tutti gli interventi edilizi tra quelli
assoggettati alla certificazione di agibilità. L’obbligo,
semmai, vige per le nuove costruzioni, le ricostruzioni, le
sopraelevazioni totali o parziali e gli interventi che
possano influire sulle condizioni di sicurezza, salubrità o
igienicità degli edifici.
Nel caso di specie, si è trattato
di una semplice ristrutturazione (sistemazione del tetto e
dei solai, tinteggiatura, infissi, ordinaria manutenzione),
senza modifica della sagoma, né aumento di superfici o di
cubature, talché esso non sembrerebbe rientrare nel novero
di quelli soggetti a certificazione di agibilità o
abitabilità, a meno che non si affermi –ma il provvedimento
impugnato non lo fa– che detto intervento di risanamento
abbia, in qualche modo, peggiorato o diminuito le condizioni
di sicurezza, salubrità e igienicità dell’edificio. E’
evidente che una simile affermazione non sarebbe plausibile,
in assenza di una perizia tecnica che dimostrasse
l’inadeguatezza dell’intervento risanativo, ovvero il
carattere peggiorativo di esso.
Ai sensi dell'art. 24, comma primo, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, il certificato di agibilità attesta la
sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene,
salubrità. Si tratta di un provvedimento che reca in sé un
accertamento e fa propria l'integrale conformità delle opere
realizzate al progetto approvato. La mancanza di esso non
pregiudica, né condiziona il potere comunale di
dichiarazione di inagibilità di un edificio, ai sensi
dell'art. 222 del R.D. 27.07.1934 n. 1265, quando siano
stati tecnicamente riscontrati problemi di sicurezza o di
igienicità (cfr.: Tar Campania Salerno I, 07.01.2013 n.
21). E’ del tutto inappropriato, tuttavia, ordinare un
implicito sgombero dell’edificio, come fa il provvedimento
impugnato, allorché diffida <<a non utilizzare l’immobile
sopra descritto privo del regolare certificato di
agibilità>>, senza che vi sia stato un concreto accertamento
tecnico sulla sicurezza o sulla igienicità dell’edificio.
I motivi del ricorso sono, dunque, attendibili.
E’ rilevabile, nella specie, la violazione della normativa
di cui alla legge n. 241/1990, sotto il profilo del mancato
preavviso, della carenza di istruttoria e del difetto di
motivazione. E’ evidente, altresì, per le ragioni
illustrate, il travisamento nell’applicazione dell’art. 24,
comma secondo, del D.P.R. n. 380/2001, nonché l’eccesso di
potere per errore nei presupposti
(TAR Molise,
sentenza 28.02.2014 n. 134 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le norme sulle distante sono applicabili anche
tra i condomini di un edificio condominiale, purché siano
compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose
comuni, cioè quando l’applicazione di quest’ultima non sia
in contrasto con le prime; nell’ipotesi di contrasto, la
prevalenza della norma speciale in materia di condominio
determina l’inapplicabilità della disciplina generale sulle
distante che, nel condominio degli edifici e nei rapporti
tra singolo condomino e condominio, è in rapporto di
subordinazione rispetto alla prima.
Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di
cui all’art. 1102 cod. civ., deve ritenersi legittima
l’opera realizzata anche senza il rispetto delle norme
dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue,
sempre che venga rispettata la struttura dell’edificio
condominiale.
1.2 Col secondo motivo di ricorso si deduce: “Error in
iudicando; violazione e falsa applicazione dell’art. 873
c.c. e dell’art. 5.9 delle N.T.A. del PRG del Comune di
Teramo; violazione dell’art. 360 n. 3 c.c.”.
La Corte di Appello erronemente ha ritenuto che “il
manufatto, oltre a risultare difforme dalla concessione
edilizia, si pone in contrasto con la disposizione
regolamentare, integrativa del regime codicistico,
prevedente la distanza minima dai confini di m 5,00”. Si
tratta di violazione amministrativa che nessun rilievo ha
nel rapporto tra privati. Inoltre, osserva la ricorrente che
“l’irregolarità dal punto di vista urbanistico non
sussiste dal momento che la V. si è avvalsa della facoltà
concessa dall’art. 12 L. 47/1985 provvedendo al pagamento
della prescritta sanzione pecuniaria come risulta dalla
documentazione prodotta (doc. n. 9 del fascicolo di 1^
grado). V. , la costruzione è stata ritenuta compatibile con
la normativa sismica giusta certificato rilasciato in tal
senso dal servilo del Genio Civile di Teramo”.
E, inoltre, secondo la ricorrente, non configurabile “la
prospettata violazione dettati. 873 e. e. ove si consideri
che il regime normativo tracciato dal codice non prevede
distante dai confini”. L’autorizzazione accordata dai
condomini tutti “risulta espressa nei seguenti termini:
‘l’assemblea, all’unanimità, autorizza in deroga a quanto
stabilito dall’art. 6 del regolamento di condominio la
Sig.ra V.F. a realizzare il vano sull’area che la stessa ha
in uso esclusivo. Detto vano, adiacente l’attuale cucina
avrà una superficie coperta di circa mq. 15 e dovrà essere
realizzata a perfetta regola d’arte in maniera tale da non
creare danni alle strutture condominiali”.
I limiti posti all’attività edilizia della V. erano “circoscritti,
da un lato, alla corretta esecuzione dell’opera e,
dall’altro, al mancato pregiudizio all’edificio condominiale”.
Stante l’intervenuto provvedimento di sanatoria, la
costruzione autorizzata non era vincolata al rispetto di
altri parametri e, in particolare, all’osservanza della
distanza dal confine stradale. “Il condominio D.A. non
poteva, infatti, censurare l’opera realizzata dalla V. per
violazione della distanza minima dai confini di m. 5,00 dal
momento che egli stesso aveva consentito la costruzione del
manufatto a distanza inferiore a quella prescritta dalla
normativa regolamentare integrativa del Codice Civile”.
Viene formulato il seguente quesito: “Dica il Supremo
Collegio se la distanza prescritta per la costruzione dal
confine dalla norma regolamentare (NTA del PRG) possa essere
fatta valere anche a seguito di una autorizzazione accordata
dal condominio alla realizzarne di un manufatto a distanza
non regolamentare”.
...
2.2 Il secondo motivo è in parte inammissibile e in parte
infondato. Si denuncia la violazione dell’art. 873 cod. civ.
e 5.9 delle n.ta. del P.R.G.. Si assume la legittimità
dell’opera perché: 1) autorizzata dal condominio e dallo
stesso condomino D.A.; 2) condonata; 3) rispettosa della
normativa sismica; 4) l’art. 873 cod. civ. non disciplina le
distanze dal confine ma quelle tra fabbricati.
Il motivo propone correttamente la questione relativa al
rispetto delle distanze all’interno di un condominio, in
relazione al condiviso principio di diritto, affermato da
questa Corte anche di recente con la sentenza n. 6546 del
18/03/2010, secondo la quale “Le norme sulle distante
sono applicabili anche tra i condomini di un edificio
condominiale, purché siano compatibili con la disciplina
particolare relativa alle cose comuni, cioè quando
l’applicazione di quest’ultima non sia in contrasto con le
prime; nell’ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma
speciale in materia di condominio determina
l’inapplicabilità della disciplina generale sulle distante
che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo
condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione
rispetto alla prima. Pertanto, ove il giudice constati il
rispetto dei limiti di cui all’art. 1102 cod. civ., deve
ritenersi legittima l’opera realizzata anche senza il
rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra
proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura
dell’edificio condominiale”.
Peraltro il motivo, così come proposto, non supera il
rilievo dell’apparente novità delle questioni sia quanto
all’esistenza di una delibera autorizzativa (di cui il
motivo precedente) e sia quanto all’esplicito consenso dato
dagli originali attori alla realizzazione dell’opera.
Occorre osservare ulteriormente che, in base alla
concessione, la costruzione avrebbe dovuto essere realizzata
completamente interrata e vi è da supporre che la delibera
condominiale fosse in tal senso. Il motivo, quindi, è
carente di specificità quanto al contenuto della delibera
richiamata, risultando poi manifestamente infondata la
questione relativa all’interpretazione dell’art. 873 c.c. (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 27.02.2014 n. 4741 -
link a http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del
2001, articolo 3, comma 1, lettera e, n. 5), le roulotte e
le case mobili rientrano tra i manufatti leggeri,
prefabbricati, per la cui installazione è necessario il
preventivo ottenimento del permesso di costruire se
utilizzati come abitazioni, e non dirette a soddisfare
esigenze meramente temporanee.
1. Il ricorso –articolato in un unico motivo con cui il
ricorrente contesta i presupposti del reato di lottizzazione
abusiva– è infondato.
2. Correttamente sia il g.i.p. che il tribunale hanno
ritenuto che le 51 unità abitative realizzate e le opere di
urbanizzazione poste in essere sul terreno in questione
configurano una lottizzazione materiale, posto che il
Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001,
articolo 3, comma 1, lettera e, n. 5), qualifica come “nuove
costruzioni” le strutture abitative mobili se idonee a
trasformare in modo durevole il territorio.
Va sottolineato che, per giurisprudenza della Suprema Corte
(Cass., Sez. 3, 20.04.2011-20.05.2011, n. 20006; Cass., sez.
3, 26.04.2007–22.05.2007, n. 19732), il reato di
lottizzazione abusiva è reato permanente e che la permanenza
cessa con l’ultimazione della condotta lottizzatoria, ovvero
con la ultimazione dell’attività giuridica o materiale volta
alla trasformazione del territorio, individuabile
quest’ultima nella ultimazione delle opere abusive costruite
nei lotti.
Nella specie le ultime installazioni delle case mobili sono
state poste in essere dopo il 07.01.2013.
E’ vero che la Legge 23.07.2009, n. 99, articolo 3, comma 9,
escludeva che le installazioni ed i rimessaggi di mezzi
mobili di pernottamento entro il perimetro di strutture
turistico–ricettive regolarmente autorizzate, anche se
collocativi permanentemente per l’esercizio dell’attività,
purché ottemperanti alle specifiche condizioni strutturali e
di mobilità stabilite dagli ordinamenti regionali,
costituissero attività rilevanti ai fini urbanistici,
edilizi e paesaggistici. Ma con sentenza n. 278 del 2010 la
Corte Costituzionale ne ha dichiarato l’incostituzionalità.
Ha osservato la Corte che la citata disposizione ha
introdotto una disciplina che si risolve in una normativa
dettagliata e specifica che non lascia alcuno spazio al
legislatore regionale. La Corte ha ricordato che la
normativa statale sancisce, all’opposto, il principio per
cui ogni trasformazione permanente del territorio necessita
di titolo abilitativo e ciò anche ove si tratti di strutture
mobili allorché esse non abbiano carattere precario.
Rimane quindi che ai sensi del Decreto del Presidente della
Repubblica n. 380 del 2001, articolo 3, comma 1, lettera e,
n. 5), le roulotte e le case mobili rientrano tra i
manufatti leggeri, prefabbricati, per la cui installazione è
necessario il preventivo ottenimento del permesso di
costruire se utilizzati come abitazioni, e non dirette a
soddisfare esigenze meramente temporanee.
Né al ricorrente giova, da ultimo, il Decreto Legge
21.06.2013, n. 69, articolo 41, comma 4, conv. in Legge
08.08.2013, n. 98, che ha escluso dalla nozione di “interventi
di nuova costruzione” i manufatti leggeri, anche
prefabbricati, destinati a soddisfare esigenze meramente
temporanee, ancorché installati con ancoraggio al suolo,
purché “temporaneo”. Nella specie infatti la
tipologia dei manufatti realizzati dal ricorrente (bungalows
con le caratteristiche sopra descritte) non depone affatto
per la temporaneità della realizzazione; temporaneità che
implica il montaggio e la rimozione del manufatto allorché
le esigenze appunto temporanee –nella specie legate alla
durata della stagione turistica– siano cessate.
3. Pertanto il ricorso va rigettato con conseguente condanna
del ricorrente al pagamento delle spese processuali (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.02.2014 n. 9268 - link a http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il vincolo archeologico non comporta ex se
inedificabilità di tipo assoluto “riguardando soltanto le
costruzioni che in qualsiasi modo snaturano o comunque
danneggiano i reperti fissi al suolo o affioranti e non
potendo trovare applicazione per tutte quelle altre
costruzioni che non determinano siffatto pregiudizio, con la
conseguenza che, una volta ottenuto l'approvazione ex art.
18, l. 01.06.1939 n. 1089, gli aventi diritto sull'immobile
sono in grado di eseguire opere, a meno che, in concreto,
l'interesse archeologico, lungi dal rimanere circoscritto ad
alcuni resti presenti nell'area, si correli al luogo nel suo
complesso, quale sede di una pluralità di reperti tale da
testimoniare uno specifico assetto storico di insediamento”.
---------------
Detti princìpi devono invero applicarsi anche in sede di
condono, come ritenuto dal Consiglio di Stato, secondo cui
“il vincolo archeologico posto sull'area in esame non ne
comporta l'inedificabilità assoluta, ma l'obbligo di
verificare, da parte dell'Amministrazione preposta alla
tutela del vincolo stesso, la compatibilità dell'intervento
edilizio con le ragioni di tutela. Come questo Consiglio di
Stato ha già osservato, infatti, la valutazione di
compatibilità non muta in relazione al fatto che l'opera sia
stata realizzata o meno: l'autorità preposta alla tutela del
vincolo deve in ogni caso verificare se quel determinato
tipo di intervento sia o meno compatibile con il vincolo. Il
giudizio circa tale compatibilità non è in alcun modo
influenzato dal fatto che l'opera sia stata, o meno,
realizzata: o l'intervento è compatibile con il vincolo ed
allora lo era sia prima che dopo la realizzazione, o non lo
è ed allora l'autorizzazione postuma non può essere
rilasciata, non già perché non chiesta in precedenza, ma
perché non poteva essere rilasciata anche se richiesta
tempestivamente”.
Ed invero, come già rilevato
in sede cautelare, il vincolo archeologico non comporta ex
se inedificabilità di tipo assoluto “riguardando soltanto le
costruzioni che in qualsiasi modo snaturano o comunque
danneggiano i reperti fissi al suolo o affioranti e non
potendo trovare applicazione per tutte quelle altre
costruzioni che non determinano siffatto pregiudizio, con la
conseguenza che, una volta ottenuto l'approvazione ex art.
18, l. 01.06.1939 n. 1089, gli aventi diritto
sull'immobile sono in grado di eseguire opere, a meno che,
in concreto, l'interesse archeologico, lungi dal rimanere
circoscritto ad alcuni resti presenti nell'area, si correli
al luogo nel suo complesso, quale sede di una pluralità di
reperti tale da testimoniare uno specifico assetto storico
di insediamento” (TAR Torino Piemonte sez. I, 07.07.2009, n. 1998).
Detti princìpi devono invero applicarsi anche in
sede di condono, come ritenuto dal Consiglio di Stato (cfr.
sent. sez. VI, 30.11.2011, n. 6323, secondo cui “il
vincolo archeologico posto sull'area in esame non ne
comporta l'inedificabilità assoluta, ma l'obbligo di
verificare, da parte dell'Amministrazione preposta alla
tutela del vincolo stesso, la compatibilità dell'intervento
edilizio con le ragioni di tutela. Come questo Consiglio di
Stato ha già osservato, infatti, la valutazione di
compatibilità non muta in relazione al fatto che l'opera sia
stata realizzata o meno: l'autorità preposta alla tutela del
vincolo deve in ogni caso verificare se quel determinato
tipo di intervento sia o meno compatibile con il vincolo.
Il giudizio circa tale compatibilità non è in alcun modo
influenzato dal fatto che l'opera sia stata, o meno,
realizzata: o l'intervento è compatibile con il vincolo ed
allora lo era sia prima che dopo la realizzazione, o non lo
è ed allora l'autorizzazione postuma non può essere
rilasciata, non già perché non chiesta in precedenza, ma
perché non poteva essere rilasciata anche se richiesta
tempestivamente (Con. Stato, sez. VI, 06.11.2000, n. 6130)”
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 25.02.2014 n.
1174 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'acquisizione gratuita
dell'area non è una misura strumentale, per consentire al
Comune di eseguire la demolizione, né una sanzione
accessoria di questa, ma costituisce una sanzione autonoma
che consegue all'inottemperanza all'ingiunzione, abilitando
l'Amministrazione ad una scelta fra la demolizione d'ufficio
e la conservazione del bene, definitivamente già acquisito,
in presenza di prevalenti interessi pubblici, vale a dire
per la destinazione a fini pubblici, e sempre che l'opera
non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o
ambientali.
Ne discende che, essendo l'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale una sanzione prevista per l'ipotesi di
inottemperanza all'ingiunzione di demolizione, essa si
riferisce esclusivamente al responsabile dell'abuso non
potendo operare nella sfera giuridica di altri soggetti e,
in particolare, nei confronti del proprietario dell'area
quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa
estraneità al compimento dell'opera abusiva ovvero emerga
che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato
per impedirlo con gli strumenti offerti dall'ordinamento.
Altresì, al fine di configurare la responsabilità del
proprietario di un'area per la realizzazione di una
costruzione abusiva è necessaria la sussistenza di elementi
in base ai quali possa ragionevolmente presumersi che questi
abbia concorso, anche solo moralmente, con il committente o
l'esecutore dei lavori, tenendo conto della piena
disponibilità giuridica e di fatto del suolo e
dell'interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione,
così come dei rapporti di parentela o affinità tra
responsabile e proprietario, della sua eventuale presenza in
loco, dello svolgimento di attività di vigilanza
dell'esecuzione dei lavori, del regime patrimoniale dei
coniugi, ovvero di tutte quelle situazioni e comportamenti
positivi o negativi dai quali possano trarsi elementi
integrativi della colpa.
... per l'annullamento del provvedimento prot. n. 20387
pratica n. 1003/AB del 21.11.2012 di acquisizione gratuita
al patrimonio del Comune di Sant’Agnello: a) dell’ulteriore
area rispetto a quella di sedime del manufatto abusivo, come
di seguito descritta: ditta intestataria R.E., foglio
n. 6 particella n. 451 consistenza mq. 416,57; b) della
comproprietà pari ad ½ (un mezzo) della quota di proprietà
della sig.ra R.E. del viale pedonale, individuato in
catasto terreni al foglio n. 6; particella di mq. 152,00,
intestata alle germane R.E., G., M.R. e
M.T., di accesso all’immobile acquisito.
...
La censura è fondata e meritevole di accoglimento.
La Corte Costituzionale (cfr. sentenza n. 345 del
15.07.1991) ha precisato che l'acquisizione gratuita
dell'area non è una misura strumentale, per consentire al
Comune di eseguire la demolizione, né una sanzione
accessoria di questa, ma costituisce una sanzione autonoma
che consegue all'inottemperanza all'ingiunzione, abilitando
l'Amministrazione ad una scelta fra la demolizione d'ufficio
e la conservazione del bene, definitivamente già acquisito,
in presenza di prevalenti interessi pubblici, vale a dire
per la destinazione a fini pubblici, e sempre che l'opera
non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o
ambientali.
Ne discende che, essendo l'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale una sanzione prevista per l'ipotesi di
inottemperanza all'ingiunzione di demolizione, essa si
riferisce esclusivamente al responsabile dell'abuso non
potendo operare nella sfera giuridica di altri soggetti e,
in particolare, nei confronti del proprietario dell'area
quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa
estraneità al compimento dell'opera abusiva ovvero emerga
che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato
per impedirlo con gli strumenti offerti dall'ordinamento.
La Corte di Cassazione ha, inoltre, affermato che al
fine di configurare la responsabilità del proprietario di
un'area per la realizzazione di una costruzione abusiva è
necessaria la sussistenza di elementi in base ai quali possa
ragionevolmente presumersi che questi abbia concorso, anche
solo moralmente, con il committente o l'esecutore dei
lavori, tenendo conto della piena disponibilità giuridica e
di fatto del suolo e dell'interesse specifico ad effettuare
la nuova costruzione, così come dei rapporti di parentela o
affinità tra responsabile e proprietario, della sua
eventuale presenza in loco, dello svolgimento di attività di
vigilanza dell'esecuzione dei lavori, del regime
patrimoniale dei coniugi, ovvero di tutte quelle situazioni
e comportamenti positivi o negativi dai quali possano trarsi
elementi integrativi della colpa (cfr. Cassazione penale,
sez. III, 12.04.2005, n. 26121)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 25.02.2014 n.
1165 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Deve escludersi che la
P.A. sia tenuta ad indicare già nel provvedimento
demolitorio la superficie dell'area da acquisire in caso di
mancanza di spontaneo adempimento ad esso, essendo
sufficiente, invece, la sola mera indicazione delle
conseguenze della mancata demolizione.
Passando all’esame delle censure di
illegittimità per vizi propri il Collegio ritiene infondato
e da disattendere il primo motivo con il quale i ricorrenti
si dolgono della violazione dell’art. 31 del D.P.R. 380/2001
e dell’eccesso di potere per inesistenza dei presupposti in
fatto e in diritto poiché l’ordinanza demolitoria
presupposta non conterrebbe l’indicazione esatta dei beni da
acquisire.
E, infatti, come affermato anche in recenti sentenze
della Sezione, deve escludersi che “la P.A. sia tenuta ad
indicare già nel provvedimento demolitorio la superficie
dell'area da acquisire in caso di mancanza di spontaneo
adempimento ad esso, essendo sufficiente, invece, la sola
mera indicazione delle conseguenze della mancata demolizione
(cfr. TAR Lombardia-Brescia n. 4561 del 05.11.2010;
TAR Campania-Salerno n. 5301 del 30.04.2010; TAR Veneto
n. 1725 del 10.6.2009; TAR Emilia Romagna-Parma n. 61 del
10.03.2009)” (cfr. in termini TAR Campania, Napoli, VII,
27.05.2013, n. 2761).
Il Collegio rileva, inoltre che una simile questione
avrebbe, comunque, dovuto essere sollevata con apposita
impugnazione della presupposta ordinanza di demolizione (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 25.02.2014 n.
1164 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In pendenza di procedimento di condono, gli unici
interventi edilizi consentiti sul manufatto sono quelli
diretti a garantirne l'integrità e la conservazione.
E del resto la costante giurisprudenza,
condivisa dal Collegio, ha affermato che, in pendenza di
procedimento di condono, gli unici interventi edilizi
consentiti sul manufatto sono quelli diretti a garantirne
l'integrità e la conservazione (cfr. TAR Campania, Napoli, II, 20.02.2013, n. 919; TAR Lazio, Latina, 29.06.2011, n.
572)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 25.02.2014 n.
1163 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La semplice indicazione
di una strada nell'elenco delle strade comunali (o vicinali)
non è sufficiente al fine di accertarne la natura pubblica,
atteso che tali elenchi hanno natura dichiarativa e non
costitutiva.
---------------
La sussistenza dei presupposti necessari per poter
qualificare ad uso pubblico una strada sono:
a) il passaggio esercitato iuris servitutis publicae da una
collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad un
gruppo territoriale;
b) la concreta idoneità della strada, anche per il
collegamento con la via pubblica, a soddisfare esigenze di
interesse generale;
c) un titolo valido a sorreggere l'affermazione di uso
pubblico.
Nemmeno, poi, risulta decisiva in
contrario l’affermazione secondo cui “il tratto di strada
denominata via Lamma, con inizio da piazza Matteotti e fine
alla via Incoronata, è di proprietà comunale ed è
inventariata nei beni demaniali di cui all’allegato C al n.
54, come riportato nella deliberazione di C.C. n. 9/1965”,
in quanto la semplice indicazione di una strada nell'elenco
delle strade comunali (o vicinali) non è sufficiente al fine
di accertarne la natura pubblica, atteso che tali elenchi
hanno natura dichiarativa e non costitutiva (cfr. Cass. SS.UU. n. 1624 del 27.01.2010; Cons. di Stato sez. V, n. 8624
del 07.12.2010; TAR Valle d’Aosta n. 86 del 13.11.2009; TAR Calabria-Catanzaro n. 141 del
05.02.2008).
Peraltro, va notato, a quest’ultimo proposito, che l’operato
amministrativo risulta comunque connotato da poca chiarezza
(se non da errori), atteso che l’elenco di cui all’allegato
C della delibera di C.C. n. 9/1965, oltre a riferirsi alle
strade vicinali (e quindi non a quelle demaniali), si ferma
al n. 43 (e va detto che, verificando i detti elenchi, una
via Lamma “da piazza Trivione a via Incoronata” si rinviene
al n. 5 dell’allegato A - strade comunali urbane; ma ancora
nella memoria del 04.10.2013, il Comune intimato ribadisce
che la “strada comunale Lamma è riportata ancora oggi nei
beni demaniali del Comune di Gragnano, al n. 54
dell’allegato C alla delibera di Consiglio Comunale n. 9 del
10.04.1965. Non è stata mai sdemanializzata, né avrebbe
potuto essere oggetto di trasferimento tra privati”).
In definitiva, quindi, deve giudicarsi che la strada Lamma
in discussione, la quale il verificatore afferma essere
stata probabilmente esistente in loco in un tempo anteriore
al 1943, al più dovesse essere una via vicinale privata, non
essendovi prova della sussistenza dei presupposti necessari
per poterla qualificare ad uso pubblico [ovvero: a) il
passaggio esercitato iuris servitutis publicae da una
collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad un
gruppo territoriale; b) la concreta idoneità della strada,
anche per il collegamento con la via pubblica, a soddisfare
esigenze di interesse generale; c) un titolo valido a
sorreggere l'affermazione di uso pubblico]; con la
conseguenza che deve presumersi che, caduta in disuso, ben
avrebbe potuto essere compravenduta dai privati proprietari
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 25.02.2014 n.
1151 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Appalti, nessuno sconto.
In 10 giorni il vincitore deve provare i requisiti.
Il Consiglio di stato sulla natura dei termini in capo
all'aggiudicatario.
Anche il vincitore di un appalto ha l'obbligo di provare i
requisiti dichiarati, senza possibilità di deroga. Il
termine dei dici giorni è perentorio.
Lo afferma l'adunanza
plenaria del Consiglio di Stato nella
sentenza 25.02.2014 n. 10, risolvendo una questione dibattuta da tempo.
In particolare, l'art. 48, primo comma, del Codice dei
contratti pubblici, prevede che entro dieci giorni gli
offerenti sorteggiati (per la verifica a campione) debbano
produrre i documenti a comprova dei requisiti dichiarati,
pena l'esclusione dalla gara, la segnalazione all'Autorità
per la vigilanza sui contratti pubblici e l'escussione della
cauzione provvisoria. Nel secondo comma si stabilisce che la
richiesta dei documenti «è, altresì, inoltrata, entro dieci
giorni dalla conclusione delle operazioni di gara, anche
all'aggiudicatario e al concorrente che segue in
graduatoria, qualora gli stessi non siano compresi fra i
concorrenti sorteggiati».
La giurisprudenza del Consiglio di
stato è stata fino ad oggi costante nel ritenere che il
termine previsto dal primo comma dell'art. 48 del Codice, in
relazione alla verifica a campione, abbia natura perentoria
(tranne il caso di un oggettivo impedimento alla produzione
della documentazione non in disponibilità), mentre si è
divisa sulla natura del termine che viene assegnato
dall'amministrazione all'aggiudicatario nella procedura
prefigurata dal secondo comma dello stesso art. 48.
Secondo
un orientamento il secondo comma dell'art. 48, a differenza
del primo comma, non contempla un termine legale entro il
quale la documentazione richiesta dall'amministrazione deve
essere prodotta e quindi il termine non è perentorio. Il
termine di cui al secondo comma dovrebbe essere considerato,
mancando esigenze acceleratorie, meramente sollecitatorio, e
in tal senso si era espressa anche l'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici con la determinazione n. 5
del 21.05.2009. Secondo un altro orientamento, invece, il
termine, anche del secondo comma, ha natura perentoria.
La pronuncia dell'adunanza plenaria sposa questa seconda
tesi affermando che in tal senso depone, a detta dei
giudici, il fatto che l'esigenza di celerità del
procedimento è propria anche della fase specifica in cui si
inserisce l'adempimento di cui all'art. 48, comma 2, che è
quella conclusiva della procedura che inizia con
l'aggiudicazione provvisoria e si conclude con la stipula
del contratto. Ad avviso dei giudici, inoltre, l'esigenza di
celerità e certezza deriva anche dalla «previsione del
condizionamento sequenziale degli adempimenti e dalla
preordinazione di termini per la verifica e approvazione
dell'aggiudicazione provvisoria, per l'inoltro della
richiesta di verifica dei requisiti da parte
dell'amministrazione e per la stipulazione, approvazione e
controlli del contratto».
Infine, il Consiglio di stato afferma che assumono comunque
particolare rilevanza i «principi generali di
tempestività ed efficacia delle procedure di affidamento, di
cui all'art. 2 del Codice, nel momento della conclusione
utile della lunga e complessa attività svolta in precedenza
per la scelta del contraente». Quindi il vincitore deve
entro dieci giorni provare i requisiti pena l'esclusione
dalla gara (articolo ItaliaOggi
dell'01.03.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: In
mancanza di una specifica previsione della lex specialis va
rilevato che non può identificarsi un obbligo di inclusione
nell'intestazione della cauzione provvisoria, riferito alle
imprese ausiliarie discendente dall'art. 49, d.lgs. n. 163
del 2006, posto che ivi, dopo aver contemplato un regime di
responsabilità solidale tra l'impresa avvalente e quella
ausiliaria, si dispone che il contratto di appalto è
comunque eseguito dall'impresa avvalente, a nome della quale
è rilasciato il certificato di esecuzione dei lavori.
Dunque, se lo stesso legislatore individua dunque
nell'impresa avvalente l'unico soggetto titolare del
contratto di appalto, risulta allora del tutto illogico
affermare che l'onere cauzionale deve gravare su di un
soggetto ulteriore e diverso, in ordine al quale rileva solo
il rapporto interno con l'avvalente medesimo, ferma restando
la predetta responsabilità solidale ex lege dell'ausiliario
nei confronti dell'amministrazione aggiudicatrice.
Con il secondo motivo di ricorso si
contesta la regolarità della polizza fideiussoria,
presentata a titolo di cauzione provvisoria, in quanto non
estesa anche all'impresa ausiliaria.
Il motivo è infondato.
In mancanza di una specifica previsione della lex specialis
va rilevato che non può identificarsi un obbligo di
inclusione nell'intestazione della cauzione provvisoria,
riferito alle imprese ausiliarie discendente dall'art. 49,
d.lgs. n. 163 del 2006, posto che ivi, dopo aver contemplato
un regime di responsabilità solidale tra l'impresa avvalente
e quella ausiliaria, si dispone che il contratto di appalto
è comunque eseguito dall'impresa avvalente, a nome della
quale è rilasciato il certificato di esecuzione dei lavori.
Dunque, se lo stesso legislatore individua dunque
nell'impresa avvalente l'unico soggetto titolare del
contratto di appalto, risulta allora del tutto illogico
affermare che l'onere cauzionale deve gravare su di un
soggetto ulteriore e diverso, in ordine al quale rileva solo
il rapporto interno con l'avvalente medesimo, ferma restando
la predetta responsabilità solidale ex lege
dell'ausiliario nei confronti dell'amministrazione
aggiudicatrice (cfr. in termini Tar Salerno 2517/2013, Tar
Catanzaro 868/2013, Tar L’Aquila 817/2013, Tar Catania
27/2013)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 26.02.2014 n. 659 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
scadenza del termine quinquennale di efficacia del vincolo
di destinazione di piano preordinato all’esproprio comporta
il venir meno della regolamentazione urbanistica e
l’applicazione delle norme di salvaguardia previste per i
Comuni sprovvisti di strumenti urbanistici generali (ai
sensi dell’art. 9 D.P.R. 06.06.2001 n. 380), e la situazione
di inedificabilità conseguente alla sopravvenuta inefficacia
di talune previsioni di piano (cosiddetto vuoto urbanistico)
è per sua natura provvisoria, avendo l’Autorità Comunale
l’obbligo di reiterare il vincolo (con previsione di
indennizzo) ovvero, in alternativa, di provvedere
all’integrazione dello strumento urbanistico generale
divenuto parzialmente inoperante, stabilendo (attraverso
l’adozione di una apposita variante urbanistica) la nuova
destinazione da assegnare alle aree interessate.
L’insegnamento giurisprudenziale consolidato ha,
infatti, chiarito che, in materia urbanistica, la scadenza
del termine quinquennale di efficacia del vincolo di
destinazione di piano preordinato all’esproprio comporta il
venir meno della regolamentazione urbanistica e
l’applicazione delle norme di salvaguardia previste per i
Comuni sprovvisti di strumenti urbanistici generali (ai
sensi dell’art. 9 D.P.R. 06.06.2001 n. 380), e che la
situazione di inedificabilità conseguente alla sopravvenuta
inefficacia di talune previsioni di piano (cosiddetto vuoto
urbanistico) è per sua natura provvisoria, avendo l’Autorità
Comunale l’obbligo di reiterare il vincolo (con previsione
di indennizzo) ovvero, in alternativa, di provvedere
all’integrazione dello strumento urbanistico generale
divenuto parzialmente inoperante, stabilendo (attraverso
l’adozione di una apposita variante urbanistica) la nuova
destinazione da assegnare alle aree interessate (ex multis:
Corte di Cassazione Civile, 31.03.2008 n. 8384)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 26.02.2014 n. 642 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Nella materia dei
procedimenti di espropriazione per pubblica utilità, ad
eccezione delle ipotesi in cui l’amministrazione abbia agito
nell’assoluto difetto di una potestà ablativa come mancanza
di qualunque facultas agendi vincolata o discrezionale di
elidere o comprimere detto diritto di proprietà –devolute
come tali alla giurisdizione ordinaria– appartengono alla
cognizione del giudice amministrativo nell’ambito della
giurisdizione esclusiva le controversie nelle quali si
faccia questione (anche ai fini complementari della tutela
risarcitoria) di attività di occupazione e trasformazione di
un bene conseguenti ad una dichiarazione di pubblica utilità
e con essa congruenti.
Ciò avviene anche se il procedimento all'interno del quale
sono state espletate dette attività non sia sfociato in un
tempestivo e formale atto traslativo della proprietà, ovvero
sia caratterizzato dalla presenza di atti poi dichiarati
illegittimi, purché vi sia un collegamento all’esercizio
della pubblica funzione.
---------------
L’occupazione di un immobile da parte dell’amministrazione,
che si protragga senza un decreto di esproprio anche dopo la
scadenza dei termini fissati nella dichiarazione di pubblica
utilità, è pur sempre riconducibile all’esercizio del potere
e di conseguenza le controversie risarcitorie sono devolute
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai
sensi dell’art. 34 del D.Lgs. 80/1998 e dell’art. 53 del
T.U. 327/2001.
Tale tesi è oggi confermata (e confortata) anche dalla
previsione di cui all’art. 133, lettera g), del Codice del
processo, a mente del quale rientrano nella giurisdizione
amministrativa anche le controversie relative a atti,
provvedimenti e comportamenti riconducibili, anche
mediatamente, all’esercizio del potere in materia
espropriativa.
---------------
Rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo le controversie, anche di natura
risarcitoria, relative ad occupazioni illegittime
preordinate all’espropriazione, attuate in presenza di un
concreto esercizio del potere ablatorio, riconoscibile per
tale in base al procedimento svolto ed alle forme adottate,
in consonanza con le norme che lo regolano, pur se poi
l’ingerenza nella proprietà privata e la sua utilizzazione,
nonché la irreversibile trasformazione della stessa, …., sia
avvenuta senza alcun titolo che lo consentisse.
La Sezione ritiene di non doversi discostare
nella circostanza dall’ormai consolidato indirizzo
giurisprudenziale secondo il quale, nella materia dei
procedimenti di espropriazione per pubblica utilità, ad
eccezione delle ipotesi in cui l’amministrazione abbia agito
nell’assoluto difetto di una potestà ablativa come mancanza
di qualunque facultas agendi vincolata o discrezionale di
elidere o comprimere detto diritto di proprietà –devolute
come tali alla giurisdizione ordinaria– appartengono alla
cognizione del giudice amministrativo nell’ambito della
giurisdizione esclusiva le controversie nelle quali si
faccia questione (anche ai fini complementari della tutela
risarcitoria) di attività di occupazione e trasformazione di
un bene conseguenti ad una dichiarazione di pubblica utilità
e con essa congruenti. Ciò avviene anche se il procedimento
all'interno del quale sono state espletate dette attività
non sia sfociato in un tempestivo e formale atto traslativo
della proprietà, ovvero sia caratterizzato dalla presenza di
atti poi dichiarati illegittimi, purché vi sia un
collegamento all’esercizio della pubblica funzione (TAR
Campania Napoli, sez. V – 05/12/2013 n. 5600, che richiama
tra l’altro Consiglio di Stato, sez. IV – 04/04/2011 n. 2113;
TAR Lombardia Brescia – 18/12/2008 n. 1796).
In tal senso, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato
(30/7/2007 n. 9) ha osservato che l’occupazione di un
immobile da parte dell’amministrazione, che si protragga
senza un decreto di esproprio anche dopo la scadenza dei
termini fissati nella dichiarazione di pubblica utilità, è
pur sempre riconducibile all’esercizio del potere e di
conseguenza le controversie risarcitorie sono devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi
dell’art. 34 del D.Lgs. 80/1998 e dell’art. 53 del T.U.
327/2001. Tale tesi è oggi confermata (e confortata) anche
dalla previsione di cui all’art. 133, lettera g), del Codice
del processo, a mente del quale rientrano nella
giurisdizione amministrativa anche le controversie relative
a atti, provvedimenti e comportamenti riconducibili, anche
mediatamente, all’esercizio del potere in materia
espropriativa.
Come ha recentemente statuito il Consiglio di Stato,
sez. IV – 04/12/2013 n. 5766, <<rientrano nella giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo (così da ultimo tra
tante Cassazione civile a sezioni unite 29.03.2013,
n.7938) le controversie, anche di natura risarcitoria,
relative ad occupazioni illegittime preordinate
all’espropriazione, attuate in presenza di un concreto
esercizio del potere ablatorio, riconoscibile per tale in
base al procedimento svolto ed alle forme adottate, in
consonanza con le norme che lo regolano, pur se poi
l’ingerenza nella proprietà privata e la sua utilizzazione,
nonché la irreversibile trasformazione della stessa, …., sia
avvenuta senza alcun titolo che lo consentisse>>
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 26.02.2014 n. 221 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Esclusa dalla gara l’impresa che omette la
sigillatura del plico contenente l'offerta.
Oggetto del contendere, in questa pronuncia della quinta
sezione del Consiglio di Stato, è la legittimità
dell'esclusione dalla gara dell'impresa che abbia omesso la
sigillatura del plico contenente l'offerta.
Su questo argomento, i giudici di Palazzo Spada ricordano
che l'art. 46. c.1-bis, del D.L.vo 163 del 2006, dispone che
"la stazione appaltante esclude i candidati o i
concorrenti in … in caso di non integrità del plico
contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre
irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far
ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato
violato il principio di segretezza delle offerte".
Nel caso in commento, senza timbratura e controfirma,
quindi, non può sussistere certezza che la sigillatura su
quel lembo sia stata opposta all'origine dal mittente che
dispone del timbro e della firma; né può sussistere la
certezza che, dopo la spedizione, un lembo del plico non sia
stato aperto e solo successivamente sigillato con il nastro
adesivo.
Gli adempimenti prescritti assicurano, infatti, secondo i
giudici d’appello, l'autenticità della chiusura originaria
proveniente dal mittente e, evitando la manomissione del
contenuto del plico, garantiscono la segretezza
dell'offerta, con la conseguente legittimità dell'esclusione
dalla gara dell'impresa che abbia omesso la sigillatura del
plico contenente l'offerta medesima; e che rientra nel
potere dell'Amministrazione fissare le regole di svolgimento
della gara pubblica, comprese quelle che attengono alle
modalità di presentazione delle offerte; tale potere sfugge
al sindacato giurisdizionale salva la sua manifesta
irragionevolezza, irrazionalità ed illogicità, che non
sussistono nel caso in cui sia per essa richiesta una doppia
formalità, e cioè la sigillatura del plico e la controfirma
sui lembi di chiusura, in quanto ragionevolmente finalizzata
non solo ad evitare il rischio della manomissione del plico
e dell'alterazione del suo contenuto, garanzia alla quale è
preposta la sigillatura, ma anche a garantire la effettiva
provenienza del plico e dell'offerta, garanzia cui è
preposta la controfirma sui lembi di chiusura (commento
tratto da www.documentazione.ancitel.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 20.02.2014 n. 828 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Direttore dei lavori e disciplina antisismica.
Il direttore dei lavori, è tra i
soggetti destinatari del divieto di esecuzione dei lavori in
difetto della preventiva autorizzazione in virtù della
posizione di controllo a lui affidata su costruzioni
potenzialmente lesive della pubblica incolumità e risponde
anche del reato di omesso deposito del progetto per le
costruzioni edificate in zona sismica per non aver
controllato il rispetto degli adempimenti prescritti dalla
normativa antisismica
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.02.2014 n. 7775 - tratto da
www.lexambiente.it).
---------------
MASSIMA
2.1. Va ricordato, innanzitutto, che le
contravvenzioni previste dalla normativa antisismica
puniscono inosservanze formali, volte a presidiare il
controllo preventivo della P.A. Ne deriva che l'effettiva
pericolosità della costruzione realizzata senza i prescritti
adempimenti è del tutto irrilevante ai fini della
sussistenza del reato e la verifica postuma dell'assenza del
pericolo ed il rilascio dei provvedimenti abilitativi non
incide sulla illiceità della condotta, poiché gli illeciti
sussistono in relazione al momento di inizio della attività
(cfr. Cass. pen. sez. 3, 17.06.1997 n. 5738).
Le disposizioni della normativa antisismica
si applicano, invero, a tutte le costruzioni la cui
sicurezza possa interessare la pubblica incolumità, a nulla
rilevando la natura dei materiali usati e delle strutture
realizzate- a differenza della disciplina relativa alle
opere in conglomerato cementizio armato- in quanto
l'esigenza di maggior rigore nelle zone dichiarate sismiche
rende ancor più necessari i controlli e le cautele
prescritte, quando si impiegano elementi strutturali meno
solidi e duraturi del cemento armato
(Cass. pen. sez. 3, 24.10.2001 n. 38142).
2.1.1. Correttamente, pertanto, il Tribunale ha ritenuto che
per i lavori effettuati in difformità dal progetto ed
analiticamente riportati nell'imputazione occorressero gli
adempimenti previsti dalla normativa antisismica di cui agli
artt. 93, 94 e 95 DPR 380/2001. Si trattava, invero, della
realizzazione di "casseforme ed armature relative a n. 2
manufatti seminterrati aventi dimensioni: mt. 8,70 X 10,00
con altezza di mt. 2,50 e mt. 3,60 X 6,60 con altezza di mt.
2,50" (pag.2 sent.) e, quindi, palesemente di opere non
certo "di rilevanza strutturale trascurabile", come
assume il ricorrente.
2.2. Quanto ai rilievi in ordine alla posizione del
direttore dei lavori, secondo la giurisprudenza
assolutamente prevalente di questa Corte,
il reato de quo, "potendo essere commesso da
chiunque violi o concorra a violare l'obbligo del deposito
del progetto delle opere realizzate in zona sismica, può
essere realizzato dal proprietario, dal committente, dal
titolare della concessione edilizia e da qualsiasi altro
soggetto, che abbia disponibilità dell'immobile o dell'area
su cui esso sorge, nonché da coloro, che esplicano attività
tecnica ed hanno iniziato la costruzione, senza il doveroso
controllo del rispetto degli adempimenti di legge"
(cfr. ex multis Cass. pen. sez. 3 n. 35387 del
24.05.2007; conf. Cass. Sez. 3, 10.12.1999; Cass. Sez. 3 n.
4438 del 10.04.1997).
E' stato così ritenuto che il direttore dei
lavori, è tra i soggetti destinatari del divieto di
esecuzione dei lavori in difetto della preventiva
autorizzazione in virtù della posizione di controllo a lui
affidata su costruzioni potenzialmente lesive della pubblica
incolumità (Cass.
pen. sez. 3, 27.01.2004 n. 2640).
E risponde anche del reato di omesso
deposito del progetto per le costruzioni edificate in zona
sismica per non aver controllato il rispetto degli
adempimenti prescritti dalla normativa antisismica
(cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 6675 del 20.12.2011). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Reati urbanistici e concorso del funzionario
che rilascia il titolo abilitativo.
Nei reati urbanistici possono
eventualmente concorrere anche gli organi pubblici deputati
al controllo sugli interventi di trasformazione del suolo
posti in essere da privati e l'ipotesi più frequente di
concorso con i soggetti che si trovino in possesso delle
particolari qualità soggettive indicate dall'art. 29 del
T.U. dell'edilizia è quella del rilascio di un atto
amministrativo illegittimo per contrasto con disposizioni di
legge o di regolamento ovvero con le previsioni degli
strumenti urbanistici (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.02.2014 n. 7765 - tratto da
www.lexambiente.it).
---------------
1.
Appare opportuna, per una migliore comprensione della
vicenda, una ricostruzione sintetica dei fatti.
Il Tribunale ha evidenziato che:
a) Il (OMISSIS) non ha rilasciato la concessione edilizia in
oggetto (non è, infatti, il dirigente o responsabile del
competente ufficio comunale deputato all’adozione del titolo
abilitativo edilizio) ma ha provveduto ad istruire la
relativa pratica quale tecnico nominato come responsabile
del procedimento.
b) L’intervento edilizio in questione ha riguardato la
ristrutturazione di un edificio ricadente pro parte, secondo
le previsioni del PRG, in sottozone A/4 ed A/5.
c) (OMISSIS), compiuta l’istruttoria, aveva redatto (in data
17.07.2009) una proposta favorevole al rilascio del
provvedimento finale, attestando che i progetti con
contrastavano con la pianificazione urbanistica vigente o
adottata.
d) La commissione edilizia comunale, però (in data
29.07.2009), aveva respinto la domanda osservando che la
previsione di un nuovo volume addossato sul lato est
dell’immobile principale, in sostituzione di una barchessa
(tettoia-fienile annessa a casa colonica) esistente, non era
sufficientemente integrata nelle forme e nelle finiture con
il resto dell’edificio e con il contesto storico dello
stesso. Aveva prospettato, pertanto, di riproporre con altre
soluzioni quel corpo edilizio, evitando tipologie e
materiali in contrasto con l’ambito architettonico,
attraverso elaborati progettuali modificati in tal senso.
Dalle tavole di progetto successivamente presentate si
sarebbe potuto dedurre, per l’esistenza di “difformita’
tra le sezioni e le piante”, che –con previsione
innovativa– le pareti perimetrali dell’edificio principale
in sottozona A/4 verso est dovessero essere demolite per
consentire la realizzazione di un garage interrato. Tale
demolizione non era consentita ai sensi dell’articolo 32
delle norme di attuazione del PRG vigente ma (OMISSIS) aveva
ribadito la proposta favorevole in data 21.08.2009.
2.
In relazione alla vicenda dianzi delineata la difesa aveva
sostenuto che nessun addebito potesse essere mosso al
tecnico comunale poiché, dopo la presentazione delle nuove
tavole di progetto, al (OMISSIS) sarebbe spettato
esclusivamente il compito di verificare se la parte di cui
era prevista la demolizione e ricostruzione in sottozona A/5
fosse ben integrata con la restante parte dell’edificio e
ciò in quanto egli sarebbe stato tenuto a controllare solo
quella parte progettuale che aveva costituito oggetto della
valutazione negativa da parte della commissione edilizia.
A giudizio del Tribunale, invece, il tecnico aveva l’obbligo
di riesaminare il progetto nella sua interezza, perché solo
a seguito di un tale riesame integrale avrebbe potuto
verificare la conformità del complessivo intervento alle
disposizioni normative ed alle prescrizioni di piano e
sarebbe stato in grado di percepire –tenuto conto della
evidente “discordanza tra le tavole che descrivono i
punti e le tavole che descrivono le sezioni” (accertata
inconfutabilmente in dibattimento attraverso le deposizioni
rese dai testi (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS)– la
ambiguità della documentazione tecnica di nuova produzione e
la illegittimità della demolizione che parte dei documenti
sembrava rappresentare in zona ove essa non era consentita.
Da ciò il Tribunale ha fatto discendere connotazioni di
colpa nel comportamento del (OMISSIS), ravvisando a suo
carico un comportamento omissivo connotato o da negligenza
(mancata verifica dei nuovi elaborati) o da imperizia
(mancato rilievo delle anomalie discendenti dalla
presentazione di tavole progettuali contrastanti delle quali
non era stata richiesta la giustificazione dei contrasti).
Tale comportamento, nel caso sia della negligenza sia
dell’imperizia, si era inserito causalmente nella serie dei
fatti che hanno portato alla realizzazione di un abuso
edilizio, sicché il Tribunale ha ascritto al (OMISSIS) di
avere concorso a tale abuso ritenendo che egli abbia
violato, unitamente ai realizzatori dell’opera, la
previsione incriminatrice del Decreto del Presidente della
Repubblica n. 380 del 2001, articolo 44, lettera a).
3.
A fronte dei motivi di ricorso, compendiati nella parte
espositiva, rivolti a contestare le argomentazioni svolte
dal Tribunale, ritiene questo Collegio di svolgere le
seguenti considerazioni.
3.1
Nei reati urbanistici possono eventualmente concorrere anche
gli organi pubblici deputati al controllo sugli interventi
di trasformazione del suolo posti in essere da privati (vedi
già –con riferimento al previgente Legge n. 47 del 1985,
articolo 6,– Cass., sez. 3: 23.02.1987, Pezzoli e
21.09.1988, Maglione) e l’ipotesi più frequente di concorso
con i soggetti che si trovino in possesso delle particolari
qualità soggettive indicate dall’articolo 29 del Testo Unico
dell’edilizia e’ quella del rilascio di un atto
amministrativo illegittimo per contrasto con disposizioni di
legge o di regolamento ovvero con le previsioni degli
strumenti urbanistici.
La responsabilità penale a titolo di concorso nel reato
edilizio essendo stata ritenuta la possibilità di ravvisare
contestualmente anche il delitto di abuso di ufficio ex
articolo 323 c.p., può configurarsi non soltanto a carico
del soggetto che rilascia l’atto abilitativo illegittimo ma
anche nei confronti di funzionari pubblici che svolgano in
modo dolosamente infedele attività di carattere istruttorio
nel procedimento amministrativo finalizzato al rilascio del
titolo (vedi: Cass., sez. 5, 18.12.1991, Morroni e, con
riferimento ad un’ipotesi di lottizzazione abusiva, Cass.,
sez. 3, 14.06.2002, Drago).
3.2
L’ipotesi più frequente di concorso del funzionario pubblico
nel reato edilizio è caratterizzata dalla presenza di un
comportamento infedele per dolo, ma non può escludersi la
possibile corresponsabilità del funzionario anche in
relazione a condotte meramente colpose e questa Corte ha già
ritenuto possibile configurare una illegittimità parziale di
una concessione edilizia (limitata alle sole opere
contrastanti con il regolamento edilizio) come fonte di
responsabilità penale degli operatori pubblici che abbiano
contribuito a darvi causa per inosservanza della norma
regolamentare, Legge n. 10 del 1977, ex articolo 17, lettera
a), (vedi Cass., sez. 3, 10.01.1984, Tortorella).
3.3
L’esistenza di una “posizione di garanzia che trova il
proprio fondamento normativo nell’articolo 40 c.p.” è
stata inoltre ravvisata, nei confronti del dirigente
dell’area tecnica comunale che abbia rilasciato una
concessione edilizia illegittima, da Cass., sez. 3,
25.3.2004, D’Ascanio.
4.
Nella fattispecie in esame inconferenti sono le
argomentazioni riferite in ricorso all’articolo 40 cpv.
c.p., perché il Tribunale non ha ravvisato una posizione di
garanzia riferita al tecnico che ha proceduto alla mera
istruttoria della pratica edilizia, al quale sicuramente non
spetta un obbligo di vigilanza sull’attività
urbanistico–edilizia svolgentesi nel territorio comunale.
E’ stata affermata, invece, la responsabilità del (OMISSIS)
a titolo di concorso con la parte che ha realizzato la
demolizione non consentita, ma ciò è stato correlato al
deposito di tavole processuali che lo stesso Tribunale ha
definito “ambigue” ed idonee ad indurre “qualche
dubbio interpretativo”, omettendo di valutare
adeguatamente, però, quali fossero le motivazioni per le
quali il dirigente del competente ufficio comunale –al quale
spetta in via definitiva l’accertamento della conformità
dell’opera “alle previsioni degli strumenti urbanistici,
dei regolamenti edilizi e della disciplina
urbanistico-edilizia vigente” (Decreto del Presidente
della Repubblica n. 380 del 2001, ex articolo 12, comma 1–
avesse ritenuto di rilasciare la concessione edilizia e
quale incidenza causale sul provvedimento finale del
dirigente dovesse riconnettersi alla formulazione concreta
della proposta positiva del responsabile del procedimento.
Deve altresì rilevarsi che all’imputato e’ stato contestato
di avere concorso in una demolizione parziale del manufatto
preesistente che non era consentita dalla pianificazione
generale, ma anche che ciò era avvenuta “in variazione
essenziale rispetto alla concessione edilizia del 15.10.2009″.
Da tanto potrebbe razionalmente dedursi che quel titolo
abilitativo non autorizzava la demolizione e ciò
escluderebbe radicalmente ogni responsabilità del (OMISSIS).
Il punto però non è stato chiarito dal giudice del merito,
che avrebbe dovuto anzitutto esaminare il contenuto
effettivo della concessione edilizia e pervenire
all’interpretazione della stessa sulla base della sua
formulazione testuale.
5.
Si impone, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata
con rinvio al Tribunale di Trento, per nuovo esame alla
stregua delle osservazioni dinanzi svolte. |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di distanze tra edifici, ove le
costruzioni non siano incluse nel medesimo piano
particolareggiato o nella stessa lottizzazione, la
disciplina sulle relative distanze non è recata dal Decreto
Ministeriale 02.04.1968, n. 1444, articolo 9, u.c., che
consente ai Comuni di prescrivere distanze inferiori a
quelle previste dalla normativa statale, bensì dal primo
comma dello stesso articolo 9, quale disposizione di
immediata ed inderogabile efficacia precettiva.
1.1.- La censura non coglie nel segno e non può essere
accolta.
La Corte torinese ha correttamente identificato la
situazione di fatto sottoposta al suo esame, relativa alla
distanza tra l’edificio dei sigg. (G) e (S) e l’edificio
realizzato dalla società (IE) srl, ed, ad un tempo ha,
correttamente, interpretato ed individuato la norma
applicabile alla fattispecie esaminata. Pertanto, la
sentenza impugnata non merita alcuna censura.
1.1.a).- Appare opportuno chiarire:
-A) che gli edifici oggetto della controversia sono
collocati nella zona che il Piano Regolatore Generale del
Comune di Torino contraddistingue con la lettera b). Detta
zona è qualificata dall’articolo 15 delle Norme urbanistiche
di attuazione del Piano Regolatore Generale del Comune di
Torino (NUEA) tra quelle zone definite “zone urbane di
trasformazione: le parti del territorio per le quali
indipendentemente dallo stato di fatto sono previsti
interventi di radicale ristrutturazione urbanistica e di
nuovo impianto”.
Per tali zone l’articolo 7 del NUEA prevede due possibilità
di trasformazioni: a) una trasformazione unitaria e una
trasformazione per sub ambiti.
-B) che l’edificio dei sigg. (G) e (S), non formava oggetto
del piano di lottizzazione di cui faceva parte l’edifico
realizzato dalla società (IE) srl. (l’edificio del
condominio), ma formava oggetto dello Studio Unitario
d’Ambito (SUA) proposto al Comune di Torino dai danti causa
degli attuali ricorrenti, approvato dall’Amministrazione
comunale con delibera n. 278797 del 1997 ed era stata
stipulata la Convenzione programmata. Il caso in esame, in
particolare, integrava gli estremi di un’ipotesi di
trasformazione sub ambiti.
1.1.b).- A questa situazione di fatto va riferita –come bene
ha chiarito la Corte torinese- la normativa di cui al
Decreto Ministeriale n. 1444 del 1968, articolo 9, laddove
stabilisce, per quanto qui può interessare, che la distanza
minima assoluta tra fabbricati per le zone territoriali
omogenee diverse dalla zone A e dalla zona C dovrà essere
quella di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti. Tuttavia, la stessa norma nell’ultima parte
dell’ultimo comma prevede che “sono ammesse distanze
inferiori a quelle indicate nei precedenti commi nel caso di
gruppi di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche”.
Pertanto, posto che gli edifici oggetto della controversia,
nominalisticamente, e come già si è detto, non facevano
parte unitariamente di alcun piano particolareggiato, né di
alcuna lottizzazione convenzionale, restava acquisito che,
sic et simpliciter, la deroga prevista dall’articolo
9, appena citato, non poteva essere estesa al caso in esame.
D’altra parte, come ha già avuto modo di evidenziare questa
Corte in altra occasione (sent. n. 12424 del 2010): in tema
di distanze tra edifici, ove le costruzioni non siano
incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa
lottizzazione, la disciplina sulle relative distanze non è
recata dal Decreto Ministeriale 02.04.1968, n. 1444,
articolo 9, u.c., che consente ai Comuni di prescrivere
distanze inferiori a quelle previste dalla normativa
statale, bensì dal primo comma dello stesso articolo 9,
quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia
precettiva (Corte
di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 18.02.2014 n. 3803 -
link a http://renatodisa.com). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Dirigente Ufficio tecnico viene raggiunto da misura
cautelare: per la Cassazione il pericolo di reiterazione
della condotta criminosa può essere logicamente ravvisato
nella circostanza che a carico della dirigente esistono
altri procedimenti per altre ipotesi di falso in atto
pubblico.
Arresti domiciliari per falso ideologico in danno
del dirigente dell’ufficio tecnico comunale (UTC).
Per la Cassazione il pericolo di reiterazione della condotta
criminosa è stato non illogicamente ravvisato nella
circostanza –ammessa dalla stessa ricorrente– che a suo
carico pendono (sia pure, come si sostiene, in fase di
indagine) altri procedimenti per altrettante ipotesi di
falso in atto pubblico; di talché sussistono evidentemente
(almeno nella provvisoria ricostruzione fattuale tipica
della fase delle indagini preliminari) elementi per
ipotizzare che la ricorrente abbia, non solo, già in
passato, tenuto più volte condotte delittuose analoghe a
quelle che le sono state contestate nel presente
procedimento, ma che ciò sia sintomo di un radicato habitus
di devianza, collegato al suo ruolo professionale.
Ritenuto in fatto
1. F.A., già dirigente dell’ufficio tecnico comunale (UTC)
di Pomezia, è sottoposta a indagine e destinataria di misura
cautelare personale (arresti domiciliari) con riferimento al
concorso in falsità ideologica, riguardante la falsa
attestazione della conformità della proposta di variante del
piano particolareggiato esecutivo (PPE) relativo alla zona
di Torvajanica alta (capo A), nonché del documento
costituente la proposta di piano particolareggiato esecutivo
in variante del piano regolatore generale (PRG) del comune
di Pomezia, zona centro (capo B) e di concorso in
soppressione o occultamento di atti veri, riguardanti la
medesima proposta (capo C).
2. Il tribunale del riesame di Roma, con il provvedimento di
cui in epigrafe, ha rigettato l’istanza presentata
nell’interesse della sopraindicata e ha confermato
l’impugnata ordinanza cautelare.
3. Con il ricorso, il difensore deduce violazione
dell’articolo 274 [erroneamente indicato come 247], comma
primo, lett. c) cpp, atteso che il collegio cautelare ha
indicato quale unico fondamento per la sua decisione in
merito alla sussistenza di esigenze cautelari, mere
congetture, non supportate da riscontri fattuali concreti.
Il pericolo di reiterazione nel reato, in realtà, acquista
rilievo unicamente quando concerne la probabile futura
commissione, non di qualsiasi illecito, bensì di particolari
fattispecie criminose e, tra queste, i delitti della stessa
specie di quello per il quale si procede.
Ebbene, non è stato sufficientemente valutata la circostanza
che la F. è stata destinata ad altro incarico. Né vale
osservare che si tratta comunque di incarico dirigenziale.
Sta di fatto che tale nuovo incarico nulla ha a che fare con
le precedenti competenze della ricorrente. La giurisprudenza
di legittimità ha chiarito che, perché sussista l’esigenza
cautelare di cui all’articolo 274, lett. c) cpp, si deve
manifestare la possibilità di un pericolo concreto, e di
tale concretezza il collegio cautelare non ha dato alcuna
dimostrazione. Scrive il tribunale romano che la ricorrente
sarebbe coinvolta in numerosi procedimenti penali, anche
recenti per falsità ideologica. E’, al proposito, da notare
che si tratta di procedimenti nella fase di indagine. Quelli
che sono giunti all’udienza preliminare, si sono chiusi
tutti con sentenza di non luogo a procedere. Si deve dunque
concludere che il provvedimento impugnato è caratterizzato
da motivazione incoerente, incompiuta monca e parziale.
Considerato in diritto
1. Premesso (e ribadito) che il ricorso per cassazione è
stato proposto unicamente con riferimento alle esigenze
cautelari, esso merita rigetto.
Né, nel caso in esame, può farsi luogo all’effetto estensivo
di cui all’art. 587 cpp con riferimento alla posizione dei
coindagati; ciò in quanto i ricorsi di P. e A. attengono a
profili personali dei due predetti, che sono professionisti
esterni all’amministrazione comunale. La posizione degli
stessi, dunque, è ben differente, da quella della F.,
funzionaria del comune di Pomezia in posizione dirigenziale
e, conseguentemente, apicale.
2. Invero il pericolo di reiterazione della condotta
criminosa è stato non illogicamente ravvisato nella
circostanza –ammessa dalla stessa ricorrente– che a suo
carico pendono (sia pure, come si sostiene, in fase di
indagine) altri procedimenti per altrettante ipotesi di
falso in atto pubblico; di talché sussistono evidentemente
(almeno nella provvisoria ricostruzione fattuale tipica
della fase delle indagini preliminari) elementi per
ipotizzare che la ricorrente abbia, non solo, già in
passato, tenuto più volte condotte delittuose analoghe a
quelle che le sono state contestate nel presente
procedimento, ma che ciò sia sintomo di un radicato habitus
di devianza, collegato al suo ruolo professionale.
3. Quanto al fatto che la F. sia stata trasferita ad altro
ufficio, va ricordato che, secondo la giurisprudenza di
questa Corte (ASN 200828780-RV 240830), in tema di misure
cautelari personali, non costituisce elemento tale da
escludere la sussistenza delle esigenze cautelari,
l’avvenuto trasferimento dell’indagato, pubblico dipendente,
ad un ufficio diverso non più funzionale alla commissione di
tale delitto, in quanto la prosecuzione del rapporto di
pubblico impiego consente pur sempre al medesimo di
avvalersi delle relazioni allacciate nel tempo all’interno
della P.A.
Il principio, dettato con riferimento ai delitti
associativi, vige, a maggior ragione, con riferimento ai
delitti commessi con abuso, delle funzioni autoritative e
certificative, proprie del pubblico funzionario.
4. Consegue condanna alle spese del grado (Corte
di Cassazione, Sez. V penale,
sentenza 17.02.2014 n. 7440 -
link a http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni ambientali. Abusi paesaggistici e principio di
offensività.
Riguardo agli abusi paesaggistici il
principio di offensività opera in relazione alla attitudine
della condotta posta in essere ad arrecare pregiudizio al
bene protetto, in quanto la natura di reato di pericolo
della violazione non richiede la causazione di un danno e la
incidenza della condotta medesima sull'assetto del
territorio non viene meno neppure qualora venga attestata,
dall'amministrazione competente, la compatibilità
paesaggistica dell'intervento eseguito
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.02.2014 n. 7343 -
tratto da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Irregolare spandimento di fanghi sul terreno.
La responsabilità per la corretta
esecuzione delle operazioni di smaltimento dei fanghi
mediante spandimento sul terreno grava sul soggetto
giuridico titolare dell'autorizzazione e che tale
responsabilità non può essere trasposta a carico di chi dal
primo ha ricevuto l'incarico di eseguire una parte soltanto
delle operazioni.
Si è in presenza di obblighi e di responsabilità che si
collegano all'autorizzazione e alle modalità di esecuzione
che essa prevede a carico del soggetto richiedente previa
valutazione delle caratteristiche oggettive e soggettive
dell'istanza presentata
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 14.02.2014 n. 7241 -
tratto da www.lexambiente.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Sotto esame la sospensione con condanna in primo grado.
Il Consiglio
di Stato, Sez. III, con una recente
sentenza
14.02.2014 n. 730 analizza gli effetti della legge
anticorruzione in materia di sospensione dalla carica per
una condanna relativa ad un abuso contestato e deciso nel
primo grado di giudizio on una pena a 4 mesi.
La decisione è
rilevante non solo nella parte in cui ricostruisce il
concetto di "sospensione" rispetto a quello della decadenza,
ma assume un valore soprattutto per la scelta di ritenere il
decreto attuativo (il Dlgs 135/2012) non apparentemente
viziato per avere il legislatore delegato ecceduto rispetto
alla delega contenuta nella legge 190/2012.
Già in fase di emanazione del decreto delegato non erano
stati pochi i commenti che avevano messo in luce una
disposizione in grado di "neutralizzare" cariche elettive
particolarmente importanti (le disposizioni interessate
dalla decisione del Consiglio di Stato riguardano la carica
di consigliere comunale ma altrettanto può dirsi per la
carica di presidente o consigliere regionale), lasciando
spazio alla riviviscenza di quelle critiche che avevano
accompagnato la modifica dell'articolo 323 del codice penale
Il Consiglio di stato ritiene che emergano due indicazioni
inconciliabili fra loro: da un lato, la dichiarata volontà
di conservare nel sistema l'istituto della sospensione (che
implica per definizione il riferimento ad un processo in
itinere) e dall'altro lato la (supposta) volontà di
subordinare la sospensione all'esistenza di una condanna
definitiva. Conclude, però, affermando come l'esegesi
letterale non permette di sciogliere questa contraddizione.
Occorre quindi ricorrere ad altri criteri.
Il primo, già di per sé risolutivo, è quello per cui si deve
preferire l'interpretazione che attribuisce un valore alla
frase, piuttosto che quella che la rende priva di senso e di
effetti pratici.
Il secondo è quello per cui si deve preferire
l'interpretazione più corrispondente alla ratio legis ed
alla presumibile volontà del legislatore (ricostruibile
anche mediante il riferimento al contesto
politico-programmatico, alla evoluzione storica della
legislazione, etc.), e più coerente con il sistema.
Entrambi per il Consiglio di Stato portano a rigettare la
tesi interpretativa dell'eccesso di delega anche
considerando che l'intera legge n. 190/2012 è stata
concepita con la dichiarata finalità di rendere più efficaci
e penetranti gli strumenti di prevenzione e repressione
della corruzione.
Il regime della sospensione è differenziato per le varie
fattispecie penali, cosicché può accadere che la sospensione
consegua, di diritto ad una condanna a pena più lieve, e non
consegua invece ad una condanna a pena più onerosa, solo
perché la prima è stata pronunciata per un certo tipo di
reato, e la seconda per un reato di altro tipo.
Per il Consiglio la scelta non appare irragionevole, in
quanto a parità di pena irrogata, le condanne per taluni
tipi di reato (ad esempio: i reati del pubblico ufficiale
contro la pubblica amministrazione) hanno un valore
indiziario più significativo rispetto alle condanne per
altri tipi di reato. Aggiungono i giudici che le valutazioni
compiute dal legislatore al riguardo sono altamente
discrezionali, e come tali opinabili: ma nel caso in esame
non sono irragionevoli.
Orbene, senza entrare nel tecnicismo del Consiglio di Stato
appare evidente la necessità che il legislatore riveda le
proprie valutazioni, per evitare quanto già sollevato dal
relatore alla modifica del Codice penale del 1997:
ingiustificate invasioni nel campo della discrezionalità
amministrativa (articolo Il Sole 24 Ore del 03.03.2014). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Zone di nuova espansione e piani attuativi.
Non sempre il piano generale comunale può essere
immediatamente attuato attraverso singoli permessi di
costruire, occorrendo in taluni casi l'ulteriore mediazione
di uno strumento attuativo.
Da tale principio discende che -in mancanza di specifiche indicazioni legislative o dello
strumento pianificatorio generale- nelle zone di nuova
espansione o comunque in quelle edificabili scarsamente
urbanizzate, per la necessità di soluzioni urbanistiche
unitarie e non disorganiche, il piano attuativo (e tale è
anche il piano di lottizzazione) si pone come condicio sine
qua non per il rilascio dei singoli permessi di costruire
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 12.02.2014 n. 6629 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il termine di decadenza di cui all’articolo 1495
c.c. per la denunzia dei vizi della cosa venduta, pur
dovendo essere riferito alla semplice manifestazione del
vizio e non già all’individuazione della sua causa, decorre
solo dal momento in cui il compratore abbia acquisito la
certezza oggettiva dell’esistenza del vizio, con la
conseguenza che ove la scoperta avvenga per gradi ed in
tempi diversi e successivi, in modo da riverberarsi
sull’entità del vizio stesso, occorre fare riferimento al
momento in cui si sia completata la relativa scoperta.
Quanto al primo motivo va ulteriormente osservato che il
termine di decadenza di cui all’articolo 1495 c.c. per la
denunzia dei vizi della cosa venduta, pur dovendo essere
riferito alla semplice manifestazione del vizio e non già
all’individuazione della sua causa, decorre solo dal momento
in cui il compratore abbia acquisito la certezza oggettiva
dell’esistenza del vizio, con la conseguenza che ove la
scoperta avvenga per gradi ed in tempi diversi e successivi,
in modo da riverberarsi sull’entità del vizio stesso,
occorre fare riferimento al momento in cui si sia completata
la relativa scoperta (Cass. nn. 9515/2005, 12011/1997 e
1458/1994).
Ciò premesso sulla decorrenza del termine, va osservato che
nel caso di conoscenza progressiva del vizio della res
vendita l’onere della denuncia, essendo prescritto
nell’interesse del venditore, ben può essere assolto in via
anticipata, cioè non appena l’acquirente venga a conoscenza
del vizio stesso e prima che egli ne tragga definitiva
conferma tramite gli accertamenti del caso.
E’ tutt’altro che illogico o contraddittorio, pertanto,
ritenere –come nella specie– che la contestazione sia stata
efficacemente manifestata nel lasso temporale compreso fra
la scoperta e la definitiva prova dell’inidoneità
dell’animale all’uso negoziato e delle relative cause. (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 12.02.2014 n. 3210 -
link a http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
Frazionamento in due unità immobiliari di
preesistente unica unità.
In caso di frazionamento in due unità immobiliari di quella
che, originariamente, era unica, si determina una struttura
edilizia qualitativamente diversa (a prescindere che si
tratti di un intero fabbricato o di un singolo appartamento)
con intuibili conseguenze anche in termini di aumento del
carico urbanistico potendo, in tal modo, l'immobile
frazionato ospitare più nuclei familiari.
Di qui, l'evidente
interesse e consapevolezza di chi sia proprietario allo
svolgimento dei lavori oltre che l'insorgenza, in capo ad
esso, di oneri ed, anche dell'applicazione di una procedura
più complessa di quella da attuare nel caso si tratti di
mera opera interna da ascrivere ad interventi di vera e
propria manutenzione straordinaria che non alterino la
consistenza fisica delle singole unità abitative (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.02.2014 n. 6381
- tratto da
www.lexambiente.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
I consiglieri comunali, in quanto tali, non sono
in un lato legittimati ad agire contro l’Amministrazione di
appartenenza, dato che il giudizio amministrativo non è di
regola aperto alle controversie tra organi o componenti di
organi dello stesso ente, ma è diretto a risolvere
controversie intersoggettive.
L’impugnativa di singoli consiglieri può ipotizzarsi
soltanto allorché vengano in rilievo atti incidenti in via
diretta sul diritto all’ufficio dei medesimi e, quindi, su
un diritto spettante alla persona investita della carica di
consigliere, dovendosi escludere che ogni violazione di
forma o di sostanza nell’adozione di una deliberazione, che
di per sé può produrre un atto illegittimo impugnabile dai
soggetti diretti destinatari o direttamente lesi dal
medesimo, si traduca in una automatica lesione dello ius ad
officium.
In particolare, si ritiene che vi sia legittimazione al
ricorso solo quando i vizi dedotti attengano ai seguenti
profili: a) erronee modalità di convocazione dell’organo
consiliare; b) violazione dell’ordine del giorno, c)
inosservanza del deposito della documentazione necessaria
per poter liberamente e consapevolmente deliberare; d) più
in generale, preclusione in tutto o in parte dell’esercizio
delle funzioni relative all’incarico rivestito.
In definitiva, la legittimazione dei consiglieri comunali
all’impugnazione delle deliberazioni dell’organismo
collegiale del quale fanno parte è ravvisabile soltanto ove
le stesse investano direttamente la sfera giuridica del
ricorrente, negandogli l’esercizio delle prerogative
correlate all’ufficio pubblico di cui sia titolare.
L’appello è infondato e va respinto.
La causa, in via preliminare, pone la questione, della
legittimazione al ricorso dei consiglieri comunali di
minoranza contro atti del loro comune che non incidono
sull’esercizio del loro mandato, né sul loro status ovvero
sulle prerogative del loro ufficio.
Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, dal
quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, i
consiglieri comunali, in quanto tali, non sono in un lato
legittimati ad agire contro l’Amministrazione di
appartenenza, dato che il giudizio amministrativo non è di
regola aperto alle controversie tra organi o componenti di
organi dello stesso ente, ma è diretto a risolvere
controversie intersoggettive.
L’impugnativa di singoli consiglieri può ipotizzarsi
soltanto allorché vengano in rilievo atti incidenti in via
diretta sul diritto all’ufficio dei medesimi e, quindi, su
un diritto spettante alla persona investita della carica di
consigliere, dovendosi escludere che ogni violazione di
forma o di sostanza nell’adozione di una deliberazione, che
di per sé può produrre un atto illegittimo impugnabile dai
soggetti diretti destinatari o direttamente lesi dal
medesimo, si traduca in una automatica lesione dello ius
ad officium (cfr. ex multis Cons. Stato, IV,
02.10.2012, n. 5184; V, 15.12.2005 n. 7122).
In particolare, si ritiene che vi sia legittimazione al
ricorso solo quando i vizi dedotti attengano ai seguenti
profili: a) erronee modalità di convocazione dell’organo
consiliare; b) violazione dell’ordine del giorno, c)
inosservanza del deposito della documentazione necessaria
per poter liberamente e consapevolmente deliberare; d) più
in generale, preclusione in tutto o in parte dell’esercizio
delle funzioni relative all’incarico rivestito.
In definitiva, la legittimazione dei consiglieri comunali
all’impugnazione delle deliberazioni dell’organismo
collegiale del quale fanno parte è ravvisabile soltanto ove
le stesse investano direttamente la sfera giuridica del
ricorrente, negandogli l’esercizio delle prerogative
correlate all’ufficio pubblico di cui sia titolare.
Per quanto detto, correttamente il giudice di primo grado ha
ritenuto inammissibili le censure proposte con l’originario
ricorso, in quanto tese a introdurre contestazioni
riguardanti i contenuti della variazione di bilancio e dei
relativi equilibri, la determinazione di vendita di un
immobile comunale nonché la previa dichiarazione di carenza
di interesse culturale e, dunque, questioni estranee al tema
dello ius ad officium e della lesione delle
prerogative riconosciute ai consiglieri, questioni in
relazione alle quali soltanto è delimita la legittimazione
attiva di costoro (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 07.02.2014 n. 593 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Integra il reato di lottizzazione abusiva il
frazionamento e la predisposizione di un terreno agricolo
alla realizzazione di più edifici aventi natura e
destinazione residenziale, in quanto trattasi di attività
edificatoria fittiziamente connessa alla coltivazione ed
allo sfruttamento produttivo del fondo ed incompatibile con
l’originaria vocazione dell’area.
Inoltre, integra il reato di lottizzazione abusiva anche la
cosiddetta lottizzazione “mista”, consistente nell’attività
negoziale di frazionamento di un terreno in lotti e nella
successiva edificazione dello stesso.
4.
Passando ora ad esaminare i motivi di ricorso, quanto alla
prima doglianza formulata dal (OMISSIS), comune anche alla
(OMISSIS), la sua infondatezza è di tutta evidenza giacché,
sulla base della logica e coerente ricostruzione dei fatti
operata dalla Corte territoriale, l’integrazione del reato
di lottizzazione e’ pacifica, essendosi proceduto alla
suddivisione del suolo in lotti destinati alla successiva
costruzione di edifici a scopo residenziale, la cui
esecuzione era del tutto inibita dagli strumenti
urbanistici, avendo ottenuto, come schermo, i titoli
abilitativi per realizzare fabbricati rurali per l’esercizio
dell’attività imprenditoriale agricola.
La giurisprudenza di questa Corte ha recentemente chiarito
che integra il reato di lottizzazione abusiva il
frazionamento e la predisposizione di un terreno agricolo
alla realizzazione di più edifici aventi natura e
destinazione residenziale, in quanto trattasi di attività
edificatoria fittiziamente connessa alla coltivazione ed
allo sfruttamento produttivo del fondo ed incompatibile con
l’originaria vocazione dell’area. (Sez. 3, n. 15605 del
31/03/2011, Manco ed altri, Rv. 250151).
Ed e’ pacifico che la lottizzazione abusiva viene attuata
con qualsiasi utilizzazione del suolo che preveda la
realizzazione di una pluralità di edifici così da comportare
una nuova definizione dell’assetto preesistente in zona non
urbanizzata o non sufficientemente urbanizzata, evento
comunque nella specie realizzato, ovvero quando detto
intervento non potrebbe, come pure si è verificato nel caso
di specie, in nessun caso essere realizzato poiché, per le
sue connotazioni oggettive, si pone in contrasto con
previsioni di zonizzazione e/o di localizzazione dello
strumento generale di pianificazione che non possono essere
modificate da piani urbanistici attuativi.
La giurisprudenza di questa Corte è nel senso che integra il
reato di lottizzazione abusiva anche la cosiddetta
lottizzazione “mista”, consistente nell’attività
negoziale di frazionamento di un terreno in lotti e nella
successiva edificazione dello stesso (Sez. 3, n. 6080 del
26/10/2007, dep. 07/02/2008, Casile ed altri, Rv. 238979).
Ed è ciò che si e’ puntualmente verificato nella fattispecie
in esame, essendo stata realizzata “una trasformazione
edilizia ed urbanistica del territorio”, attraverso il
conferimento di un diverso assetto ad una parte di esso, con
modalità vietate.
E’ stato pure precisato (Sez. 3, n. 6080 del 2007 cit.) che
anche la vendita di un terreno, sulla base di quote che
impongono al suolo un diverso, in ipotesi anche equivalente,
assetto proprietario, è idonea ad integrare il reato di
lottizzazione abusiva c.d. “negoziale”.
Nella specie, l’intento di eseguire attività edificatoria
difforme da quella consentita dallo strumento urbanistico
non trova alcuna smentita, emergendo limpidamente dalle
prove documentali e testimoniali valorizzate dai Giudici di
merito.
Quanto poi alla natura della contestazione, si ricava
agevolmente dal tenore letterale dell’accusa come agli
imputati sia stato rimproverato (capo a) di aver provveduto
al frazionamento in due lotti del terreno attraverso la
vendita dalla (OMISSIS) al (OMISSIS), per atto notarile, con
successiva esecuzione dei lavori in contrasto con le
prescrizioni degli strumenti urbanistici, con la conseguenza
che il secondo profilo della doglianza sollevata dal
(OMISSIS) è inconsistente, desumendosi proprio dalla
contestazione la natura mista della lottizzazione de qua,
nei sensi sopra precisati e dovendosi infine ricordare come
la lottizzazione abusiva sia reato a consumazione
alternativa, potendosi realizzare sia per il difetto di
autorizzazione sia per il contrasto, come nella specie, con
le prescrizioni della legge o degli strumenti urbanistici
(Sez. 3, n. 17865 del 17/03/2009, P.M. in proc. Quarta ed
altri, Rv. 243750 nonché Sez. U, n. 5115 del 28/11/2001,
dep. 08/02/2002, Salvini, Rv. 220708).
4.1.
Con riferimento poi al lamentato difetto di motivazione
circa il ritenuto concorso nella lottizzazione (secondo
motivo di ricorso della (OMISSIS)) ed al difetto di
motivazione circa l’elemento soggettivo del reato (secondo
motivo del (OMISSIS)), la Corte territoriale si è uniformata
al principio di diritto ormai costante che configura la
contravvenzione di lottizzazione abusiva come “reato
progressivo nell’evento”, avendo sul punto le Sezioni
Unite rilevato che: “sussiste il reato di lottizzazione
abusiva anche quando l’attività posta in essere sia
successiva agli atti di frazionamento o ad opere già
eseguite, perché tali attività iniziali, pur integrando la
configurazione del reato, non definiscono l’iter criminoso
che si perpetua negli interventi che incidono sull’assetto
urbanistico. Infatti, tenuto conto che il reato in questione
è, per un verso, un reato a carattere permanente e
progressivo e per altro verso a condotta libera, si deve
considerare in primo luogo che non vi e’ alcuna coincidenza
tra il momento in cui la condotta assume rilevanza penale
e/o momento di cessazione del reato, in quanto anche la
condotta successiva alla commissione del reato da luogo ad
una situazione antigiuridica di pari efficacia criminosa; in
secondo luogo che se il reato di lottizzazione abusiva si
realizza anche mediante atti negoziali diretti al
frazionamento della proprietà, con previsioni pattizie
rivelataci dell’attentato al potere programmatorio
dell’autorità comunale, ciò non significa che l’azione
criminosa si esaurisca in questo tipo di condotta perché
l’esecuzione di opere di urbanizzazione primaria e
secondaria ulteriormente compromettono le scelte di
destinazione e di uso del territorio riservate alla
competenza pubblica” (Sez. U, n. 4708 del 27/03/1992,
Fogliani, non mass.).
Di ciò la successiva giurisprudenza di legittimità non ha
mai dubitato ribadendo che la contravvenzione di
lottizzazione abusiva è reato progressivo nell’evento, che
sussiste anche quando l’attività posta in essere sia
successiva agli atti di frazionamento o alle opere già
eseguite, non esaurendo tali iniziali attività il percorso
criminoso e protraendosi quest’ultimo attraverso gli
interventi successivi incidenti sull’assetto urbanistico
(Sez. 3, n. 12772 del 28/02/2012 Tallarini, Rv. 252236).
Sicché, avuto riguardo alla ricostruzione della vicenda
processuale come correttamente operata dai Giudici di
merito, non possono nutrirsi dubbi sulla configurabilità
della compartecipazione criminosa, in considerazione della
riscontrata convergenza delle condotte degli imputati
durante l’iter criminis, dalla stipulazione degli
atti negoziali alla edificazione, e tutte dunque causalmente
orientate verso la realizzazione dell’evento lottizzatorio.
Tale circostanza ha portato la Corte territoriale, in
perfetta sovrapposizione con quanto ritenuto dal Tribunale,
fondatamente a ritenere che una tale consapevolezza fosse
plasticamente indicativa della sussistenza del dolo, avendo
i Giudici del merito congruamente evidenziato gli elementi
volontari ed intenzionali dei soggetti agenti e la finalità
edificatoria dell’acquisto del terreno da parte del
(OMISSIS), in uno alla consapevolezza di entrambi gli
imputati dei vincoli urbanistici gravanti sulla zona, avendo
sfruttato la qualità di imprenditori agricoli e la
(OMISSIS), al pari del (OMISSIS), assunto obblighi specifici
quanto alla destinazione agricola dei terreni (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.02.2014 n. 5105 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Concetto di sagoma di un edificio.
Relativamente al concetto di “sagoma” di un edificio, essa è
da intendersi -secondo l’insegnamento giurisprudenziale- come
la conformazione planovolumetrica della costruzione ed il
suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale,
ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi
comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli
sporti.
La nozione di <ristrutturazione edilizia> ci è
fornita dall’art. 3, comma 1, lett. d), del DPR n. 380 del
2001 che, per quel che qui rileva, ricomprende in essa anche
gli interventi “consistenti nella demolizione e
ricostruzione” di fabbricati esistenti, purché la
ricostruzione avvenga “con la stessa volumetria e sagoma”
dell’edificio demolito.
Quello richiamato è il testo dell’art. 3 cit. successivo al
d.lgs. n. 301 del 2002, la sua versione originaria essendo
ancora più restrittiva, giacché rientravano negli interventi
di <ristrutturazione edilizia> solo “quelli
consistenti nella demolizione e successiva fedele
ricostruzione di un fabbricato identico quanto a sagoma,
volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali,
fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento
alla normativa antisismica”.
In ogni caso, anche nel testo successivo al 2002, rientrano
nella <ristrutturazione edilizia> solo gli interventi
di demolizione e ricostruzione che rispettino il vincolo di
“volume” e “sagoma”. È solo con l’art. 30 del
decreto-legge 21.06.2013, n. 69 che il legislatore ha
espunto dall’art. 3, comma 1, lett. d) del DPR n. 380 del
2001 il riferimento alla “sagoma”, lasciando in
quella norma solo la menzione del vincolo di “volume”,
ma si tratta di normativa non rilevante al fine del presente
giudizio, giacché ai sensi del suo comma 6, le disposizioni
dell’art. 30 cit. si applicano dalla data di entrata in
vigore della legge di conversione del decreto-legge, cioè
dall’entrata in vigore della legge 09.08.2013, n. 98, quindi
successivamente all’emanazione del provvedimento oggetto del
presente giudizio.
D’altra parte, con riferimento al periodo anteriore a
decreto-legge n. 69 del 2013 (o meglio alla sua conversione
in legge), il vincolo della “sagoma” al fine di poter
ricondurre un intervento edilizio di demolizione e
ricostruzione alla <ristrutturazione edilizia> era
del tutto cogente anche per il legislatore regionale, come
ha chiarito la Corte costituzionale nella sentenza
23.11.2011, n. 309, che ha dichiarato illegittima una
previsione della legislazione regionale della Lombardia che
definiva come ristrutturazione edilizia interventi di
demolizione e ricostruzione senza il vincolo della sagoma.
Nella legislazione regionale della Toscana, ai sensi
dell’art. 79, comma 2, lett. d), della legge n. 1 del 2005
si ha <ristrutturazione edilizia> in caso “demolizioni
con fedele ricostruzione degli edifici, intendendo per
fedele ricostruzione quella realizzata con gli stessi
materiali o con materiali analoghi prescritti dagli atti di
cui all’articolo 52 oppure dal regolamento edilizio, nonché
nella stessa collocazione e con lo stesso ingombro
planivolumetrico, fatte salve esclusivamente le innovazioni
necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”;
ai sensi invece dell’art. 78, comma 1, lett. h), della
stessa legge regionale n. 1 del 2005 si ha <sostituzione
edilizia> in presenza di interventi di “demolizione e
ricostruzione di volumi esistenti non assimilabili alla
ristrutturazione edilizia eseguiti anche con contestuale
incremento volumetrico, diversa articolazione, collocazione
e destinazione d’uso, a condizione che non si determini
modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della
rete stradale e che non si renda necessario alcun intervento
sulle opere di urbanizzazione”.
Dunque la categoria della <sostituzione edilizia>,
estranea alla disciplina statale, ricomprende interventi non
riconducibili alla nozione di <ristrutturazione edilizia>
e che costituiscono, sia nella legislazione statale che in
quella regionale, interventi di nuova edificazione.
Risulta quindi rilevante, alla luce della normativa
applicabile nel presente giudizio, il concetto di “sagoma”,
giacché la sua modificazione comporta, con riferimento agli
interventi di demolizione e ricostruzione, il passaggio
dall’istituto della <ristrutturazione edilizia> a
quello della <sostituzione edilizia>.
Quanto al concetto di “sagoma”, essa è da intendersi,
secondo l’insegnamento giurisprudenziale, come la
conformazione planovolumetrica della costruzione ed il suo
perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale,
ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi
comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli
sporti (cfr. Cons. Stato, Sez. 6^, 15.03.2013, n. 1564;
Corte cost. 23.11.2011, n. 309; Cass. Pen., sez. 3^,
09.10.2008, 38408 e 06.02.2001, n. 9427).
Avendo riguardo a tale concetto non par dubbio che nella
specie l’edificio progettato e autorizzato con il
provvedimento gravato comporti, rispetto a quello demolito,
una modificazione di sagoma, risultando ciò dagli elaborati
progettuali versati in atti e dagli stessi rilievi delle
parti negli atti di giudizio. In particolare è evidente il
diverso disegno e le diverse caratteristiche che il nuovo
edificio assume rispetto al vecchio se si tiene conto del
passaggio da una copertura tradizionale a falde inclinate ad
una copertura del nuovo edificio con andamento
semicircolare, delle modifiche degli aggetti e dei prospetti
e scale di accesso (ammesse anche dalla controinteressata),
del rialzamento del colmo della copertura di 80 cm misurati
esternamente (ammesso dalla controinteressata).
La diversità di sagoma, con riferimento al primo piano, è
stata accertata anche nella svolta verificazione (pagg. 16 e
19 della relazione finale; il verificatore, con riferimento
al primo piano, afferma che è stato totalmente reimpostato “cambiandone
completamente perimetro e sagoma”), il che conforta le
svolte considerazioni. Ne discende che la “sagoma”
del nuovo progettato edificio, da valutarsi come intervento
unitario, è sicuramente variata, il che esclude la sua
riconducibilità alla <ristrutturazione edilizia> e il
suo qualificarsi come <sostituzione edilizia>, il che
comporta la configurazione dell’intervento stesso come nuova
costruzione e non già come intervento sostanzialmente
conservativo della pregressa edificazione, con le
conseguenze che ne discendono (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 21.01.2014 n. 156 -
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EDILIZIA PRIVATA:
La tecnica utilizzata per la demolizione e
ricostruzione è stata quella del c.d. <cuci e scuci>,
consistente non già ad una integrale demolizione
dell’esistente seguita da successiva ricostruzione ma da una
progressiva demolizione e contestuale ricostruzione, per
parti, dell’edificio medesimo.
Al riguardo, la giurisprudenza ben ritenuto compatibile
l’utilizzo del metodo <cuci e scuci> con la sussistenza, in
termini giuridici, all’esito della progressiva sostituzione
delle pareti dell’edificio preesistente, di un intervento di
nuova costruzione.
Deve solo essere aggiunto, in punto di qualificazione
dell’intervento edilizio de quo, che il Collegio non
ritiene che le conclusioni raggiunte al precedente punto 14
debbano essere modificate ove anche si prenda in
considerazione, secondo le prospettazioni delle parti
resistenti, che la tecnica utilizzata per la demolizione e
ricostruzione è stata quella del c.d. <cuci e scuci>,
consistente non già ad una integrale demolizione
dell’esistente seguita da successiva ricostruzione ma da una
progressiva demolizione e contestuale ricostruzione, per
parti, dell’edificio medesimo; a prescindere dal rilievo se
la demolizione sia in effetti avvenuta in modo integrale
unitario (come la svolta verificazione sembra suggerire) o
per parti progressive, non pare comunque che la tecnica
utilizzata possa venire ad incidere sulla tipologia di
intervento effettivamente realizzato e sulla sua conseguente
qualificazione giuridico-edilizia, avendo la giurisprudenza
ben ritenuto compatibile l’utilizzo del metodo <cuci e
scuci> con la sussistenza, in termini giuridici,
all’esito della progressiva sostituzione delle pareti
dell’edificio preesistente, di un intervento di nuova
costruzione (TAR Veneto, sez. 2^, 27.07.2009, n. 2226) (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 21.01.2014 n. 156 -
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PUBBLICO IMPIEGO: Il nome di fantasia non rende riconoscibile il candidato.
L'apposizione di un nome di fantasia sulla prova scritta del
concorso non rende riconoscibile il candidato, dovendosi
assumere leso il principio dell'anonimato nei soli casi in
cui, oltre all'idoneità oggettiva del segno, venga accertata
l'intenzionalità del gesto da parte del suo autore.
È quanto ha stabilito la V Sez. del Consiglio di
Stato, Sez. V, con la
sentenza
17.01.2014 n. 202.
Nel caso concreto, all'esito di una procedura selettiva per
l'assunzione di un nuovo architetto alle dipendenze di un
Comune, è stato impugnato il verbale di approvazione della
graduatoria, sul presupposto della denunciata violazione del
principio dell'anonimato della selezione.
In particolare, il secondo classificato in graduatoria ha
eccepito l'illegittimità dell'operato della commissione,
osservando come questa abbia omesso di escludere il
candidato, poi risultato vincitore, per avere questi apposto
in calce alla prova scritta un nome di fantasia idoneo a
farsi riconoscere.
Il Tribunale amministrativo ha accolto il ricorso presentato
dal secondo classificato, per l'effetto annullando l'intera
selezione. Nonostante le difese del controinteressato e
dell'amministrazione resistente, il giudice di primo grado
ha appurato la violazione del principio dell'anonimato,
rinvenendo nell'apposizione del nome di fantasia l'idoneità
ad influenzare la commissione di gara.
La vicenda è stata, dunque, sottoposta all'attenzione dei
giudici di Palazzo Spada, chiamati a pronunciarsi in sede di
gravame dal candidato usurpato della vittoria concorsuale.
Al Supremo consesso di giustizia amministrativa è stata
sottolineata l'erroneità del giudizio reso dal Tar, nella
parte in cui questi ha ricondotto l'apposizione del nome di
fantasia nel rango dei segni di riconoscimento atti a ledere
il principio dell'anonimato concorsuale, di contro
argomentando come detta eventualità rientri nella prassi di
molteplici procedure selettive, soprattutto per quelle in
cui si chiede ai candidati di redigere atti specifici che
richiedono particolari formalità, tra cui la firma
(fittizia) del professionista redigente. D'altra parte –ha
aggiunto il ricorrente– affinché possa ritenersi leso il
principio dell'anonimato è imprescindibile l'indagine in
ordine all'intenzionalità dell'apposizione del segno, in
mancanza della quale non vi sarebbe prova circa la volontà
e, conseguentemente il finalismo, di un determinato
atteggiamento del candidato.
Ebbene, i giudici romani, nell'accogliere il ricorso, hanno
fatto il punto sui principi che regolano le procedure
concorsuali, ed in particolare su quello dell'anonimato,
quale corollario del più generale (e costituzionalizzato)
principio di imparzialità della p.a. Quanto al problema dei
segni di riconoscimento, si è anzitutto richiamato il
granitico orientamento giurisprudenziale secondo cui
l'anonimato del candidato viene meno in presenza di due
precisi elementi: da un lato, l'idoneità del segno apposto
sull'elaborato a sortire l'effetto del riconoscimento;
dall'altro l'intenzionalità del gesto, finalizzato al
precipuo scopo di ottenere vantaggi dalla Commissione (o,
anche solo, da alcuni dei suoi membri) per via delle
relazioni personali con il candidato, e che quest'ultimo
vuole spendere quale proprio valore aggiunto.
Su cosa debba intendersi per «idoneità del segno di
riconoscimento», si è avuto cura di precisare come ciò che
rileva non è tanto «l'identificabilità dell'autore
dell'elaborato attraverso un segno a lui personalmente
riferibile», bensì l'astratta idoneità del segno a fungere
da elemento di identificazione; tanto si riscontrerebbe
allorché la particolarità del segno assuma un carattere
«oggettivamente e incontestabilmente anomalo» se comparato
alle ordinarie modalità di estrinsecazione del pensiero e di
elaborazione dello stesso in forma scritta: dal che, data
l'oggettività del vaglio sull'idoneità, passerebbe in
secondo piano l'effettiva capacità, in concreto, della
commissione o dei suoi singoli componenti di riconoscere
effettivamente l'autore dell'elaborato.
Sotto il profilo volitivo-intellettivo, invece, è stata
sottolineata l'esigenza di trarre l'intenzionalità del gesto
dalla riscontrata presenza di elementi atti a provare –in
modo inequivoco– la volontà del concorrente di rendersi
riconoscibile.
In base a queste considerazioni il Consiglio di stato ha
escluso, nel caso in esame, qualsivoglia violazione del
principio dell'anonimato, osservando come l'utilizzo del
nome di fantasia –peraltro in una sola delle prove scritte– non fosse in grado di permettere il riconoscimento del
candidato né, sotto il profilo marcatamente soggettivo,
dall'apposizione di siffatta firma poteva trarsi
l'intenzionalità di alterare il corso della selezione. Del
resto –hanno rilevato da ultimo i giudici– nell'unica
prova in cui era stato apposto il nome di fantasia i
candidati in lite avevano riportato lo stesso punteggio.
La pronuncia in esame è apprezzabile sotto il profilo
dell'effetto salvifico delle procedure selettive che
comporta, e tuttavia pare criticabile nella parte in cui
esclude in radice che l'apposizione di un nome di fantasia
possa assumersi quale segno di riconoscimento. La
discussione rimane aperta, e le tesi avverse –in
giurisprudenza quanto in letteratura– rimangono ancora
agguerrite: di certo un intervento normativo atto ad inibire
l'utilizzo di firme di fantasia privilegiando, di contro,
formule standard per tutti i candidati risolverebbe una
volta per tutte il problema, garantendo l'imparzialità e
deflazionando l'ingente mole di contenzioso in materia (articolo ItaliaOggi Sette del
03.03.201). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La condotta del pubblico ufficiale o
dell’incaricato di pubblico servizio che utilizzi il
telefono d’ufficio per fini personali, al di fuori dei casi
di urgenza nonché di specifiche e legittime autorizzazioni,
integra il reato di peculato d’uso solo se produce un danno
apprezzabile al patrimonio della Pubblica Amministrazione o
di terzi, ovvero una lesione concreta alla funzionalità
dell’ufficio, mentre deve ritenersi penalmente irrilevante
se non presenta conseguenze economicamente e funzionalmente
significative.
Devono invece ritenersi fondati motivi con i quali si
contesta la corretta qualificazione del fatto di cui al capo
1), peculato per utilizzazione del telefono cellulare.
Difatti ricorre l’ipotesi chiaramente qualificata dalla
giurisprudenza di questa Corte come reato di cui al
capoverso dell’articolo 314 cod. pen. (in tema di peculato,
la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un
pubblico servizio che utilizzi il telefono d’ufficio per
fini personali al di fuori dei casi d’urgenza o di
specifiche e legittime autorizzazioni, integra il reato di
peculato d’uso se produce un danno apprezzabile al
patrimonio della P.A. o di terzi, ovvero una lesione
concreta alla funzionalità dell’ufficio, mentre deve
ritenersi penalmente irrilevante se non presenta conseguenze
economicamente e funzionalmente significative (Sez. U, n.
19054 del 20/12/2012 – dep. 02/05/2013, Vattani e altro, Rv.
255296) (Corte di
Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 14.01.2014 n. 1248
- link a http://renatodisa.com). |
CONDOMINIO: Limiti alle innovazioni per le autorimesse.
Condominio. Vietato aprire un accesso per i veicoli su
un'area destinata a prato.
Costituisce
un'innovazione vietata l'apertura di un accesso per i
veicoli su un'area condominiale destinata a "prato", perché
la limitazione, attraverso il passaggio dei mezzi, ne
comprometterebbe la natura.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. II civile,
con la
sentenza
03.01.2014 n. 54.
Si tratta di una pronuncia che si inserisce nel filone di
giurisprudenza sulle innovazioni vietate in relazione alle
parti comuni del condominio. Infatti, quando un condomino
apporta un'innovazione sulle parti comuni, a favore della
propria unità immobiliare, la modifica rientrerà tra le
facoltà previste dall'articolo 1102 del Codice civile
qualora non sia incompatibile con l'uso della parte comune
sulla quale incide, vale a dire se non ne renda più incomodo
l'uso agli altri condomini. In caso contrario si ricade
nell'ipotesi di innovazioni vietate, in quanto suscettibili,
nel tempo, di costituire, per usucapione, nuove servitù
sulle parti comuni.
Numerose controversie giudiziarie, negli ultimi anni, ha
avuto quale oggetto proprio questa questione, soprattutto in
relazione ai fondi già commerciali, trasformati in
autorimesse perché più appetibili dal punto di vista
economico. Qualora, infatti, la trasformazione dell'ingresso
del fondo da pedonale a carrabile non incida su una parte
comune (sbocco sul suolo pubblico) non ci sono problemi, ma
quando la trasformazione incide su parti comuni (piazzali,
marciapiedi, giardini) c'è il rischio dell'innovazione
vietata.
Ora la Cassazione, con la pronuncia 54/2014, ha confermato
che l'innovazione deve ritenersi legittima qualora il passo
carrabile insista su aree pubbliche (in questo caso sarà
solo una questione di tassa comunale), su aree private già
deputate al transito veicolare (strade private, rampe di
accesso ad altre autorimesse già esistenti), o su cortili
senza alcuna destinazione specifica. Al contrario,
costituisce innovazione vietata l'intersezione carrabile di
marciapiedi condominiali (funzionalmente predisposti al
passo pedonale), di giardini, parcheggi e di tutte le aree
che presentino manufatti incompatibili con il transito
veicolare.
Questa pronuncia rischia di costituire una forte limitazione
alla trasformazione di fondi già commerciali in autorimesse
e, di conseguenza, rischia di avere un forte impatto
socio-economico, visto che, negli ultimi anni, la
diminuzione dei prezzi degli immobili, soprattutto
commerciali, ha spostato gli investimenti proprio verso le
autorimesse (articolo Il Sole 24 Ore del 03.03.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: La
sostituzione delle pareti con il metodo “cuci e scuci”
comporta proprio la totale demolizione e ricostruzione del
manufatto e dunque tale intervento ha ad oggetto una nuova
costruzione e non poteva essere compreso nell’ambito
dell’autorizzazione rilasciata per lavori di manutenzione
straordinaria.
... per l'annullamento del provvedimento in data 30.04.1996
(n. 539 del registro delle ordinanze) con cui il Sindaco del
Comune di Vicenza ha ordinato la demolizione di opere
abusive e del P.R.G. del Comune di Vicenza nella parte in
cui sottopone la zona in cui sono ubicate tali opere a
vincolo cimiteriale;
...
Il ricorrente lamenta eccesso di potere per erroneità dei
presupposti.
Egli lamenta in particolare che non ha demolito e
ricostruito gli accessori, ma ha provveduto alla
sostituzione delle pareti con il metodo “cuci e scuci”
e cioè demolendo un piccolo tratto di muro e ricostruendolo
immediatamente e così via.
La doglianza è infondata.
Infatti la sostituzione delle pareti con il metodo “cuci
e scuci” comporta proprio la totale demolizione e
ricostruzione del manufatto e dunque tale intervento ha ad
oggetto una nuova costruzione e non poteva essere compreso
nell’ambito dell’autorizzazione rilasciata per lavori di
manutenzione straordinaria
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 27.07.2009 n. 2226 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ingiunzione
di demolizione di fabbricati non autorizzati costituisce un
atto palesemente dovuto, pertanto l'assenza della
comunicazione dell'avvio del relativo procedimento risulta
irrilevante, anche alla luce di quanto disposto nell'art.
21-octies della l. 07.08.1990 n. 241, introdotto dall'art.
14 della l. 11.02.2005 n. 15, il quale esclude possa essere
annullato il provvedimento, qualora sia palese che il suo
contenuto dispositivo non può essere diverso da quello in
concreto adottato.
Infondata è la
censura di violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del
1990.
L’ordinanza di demolizione è correttamente motivata in
relazione ai propri presupposti.
L'ingiunzione di demolizione di fabbricati non autorizzati
costituisce un atto palesemente dovuto, pertanto l'assenza
della comunicazione dell'avvio del relativo procedimento
risulta irrilevante, anche alla luce di quanto disposto
nell'art. 21-octies della l. 07.08.1990 n. 241, introdotto
dall'art. 14 della l. 11.02.2005 n. 15, il quale esclude
possa essere annullato il provvedimento, qualora sia palese
che il suo contenuto dispositivo non può essere diverso da
quello in concreto adottato (così TAR Veneto II n. 2134 del
2009, Consiglio di Stato VI n. 2733 del 2008).
Il ricorrente non ha d’altro canto provato che il
provvedimento poteva essere diverso da quello adottato
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 27.07.2009 n. 2226 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 06.03.2014 |
ã |
IN EVIDENZA |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Sull'illegittimo affidamento a professionisti esterni delle
mansioni ordinarie dell'U.T.C. anziché assumere a tempo
pieno, con conseguente responsabilità erariale.
Va accertato che gli atti di affidamento
di incarico esterno del comune non sono conformi ai presupposti di legge per:
• violazione dell’art. 7 TUPI che impone lo svolgimento di
procedure comparative per l’affidamento di ogni incarico
esterno, salve le eccezioni previste;
• violazione dell’art.
7 TUPI in merito alla durata dell’incarico e al contenuto
delle mansioni affidate esternamente;
Si invita
l’Amministrazione comunale ad adottare gli opportuni
provvedimenti per conformare la propria attività ai
presupposti normativi per l’affidamento dell’incarico nonché
ai principi di buon andamento di cui all’art. 97 Cost..
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La necessità di un dipendente con professionalità tecniche
per l’ente locale rappresenta una esigenza organizzativa che
si configura come permanente.
Ne consegue che l’ente locale conferente non può fare
ricorso all’affidamento di incarichi a soggetti estranei per
lo svolgimento di funzioni ordinarie, attribuibili a
personale che dovrebbe essere previsto in organico,
altrimenti questa esternalizzazione si tradurrebbe in una
forma atipica di assunzione, “con conseguente elusione delle
disposizioni in materia di accesso all’impiego nelle
Pubbliche amministrazioni, nonché di contenimento della
spesa di personale” .
---------------
Questa Sezione rileva che la criticità denunciata
dall’amministrazione comunale (carenza di dipendente con una
professionalità idonea a svolgere le funzioni dell’ufficio
tecnico) non può essere affrontata eludendo i vincoli di
finanza pubblica in materia di spesa per il personale e
violando le norme sull’affidamento all’esterno degli
incarichi professionali (art. 7 TUPI).
---------------
Le recenti novelle legislative che hanno
inciso sulla disciplina degli atti di affidamento delle
consulenze da parte degli enti locali sono accomunate da un
indiscusso principio ispiratore: l’amministrazione deve
svolgere le sue funzioni con la propria organizzazione e il
proprio personale; conseguentemente, il ricorso a rapporti
di collaborazione con “soggetti esterni è consentito solo
nei casi previsti dalla Legge, od in relazione ad eventi
straordinari, non sopperibili con la struttura burocratica
esistente” (in
questo senso, si veda la sentenza della Corte Conti, II sez.
app., del 20.03.2006).
La crescita del fenomeno e l’utilizzo improprio delle
collaborazioni negli ultimi anni hanno spinto il Legislatore
ad intervenire in materia con disposizioni restrittive ai
fini del contenimento della spesa. Si vedano, ad esempio, le
disposizioni di cui agli artt. 34 della Legge 27.12.2002, n.
289, 3 della Legge 24.12.2003, n. 350 e 1, commi 9 e 11 del
decreto Legge 12.07.2004, n. 168, convertito con Legge
30.07.2004, n. 191 (sostituite, a decorrere dal 01.01.2005,
dall’articolo 1, commi 11 e 42, della Legge 30.12.2004, n.
311) con l’introduzione di fattispecie tipizzate di illecito
amministrativo contabile, per cui la violazione del disposto
normativo “costituisce illecito disciplinare e determina
responsabilità erariale”.
In questo contesto va inquadrata la funzione di controllo
esercitata dalle sezioni regionali della Corte dei conti
sugli atti di affidamento di consulenze esterne; funzione
che la magistratura svolge su due livelli, ovvero su quello
più generale che investe l’esercizio della potestà
regolamentare dell’ente locale conferente, nonché su quello
più specifico che attiene la singola determina di
affidamento dell’incarico.
I) Il controllo della sez. regionale
della Corte dei Conti sui regolamenti adottati dagli Enti
locali per l'affidamento di incarichi di collaborazione
autonoma.
Con riferimento all’attività di controllo che la Corte dei
Conti esercita a livello di regolamentazione adottata dagli
enti, in questa sede, è sufficiente ricordare che l’art. 3
della legge Finanziaria per l’anno 2008 (legge 24/12/2007 n.
244), come sostituito dall’art. 46, comma 3, D.L.
25.06.2008, n. 112 e relativa legge di conversione, al comma
56 recita che “con il regolamento di cui all'articolo 89
del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, sono fissati, in
conformità a quanto stabilito dalle disposizioni vigenti, i
limiti, i criteri e le modalità per l'affidamento di
incarichi di collaborazione autonoma, che si applicano a
tutte le tipologie di prestazioni. La violazione delle
disposizioni regolamentari richiamate costituisce illecito
disciplinare e determina responsabilità erariale. Il limite
massimo della spesa annua per incarichi di collaborazione è
fissato nel bilancio preventivo degli enti territoriali”.
Il successivo comma 57, poi, sancisce che “le
disposizioni regolamentari di cui al comma 56 sono
trasmesse, per estratto, alla sezione regionale di controllo
della Corte dei conti entro trenta giorni dalla loro
adozione”.
Questa Sezione con le deliberazioni 37/2008, 224/2008 e
37/2009 ha individuato alcuni principi che devono informare
le disposizioni regolamentari in materia (si vedano anche le
più recenti, Lombardia/715/2010/REG del 30.06.2010 e
Lombardia/967/2010/REG del 22.10.2010).
Nel caso di specie, tuttavia, la verifica di questa Sezione
si incentra sulle singole determinazioni di affidamento di
incarico esterno di cui si è detto in premessa;
conseguentemente, è opportuno soffermarsi sui presupposti di
carattere procedimentale e sostanziale che devono ricorrere
per qualificare come conforme alla disciplina la determina
in parola.
II) Il controllo delle sezioni regionali
sulle singole determinazioni di affidamento di incarichi a
soggetti esterni alle amministrazioni locali.
L’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266, ha
previsto che gli atti di spesa relativi ai precedenti commi
9, 10, 56 e 57 di importo superiore a 5.000 euro devono
essere trasmessi alla competente sezione della Corte dei
conti per l'esercizio del controllo successivo sulla
gestione. La finalità di tale previsione normativa è
riconducibile all’accertamento, di tipo collaborativo, da
parte della Corte, dell’idoneità dell’attività
amministrativa posta in essere dagli enti locali a
raggiungere determinati risultati, attraverso una verifica
della sua efficacia, efficienza ed economicità, che non può
comunque prescindere da un riscontro della conformità della
stessa a norme giuridiche.
Questa Sezione ha già affermato che “l’accertamento
dell’illegittimità per il mancato rispetto di una o più dei
requisiti di legge (talora verificabile nei limiti di
sindacabilità di scelte discrezionali) comporta da un lato
l’obbligo di rimuovere, ove possibile, l’atto con un
provvedimento di secondo grado e dall’altro la
responsabilità del soggetto che lo ha posto in essere”
(Sez. contr. Reg. Lombardia, n. 244/2008).
Si aggiunga che un utilizzo improprio delle
collaborazioni esterne per ricoprire uffici dell’ente è
fonte di responsabilità.
Questo principio -affermato dalla giurisprudenza contabile
in materia di conferimento di incarichi esterni nella P.A.-
è stato recentemente fatto proprio dal legislatore
nell'articolo 22, comma 2, della legge n. 69 del 2009, e poi
dall'articolo 17, comma 27, della legge n. 102 del 2009, che
hanno novellato l’articolo 7, comma 6, del d.lgs. n.
165/2001.
Nel nuovo art. 7 T.U. Pubbl. Imp., infatti, è stato previsto
che il ricorso a contratti di
collaborazione coordinata e continuativa per lo svolgimento
di funzioni ordinarie o l'utilizzo dei collaboratori come
lavoratori subordinati è causa di responsabilità
amministrativa per il dirigente che ha stipulato i
contratti.
Prima di procedere alla verifica di conformità alla
disciplina giuridica vigente dell’incarico esterno conferito
dall’amministrazione comunale di Padenghe sul Garda, occorre
indicare quali sono in linea generale i presupposti di
legittimità per il conferimento di “incarichi esterni”
(presupposti di carattere sostanziale e procedimentale) che
la Corte dei Conti valuta nello svolgimento dell’attività di
controllo attribuitale dall’art. 1, comma 173, della legge
23.12.2005, n. 266.
Il nuovo testo del sesto comma dell’art. 7 T.U. Pubb. Imp.
(modificato dall’art. 3, comma 76, della l. n. 244/2007, poi
sostituito dall’art. 46, comma 1, d.l. n. 112/2008)
qualifica “come presupposti di legittimità tutti i
requisiti già ritenuti dalla giurisprudenza contabile
necessari per il ricorso ad incarichi di collaborazione o di
studio” (Sez. Contr. Reg. Lombardia, delib. n.
224/2008).
1) La rispondenza dell’incarico agli obiettivi
dell’amministrazione. In merito a questo presupposto,
questa Sezione ha già chiarito che “il requisito della
corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita
dall’ordinamento all’amministrazione conferente è
determinato dal poter ricorrere a contratti di
collaborazione autonoma solo con riferimento alle attività
istituzionali stabilite dalla legge o previste dal programma
approvate dal Consiglio dell’ente locale ai sensi dell’art.
42 del D.lvo 267/2000” (Sez. contr. Reg. Lombardia, n.
37/2009, nonché Sez. Reg. Lombardia, n. 244/2008).
2) L’inesistenza, all’interno della propria
organizzazione, della figura professionale idonea allo
svolgimento dell’incarico, da accertare per mezzo di una
reale ricognizione.
3) L’indicazione specifica dei contenuti e dei criteri
per lo svolgimento dell’incarico.
4) L’indicazione della durata dell’incarico.
5) La proporzione fra il compenso corrisposto
all’incaricato e l’utilità conseguita dall’amministrazione.
Sotto il profilo della spesa è, tuttavia, doveroso ricordare
che “il comma 3 dell’art. 46 del D.L. 112/2008,
unificando ai fini dell’inserimento nel regolamento di cui
all’art. 89 del D.lvo 267/2000 tutti gli incarichi di
collaborazione autonoma, ha eliminato l’obbligo di
individuare nel regolamento il livello massimo di spesa
sostenibile per taluni di essi, prevedendo invece la
fissazione del limite massimo annuale nel bilancio
preventivo degli enti territoriali. E’, pertanto, necessario
accertare in sede di conferimento degli incarichi
l’esistenza di un apposito stanziamento di spesa ed il
rispetto del suo limite” (Sez. contr. Reg. Lombardia, n.
37/2009).
6) Il requisito della “comprovata specializzazione
universitaria”: le amministrazioni, per esigenze cui
non possono far fronte con personale in servizio, possono
conferire incarichi individuali (con contratti di lavoro
autonomo professionale, occasionale o di collaborazione
coordinata e continuativa) a esperti “di particolare e
comprovata specializzazione universitaria”.
7) Obbligo di motivazione della determina con cui viene
affidato l’incarico esterno. Le Sezioni Riunite della
Corte dei Conti (delib. n. 6/2005) hanno già ricordato che “l’atto
di incarico deve contenere tutti gli elementi costitutivi ed
identificativi previsti per i contratti della Pubblica
Amministrazione ed in particolare oggetto della prestazione,
durata dell’incarico, modalità di determinazione del
corrispettivo e del suo pagamento, ipotesi di recesso,
verifiche del raggiungimento del risultato. Quest’ultima
verifica è peraltro indispensabile in ipotesi di proroga o
rinnovo dell’incarico. In ogni caso tutti i presupposti che
legittimano il ricorso alla collaborazione debbono trovare
adeguata motivazione nelle delibere di incarico” (Sez.
contr. Reg. Lombardia, n. 37/2009).
8) La valutazione del revisore o del collegio dei
revisori dei conti. In numerose delibere le Sezioni
Regionali di Controllo hanno ribadito che le disposizioni
della legge 311/2004 (finanziaria 2005) concernenti la
valutazione dell’organo interno di revisione, non sono state
né abrogate esplicitamente dalla finanziaria per l’anno 2006
né sono incompatibili con la disciplina intervenuta
successivamente, pertanto tale obbligo permane (Corte Conti,
sez. reg. contr. Lombardia, delib. n. 231/2009/par. del
14.05.2009; Corte Conti, sez. reg. contr. Lombardia, delib.
n. 506/2010/par. del 23.04.2010; contra, ma con affermazione
apodittica, delibera in data 17.02.2006 della Sezione delle
Autonomie).
L’obbligo di verifica da parte dell’organo di revisione
riguarda il singolo atto di spesa e assolve a finalità
nettamente distinte da quelle affidate al controllo sulla
gestione di pertinenza della magistratura contabile.
L’intervento del revisore contabile è necessario quale
titolare di funzioni di controllo interno all’ente e di
raccordo con gli organi di controllo esterno (Corte Conti,
sez. reg. contr. Lombardia, delib. n. 506/2010/par. del 23
aprile 2010; Sez. Contr. Reg. Piemonte, parere n. 23 del
18.03.2010).
9) L’obbligo di seguire procedure comparative. Ogni
Amministrazione deve adottare e rendere pubbliche le
procedure comparative per il conferimento degli incarichi di
collaborazione (comma 6-bis, art. 7 D.Lg.vo n. 165/2001).
Tale obbligo è considerato dalla giurisprudenza
amministrativa un adempimento essenziale per la legittima
attribuzione di incarichi di collaborazione (TAR Puglia n.
494/2007). Di fatto, però, la norma è stata disattesa dalla
maggior parte degli enti.
Una parte della Giurisprudenza amministrativa ha ricordato
che “l'affidamento di incarichi di consulenza e/o di
collaborazione da conferire a soggetti esterni alla Pubblica
amministrazione non può prescindere dal preventivo
svolgimento di una selezione comparativa adeguatamente
pubblicizzata” (Cons. St., sent. 28.05.2010, n. 3405).
10) L’obbligo pubblicazione degli elenchi sul sito web
istituzionale. La legge finanziaria per il 2008
modificando il comma 127, art. 1, della legge n. 662/1996,
impone alle amministrazioni (anche gli enti locali) che si
avvalgono di collaboratori esterni o che affidano incarichi
di consulenza per i quali è previsto un compenso, di
pubblicare sul proprio sito web i relativi provvedimenti,
con l’indicazione dei soggetti percettori, della ragione
dell’incarico e dell’ammontare erogato.
III) Profili di non conformità a legge
della determina di affidamento di incarico oggetto della
presente deliberazione. Incarichi conferiti all’arch. J.S.
per consulenza all’Ufficio Tecnico Comunale a decorrere dal
2008.
Si tratta di un’attività per cui il suddetto soggetto ha
ricevuto plurimi incarichi che hanno coperto il periodo
01.01.2008–31.12.2013. Segnatamente, gli incarichi sono
stati conferiti con le seguenti cadenze: (omissis).
Le determine di cui sopra presentano sia
vizi sostanziali sia vizi procedimentali; il comune di
Padenghe sul Garda, contravvenendo ai principi in precedenza
esposti, ha fatto ricorso all’istituto della collaborazione
professionale esterna in violazione di norme di legge,
erroneamente ritenendola, a volte una consulenza in un
ambito limitato d’intervento, a volte un appalto di servizi
da conferire in via diretta ai sensi dell’art. 125, comma 2,
del D.Lgs. 163/2006, atteso che la prestazione richiesta
all’architetto in questione si è sempre risolta, nella
sostanza, in una mera ridondanza delle mansioni che avrebbe
dovuto svolgere per dovere istituzionale un pubblico
impiegato alle dipendenze dell’amministrazione comunale.
Il lungo lasso temporale in cui sono stati conferiti gli
incarichi al professionista in questione, senza peraltro mai
valutare con tenore esplicito il buon esito dei precedenti
incarichi, si è tradotto in una surrettizia instaurazione di
un rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato in
violazione del principio dell’accesso concorsuale ai
pubblici uffici.
Alla luce di quanto già esposto nella prima parte di questa
deliberazione, il comune di Padenghe sul Garda ha violato le
seguenti norme di legge:
1) violazione dell’art. 7 TUPI che impone lo svolgimento
di procedure comparative per l’affidamento di ogni incarico
esterno, salve le eccezioni previste.
Ogni Amministrazione deve adottare e rendere pubbliche le
procedure comparative per il conferimento degli incarichi di
collaborazione (comma 6-bis, art. 7, D.Lg.vo n. 165/2001).
Tale obbligo è considerato dalla giurisprudenza
amministrativa un adempimento essenziale per la legittima
attribuzione di incarichi di collaborazione (TAR Puglia n.
494/2007). Infatti, “l'affidamento di incarichi di
consulenza e/o di collaborazione da conferire a soggetti
esterni alla Pubblica amministrazione non può prescindere
dal preventivo svolgimento di una selezione comparativa
adeguatamente pubblicizzata” (Cons. St., sent.
28.05.2010, n. 3405).
In proposito questa Sezione ribadisce che l’art. 7 TUPI che
impone l’espletamento di procedure comparative a prescindere
dall’importo pattuito. Detta regola trova solo tre tassative
eccezioni (“procedura comparativa andata deserta”; “unicità
della prestazione sotto il profilo soggettivo”; “assoluta
urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della
consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un
evento eccezionale”).
Dunque, poiché nel caso di specie
non ricorre nessuna di queste tre ipotesi aventi carattere
eccezionale, questa Sezione ritiene che il comune di Padenghe sul Garda, avendo proceduto all’affidamento diretto
dell’incarico, abbia violato il disposto dell’art. 7 TUPI
che impone l’espletamento di una procedura comparativa per
la selezione dell’affidatario di un incarico esterno.
2) Violazione dell’art. 7 TUPI in merito alla durata
dell’incarico e al contenuto delle mansioni affidate
esternamente.
Con riferimento all’indeterminatezza dell’oggetto della
prestazione, le osservazioni contenute nelle memorie
prodotte dall’amministrazione sono destituite di ogni
fondamento giuridico, posto che risulta per tabulas che
l’oggetto del primo incarico all’Arch. S. è ”di
consulenza professionale presso l’ufficio tecnico comunale”,
senza alcuna specificazione circa la specialità e la
contestualizzazione delle prestazioni, tale da dissimulare
nell’asserito incarico di collaborazione professionale
l’instaurazione surrettizia di un rapporto di lavoro
pubblico a tempo determinato in carenza di procedure
concorsuali o selettive dei possibili candidati. La medesima
indeterminatezza dell’oggetto della prestazione si riscontra
nelle successive determine di proroga sino al 31.12.2013.
Infine, si osserva che la durata del rapporto intercorso tra
il comune di Padenghe sul Garda e l’arch. J.S. (ovvero,
primo incarico annuale nel 2008 successivamente prorogato)
non risponde ai principi più volte ribaditi dalla
Magistratura contabile (ex multis Sezione Centrale
del controllo di legittimità sugli atti del Governo e delle
Amministrazioni dello Stato, delibera n. SCCLEG/1/2012/PREV
del 13.01.2012 e la delibera n. 24/2011) secondo cui
la
durata dei contratti di collaborazione (ex art. 7, c. 6, del
d.lgs. n. 165/2001) devono avere “natura temporanea, in
quanto conferiti allo scopo di sopperire ad esigenze di
carattere temporaneo per le quali l’amministrazione non
possa oggettivamente fare ricorso alle risorse umane e
professionali presenti al suo interno. Al riguardo, infatti,
l’indirizzo giurisprudenziale prevalente in materia
considera l’incarico di collaborazione coordinata e
continuativa non rinnovabile e non prorogabile, se non a
fronte di un ben preciso interesse dell’Amministrazione
committente, adeguatamente motivato ed al solo fine di
completare le attività oggetto dell’incarico, limitatamente
all’ipotesi di completamento di attività avviate contenute
all’interno di uno specifico progetto”.
Infatti, l’istituto giuridico della proroga deve essere
collegato alla possibilità che il progetto, per il quale è
stato conferito l’incarico, non venga portato a compimento.
La “proroga si configura, essenzialmente, come
spostamento in avanti del termine contrattuale, e, dunque,
come una sorta di ultra-attività del contratto originario”
(delibera n. SCCLEG/1/2012/PREV del 13.01.2012 cit.).
Nel caso di specie non è riscontrabile il presupposto di
eccezionalità, in quanto la necessità di un dipendente con
professionalità tecniche per l’ente locale rappresenta una
esigenza organizzativa che si configura come permanente. Ne
consegue che l’ente locale conferente non può fare ricorso
all’affidamento di incarichi a soggetti estranei per lo
svolgimento di funzioni ordinarie, attribuibili a personale
che dovrebbe essere previsto in organico, altrimenti questa
esternalizzazione si tradurrebbe in una forma atipica di
assunzione, “con conseguente elusione delle disposizioni
in materia di accesso all’impiego nelle Pubbliche
amministrazioni, nonché di contenimento della spesa di
personale” (Sezione Centrale del controllo di
legittimità sugli atti del Governo e delle Amministrazioni
dello Stato, delibera n. SCCLEG/1/2012/PREV del 13.01.2012).
In conclusione, l’amministrazione comunale deve attenersi
all’insegnamento delle Sezioni Riunite della Corte dei Conti
(delibera n. 20 del 04.04.2011): “fermo restando il
limite della spesa storica riferito al 2004, gli enti non
sottoposti alle regole del patto di stabilità possono
procedere, ai sensi del combinato disposto dei commi 557,
557-bis e 562 dell’art. 1 della legge 27.12.2006 n. 296
(legge finanziaria per il 2007) e dell’art. 76, comma 7, del
d.l. n. 112/2008, all’instaurazione in via temporanea ed
occasionale di rapporti di collaborazione coordinata e
continuativa o per programma anche se non vi siano state
corrispondenti cessazioni di rapporti di lavoro a tempo
indeterminato, a condizione che:
- detti rapporti di collaborazione coordinata e continuativa
o per programma abbiano carattere temporaneo nelle more di
un’adeguata programmazione del personale e di una
riorganizzazione degli uffici in forma associata;
- l’esercizio di funzioni pubbliche indefettibili venga
assicurato, prioritariamente e a regime, mediante la
previsione in organico di adeguato e qualificato personale;
- il ricorso a tali forme di collaborazione non costituisca
occasione di elusione dei limiti di spesa previsti in tema
di contenimento di spesa pubblica, ed in particolare di
incarichi di consulenza”.
Dunque, questa Sezione rileva che la
criticità denunciata dall’amministrazione comunale (carenza
di dipendente con una professionalità idonea a svolgere le
funzioni dell’ufficio tecnico) non può essere affrontata
eludendo i vincoli di finanza pubblica in materia di spesa
per il personale e violando le norme sull’affidamento
all’esterno degli incarichi professionali (art. 7 TUPI).
P.Q.M.
La Corte dei conti Sezione regionale di controllo per la
Lombardia accerta che gli atti di affidamento di incarico
esterno del comune di Padenghe sul Garda sopra individuati,
non sono conformi ai presupposti di legge come esposti in
parte motiva.
Stante il recesso comunicato dal professionista incaricato
con effetto a far data dal 30.09.2013, la Sezione invita
l’Amministrazione comunale ad adottare gli opportuni
provvedimenti per conformare in futuro la propria attività
ai presupposti normativi per l’affidamento dell’incarico
nonché ai principi di buon andamento di cui all’art. 97
Cost.
Dispone che la presente deliberazione sia trasmessa al
Presidente del Consiglio comunale e al Sindaco del comune di
Padenghe sul Garda per quanto di competenza.
Dispone che la presente deliberazione sia
trasmessa alla Procura regionale della Corte dei conti per
le determinazioni di competenza
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
deliberazione 20.02.2014 n. 87). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
TRIBUTI - VARI:
Attivazione del servizio di consultazione telematica
delle banche dati ipotecaria e catastale relativo a beni
immobili dei quali il soggetto richiedente risulta titolare,
anche in parte, del diritto di proprietà o di altri diritti
reali di godimento (Agenzia delle Entrate,
provvedimento direttoriale 04.03.2014 n. 31224 di prot.).
----------------
Dati catastali on line e senza spese. Accesso con Fisconline
ed Entratel.
Informazioni a portata di mouse, per i titolari, anche se
soltanto in parte, del diritto di proprietà o di altri
diritti reali di godimento degli immobili oggetto
dell’interrogazione.
Le persone fisiche, con abilitazione ai servizi Fisconline o
Entratel, dal prossimo 31 marzo, potranno consultare
on-line, gratuitamente e senza versare tributi, le banche
dati ipotecaria e catastali in relazione agli immobili dei
quali risultano titolari, anche in parte, del diritto di
proprietà o di altri diritti reali di godimento.
Il provvedimento direttoriale, del 4 marzo, stabilisce le
modalità e i tempi di accesso alla procedura, attivata in
base a quanto previsto dall’articolo 6, comma 5-quinquies,
del decreto legge 16/2012, convertito con modificazioni
dalla legge 44/2012.
Per ora, quindi, informazioni in rete, soltanto alle persone
fisiche registrate a Fisconline o Entratel. Per accedere
alla consultazione occorre che il codice fiscale del
richiedente, presente nelle banche dati ipotecaria e
catastale, coincida con quello del titolare
dell’abilitazione ai due servizi telematici dell’Agenzia
delle Entrate.
La procedura risponde esclusivamente in relazione ai
fabbricati di cui il soggetto risulta intestatario negli
archivi catastali e, riguardo ai registri immobiliari, alle
formalità informatizzate in cui siano presenti sia il
soggetto, sia i fabbricati di cui il medesimo risulta
intestatario negli atti catastali.
Inoltre, sempre dal prossimo 31 marzo, la consultazione
degli stessi dati potrà essere richiesta, senza costi, anche
presso gli sportelli decentrati del Catasto, chance, in
questo caso, a disposizione non solo delle persone fisiche (04.03.2014
- link a www.fiscooggi.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: SISTRI: conferma della partenza del 3 marzo per
i produttori di rifiuti pericolosi e proroga dell’avvio
delle sanzioni (ANCE Bergamo,
circolare 28.02.2014 n. 59). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: AMIANTO: relazione annuale entro il 31.03.2014
(ANCE Bergamo,
circolare 28.02.2014 n. 58). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Compendio di normativa ambientale. Edizione num.
4 – anno 2014 (ANCE Bergamo,
circolare 28.02.2014 n. 57). |
VARI:
Oggetto: Compendio di normativa sull’autotrasporto.
Edizione num. 3 – anno 2014 (ANCE Bergamo,
circolare 28.02.2014 n. 56). |
APPALTI:
Oggetto: Legge 21.02.2014 n. 9 (Destinazione Italia):
nuove disposizioni in tema di pagamento dei subappaltatori e
delle mandanti; concordato preventivo e partecipazione gare
d’appalto; forma dei contratti d’appalto; compensazione
cartelle esattoriali con crediti per appalti (ANCE
Bergamo,
circolare 28.02.2014 n. 53). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Integrazione dei dati ambientali nei certificati
del registro delle imprese (Ministero dello Sviluppo
Economico,
nota 25.02.2014 n. 32555 di prot.).
---------------
Dati ambientali integrabili d'ufficio nel fascicolo
aziendale. Da parte delle camere di commercio. circolare dello sviluppo
economico.
Sì alla possibilità di integrare d'ufficio da parte della
Camera di commercio il fascicolo d'impresa con i dati
ambientali. Per i fatti, gli atti e le notizie differenti da
quelli proveniente dal Suap, è ammissibile un'acquisizione
d'ufficio da parte della camera di commercio, in particolar
modo, ove grazie ai protocolli stabiliti con le
amministrazioni pubbliche o i gestori di pubblici servizi,
sia possibile un'alimentazione costante e uniforme dello
stesso fascicolo informatico d'impresa. Con la finalità di
ritrovare nel fascicolo di impresa tutte le notizie relative
alla stessa, evitando così di appesantire burocraticamente
l'impresa con richieste multiple sulla medesima fattispecie.
La complessa serie di disposizioni normative emanate negli
ultimi anni, in tema di arricchimento delle norme possedute
dal registro delle imprese/Rea è chiaramente indirizzata
alla massima integrazione dei dati e concentrazione degli
stessi nel «fascicolo d'impresa».
Questo è quanto emerge
dalla
nota 25.02.2014 n. 32555 di prot. del Mise – Divisione XXI
(registro imprese).
L'Unioncamere poneva al Mise
un quesito in materia di integrazione della certificazione
resa al registro delle imprese con i dati ambientali, e
comunque con quei dati di titolarità delle altre
amministrazioni e soggetti accreditati. I tecnici di prassi
nel ritenere implementabile d'ufficio il fascicolo d'impresa
dei dati ambientali fotografa il percorso legislativo.
L'articolo 8, della legge n. 180 del 2011 reca «fermo quanto
restando quanto previsto dall'articolo 19, 1° comma, della
legge n. 241 del 1990 e successive modifiche, le
certificazioni relative all'impresa devono essere comunicate
dalla stessa al registro delle imprese anche per il tramite
dell'agenzia per le imprese e sono inserite dalle camere di
commercio nel repertorio economico amministrativo».
Alle
pubbliche amministrazioni alle quali l'imprese comunicano il
proprio codice di iscrizione al registro delle imprese è
garantito l'accesso gratuito al registro delle imprese. Le
pubbliche amministrazioni non possono richiedere alle
imprese copie della documentazione già presente nello stesso
registro. Appare evidente sottolineato i tecnici di prassi
del Mise che il legislatore in linea con i principi dello small business act, alla base della normativa nazionale,
abbia voluto garantire alle amministrazioni, anche operanti
in sede ispettiva, di rinvenire nel fascicolo di impresa
tutte le notizie relative all'impresa stessa, evitando
pertanto di appesantire burocraticamente l'impresa di
richieste multiple sulla medesima fattispecie.
Alla luce di
tutto ciò concludono i dirigenti Mise che per i fatti, gli
atti e le notizie differenti da quelli proveniente dal Suap
è ammissibile un'acquisizione d'ufficio da parte della
camera di commercio, in particolar modo, ove grazie ai
protocolli stabiliti con le amministrazioni pubbliche o i
gestori di pubblici servizi, sia possibile un'alimentazione
costante e uniforme dello stesso fascicolo informatico
d'impresa (articolo ItaliaOggi del
27.02.2014). |
PATRIMONIO - VARI:
OGGETTO: Modifiche alla tassazione applicabile, ai fini
dell’imposta di registro, ipotecaria e catastale, agli atti
di trasferimento o di costituzione a titolo oneroso di
diritti reali immobiliari - Articolo 10 del
D.lgs.14.03.2011, n. 23 (Agenzia delle Entrate,
circolare 21.02.2014 n. 2/E). |
PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto:
iscrizione all'albo dei pubblici dipendenti
(Consiglio Nazionale Geometri e Geometri Laureati,
nota 13.02.2014 n. 1593 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: richiesta parere relativa al decreto legge
63/2013, convertito in legge 03.08.2013, n. 90, e al D.M.
22.01.2008, n. 37 (Ministero dello Sviluppo Economico,
lettera-circolare 06.02.2014 n. 20733 di prot.).
---------------
Rinnovabili, obbligatori i corsi per gli installatori.
Si all'obbligatorietà dei corsi per gli installatori di
impianti ad energie rinnovabili. È obbligato a partecipare
al corso di formazione il soggetto, che dall'entrata in
vigore della legge del Fare (dl n. 63/2013 convertito nella
legge n. 90/2013), vuole abilitarsi come installatore di
fonti rinnovabili.
Dal 04.08.2013 (data di entrata in vigore della legge del
fare), per ottenere la qualifica di installatore di impianti
da fonti rinnovabili negli edifici bisogna seguire un corso
di formazione e non si può far valere solamente l'esperienza
maturata sul campo.
Questo è quanto afferma il Mise con la
lettera-circolare 06.02.2014 n. 20733 di prot.
in risposta ad
un quesito di confartigianato imprese e Cna.
Con il quesito
veniva chiesto al Mise se i corsi previsti dall'articolo 17
della legge del fare siano o meno previsti unicamente per i
soggetti che si abilitano a partire dal 01.01.2014. I
tecnici del Mise nel rispondere hanno delineato i passaggi
delle norme che hanno creato dubbi interpretativi. Il dm n.
37 del 2008 prevede che, si può ottenere la qualifica di
installatore conseguendo un diploma o una laurea in una
materia tecnica specifica, seguendo un corso di formazione o
acquisendo l'esperienza sul campo, alle dipendenze di una
impresa del settore.
In seguito, il dlgs n. 28/2011 ha escluso che il soggetto
alle dipendenze di un'impresa senza aver preventivamente
acquisito un titolo di studio specifico potesse ottenere la
qualifica di installatore. Con l'entrata in vigore del dl n.
63/2013 convertito nella legge n. 90/2013, è stato previsto
che ai responsabili tecnici in attività poteva essere
riconosciuta automaticamente la qualifica. Ma le regioni e
province autonome avevano l'obbligo di organizzare corsi di
formazione specialistici.
Il Mise alla luce delle incertezze normative create ha
quindi concluso che l'obbligo di seguire il corso vale per
chi intende ottenere la qualifica facendo valere la sua
esperienza a partire dal 04.08.2013 (articolo ItaliaOggi del
20.02.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 10 del 05.03.2014, "Incentivi
per la riqualificazione degli ostelli della gioventù di
proprietà di enti pubblici attraverso l’adeguamento al
regolamento regionale n. 2/2011 recante «Definizione degli
standard obbligatori minimi e dei requisiti funzionali delle
case per ferie e degli ostelli per la gioventù, in
attuazione dell’articolo 36, comma 1, della legge regionale
16.07.2007, n. 15 (Testo unico delle leggi regionali in
materia di turismo)». Avviso" (decreto
D.U.O. 26.02.2014 n. 1541). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: G.U.
28.02.2014 n. 49 "Testo
del decreto-legge 30.12.2013, n. 150, coordinato con la
legge di conversione 27.02.2014, n. 15, recante:
«Proroga di termini previsti da disposizioni legislative»". |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 9 del 27.02.2014, "Modifica
alla legge regionale 05.12.2008, n. 31 (Testo unico delle
leggi regionali in materia di agricoltura, foreste, pesca e
sviluppo rurale), in materia di cooperazione agricola"
(L.R.
25.02.2014 n. 13). |
VARI: G.U.
26.02.2014 n. 47 "Testo
del decreto-legge 28.12.2013, n. 149, coordinato con la
legge di conversione 21.02.2014, n. 13, recante:
«Abolizione del finanziamento pubblico diretto, disposizioni
per la trasparenza e la democraticità dei partiti e
disciplina della contribuzione volontaria e della
contribuzione indiretta in loro favore»". |
URBANISTICA:
Progetto di Legge 17.02.2014 n. 0140 di iniziativa del
Presidente della Giunta Regionale avente per oggetto “Disposizioni
per la riduzione del consumo del suolo e per il riuso del
suolo edificato. Modifiche alla l.r. n. 12/2005 (Legge per
il governo del territorio)”. |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
PUBBLICO IMPIEGO:
D. Corbo,
Mobbing e onere della prova (05.03.2014 - link a
www.diritto.it). |
TRIBUTI:
M. Villani e I. Pansardi,
Nuovo orientamento della Cassazione sulla motivazione del
classamento (catastale) (04.03.2014 - link a
www.diritto.it). |
CONDOMINIO:
M. Pugliese,
Nell’assemblea condominiale, quando deve essere convocato il
nudo proprietario? E quando invece deve essere convocato
l’usufruttuario? (28.02.2014 - link a
www.diritto.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
B. Esposito,
Le assunzioni obbligatorie ed i vincoli di spesa pubblica
(28.02.2014 - link a www.diritto.it). |
CONDOMINIO:
D. Gambetta,
Nullità della clausola del regolamento condominiale con
previsione di sanzioni non pecuniarie: integrità
dell’ordinamento e necessaria limitazione dell’autotutela
nei rapporti tra privati. Nota alla sentenza della Corte
Cass. n. 820 del 16/01/2014 (28.02.2014 - link a
www.diritto.it). |
APPALTI: S.
Metrangolo,
Processo amministrativo: sull’ammissibilità di un’azione
risarcitoria e sulla responsabilità della Pubblica
Amministrazione in punto di procedure di aggiudicazione dei
contratti pubblici
(20.02.2014 - link a www.filodiritto.com). |
EDILIZIA PRIVATA: S.
Baruzzi,
L’IVA nella costruzione di fabbricati civili e rurali e di
opere di urbanizzazione (Bollettino di Legislazione
Tecnica n. 2/2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
D. de Paolis,
Scarico a parete o a tetto degli impianti negli edifici:
guida di orientamento pratico
(Bollettino di Legislazione Tecnica n. 2/2014). |
PATRIMONIO: F.
Palazzotto,
IL DIVIETO DI RINNOVO AUTOMATICO DELLE CONCESSIONI DEMANIALI
MARITTIME PER ATTIVITÀ TURISTICO-RICREZTIVE A SEGUITO DI
DANNI CAUSATI DA EVENTI ATMOSFERICI ECCEZIONALI E DANNOSI
- La Corte Costituzionale, con la recente sentenza del
04.07.2013 n. 171, ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 1 della l.reg. Liguria 30.07.2012,
n. 24, che ha tentato di reintrodurre il rinnovo automatico
delle concessioni a seguito di eventi naturali atmosferici
che causassero danni. La Corte ha affermato che il rinnovo o
la proroga automatica delle concessioni, venendo meno agli
obblighi che incombono ai sensi degli artt. 49 e 101 del
TFUE e dell’art. 12 della dir. 2006/123/CE (c.d. dir.
Bolkestein), viola l’art. 117,co. 1, cost., per contrasto
con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario in tema
di libertà di stabilimento e di tutela della concorrenza,
determinando altresì una disparità di trattamento tra
operatori economici, in violazione dell’art. 117, co. 2,
lett. e), dal momento che coloro che in precedenza non
gestivano il demanio marittimo non hanno la possibilità,
alla scadenza della concessione, di prendere il posto del
vecchio gestore. Eliminando la proroga i concessionari non
vengono ricompensati dei propri investimenti, di conseguenza
vengono disincentivati ad effettuare investimenti per
recuperare i beni demaniali danneggiati dalle mareggiate
poiché i loro sforzi rischiano di non portare alcun
vantaggio per la propria attività, stante il rischio che la
loro concessione venga assegnata a un altro operatore.
Adesso, sarà necessario trovare un sistema di incentivi alla
riparazione dei danni subiti dai beni demaniali,
necessariamente più adeguato e coerente don i principi del
diritto europeo
(Gazzetta Amministrativa
n. 2/2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: C.
Medici,
I CONTROLLI AMMINISTRATIVI NELLA VALUTAZIONE E NELLA
GESTIONE DEL RISCHIO CORRUTTIVO - Nello studio degli
strumenti finalizzati a prevenire la corruzione, il tema dei
controlli amministrativi ha assunto un’importanza
predominante, dal momento che, il buon funzionamento del
sistema dei controlli costituisce una garanzia per la
legalità dell’azione amministrativa. Il tema dei controlli è
stato, quindi, ripreso dalla Commissione interministeriale
che ha formulato le linee di indirizzo per la
predisposizione del Piano nazionale anticorruzione,
approvato dalla CIVIT con delibera n. 72/2013, e dovrà
essere ripreso e sviluppato dalle singole pubbliche
amministrazioni nei Piani triennali di prevenzione della
corruzione (Gazzetta Amministrativa
n. 2/2013). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: S.
Oliveri Pennesi,
GLI STRUMENTI NECESSARI PER LA VALUTAZIONE DELLE PUBBLICHE
AMMINISTRAZIONI - Sviluppare i sistemi di controllo di
gestione partendo da una architettura ideal-valutativa che
preveda un processo circolare e dinamico, partendo dalla
pianificazione, proseguendo con la programmazione, da
verificare previ molteplici controlli, per sfociare infine
nella valutazione (Gazzetta Amministrativa
n. 2/2013). |
ENTI
LOCALI: A.
Marini,
BREVI RIFLESSIONI CRITICHE SULLA NUOVA PROCEDURA DI
ESTRAZIONE E NOMINA DEI REVISORI DEGLI ENTI LOCALI - Il
nuovo sistema di estrazione dei Revisori dei Conti degli
Enti Locali, introdotto con Decreto del Ministero
dell’Interno 15.02.2012, n. 23, presenta aspetti procedurali
non sempre in linea con i principi di semplificazione ed
economicità dell’azione amministrativa (Gazzetta Amministrativa
n. 2/2013). |
ENTI LOCALI: F.
Palazzotto,
IL SERVIZIO IDRICO INTEGRATO ALLA LUCE DELLA DIR.
2000/60/CE. IL RUOLO DELLA REGOLAZIONE PER LA TUTELA CHE
L’ORDINAMENTO APPRESTA ALLA RISORSA ACQUA - Le acque
sono state oggetto di molteplici interventi legislativi che
hanno modificato la disciplina che riguarda
l’organizzazione, la gestione e le modalità di affidamento
del servizio idrico integrato. La sfida che il legislatore
prima e l’amministrazione poi devono affrontare consiste
proprio nel mantenere un equilibrio tra la protezione dei
diritti fondamentali e il risparmio delle risorse pubbliche.
Il legislatore nazionale ha disciplinato il SII come
servizio a rilevanza economica, appropriandosi di numerose
competenze relative ai profili di tutela della concorrenza e
tutela dell’ambiente, l’esito del referendum, come già
preannunciato dalla Corte in sede di giudizio di
ammissibilità dei quesiti, non ha significato la possibilità
di un ritorno a moduli pubblicistici abrogati per la
gestione del servizi idrico integrato. Il referendum del
2011 ha abrogato l’obbligo di bandire le gara per
l’affidamento rendendo maggiormente percorribile la
possibilità di un affidamento in house, organizzato
secondo i principi europei. Tutto ciò non ha cambiato la
natura giuridica del Sii come servizio di rilevanza
economica, in quanto tale definizione dipende dall’obbligo
della copertura dei costi tramite la tariffa. Vista la
rilevanza economica del SII, come stabilito dal legislatore
nazionale e più volte confermata dalla Corte cost., anche
nella recente sentenza del 21.03.2012, n. 62, la tariffa, ed
i principi ivi contenuti di provenienza comunitaria, hanno
un ruolo preponderante rispetto le tutele che oggi
l’ordinamento richiede nei confronti di questa risorsa,
quali gli interessi sociali ed ambientali. Conseguentemente
a quanto affermato per far si che la tariffa assolva i suoi
compiti, occorre che l’apparato regolatorio sia
indipendente, autorevole, dotato di strumenti di controllo
incisivi e di potere sanzionatorio efficace (Gazzetta Amministrativa
n. 2/2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: R.
Gai,
L’INERZIA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: DAL “DANNO DA
RITARDO” (ART. 2-BIS L. 241/1990) ALL’”INDENNIZZO DA
RITARDO” (ART. 28 DEL D.L. 21.06.2013, N. 69, CONVERTITO
DALLA L. 9.8.2013, N. 98) - Lo sviluppo della tutela del
privato nei confronti dell’inerzia della pubblica
amministrazione: accanto al “danno da ritardo” (art.
2-bis l. 241/1990) il legislatore introduce l’”indennizzo
da ritardo” (art. 28 del d.l. 21.06.2013, n. 69, conv.
dalla l. 09.08.2013, n. 98)
(Gazzetta Amministrativa
n. 2/2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: A.
Cordasco e L. Corallo,
LA MOTIVAZIONE DEL PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO: AMBITO
OGGETTIVO ED ECCEZIONI - Attività della pubblica
amministrazione: provvedimento amministrativo - motivazione
(Gazzetta Amministrativa
n. 2/2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI: F.
Falco,
LA PROVA DELLA COLPA NELLE AZIONI RISARCITORIE DEL DANNO DA
ILLEGITTIMO ESERCIZIO DELLA FUNZIONE AMMINISTRATIVA - La
sentenza della sezione I-ter del TAR Lazio n. 7040/2013
costituisce applicazione del principio per cui la prova
della colpa della P.A., in ipotesi di danno da illegittimo
esercizio della funzione amministrativa, non grava sul
privato danneggiato, diversamente da quanto previsto dagli
artt. 2043 e 2697 c.c.
(Gazzetta Amministrativa
n. 2/2013). |
APPALTI: M.
De Cilla, AVVALIMENTO:
IL GIUDICE AMMINISTRATIVO RIVEDE LA POSIZIONE
GIURISPRU-DENZIALE SULLA CERTIFICAZIONE DI QUALITÀ - La
risposta della giurisprudenza recente alla problematica
connessa all’avvalimento della certificazione di qualità (Gazzetta Amministrativa
n. 2/2013). |
APPALTI: E.
Gai,
ESERCIZIO DELLA REVOCA NEL CASO DI AGGIUDICAZIONE DEFINITIVA
DI APPALTI PUBBLICI - È illegittima la revoca di un
provvedimento di aggiudicazione definitiva che da tempo ha
esaurito i suoi effetti a seguito della stipula del
contratto d’appalto e dell’avvio della sua esecuzione (Gazzetta Amministrativa
n. 2/2013). |
APPALTI: D.
Tomassetti e Ilaria De Col,
IL PROCESSO AMMINISTRATIVO IN MATERIA DI APPALTI TRA TUTELA
DELLA CONCORRENZA E REALIZZAZIONE DELL’OPERA - Le
recentissime pronunzie della Corte di Giustizia e del
Consiglio di Stato sull’ordine di esame del ricorso
principale e di quello incidentale interdittivo
(Gazzetta Amministrativa
n. 2/2013). |
APPALTI: S.
Napolitano,
IL PRINCIPIO DI TASSATIVITÀ DELLE CLAUSOLE DI ESCLUSIONE E
IL DOVERE DI SOCCORSO ISTRUTTORIO: CONTRASTI
GIURISPRUDENZIALI E RINVIO ALL'ADUNANZA PLENARIA -
L'art. 4, co. 2, lett. d), del d.l. 11.05.2011, n. 70,
convertito in legge il 12 luglio e in vigore dal 13.07.2011,
ha introdotto l'art. 46, co. 1-bis, il quale prevede il
principio di tassatività delle clausole di esclusione nelle
gare di appalto (Gazzetta Amministrativa
n. 2/2013). |
APPALTI: M.
Dell'Unto,
PARTECIPAZIONE DELLE RETI DI IMPRESA ALLE PROCEDURE DI GARA
PER L’AGGIUDICAZIONE DI CONTRATTI PUBBLICI AI SENSI DEGLI
ARTICOLI 34 E 37 DEL D. LGS. 12.04.2006, N. 163 -
Determinazione n. 3 del 23.04.2013 dell’Autorità per la
vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e
Forniture. Indicazioni sulla partecipazione alle gare delle
reti di imprese (Gazzetta Amministrativa
n. 2/2013). |
APPALTI: A.
Grappelli,
L’OPERATIVITÀ AGGREGATIVA DELLE RETI D’IMPRESA NELL’AMBITO
DEI CONTRATTI PUBBLICI DI APPALTO - Con il presente
commento si affronta, nei suoi aspetti generali, il tema dei
contratti di rete e del processo di innovazione nel settore
degli appalti pubblici a seguito dell’inserimento della
lettera e-bis) al co. 1 dell’art. 34 del d.lgs. 163/2006 smi.
Le differenti modalità di strutturazione del contratto di
rete incidono in modo rilevante ai fini della partecipazione
e qualificazione dei retisti. In relazione alla tipologia di
contratto di rete, la Stazione appaltane dovrà porre una
particolare attenzione nella verifica del rispetto delle
formalità di mandato, sottoscrizione della domanda di
partecipazione e di offerta da parte dei retisti, nonché dei
loro requisiti. Il tema individua ulteriori spunti di
riflessione in merito alla futura operatività dei contratti
di rete anche in relazione all’istituto del subappalto e del
distacco del personale
(Gazzetta Amministrativa
n. 2/2013). |
EDILIZIA PRIVATA: L.
Lavitola e A. Di Leo,
LA NUOVA RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA A SEGUITO DELLA LEGGE N.
98/2013: DEMO-RICOSTRUZIONE E INTERVENTI DI “RIPRISTINO”
- Nell’ambito delle “semplificazioni in materia edilizia”,
l’art. 30 della l. 09.08.2013, n. 98 (recante la
conversione, con modificazioni, del d.l. 21.06.2013, n. 69,
c.d. Decreto del “fare”) ha innovato la disciplina
della ristrutturazione edilizia, innovando l’art. 3, co. 1,
lett. d), del T.U.E.. L’intervento legislativo “rivoluziona”
ed amplia notevolmente l’ambito di applicazione della
ristrutturazione edilizia “leggera” (realizzabile tramite
SCIA), rimuovendo due limiti (la sagoma e l’impossibilità di
considerare i “ruderi” come organismo edilizio
esistente ai fini della ristrutturazione), fino ad oggi
considerati come veri e propri “confini” tra la
nozione di ristrutturazione e quella di nuova costruzione.
Il contributo, pertanto, si propone di esaminare l’impatto
della modifica normativa e le possibili implicazioni, non
solo sotto il punto di vista del “diritto dell’edilizia”
(Gazzetta Amministrativa
n. 2/2013). |
EDILIZIA PRIVATA: L.
Lavitola e A. Di Leo,
LA SANATORIA “GIURISPRUDENZIALE” AL VAGLIO DELLA
CORTE COSTITUZIONALE: LA SENTENZA 101/2013 SULLA L.R.
TOSCANA, IL “PRINCIPIO DELLA DOPPIA CONFORMITÀ” E LA
L.R. EMILIA ROMAGNA - Con la sentenza del 27.02.2013 n.
101, la Corte Costituzionale -sia pur con espresso
riferimento solo alla doppia conformità alla normativa
tecnico-sismica- ha affermato che la regola oggi contenuta
nell’art. 36 del Testo Unico dell’Edilizia (e, prima,
nell’art. 13 della l. n. 47/1985) è da considerarsi
principio della legislazione statale, come tale non
derogabile dalla normativa regionale. La pronuncia della
Corte, pertanto, risulta di interesse sia nell’ambito del
dibattito –sempre vivo- sulla c.d. “sanatoria
giurisprudenziale”, sia in quanto porta all’attenzione
un ulteriore profilo problematico, rappresentato dalla
conformità a Costituzione di quelle norme regionali
(attualmente vigenti) che hanno codificato l’istituto
pretorio
(Gazzetta Amministrativa
n. 2/2013). |
EDILIZIA PRIVATA: S.
Fifi,
GRANDI IMPIANTI SENZA AUTORIZZAZIONE E COMPROMISSIONE
AMBIENTALE PAESAGGISTICA CONTINUATA - Nel caso di
impianti fotovoltaici di grandi dimensioni realizzati senza
“autorizzazione unica” (art. 12 del d.lgs. n. 387 del
2003), la compromissione di paesaggio e ambiente è “continuata”,
non esaurendosi dopo la realizzazione del manufatto.
Permangono, pertanto, i presupposti e le condizioni per
l’irrogazione o il mantenimento della misura cautelare del
sequestro giudiziario preventivo disciplinato dall’art. 321
c.p.p. (Gazzetta Amministrativa
n. 2/2013). |
AUTORITA' VIGILANZA
CONTRATTI PUBBLICI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
L’art. 18, comma 1, della legge 11.02.1994, n. 109 e s.m.
stabilisce che una somma non superiore all’1,5% (ora 2%
-modifica prevista dall’art. 3 della legge n. 350/2003-)
dell’importo dei lavori posto a base di gara sia ripartita,
con modalità e criteri previsti in sede di contrattazione
decentrata ed assunti in un regolamento adottato
dall’amministrazione, tra il Responsabile Unico del
Procedimento e gli incaricati della redazione del progetto,
del piano di sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, nonché tra i loro collaboratori.
Secondo la predetta norma, inoltre, le quote parti della
stessa somma, corrispondenti a prestazioni che non sono
svolte da dipendenti dell’amministrazione, in quanto
affidate a personale esterno, costituiscono economie.
Per quanto sopra, in ossequio al dettato normativo, è da
ritenersi illegittimo il comportamento della stazione
appaltante che ha proceduto al pagamento dell’incentivo in
mancanza di un regolamento ad hoc e che ha disposto
l’erogazione dell’intera quota dell’incentivo al
Responsabile Unico del Procedimento, nonostante la quasi
totalità delle prestazioni professionali (progettazione
preliminare, definitiva ed esecutiva, direzione lavori,
contabilità e collaudo dei lavori) sia stata svolta da
tecnici esterni (deliberazione
22.06.2005 n. 70 - link
a
www.autoritalavoripubblici.it). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
L’incentivo ex art. 18 della legge 11.02.1994, n. 109 e s.m.
assolve alla funzione di compensare i progettisti dipendenti
dell’amministrazione che abbiano in concreto effettuato la
redazione degli elaborati progettuali.
Pertanto, la previsione, da parte di un regolamento interno
di un ente, della corresponsione dell’incentivo in questione
anche nell’ipotesi di progettazione nella sostanza redatta
da professionisti esterni, risulta in contrasto con la
portata e la ratio della disposizione legislativa
richiamata e si pone quale erogazione non dovuta e
duplicazione di compensi (deliberazione
22.06.2005 n. 69 -
link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
INCARICHI PROGETTAZIONE:
La possibilità di costituire gruppi di progettazione misti,
formati da dipendenti di più amministrazioni, non è
consentita dall’articolo 17, comma 1, della legge
11.02.1994, n. 109 e s.m., essendo prevista, peraltro,
(dallo stesso comma 1, lett. b), la possibilità che
l’attività di progettazione sia espletata da “uffici
consortili di progettazione e di direzione dei lavori”
costituiti con le modalità stabilite dagli artt. 24 e s.s.
della legge n. 142/1990, ora disciplinate dagli artt. 30 e
s.s. del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti
locali (D.Lgs. 18.08.2000, n. 267).
---------------
La procedura, adottata dalla stazione appaltante per
l’affidamento degli incarichi di consulenza e supporto alla
progettazione, mancante di qualsiasi confronto
concorrenziale appare non conforme alle norme della legge
quadro sui lavori pubblici e del relativo regolamento di
attuazione.
Con particolare riferimento all’affidamento di incarichi di
importo compreso tra 100.000 e 200.000 euro, la stazione
appaltante avrebbe dovuto ricorrere alla licitazione
privata, sulla base dei criteri e delle modalità fissati
dagli artt. 62 ss. del D.P.R. 21.12.1999, n. 554 e s.m., nel
rispetto dei principi generali della trasparenza e del buon
andamento richiamati dall’art. 17, comma 11, della legge
11.02.1994, n. 109 e s.m.
Con riguardo, invece, ad incarichi di consulenza e supporto
alla progettazione conferiti per un corrispettivo presunto
superiore alla soglia di applicazione della disciplina
comunitaria in materia di appalti pubblici di servizi, si
sarebbe dovuta adottare -ai sensi dell’articolo 17, comma
10, della citata legge n. 109/1994 e s.m. una
procedura di affidamento conforme alle disposizioni di cui
al Decreto Legislativo 17.03.1995, n. 157.
Quest’ultima procedura, in mancanza di motivi di impellente
urgenza che consentono l’affidamento del servizio a
trattativa privata, ai sensi dell’articolo 7, comma 2, lett.
d, del citato D.Lgs. n. 157/1995, avrebbe dovuto comunque
osservarsi, anche ove si volesse ammettere che l’attività in
questione si qualifichi quale mera consulenza, in quanto i
servizi di consulenza in materia d’ingegneria sono compresi
nella categoria 12 dell’allegato 1 al D.Lgs. n. 157/1995
(riferimento CPC n. 867) (deliberazione
22.06.2005 n. 69 -
link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Svilisce la portata e la ratio dell’art. 18, comma 1,
della legge 11.02.1994, n. 109 e s.m., che ha la funzione di
compensare i soggetti che eseguono incarichi essenzialmente
all’interno dell’amministrazione, la previsione del
regolamento, adottato dall’amministrazione in applicazione
di tale articolo, che assegna agli stessi una percentuale di
incentivo di poco inferiore all’1,5% dell’importo lavori per
il caso in cui la totalità o quasi delle prestazioni siano
eseguite all’esterno.
Qualora le aliquote indicate nel suddetto regolamento
vengano applicate non come aliquote percentuali sull’importo
dei lavori, ma come quota parte dell’aliquota percentuale
massima (1,5%) sull’importo dei lavori, non solo la somma
individuata per l’attività considerata risulta superiore a
quella dovuta ma, attraverso successive liquidazioni
riferite ad ulteriori prestazioni per lo stesso intervento,
potrebbe determinarsi un superamento della soglia massima
dell’1,5% di cui al citato articolo 18 (deliberazione
19.05.2004 n. 97-bis - link
a
www.autoritalavoripubblici.it). |
INCARICHI PROGETTUALI:
La decisione di affidare, mediante separati avvisi, gli
incarichi di redazione del progetto esecutivo, di direzione
lavori, di coordinatore per la sicurezza nella fase di
progettazione e di esecuzione, di redazione della relazione
geologica -benché tale suddivisione non comporti un aumento
di spesa e l’ammontare complessivo dei corrispettivi per le
citate attività sia inferiore al limite della c.d. “prima
fascia” di cui all’articolo 17, comma 12, della legge
11.02.1994, n. 109 e s.m.- non appare conforme all’art. 17,
comma 14, della medesima legge, ove prescrive che “nel
caso di affidamento di incarichi di progettazione ai sensi
del comma 4, l’attività di direzione dei lavori è affidata,
con priorità rispetto ad altri professionisti esterni, al
progettista incaricato...”.
Finalità della norma è quella di rendere unitario
l’affidamento delle prestazioni, evitando, per quanto
possibile, confusioni di responsabilità.
Relativamente alla circostanza che il responsabile del
procedimento abbia svolto la funzione di progettista per un
intervento risultato d’importo superiore a 500.000 Euro
soltanto dopo che è emersa, in sede di redazione del
progettazione preliminare, l’opportunità di ricorrere a
differenti modalità di realizzazione (concessione) nonché di
prevedere maggiori lavori, si rammenta che l’art. 15, comma
5, del D.P.R. 21.12.1999, n. 554 e s.m. prevede che già nel
documento preliminare alla progettazione siano indicati, tra
l’altro, il sistema di realizzazione da impiegare, i limiti
finanziari da rispettare, la stima dei costi e le fonti di
finanziamento (deliberazione
19.05.2004 n. 97-bis - link
a
www.autoritalavoripubblici.it). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Ai sensi dell'articolo 18 della legge 11.02.1994 n. 109 e
s.m. costituiscono economie le quote parti dell'incentivo
pari all'1,5% corrispondenti a prestazioni svolte da
professionisti esterni (deliberazione
02.05.2001 n. 150 - link
a
www.autoritalavoripubblici.it). |
INCARICHI PROGETTUALI:
L'articolo 17, co. 4, della legge 11.02.1994 n. 109 e s.m.,
nel disporre che gli incarichi di progettazione possono
essere affidati all'esterno in caso di carenza di organico
del personale tecnico della stazione appaltante accertata
dal responsabile del procedimento, non consente il ricorso a
tale procedura senza adeguata motivazione (deliberazione
02.05.2001 n. 150 - link
a
www.autoritalavoripubblici.it). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Il presidente è sostituibile.
Se sospeso gli subentra il consigliere anziano.
Vanno applicate per analogia le norme sulla supplenza del
sindaco.
È possibile eleggere un nuovo presidente del consiglio
comunale in sostituzione del presidente sospeso dalle
funzioni, ai sensi dell'art. 11 del dlgs n. 235/2012?
L'art. 39 del dlgs n. 267/2000, al comma 1, ultimo periodo,
stabilisce che «nei comuni con popolazione sino a 15.000
abitanti lo statuto può prevedere la figura del presidente
del consiglio»
La legge non fornisce altre indicazioni in merito, pertanto
è demandata allo statuto degli enti locali l'eventuale
integrazione della predetta statuizione; tant'è che in
carenza di una specifica previsione statutaria, la
giurisprudenza tende ad affermare l'illegittimità
dell'eventuale revoca del presidente (v., tra l'altro, Tar
Piemonte sez.
I, 04/09/2009, n. 2248).
Lo statuto del comune in questione disciplina la revoca del
presidente del consiglio da parte del consiglio comunale
(solo per reiterata violazione di legge, dello statuto, dei
regolamenti o per gravi e reiterati comportamenti
pregiudizievoli per la funzionalità ed efficacia dei lavori
del consiglio o lesivi del prestigio dello stesso) mentre
prevede che «in caso di assenza o impedimento del
presidente, lo sostituisce il consigliere anziano», sulla
falsariga di quanto previsto dall'art. 39 del dlgs n.
267/2000 in ordine ai comuni con popolazione superiore ai
15.000 abitanti.
Nella fattispecie, a prescindere dall'ipotesi della revoca
disciplinata dalla norma statutaria citata, occorre
verificare se la sospensione dalla carica di consigliere,
che ha natura cautelare e non sanzionatoria, comporti la
possibilità di supplenza, anche nell'incarico di presidente
del consiglio, da parte del consigliere anziano, come
previsto dallo statuto.
In carenza di una specifica disciplina statutaria o
regolamentare, occorre richiamare in analogia, l'articolo
53, comma 2, del dlgs n. 267/2000 che disciplina le funzioni
sostitutive del sindaco da parte del vicesindaco, nel «caso
di assenza o di impedimento temporaneo, nonché nel caso
della sospensione dall'esercizio della funzione ai sensi
dell'articolo 59» del citato dlgs n. 267/2000, il cui
contenuto è stato sostituito, sostanzialmente, dall'art. 11
del dlgs n. 235/2012).
Pertanto, proprio in analogia a quanto previsto dal citato
articolo 53, comma 2, le funzioni sostitutive previste anche
dall'articolo 39, comma 2 del dlgs n. 267/2000 possono
essere esercitate dal consigliere anziano anche in presenza
di un provvedimento di sospensione del presidente (articolo ItaliaOggi
del 28.02.2014). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Efficacia delle dimissioni.
Possano essere considerate immediatamente efficaci le
dimissioni presentate dal consigliere comunale nel contesto
della seduta assembleare?
Occorre fare un distinguo tra la sfera politica delle
dichiarazioni rese nel corso del dibattito in aula e la
sfera giuridica delle medesime che attengono alla titolarità
della carica.
Tale manifestazione di volontà, ancorché resa nel corso
della seduta consiliare e verbalizzata, assume rilievo
giuridico atto a produrre gli effetti previsti dalla legge
con la dichiarazione scritta e l'acquisizione al protocollo
dell'ente, come previsto dall'art. 38 del Testo unico delle
leggi sull'ordinamento degli enti locali.
Pertanto, qualora le dichiarazioni rese in consiglio non
siano seguite dalla formalizzazione delle stesse in un atto
scritto acquisito al protocollo dell'ente, la mancata
corrispondenza delle modalità di presentazione delle
dimissioni al disposto normativo comporta l'inidoneità delle
suddette dichiarazioni a causare l'effetto irrevocabile
della perdita della titolarità della carica (articolo ItaliaOggi
del 28.02.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Incarichi esterni a dipendenti
pubblici a tempo parziale non superiore al 50%.
Ai sensi dell'art. 1, comma 56-bis,
della l. 662/1996, ai dipendenti in regime di tempo parziale
non superiore al 50% iscritti ad albi professionali e che
esercitino attività professionale non possono essere
conferiti incarichi professionali dalle amministrazioni
pubbliche.
Il Comune ha chiesto un parere in materia di incarichi
esterni a dipendenti pubblici a tempo parziale non superiore
al 50%, in relazione a quanto disposto dall'art. 1, comma
56-bis, della l. 662/1996. Nella concreta fattispecie si
tratta di un ingegnere regolarmente iscritto all'albo
professionale e successivamente assunto quale dipendente
pubblico a tempo parziale pari al 50%. In particolare,
l'Ente chiede di conoscere:
- se il divieto posto dalla citata norma riguardi i soli
dipendenti pubblici a tempo pieno ed a tempo parziale
superiore al 50%;
- se il dipendente pubblico a tempo parziale non superiore
al 50%, regolarmente iscritto all'albo professionale ed
affidatario di un incarico da parte di altro Ente sia
soggetto ad una comunicazione dell'incarico assunto o ad una
autorizzazione da parte dell'Amministrazione presso cui è
assunto.
Preliminarmente si ritiene utile rappresentare quanto
previsto all'art. 1, comma 56, della l. 662/1996.
Detta norma stabilisce che le disposizioni di legge e di
regolamento che vietano l'iscrizione in albi professionali
non si applicano ai dipendenti delle pubbliche
amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con
prestazione lavorativa non superiore al 50% di quella a
tempo pieno.
Pertanto, in virtù di detta previsione, per tali dipendenti
è stato introdotto uno specifico regime derogatorio,
rendendo inapplicabili nei loro confronti le disposizioni
contenute all'art. 53 del d.lgs. 165/2001, nonché quelle
contenute in altre leggi o regolamenti, che vietino
l'iscrizione in albi professionali.
Conseguentemente, secondo l'ordinamento vigente, lo
svolgimento di un'attività libero professionale, da parte di
un dipendente pubblico, risulta compatibile e possibile solo
se l'interessato abbia un rapporto di lavoro part-time non
superiore al 50 per cento dell'ordinario orario di lavoro.
Come evidenziato dalla Corte costituzionale
[1], il
comma 56 in esame 'ha apportato una decisiva modifica ad
uno dei canoni fondamentali del rapporto di impiego
pubblico, e cioè quello dell'esclusività della prestazione'.
Il successivo comma 56-bis, dell'art. 1, della l. 662/1996,
dispone l'abrogazione delle disposizioni che vietano
l'iscrizione ad albi e l'esercizio di attività professionali
per i soggetti di cui al comma 56 della medesima legge,
precisando che, ai dipendenti pubblici iscritti ad albi
professionali e che esercitino attività professionale non
possono essere conferiti incarichi professionali dalle
amministrazioni pubbliche. La Consulta ha sottolineato che,
con la richiamata norma, 'nell'elidere il vincolo di
esclusività della prestazione in favore del datore di lavoro
pubblico, il legislatore, proprio per evitare eventuali
conflitti di interessi, ha provveduto a porre direttamente
(ovvero ha consentito alle amministrazioni di porre)
rigorosi limiti all'esercizio, da parte del dipendente che
richieda il regime di part-time ridotto, di ulteriori
attività lavorative'.
Detti limiti si rinvengono appunto nel citato comma 56-bis,
che contempla l'impossibilità di un conferimento di
incarichi da parte delle amministrazioni pubbliche in favore
del dipendente part-time.
Il Dipartimento della funzione pubblica [2],
con riferimento alle disposizioni legislative di cui si
discute, ha chiarito che 'ai dipendenti in regime di
tempo parziale al 50% iscritti ad albi professionali e che
esercitino attività professionale non possono essere
conferiti incarichi professionali da amministrazioni
pubbliche'.
Si osserva al riguardo che il divieto previsto al comma
56-bis riguarda proprio i dipendenti pubblici a part-time
non superiore al 50%, considerato che quelli a tempo pieno e
a tempo parziale superiore al 50% non possono mai esercitare
attività professionale esterna con iscrizione all'albo.
Qualora, nella fattispecie prospettata, l'incarico 'da
parte di altro Ente', come riferito dall'Amministrazione
istante, dovesse risultare affidato da un Ente diverso dalle
pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del
d.lgs. 165/2001, si osserva quanto segue.
L'art. 53, comma 7, del d.lgs. 165/2001 prevede che i
dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi
retribuiti che non siano stati conferiti o previamente
autorizzati dall'amministrazione di appartenenza.
Il comma 6 del medesimo articolo precisa altresì che i commi
da 7 a 13 dell'art. 53 si applicano ai dipendenti delle
pubbliche amministrazioni, con esclusione dei dipendenti con
rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione
lavorativa non superiore al cinquanta per cento di quella a
tempo pieno, dei docenti universitari a tempo definito e
dalle altre categorie di dipendenti pubblici ai quali è
consentito da disposizioni speciali lo svolgimento di
attività libero-professionali.
Pertanto, alle elencate categorie di personale (fra le quali
rientra anche il dipendente del Comune) non si applica il
regime autorizzatorio previsto dall'art. 53 in argomento,
per lo svolgimento di incarichi extralavorativi.
Si sottolinea comunque che l'art. 4, comma 10, del CCRL del
25.07.2001 impone al dipendente a part-time l'obbligo di
comunicare, entro quindici giorni, all'ente nel quale presta
servizio l'eventuale successivo inizio o la variazione
dell'attività lavorativa esterna.
---------------
[1] Cfr. sentenza n. 189 del 2001.
[2] Cfr. parere n. 220/2005 (21.02.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Incompatibilità flessibili.
È il consiglio a decidere sulle cause ostative.
Agli amministratori deve essere garantito il diritto al
contraddittorio.
Sussiste la fattispecie dell'incompatibilità, ai sensi
dell'art. 63 Tuel 267/2000, nel caso di un consigliere
provinciale che ricopre anche la carica di
presidente/amministratore di una società consortile a
capitale pubblico che gestisce il servizio idrico integrato?
L'art. 69 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, in
conformità al principio generale secondo cui ogni organo
collegiale delibera sulla regolarità dei titoli di
appartenenza dei propri componenti, attribuisce al
consiglio, che ne è responsabile, l'esame delle cause
ostative all'espletamento del mandato, secondo la procedura
dettata dallo stesso art. 69, che garantisce comunque il
corretto contraddittorio tra l'organo e gli amministratori,
assicurando a questi ultimi l'esercizio del diritto di
difesa e la possibilità di rimuovere entro un congruo
termine la causa di incompatibilità contestata (articolo ItaliaOggi
del 21.02.2014). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Quorum delle sedute.
Qual è il quorum costitutivo necessario, nelle sedute di
seconda convocazione, per le deliberazioni riguardanti la
salvaguardia degli equilibri di bilancio, l'assestamento del
bilancio e la definizione delle aliquote dei tributi?
Nel caso di specie, il consiglio comunale, al quale sono
assegnati per legge dodici consiglieri, risulta attualmente
composto dal sindaco e da nove consiglieri, di cui cinque
appartenenti alla maggioranza e quattro alle opposizioni.
Ai fini della valida costituzione dell'organo consiliare, ai
sensi del regolamento sul funzionamento del consiglio
comunale, è prevista la presenza di metà dei consiglieri
assegnati escluso il sindaco, per le sedute di prima
convocazione, e la presenza di un terzo dei consiglieri
assegnati, computato senza considerare il sindaco, per le
adunanze di seconda convocazione. La citata fonte
regolamentare dispone che, nella sedute di seconda
convocazione, non possono essere assunte deliberazioni che
richiedano una maggioranza qualificata od un particolare
«quorum costitutivo». Inoltre, nelle sedute di seconda
convocazione, non possono essere deliberati gli atti
tassativamente indicati dalla norma regolamentare.
Considerato che, per le deliberazioni riguardanti la
salvaguardia degli equilibri di bilancio e l'assestamento
del bilancio non sono richiesti una maggioranza qualificata
od un particolare quorum costitutivo e non sono elencate tra
quelle espressamente previste dal citato regolamento, gli
atti in oggetto possano essere assunti anche in seconda
convocazione, fermo restando le regolarità della
convocazione medesima.
A diverse conclusioni si perviene per le deliberazioni, da
parte del consiglio comunale, relative alla definizione
delle aliquote dei tributi, essendo per tali atti previsto,
dalla stessa norma regolamentare, un particolare quorum
costitutivo.
Vale richiamare il principio secondo il quale la mancanza
del quorum deliberativo fissato dal regolamento, oltre a
incidere sul munus dei consiglieri comunali che, pertanto,
hanno interesse ad impugnare la delibera, comporta una
sostanziale illegittimità dell'atto (Tar per la Calabria,
sentenza n. 904 dell'11.09.2013) (articolo ItaliaOggi
del 21.02.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Nuova locazione con Ape.
Domanda
Vorrei sapere se in caso di stipula di un contratto di
locazione di un immobile abitativo occorre allegare l'Ape.
Ho letto che a fine anno gli adempimenti sono stati
semplificati.
Risposta
In realtà, le semplificazioni apportate alla materia sono
abbastanza relative. Nel caso di una nuova locazione, sia di
singole unità immobiliari sia di interi edifici, non occorre
più allegare l'Ace al contratto a pena di nullità, ma è pur
sempre necessario mettere l'Ape a disposizione del
conduttore e inserire nel contratto un'apposita
dichiarazione del conduttore di aver ricevuto le
informazioni e la documentazione, comprensiva
dell'attestato, in ordine alla prestazione energetica degli
edifici.
Sia la mancata messa a disposizione che la mancata
dichiarazione sono sanzionate, in modo abbastanza pesante,
dalla legge (dlgs n. 193/2005, come modificato dai
provvedimenti normativi emanati a fine 2013).
Quanto ai contenuti dell'Ape, riteniamo opportuno ricordare
che con circolare del 07.08.2013, il ministero dello
sviluppo economico ha precisato che solo con l'entrata in
vigore dei decreti di aggiornamento della metodologia di cui
all'articolo 4 del dl n. 63/2013 si dovrà adempiere alle
prescrizioni dettate da quest'ultimo in tema di Ape, mentre
fino a tale momento si continuerà a fare riferimento alle
modalità di calcolo dettate dal Dpr 02.04.2009, n. 59, in
materia di «Attestato di Certificazione Energetica»
(Ace), salvo che nelle regioni che hanno provveduto a
emanare proprie disposizioni normative in recepimento della
Direttiva 2002/91/CE: in tali Regioni, sempre fino
all'emanazione dei richiamati decreti ministeriali o fino
all'emanazione di nuove norme regionali di recepimento della
direttiva 2010/31/UE, si continuerà a seguire le
disposizioni regionali già in vigore (articolo ItaliaOggi Sette del
17.02.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO: Permessi familiari.
Domanda
Sono un lavoratore a domicilio con un figlio malato grave.
La legge prevede per il lavoratore dei permessi retribuiti.
Nel mio caso di quali benefici posso usufruire?
Risposta
La legge 05.02.1992
n. 104 riconosce a tutti i lavoratori portatori di handicap
grave, stabilito da apposita Commissione medica, e ai loro
familiari dei permessi retributivi aventi come scopo la cura
e l'assistenza del lavoratore o del familiare portatore di
handicap. Il lavoratore portatore di handicap, a seguito di
detta legge, può richiedere e beneficiare di due tipi di
permessi: un permesso pari a due ore giornaliere oppure tre
giorni di permesso mensili. La domanda deve essere
presentata alla sede Inps territorialmente competente in
duplice copia.
La legge di stabilità 2014 ha stabilito che le giornate
dedicate dal lavoratore ai congedi e permessi per assistenza
ai familiari invalidi sono computate ai fini del calcolo
dell'anzianità contributiva per l'accesso alla pensione
anticipata senza penalizzazioni. Purtroppo nel caso in esame
il lettore quale lavoratore a domicilio rientra tra i
soggetti esclusi da detto beneficio (articolo ItaliaOggi Sette del
17.02.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Bonus ristrutturazioni.
Domanda
L'inquilino che sostiene la spesa per i lavori di
ristrutturazione ha diritto alla detrazione Irpef o questa
spetta solo ai proprietari? Eventualmente se prima dei 10
anni cambia casa perde il diritto alla quote residue di
detrazione?
Risposta
L'agevolazione
fiscale di cui al quesito spetta a chi sostiene le spese di
ristrutturazione, quindi, non solo ai proprietari degli
immobili (o i titolari di altri diritti reali, come nuda
proprietà, usufrutto, uso, abitazione o superficie), ma
anche ai locatari o ai comodatari. La cessazione dello stato
di locazione, così come quella di comodato, non fa venire
meno il diritto alla detrazione per l'inquilino, o per il
comodatario che hanno eseguito e, ovviamente, pagato i
lavori (articolo ItaliaOggi Sette
del 17.02.2014). |
VARI: Bonus arredi.
Domanda
Per poter godere del bonus arredi le spese d'acquisto dei
mobili deve essere successiva a quella di fine lavori di
ristrutturazione?
Risposta
Per ottenere il bonus di cui al quesito: a) non è necessario
che le spese di ristrutturazione siano sostenute prima di
quelle per l'arredo dell'immobile; b) è necessario che la
data dell'inizio dei lavori di ristrutturazione preceda
quella in cui si acquistano i beni.
La data di avvio dei
lavori può essere dimostrata da eventuali abilitazioni
amministrative, dalla comunicazione preventiva all'Asl,
quando è obbligatoria; c) occorre che le spese per gli
interventi di recupero edilizio siano sostenute a partire
dal 26.06.2012 (articolo ItaliaOggi Sette
del 17.02.2014). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/
Permessi a maglie strette.
Un dipendente dello stato, eletto componente del cda di una
università agraria, può fruire di permessi di cui ai commi
3, 4 e 5 dell'art. 79 del decreto legislativo n. 267/2000?
L'art. 77, comma 2, del Tuel, statuisce che, ai fini
dell'applicazione delle norme di cui al capo IV – status
degli amministratori locali (artt. 77-87), si devono
intendere per amministratori locali i componenti degli enti
locali.
Nella fattispecie, l'incarico ricoperto non può essere
ricondotto a quello di componente degli organi citati
dall'art. 77, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000,
pertanto all'interessato non sono applicabili le
disposizioni di cui all'art. 78 e all'art. 79 del medesimo
Testo unico (articolo ItaliaOggi del
14.02.2014). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Dimissioni dei consiglieri.
In quale caso le dimissioni dei consiglieri comunali danno
luogo allo scioglimento dell'organo consiliare, ai sensi
dell'art. 141, comma 1, lettera b), n. 3 del Tuel?
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, per
concretizzare la fattispecie dello scioglimento dell'organo
consiliare è necessaria la contestualità delle dimissioni
dei consiglieri, espressiva della connessione delle volontà
al fine dissolutorio, cui consegue lo scioglimento
dell'organo e non la surroga dei singoli.
Ciò, diversamente da quanto disposto dall'art. 38, comma 8,
del Tuel che, in relazione alla fattispecie delle dimissioni
individuali, rese allo scopo della personale rinuncia al
mandato, prevede la surroga del dimissionario e non la crisi
dell'organo consiliare (cfr. Cons. stato, sez. VI, del
12/8/2009, n. 4936).
Nella fattispecie, le dimissioni dei
consiglieri, presentate personalmente dai dimissionari, con
atti separati, essendo state assunte al protocollo dell'ente
con numerazioni non consecutive, pur nella stessa giornata,
non determinano il presupposto della contemporaneità e non
integrano, quindi, gli estremi per l'avvio della procedura
di scioglimento per le dimissioni ultra dimidium,
prevista dall'art. 141, comma 1, lettera. B), n. 3 del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267.
Per quanto riguarda la convocazione dell'assemblea
consiliare per procedere alla surroga dei dimissionari, in
via generale, l'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n.
267/2000, dispone che il funzionamento dei consigli, nel
quadro dei principi stabiliti dallo statuto, è disciplinato
dal regolamento che prevede le modalità di convocazione per
la presentazione e per la discussione delle proposte. Il
regolamento indica il numero dei consiglieri necessario per
la validità delle sedute, prevedendo che in ogni caso debba
esservi la presenza di almeno un terzo dei consiglieri
assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il
sindaco e il presidente della provincia.
Nel caso di specie, Il regolamento comunale prevede che
l'organo non può deliberare se non interviene, in prima
convocazione, almeno la metà dei consiglieri assegnati
all'ente. Proprio il riferimento all'intervento alle sedute
da parte di almeno la metà dei componenti presuppone che
l'organo abbia un quorum strutturale che ne consenta
il funzionamento, già in prima convocazione (articolo ItaliaOggi del
14.02.2014). |
LAVORI PUBBLICI: DOMANDA:
Appalto di opere pubbliche: modalità di cessione del credito
vantato verso una P.A. (Gazzetta Amministrativa
n. 2/2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: DOMANDA:
Rimborso spese legali ex art. 32 l. n. 152/1975:
procedimenti conclusi con sentenza di prescrizione (Gazzetta Amministrativa
n. 2/2013). |
LAVORI PUBBLICI: DOMANDA:
Interpretazione art. 1, co. 19 e segg., L. 190/2012 in
materia di arbitrato dei lavori pubblici (Gazzetta Amministrativa
n. 2/2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI: DOMANDA:
Spese di giustizia: oneri del contributo unificato anche in
caso di “soccombenza virtuale” (Gazzetta Amministrativa
n. 2/2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI: DOMANDA:
Spese di giustizia: oneri del contributo unificato in caso
di "soccombenza reciproca"
(Gazzetta Amministrativa
n. 2/2013). |
CORTE DEI CONTI |
APPALTI FORNITURE - CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI
LOCALI: Va
accertata la non conformità a legge delle spese di
rappresentanza relative all’acquisto di panettoni e pandori
da donare ad anziani over 75 anni.
La nozione di spesa di rappresentanza si
configura quale voce di costo essenzialmente finalizzata ad
accrescere il prestigio e la reputazione della singola
pubblica amministrazione verso l’esterno. Le relative spese
devono assolvere il preciso scopo di consentire all’ente
locale di intrattenere rapporti istituzionali e di
manifestarsi all’esterno in modo confacente ai propri fini
pubblici.
Dette spese devono dunque rivestire il carattere
dell’inerenza, nel senso che devono essere strettamente
connesse con il fine di mantenere o accrescere il ruolo, il
decoro e il prestigio dell’ente medesimo, nonché possedere
il crisma dell’ufficialità, nel senso che esse finanziano
manifestazioni della pubblica amministrazione idonee ad
attrarre l’attenzione di ambienti qualificati o dei
cittadini amministrati al fine di ricavare i vantaggi
correlati alla conoscenza dell’attività amministrativa.
L’attività di rappresentanza ricorre in ogni manifestazione
ufficiale attraverso gli organi muniti, per legge o per
statuto, del potere di spendita del nome della pubblica
amministrazione di riferimento.
La violazione dei criteri finalistici testé indicati conduce
all’illegittimità della spesa sostenuta dall’ente per
finalità che fuoriescono dalla rappresentanza.
---------------
La Sezione ha individuato i seguenti principi di carattere
procedimentale e sostanziale:
1) ciascun ente locale deve inserire, nell'ambito della
programmazione di bilancio, apposito capitolo in cui vengono
individuate le risorse destinate all'attività di
rappresentanza, anche nel rispetto dei vincoli di finanza
pubblica fissati dal legislatore; capitolo di bilancio che
deve essere reso autonomo rispetto ad altri al fine di
evitare commistioni contabili;
2) esulano dall’attività di rappresentanza quelle spese che
non siano strettamente finalizzate a mantenere o accrescere
il prestigio dell'ente verso l’esterno nel rispetto della
diretta inerenza ai propri fini istituzionali;
3) non rivestono finalità rappresentative verso l'esterno le
spese destinate a beneficio dei dipendenti o amministratori
appartenenti all'Ente che le dispongono;
4) le spese di rappresentanza devono essere congrue sia ai
valori economici di mercato sia rispetto alle finalità per
le quali la spesa è erogata;
5) l’attività di rappresentanza non deve porsi in contrasto
con i principi di imparzialità e di buon andamento, di cui
all'art. 97 della Costituzione.
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Le spese di rappresentanza non possono
risolversi in regalie ricorrenti per le festività, né essere
a beneficio di soggetti interni all’ente.
Sono prive della qualificazione di spese di rappresentanza
quelle erogate in occasione e nell’ambito di normali
rapporti istituzionali a favore di soggetti che non sono
rappresentativi degli organi di appartenenza, ancorché
estranei all’Ente, e in generale quelle prive di funzioni
rappresentative verso l’esterno, quali quelle destinate a
beneficio dei dipendenti o amministratori appartenenti
all’Ente che le dispone.
Devono inoltre essere rigorosamente
giustificate con l’esposizione dell’interesse istituzionale
perseguito, della dimostrazione del rapporto tra l’attività
dell’ente e la spesa erogata, della qualificazione del
soggetto destinatario e dell’occasione della spesa.
Resta ferma la necessità di una congruità
della spesa sostenuta che va misurata senz’altro in
riferimento ai valori economici di mercato
(“non è comunque congruo mostrare
prodigalità attraverso celebrazioni e rinfreschi, e semmai è
richiesto il contrario, ossia l’evidenza di una gestione
accorta che rifugga gli sprechi e si concentri sull’adeguato
espletamento delle funzioni sue proprie”).
---------------
L'amministrazione comunale deve dunque
essere ristorata degli esborsi sostenuti per l’effettuazione
di tale tipologia di spese (e cioè l’acquisto di 105
panettoni e 105 pandori in occasione delle festività
natalizie 2012 per gli anziani over 75 del comune).
---------------
In via preliminare la Sezione osserva che nell’attuale
contesto congiunturale di coordinamento della finanza
pubblica e di crisi economica, le spese di rappresentanza,
in quanto non necessarie, sono da considerarsi come
recessive rispetto ad altre voci di spesa pubblica.
L’art. 6 comma 8 del D.L. 31.05.2010, n.78, convertito con
modificazioni nella legge 30.07.2010, n.122 ha disposto che
“A decorrere dall'anno 2011 le amministrazioni pubbliche
inserite nel conto economico consolidato della pubblica
amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di
statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell'articolo 1
della legge 31.12.2009, n. 196, incluse le autorità
indipendenti, non possono effettuare spese per relazioni
pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e di rappresentanza,
per un ammontare superiore al 20 per cento della spesa
sostenuta nell'anno 2009 per le medesime finalità”.
La legislazione finanziaria ha infatti previsto un taglio
lineare a regime di oltre l’80% rispetto alla spesa
sostenuta nell’anno 2009 per le seguenti tipologie:
relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e
rappresentanza.
La normativa non ha definito le singole categorie di spesa,
per la concettualizzazione delle quali si deve far
riferimento al linguaggio comune e ai criteri elaborati
dalla giurisprudenza contabile ed amministrativa.
Dal punto di vista definitorio, si osserva che
la nozione di spesa di rappresentanza si configura
quale voce di costo essenzialmente finalizzata ad accrescere
il prestigio e la reputazione della singola pubblica
amministrazione verso l’esterno. Le relative spese devono
assolvere il preciso scopo di consentire all’ente locale di
intrattenere rapporti istituzionali e di manifestarsi
all’esterno in modo confacente ai propri fini pubblici.
Dette spese devono dunque rivestire il carattere
dell’inerenza, nel senso che devono essere strettamente
connesse con il fine di mantenere o accrescere il ruolo, il
decoro e il prestigio dell’ente medesimo, nonché possedere
il crisma dell’ufficialità, nel senso che esse finanziano
manifestazioni della pubblica amministrazione idonee ad
attrarre l’attenzione di ambienti qualificati o dei
cittadini amministrati al fine di ricavare i vantaggi
correlati alla conoscenza dell’attività amministrativa.
L’attività di rappresentanza ricorre in ogni manifestazione
ufficiale attraverso gli organi muniti, per legge o per
statuto, del potere di spendita del nome della pubblica
amministrazione di riferimento.
La violazione dei criteri finalistici testé
indicati conduce all’illegittimità della spesa sostenuta
dall’ente per finalità che fuoriescono dalla rappresentanza.
Sotto il profilo gestionale, l’economicità e l’efficienza
dell’azione della pubblica amministrazione impongono il
carattere della sobrietà e della congruità della spesa di
rappresentanza sia rispetto al singolo evento finanziato,
sia rispetto alle dimensioni e ai vincoli di bilancio
dell’ente locale che le sostiene.
La violazione dei criteri che presiedono alla sana gestione
finanziaria comporta il venir meno dei requisiti di
razionalità ed economicità cui l’attività amministrativa
deve sempre tendere ai sensi dell’art. 97 Cost.
Sotto il profilo contabile, l’art. 6, comma 8, del D.L.
citato impone una riduzione lineare dei singoli capitoli di
bilancio rispetto alla spesa sostenuta nell’anno 2009 per i
medesimi fini. La violazione del vincolo si traduce in una
grave irregolarità contabile per violazione diretta di
principi di ordine pubblico economico volti a salvaguardare
la tenuta dei conti pubblici della Repubblica Italiana.
Infine, sotto il profilo regolamentare, ogni pubblica
amministrazione dovrebbe dotarsi di regole che disciplinano
i casi e i modi in cui è sostenibile la spesa di
rappresentanza.
In maggior dettaglio, nell’autodeterminare le linee guida
per la propria attività, la Sezione ha
individuato i seguenti principi di carattere procedimentale
e sostanziale:
1) ciascun ente locale deve inserire, nell'ambito della
programmazione di bilancio, apposito capitolo in cui vengono
individuate le risorse destinate all'attività di
rappresentanza, anche nel rispetto dei vincoli di finanza
pubblica fissati dal legislatore; capitolo di bilancio che
deve essere reso autonomo rispetto ad altri al fine di
evitare commistioni contabili.
2) esulano dall’attività di rappresentanza quelle spese che
non siano strettamente finalizzate a mantenere o accrescere
il prestigio dell'ente verso l’esterno nel rispetto della
diretta inerenza ai propri fini istituzionali.
3) non rivestono finalità rappresentative verso l'esterno le
spese destinate a beneficio dei dipendenti o amministratori
appartenenti all'Ente che le dispongono.
4) le spese di rappresentanza devono essere congrue sia ai
valori economici di mercato sia rispetto alle finalità per
le quali la spesa è erogata.
5) l’attività di rappresentanza non deve porsi in contrasto
con i principi di imparzialità e di buon andamento, di cui
all'art. 97 della Costituzione.
...
Dal prospetto redatto secondo lo schema tipo individuato da
D.M. 23.01.2012, sulla scorta della documentazione acquisita
nel corso dell’istruttoria, risultano non conformi a legge e
ai criteri individuati dalla Sezione, le voci di spesa che
seguono: Acquisto panettoni per anziani oltre 75 anni,
euro 987,00.
Nel merito del caso in esame, la Sezione osserva che
la spesa per l’acquisto di dolciumi natalizi si
configura come mero atto di liberalità nei confronti di
soggetti che l’amministrazione comunale indica come persone
ultra settantacinquenni in condizioni di difficoltà. L’atto
di donazione da parte della P.A. ai privati è sempre
possibile qualora si ravvisino ragioni di particolare
interesse pubblico, posto che alla prestazione resa con
denaro pubblico non corrisponde un sacrificio del
beneficiario. Tuttavia, la mera liberalità in occasione di
festività natalizie non rientra nel novero delle spese di
rappresentanza, nei termini sopra indicati e deve trovare
altra allocazione nel bilancio dell’ente.
La predetta spesa si riferisce all’acquisto di 105 panettoni
e 105 pandori in occasione delle festività natalizie 2012
per gli anziani over 75 del comune di Idro. Ad ogni buon
conto si osserva che i residenti con età uguale o superiore
a 75 anni risultano essere (nel 2012) 167 al 31.12.2012
(Fonte Istat).
Al riguardo, la Sezione ribadisce che le
spese di rappresentanza non possono risolversi in regalie
ricorrenti per le festività, né essere a beneficio di
soggetti interni all’ente.
Sono prive della qualificazione di spese di rappresentanza
quelle erogate in occasione e nell’ambito di normali
rapporti istituzionali a favore di soggetti che non sono
rappresentativi degli organi di appartenenza, ancorché
estranei all’Ente, e in generale quelle prive di funzioni
rappresentative verso l’esterno, quali quelle destinate a
beneficio dei dipendenti o amministratori appartenenti
all’Ente che le dispone
(Corte dei Conti - Sez. Giurisdizionale Regione Veneto,
22.11.1996 n. 456 e Sez. Giurisdizionale Emilia Romagna,
05.06.1997 n. 326).
Devono inoltre essere rigorosamente
giustificate con l’esposizione dell’interesse istituzionale
perseguito, della dimostrazione del rapporto tra l’attività
dell’ente e la spesa erogata, della qualificazione del
soggetto destinatario e dell’occasione della spesa.
Resta ferma la necessità di una congruità
della spesa sostenuta che va misurata senz’altro in
riferimento ai valori economici di mercato
(“non è comunque congruo mostrare
prodigalità attraverso celebrazioni e rinfreschi, e semmai è
richiesto il contrario, ossia l’evidenza di una gestione
accorta che rifugga gli sprechi e si concentri sull’adeguato
espletamento delle funzioni sue proprie”
– Sez. Giurisdizionale Abruzzo n. 394/2008).
La Sezione osserva che l’amministrazione
comunale deve dunque essere ristorata degli esborsi
sostenuti per l’effettuazione di tale tipologia di spese
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
deliberazione 24.02.2014 n. 93). |
APPALTI FORNITURE - CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI
LOCALI:
Le spese di rappresentanza non possono essere
destinate a beneficio personale dei dipendenti e/o
amministratori dell’ente che le dispone.
Infatti, non è configurabile il presupposto della
“rappresentatività” quando le spese sono effettuate in
favore dei dipendenti o degli amministratori operanti per
l’ente medesimo.
Le spese devono essere caratterizzate da un legame con il
fine istituzionale dell’ente, oltre alla necessità effettiva
per il medesimo di ottenere una proiezione esterna
dell’amministrazione o di intrattenere relazioni pubbliche
con soggetti estranei nell’ambito dei normali rapporti
istituzionali.
---------------
Quanto alle spese prese in considerazione dall’istruttoria e
dalla presente deliberazione, sul punto è consolidato
l’orientamento della Magistratura contabile secondo cui
le spese in questione non possono essere destinate a
beneficio personale dei dipendenti e/o amministratori
dell’ente che le dispone. Infatti, non è configurabile il
presupposto della “rappresentatività” quando le spese
sono effettuate in favore dei dipendenti o degli
amministratori operanti per l’ente medesimo. Le spese di
rappresentanza devono essere caratterizzate da un legame con
il fine istituzionale dell’ente, oltre alla necessità
effettiva per il medesimo di ottenere una proiezione esterna
dell’amministrazione o di intrattenere relazioni pubbliche
con soggetti estranei nell’ambito dei normali rapporti
istituzionali.
Tali spese sono pertanto finalizzate ad apportare vantaggi
che l’ente trae dall’essere conosciuto, quindi, non possono
risolversi in mera liberalità né essere a beneficio di
soggetti interni all’ente.
Sono prive della qualificazione di spese di
rappresentanza quelle erogate in occasione e nell’ambito di
normali rapporti istituzionali a favore di soggetti che non
sono rappresentativi degli organi di appartenenza, ancorché
estranei all’Ente, e in generale quelle prive di funzioni
rappresentative verso l’esterno, quali quelle destinate a
beneficio dei dipendenti o amministratori appartenenti
all’Ente che le dispone
(Corte dei Conti - Sez. Giurisdizionale Regione Veneto,
22.11.1996 n. 456 e Sez. Giurisdizionale Emilia Romagna,
05.06.1997 n. 326).
Devono inoltre essere rigorosamente
giustificate con l’esposizione dell’interesse istituzionale
perseguito, della dimostrazione del rapporto tra l’attività
dell’ente e la spesa erogata, della qualificazione del
soggetto destinatario e dell’occasione della spesa.
Resta ferma la necessità di una congruità della spesa
sostenuta che va misurata senz’altro in riferimento ai
valori economici di mercato
(“non è comunque congruo mostrare
prodigalità attraverso celebrazioni e rinfreschi, e semmai è
richiesto il contrario, ossia l’evidenza di una gestione
accorta che rifugga gli sprechi e si concentri sull’adeguato
espletamento delle funzioni sue proprie”
– Sez. Giurisdizionale Abruzzo n. 394/2008) (Corte dei
Conti, Sez. controllo Lombardia,
deliberazione 20.02.2014 n. 88). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: E'
possibile erogare gli incentivi per
i progettisti interni anche prima del finanziamento
dell’opera, a condizione che siano rispettati i vincoli in
merito alla subordinazione di qualsivoglia erogazione
all’effettivo svolgimento delle prestazioni ed
all’accertamento delle specifiche attività svolte e del
contributo fornito dalle figure professionali coinvolte.
---------------
Il Commissario straordinario della Provincia di Agrigento,
dopo avere richiamato la disciplina recata dal regolamento
interno per la ripartizione dell’incentivo spettante ai
tecnici incaricati della progettazione, direzione e collaudo
dei lavori, chiede di conoscere se è possibile erogare ai
tecnici interni il suddetto incentivo di progettazione prima
del finanziamento dell’opera o prima che venga disposto
dall’ente finanziatore l’accredito delle somme nelle more
dell’espletamento della gara, anticipando il pagamento con
imputazione della spesa sul Fondo di rotazione di cui
all’art. 14-bis, comma 13, della legge 109/1994 o su altro
analogo stanziamento di bilancio finalizzato alle spese di
progettazione, con recupero dell’anticipazione ad avvenuto
finanziamento e/o accredito delle somme.
...
Il quesito merita risposta affermativa nei termini che
seguono.
L’art. 6, comma 28, della legge regionale 12.07.2011, n. 12,
come modificato dall’art. 6, comma 1, della legge regionale
07.08.2013, n. 13 dispone che “Fermo restando quanto
previsto dal comma 27, dal comma 6 dell'articolo 4 nonché
dall'articolo 3 della legge regionale 21.08.2007, n. 20, le
somme residue corrispondenti ai ribassi d'asta dei lavori
finanziati dall'Amministrazione regionale con fondi propri
affluiscono per il 50 per cento in entrata del bilancio
degli enti appaltanti di cui alla lettera a) dell'articolo 2
in apposito capitolo Fondo di rotazione per l'anticipazione
delle spese professionali e tecniche per la progettazione,
per lo studio geologico e per gli altri studi ed indagini
necessarie, il cui importo è reintegrato al momento del
finanziamento dell'opera; a decorrere dal 01.01.2014 il
restante 50 per cento è destinato ad incremento del fondo di
cui all'articolo 5 della legge regionale 12.05.2010, n. 11 (UPB
4.2.1.5.99, capitolo 215727)”.
Occorre, innanzitutto, rilevare che, da un punto di vista
contabile, il fondo è alimentato con una quota delle
economie di spesa derivanti dai ribassi d’asta dei lavori
pubblici finanziati dall’amministrazione regionale. In base
alle richiamate disposizioni legislative, esse confluiscono
in apposito capitolo denominato “Fondo di rotazione per
l’anticipazione delle spese professionali e tecniche per la
progettazione, per lo studio geologico e per gli altri studi
e indagini necessari”, il cui importo è reintegrato al
momento del finanziamento dell’opera.
Per l’ente locale il trasferimento costituisce un’entrata a
destinazione vincolata, automaticamente impegnata (c.d.
impegno improprio) e contabilizzata in uscita alle spese
d’investimento. Qualora l’ente intende effettuare una spesa
di progettazione rientrante tra le tipologie finanziabili
attraverso il fondo potrà darvi copertura con imputazione al
fondo di rotazione iscritto in bilancio, ovviamente nei
limiti dell’ammontare dello stesso. Nel momento in cui
l’opera cui si riferisce la progettazione viene finanziata
anche le relative spese di progettazione previste nel quadro
economico saranno finanziate e reintegreranno il fondo. In
mancanza di finanziamento l’ente avrà comunque già la
copertura per la spesa di progettazione. Il momento del
finanziamento o dell’erogazione non è pertanto rilevante,
atteso che la copertura della spesa di progettazione è
comunque assicurata. Il mancato finanziamento refluisce solo
per il futuro, atteso che impedisce il meccanismo di
reintegro del fondo, chiudendo il ciclo di “rotazione”.
L’esito affermativo al quesito è, d’alta parte, coerente con
la natura sinallagmatica del beneficio economico corrisposto
ai progettisti. A tal riguardo, si rammenta che
la Suprema Corte ha ritenuto che il diritto
all’incentivo di cui si sta trattando, costituisce un vero e
proprio diritto soggettivo di natura retributiva
(Cass. Sez. Lav., sent. N. 13384 del 19.07.2004)
che inerisce al rapporto di lavoro in corso, nel cui
ambito va individuato l’obbligo per l’Amministrazione di
adempiere, a prescindere dalle condizioni e dai presupposti
per rendere concreta l’erogazione del compenso.
Quanto detto non esclude che, in sede di regolamento
interno, al fine di ancorare l’erogazione dell’incentivo a
più stringenti presupposti afferenti la necessaria verifica
della valida ed effettiva prestazione lavorativa che ne
giustifica l’erogazione, l’amministrazione possa
ragionevolmente prevedere la corresponsione di tutto o di
una parte dell’incentivo solo subordinatamente
all’approvazione del progetto o all’aggiudicazione
dell’opera ovvero scaglionare o differirne l’erogazione
all’esito del collaudo dell’opera, anche al fine di valutare
più compiutamente l’apporto fornito dai vari componenti del
gruppo nelle varie fasi e complessivamente.
Il regolamento non può, al contrario,
prescindere dal vincolo legislativo che impone di ancorare
il fondo incentivante alla base di gara (non all’importo
oggetto del contratto, né a quello risultante dallo stato
finale dei lavori) e pertanto non sarebbe ammissibile la
previsione e l’erogazione di alcun compenso nel caso in cui
l’iter dell’opera o del lavoro non sia giunto, quantomeno,
alla fase della pubblicazione del bando o della spedizione
delle lettere d’invito
(cfr., in tal senso il
parere 24.10.2012 n. 453 della
sezione regionale di controllo per la Lombardia che
richiama, per esempio, l’art. 2, comma 3, del D.M.
Infrastrutture n. 84 del 17/03/2008).
Alla luce del quesito posto dall’ente con riferimento al
proprio regolamento interno appare opportuno evidenziare che
le concrete modalità di disciplina della ripartizione degli
incentivi, rimesse al regolamento dell’ente, deve, poi,
avvenire nel rispetto del principio secondo cui
l’incentivo è direttamente funzionalizzato al
risultato, atteso che lo stesso è strettamente correlato
all’effettivo svolgimento della prestazione e presuppone,
pertanto, il positivo accertamento delle specifiche attività
svolte.
Si tratta di un principio fondamentale che l’ente deve
tenere presente costantemente. La normativa generale sul
pubblico impiego e, in particolare, dall’art. 7, comma 5,
del d.lgs. n. 165/2001 stabilisce, infatti che “le
amministrazioni pubbliche non possono erogare trattamenti
economici accessori che non corrispondano alle prestazioni
effettivamente rese”
e l’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006, facendone
espressa applicazione proprio in sede di disciplina generale
degli incentivi, nella formulazione discendente dalla
novella apportata dall’art. 1 del d.l. n. 162/2008 e nel
testo recepito in Sicilia con la legge regionale n. 12/2011,
dispone che “la corresponsione
dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla
struttura competente, previo accertamento positivo delle
specifiche attività svolte dai predetti dipendenti”.
Ne discende che anche la tempistica di
attribuzione ed erogazione dell’incentivo deve essere
subordinata alla necessaria attività di verifica,
misurazione e valutazione dell’attività svolta dal
lavoratore. D’altra parte, gli incentivi di progettazione
sono una particolare voce di salario accessorio, avente la
finalità di accrescere l’efficienza e l’efficacia degli
uffici tecnici preposti a tale ramo dell’amministrazione e
così come ogni altra voce di salario accessorio non sarebbe
ammissibile, neppure con l’avallo della disciplina pattizia,
una regolamentazione atta a consentire l’erogazione di
acconti o parti dell’incentivo che prescindano da una
puntuale verifica dell’attività prestata in termini
quantitativi e qualitativi adeguati a giustificare
l’erogazione di un compenso aggiuntivo.
Alla luce dei principi sopra esposti deve
essere risolto il quesito posto dall’amministrazione
provinciale in ordine alla possibilità di erogare gli
incentivi per i progettisti interni anche prima dal
finanziamento dell’opera, a condizione che siano rispettati
i vincoli sopra richiamati in merito alla subordinazione di
qualsivoglia erogazione all’effettivo svolgimento delle
prestazioni ed all’accertamento delle specifiche attività
svolte e del contributo fornito dalle figure professionali
coinvolte (Corte
dei Conti, Sez. controllo Sicilia,
parere 24.02.2014 n. 29). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: L’amministrazione
non può, in sede di regolamento, adottare disposizioni in
contrasto con quanto previsto dalla legge, sia, in
particolare, dall’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 165/2006
che, in generale, dai principi posti in tema di pubblico
impiego dal d.lgs. n. 165/2001 e dall’ulteriore normativa di
rango primario.
Nello specifico non è legittima l’erogazione dell’intero
incentivo, suddiviso dal regolamento interno fra fase di
aggiudicazione e fase di esecuzione, nel caso in cui l’opera
non sia stata successivamente appaltata ed eseguita (e, di
conseguenza, l’attività del personale interno, in relazione
a tali ulteriori fasi, non sia stata espletata).
---------------
Nel caso in cui l’attività di
progettazione sia stata affidata a professionisti esterni,
le rispettive quote del fondo incentivante sono devolute in
economia, costituendo un risparmio per l’amministrazione.
L’eventuale attività prestata dal personale interno prima
della fase di aggiudicazione (RUP e “collaboratori”
specificatamente individuati ex art. 10 e 92, comma 5,
d.lgs. 163/2006), ove l’incentivazione sia prevista dal
regolamento interno (e quest’ultimo non richieda anche la
successiva aggiudicazione) deve essere limitata alla quota
spettante per la fase di gara (e non anche alle quote
previste, sempre per RUP e collaboratori, per la fase
esecutiva non realizzata).
Nessun compenso è dovuto in
questo caso (in quanto non riferibile ad attività espletata)
per la direzione lavori, il coordinamento della sicurezza in
fase di esecuzione ed il collaudo.
--------------
La Sezione richiama il condivisibile
orientamento espresso dalla Sezione regionale di controllo
per il Piemonte a tenore del quale, l’atto di
pianificazione, comunque denominato, debba necessariamente
riferirsi alla progettazione di opere pubbliche e non ad un
mero atto di pianificazione territoriale redatto dal
personale tecnico abilitato dipendente dell’amministrazione.
Ciò che rileva ai fini della
riconoscibilità del diritto al compenso incentivante non è
tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione,
quanto il suo contenuto specifico intimamente connesso alla
realizzazione di un’opera pubblica, ovvero a quel quid
pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di
pianificazione generale (piano regolatore o variante
generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione
dell’attività istituzionale dell’ente per la quale al
dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente
spettante.
---------------
Il sindaco del comune di Cologno al Serio (BG), mediante
nota n. 15472 del 04.10.2012, ha posto un duplice quesito in
merito alla corresponsione di incentivi per la progettazione
previsti dall’art. 92, commi 5 e 6, del decreto legislativo
12.04.2006, n. 163.
In particolare, relativamente al comma 5 della norma citata,
si chiede se sia possibile corrispondere al responsabile
del procedimento (RUP) quota parte dell'incentivo, secondo i
criteri di ripartizione stabiliti dall'apposito regolamento
interno, in relazione ad un'attività di progettazione di
opere pubbliche affidata all'esterno. Detto in altri
termini, il progetto viene realizzato da soggetto esterno,
mentre la funzione di RUP, come prevede la legge, è svolta
da tecnico abilitato dipendente dell'Ente.
Inoltre, in riferimento al disposto del comma 6 della
richiamata disposizione normativa, il sindaco chiede se
l'Ente possa corrispondere il 30 per cento della tariffa
professionale relativa alla adozione di un atto di
pianificazione (per esempio PGT, Piano di lottizzazione,
Piano di recupero, e relative varianti) redatto
esclusivamente da tecnico abilitato dipendente
dell'Amministrazione. Detto in altri termini, ci si
interroga sul significato della locuzione normativa “atto
di pianificazione” e cioè se debba essere
necessariamente finalizzato alla localizzazione di opere
pubbliche o se comprenda anche gli atti di pianificazione
sopra enucleati.
...
Sul primo quesito posto dall’amministrazione comunale
(attribuzione di compensi al RUP nel caso di progetto
affidato all’esterno ai sensi dell’art. 92, comma 5, del
d.lgs. n. 163/2006), la Sezione ha già consolidato i propri
orientamenti consultivi.
Inoltre, la disciplina in discorso è stata già oggetto di
attenzione da parte di precedenti pronunce della Corte dei
conti (cfr., fra le altre, Sezione Autonomie
deliberazione 13.11.2009 n. 16/2009,
Sezione Veneto
parere 26.07.2011 n. 337,
Sezione Piemonte
parere 30.08.2012 n. 290,
Sezione Lombardia
parere 06.03.2012 n. 57
e
parere 30.05.2012 n. 259)
alle cui motivazioni e conclusioni può farsi riferimento per
l’analisi dei profili generali.
Sulla questione, è opportuno richiamare il dettato normativo
(art. 92, comma 5, d.lgs. n. 163/2006, c.d. Codice dei
contratti pubblici), oggetto della richiesta di parere che,
nella formulazione vigente, così recita: “Una somma non
superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara
di un'opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri
previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione,
a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo
93, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro,
con le modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata e assunti in un regolamento
adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del
procedimento e gli incaricati della redazione del progetto,
del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale
effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita
dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità
dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle
responsabilità professionali connesse alle specifiche
prestazioni da svolgere. La corresponsione dell'incentivo è
disposta dal dirigente preposto alla struttura competente,
previo accertamento positivo delle specifiche attività
svolte dai predetti dipendenti; limitatamente alle attività
di progettazione, l'incentivo corrisposto al singolo
dipendente non può superare l'importo del rispettivo
trattamento economico complessivo annuo lordo; le quote
parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte
dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale
esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero
prive del predetto accertamento, costituiscono economie”.
La norma va letta nel complessivo contesto
delle modalità d’affidamento degli incarichi tecnico
professionali, previste dalla legislazione in materia di
contratti pubblici. Quest’ultima
(si rinvia agli artt. 10, 84, 90, 112, 120 e 130 del d.lgs.
163/2006) è informata da un principio
generale, già codificato dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n.
165/2001, in base al quale i predetti incarichi possono
essere conferiti a soggetti esterni al plesso amministrativo
solo se non si disponga di professionalità adeguate nel
proprio organico e tale carenza non sia altrimenti
risolvibile con strumenti flessibili di gestione delle
risorse umane. Tale presupposto mira a preservare le finanze
pubbliche oltre che a valorizzare il personale interno alle
amministrazioni.
Pertanto, nelle ipotesi ordinarie in cui
gli incarichi tecnici sono espletati da personale interno,
ai fini della loro remunerazione, occorre far riferimento
alle regole generali previste per il pubblico impiego, il
cui sistema retributivo è conformato da due principi
cardine, quello di definizione contrattuale delle componenti
economiche e quello di onnicomprensività della retribuzione
(cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001, nonché
Corte dei Conti Puglia, Sezione giurisdizionale,
sentenza 20.07.2010 n. 464,
sentenza 22.07.2010 n. 475 e
sentenza 02.08.2010 n. 487).
Secondo questi ultimi nulla è dovuto, oltre al trattamento
economico fondamentale ed accessorio stabilito dai contratti
collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che
rientra nei suoi doveri d’ufficio, anche se di particolare
complessità.
Nel sistema delineato dal d.lgs. 165/2001, applicabile anche
al personale degli enti locali in forza dell’art. 1, comma
2, del medesimo decreto, il principio di onnicomprensività
della retribuzione si ricava da vari spunti normativi.
Per il personale dirigente, la base giuridica è rinvenibile
nell’art. 24, comma 3 («tutte le funzioni ed i compiti
attribuiti ai dirigenti in base a quanto previsto dal
presente decreto, nonché qualsiasi incarico ad essi
conferito in ragione del loro ufficio o comunque conferito
dall’amministrazione»). Per il personale non dirigente,
il fondamento si rinviene nel combinato disposto degli artt.
2, 40, 45 e 53 e si dipana come corollario del canone
dell’articolazione legale e contrattuale della struttura
retributiva: poiché la determinazione del corrispettivo per
le prestazioni dei dipendenti è rimessa alla contrattazione
collettiva (salve le eccezioni previste dalla legge), ne
consegue che quanto previsto da quest’ultima retribuisce
ogni attività che ricade nei doveri d’ufficio (principio di
onnicomprensività).
Per contro, il contratto individuale (che deve conformarsi
al CCNL, ex art. 2 e 45 d.lgs. n.165/2001), quello
integrativo di ente (che assume rilevanza nei limiti
previsti dal CCNL nazionale, cfr. artt. 40 e 40-bis d.lgs.
n. 165/2001) o una fonte normativa di grado secondario (ad
esempio un regolamento) non possono autonomamente
determinare la retribuzione del dipendente.
La legge, invece, oltre a disciplinare struttura e livelli
di contrattazione nel pubblico impiego (cfr. artt. 2, 24, 40
e 45 d.lgs. n. 165/2001) può, in omaggio al generale sistema
delle fonti previsto dalla Costituzione, disciplinare in
modo diretto l’ammontare del trattamento economico (si
rimanda, per esempio, ai precetti posti dall’art. 9 del d.l.
n. 78/2010, convertito nella legge n. 122/2010), nonché
attribuire ulteriori specifici compensi (come nel caso
dell’art. 92, comma 5, del Codice dei contratti pubblici).
Il c.d. “incentivo alla progettazione”, previsto dal
Codice dei contratti pubblici, costituisce uno di quei casi
nei quali il legislatore, derogando al principio per cui il
trattamento economico è fissato dai contratti collettivi,
attribuisce un compenso ulteriore e speciale, rinviando ai
regolamenti dell’amministrazione aggiudicatrice, previa
contrattazione decentrata, i criteri e le modalità di
ripartizione.
L’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006
deroga ai principi di onnicomprensività e determinazione
contrattuale della retribuzione del dipendente pubblico e,
come tale, costituisce un’eccezione che si presta a stretta
interpretazione e per la quale sussiste il divieto di
analogia posto dall’art. 12 delle diposizioni preliminari al
codice civile (in
tal senso Sezione Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008).
L’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici, con
atto di regolazione 04.11.1999 n. 6, aveva già avuto
modo di precisare come, nel caso della
progettazione interna, la prestazione dei dipendenti, in
quanto riferita direttamente all’amministrazione di
appartenenza, è da considerare svolta "ratione offici"
e non "intuitu personae", risolvendosi "in una
modalità di svolgimento del rapporto di pubblico impiego"
(Cass. Civ. Sez. Un. 02.04.1998, n. 3386),
nell'ambito della cui disciplina, normativa e contrattuale,
vanno individuati i termini della relativa retribuzione.
Come evincibile dalla lettera del comma, la
legge pone alcuni paletti per l’attribuzione del predetto
incentivo, rimettendone la disciplina concreta (“criteri
e modalità”) ad un regolamento interno assunto previa
contrattazione decentrata.
I punti fermi che il regolamento interno
deve rispettare
(sull’impossibilità da parte del regolamento di derogare a
quanto previsto dalla legge o di attribuire compensi non
previsti, si rimanda al
parere 30.05.2012 n. 259
della Sezione) paiono essere i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti
gli incarichi tassativamente indicati dalla norma
(responsabile del procedimento, incaricati della redazione
del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei
lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti
all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro”
(non, pertanto, per un appalto di fornitura di beni o di
servizi). La norma non presuppone, tuttavia, ai fini della
legittima erogazione, il necessario espletamento interno di
una o più attività (per esempio, la progettazione) purché,
come sarà meglio specificato, il regolamento ripartisca gli
incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite
e devolva in economia la quota relativa agli incarichi
conferiti a professionisti esterni;
- ammontare complessivo non superiore al due per cento
dell’importo a base di gara. Di conseguenza la somma
concretamente prevista dal regolamento interno può essere
stabilita in misura percentuale inferiore;
- ancoramento del fondo incentivante alla base di gara (non
all’importo oggetto del contratto, né a quello risultante
dallo stato finale dei lavori). Si deduce che non appare
ammissibile la previsione e l’erogazione di alcun compenso
nel caso in cui l’iter dell’opera o del lavoro non sia
giunto, quantomeno, alla fase della pubblicazione del bando
o della spedizione delle lettere d’invito
(cfr., per esempio, l’art. 2, comma 3, del DM Infrastrutture
n. 84 del 17/03/2008). Quanto detto non
esclude che, in sede di regolamento interno, al fine di
ancorare l’erogazione dell’incentivo a più stringenti
presupposti, l’amministrazione possa prevedere la
corresponsione solo subordinatamente all’aggiudicazione
dell’opera;
- puntuale ripartizione del fondo
incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile
del procedimento, progettista, direttore dei lavori,
collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo
percentuali rimesse alla discrezionalità
dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari
della logicità, congruenza e ragionevolezza
(cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici,
deliberazione 13.12.2007 n. 315,
deliberazione 22.06.2005 n. 70,
deliberazione 19.05.2004
n. 97-bis);
- devoluzione in economia delle quote del
fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte
dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere
analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le
percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal
personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui
alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni,
la predetta devoluzione
(si rinvia all’Autorità di vigilanza con la
deliberazione 13.12.2007 n. 315,
deliberazione 08.04.2009 n. 35,
deliberazione 07.05.2008 n. 18 e
deliberazione 02.05.2001 n. 150).
Altri principi applicabili alla fattispecie (rilevanti ai
fini del parere di cui si discute) si ricavano dalla
normativa generale sul pubblico impiego e, in particolare,
dall’art. 7, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001 in base al
quale “le amministrazioni pubbliche non
possono erogare trattamenti economici accessori che non
corrispondano alle prestazioni effettivamente rese”.
La regola è fatta espressamente propria dal legislatore
anche nella materia degli incentivi di cui si discute, posto
che l’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006, nella
formulazione discendente dalla novella apportata dall’art. 1
del d.l. n. 162/2008, dispone che “la
corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente
preposto alla struttura competente, previo accertamento
positivo delle specifiche attività svolte dai predetti
dipendenti”.
Nel caso in cui tale accertamento sia
invece negativo, la norma, adotta la medesima regola della
devoluzione in economia, prevista per il caso di attività
eseguita da professionisti esterni
(in proposito l’Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici ha affermato, nella
deliberazione 22.06.2005 n. 69, emessa nel previgente similare contesto
normativo, che l’incentivo assolve alla funzione di
compensare i progettisti dipendenti che abbiano in concreto
effettuato la redazione degli elaborati progettuali.
Pertanto, la previsione, da parte di un regolamento interno,
della corresponsione anche nell’ipotesi di progettazione
nella sostanza redatta da professionisti esterni, risulta in
contrasto con la ratio della disposizione
legislativa, concretando un’ipotesi di duplicazione di
spesa).
Alla luce del dettato normativo e dei precedenti sopra
richiamati, appare necessario ribadire, in
primo luogo, che l’amministrazione non può, in sede di
regolamento, adottare disposizioni in contrasto con quanto
previsto dalla legge, sia, in particolare, dall’art. 92,
comma 5, del d.lgs. n. 165/2006 che, in generale, dai
principi posti in tema di pubblico impiego dal d.lgs. n.
165/2001 e dall’ulteriore normativa di rango primario.
Nello specifico non è legittima l’erogazione dell’intero
incentivo, suddiviso dal regolamento interno fra fase di
aggiudicazione e fase di esecuzione, nel caso in cui l’opera
non sia stata successivamente appaltata ed eseguita (e, di
conseguenza, l’attività del personale interno, in relazione
a tali ulteriori fasi, non sia stata espletata).
Nel caso in cui l’attività di progettazione
sia stata affidata a professionisti esterni, le rispettive
quote del fondo incentivante sono devolute in economia,
costituendo un risparmio per l’amministrazione. L’eventuale
attività prestata dal personale interno prima della fase di
aggiudicazione (RUP e “collaboratori”
specificatamente individuati ex art. 10 e 92, comma 5,
d.lgs. 163/2006), ove l’incentivazione sia prevista dal
regolamento interno (e quest’ultimo non richieda anche la
successiva aggiudicazione) deve essere limitata alla quota
spettante per la fase di gara (e non anche alle quote
previste, sempre per RUP e collaboratori, per la fase
esecutiva non realizzata). Nessun compenso è dovuto in
questo caso (in quanto non riferibile ad attività espletata)
per la direzione lavori, il coordinamento della sicurezza in
fase di esecuzione ed il collaudo.
Quanto esposto non esclude che la valutazione dell’operato
dell’amministrazione, tanto ai fini dell’affidamento ed
esecuzione della singola opera o lavoro, quanto ai fini del
complessivo programma di opere pubbliche, sia attuata nel
corso di un più ampio arco temporale. Appare evidente,
infatti, che la redazione di un progetto o la pubblicazione
di un bando di gara senza la successiva aggiudicazione ed
esecuzione dell’opera costituiscono un sintomo di carente
programmazione amministrativa (mancata effettuazione di
espropri, assenza di titoli abilitativi o autorizzativi
urbanistici, etc.), finanziaria (sottostima del fabbisogno,
distorsione verso iniziative non preventivate, etc.) o
progettuale (emersione di lacune in sede di verifica,
incoerenza dei costi, etc.) da parte dell’Ente.
Nel caso tale carente programmazione sia dovuta a colpa
dell’amministrazione (o meglio, di alcuni suoi organi),
appare evidente come non solo il costo per i progetti non
utilizzati ma anche l’incentivo attribuito ai dipendenti
interni possa costituire, in presenza degli altri
presupposti previsti dalla legge, voce di danno risarcibile.
Venendo al secondo quesito, inerente il corretto
significato da attribuire alla locuzione “atto di
pianificazione” inserita nel testo dell’art. 92, comma
6, del d.lgs. n. 163/2006, la Sezione
richiama il condivisibile orientamento espresso dalla
Sezione regionale di controllo per il Piemonte
(cfr.
parere 30.08.2012 n. 290),
a tenore del quale, l’atto di pianificazione,
comunque denominato, debba necessariamente riferirsi alla
progettazione di opere pubbliche e non ad un mero atto di
pianificazione territoriale redatto dal personale tecnico
abilitato dipendente dell’amministrazione.
Stante la sedes materiae della norma sugli incentivi
alla progettazione (Codice degli appalti), nonché la
ratio della disposizione (contenere i costi connessi
alla progettazione delle opere pubbliche valorizzando le
professionalità interne alla pubblica amministrazione), si
condivide l’argomentazione secondo cui “la norma àncora
chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il
compenso incentivante alla circostanza che la redazione
dell’atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e
non ad atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta
all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non
è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo
ai dipendenti degli Uffici tecnici dell’Ente” (in
termini, Sezione contr. Piemonte deliberazione cit.; cfr.
altresì Sezione contr. Lombardia,
parere 30.05.2012 n. 259;
parere 06.03.2012 n. 57;
Sezione contr. Puglia,
parere 16.01.2012 n. 1;
Sezione contr. Toscana,
parere 18.10.2011 n. 213).
Si osserva, inoltre, che l’interesse
pubblico alla realizzazione dell’opera, quale presupposto
per l’erogazione di compensi incentivanti al personale in
servizio per la redazione di progetti, è testualmente
previsto nell’art. 92, comma 7, del d.lgs. n. 163/2006,
quale criterio da prendere in considerazione per lo
stanziamento dei fondi necessari al finanziamento delle
spese progettuali in sede di stesura dei bilanci dello
Stato, delle amministrazioni statali, delle regioni e delle
autonome locali.
In conclusione, ciò che rileva ai fini
della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante
non è tanto il nomen juris attribuito all’atto di
pianificazione, quanto il suo contenuto specifico
intimamente connesso alla realizzazione di un’opera
pubblica, ovvero a quel quid pluris di progettualità
interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale
(piano regolatore o variante generale) che costituisce, al
contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale
dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la
retribuzione ordinariamente spettante
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 24.10.2012 n. 453). |
NEWS |
TRIBUTI: Legge stabilità.
Rifiuti speciali, niente Tari.
Non sono soggette al pagamento della Tari le superfici in
cui vengono prodotti rifiuti speciali. Nella determinazione
della superficie tassabile, però, non si calcola quella
parte dove si formano questi rifiuti in modo continuativo e
prevalente, al cui smaltimento sono tenuti a provvedere a
proprie spese i produttori.
È quanto prevede l'articolo 1,
comma 649, della legge di Stabilità (147/2013). La
formulazione di questa norma è tutt'altro che un esempio di
chiarezza, in quanto fa già discutere e può generare
contenzioso nella parte in cui richiede la produzione di
rifiuti speciali «in via continuativa e prevalente» al fine
di ottenere l'esonero dal prelievo.
Il dubbio che si pone è
se qualora sussista il requisito della continuità e
prevalenza non possono essere tassate integralmente le
superfici in cui si producono anche rifiuti speciali oppure
se il beneficio rimane sempre circoscritto alla parte della
superficie interessata e l'esonero è solo parziale.
Nonostante l'infelice formulazione della disposizione di
legge, si ritiene che l'agevolazione fiscale sia sempre
limitata alla parte dell'immobile interessata dalla
formazione di questi rifiuti e non si estende all'intera
superficie, vale a dire a quella in cui si producono rifiuti
ordinari. La novità rispetto al passato, infatti, è che una
«parte di essa» può essere esclusa dalla tassazione solo a
condizione che la produzione di rifiuti speciali risulti
continuativa e prevalente.
Nel caso in cui sussista questa
condizione allo smaltimento dei rifiuti sono tenuti a
provvedere a proprie spese i produttori. Ma l'esclusione
dell'obbligo di conferirli al servizio pubblico si ha solo
nei casi in cui sia fornita dimostrazione del loro avvio al
recupero, con attestazione di ricevuta da parte dell'impresa
incaricata del trattamento. Inoltre, spetta al contribuente
provare quale parte dell'immobile non sia soggetta alla
tassa. Peraltro il comma 682, lettera a), numero 5), della
legge di Stabilità attribuisce al comune la facoltà di
concedere con regolamento una riduzione tariffaria in caso
di autosmaltimento.
In particolare, l'amministrazione comunale può individuare
categorie di attività produttive di rifiuti speciali alle
quali applicare riduzioni rispetto all'intera superficie su
cui l'attività viene svolta (articolo ItaliaOggi del
28.02.2014). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Anticorruzione, le Faq Anac non derogano la legge.
Il dlgs n. 33/2013 contiene circa 270 obblighi informativi
che devono trovare adempimento presso migliaia di
amministrazioni pubbliche, enti pubblici e privati vigilati,
nonché presso le società controllate, non di rado di ridotte
dimensioni. L'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) ha da
tempo evidenziato il rischio che questo assetto normativo
possa determinare un eccesso di rigidità e uniformità nel
sistema della trasparenza.
In tale contesto un numero
crescente di soggetti pubblici si è rivolto all'Anac per
ricevere indicazioni sulle modalità da seguire per assolvere
agli obblighi di trasparenza.
Questa attività consultiva
rappresenta il necessario corollario di due compiti
demandati espressamente dalla legge all'Autorità: a) emanare
linee guida volte ad assicurare un adeguato livello di
trasparenza di cui le amministrazioni pubbliche devono
tenere conto nell'elaborazione dei programmi triennali per
la trasparenza e l'integrità (dlgs n. 33, art. 10.1.a); b)
svolgere un'attività di vigilanza di cui devono essere
preventivamente esplicitati i criteri (dlgs n. 33, art. 45).
Per gestire con maggiore efficacia questo corposo flusso di
quesiti
l'Autorità ha pubblicato più di 150 Faq che
dovrebbero offrire alle amministrazioni una risposta
immediata alle richieste di chiarimento più frequenti.
Questa scelta, che è stata accolta con notevole favore da
numerosi responsabili della trasparenza e dagli Organismi
indipendenti della valutazione, ha incontrato invece la
disapprovazione di Luigi Oliveri nel suo articolo su
ItaliaOggi del 21.02.2014. Vorremmo però rassicurare i
lettori sul fatto che le Faq dell'Anac non rappresentano in
alcun modo una deroga alla legge o ad eventuali pronunce
giurisprudenziali.
Sono un esempio di soft law, largamente
utilizzato da altre autorità indipendenti, che mira ad
indirizzare l'esercizio della discrezionalità da parte delle
amministrazioni. Le perplessità di Oliveri si soffermano,
peraltro, su una specifica Faq, quella in materia di accesso
civico. Nelle amministrazioni in cui è presente un unico
dirigente si è infatti posto il problema di identificare il
titolare del potere sostitutivo previsto dal dlgs n. 33,
art. 5.4 in caso di mancata o ritardata risposta del
responsabile della trasparenza.
È, infatti, naturale che,
come ammette anche Oliveri, questo potere sia esercitato da
un soggetto sovraordinato. Ma per assicurare che ciò avvenga
occorre che le amministrazioni, nell'esercizio dei margini
di autonomia organizzativa loro riconosciuto dalla norma,
affidino il compito di ricevere l'istanza di accesso civico
ad un soggetto che riveste una posizione gerarchica
inferiore a quella apicale. Altrimenti avremmo la soluzione
paradossale che un sottoposto dovrebbe sostituirsi al suo
superiore oppure che il responsabile della trasparenza di
livello apicale dovrebbe sostituire se stesso (articolo ItaliaOggi del
28.02.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Nuovi reati a difesa dell'ambiente.
Sanzionato anche chi impedisce i controlli - Più severità
contro le ecomafie.
Giustizia. La Camera ha approvato il disegno di legge, che
ora passa al Senato: entra nel Codice il delitto di disastro
ambientale.
Quattro nuovi
reati, tra cui il disastro ambientale e il traffico di
materiale radioattivo, e confisca obbligatoria del profitto
del reato. La Camera aggiorna il Codice penale introducendo
i delitti contro l'ambiente. Un pacchetto di norme che
prevede anche aggravanti per mafia e sconti di pena per chi
si ravvede, condanna al ripristino e raddoppio dei tempi di
prescrizione.
Il disegno di legge è stato approvato ieri e
passa ora all'esame del Senato.
Plaude il neo ministro della Giustizia, Andrea Orlando:
«L'approvazione del disegno di legge sui reati ambientali è
un passaggio importantissimo: se ne parla da 20 anni, ora
esiste finalmente un testo che rappresenta un riordino
complessivo e organico della materia e delle sanzioni,
predisposte secondo un sistema proporzionale e congruo.
Questo testo è il frutto del concorso di tutte le parti
politiche ed è stato approvato con una maggioranza più ampia
di quella che sostiene il governo. Ho due ragioni per
esserne soddisfatto: come neoministro della Giustizia e come
ex ministro dell'Ambiente».
Nel dettaglio, il nuovo delitto di disastro ambientale
punisce con il carcere da 5 a 15 anni chi altera gravemente
o irreversibilmente l'ecosistema o compromette la pubblica
incolumità. Per l'inquinamento ambientale è prevista la
reclusione da 2 a 6 anni (e la multa da 10mila e 100mila
euro). Se non c'è dolo, ma colpa, le pene sono diminuite da
un terzo alla metà. Scattano, invece, aumenti di pene per i
due delitti se commessi in aree vincolate o a danno di
specie protette.
Il traffico e abbandono di materiale di alta radioattività è
colpito con la pena del carcere da 2 a 6 anni (e multa da
10mila a 50mila euro) a danno di chi commercia e trasporta
materiale radioattivo o di chi se ne libera abusivamente.
Chi ostacola l'accesso o intralcia i controlli ambientali
rischia la reclusione da 6 mesi a 3 anni. In presenza di
associazioni mafiose finalizzate a commettere i delitti
contro l'ambiente o a controllare concessioni e appalti in
materia ambientale scattano le aggravanti.
Pene ridotte poi da metà a due terzi nel caso di
ravvedimento operoso: se l'imputato evita conseguenze
ulteriori, aiuta i magistrati a individuare colpevoli o
provvede alla bonifica e al ripristino delle condizioni
ambientali. Per i delitti ambientali i termini di
prescrizione raddoppiano. Se poi si interrompe il processo
per dar corso al ravvedimento operoso, la prescrizione è
sospesa. In caso di condanna o patteggiamento della pena è
sempre ordinata la confisca dei beni che costituiscono il
prodotto o il profitto del reato e delle cose servite a
commetterlo o comunque di beni di valore equivalente nella
disponibilità (anche indiretta o per interposta persona) del
condannato.
Il giudice, in caso di condanna o patteggiamento della pena,
ordina il recupero e, dove tecnicamente possibile, il
ripristino dello stato dei luoghi a carico del condannato.
In assenza di danno o pericolo, nelle ipotesi
contravvenzionali previste dal Codice dell'ambiente, si
ricorre alla «giustizia riparativa» puntando alla
regolarizzazione attraverso l'adempimento a specifiche
prescrizioni. In caso di adempimento l'illecito si estingue.
Misure anche a carico delle imprese, allungando la lista dei
reati presupposto previsti dal decreto 231 del 2001.
Scatteranno pertanto sanzioni pecuniarie per l'inquinamento
ambientale (da 250 a 600 quote), per il disastro ambientale
(da 400 a 800 quote) e per l'associazione a delinquere
(comune e mafiosa) aggravata (da 300 a 1.000 quote). In caso
di delitto di inquinamento ambientale e di disastro
ambientale, via libera anche all'applicazione delle sanzioni
interdittive (interdizione dall'esercizio dell'attività;
sospensione o revoca di autorizzazioni, licenze o
concessioni; divieto di contrattare con la pubblica
anmministrazione; esclusione da agevolazioni, finanziamenti,
contributi o sussidi ed eventuale revoca di quelli già
concessi; divieto di pubblicizzare beni o servizi) (articolo Il Sole 24 Ore del 27.02.2014). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Appalti, più vincoli per l'in house.
Direttive europee. Sono sempre soggette alle gare le
controllate con capitali anche privati.
L'affidamento
in house trova il suo quadro normativo nella nuova direttiva
comunitaria sugli appalti pubblici, che definisce anche
alcune importanti novità nel modello di gestione dei
servizi.
L'articolo 12 della direttiva appalti approvata dal
Parlamento europeo il 15 gennaio (e di prossima
pubblicazione nella Gazzetta ufficiale europea) per la prima
volta traduce in un dato normativo gli elementi di principio
dettati a suo tempo dalla sentenza Teckal e sviluppati dalla
giurisprudenza della Corte di giustizia, fornendo elementi
specificativi dei requisiti di controllo analogo e
dell'attività prevalente a favore dell'ente affidante.
La disposizione stabilisce infatti che non rientra
nell'ambito di applicazione del nuovo corpus di regole per
gli appalti un affidamento di servizio tra
un'amministrazione aggiudicatrice e una persona giuridica di
diritto pubblico o di diritto privato quando la prima
eserciti sulla seconda proprio un controllo analogo a quello
da essa esercitato sui propri servizi.
Rispetto al secondo elemento costitutivo dell'in house, la
direttiva introduce la prima novità, stabilendo che
l'attività è prevalente quando oltre l'80% delle attività
della persona giuridica controllata sono effettuate nello
svolgimento dei compiti ad essa affidati
dall'amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre
persone giuridiche controllate dall'amministrazione
aggiudicatrice di cui trattasi.
La seconda innovazione rispetto agli orientamenti
giurisprudenziali consolidati è data dalla previsione di un
terzo elemento necessario per la definizione del rapporto
interorganico, quale l'assenza nella persona giuridica
controllata di partecipazioni dirette di capitali privati,
ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati
che non comportino controllo o potere di veto, prescritte
dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei
Trattati, che non esercitano un'influenza determinante sulla
persona giuridica controllata.
La norma permette l'ingresso dei privati negli organismi
affidatari in house, a condizione che questi non possano
incidere sulle decisioni strategiche.
Proprio l'affermazione della sussistenza del controllo
analogo sulla persona giuridica affidataria da parte
dell'amministrazione quando essa esercita un'influenza
determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle
decisioni significative della persona giuridica controllata,
costituisce il fondamento anche per l'ulteriore grande
novità: il controllo tramite holding. La norma stabilisce
infatti che l'amministrazione può esercitare il controllo
sull'organismo affidatario per mezzo di una persona
giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo
dall'amministrazione aggiudicatrice.
La disciplina codifica anche la situazione in cui
l'organismo affidatario sia partecipato da più enti, anche
con quote minoritarie, determinando la sussistenza del
controllo analogo quando questo sia esercitato in forma
congiunta.
La situazione si concretizza quando gli organi decisionali
della persona giuridica controllata sono composti da
rappresentanti di tutte le amministrazioni aggiudicatrici
partecipanti. La direttiva definisce per la prima volta
anche i parametri per escludere dal suo ambito applicativo
le forme di cooperazione tra amministrazioni pubbliche,
quando il contratto definisce un rapporto collaborativo
finalizzata a garantire che i servizi pubblici che esse sono
tenute a svolgere siano prestati nell'ottica di conseguire
gli obiettivi che esse hanno in comune (articolo Il Sole 24 Ore del 24.02.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Bonus antisismico con «titoli» pesanti.
Permesso di costruire o super-Dia per ottenere la detrazione
del 65% fino a 96mila euro.
Ristrutturazioni. L'incentivo maggiorato per la messa in
sicurezza statica riguarda le procedure autorizzatorie
attivate dopo il 04.08.2013.
La possibilità
di detrarre dall'imposta lorda il 36% delle spese per misure
antisismiche era già contemplata dall'articolo 16-bis del Tuir, inserito nel Testo unico dal Dl 201/2011.
Si tratta,
in particolare, degli interventi previsti dalla norma al
comma 1, lettera i), relativi all'esecuzione di opere per la
messa in sicurezza statica, sulle parti strutturali degli
edifici, per la redazione della documentazione obbligatoria
necessaria per comprovare la sicurezza statica del
patrimonio edilizio, nonché per la realizzazione degli
interventi necessari al rilascio di questa documentazione.
Per questa tipologia di interventi l'articolo 16 del Dl
63/2013 –come modificato dalla legge di stabilità 147/2013– ha innalzato l'entità della detrazione al 65% fino a una
spesa massima di 96mila euro per unità immobiliare, per le
spese sostenute entro il 31 dicembre di quest'anno (per gli
anni a venire, si veda l'articolo in basso).
Dall'incrocio delle due previsioni il riconoscimento della
detrazione potenziata al 65% risulta assoggettato ad alcune
limitazioni.
Innanzitutto questo si riferisce ai soli interventi le cui
procedure autorizzatorie siano state attivate dopo il 04.08.2013, data di entrata in vigore della legge 90/2013
(di conversione del Dl 63).
In secondo luogo la disposizione del 2013 non trova
applicazione per l'intero territorio nazionale, poiché
riguarda solo le opere eseguite sugli edifici ricadenti
nelle zone sismiche a pericolosità alta o media (zone 1 e 2)
di cui all'ordinanza del presidente del Consiglio dei
ministri n. 3274 del 20.03.2003.
Inoltre, non ogni tipologia di lavori potrà fruire dei
benefici fiscali. L'articolo 16-bis, infatti, prende in
considerazione soltanto l'adozione di misure antisismiche e
l'esecuzione di opere per la messa in sicurezza statica da
realizzarsi «sulle parti strutturali degli edifici o
complessi di edifici collegati strutturalmente e comprendere
interi edifici».
Infine il beneficio è riconosciuto solo per gli interventi
riguardanti edifici destinati ad attività produttive o ad
abitazione principale del contribuente.
I titoli abilitativi ammessi
Dovendo riguardare le «parti strutturali», la tipologia
delle opere va a inquadrarsi tra gli «interventi di
ristrutturazione edilizia», (articolo 3, comma 1, lettera
d), Dpr 380/2001), il cui titolo abilitativo sarà il
permesso di costruire o, se prevista dalla normativa
regionale, una super-Dia.
Andrà quindi tendenzialmente escluso il riconoscimento del
beneficio per le opere riconducibili agli «interventi di
restauro e di risanamento conservativo» (articolo 3, comma
1, lettera c), Dpr 380/2001). D'altro canto è la stessa
rubrica dell'articolo 16 a fare esplicito riferimento alla
«ristrutturazione edilizia», contribuendo a chiarire
l'ambito di operatività della norma. Ulteriore aspetto
problematico è quello collegato al concreto avvio delle
procedure autorizzatorie e ai limiti temporali entro cui le
spese devono essere sostenute per fruire della maggiore
detrazione.
Interventi su interi edifici
La norma non consente di intervenire sulle parti strutturali
della singola unità immobiliare, che viene presa in
considerazione unicamente per determinare l'ammontare
massimo della detrazione, ma solo sull'intero edificio o su
complessi di edifici collegati. Pertanto, salvo i casi in
cui l'immobile appartenga a un unico soggetto, sarà
indispensabile il coinvolgimento dei vari comproprietari o
dei condomini che dovranno deliberare, con i quorum
costitutivi e deliberativi ex articolo 1136 Codice civile,
sull'esecuzione o meno dell'intervento, sull'eventuale
acquisizione di progetti di massima e preventivi da varie
imprese, sull'individuazione del professionista cui affidare
la progettazione e la direzione dei lavori, sulla
costituzione obbligatoria del fondo speciali previsto
dall'articolo 1135 Codice civile.
Non va poi trascurato che nell'ipotesi in cui gli edifici
ricadono nei centri storici (zone A), gli interventi
potranno essere soltanto realizzati «sulla base di progetti
unitari e non su singole unità immobiliari», il che lascia
intravvedere la necessità della preventiva predisposizione e
approvazione di un piano attuativo, con ulteriore
dilatazione dei tempi necessari al concreto avvio delle
opere (articolo Il Sole 24 Ore del 24.02.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Subappalti, pagamenti diretti.
Se l'appaltatore è in crisi, può provvedere l'appaltante.
DESTINAZIONE ITALIA/Le novità relative al settore
infrastrutture e opere pubbliche
Possibile il pagamento diretto dei subappaltatori da parte
della stazione appaltante se l'appaltatore è in crisi
finanziaria e ritarda i pagamenti oppure se si è in pendenza
di una procedura di concordato preventivo con continuità
aziendale; previsti indennizzi per le imprese che subiscono
danni nei cantieri delle opere infrastrutturali (con due
milioni per il 2014 e 5 per il 2015); al via l'anagrafe
delle risorse Cipe revocate.
Sono queste alcune delle previsioni contenute nell'articolo
13 del decreto-legge 145/2013 «Destinazione Italia»,
convertito nella legge n. 9/2014 (pubblicata sulla Gazzetta
Ufficiale n. 43 del 21/02/2014) relative al settore delle
infrastrutture e delle opere pubbliche.
Una delle norme di maggiore rilievo è quella che prevede
indennizzi in caso di danneggiamenti nei cantieri in cui si
realizzano opere infrastrutturali ricomprese nel programma
delle infrastrutture strategiche (Pis) della ex legge
Obiettivo.
Si tratta di una disposizione che ha subito modifiche nei
diversi passaggi parlamentari; in particolare, alla Camera è
stato previsto che l'indennizzo si possa disporre non in
automatico, ma attraverso un decreto ad hoc del ministero
delle infrastrutture. Si introduce quindi la possibilità di
assegnare un indennizzo alle imprese che subiscono danni ai
materiali, alle attrezzature e ai beni strumentali «come
conseguenza di delitti non colposi commessi al fine di
ostacolare o rallentare l'ordinaria esecuzione delle
attività di cantiere».
Dal momento che questi fatti finiscono per pregiudicare il
corretto adempimento delle obbligazioni assunte per la
realizzazione dell'opera, il legislatore dispone la
possibilità di indennizzo, ma ne subordina l'effettiva
operatività all'emanazione di un apposito decreto del
ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto
con il ministro dell'economia e delle finanze, con il quale
si disporrà l'indennizzo. Come vincolo si precisa che
l'indennizzo potrà essere concesso per una quota della parte
eccedente le somme liquidabili dall'assicurazione stipulata
dall'impresa o, se l'impresa non fosse assicurata, per una
quota del danno subito. Per la concreta applicazione della
norma si stanziano due milioni per il 2014 e cinque per il
2015.
Un'altra disposizione di particolare rilievo è prevista,
sempre all'articolo 13, per la disciplina del subappalto
(contenuta nell'articolo 118 del Codice dei contratti). In
particolare si consente alla stazione appaltante, in
particolari condizioni, anche in deroga alle previsioni del
bando di gara, di provvedere al pagamento diretto delle
prestazioni effettuate dal subappaltatore, dal cottimista
nonché dalle società, anche consortili, eventualmente
costituite per l'esecuzione unitaria dei lavori. Si tratta
in particolare dei casi in cui l'impresa titolare del
contratto principale versi in situazione di crisi di
liquidità finanziaria, comprovata da reiterati ritardi nei
pagamenti dei subappaltatori, o dei cottimisti e accertata
dalla stazione appaltante.
L'articolo 13 stabilisce inoltre,
nella pendenza di una procedura di concordato preventivo con
continuità aziendale, la possibilità per la stazione
appaltante, anche per i contratti di appalto in corso, di
provvedere ai pagamenti dovuti per le prestazioni eseguite
dagli eventuali diversi soggetti che costituiscano
l'affidatario,quali le mandanti, e dalle società, anche
consortili, eventualmente costituite per l'esecuzione
unitaria dei lavori dai subappaltatori e dai cottimisti,
secondo le determinazioni del Tribunale competente per
l'ammissione alla procedura di concordato.
Viene poi estesa l'applicazione delle norme sullo svincolo
automatico delle garanzie di buona esecuzione relative alle
opere in esercizi a tutti i contratti aventi ad oggetto
opere pubbliche, anche se stipulati anteriormente
all'entrata in vigore del Codice dei contratti pubblici. In
particolare la disposizione, che tende ad assicurare
uniformità di disciplina per tutte le opere pubbliche,
comprende nell'ambito di applicazione della disciplina sullo
svincolo delle cauzioni, anche i cosiddetti «settori
esclusi», o sarebbe meglio dire «speciali», cioè quelli
dell'acqua, dell'energia e dei trasporti che non applicano
integralmente le disposizioni del codice dei contratti
pubblici e del regolamento attuativo.
Infine si introduce l'anagrafe pubblica delle revoche dei
fondi Cipe, che dovranno essere pubblicate su un sito
internet del Cipe stesso con riferimento ai singoli
provvedimenti normativi con i quali, a partire dal
01.01.2010, sono state revocate le assegnazioni (articolo ItaliaOggi Sette
del 24.02.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
TRIBUTI: Rendita catastale non retroattiva.
Sentenza della Commissione tributaria Lazio.
La rendita catastale attribuita dall'ufficio può produrre
effetti nei confronti del contribuente solo dopo la
comunicazione al destinatario e pertanto non
retroattivamente.
Quanto precede è contenuto nella sentenza n.
664/2014 della Ctr di Roma da cui emerge che l'atto con
cui viene comunicata l'applicazione retroattiva della
rendita catastale è nullo, nel rispetto dei principi
contenuti nello Statuto del contribuente.
L'art. 74, comma 1, della legge
n. 342 del 2000 ha stabilito che la rendita attribuita
decorre dalla data di notificazione all'interessato e dalla
medesima data decorre anche il termine per l'impugnazione.
Pertanto n caso di attribuzione e conseguente notifica di
nuova rendita nasce la questione della sua decorrenza che ha
trovato soluzione con la predetta norma secondo cui non è
più sufficiente la comunicazione ma la sua notificazione:
dalla data di effettuazione della notifica decorre il
termine di 60 giorni per la proposizione del ricorso contro
l'attribuzione della rendita.
Nella fattispecie in esame il contribuente ha proposto
ricorso avverso l'accertamento in rettifica dell'Ici emesso
dal comune e la Ctp lo ha respinto. Lo stesso contribuente
ha proposto appello eccependo l'omessa notifica da parte
dell'ente locale del provvedimento di variazione della
rendita catastale e la non retroattività della rendita
attribuita.
I giudici della Ctr hanno accolto le doglianze del
contribuente affermando che la rendita catastale attribuita
dall'ufficio «può produrre effetti nei confronti del
contribuente solo successivamente alla sua comunicazione al
destinatario e, quindi, non retroattivamente».
Quanto sopra trova rispondenza nei principi sanciti dallo
Statuto del contribuente e nel principio generale secondo
cui deve riconoscersi al contribuente il diritto a conoscere
un atto che determina effetti nella propria sfera giuridica.
Pertanto l'atto di variazione della rendita catastale emesso
dal comune è stato ritenuto illegittimo in quanto prevedeva
l'applicazione retroattiva della rendita catastale
modificata dall'ufficio nel 1999 e notificata al
contribuente sette anni dopo, con richiesta di pagamento
della differenza di imposta accertata. Tale orientamento è
suffragato dalla Suprema corte secondo cui la modificazione
o attribuzione definitiva di rendita catastale è efficace
solo a partire dalla notificazione del relativo atto, con
conseguente nullità degli accertamenti e liquidazione
relativi a periodi di imposta anteriori alla notifica
dell'atto di modificazione della rendita (Cass. n.
3233/2005) (articolo ItaliaOggi del
22.02.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il ricambio aria finisce nell'Ape.
Nell'attestato anche il raffrescamento con pannelli solari.
Le
novità del decreto Destinazione Italia convertito in legge
su vendite immobiliari e affitti.
Nella redazione dell'attestato di prestazione energetica
bisognerà tener conto anche del raffrescamento derivante
dalle schermature solari mobili. Ai fini del rilascio
dell'Ape, si dovrà tenere conto del raffrescamento derivante
dalle prestazioni energetiche delle schermature solari
mobili, a condizione che la prestazione energetica delle
predette schermature sia di classe 2, come definita nella
norma europea EN 14501:2006, o superiore. Nei casi di omessa
dichiarazione o allegazione dell'Ape ai contratti di
compravendita o di locazione immobiliare in luogo della
nullità degli atti si applica la sanzione pecuniaria.
Restano esclusi dall'obbligo di allegare l'Ape i nuovi
contratti di locazione di singole unità immobiliari.
Queste
alcune delle novità contenuto nell'articolo 1, 7° comma e
seguenti, del destinazione Italia diventato legge. Nei
contratti di compravendita immobiliare, negli atti di
trasferimento di immobili a titolo oneroso e nei nuovi
contratti di locazione di edifici o di singole unità
immobiliari soggetti a registrazione è inserita apposita
clausola con la quale l'acquirente o il conduttore
dichiarano di aver ricevuto le informazioni e la
documentazione, comprensiva dell'attestato, in ordine alla
attestazione della prestazione energetica degli edifici.
La
copia dell'Ape deve essere altresì allegata al contratto,
tranne che nei casi di locazione di singole unità
immobiliari. In caso di omessa dichiarazione o allegazione,
se dovuta, le parti sono soggette al pagamento, in solido e
in parti uguali, della sanzione amministrativa pecuniaria da
3.000 a 18.000 euro. La sanzione è da 1.000 a 4.000 euro per
i contratti di locazione di singole unità immobiliari e, se
la durata della locazione non eccede i tre anni, essa è
ridotta alla metà.
In sede di conversione è stato aggiunto
che il pagamento della sanzione amministrativa non esenta
comunque dall'obbligo di presentare la dichiarazione o la
copia dell'attestato di prestazione energetica entro
quarantacinque giorni. Un nuovo comma all'articolo 1 (comma
8-quater) stabilisce che gli annunci non devono riportare
gli indici di prestazione energetica, né la classe
energetica se riguardano la locazione di edifici
residenziali utilizzati meno di quattro mesi l'anno.
Per
essere abilitati alla redazione dell'Ape i certificatori
devono dimostrare di essere in possesso di un attestato di
frequenza, con superamento dell'esame finale dello specifico
corso di formazione per la certificazione energetica degli
edifici. La nuova durata del corso deve essere 80 ore e non
più di 64 ore. Per quanto concerne i requisiti per diventare
certificatori energetici, viene ampliata la platea dei
soggetti che possono redigere l'Ape senza frequentare lo
specifico corso di formazione di 80 ore.
L'obbligo del corso
è stato cancellato per i laureati in: ingegneria
aerospaziale e astronautica, biomedica, dell'automazione,
delle telecomunicazioni, elettronica, informatica e navale,
pianificazione territoriale urbanistica e ambientale,
scienze e tecnologie della chimica industriale. Mentre, tra
i diplomi che permettono di poter redigere la certificazione
energetica senza partecipare ai corsi di formazione, sono
stati inseriti anche quelli in aeronautica, energia
nucleare, metallurgia, navalmeccanica e metalmeccanica.
Qualora il tecnico abilitato sia dipendente e operi per
conto di enti pubblici ovvero di organismi di diritto
pubblico operanti nel settore dell'energia e dell'edilizia,
il requisito di indipendenza si intende superato dalle
finalità istituzionali di perseguimento di obiettivi di
interesse pubblico proprie di tali enti e organismi. Le
disposizioni dpr 16.04.2013, n. 75 si applicano anche ai
fini della redazione dell'attestazione di prestazione
energetica di cui alla direttiva 2010/31/UE del parlamento
europeo e del consiglio, del 19.05.2010 (articolo ItaliaOggi del
22.02.2014). |
SICUREZZA LAVORO: Testo unico sulla sicurezza anche per concerti e fiere.
Manifestazioni. Firmato il decreto che attua l'obbligo
introdotto l'anno scorso.
Completato il
quadro normativo per l'applicazione del testo unico sulla
sicurezza nei luoghi di lavoro per l'attività di
allestimento di palchi per spettacoli e nelle manifestazioni
fieristiche.
L'articolo 32, comma, 1, lettera g-bis, del Dl 69/2013 aveva
esteso le disposizioni del titolo IV del testo unico agli
spettacoli musicali, cinematografici e teatrali nonché alle
manifestazioni fieristiche. Però l'estensione non poteva
essere applicata in attesa di un decreto ministeriale che
avrebbe dovuto individuare le particolari esigenze connesse
allo svolgimento di tali attività.
Il decreto firmato ieri dal ministro del Lavoro, di concerto
con quello della Salute, colma il vuoto normativo. Il testo,
che entrerà in vigore con la sua pubblicazione sul sito
internet del ministero del Lavoro e di cui sarà fornita
notizia sulla Gazzetta ufficiale, è diviso in due capi: nel
primo ci sono le disposizioni riguardanti gli spettacoli
musicali, cinematografici e teatrali, mentre nel secondo
quelle per le manifestazioni fieristiche.
Le disposizioni del capo I, in considerazione della
compresenza di più imprese esecutrici, di un elevato numero
di lavoratori, subordinati e non, anche di diverse
nazionalità, si applicano alle attività di montaggio e
smontaggio di opere temporanee, compreso il loro
allestimento e disallestimento con impianti audio, luci e
scenotecnici, realizzate per spettacoli musicali,
cinematografici teatrali e di intrattenimenti, con
esclusione, tra l'altro, del montaggio/smontaggio di pedane
di altezza fino a 2 metri rispetto al piano stabile, non
connesse ad altre strutture o supportanti altre strutture.
Per tali attività, come per quelle fieristiche, ai fini
della sicurezza non trovano applicazione le disposizioni
relative al documento unico di regolarità contributiva (Durc).
Per quanto concerne le manifestazioni fieristiche, il
decreto fa rientrare nel campo di applicazione del testo
unico le attività di approntamento e smantellamento di
strutture allestitive o tensostrutture per manifestazioni
fieristiche con esclusione di quelle di altezza inferiore a
6 metri rispetto al piano stabile e di quelle biplanari con
superficie fino a 50 metri quadrati.
Nelle attività oggetto del decreto in esame, la copia del
piano di sicurezza e di coordinamento (Psc) e del piano
operativo di sicurezza (Pos) devono essere messi a
disposizione dei rappresentanti della sicurezza prima
dell'inizio dei lavori. Gli allegati al decreto riguardano
le informazioni minime sul sito di installazione dell'opera
temporanea, il modello di dichiarazione di idoneità tecnico
professionale delle imprese straniere, i contenuti minimi
del Psc e del Pos, le informazioni minime sul quartiere
fieristico, i contenuti minimi del Duvri di cui all'articolo
26 del testo unico (articolo Il Sole 24 Ore del 22.02.2014). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Anticorruzione, le Faq dell'Authority non risolvono ma
pongono problemi.
Tante Faq, molta confusione. L'Autorità nazionale
anticorruzione (Anac), subentrata alla Civit nel presidio
delle disposizioni contro la corruzione, ha pubblicato nei
giorni scorsi
decine di risposte a domande frequenti, poste
a orientare la corretta applicazione del dlgs 33/2013.
L'iniziativa suscita alcune perplessità tanto sul metodo
quanto, soprattutto, nel merito di alcune indicazioni
contenute.
Quanto al metodo, il rischio è che le risposte alle domande
frequenti assurgano al ruolo di interpretazione «ufficiale»
o «autentica» delle norme, proprio perché provenienti da
autorità preposte al ramo. Ma l'interpretazione autentica
spetta solo al legislatore, mentre l'interpretazione delle
norme in modo vincolante è funzione esclusiva della
giurisdizione. Nel merito le risposte dell'Anac non
convincono.
Ad esempio la Faq n. 2.5 risponde al quesito se il
responsabile della trasparenza competente per l'accesso
civico può essere anche titolare del potere sostitutivo a
intervenire sull'istanza del cittadino, se ad essa non sia
data risposta nei termini previsti dall'articolo 5, comma 4,
del dlgs 33/2013.
L'Anac sostiene che responsabile della trasparenza e
titolare del potere sostitutivo non possano coincidere, «in
quanto il soggetto titolare del potere sostitutivo non
dovrebbe rivestire una qualifica inferiore o equivalente
rispetto al soggetto sostituito». Come si nota, la Faq
intanto risulta perplessa, dal momento che utilizza il
condizionale. Per altro verso, nel prosieguo indica una
soluzione non contemplata dal dlgs 33/2013, tracimando da
funzione di interpretazione in vera e propria attività di
normazione.
Infatti, si afferma che «ai fini della migliore
tutela dell'esercizio dell'accesso civico soprattutto nei
casi in cui vi sia un unico dirigente a cui attribuire le
funzioni di responsabile della trasparenza e di prevenzione
della corruzione, le funzioni relative all'accesso civico di
cui all'art. 5, comma 2, del dlgs n. 33/2013 possono essere
delegate dal responsabile della trasparenza ad altro
dipendente, in modo che il potere sostitutivo possa rimanere
in capo al responsabile stesso. Questa soluzione è rimessa,
in ogni caso, all'autonomia organizzativa degli enti».
È una soluzione non condivisibile. Con la delega, infatti,
si modifica l'assetto delle competenze di organi o uffici.
Tale assetto, però, è oggetto di riserva di legge ad opera
dell'articolo 97, commi 1 e 2, della Costituzione. Dunque,
solo una legge può consentire che l'ordinamento da essa
fissato sia modificato con un atto amministrativo di
organizzazione, quale la delega.
La soluzione consigliata dalla Faq, dunque, si rivela
contraria all'assetto normativo. In particolare negli enti
locali, nei quali il responsabile della trasparenza coincide
ex lege col responsabile anticorruzione, il quale ex lege è
il segretario comunale. Solo il sindaco o il presidente
della provincia può modificare tale stato delle cose, con un
provvedimento espresso e motivato che assegni dette
competenze ad un soggetto diverso. Pertanto, se il
segretario comunale delegasse anche solo parte delle proprie
competenze con una propria delega, violerebbe un assetto di
funzioni disegnato dalla legge e del quale può disporre solo
l'organo monocratico di governo.
Nessuna norma, comunque, impone che il potere sostitutivo
sia adottato da un soggetto avente qualifica superiore al
titolare inerte. In generale, è vero, il potere sostitutivo
spetta nello Stato, ai dirigenti generali nei confronti dei
dirigenti di prima fascia, ed a questi nei confronti dei
funzionari. Ma se responsabile della trasparenza è un
dirigente al vertice, sarà impossibile ovviamente reperire
un titolare di potere sostitutivo di qualifica superiore.
Lo stesso vale per gli enti locali, nei quali il segretario
comunale è visto come soggetto apicale, al limite di
qualifica equivalente, se sono presenti dirigenti (articolo ItaliaOggi del
21.02.201). |
ENTI LOCALI: Multe autovelox, rendiconti fai-da-te
I comuni devono rispettare i vincoli di destinazione dei
proventi delle multe anche se l'obbligo di rendicontazione
periodico previsto a maggio di ogni anno al momento resta
sospeso per mancanza del necessario supporto informatico.
Lo ha chiarito l'Anci con un parere divulgato il giorno di
San Valentino sul portale dell'associazione (si veda
ItaliaOggi del 15/02/2014).
La questione della ripartizione a metà delle multe autovelox
e della rendicontazione periodica sull'impiego del denaro
incassato da comuni e province nasce con la legge n.
120/2010 che ha previsto, tra l'altro, che per tutte le
violazioni dei limiti di velocità i proventi devono essere
ripartiti in misura uguale fra l'ente dal quale dipende
l'organo accertatore e l'ente proprietario della strada.
Le nuove disposizioni, secondo il primo parere diramato
dall'Anci il 05.06.2012, sarebbero divenute operative il 01.01.2013 a seguito alla conversione in legge del dl
n. 16/2012 che ha specificato che anche in mancanza del
necessario decreto attuativo le nuove regole entrano
comunque in vigore.
Ma non solo. Letteralmente l'art. 142, comma 12-quater, del
codice impone agli enti locali di trasmettere in via
informatica a Roma, entro il 31 maggio di ogni anno, una
composita relazione in cui sono indicati, con riferimento
all'anno precedente, l'ammontare complessivo dei proventi di
propria spettanza con la specificazione degli oneri
sostenuti per ciascun intervento.
Ma in assenza del sistema informatico necessario a
rendicontare e di regole chiare su quanto e come dividere si
naviga a vista e si procede con grande approssimazione. Per
questo motivo l'Associazione dei comuni è intervenuta
nuovamente specificando che nella confusione normativa resta
in vigore il comma 3 dell'art. 25 della legge 120/2010 il
quale dispone l'applicabilità della novella a far data
dall'esercizio successivo a quello di emanazione del decreto
mancante «ed in ogni caso all'esercizio successivo a quello
in corso». In ogni caso anche per il 2014 l'Anci raccomanda
la massima attenzione circa l'obbligo di destinazione dei
proventi. In buona sostanza sarà necessario continuare a
tenere una contabilità separata tra i proventi autovelox e
tutti gli altri importi sanzionatori.
E anche accantonare le somme incassate in attesa che la
questione venga definitivamente risolta dal ministero. Del
resto nell'unico parere diramato sul complesso tema dal
ministero dell'interno il 24.12.2012 si specifica a
chiare lettere che «a fronte dell'asistematicità del dato
normativo, rimane ineludibile l'obbligo per gli enti locali
di destinare i proventi di cui in argomento secondo le
previsioni di legge».
In buona sostanza è meglio rispettare integralmente i
vincoli di destinazione degli importi delle multe
accantonando quanto incassato anche nel corso dell'esercizio
finanziario 2013 per conto di altri enti. Solo così si
potranno evitare responsabilità contabili all'arrivo del via
libera definitivo dall'impasse (articolo ItaliaOggi del
21.02.2014). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
P.a., dirigenti fiduciari a rischio.
Incarichi in contrasto con le norme anticorruzione.
La legge 190/2012 richiede comunque l'attivazione di una
procedura selettiva.
La prassi degli incarichi dirigenziali intuitu personae è in
contrasto con la normativa anticorruzione.
L'articolo 1, comma 16, lettera d), della legge 190/2012
considera ex lege, tra gli altri, a particolare rischio di
corruzione i procedimenti di «concorsi e prove selettive per
l'assunzione del personale e progressioni di carriera di cui
all'articolo 24 del citato decreto legislativo n. 150 del
2009».
Apparentemente la norma non sembra riferirsi ad ipotesi come
l'assegnazione di incarichi dirigenziali o di vertice «a
contratto».
Soffermandosi, infatti, solo sul nomen iuris degli istituti
contemplati dalla norma (concorsi e progressioni di
carriera), sistemi di reclutamento come quelli di cui
all'articolo 110 del dlgs 267/2000 si potrebbero considerare
esclusi, perché non riferiti né a concorsi, né alle ex
progressioni verticali.
A ben vedere, al contrario, gli incarichi ai sensi
dell'articolo 110 citato, specie e soprattutto se assegnati
a dipendenti interni all'ente privi di qualifica
dirigenziale, rientrano in pieno nel campo di applicazione
della norma. Il legislatore anticorruzione, infatti, si
riferisce in termini generici a qualsiasi procedura volta a
reclutare personale, comprendendo anche la dirigenza. Oltre
tutto, appare piuttosto evidente che se rischi di corruzione
vi sono nell'ambito delle procedure di concorso, nonostante
queste siano regolate da molteplici norme poste ad evitare
inquinamenti procedurali, rischi molto maggiori albergano
laddove si tratti di procedure lasciate all'assoluta
discrezionalità, se non arbitrio, dell'organo di governo,
che sceglie ad personam il soggetto cui assegnare l'incarico
dirigenziale.
Comunque, il Piano nazionale anticorruzione, nel
disaggregare i «rischi specifici» connessi appunto con
l'articolo 1, comma 16, lettera d), della legge 190/2012,
segnala due ipotesi di esposizione alla corruzione
perfettamente pertinenti al caso: previsioni di requisiti di
accesso «personalizzati» ed insufficienza di meccanismi
oggettivi e trasparenti idonei a verificare il possesso dei
requisiti attitudinali e professionali richiesti;
motivazione generica e tautologica circa la sussistenza dei
presupposti di legge per il conferimento di incarichi
professionali allo scopo di agevolare soggetti particolari.
L'interpretazione costituzionalmente orientata (del resto
imposta dalle sentenze della Corte costituzionale a partire
dalla 103/2007) delle procedure di conferimento degli
incarichi dirigenziali esclude la fiduciarietà e l'intuitus
personae (salvo gli incarichi negli uffici di diretta
collaborazione dei ministri e dei massimi vertici
ministeriali, ove esistono influenze politiche nell'azione
dirigenziale): pertanto, qualsiasi altro incarico deve
necessariamente essere il frutto di procedure quanto meno
comparative.
Le quali costituiscono un presidio da scelte arbitrarie e
potenzialmente molto permeabili alla corruzione, quali
scelte legate alla fiduciarietà.
Dunque, anche nell'ambito del reclutamento dei dirigenti a
contratto «non è certamente ammissibile precostituire
requisiti di accesso tagliati su misura sul destinatario
dell'incarico, o attivare meccanismi di verifica dei
requisiti del tutto insufficienti e carenti di strumenti
oggettivi, elementi costitutivi del primo fattore di
«rischio specifico» di corruzione visto sopra; né è
possibile attribuire gli incarichi in assenza di una
motivazione profonda e chiara, che, per la verità, può
risultare davvero completa ed efficace solo in funzione
della sussistenza di criteri oggettivi di confronto
selettivo».
È di tutta evidenza che attribuendo incarichi solo per via
fiduciaria o intuitu personae, senza procedure selettive
oggettive e senza motivazioni che vadano oltre la
considerazione della persona e della fiducia in essa
riposta, i rischi di assegnazioni clientelari o solo di
fiducia mal riposta nelle capacità tecniche sono
elevatissimi.
Si deve tenere presente che una carenza nella capacità di
selezionare i soggetti meglio capaci di gestire le risorse
pubbliche e di perseguire le finalità dell'amministrazione,
non solo crea presupposti per azioni «interne»
viziate da corruzione amministrativa (quando non anche
penale); ma, soprattutto, incide negativamente su tutta la
comunità amministrata, che subisce le conseguenze di
un'amministrazione disattenta ai bisogni generali (articolo ItaliaOggi del
21.02.2014). |
APPALTI: Milleproroghe.
Centrale unica a rischio.
L'entrata in vigore dell'obbligatorietà della costituzione
della Centrale unica di committenza per i comuni con
popolazione inferiore a 5 mila abitanti è stata nuovamente
prorogata al 30.06.2014 da un emendamento approvato in
senato al decreto milleproroghe.
È bene ricordare che l'art.
33, comma 3-bis, del Codice unico degli appalti il stabilisce
l'obbligo per i comuni con popolazione non superiore a 5
mila abitanti (ricadenti nel territorio di ciascuna
provincia) di costituire un'unica centrale di committenza
per l'acquisizione di lavori, servizi e forniture
nell'ambito delle unioni dei comuni, di cui all'articolo 32
del dlgs n. 267/2000 ovvero costituire un apposito accordo
consortile tra i comuni stessi.
La ratio della disposizione
risiede nella volontà del Legislatore di favorire la
gestione delle attività, delle funzioni e dei compiti in
forma associata, favorendo -nel contempo- un processo di
razionalizzazione della spesa, un più efficiente impiego
delle risorse umane e strumentali a disposizione ed una
maggiore efficacia dell'azione amministrativa.
Tuttavia,
tale proroga (introdotta anche su richiesta dell'Anci)
potrebbe non entrare in vigore definitivamente; infatti la
caduta del governo Letta a seguito delle dimissioni del
presidente del consiglio e la conseguente procedura di
nomina di un nuovo esecutivo e l'ottenimento della fiducia
da parte del parlamento possono mettere a repentaglio il
percorso del decreto Milleproroghe attualmente alla camere
il quale dovrà essere convertito definitivamente in legge
entro il prossimo 28 febbraio. In caso di mancata
conversione, gli enti locali dovranno provvedere
immediatamente alla costituzione della Centrale unica al
fine di ottemperare agli obblighi di legge.
Per quanto riguarda i bandi pubblicati dal 1° gennaio ad
oggi, si ritiene che, anche in caso di mancata conversione
del decreto, agli stessi possano essere applicate le norme
precedenti in quanto l'annullamento delle procedure per il
venir meno della proroga potrebbe comportare una lesione
dell'interesse pubblico generale sotteso all'azione
amministrativa (articolo ItaliaOggi del
21.02.2014). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Fotovoltaico, obbligo di Catasto.
Al bivio fra iscrizione e revisione della rendita: in ogni
caso imposte più elevate.
Fisco e immobili. La circolare 36/E delle Entrate chiarisce
che occorre procedere all'operazione per le strutture più
grandi.
L'accatastamento
degli impianti fotovoltaici ha trovato forse la soluzione
definitiva con la
circolare 19.12.2013 n. 36/E delle
Entrate.
In particolare, per gli impianti fotovoltaici a terra,
considerati beni immobili, è previsto l'accatastamento nella
categoria D/1 "opifici". Se invece di impianti a sé stanti,
come nel primo caso, si tratta di strutture poste su
edifici, lastrici solari o su aree di pertinenza di altri
immobili, non si dovrà effettuare un autonomo
accatastamento, ma procedere alla rideterminazione della
rendita dell'immobile a cui i pannelli sono connessi. Se
questa aumenta di più del 15% rispetto al valore originario,
il proprietario è tenuto a comunicare la variazione
all'agenzia del Territorio (si veda l'altro articolo in
pagina).
Se l'impianto è costruito in forza di diritto di
superficie, va accatastato autonomamente e quindi dovrebbe
assumere la categoria di opificio; infatti nella fattispecie
il proprietario dell'impianto è diverso da quello
dell'immobile sottostante. In ultimo la circolare considera
in ogni caso come beni mobili, e dunque non meritevoli di
accatastamento, gli impianti di "modesta entità".
La circolare considera anche il caso di impianti
fotovoltaici "rurali", prevedendo il loro accatastamento
nella categoria D/10, a condizione che siano asserviti ad
una azienda agricola «esistente» con un terreno di
estensione non inferiore ai 10mila metri quadri e che la
potenza dell'impianto non risulti superiore ai 200 Kw. In
questi casi, l'impianto potrà essere censito come D/10
anziché D/1, purché alla dichiarazione di accatastamento si
alleghi l'autocertificazione dei requisiti di ruralità su
modello conforme.
Ai fini delle imposte ricomprese nella Imposta unica
comunale (Iuc), ovvero Imu, Tasi e Tari, il diverso
accatastamento ha notevoli ripercussioni.
Nel caso di immobili censiti autonomamente in categoria D/1,
si dovrà procedere al calcolo dell'Imu e delle altre imposte
gravanti sugli immobili in base al valore catastale
derivante dalla dichiarazione di accatastamento. Per Imu e
Tasi (tariffa sui servizi non divisibili), partendo dal
valore catastale dell'immobile, si dovrà procedere al
calcolo delle imposte, ricordando che la somma delle due
aliquote non dovrebbe poter superare il 10,6 per mille e
comunque l'aliquota Tasi dovrà essere compresa tra l'1 e il
2,5 per mille, ma si è in attesa di decreto. Per la Tari
(tariffa rifiuti) la base imponibile sarà ancora data dalla
superficie calpestabile e varranno specifiche aliquote
determinate dai Comuni in modo da garantire l'integrale
copertura dei costi sostenuti per la raccolta rifiuti;
pertanto non dovrebbe colpire gli impianti fotovoltaici.
Nel caso, invece, di immobile già censito per cui si renda
necessaria la variazione del valore catastale, si dovrà
procedere al ricalcolo dell'Imu rispetto a quello dell'anno
precedente. La variazione catastale determinerà, infatti, un
aumento proporzionale della base imponibile ai fini Imu e
Tasi.
Gli impianti fotovoltaici "rurali" censiti nella categoria
D/10 sono esenti da Imu come previsto dal comma 708 della
legge 147/2013 per gli immobili rurali strumentali, mentre ai
fini Tasi potranno essere soggetti al massimo all'aliquota
dell'1 per mille, con possibilità per i Comuni di prevedere
anche ulteriori riduzioni. Ovviamente la ruralità è
garantita qualora vengano rispettate le condizioni stabilite
dalla circolare dell'Agenzia 32/2009 e in particolare che il
fatturato della attività agricola sia superiore a quello
della produzione di energia elettrica, tariffa incentivante
esclusa, ovvero che il terreno coltivato anche in comuni non
confinanti sia pari ad almeno 10 ettari per 100 kw (articolo Il Sole 24 Ore del 19.02.2014
- tratto da www.centrostudi.it). |
ENTI
LOCALI: Unioni comunali, vincoli rinviati.
Patto di stabilità. Decorrenza dal terzo anno dopo la loro
istituzione.
La nuova
circolare sul patto di stabilità diramata ieri dalla
Ragioneria Generale dello Stato (n. 6/2014) spiega per la
prima volta le modalità applicative dell'assoggettamento al
patto, a partire dall'anno in corso, delle unioni costituite
dai comuni con popolazione fino a mille abitanti (comma 1,
articolo 16, Dl 138/2011). Le unioni in questione applicano la
disciplina prevista per i comuni aventi popolazione
corrispondente.
Pertanto, l'assoggettamento alle regole del
patto decorre –analogamente a quanto previsto per i comuni
di nuova istituzione– dal terzo anno successivo a quello
della loro istituzione; mentre la base di riferimento su cui
applicare la percentuale è data dalle risultanze dell'anno
successivo a quello della loro istituzione. La spesa
corrente da considerare è quella desunta dai certificati di
conto consuntivo.
Fra le novità targate 2014 che tutti gli enti devono tener
presente la circolare ricorda il "bonus" investimenti di 1
miliardo. Gli spazi finanziari che si liberano in
applicazione della norma vanno utilizzati esclusivamente per
pagamenti in conto capitale datati nel primo semestre del
2014 (per cui i pagamenti in conto capitale che avverranno
nel secondo semestre non potranno essere esclusi a valere
sui predetti spazi finanziari); il controllo sarà effettuato
con il monitoraggio semestrale.
La circolare si sofferma anche sul fondo svalutazione
crediti, in merito al quale conferma che i relativi
stanziamenti non rilevano ai fini del saldo finanziario di
competenza mista, poiché non sono oggetto di impegno, ma
confluiscono nel risultato di amministrazione vincolato. Sul
punto la Ragioneria generale precisa anche che tali voci non
rilevano fin dalle previsioni, superando in questo modo la
posizione più rigida della Corte dei conti (deliberazione
287/2012 della Toscana) che in passato era intervenuta sul
punto.
Anche se la Circolare nulla dice in proposito, è da
ritenere che analogo trattamento vada riservato al fondo
crediti di dubbia esigibilità che negli enti in
sperimentazione dell'armonizzazione contabile ha mandato in
soffitta il fondo svalutazione crediti.
Come ogni anno, le istruzioni della Ragioneria si confermano
un utile vademecum per applicare correttamente il patto,
particolarmente apprezzato dagli enti con meno di cinquemila
abitanti, costretti a fare i conti con questo vincolo da
poco più di un anno (articolo Il Sole 24 Ore del 19.02.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI
LOCALI: Fatturazione elettronica obbligata da giugno 2015.
Agenda digitale. Comuni, province e regioni hanno 16 mesi
per adeguarsi.
L'obbligo
della fatturazione elettronica per le amministrazioni locali
decorre dal 06.06.2015. Comuni, province e regioni
avranno dunque oltre 16 mesi per adeguarsi e cominciare a
far viaggiare le fatture sulle piattaforme informatiche
messe a punto da Entrate e Sogei per tutti i loro fornitori.
A fissare nero su bianco la data da cui decorrerà l'obbligo
previsto dalla Finanziaria 2008 sia per le amministrazioni
centrali sia per quelle locali, è ora un decreto attuativo
messo a punto dal ministro dell'Economia e da quello per la
Pubblica amministrazione e la Semplificazione e domani al
parere definitivo della conferenza unificata.
Poche righe ma che completano il quadro normativo per far
decollare una volta per tutte la "terza gamba" dell'Agenda
digitale italiana: quella della fatturazione elettronica
(Identità digitale e anagrafe nazionale della popolazione
residente sono le altre due). E su cui a scommetterci non è
solo la macchina amministrativa ma anche i privati. Tra
questi il Consorzio Cbi cui aderiscono 600 istituti
finanziari che offrono servizi a oltre 920mila imprese. In
un contesto in cui la priorità per recuperare risorse passa
per il taglio dei costi nella Pa, come ricorda il direttore
generale del Consorzio, Liliana Fratini Passi «con
l'introduzione della fatturazione elettronica verso la Pa si
possono ottenere risparmi diretti per oltre un miliardo di
euro l'anno (se si considerano solo gli impatti interni alle
Pa) e di circa 1,6 miliardi se si vogliono considerare anche
i potenziali effetti sui fornitori della Pa stessa».
C'è poi un risvolto difficile da quantificare ma che
potrebbe dare comunque risultati eclatanti: la trasparenza e
la tracciabilità dei pagamenti con la fatturazione
elettronica sono un'arma in più per il contrasto
all'evasione fiscale e al sommerso. Ma come sempre accade i
buoni propositi e le best practices in Italia non sempre
trovano riscontri immediati. Il Direttore generale del
Consorzio precisa che gli «enti che si sono dichiarati
disponibili alla ricezione di fatture elettroniche
attualmente sono al di sotto delle aspettative. Da una
verifica al 12 febbraio scorso le ammministrazioni
registrate ai servizi di fattura elettronica sono soltanto
50 e di queste solo 14 Pa centrali».
Eppure la macchina e gli istituti finanziari che aderiscono
al Consorzio sono pronti. Già dal 6 dicembre scorso,
conclude il Dg di Cbi, è disponibile la funzione «Fattura PA»
che consente a un consorziato di interfacciarsi con il
sistema di interscambio dell'agenzia delle Entrate gestito
da Sogei per l'invio delle fatture elettroniche per conto
dei propri clienti aziende creditrici, così come la
ricezione di fatture elettroniche per conto delle proprie
clienti pubbliche amministrazioni debitrici.
Tutto pronto dunque, ora tocca alla macchina statale e
locale mettersi in gioco (articolo Il Sole 24 Ore del 19.02.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rischio contenzioso per i produttori di rifiuti speciali
assimilati.
Rischio contenzioso sulla Tari per i produttori di rifiuti
speciali assimilati. Secondo il ministero dell'ambiente, a
tali soggetti spettano solo gli sconti sulla parte variabile
della tariffa eventualmente decisi dai comuni, in base
all'art. 1, comma 649, della legge 147/2013. Ma il
successivo comma 661 consente loro di pretendere l'esenzione
totale. Si tratta di due norme fra di loro chiaramente
contrastanti.
In base alla prima, «per i produttori di
rifiuti speciali assimilati agli urbani, nella
determinazione della Tari, il comune, con proprio
regolamento, può prevedere riduzioni della parte variabile
proporzionali alle quantità che i produttori stessi
dimostrino di avere avviato al recupero». La seconda
disposizione, invece, dispone che la Tari non è dovuta «in
relazione alle quantità di rifiuti assimilati che il
produttore dimostri di aver avviato al recupero».
Con la
circolare 13.02.2014 n. 1/2014 il ministero dell'ambiente ha affermato
la prevalenza del comma 649 rispetto al successivo comma
661, lasciando, in pratica, il pallino degli sconti nelle
mani dei comuni.
Ciò sulla scorta di una duplice
argomentazione: sul piano formale, si evidenzia come sia la
seconda disposizione (già contenuta nell'originario ddl di
Stabilità) a non essere coordinata con la prima (inserita
durante l'iter parlamentare); sul piano sostanziale, si
afferma la necessità di conservare in capo agli enti locali
la flessibilità necessaria a conciliare la sostenibilità
finanziaria del ciclo integrato dei rifiuti con le politiche
di incentivo e stimolo per le buone pratiche in tema di
recupero.
Tuttavia, gli ordinari canoni interpretativi
dovrebbero suggerire di far prevalere la tesi più favorevole
ai contribuenti interessati, che certamente possono invocare
l'esenzione totale in base al comma 661. Di ciò pare essere
consapevole lo stesso estensore della circolare, allorché
evidenzia la necessità di un «chiarimento normativo», anche
al fine di «prevenire un prevedibile contenzioso, di durata
non determinabile, a scapito di operatori e aziende», oltre
che (si deve aggiungere) degli stessi comuni. Non a caso, lo
schema di decreto sulla casa predisposto dall'ex governo
Letta (e destinato a contenere anche i correttivi sulla Tasi
e sul fondo di solidarietà) sposava la tesi opposta a quella
fatta propria dal dicastero da ultimo guidato da Andrea
Orlando.
Una soluzione, quest'ultima, anch'essa
problematica, che scaricherebbe forti aumenti sulle utenze
domestiche. Anche il riferimento alla «parte variabile»
della tariffa come base di riferimento degli sconti decisi
dai sindaci è impreciso, dal momento che, da quest'anno, in
alternativa al metodo normalizzato, è possibile optare per
quello «semplificato», che non presuppone la distinzione fra
costi fissi e costi variabili. Peraltro, non si tratta
dell'unico problema posto dalla disciplina della Tari.
Un
altro dubbio interpretativo riguarda questa volta i
produttori di rifiuti speciali non assimilati agli urbani.
Qui il dubbio nasce dall'inciso «in via continuativa e
prevalente» che potrebbe giustificare la richiesta di
detassazione anche con riferimento ad aree con produzione
mista (articolo ItaliaOggi
del 18.02.2014). |
PATRIMONIO: Stadi, corsia veloce alla ristrutturazione ma senza
residenziale.
Progetti da approvare entro 180 giorni. Legge di stabilità. Le nuove norme per gli impianti sportivi.
Corsia
preferenziale per riqualificare gli stadi e gli impianti
sportivi o costruirne di nuovi. Dal 1° gennaio sono in
vigore le norme per il rilancio dell'impiantistica sportiva
dettate dall'articolo 1, commi 303-306, della legge di
Stabilità (n. 147/2013).
La cosiddetta legge stadi, pur se
con qualche limitazione, asseconda concretamente l'esigenza
di promuovere sia la costruzione di nuovi stadi, sia gli
interventi per l'ammodernamento degli impianti esistenti. La
procedura, che deve concludersi entro 120 giorni (180 in
caso di atti di competenza regionale quali solitamente le
varianti urbanistiche) dal suo avvio, è la seguente:
- il soggetto interessato presenta al Comune uno studio di
fattibilità corredato da un piano economico-finanziario e
dall'accordo con una o più associazioni o società sportive
utilizzatrici in via prevalente;
- il Comune, ove valuti positivamente il progetto in
conferenza di servizi istruttoria, lo dichiara entro 90
giorni di pubblico interesse;
- viene quindi presentato il progetto definitivo, sul quale
il Comune o la Regione -previa conferenza di servizi
decisoria cui partecipano i soggetti titolari di competenze
specifiche- delibera in via definitiva sul progetto,
eventualmente chiedendo le modifiche ritenute strettamente
necessarie.
È importante evidenziare che per legge:
- il provvedimento finale sostituisce ogni autorizzazione o
permesso comunque denominato necessario alla realizzazione
dell'opera e ne determina la dichiarazione di pubblica
utilità, indifferibilità e urgenza;
- in caso di superamento dei termini fissati dalla legge il
presidente del Consiglio dei ministri, su istanza del
proponente, assegna all'ente interessato 30 giorni per
adottare i provvedimenti necessari e, in difetto, la regione
ovvero lo stesso Presidente del Consiglio per gli impianti
più grandi (superiori ai 4mila posti al coperto e 20mila
allo scoperto) adotta i provvedimenti necessari entro il
termine di 60 giorni;
- in caso di interventi da realizzare su aree di proprietà
pubblica o su impianti pubblici esistenti, il progetto
approvato è fatto oggetto di idonea procedura di evidenza
pubblica (si veda l'articolo a fianco).
Così descritta la short-track di legge, occorre riferire
delle due disposizioni frutto della mediazione maturata
rispetto alle istanze di chi, per ragioni di tutela
ambientale, si era opposto all'approvazione della normativa
nella sua versione originale. Anzitutto, la norma precisa
che lo studio di fattibilità non può prevedere altri tipi di
intervento, salvo quelli strettamente funzionali alla
fruibilità dell'impianto e al raggiungimento del complessivo
equilibrio economico-finanziario dell'iniziativa e
concorrenti alla valorizzazione del territorio in termini
sociali, occupazionali ed economici. È comunque esclusa la
realizzazione di nuovi complessi di edilizia residenziale.
La disposizione tutela la posizione di chi teme che dietro
il rilancio dell'impiantistica sportiva si celi solo
l'interesse di ottenere varianti urbanistiche accelerate (se
non di favore) per rendere edificabili aree verdi
periferiche o per consentire la costruzione di nuove case di
alto valore, perché localizzate nelle zone centrali delle
città, ove spesso si collocano gli stadi italiani (da
rilocalizzare).
Può essere che la tutela sia giustificata dalla concreta
esperienza dell'urbanistica italiana, certo è che la nuova
norma avrebbe precluso la realizzazione dell'Emirates
Stadium di Londra. Il nuovo stadio dell'Arsenal (impianto
modernissimo e multifunzionale) è stato costruito su un'area
acquistata dal municipio e in precedenza destinata al
trattamento dei rifiuti, usando il denaro ottenuto con la
vendita degli appartamenti di lusso realizzati al posto
delle tribune del vecchio Highbury.
L'ultima cautela fissata dalla legge attiene al disfavore
per la realizzazione di nuovi stadi. Gli interventi
agevolati, infatti «laddove possibile, sono realizzati
prioritariamente mediante recupero di impianti esistenti o
relativamente a impianti localizzati in aree già edificate».
La norma appare pienamente giustificata, sia perché è
comunque doveroso dedicarsi alla riqualificazione del
patrimonio edilizio (anche sportivo) esistente prima di
consumare nuovo territorio, sia perché la legge non preclude
la realizzazione di nuovi impianti (comunque ammessi sui
cosiddetti brownfield), anche su aree non urbanizzate purché
la scelta sia assistita da idonea motivazione.
---------------
La procedura. Ogni decisione urbanistica viene presa dalla
conferenza dei servizi.
Il nodo delle varianti al Prg.
La prima
ristrutturazione dello stadio di San Siro fu realizzata
negli anni 30 del secolo scorso utilizzando la finanza che
il Comune di Milano mise a disposizione dopo aver comprato
l'impianto dalla famiglia Pirelli. I tempi sono cambiati. Il
rilancio dell'impiantistica sportiva richiede ora
l'intervento dei capitali privati, il cui impiego presuppone
il raggiungimento dell'equilibrio finanziario tra i costi di
realizzazione e gestione dell'impianto e i relativi
proventi.
L'esperienza recente inoltre dimostra che la remunerazione
dei capitali impiegati nell'edilizia sportiva non è
garantita dal reddito prodotto dalla vendita dei biglietti e
dai diritti correlati agli eventi sportivi, vale a dire i
quelli che con denominazione inglese vengono definiti rights
applicati su advertising (inserzioni pubblicitarie), naming
(commercializzazione del nome dell'impianto o suoi settori)
e puring (esclusiva di somministrazione alimenti e bevande).
Buona parte del reddito che ha permesso l'ammodernamento
degli stadi in tutto il mondo deriva infatti dallo sviluppo
sinergico di destinazioni d'uso diverse da quella sportiva,
quali i servizi, il commercio, gli uffici e la residenza.
Questi principi sono finalmente riconosciuti anche in Italia
attraverso le norme della legge di stabilità, secondo cui lo
studio di fattibilità dei nuovi stadi può prevedere anche
altri tipi di intervento, purché «strettamente funzionali
alla fruibilità dell'impianto e al raggiungimento del
complessivo equilibrio economico-finanziario
dell'iniziativa».
Per quanto la norma precisi che tra le nuove funzioni sia
esclusa la residenza e richieda, in continuità con le
migliori pratiche internazionali, che gli usi correlati
«concorrano alla valorizzazione del territorio in termini
sociali, occupazionali ed economici», è evidente che la
nuova legge apre la via alla realizzazione di una
impiantistica moderna, multifunzionale, produttrice di
reddito e di servizi per la comunità.
La possibilità di affiancare allo stadio altre destinazioni
urbane pone ovviamente il problema di garantire la
conformità del progetto con le previsioni del piano
regolatore comunale, che non sempre consentono di affiancare
agli stadi i servizi privati, il terziario e le funzioni
retail. È questo un tema che accompagna tutte le politiche
di governo del territorio e che notoriamente è complicato
dal contrasto esistente in materia tra competenze regionali
e statali.
Secondo il vigente assetto costituzionale, è esclusiva
prerogativa delle Regioni dettare le regole procedurali
attraverso cui mutare le previsioni urbanistiche comunali.
La Corte Costituzionale ha così annullato le leggi statali
che prevedevano meccanismi accelerati di variante
urbanistica per favorire la riqualificazione urbana
(decisione n. 393/1992), la dismissione degli immobili
pubblici (decisione n. 340/2009), il social housing
(decisione n. 121/2010).
La legge stadi sul punto prevede un meccanismo estremamente
veloce per cambiare le previsioni dei piani regolatori che,
per esempio, non consentano la realizzazione di un centro
commerciale ai margini dello stadio, stabilendo che «il
provvedimento finale sostituisce ogni autorizzazione o
permesso comunque denominato» ivi compresa, quindi, la
variante urbanistica.
Ora, è vero che in tal caso il provvedimento si forma
attraverso una conferenza di servizi decisoria indetta
proprio dalla Regione, ma è altrettanto vero che la
procedura di variante è dettata direttamente dalla norma
statale e prevede meccanismi sostitutori in capo alla
presidenza del Consiglio dei ministri.
I dubbi di incostituzionalità che pendono sulla norma
possono superarsi attraverso leggi regionali che recepiscano
le previsioni della disciplina nazionale anche in ambito
urbanistico, oppure seguendo le ordinarie procedure di
variante previste in sede locale, anche utilizzando la
disposizione del comma 304, per cui comunque «resta salvo il
regime di maggiore semplificazione previsto dalla normativa
vigente».
---------------
Il caso. Confronto concorrenziale aperto ad altri operatori.
Proprietà pubblica, scatta la gara.
Salve poche
eccezioni (Juventus e Mapei stadium, stadi di Udine, Teramo
e Olimpico di Roma, del Coni) tutti gli stadi italiani sono
di piena proprietà comunale. Secondo i principi comunitari
recepiti nell'ordinamento italiano, la loro cessione ai
privati a fini di lucro deve passare da una procedura di
evidenza pubblica, ovvero da una gara.
Le prime bozze della legge stadi erano lacunose sul punto,
prevedendo che qualsiasi società privata interessata a
costruire e gestire gli impianti, solo per aver trovato una
intesa con le associazioni fruitrici dell'impianto, avesse
titolo per presentare un progetto e attuarlo direttamente se
riconosciuto di interesse pubblico dal Comune.Le nuove disposizioni prescrivono ora una vera e propria
procedura di gara mutuata dal modello del project financing
del Codice dei contratti pubblici: «In caso di interventi da
realizzare su aree di proprietà pubblica o su impianti
pubblici esistenti –si legge nella norma– il progetto
approvato è fatto oggetto di idonea procedura di evidenza
pubblica, da concludersi comunque entro novanta giorni dalla
sua approvazione. Alla gara è invitato anche il soggetto
proponente, che assume la denominazione di promotore. Il
bando specifica che il promotore, nell'ipotesi in cui non
risulti aggiudicatario, può esercitare il diritto di
prelazione entro quindici giorni dall'aggiudicazione
definitiva e divenire aggiudicatario se dichiara di assumere
la migliore offerta presentata. Si applicano, in quanto
compatibili, le previsioni del codice di cui al decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163, in materia di finanza di
progetto».
Se l'aggiudicatario è diverso dal proponente, è
tenuto a subentrare, alle stesse condizioni, negli accordi
proposti dallo stesso proponente
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.02.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO: Indennità senza doppioni alle posizioni organizzative.
Parere Aran. In mancanza di una disciplina contrattuale.
Le
amministrazioni locali possono disciplinare con una norma
regolamentare il trattamento economico accessorio da
corrispondere al responsabile di posizione organizzativa
assente. La disciplina deve essere ispirata al principio per
cui l'ente non deve corrispondere più di una indennità di
posizione.
Possono essere così riassunte le principali
indicazioni che sono state dettate dall'Aran con il parere
n. 654/2014. In tal modo viene indicata la soluzione a una
materia su cui manca una specifica disciplina contrattuale.
L'assegnazione alla regolamentazione della competenza a
dettare la «disciplina di dettaglio delle posizioni
organizzative» deriva dalla stretta attinenza di questa
materia con la definizione del modello di organizzazione, e
si deve ritenere ulteriormente rafforzata dalla limitazione
contenuta nel Dlgs 150/2009 degli spazi riservati alla
contrattazione collettiva. L'assenza di questa disciplina
determina una conseguenze certa: «In mancanza di una diversa
regolamentazione, il dipendente incaricato di una posizione
organizzativa ne conserva la titolarità anche nei casi di
assenza (pure di lunga durata) e, in relazione all'incarico
e alla sua durata, il corrispondente diritto a percepire la
retribuzione di posizione e di risultato».
Ma il parere
dell'Aran non si ferma qui: pone dei dubbi sulla «stessa
possibilità di conferire legittimamente l'incarico di una
posizione organizzativa ad altro soggetto in caso di assenza
o impedimento di quello che ne è l'effettivo titolare: una
medesima posizione organizzativa, secondo i principi di
correttezza e buona fede, non potrebbe essere formalmente e
contemporaneamente oggetto di due incarichi conferiti a
soggetti diversi».
Per l'indennità di risultato viene ricordato che questa
dipende dalla valutazione annuale del grado di
raggiungimento degli obiettivi assegnati: «È ragionevole
presumere che i periodi di assenza incidano negativamente,
determinando la conseguente riduzione del compenso da
corrispondere (fino ad annullarlo, quando i risultati
conseguiti .. non siano apprezzabili)».
Il parere pone dei limiti all'autonomia delle
amministrazioni nella determinazione con regolamento del
trattamento economico da corrispondere al dipendente che
sostituisce il titolare di posizione organizzativa assente
nel caso in cui egli non sia già titolare di un tale
incarico. Si deve pervenire a questa conclusione sulla base
della scelta legislativa che riserva alla contrattazione
collettiva nazionale la disciplina di tutte le scelte sul
trattamento economico.
In questo quadro gli enti possono
comunque erogare la indennità di posizione al sostituto nel
caso in cui ne abbiano sospesa la erogazione al responsabile
assente. E possono remunerare, in analogia a quanto previsto
per i dirigenti, il conferimento a interim dell'incarico a
un altro responsabile attraverso la maggiorazione della
indennità di risultato, che in ogni caso deve restare entro
il tetto massimo complessivo ed invalicabile del 25% della
retribuzione di posizione (articolo Il Sole 24 Ore del 17.02.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Reflui, burocrazia più snella.
Non è più necessario l'ok per immissioni in atmosfera.
Alleggerito il regime autorizzatorio per i piccoli impianti
di trattamento delle acque.
Burocrazia ambientale più leggera per i piccoli impianti di
trattamento delle acque che utilizzano «linee di trattamento
fanghi», ossia strutture dedicate a processare i particolari
residui formatisi nel procedimento depurativo.
Grazie al
nuovo decreto del 15.01.2014 del Minambiente, i
titolari di alcuni impianti non saranno più obbligati a
chiedere, oltre all'autorizzazione per realizzazione ed
esercizio della struttura, quella relativa alle immissioni
in atmosfera. L'alleggerimento arriva mediante la
riformulazione diretta del dlgs 152/2006 (c.d. «Codice
ambientale») operata dal nuovo regolamento del Dicastero
verde pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dello scorso 10.02.2014 n. 33.
La novità. Il decreto riformula l'elenco (contenuto nella
Parte I dell'allegato IV alla Parte Quinta del dlgs
152/2006) degli impianti e delle attività potenzialmente
considerati a «emissioni scarsamente rilevanti» agli effetti
dell'inquinamento atmosferico dall'articolo 272 dello stesso
«Codice ambientale» e in virtù di ciò (ricorrendo le altre
condizioni più avanti esposte) esentati dalla relativa
autorizzazione ordinaria alle emissioni in aria imposta in
via generale dal precedente articolo 269 agli stabilimenti
che gettano inquinanti nell'aria.
In particolare, entrano a
far parte del novero degli stabilimenti astrattamente
ammessi alla deroga burocratica (fermo restando l'obbligo di
rispettare i limiti massimi di emissione in aria previsti
dallo stesso dlgs 152/2006) le linee di trattamento dei
fanghi che operano nell'ambito di impianti di depurazione
delle acque reflue con potenzialità inferiore: a 10 mila
abitanti per trattamenti di tipo biologico; a 10 m/h di
acque trattate per trattamenti di tipo chimico/fisico; a
entrambi i citati parametri per trattamenti sia biologici
che chimico/fisici.
Con il nuovo decreto il Minambiente
chiarisce invece che restano fuori dall'obbligo di
autorizzazione alle emissioni in atmosfera le linee di
trattamento dei fanghi che operano nell'ambito di impianti
di trattamento delle acque «a fini di potabilizzazione», le
quali non producono, per la natura stessa di tali attività,
emissioni in atmosfera.
Le conseguenze. L'inclusione dei primi citati stabilimenti
nell'elenco degli impianti «a basso impatto» atmosferico non
vale però a escluderne in assoluto l'assoggettabilità alle
procedure autorizzatorie di settore. E ciò in primo luogo
perché, per espressa disposizione del ricordato articolo 272
dello stesso «Codice ambientale», la deroga
all'autorizzazione ordinaria imposta dall'articolo 269
citato non vale per gli stabilimenti con emissioni di
sostanze cancerogene, tossiche per la riproduzione o
mutagene o di sostanze di tossicità e cumulabilità
particolarmente elevate (individuate dalla parte II
dell'allegato I alla Parte V del dlgs 152/2006) e per le
attività con utilizzo di sostanze o preparati classificati
come cancerogeni, mutageni o tossici per la riproduzione
(dal dlgs 52/1997).
In secondo luogo perché anche laddove
gli stabilimenti in parola siano effettivamente esentati
(ricorrendo le descritte condizioni) dall'autorizzazione
ordinaria citata, potrebbero comunque essere obbligati ad
aderire alle «autorizzazioni di carattere generale» che gli
enti territoriali competenti (regione, provincia autonoma o
diverse autorità da loro indicata) hanno facoltà di imporre
a determinate attività in forza dello stesso articolo 272, dlgs 152/2006, e ciò pretendendo anche il rispetto di
particolari valori limite di emissione e di regole su
costruzione, esercizio, campionamento e periodicità dei
controlli.
L'eventuale presenza di una «autorizzazione di
carattere generale», lo ricordiamo, fa altresì scattare per
il titolare dell'impianto l'obbligo di aderirvi tramite lo
«Sportello unico per le attività produttive». A imporre la
strada del c.d. «Suap» per l'adempimento in parola è il dpr
59/2013, il provvedimento che dallo scorso 13.06.2013
detta le regole procedurali (meglio note come
«autorizzazione unica ambientale») che le imprese a ridotto
impatto sull'ecosistema devono seguire per poter ottenere i
titoli abilitativi previsti dalla normativa ambientale.
Il
dpr 59/2013 lascia infatti alle imprese che devono
unicamente aderire ad una «autorizzazione di carattere
generale» alle emissioni in atmosfera libera scelta se
ricorrere o meno all'«Aua», ma le obbliga in ogni caso a
rivolgendosi al citato ufficio comunale competente per i
procedimenti amministrativi che riguardano avvio e modifiche
delle attività produttive.
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La Corte Ue: consegna dei rifiuti solo ad autorizzati.
La responsabilità dell'impresa produttrice di rifiuti per il
loro corretto trattamento tecnico cessa con il conferimento
dei residui ad altro soggetto di cui si sia preventivamente
verificata l'idoneità alla relativa gestione in ossequio
alle norme in materia di autorizzazione.
Questo il
chiarimento offerto dalla Corte Ue di giustizia con sentenza
03.10.2013 n. C-113/12 in merito al rispetto delle norme
sulle operazioni di smaltimento o recupero dei rifiuti lungo
la filiera dei rifiuti. Chiarimento relativo alle norme
comunitarie che deve, però, essere necessariamente letto
congiuntamente alle particolari regole nazionali sul
tracciamento dei rifiuti.
- La posizione della Corte Ue. Quella della Corte europea di
giustizia è una lettura fondata sulla direttiva madre in
materia di rifiuti che (con continuità normativa dalla
versione 75/442 all'ultima del 2008, la n. 98) da un lato
pone in capo al «detentore» la responsabilità della loro
corretta gestione e dall'altro (al fine di garantire la
massima tutela dell'ambiente) ne consente la cessione ad
altro soggetto per l'effettuazione delle operazioni
necessarie a patto che quest'ultimo sia in possesso
dell'abilitazione necessaria alle operazioni di trattamento.
Soddisfatta quest'ultima condizione, sottolinea la Corte, al
«cedente» che ha effettivamente controllato l'esistenza di
tale autorizzazione nessun rimprovero può muoversi per il
mancato effettivo rispetto delle norme tecniche di
trattamento.
- Le regole nazionali. Sul piano interno, a obbligare il
«cedente» alla verifica dell'autorizzazione in capo al
soggetto privato cui i rifiuti sono conferiti sono gli
articoli 178 e 188 del dlgs 152/2006 (laddove si impongono
sia il principio di precauzione che l'espressa prescrizione
di controllo sul detentore, che «consegna i rifiuti a un
raccoglitore autorizzato»). A queste vanno però aggiunte le
più particolari disposizioni relative al tracciamento dello
spostamento dei rifiuti, sia che avvenga tramite lo storico
regime cartaceo (formulario di trasporto dei rifiuti) che
attraverso il nuovo sistema di controllo telematico (il noto
Sistri, già in vigore dallo scorso 01.10.2013 per i
gestori).
In caso di utilizzo del primo sistema, il detentore che
consegna i rifiuti ad altro soggetto (autorizzato) è infatti
esonerato da responsabilità solo ove riceva il formulario
controfirmato e datato in arrivo dal destinatario entro 3
mesi dal conferimento dei rifiuti al trasportatore, ovvero
ove alla scadenza del predetto termine abbia provveduto a
dare comunicazione alla Provincia della mancata ricezione
del documento.
In caso di utilizzo del «Sistri» (dal prossimo 03.03.2014
obbligatorio anche per enti e imprese produttori iniziali di
rifiuti speciali pericolosi) la responsabilità del soggetto
che li conferisce è invece esclusa solo con il ricevimento,
tramite l'apposita casella di posta elettronica
attribuitagli dal sistema, della comunicazione di
accettazione dei rifiuti da parte dell'impianto di
trattamento o, in caso di mancato ricevimento della stessa
nei 30 giorni successivi al conferimento al trasportatore,
di una relativa segnalazione fatta sia al Sistri che alla
provincia competente.
Nel caso di tracciamento «ibrido», il soggetto
conferente che non opera in ambiente Sistri (come il
produttore di rifiuti speciali non pericolosi, per il quale
l'utilizzo del sistema telematico è mera facoltà) che
consegna i rifiuti a «soggetto Sistri» vede la sua
responsabilità venire meno solo con la ricezione, o denuncia
dei mancata ricezione, della copia cartacea della «scheda
Sistri-Area Movimentazione» che il gestore dell'impianto
di trattamento deve trasmettergli all'atto dell'accettazione
dei rifiuti (articolo ItaliaOggi Sette
del 17.02.2014). |
ENTI LOCALI: Multe, obblighi dal 2015.
Ma occorre tenere una contabilità separata.
Una nota dell'Anci sulla ripartizione dei proventi da
autovelox.
Nessun obbligo per i comuni di ripartizione dei proventi
delle multe stradali, almeno fino a quando non sarà emanato
il decreto interministeriale attuativo, atteso ormai da
oltre un anno. E anche quando arriverà il regolamento, gli
obblighi a carico dei municipi, di comunicare al ministero
delle infrastrutture e al ministero dell'interno gli
introiti delle violazioni dei limiti di velocità,
scatteranno solo dall'esercizio finanziario successivo «e in
ogni caso dall'esercizio finanziario successivo a quello in
corso».
Quindi dal 2015. Nel frattempo però i comuni dovranno fare
attenzione, tenendo una contabilità separata degli introiti
(quelli relativi alle multe per autovelox e quelli relativi
ad altre violazioni). Perché dal 2015 (se il dm arriverà
come si spera quest'anno) dovranno provvedere a versare
anche la quota di introiti relativa al 2014.
Con una nota
interpretativa, l'Anci interviene sulla annosa querelle che
da oltre un anno agita gli enti locali che non sanno come
dare applicazione alla legge n. 120/2010 la quale ha
riscritto l'art. 142 del codice della strada.
Ma vediamo di ripercorrere i termini del problema. La norma
prevede che, per tutte le violazioni dei limiti di velocità
accertate con autovelox, i proventi debbano essere ripartiti
tra enti proprietari delle strade ed enti accertatori delle
sanzioni. Le somme derivanti dalle multe dovranno poi essere
destinate alla manutenzione e messa in sicurezza delle
strade e al potenziamento dell'attività di controllo (spese
di personale comprese).
Ciascun ente locale è chiamato a trasmettere ai due
ministeri competenti entro il 31 maggio di ogni anno, una
relazione in cui sono indicati, con riferimento all'anno
precedente, l'ammontare complessivo dei proventi di propria
spettanza, come risultante da rendiconto approvato nel
medesimo anno, e gli interventi realizzati a valere su tali
risorse, con la specificazione degli oneri sostenuti per
ciascun intervento. In caso di mancata trasmissione della
relazione (o di uso dei proventi in modo difforme da quanto
previsto) la legge del 2010 stabiliva che gli incassi delle
multe da autovelox venissero ridotti del 30%, percentuale
poi elevata al 90% dal dl 16/2012 che fa anche scattare
responsabilità disciplinare e per danno erariale (con tanto
di segnalazione alla Corte conti).
Peccato però che il
modello di relazione e le modalità di trasmissione
telematica dello stesso non siano mai stati approvati dato
che il decreto non ha mai visto la luce. Di qui il caos
generato tra gli enti che in attesa del regolamento navigano
a vista. L'Anci ha fatto chiarezza non solo sulla
ripartizione dei proventi, ma anche sulla modalità di
trasmissione. Come detto, la legge richiede espressamente un
supporto informatico che però non c'è. Vista l'«assenza di
specifiche comunicazioni da parte dei ministeri
interessati», secondo l'Anci, «l'incombenza potrà non essere
osservata» (articolo ItaliaOggi del
15.02.2014). |
APPALTI: Operativa la procedura per il rilascio.
Crediti p.a., parte il Durc.
Via libera alle richieste del Durc da parte delle imprese
creditrici nei confronti delle pa. Sul sito del ministero
dell'economia, dov'è operativa la piattaforma per la
certificazione dei crediti (cd sistema Pcc), è stata
attivata la nuova funzionalità che consente di produrre e
ottenere il codice attraverso il quale Inail, Inps ed
eventualmente casse edili (per le imprese di questo settore)
possono rilasciare il documento di regolarità contributiva.
Lo rende noto l'Inail nella
nota 13.02.2014 n. 1123 di prot. che
porta in allegato una guida predisposta dallo stesso
ministero dell'economia.
In pratica, le imprese interessate dovranno registrarsi sul
sistema Pcc ed effettuare la «Richiesta di rilascio del Durc»
nella piattaforma. Fatto ciò dovranno salvare la richiesta,
identificata da un numero di protocollo, su un dispositivo
elettronico, oppure stamparlo. All'interno della richiesta è
riportato il «codice di verifica» senza il quale Inps, Inail
e casse edili non possono effettuare la verifica della
sussistenza e dell'importo dei crediti certificati per
attestare la regolarità ai fini del rilascio del Durc.
A
questo punto, l'impresa può effettuare la richiesta del Durc
nella maniera tradizionale, cioè sul sito
www.sportellounicoprevidenziale.it e trasmettere a Inps,
Inail e cassa edile la «richiesta di emissione Durc»
effettuata nel sistema Pcc. Gli istituti avviano i
controlli; l'Inail, in particolare, esamina la situazione
dell'impresa richiedente e in presenza di titoli insoluti
quantifica l'ammontare dei debiti e comunica via Pec a Inps
e cassa edile l'importo dell'irregolarità. Lo stesso faranno
Inps e cassa edile. Una volta che è stato quantificato
l'ammontare complessivo dei debiti dell'impresa nei
confronti di Inail, Inps e cassa edile, scatterà la
«verifica capienza per l'emissione del Durc».
Se l'importo
dei crediti certificati è almeno pari all'importo
dell'irregolarità contributiva, la procedura terminerà con
l'emissione del Durc, altrimenti ci sarà l'emissione di un
Durc negativo. La stessa procedura, precisa infine l'Inail,
vale anche nel caso in cui il Durc venga richiesto da una
stazione appaltante o da un'amministrazione procedente
(acquisizioni d'ufficio) (articolo ItaliaOggi del
15.02.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Roghi illeciti, si rischia il carcere.
Pena aumentata per le imprese e per le operazioni nelle aree
in emergenza.
Giustizia. Pubblicata la legge di conversione del decreto
legge sulla Terra dei fuochi: nuovo reato nel Codice
ambientale.
Pugno di ferro
contro i roghi illeciti di rifiuti dopo il caso terra dei
fuochi, con il debutto di un reato che va a integrare il
Codice ambientale di una nuova fattispecie.
È approdata sulla «Gazzetta Ufficiale» dell'8 febbraio la
legge 06.02.2014, n. 6, la quale, con modifiche, ha
convertito il Dl 10.12.2013, n. 136, il cosiddetto
"decreto terra dei fuochi". Il provvedimento è entrato in
vigore il giorno successivo, e cioè lo scorso 9 febbraio.
L'articolo 3 del provvedimento è dedicato alla «combustione
illecita dei rifiuti», che ora diventa una nuova specifica
ipotesi di reato punita con la reclusione da tre a sei anni.
Un reato di pericolo che si aggiunge a quelli già previsti
in materia di rifiuti dal Codice ambientale (decreto
legislativo 152/2006), che ora si arricchisce con il nuovo
articolo 256-bis. La norma si applica su tutto il territorio
nazionale anche se prende spunto dai tragici roghi che, da
due decenni, offendono il territorio ricompreso tra Napoli e
Caserta.
A ben guardare, tuttavia, il nuovo articolo 256-bis aggiunto
al Codice ambientale introduce due ipotesi delittuose;
infatti, il comma 1 si applica a «chiunque appicca il fuoco
a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera
incontrollata». Invece, il comma 2 si applica a chi
(soggetto privato o impresa) deposita o abbandona rifiuti,
oppure li rende oggetto di un transito transfrontaliero
illecito in funzione della loro «successiva combustione
illecita».
Per le previsioni delittuose di entrambi i commi è prevista
la reclusione tra i 2 e i 5 anni per i rifiuti non
pericolosi, che aumenta da 3 a 6 se i rifiuti sono
pericolosi. L'entità della pena giustifica la custodia
cautelare in carcere. In sede di conversione, sono state
introdotte le aggravanti che aumentano la pena di un terzo
se il reato è commesso in un territorio il quale, all'atto
della condotta e «comunque nei cinque anni precedenti», era
in situazione di emergenza ai sensi della legge 225/1992.
Stesso aumento di pena se il delitto è commesso nell'ambito
dell'attività di un'impresa o di un'attività comunque
organizzata. Tutto questo, invece, non si applica alla
combustione dei «rifiuti vegetali provenienti da aree verdi,
quali giardini, parchi e aree cimiteriali», a cui invece si
applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 300 a 3.000
euro (aumentata fino al doppio se i rifiuti sono
pericolosi). In ogni caso, e opportunamente, tutto questo
apparato sanzionatorio si applica «salvo che il fatto
costituisca più grave reato» (si pensi al disastro doloso
aggravato per il quale è prevista la reclusione da 3 a 12
anni).
Il comma 3 del nuovo articolo 256-bis pone la responsabilità
per «omessa vigilanza sull'operato degli autori materiali
del delitto» a carico del titolare dell'impresa o del
responsabile dell'attività organizzata anche non in forma di
impresa. Costoro saranno puniti anche con le sanzioni interdittive previste dall'articolo 9, del Dlgs 231/2001:
interdizione dall'esercizio dell'attività; sospensione o
revoca di autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali
alla commissione dell'illecito; divieto di contrattare con
la pubblica amministrazione (salvo per ottenere prestazioni
di pubblico servizio); esclusione da agevolazioni,
finanziamenti, contributi o sussidi ed eventuale revoca di
quelli già concessi; divieto di pubblicizzare beni o
servizi.
I mezzi usati per il trasporto dei rifiuti bruciati saranno
confiscati a meno che il mezzo appartenga a persona estranea
alle condotte e questa non abbia operato in concorso con i
responsabili (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.02.2014). |
PATRIMONIO: Dismissioni con iter alleggerito.
Anche gli enti locali potranno usare la trattativa privata -
Possibile sanare gli abusi edilizi.
Immobili pubblici. Come cambia la procedura da seguire dopo
le modifiche introdotte con il decreto legge Imu-Bankitalia.
Con una
sanatoria delle opere abusive e la possibilità per Comuni e
Province di attivare la trattativa privata arrivano nuovi
incentivi per le dismissioni di immobili pubblici, compresi
quelli degli enti locali. Le novità sono contenute
nell'articolo 3 del decreto legge n. 133/2013 (il decreto Imu-Bankitalia) convertito nella legge 5/2014.
Le novità si innestano sulle disposizioni dell'articolo
11-quinquies del Dl 203/2005 che contiene la procedura per
la dismissione dei beni immobili pubblici: in pratica, il
ministero dell'Economia autorizza con proprio decreto
l'agenzia del Demanio a vendere con trattativa privata i
beni immobili appartenenti al patrimonio pubblico.
Ora l'articolo 3 del Dl 133/2013 introduce tre previsioni
nell'articolato contesto normativo sulla dismissione dei
beni pubblici:
- si consente di sanare eventuali irregolarità edilizie
presenti nell'immobile alienato;
- si chiarisce quale sia la destinazione d'uso dei beni che
possono essere oggetto di alienazione;
- si conferisce agli enti territoriali la possibilità di
accedere alla procedura finora applicata alla vendita dei
beni demaniali per l'alienazione dei propri beni immobili.
Viene esteso alle cessioni contemplate dall'articolo
11-quinquies del Dl 203/2005 (cioè le vendite a trattativa
privata da parte dell'agenzia del Demanio autorizzate) il
ricorso all'istituto del condono per sanare le eventuali
irregolarità edilizie commesse nelle strutture dei beni. In
particolare, attraverso il rinvio alla legge n. 47/1985 (e
precisamente all'articolo 40, comma 6) si concede al privato
acquirente di un immobile di presentare la domanda di
sanatoria entro un anno dalla data dell'atto di
trasferimento. Ovviamente si deve trattare di irregolarità
edilizie non altrimenti sanate (ad esempio, interventi
realizzati fuori dai limiti temporali previsti dalle passate
leggi sui condoni edilizi del 1985, 1994 e 2003) e che non
rientrino tra le opere non suscettibili di sanatoria (ad
esempio, opere senza titolo eseguite su aree sottoposte a
vincoli assoluti di inedificabilità).
La destinazione d'uso
La seconda novità del decreto Imu-Bankitalia riguarda la
destinazione d'uso degli immobili da dismettere: nella
previgente versione della norma, si consentiva all'agenzia
del Demanio di vendere beni immobili ad «uso non abitativo».
Questa formulazione ha fatto sorgere non poche questioni
interpretative soprattutto con riguardo a quei beni con
destinazione mista, prevalentemente non abitativa ma con
locali destinati ad alloggio (si pensi a un edificio con
destinazione in parte residenziale e in parte ad uffici).
La modifica ora elimina questi problemi interpretativi,
riformulando il precetto normativo con l'inserimento
dell'avverbio «prevalentemente»: di fatto, oggi, potranno
essere oggetto di trattativa privata con l'agenzia del
Demanio gli immobili ad uso non prevalentemente abitativo
appartenenti al patrimonio pubblico. La prevalenza dell'uso
non abitativo, per una più chiara ed agevole applicazione
del precetto, dovrà intendersi in rapporto alla superficie
dell'intero immobile.
Gli enti territoriali
Con l'ultima previsione normativa si introduce una nuova
procedura per la dismissione di beni immobili di proprietà
degli enti territoriali. Comuni, Province, Città
metropolitane e ogni altro ente territoriale (ma anche le
Regioni) potranno decidere di dismettere propri beni e
affidare la vendita all'agenzia del Demanio che, previa
autorizzazione ministeriale, procederà con trattativa
privata. Secondo la procedura delineata dal legislatore:
- gli enti territoriali dovranno individuare i beni che
intendono dismettere con propria delibera;
- la delibera, oltre ad individuare i beni, conferirà
mandato al ministero dell'Economia di procedere secondo
l'articolo 11-quinquies, primo comma, del Dl 203/2005;
- il Ministero potrà inserire i beni individuati dagli enti
territoriali nel proprio decreto dirigenziale di
autorizzazione dell'agenzia del Demanio a vendere.
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Urbanistica. L'ostacolo principale alle valorizzazioni.
Resta il nodo del cambio d'uso.
La
valorizzazione degli immobili pubblici, intesa nel senso
della loro cessione per ottenerne il controvalore in denaro,
passa attraverso tre elementi essenziali: la procedura di
vendita del bene, la destinazione d'uso dell'immobile, la
verifica della sua conformità edilizia. L'articolo 3 del Dl
133/2013, convertito nella legge 5/2014, opera su tutti e
tre questi elementi per agevolare la dismissione del
patrimonio pubblico gestito dall'agenzia del Demanio.
Sotto il profilo procedurale, la disposizione del 2005 che
già prevedeva la vendita a trattativa privata da parte
dell'Agenzia viene estesa anche agli enti territoriali che,
quindi, ora potranno conferire mandato al ministero
dell'Economia per inserire i beni immobili individuati con
delibera dagli stessi enti nei propri decreti di
autorizzazione a vendere. Per trattativa privata si intende
la negoziazione diretta tra i soggetti interessati sulle
condizioni e le clausole pattizie che regoleranno il futuro
contratto di vendita.
Rispetto alla destinazione d'uso, la norma chiarisce che i
beni oggetto di alienazione dovranno avere uso «non
prevalentemente abitativo». La norma così non affronta il
vero tema delle modalità procedurali necessarie per cambiare
la destinazione d'uso del patrimonio pubblico, la cui
valorizzazione mediante dismissione richiede spesso
l'abbandono delle funzioni pubblicistiche verso usi
pienamente privati. Non bisogna dimenticare, infatti, che
gli uffici pubblici sono spesso considerati dai piani
regolatori come immobili a servizio pubblico (standard
urbanistici), con la conseguenza che la loro vendita per un
utilizzo a servizi pienamente privati impone una variante
allo strumento urbanistico, oltre alla corresponsione del
controvalore della quota di standard persi.
Infine, rispetto al condono edilizio, va detto che molte
procedure di dismissione del patrimonio pubblico prevedevano
a valle dell'acquisto la possibilità di sanare gli abusi
edilizi che distinguono (anche) gli immobili della Pa. Al
riguardo è possibile fare l'esempio del comma 19
dell'articolo 3 del Dl 151/2001, che consente di presentare
la domanda di sanatoria per le opere abusive presenti nei
beni acquistati dai privati da società di cartolarizzazione
o da fondi di investimento. Da tale possibilità erano
escluse le vendite effettuate attraverso la trattativa
privata che ora viene così potenziata
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.02.2014). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Avvocati, parcelle senza segreti.
Il cliente deve conoscere tempi e costi della controversia.
Gli adempimenti previsti dal codice deontologico forense,
approvato dal Cnf.
Rapporti in chiaro tra avvocato e cliente. All'atto del
conferimento dell'incarico al legale, infatti, la parte
assistita deve contestualmente essere informata: della
complessità e delle ipotesi di soluzione della controversia,
della durata del processo e degli oneri preventivabili, che
il cliente può richiedere siano messi per iscritto. Da
controllare, anche, che l'avvocato renda noti gli estremi
della polizza assicurativa ed emetta fattura fiscale per
ogni pagamento avvenuto.
Sono alcune delle regole che
disciplinano il rapporto tra avvocato e cliente contenute
nel nuovo codice deontologico forense, approvato dal Cnf (si
veda ItaliaOggi del 5 febbraio scorso), che stringe anche le
maglie su adempimenti contributivi e pratiche scorrette per
attirare clienti.
Il rapporto avvocato-cliente. Una delle parti più importanti
del nuovo codice deontologico forense riguarda il rapporto
tra l'avvocato e il cliente, dove sono indicati quali sono i
diritti della parte assistita. Che deve essere informata,
all'atto dell'assunzione dell'incarico da parte
dell'avvocato, delle caratteristiche e dell'importanza della
controversia e delle attività da espletare, con precisazione
delle iniziative e delle ipotesi di soluzione.
L'avvocato
deve informare il cliente anche sulla prevedibile durata del
processo e sugli oneri ipotizzabili, e, su richiesta,
comunicare in forma scritta, a colui che conferisce
l'incarico professionale, il prevedibile costo della
prestazione. Deve poi mettere per iscritto la possibilità di
avvalersi del procedimento di mediazione previsto dalla
legge e, ove ne ricorrano le condizioni, all'atto del
conferimento dell'incarico, deve informare la parte
assistita della possibilità di avvalersi del patrocinio a
spese dello stato. Ancora, l'avvocato deve rendere noti al
cliente gli estremi della propria polizza assicurativa.
Ogni
volta ne venga richiesto, è anche tenuto a informare la
parte assistita sullo svolgimento del mandato a lui
affidato, e deve fornire loro copia di tutti gli atti e
documenti, anche provenienti da terzi, concernenti l'oggetto
del mandato e l'esecuzione dello stesso sia in sede
stragiudiziale che giudiziale. L'avvocato deve infine
comunicare al cliente la necessità del compimento di atti
necessari a evitare prescrizioni, decadenze o altri effetti
pregiudizievoli relativamente agli incarichi in corso.
Adempimenti e paletti. Oltre ai numerosi obblighi
informativi dell'avvocato nei confronti del cliente, il
nuovo codice detta le regole per esercitare la professione
forense: dagli adempimenti fiscali, previdenziali,
assicurativi, contributivi. Ai divieti di stringere patti di
quota lite, di pubblicità comparativa, di siti web con
banner pubblicitari, di accaparrarsi la clientela o
esercitare la professione in luoghi pubblici. Stringendo
così il cerchio sui tanti avvocati che, complice la crisi e
la «proletarizzazione» della professione, non riescono a
pagare i contributi o le provano tutte pur di conquistare
qualche cliente in più.
La corretta informazione sulla
propria attività professionale consiste nel rispetto dei
doveri di verità, correttezza, trasparenza, segretezza e
riservatezza, con riferimenti alla natura e ai limiti
dell'obbligazione professionale. L'avvocato, inoltre, non
deve dare informazioni comparative rispetto ad altri
professionisti né equivoche, ingannevoli, denigratorie,
suggestive o che contengano riferimenti a titoli, funzioni o
incarichi non inerenti l'attività professionale.
Regole
stringenti anche per la pubblicità e l'uso del web:
l'avvocato può utilizzare, a fini informativi,
esclusivamente i siti con domini propri senza reindirizzamento,
direttamente riconducibili a sé, allo studio legale
associato o alla società di avvocati alla quale partecipi,
previa comunicazione al Consiglio dell'ordine di
appartenenza della forma e del contenuto del sito stesso.
Che, inoltre, non può contenere riferimenti commerciali o
pubblicitari sia mediante l'indicazione diretta sia mediante
strumenti di collegamento interni o esterni. Le informazioni
diffuse pubblicamente con qualunque mezzo, anche
informatico, devono inoltre essere trasparenti, veritiere,
corrette, non equivoche, non ingannevoli, non denigratorie o
suggestive e non comparative (articolo ItaliaOggi
Sette del 10.02.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Stretta sull’incendio dei rifiuti. Obbligo di
risarcimento del danno ambientale per tutti. Dalla Legge di
conversione del dl emergenze ambientali. Sanzioni 231 per le
aziende.
Sanzioni interdittive per le imprese
coinvolte nella combustione illecita di rifiuti e aumento
della pena detentiva per i relativi titolari cui il reato
sia riconducibile anche a mero titolo di omessa vigilanza. E
obbligo di risarcimento del danno ambientale per chiunque,
anche al di fuori di attività professionale, comprometta
l’ecosistema.
Esce così inasprito dall’ultimo e definitivo passaggio
parlamentare della relativa legge di conversione il nuovo
delitto di incendio non autorizzato di rifiuti introdotto
dal dl 136/2013 sulle «emergenze ambientali»
(altrimenti detto «decreto Terra dei fuochi»).
La legge di conversione approvata in via definitiva il
05.02.2014 dal senato conferma l’impianto dell’illecito
introdotto nel «Codice Ambientale» dall’originario
decreto legge allargandone al contempo sia il campo di
applicazione sia l’apparato sanzionatorio.
Condotta punibile più ampia.
Alla luce della legge di conversione del dl 136/2013 il
precetto del nuovo articolo 256-bis del dlgs 152/2006 (c.d.
«Codice ambientale») appare del seguente tenore: «Salvo
che il fatto costituisca più grave reato, chiunque appicca
il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera
incontrollata è punito (…)».
Non è più dunque necessario che l’incendio sia effettuato in
«aree non autorizzate». Sparendo dalla disposizione
originaria tale riferimento, per l’integrazione del reato
dal punto di vista oggettivo è infatti sufficiente
appiccare ... (articolo
ItaliaOggi Sette del 10.02.2014). |
APPALTI:
Via libera al Durc per i creditori della p.a..
L'Inps ha spiegato le modalità per il rilascio del
documento.
Con la
circolare 30.01.2014 n. 164, sono state previste le
modalità per il rilascio del documento unico di regolarità
contributiva (c.d. Durc), che può essere consegnato al
richiedente in presenza di certificazione dei crediti certi,
liquidi ed esigibili, vantati nei confronti delle pubbliche
amministrazioni ed emessa tramite la «Piattaforma per la
certificazione dei crediti».
Come è noto, il problema della riscossione dei crediti che i
soggetti privati vantano nei confronti della pubblica
amministrazione, ha trovato la modalità di attuazione
dell'art. 13-bis, comma 5, del dl 07/05/2012, n. 52
convertito, con modificazioni, dalla legge 6/7/2012, n. 94.
Successivamente sono stati emanati alcuni decreti
ministeriali di attuazione per consentire l'ottenimento
della certificazione.
Il suddetto comma 5 prevede che il ... (articolo
ItaliaOggi del 07.02.2014 - tratto da
www.cenctrostudicni.it). |
GIURISPRUDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO: Lo «zelo» pagato è corruzione.
L'attenzione esclusiva limita l'imparzialità del pubblico
ufficiale.
Giustizia. Il comportamento di un geometra sanzionato dalla
Cassazione per atti contrari ai doveri d'ufficio.
Il geometra
che accetta denaro per seguire con particolare "scrupolo" le
pratiche del palazzinaro viene meno ai suoi doveri di
imparzialità e merita la condanna per il reato di corruzione
per atti contrari ai doveri d'ufficio. La condotta non
ricade, come voleva il ricorrente, nell'ipotesi meno grave
della corruzione per l'esercizio della funzione.
La Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la
sentenza
28.02.2014 n. 9883,
torna sull'applicazione della legge Severino (190/2012) nel
decidere sul ricorso di un geometra comunale troppo
sollecito nei confronti di un imprenditore.
Il professionista aveva fatto in modo che venisse
"corretta", nella data e nei contenuti , una perizia che
apriva la strada ad un permesso di lottizzazione.
E il costruttore aveva ricambiato tanta solerzia con regalie
in denaro e una ristrutturazione della casa del tecnico
compiacente.
La difesa minimizza, affermando che si era trattato di
semplici ricompense per la speciale attenzione riservata
agli affari dell'imprenditore. La Cassazione, pur ritenendo
difficilmente inquadrabili tra i doveri d'ufficio le
condotte contestate, coglie l'occasione per chiarire che in
base a una corretta interpretazione della legge Severino,
«anche la patente violazione del dovere di imparzialità e terzietà del pubblico ufficiale, vale a iscrivere la sua
condotta nell'area di antidoverosità apprezzabile in base
all'articolo 319 del codice penale».
Il pubblico ufficiale che accetta di farsi iscrivere nel
libro paga del privato non può invocare il trattamento
previsto per chi si fa corrompere per esercitare le sue
funzioni (articolo 318 del codice penale). Mettersi al
servizio del corruttore, anche se per il compimento di atti
conformi alle proprie funzioni, è comunque una patente
violazione dei canoni di fedeltà e di imparzialità non il
linea con lo statuto deontologico del pubblico funzionario,
«atteso che il criterio distintivo tra corruzione propria e
corruzione impropria non è dato dalla mera legittimità o
meno dell'atto o delle attività compiuti, ma dalle modalità
e dagli scopi sottostanti o strumentali con cui l'uno o le
altre sono in concreto realizzati».
La Cassazione ammette che il titolo dell'articolo 318 del
codice penale (Corruzione per l'esercizio della funzione),
facendo un generico riferimento, con la preposizione
finalistica "per", all'esercizio delle proprie funzioni,
«non consente una immediata decifrabilità delle concrete
forme o espressioni che il mercimonio di funzioni e poteri
possa assumere in concreto». Ma ritiene che la chiave di
lettura sia da ricercare nella ratio della norma.
Secondo la
Suprema corte sarebbe, infatti, molto strano che la legge
190/2012, la quale si pone l'obiettivo di armonizzare le
sanzioni per arginare il fenomeno sempre più diffuso della
corruzione, "scivolasse" proprio sulla buccia di banana
della proproporzionalità della pena: «sarebbe ben singolare
che la normativa offra il fianco a possibili rilievi in
termini di graduazione dell'offensività, di ragionevolezza
(articolo 3 della Costituzione) e di proporzionalità della
pena (articolo 27 della Costituzione)».
Rilievi possibili se
passasse la tesi del ricorrente, in base alla quale un
pubblico ufficiale che venda un permesso di accesso alla Ztl
non consentito per una volta nella sua carriera, potrebbe
essere punito con una pena da quattro a otto anni (articolo
319), mentre un funzionario che si ponga in maniera
compiacente al servizio del privato corruttore dovrebbe
essere punito con la pena più mite prevista dall'articolo
318
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.03.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Leasing, può scattare la malafede.
Nel caso del contratto di leasing, l'utilizzatore può essere
chiamato a rispondere per responsabilità precontrattuale, in
relazione agli atti che ha il potere di compiere per effetto
del contratto stesso.
Lo dice la III Sez. civile della
Corte di Cassazione (sentenza 13.02.2014 n. 3362).
Il contratto di leasing traslativo sottende un'operazione
avente il fine di attuare un acquisto dell'utilizzatore e
una mera operazione di finanziamento da parte del
concedente. Sarà l'utilizzatore a scegliere presso il terzo
venditore (non presso il concedente) il bene oggetto di
leasing, in termini conformi alle sue peculiari esigenze,
quanto, invece, al concedente, questi si limiterà a fornire
i mezzi economici per il pagamento del prezzo, erogando la
somma necessaria, che verrà restituita -con l'aggiunta di
interessi, spese e utile dell'operazione- ratealmente e
tramite l'esercizio finale dell'opzione di acquisto.
A rendere necessitato il positivo esercizio dell'opzione
dell'utilizzatore circa l'acquisto finale del bene è lo
stesso contenuto economico dell'operazione, per cui,
osservano gli Ermellini: «I canoni periodici da
corrispondere al concedente comprendono ben più che il mero
corrispettivo del godimento, essendo in essi inclusa una
frazione della somma da restituire quale importo del
finanziamento, dei relativi interessi, spese e utili
dell'operazione; ragion per cui, al termine del rapporto, il
bene risulta quasi interamente pagato e il corrispettivo
dell'opzione è normalmente di importo irrisorio rispetto al
valore del bene».
Secondo gli stessi giudici nei contratti di leasing
traslativo i poteri dell'utilizzatore sono talmente ampi «da
poter essere assimilati a una sorta di dominio utile, tale
da rendere inaccettabile, perché non conforme alla natura
del contratto e della sottostante operazione economica, il
principio per cui l'utilizzatore non potrebbe essere
chiamato a rispondere per responsabilità precontrattuale
(come anche per responsabilità contrattuale) in relazione
agli atti che ha il potere di compiere per effetto del
contratto di leasing».
Pertanto, la formale intestazione della proprietà al
concedente ha funzione di garanzia della restituzione del
finanziamento e va a configurare una sorta di proprietà
fiduciaria in funzione di garanzia, che si contrappone al
vero e proprio dominio utile, spettante all'utilizzatore.
La Corte ha, poi, osservato che l'utilizzatore consegue, dal
canto suo, tutti i poteri di amministrazione ordinaria e
straordinaria; il pieno godimento del bene, con poteri più
ampi di quelli che spettano all'usufruttuario: «non
essendo soggetto al limite di mantenere inalterata la
consistenza e la destinazione economica del bene, di cui
all'art. 981 cc -di cui potrebbe essere chiamato a
rispondere solo nella situazione patologica in cui il
rapporto si sciolga prima del termine per suo inadempimento
all'obbligo di pagare i canoni di leasing- e assumendo
rischi e responsabilità simili a quelle che gravano sul
proprietario pieno» (articolo ItaliaOggi Sette
del 24.02.2014). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: La villa è «di lusso» se lo dice il Prg.
Conta la destinazione urbanistica dell'area come definita
prima della costruzione. Giustizia. La Corte di cassazione interviene sui requisiti
per l'ottenimento dei benefici fiscali sulla compravendita.
La prima casa
"di lusso" non può diventarlo dopo la costruzione. Se lo
strumento urbanistico, all'atto della costruzione
dell'edificio, non prevedeva che l'area fosse destinata a
"villa", l'edificio non può essere considerata di lusso.
Questo, in sostanza, il principio affermato dalla Corte di
Cassazione con la
ordinanza 11.02.2014 n. 3080.
La questione è arrivata in Cassazione dopo che l'agenzia
delle Entrate aveva perso in appello con il contribuente
sulla liquidazione delle maggiori imposte di registro,
chieste dopo aver accertato che l'abitazione, comprata nel
2005 con le agevolazioni fiscali per la prima casa, si
trovava in una zona che il piano regolatore aveva destinato
a villa o parco privato. Il contenzioso era iniziato nel
2008, con una sentenza 80/1/2008 della Commissione
tributaria provinciale di Livorno che aveva dato ragione al
contribuente ed era proseguito con la sentenza 59/10/11,
depositata il 21.04.2011, della Commissione tributaria
regionale della Toscana, che a sua volta aveva bocciato le
richieste dell'agenzia delle Entrate.
Ricordiamo che la differenza a carico del contribuente non è
di poco conto: si tratta di versare la differenza tra un
importo pagato, pari al 4% del valore fiscale dell'immobile
come imposta di registro più (all'epoca) 336 euro
complessive e fisse per le imposte ipotecaria e catastale, e
le imposte piene, pari al 10% complessivo del valore
fiscale. Inoltre, scatta una sanzione del 30% dell'imposte
complessivamente dovuta.
Premesso quindi che l'articolo 1 del Dm dell'08.08.1969
(quello cui si fa riferimento per individuare le abitazioni
"di lusso" escluse dai benefici prima casa) stabilisce che
le costruzioni considerate "di lusso" nelle aree destinate a
villa o parco privato dagli strumenti urbanistici sono tali
proprio per la destinazione dell'area e non per le loro
caratteristiche intrinseche, in questo caso si era trattato
di una modifica al Prg intervenuta nel 1999, ben dopo
l'ultimazione della costruzione nel 1990: «È tuttavia
evidente -ha affermato la Suprema Corte- come l'adozione o
l'approvazione di uno strumento urbanistico che destini
l'area a villa o parco privato debba precedere la
costruzione dell'immobile; e ciò in quanto si presuppone che
la costruzione realizzata in area destinata a villa o a
parco privato corrisponda tipologicamente al tipo di
abitazione che su quell'area può essere realizzato - villa o
parco privato. Diviene pertanto irrilevante per la
qualificazione dell'abitazione come "di lusso" l'adozione di
uno strumento urbanistico che destini l'area a "villa" o
"parco privato" successivamente alla realizzazione della
costruzione stessa».
Quindi, per la Cassazione, anche se l'acquisto oggetto di
revoca dei benefici era intervenuto dopo la variazione (nel
2005), è proprio la data di costruzione che fa fede. E ha
respinto il ricorso dell'agenzia, confermando i benefici al
contribuente acquirente (articolo Il Sole 24 Ore del 12.02.2014). |
ENTI
LOCALI - VARI: Rischio multa per chi espone la frutta.
Alimenti. Per la Cassazione è punibile con l'ammenda il
commerciante che vende la sua merce all'aperto.
Esporre la
frutta sul banco all'aperto è un reato punibile con
l'ammenda.
La Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.02.2014 n. 6108, mette "fuori legge" l'abitudine più che
consolidata, a qualunque latitudine, di vendere frutta e
verdura mettendola in mostra su un carrettino o, come nel
caso esaminato, sulle cassette all'esterno del negozio. Un
uso che, secondo la Suprema corte, contrasta con quanto
previsto dalla normativa (legge 282/1962, articolo 5,
lettera b) che vieta di mettere in commercio alimenti
«insudiciati, invasi da parassiti, in stato di alterazione o
comunque nocivi, ovvero sottoposti a lavorazioni o
trattamenti diretti a mascherare un preesistente stato di
alterazione». Certo la norma, anche perché è del 1962, di
smog non parla. Se ne preoccupano però i giudici della terza
sezione penale che fanno rientrare l'esposizione agli agenti
inquinanti tra le condotte vietate.
Il fruttivendolo, che teneva la sua frutta in tre cassette
en plein air, era stato condannato dal Tribunale di Nola,
per la vendita di merce in cattivo stato di conservazione.
Un reato che scatta, come spiega la Suprema corte, anche se
la merce non è avariata. L'ordine alimentare impone,
infatti, che vengano osservate le norme igieniche nel
trattare i cibi destinati alla tavola del consumatore.
Obbligo non rispettato quando si lasciano mele e pere «a
contatto con agli agenti atmosferici e i gas di scarico dei
veicoli in transito».
Il pericolo del danno si vede a
"occhio", non serve fare esami di laboratorio:
«L'accertamento da parte della polizia giudiziaria risulta
del tutto sufficiente a giustificare l'affermazione di
penale responsabilità, evidenziando una situazione di fatto
certamente rilevante e la cui sussistenza risulta peraltro
confermata dallo stesso ricorrente, il quale riconosce che
la verdura era esposta per la vendita sul marciapiede
antistante l'esercizio commerciale».
In difesa del verduraio
scende in campo la Coldiretti, che vede nella sentenza della
Cassazione un regalo alla grande distribuzione. L'invito è a
togliere dalle strade non le cassette di frutta ma lo smog e
a non decretare la fine del piccolo commercio: «C'è il
rischio di accelerare nei centri urbani la chiusura dei
piccoli negozi alimentari che hanno avuto un calo record
delle vendite del 3% nel 2013». Per Coldiretti la decisione
è un colpo a un settore già in crisi: «Gli acquisti di
frutta e verdura degli italiani nel 2013 sono crollati al
minimo da inizio secolo, le famiglie hanno messo oltre 100
chili di ortofrutta in meno nel carrello, rispetto al 2000» (articolo Il Sole 24 Ore del 12.02.2014). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Parcelle sotto il minimo.
Se la causa risulta di facile trattazione.
CASSAZIONE/ Il giudice deve adeguatamente motivare la scelta
Liquidazione delle spese di lite: quando la causa risulta di
facile trattazione (non presenta, cioè, elementi di
difficoltà tale né esplicita né implicita) il giudice può
deliberare importi inferiori al minimo tariffario per il
legale, sempre che la riduzione non sia inferiore alla metà
(ex art. 4, legge n. 794/1942) e la decisione venga
adeguatamente motivata.
Lo ha stabilito la Corte di
Cassazione, Sez. III civile, nella
sentenza
29.01.2014 n. 1972.
Secondo i giudici
della III Sezione civile quando, come nel caso di specie, la
controversia ha «ad oggetto una fattispecie tipicamente
seriale, che non presenta alcuna difficoltà né teorica, né
pratica», il giudice di merito in sede di liquidazione delle
spese di lite deve attenersi ad «alcuni generali principi e
regole operative», quali quelle contenute nell'art. 75 disp.
att. c.p.c., integrato con l'art. 60 rdl 27/11/1933, n. 1578
(convertito, con modificazioni, nella legge 22.01.1934,
n. 36), recante l'ordinamento della professione di avvocato,
applicabile ratione temporis ai sensi dell'art. 1, comma 1,
dlgs 01/12/2009, n. 179.
La controversia sulla quale era stato chiamato ad
intervenire il collegio giudicante aveva ad oggetto il
risarcimento del danno da circolazione stradale, materia
sulla quale esistono orientamenti giurisprudenziali
sostanzialmente concordanti: più precisamente, una donna era
rimasta coinvolta in un sinistro stradale causato dal
«difettoso funzionamento di un semaforo, il quale proiettava
contemporaneamente luce verde in due direzioni tra loro
ortogonali, creando così una insidia per gli automobilisti».
In primo grado, la domanda di parte attrice veniva accolta;
in appello, viceversa, riformata, in quanto il tribunale
aveva ridotto sia il risarcimento accordato che le spese di
soccombenza.
Anche in Cassazione i giudici di legittimità,
decidendo nel merito, hanno ridotto le spese di liquidazione
rammentando come «lo iato tra petitum e decisum può
costituire un valido motivo per la compensazione delle
spese, in base alla massima d'esperienza secondo cui meno
esose pretese del creditore favoriscono di norma
l'adempimento spontaneo del debitore, e di conseguenza
evitano la necessità della lite» (articolo ItaliaOggi Sette
del 17.02.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Stoppata la mega antenna appiccicata alla scuola.
Stop alla mega antenna per cellulari troppo vicina alle
scuole: la spuntano due condomini che fanno annullare il
silenzio-assenso di Roma Capitale all'installazione della
stazione radio-base per i telefoni, intervenuta senza che al
procedimento autorizzatorio prendesse parte il municipio
interessato, mentre la presenza è prevista dal protocollo
d'intesa siglato fra il comune e gli operatori delle
telecomunicazioni.
È quanto emerge dalla
sentenza
27.01.2014 n. 1021
pubblicata dalla Sez. II-bis del TAR Lazio-Roma.
Accolto il ricorso dei residenti nella zona fra Casilina e
Tuscolana per l'impianto autorizzato sotto la distanza
minima da istituti scolastici prevista dal codice delle
comunicazioni oltre che dallo stesso accordo intervenuto fra
l'amministrazione e i gestori telefonici: in particolare il
ripetitore risulta posizionato a meno di 40 metri dalla
scuola materna e a circa 85 da un istituto comprensivo,
medio ed elementare. Le carte risultano inviate a una
circoscrizione diversa da quella interessata dal progetto
(nella Capitale si chiamano municipi) e nella mappa della
zona gli istituti frequentati dai bambini non sono
segnalati.
Risultato: dall'iter che ha fatto avere il nulla
osta al big della telefonia sono rimasti fuori i
rappresentanti di quartiere. E non conta che il municipio
non abbia svolto rilievi tali da bloccare il progetto dopo
essere venuto a conoscenza del progetto: la comunicazione
non vale come sanatoria e il silenzio-assenso non può
formarsi quando manca un parere necessario o, come nella
specie, una fase istruttoria propedeutica sia addirittura
saltata.
Inutile per l'operatore della categoria tentare di mettere
in discussione i paletti sulle distanze minime degli
impianti rispetto a siti sensibili come le scuole. Non
convince la tesi del gruppo imprenditoriale secondo cui la
distanza minima di 100 metri prevista dal protocollo
d'intesa con Roma Capitale sarebbe applicabile soltanto ai
ripetitori installati su edifici di proprietà comunale e non
anche a quelli da installare su fabbricati di proprietà
privata: non c'è ragione di fare distinzioni fra gli
immobili. Dunque: atti annullati e spese di giudizio
compensate (articolo ItaliaOggi
del 27.02.2014). |
CONDOMINIO: Terrazze, più equità nelle spese.
I proprietari pagano in base ai metri quadrati coperti.
Sentenza della Cassazione sulla ripartizione dei costi di
ricostruzione dei lastrici solari.
Maggiore equità nella suddivisione delle spese di
riparazione o ricostruzione del lastrico solare.
Secondo la
sentenza
23.01.2014 n. 1451 della Corte di Cassazione, Sez. II
civile, gli appartamenti sottostanti devono
contribuire nei due terzi delle spese di cui all'art. 1126
c.c. sulla base dei metri quadrati che risultano
effettivamente coperti e non per l'intero valore millesimale
attribuito all'unità immobiliare.
Secondo il codice civile
quando l'uso dei lastrici solari non è comune a tutti i
condomini, quelli che ne hanno l'uso o la proprietà
esclusivi sono, infatti, tenuti a contribuire per un terzo
nelle predette spese, mentre gli altri due terzi sono a
carico di tutti gli altri proprietari delle unità
sottostanti. Quanto sopra vale anche per la cosiddetta
terrazza a livello (di proprietà o uso esclusivo del
proprietario dell'ultimo piano) che svolge la stessa
funzione di copertura. In ogni caso rimangono a carico del
proprietario le spese attinenti alle parti che non svolgono
funzione di copertura (si pensi alla manutenzione dei
parapetti, alle ringhiere ecc.).
La ripartizione della parte di spesa di 1/3. La ripartizione
della spesa di un terzo non presenta particolare difficoltà.
Tuttavia nel caso in cui il lastrico sia comune a due o più
condomini la quota andrà divisa sulla base delle relative
percentuali di comproprietà o uso esclusivo.
La ripartizione della parte di spesa di 2/3: i soggetti
interessati. L'obbligo di pagare le spese dei due terzi del
lastrico non deriva dalla sola generica qualità di
condomino, ma anche dal fatto di essere proprietario di una
unità immobiliare compresa nella colonna d'aria sottostante
a esso.
Il criterio della doppia contribuzione. Può capitare che il
condomino che ha l'uso esclusivo del lastrico solare sia
contemporaneamente proprietario di un appartamento
sottostante o di una parte di esso (se, come nel caso
risolto dalla Cassazione, sia a due livelli): in tal caso
questi è soggetto alla cosiddetta doppia contribuzione. In
pratica sarà tenuto al pagamento per intero della quota di
1/3, nonché di una quota aggiuntiva dei 2/3.
Il problema degli appartamenti parzialmente coperti: la
ripartizione per millesimi. È anche possibile che tra gli
appartamenti sottostanti al lastrico ve ne sia qualcuno
coperto solo in parte. Tuttavia, secondo alcuni precedenti
giurisprudenziali, l'art. 1126 c.c. farebbe riferimento alla
porzione di piano intesa non come parte della proprietà, ma
come intera unità immobiliare (anche perché detta
disposizione non distingue in alcun modo tra immobili
totalmente e parzialmente coperti dal lastrico). Secondo
questa interpretazione sarebbe quindi sufficiente che si
trovi sotto il lastrico solare anche una piccola parte di un
appartamento perché il proprietario debba concorrere alla
ripartizione dei 2/3 delle spese con tutti i millesimi
attribuiti alla relativa unità immobiliare (tra le altre,
Trib. Pescara 05/10/2006).
Appartamenti parzialmente coperti: la ripartizione in base
ai millesimi di proprietà effettivamente interessati dalla
copertura. In questi casi, tuttavia, come sostenuto anche
dalla Cassazione, sembra maggiormente equo procedere a una
ripartizione basata sulle effettive quote millesimali delle
porzioni di piano coperte, quindi opportunamente rapportata
(ovvero ridotta) alla quantità di superficie dell'unità
immobiliare posta realmente al di sotto del lastrico.
In altre parole il criterio più idoneo per suddividere
questo tipo di oneri sarebbe quello di rapportarli
all'utilità che ogni proprietario trae dalla funzione di
copertura del lastrico: le unità immobiliari coperte solo in
parte non dovranno partecipare alla ripartizione della spesa
sulla base di tutti i millesimi di competenza, ma solo con
una parte determinata tenendo conto dei metri quadrati
coperti (trib. Milano 07/11/1994) (articolo ItaliaOggi Sette
del 17.02.2014). |
APPALTI:
Non basta l'antimafia per sciogliere l'associazione
d'impresa. Ati con boss in
terra di gomorra, sentenza del Tar Campania.
Associazione temporanea sì, cointeressenza economica (forse)
no. Non basta l'interdittiva antimafia atipica del prefetto
a far scattare la rescissione del contratto di affidamento
dei lavori all'impresa che, in terra di Gomorra, è stata in
Ati con una società in odore di camorra e con una persona
poi arrestata per associazione mafiosa: la nota dell'ufficio
territoriale del governo costituisce soltanto un punto di
partenza e non uno sviluppo investigativo. E l'esclusione
dall'appalto non si può basare sulla base di soli sospetti,
per quanto legittimi in una molto zona difficile per
l'edilizia come quella fra Napoli e Caserta.
È quanto emerge
dalla
sentenza
23.01.2014 n. 487 del TAR
Campania-Napoli, Sez. I.
Elementi insufficienti. Accolto il ricorso della società
difesa dall'avvocato Renato Labriola. Non bastano gli
elementi raccolti dalla prefettura, che pure nell'interdittiva
antimafia atipica ha potere di svolgere autonome indagini.
La mera partecipazione alle gare pubbliche in formazioni
soggettivamente complesse come l'Ati -osservano i giudici-
non costituisce di per sé indice di permeabilità mafiosa: la
circostanza deve essere corroborata da altri elementi che
indicano un legame sospetto fra l'impresa pulita e quella
già nota alle forze dell'ordine.
Insomma: bisogna dimostrare
la cointeressenza economica fra le varie società nominate
nel provvedimento interdittivo. È peraltro lo stesso
articolo 37 del codice dei contratti pubblici a stabilire
che in caso di inibitoria emanata nei confronti dell'azienda
mandante, la società mandataria può ben continuare a
eseguire l'appalto, previa estromissione dall'altra. L'interdittiva
atipica, poi, risulta liberamente valutabile dalla stazione
appaltante, che nella pratica però difficilmente evita di
prendere provvedimenti contro l'impresa segnalata.
Le notizie segnalate dalla prefettura sulle due
compartecipazioni contestate, però, non sono sufficienti a
stabilire che è in corso un'infiltrazione mafiosa perché non
provano che vi sia un clan in grado di dirigere le scelte
dell'azienda: costituiscono solo un «elemento isolato»
che avrebbe richiesto «più robuste emergenze di indagine».
Spese compensate, contributo unificato a carico dell'ente
appaltante (articolo ItaliaOggi
del 25.02.2014). |
APPALTI: Responsabili. Requisiti morali.
In un appalto pubblico di servizi il responsabile tecnico
dell'impresa deve dichiarare a pena di esclusione il
possesso dei requisiti generali, anche di moralità
professionale, laddove la disciplina di settore associ a
tale figura particolari responsabilità e funzioni.
Lo
afferma il TAR Lazio-Roma con
sentenza 22.01.2014 n. 828 della Sez. III-quater
che ha preso in esame una fattispecie relativa a un appalto
di servizi, settore in cui, generalmente, non è previsto
l'obbligo di un «direttore tecnico» tenuto a
dichiarare il possesso dei requisiti cosiddetti di ordine
generale per l'ammissione alla gara.
La norma del codice (art. 38) prevede l'obbligo per gli
amministratori muniti di poteri di rappresentanza e per il
direttore tecnico (figura prevista nel settore dei lavori
per le imprese di costruzioni e nel settore dei servizi di
ingegneria e architettura per le società di ingegneria).
In base al tenore letterale della norma, quindi, il
Responsabile tecnico di una impresa operante nel settore dei
servizi non sarebbe tenuto a rilasciare le dichiarazioni dal
momento che verrebbe ritenuto -dall'art. 38- un soggetto
privo di qualunque significativo ruolo decisionale e
gestionale. Il Tar del Lazio, però offre una lettura
estensiva della norma partendo dalla considerazione che la
figura del responsabile tecnico, soprattutto in strutture
che operano in un settore di attività in cui la relativa
normativa attribuisce una funzione centrale ai compiti
tecnico-organizzativi affidati a tale figura, deve nella
sostanza essere equiparato alla figura del direttore tecnico
di una impresa di costruzioni o di una società di
ingegneria.
La sentenza richiama anche un caso normativamente previsto
come è quello della disciplina in tema di smaltimento dei
rifiuti in cui viene prevista come obbligatoria la figura
del responsabile tecnico (o del legale rappresentante) nella
persona di un soggetto in possesso di precisi requisiti
professionali e tecnici che la stessa disciplina dettaglia
in concreto.
Pertanto in questi casi (cioè quando al responsabile tecnico
la normativa settoriale assegna responsabilità e funzioni
particolari) è necessario che in sede di gare anche il
responsabile tecnico dichiari il possesso dei requisiti di
ordine generale (assenza di condanne, moralità professionale
ecc.) (articolo ItaliaOggi del
20.02.2014). |
SICUREZZA LAVORO: Appalti senza valutazione rischi.
Il Duvri è superfluo nelle gare per servizi e forniture.
Il Consiglio di stato corregge il tiro della giurisprudenza
di merito, molto più restrittiva.
Non è sempre necessario il Documento di valutazione dei
rischi interferenti (Duvri) nelle procedure di gara per
l'affidamento di servizi e forniture.
Lo chiarisce la sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 22.01.2014 n. 330, che corregge il tiro della
giurisprudenza di primo grado e di alcune teorie, secondo le
quali l'obbligo di predisporre il Duvri scatterebbe sempre e
comunque, per qualsiasi procedura d'appalto.
I giudici di palazzo Spada contestano radicalmente
l'assunto.
Occasione ne è stata una controversia relativa ad un appalto
di servizio di mediazione culturale, per il quale
l'amministrazione appaltante non aveva previsto, nel bando e
capitolato, alcuna norma relativa all'eventuale sussistenza
e quantificazione degli oneri per la sicurezza dei
lavoratori, astenendosi anche da valutare i rischi di
interferenze nello svolgimento delle attività
dell'aggiudicatario. Ciò in considerazione della natura
prevalentemente intellettuale della prestazione richiesta ai
mediatori culturali e, ancora, della circostanza che
l'appalto non chiedeva lo svolgimento di nessuna attività al
di fuori della sede di lavoro della aggiudicataria o
comunque presso le sedi della stazione appaltante. Il che
escludeva in radice la possibilità di «interferenze» fisiche
tra lavoratori.
Secondo il Consiglio di stato, in presenza di servizi
caratterizzati da prestazioni prevalentemente intellettuali
e di una oggettiva impossibilità di interferenze con il
lavoro dei dipendenti della stazione appaltante, le regole
speciali di tutela dei lavoratori previste dall'ordinamento
non debbono essere applicate. Il Duvri, ai sensi
dell'articolo 26 del dlgs 81/2008, ha lo scopo di
evidenziare le misure di sicurezza necessarie per ridurre il
rischio che attività lavorative svolte nella sede della
stazione appaltante si «incastrino» con i lavori svolti
dall'appaltatore, esponendo lavoratori ai rischi propri
delle lavorazioni dell'appaltatore.
È piuttosto evidente che se, per un verso, l'attività
dell'appaltatore è esente da rischi, in quanto
prevalentemente di natura intellettuale; e, per altro verso,
non viene svolta nelle sedi di potenziale interferenza, la
redazione del Duvri non avrebbe alcuna utilità.
Nel caso di specie, Palazzo Spada ha ritenuto non dimostrata
la presenza di fattori di rischio, tali da imporre una
regolamentazione particolare dei profili di sicurezza
connessi al servizio di mediazione culturale.
La sentenza della sezione V ricorda anche l'illegittimità di
clausole di gara poste per imporre ai concorrenti di
specificare nelle offerte la consistenza degli oneri per la
sicurezza «in assenza conclamata di rischi», perché ciò
lederebbe i principio di razionalità nella conduzione degli
appalti e il favore per la partecipazione. Dunque,
apparirebbe «assolutamente meccanicistico e del tutto non
pertinente con gli interessi sostanziali
dell'Amministrazione» appaltante prevedere negli atti di
gara da un lato il Duvri, dall'altro la valutazione dei
rischi, se per la prestazione contrattuale richiesta non
risultino evidenze di rischi connessi all'attività
lavorativa (articolo ItaliaOggi del
28.02.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Accesso agli atti, non basta verificare il buon andamento
della pa. Respinta la richiesta di una visione ampia dei documenti.
Occorre possedere una propria situazione giuridica attiva
effettivamente o possibilmente lesa per accedere agli atti
della scuola, non basta il principio del buon andamento
dell'attività amministrativa ed un ipotetico fine difensivo.
Nonostante sia un fondamento di natura costituzionale (art.
97) detto principio si esplicita e trova concreta attuazione
solo nel caso in cui il singolo abbia un interesse specifico
sul caso trattato.
Sulla base di questa considerazione si è mosso il tribunale
amministrativo della Calabria che ha accolto parzialmente un
ricorso di un docente che chiedeva accesso a numerosi atti
della scuola, tra i quali i verbali di dipartimento, i corsi
di aggiornamento professionale, lo stato di servizio, i
verbali dei consigli di classe, gli atti del consiglio di
istituto ed altri.
La
sentenza
16.01.2014 n. 90 è del TAR Calabria-Catanzaro,
Sez. II.
In linea generale, la giurisprudenza ha ribadito che il
diritto di accesso ai documenti amministrativi, introdotto
dalla legge 07.08.1990 n. 241, costituisce un principio
generale dell'ordinamento giuridico e si colloca in un
sistema ispirato al contemperamento delle esigenze di
celerità ed efficienza dell'azione amministrativa con i
principi di partecipazione e di concreta conoscibilità della
funzione pubblica da parte dell'amministrato, basato sul
riconoscimento del principio di pubblicità dei documenti
amministrativi. Ai fini della sussistenza del presupposto
legittimante per l'esercizio del diritto di accesso deve
esistere un interesse giuridicamente rilevante del soggetto
che richiede l'accesso seppur non necessariamente
consistente in un interesse legittimo o in un diritto
soggettivo, ma comunque giuridicamente tutelato.
In sentenza è precisato che il generico ed indistinto
interesse di ogni cittadino al buon andamento dell'attività
amministrativa non identifica uno specifico valore da
azionare giudiziariamente, ma esso può ergersi come
riferimento nel rapporto di strumentalità tra tale interesse
e la documentazione di cui si chiede l'ostensione; nesso di
strumentalità che deve, peraltro, essere inteso in senso
ampio, posto che la documentazione richiesta deve essere,
genericamente, mezzo utile per la difesa dell'interesse
giuridicamente rilevante e non strumento di prova diretta
della lesione di tale interesse (articolo ItaliaOggi del
18.02.2014). |
TRIBUTI: Imposte, il catasto non fa testo.
Le risultanze catastali non forniscono piena prova della
proprietà o del possesso di un immobile, mentre l'unico
strumento di pubblicità per i beni immobili e i relativi
atti di disposizione è rappresentato dai registri
immobiliari presso l'ufficio della conservatoria. Pertanto,
quando un contribuente accertato ai fini Ici contesti la
proprietà del bene, è onere dell'amministrazione comunale
fornire adeguata prova dell'esistenza del presupposto
d'imposta, ossia la proprietà o altro diritto reale sullo
stesso che si evinca dai registri immobiliari.
È quanto si legge nella sentenza 14.01.2014 n. 57/01/14 della Ctr
di Roma, Sez. I.
In una controversia riguardante avvisi di accertamenti per
Ici, emessi dal comune di Roma relativamente a due immobili
del territorio capitolino, il contribuente contestava la
pretesa fiscale alla fonte, ovvero lamentando di non essere
affatto proprietario dell'uno e solo parzialmente dell'altro
bene. Resisteva il comune, basando la propria pretesa sulle
risultanze catastali: proprio tale circostanza ha
rappresentato l'anello debole del costrutto impositivo. «Va
rilevato», si legge in sentenza, «che in via normale
l'Ici è dovuta sulla base delle risultanze catastali, ma
davanti alle contestazioni delle stesse va dimostrata da
parte dell'ente impositore la proprietà dell'immobile ovvero
la titolarità di altro diritto».
Le risultanze catastali non danno piena prova della
proprietà, costituendo «un sistema secondario per
stabilire la proprietà di un bene immobile». L'unico
strumento idoneo, a tal scopo, «è rappresentato dalla
trascrizione immobiliare di cui all'art. 2643 del codice
civile presso l'ufficio della conservatoria dei registri
immobiliari» (articolo ItaliaOggi Sette
del 24.02.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Comune scudo di liceità per le licenze a costruire.
Il Comune, nel momento in cui rilascia licenza a costruire,
deve verificare che, sia sotto il profilo tecnico che sotto
quello esecutivo, sia tutto nell'alveo della liceità ed in
ossequio alla normativa vigente, al fine di evitare una
attività edilizia incompatibile col contesto territoriale,
altrimenti sarà responsabile per eventuali danni a persone o
a cose.
Ad affermarlo è stata la
Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la
sentenza
19.12.2013 n. 28460.
Risulta, pertanto, legittima la condanna del
Comune a risarcire i danni civilistici derivanti
dall'esercizio dell'azione amministrativa, anche a titolo di
concausa, particolarmente se l'ente territoriale ha operato
in violazione delle più elementari cautele e nozioni
tecniche da adottare in situazioni oggettive di evidente
pericolo generale.
Nel 1996 è stata la stessa Cassazione ad
affermare che: «La responsabilità della p.a. per il
risarcimento dei danni causati da una condotta omissiva
sussiste non soltanto nel caso in cui questa si concretizzi
nella violazione di una specifica norma, istitutiva
dell'obbligo inadempiuto, ma anche quando detta condotta si
ponga come violazione del principio generale di prudenza e
diligenza (cosiddetto obbligo del neminem laedere), di cui è
espressione l'art. 2043 cod. civ. (nella specie, la S.C. ha
confermato la decisione di merito che aveva ritenuto la
corresponsabilità di un Comune nella determinazione dei
danni derivati dal crollo di un fabbricato, perché l'ente
locale, oltre ad aver negligentemente omesso di verificare,
in violazione della legge urbanistica n. 1150 del 1942, la
concreta edificabilità dei terreni e di prescrivere le
misure idonee ad evitare pericoli di franamento di una
collina e di conseguente crollo degli edifici sulla stessa
costruiti, a seguito delle licenze rilasciate dall'ente
medesimo, aveva comunque omesso, in violazione del principio
del neminem laedere, qualsiasi accertamento preventivo
rispetto ad un terreno chiaramente di tipo franoso, nonché
ogni prescrizione al riguardo nel convenzionamento della
lottizzazione ed ogni vigilanza sull'esecuzione delle
costruzioni)» (Cass. n. 3939/1996).
Secondo i supremi giudici, inoltre, non si comprende come e
perché la mera esecuzione di un'attività in posizione di
incompetenza da parte di un funzionario possa riverberare
nella rottura del nesso di immedesimazione organica
dell'agire del medesimo rispetto al Comune. Pertanto il
Comune è sanzionabile per il provvedimento amministrativo (articolo ItaliaOggi Sette del
10.02.201). |
INCARICHI PROGETTUALI: Compenso
«base» ai progettisti. Lavori pubblici. Bocciato il calcolo
sul valore finale dell'opera.
Il compenso al progettista di un'opera pubblica si calcola
sul valore dell'opera preventivata dal Comune nel
disciplinare di incarico. E se viene predisposto un progetto
di valore superiore, senza un disciplinare integrativo in
forma scritta, il professionista non ha titolo per
richiedere ulteriori compensi.
Lo ha deciso il
TRIBUNALE di Caltanissetta (giudice Sole) con
sentenza
26.11.2013.
Il contenzioso riguardava l'opposizione a un decreto
ingiuntivo emesso su richiesta di un ingegnere, componente
di un raggruppamento di professionisti che aveva ricevuto da
un Comune l'incarico di redigere il progetto un'opera
pubblica del costo complessivo preventivato di 900mila euro.
L'elaborato finale conteneva però la progettazione di
un'opera ben più ampia di valore superiore a sette milioni
di euro e a questa somma il professionista aveva parametrato
la propria quota di compenso, ingiungendone il pagamento al
Comune.
L'ente aveva proposto opposizione, ammettendo di avere
conferito l'incarico ma contestando di dovere corrispondere
l'esoso onorario richiesto, perché riguardante attività di
progettazione che esulavano dall'oggetto dell'incarico.
Il professionista sosteneva invece che il raggruppamento
temporaneo di cui faceva parte si era attenuto al progetto
preliminare quanto all'organizzazione planimetrica
dell'opera; tuttavia, dopo la stipula del disciplinare si
erano resi necessari ulteriori rilievi geologici e vari
adattamenti che ne avevano consigliato l'ampliamento. Di
queste esigenze era stato informato il responsabile unico
del procedimento; quindi era stato convocato un successivo
incontro con l'amministrazione comunale, al fine di
illustrare il progetto e discutere dei propri compensi. A
seguito di tale incontro i vertici comunali –sindaco
compreso– avrebbero consentito alla "revisione" del
progetto.
Il tribunale tuttavia non ha ritenuto che tali allegazioni
potessero dimostrare la fondatezza delle pretesa del
progettista.
Il giudice ha richiamato l'articolo 2723 del Codice civile,
in base al quale se a un contratto consacrato in un
documento si aggiunge in seguito un altro patto, il nuovo
accordo dovrà essere dimostrato con prova scritta e si potrà
ricorrere alla prova testimoniale solo se appare verosimile
che esso sia avvenuto verbalmente. Siccome in questo caso la
modifica dell'accordo avrebbe comportato l'aumento del
valore dell'opera di più di sette volte rispetto a quello
originario, già questo basterebbe a ritenere poco verosimile
che una tale revisione non abbia avuto consacrazione in un
disciplinare integrativo.
In ogni caso il tribunale ritiene decisivo il fatto che nei
contratti di diritto privato stipulati dalla pubblica
amministrazione vige il principio formalistico, che richiede
sempre la forma scritta per la validità dell'atto: forma che
deve essere adottata anche per le modifiche successive del
contratto. Per questo il decreto ingiuntivo è stato
revocato.
Il principio applicato dal tribunale era stato già affermato
in analoghe vicende dai giudici di legittimità (di recente,
con la sentenza 8539/2011 della Cassazione) (articolo
Il Sole 24 Ore del 24.02.2014 -
tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
COMPRAVENDITA DI UNITA` IMMOBILIARE OGGETTO DI MUTAMENTO DI
DESTINAZIONE D’USO SENZA TITOLO.
E` nullo, per contrarietà alla legge e
in applicazione degli artt. 15 L. n. 10/1977 e 17 e 40 L. n.
47/1985, il contratto preliminare di vendita di un immobile
irregolare dal punto di vista urbanistico.
Tale nullità tutela l’affidamento, sanzionando la violazione
di un obbligo formale, imposto al venditore al fine di porre
l’acquirente di un immobile in condizione di conoscere le
condizioni del bene acquistato e di effettuare gli
accertamenti sulla regolarità del bene attraverso il
confronto tra la sua consistenza reale e quella risultante
dalla concessione edilizia ovvero dalla domanda di
concessione in sanatoria. Sicché, ove tale dichiarazione sia
presente, nessuna conseguenza invalidante ricade sul
contratto per effetto della concreta difformità tra il
costruito e l’assentito, o, in generale, dal difetto di
regolarità sostanziale del bene sotto il profilo del
rispetto delle norme urbanistiche.
Non può configurarsi ‘‘mera difformità’’ la trasformazione
di un sottotetto non abitabile in una mansarda, se oggetto
della compravendita è solo tale unità immobiliare e non
l’intero immobile pur eseguito in forza di regolare licenza
edilizia.
Sorge controversia fra privati generata dalla compravendita
di un appartamento asseritamente realizzato in conformità a
regolari titoli edilizi ma nel quale era invece stata
realizzata una mansarda, al posto del sottotetto non
abitabile.
Per tale ragione, gli attori chiedevano dichiararsi la
nullità del contratto di compravendita, in conformità degli
artt. 17 e 40 della L. n. 47/1985 e dell’art. 15 della L. n.
10/1977, nonché per illiceità dell’oggetto. In via
subordinata, chiedevano l’annullamento del contratto per
errore essenziale determinato dal dolo dei convenuti
venditori, che avevano dichiarato falsamente la legittimità
della costruzione. In estremo subordine chiedevano
declaratoria di risoluzione del contratto per grave
inadempimento dei venditori, autori di un trasferimento
aliud pro alio. Il tutto, oltre alla condanna dei
convenuti alla restituzione del prezzo e al rimborso delle
spese sostenute per l’acquisto, maggiorati di interessi e
rivalutazione.
Era, dai convenuti, eccepita -oltre alla non imputabilità a
essi della trasformazione del sottotetto- la condonabilità
dell’abuso in conformità della L.R. Campania 28.11.2000 n.
15.
Il Tribunale rigettava la domanda di nullità dell’atto di
vendita stipulato dagli attori e dai convenuti, per essere
stata ritualmente indicata la licenza edilizia in base alla
quale era stato costruito il fabbricato, non rilevando ai
fini della validità dell’atto la difformità rispetto alla
licenza del bene venduto. Riteneva, di contro, sussistente
l’errore su una qualità essenziale dell’immobile
compravenduto e, per l’effetto, annullava il contratto ma
rigettava le domande risarcitorie in considerazione della
buona fede dei venditori e dei loro danti causa.
Anche la Corte territoriale riteneva insussistente sia la
nullità ex art. 15 L. n. 10/1977, essendo stato costruito
l’intero immobile condominiale in virtù di licenza edilizia,
dovendosi qualificare la trasformazione del sottotetto in
mansarda come ‘‘opera difforme da quella consentita’’,
sia la nullità ex art. 1418 c.c. non essendo illecita né la
causa del negozio, né l’attività di costruzione in assenza
di licenza, bensì quella di vendita di manufatto realizzato
in violazione di tali norme.
La Corte di merito rilevava che l’azione degli acquirenti in
primo grado (avanzata ex art. 1427 c.c.) postulava
l’assolvimento di un onere probatorio sull’essenzialità
dell’errore, invero non fornita, dovendosi ritenere
essenziale non già l’errore sulla conformità al progetto
edilizio approvato, ma l’idoneità del bene ad assolvere alla
funzione abitativa per la quale veniva acquistata, qualità
per vero sussistente: per tali ragioni rigettava la domanda
di annullamento del contratto.
La Cassazione cassa con rinvio la sentenza d’appello,
affermando che deve ritenersi nullo, per contrarietà alla
legge, il contratto preliminare di vendita di un immobile
irregolare dal punto di vista urbanistico.
Il percorso attraverso il quale il giudice di legittimità
perviene a tale conclusione è articolato nei seguenti
interessanti passaggi logico-giuridici, che meritano di
essere ripercorsi in quanto ricostruiscono la giurisprudenza
maturata in punto.
Devono essere considerati applicabili i principi di cui
all’art. 15 L. n. 10/1977 e agli artt. 17 e 40 L. n. 47/1985
non potendosi qualificare ‘‘mera difformità’’ la
realizzazione di un intero appartamento (mansarda), posto
che solo questo era oggetto della compravendita, e non tutto
l’immobile condominiale, pure eseguito sulla base di una
regolare licenza edilizia. Del resto, la L. n. 47/1985,
proprio per contrastare il fenomeno dell’abusivismo
edilizio, ha sancito la nullità degli atti di compravendita
dei fabbricati abusivi, tanto da prevedere la nullità anche
solo per la mancata indicazione degli estremi della
concessione, seppur in effetti esistente. A maggior ragione,
quindi, l’atto è nullo se l’immobile è abusivo e gli estremi
della concessione sono fittizi.
La questione delle conseguenze dell’alienazione di immobili
affetti da irregolarità urbanistiche, non sanate o non
sanabili, è stata sempre risolta dalla Cassazione sul piano
dell’inadempimento. Con sentenza 22.11.2012 n. 20714 si è
affermato che, in tema di vendita di immobili, il disposto
dell’art. 40 della L. n. 47/1985 consentendo la
stipulazione, ove risulti presentata l’istanza di condono
edilizio e pagate le prime due rate di oblazione, esige che
la domanda in sanatoria abbia i requisiti minimi per essere
presa in esame dalla p.a. con probabilità di accoglimento.
In tal caso occorre l’indicazione precisa della consistenza
degli abusi sanabili, presupposto di determinazione della
somma dovuta a titolo di oblazione, nonché la congruità dei
relativi versamenti, in difetto delle quali il promittente
venditore è inadempiente e il preliminare di vendita può
essere risolto per sua colpa. Analogamente, con sentenza
19.12.2006 n. 27129 si è affermato che, in caso di
preliminare di compravendita immobiliare, costituisce
inadempimento certo non irrilevante -tale quindi da
giustificare il recesso dal contratto del promittente
acquirente e la restituzione del doppio della caparra- la
condotta dell’alienante che prometta in vendita un immobile
abusivo per il quale non esiste alcuna possibilità di
regolarizzazione.
Ancor più chiaramente, la sentenza 24.03.2004 n. 5898 ha
affermato che il difetto di regolarità sostanziale del bene
sotto il profilo urbanistico non rileva di per sé ai fini
della validità del trasferimento, trovando rimedio nella
disciplina dell’inadempimento contrattuale. In quest’ottica
si è esclusa la nullità dei contratti aventi a oggetto
immobili, nel caso in cui le dichiarazioni previste dagli
artt. 17 e 40 della L. n. 47/1985 esistano ma non siano
conforme al vero.
Da ultimo, con sentenza 05.07.2013 n. 16876 -pur ritenendo
interessante la tesi della cd. nullità sostanziale- la Corte
ha affermato che i canoni normativi dell’interpretazione
della legge non consentono di attribuire al testo normativo
un significato che prescinda o superi le espressioni formali
in cui si articola e non può non essere considerato il fatto
che i casi di nullità previsti dalla norma indicata sono
tassativi e non estensibili per analogia e, ancora, che la
nullità prevista dall’art. 40 L. n. 47/1985 è costituita
unicamente dalla mancata indicazione degli estremi della
licenza edilizia, ovvero dell’inizio della costruzione prima
del 1967.
Del resto, tale nullità (cfr. Cass. civ., 07.12.2005 n.
26970; id., 24.03.2004 n. 5898 relativa alla fattispecie di
nullità prevista dall’art. 15, comma 7, L. n. 10/1977)
prevista dagli artt. 17 e 40 della L. n. 47/1985 assolve la
sua funzione di tutela dell’affidamento sanzionando
specificamente la sola violazione di un obbligo formale,
imposto al venditore al fine di porre l’acquirente di un
immobile in condizione di conoscere le condizioni del bene
acquistato e di effettuare gli accertamenti sulla regolarità
del bene attraverso il confronto tra la sua consistenza
reale e quella risultante dalla concessione edilizia ovvero
dalla domanda di concessione in sanatoria.
Alla rigidità della previsione consegue che, in presenza
della dichiarazione, nessuna invalidità deriva al contratto
dalla concreta difformità della realizzazione edilizia dalla
concessione o dalla sanatoria e, in generale, dal difetto di
regolarità sostanziale del bene sotto il profilo del
rispetto delle norme urbanistiche.
Se la ratio della norma è quella di rendere
incommerciabili gli immobili non in regola sotto il profilo
urbanistico, sarebbe del tutto in contrasto con tale
finalità la previsione della nullità degli atti di
trasferimento di immobili regolari dal punto di vista
urbanistico o per i quali è in corso la pratica per la loro
regolarizzazione per motivi meramente formali consentendo,
invece, il valido trasferimento di immobili non regolari,
lasciando eventualmente alle parti interessate assumere
l’iniziativa sul piano dell’inadempimento contrattuale.
Addirittura si potrebbe prospettare la possibilità per le
parti di eludere consensualmente lo scopo perseguito dal
legislatore, stipulando il contratto e poi immediatamente
dopo concludendo una transazione con la quale il compratore
rinunzi al diritto a far valere l’inadempimento della
controparte.
Al definitivo, osserva la Corte, che il legislatore, con la
L. n. 47/1985, ha introdotto un modello ancor più severo
rispetto a quello previsto dall’art. 15 della L. n. 10/1977,
il quale prevedeva la nullità degli atti giuridici aventi
per oggetto unità edilizie costruite in assenza di
concessione, ove da essi non risultasse che l’acquirente era
a conoscenza della mancata concessione. Tale inasprimento,
invece, sarebbe da escludere ove, per gli atti in questione,
all’acquirente dovesse essere riconosciuta la sola tutela
prevista per l’inadempimento (Corte
di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 17.10.2013 n.
23591 - tratto
da Urbanistica e appalti n. 12/2013). |
INCARICHI PROGETTUALI:
INCARICO PROFESSIONALE DI PROGETTAZIONE E RESPONSABILITA'.
Quando il contratto d’opera concerne la
redazione di un progetto esecutivo, fra gli obblighi del
professionista vi è quello di redigere un progetto conforme,
oltre che alle regole tecniche, anche alle norme giuridiche
che disciplinano le modalità di edificazione su un dato
territorio, in modo da non compromettere il conseguimento
del provvedimento amministrativo che abilita all’esecuzione
dell’opera, essendo questa qualità del progetto una delle
connotazioni essenziali di un tale contratto di opera
professionale: per l’effetto, il mancato perfezionamento del
procedimento amministrativo volto a garantire l’idoneità
sotto il profilo sismico dell’edificio progettato,
compromettendo il positivo esito della procedura
amministrativa volta ad assicurare la realizzazione
dell’opera, non può che costituire inadempimento
caratterizzato da colpa grave e quindi fonte di
responsabilità del progettista nei confronti del committente
per il danno da questi subito in conseguenza della mancata o
comunque ritardata realizzazione dell’opera.
La questione involge una domanda avanzata dal cliente di un
architetto al risarcimento dei danni al medesimo conseguiti
per effetto del mancato adempimento della propria
obbligazione professionale. Segnatamente, il cliente
lamentava l’impossibilità di iniziare i lavori della
progettata costruzione entro il termine stabilito a pena di
decadenza nel titolo abilitativo edilizio rilasciato.
Nello specifico, si tratta di valutare se l’incarico di
progettare la costruzione, di curare il rilascio della
concessione edilizia e di seguire la direzione dei lavori,
comprenda anche il compito di ottemperare alla prescrizione
imposta dal provvedimento concessorio, in quel caso la
richiesta di nulla osta al Genio Civile ai fini degli
adempimenti relativi alla normativa antisismica. Tale ultimo
aspetto costituiva, a dir dell’attore, un’obbligazione
implicitamente collegata alla direzione dei lavori, attività
nella quale rientra ogni adempimento volto ad assicurare la
realizzazione dell’opera e non già un mero adempimento
burocratico riservato al committente e proprietario.
La Cassazione -richiamati propri precedenti a Sezioni Unite
(n. 15781/2005)- ricorda che la distinzione tra obbligazioni
‘‘di mezzi’’ e ‘‘di risultato’’ è ininfluente
ai fini della valutazione della responsabilità di chi è
incaricato di redigere un progetto di ingegneria o
architettura, in quanto il mancato conseguimento dello scopo
pratico avuto di mira dal cliente è, comunque, addebitabile
al professionista ove sia conseguenza dei suoi errori che
rendano le previsioni progettuali inidonee ad essere
attuate. Ancora (Sez. Un. n. 577/2008) ricorda che è ormai
superata la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di
risultato, specie nelle ipotesi di prestazione d’opera
intellettuale, tenuto conto che un risultato è dovuto in
tutte le obbligazioni, richiedendosi in ogni obbligazione la
compresenza sia del comportamento del debitore che del
risultato, sia pure in proporzione variabile.
Del resto, il comportamento rilevante, nell’ipotesi di
azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle ‘‘obbligazioni
di comportamento’’ è quello che integra una causa o una
concausa ‘‘efficiente’’ del danno. Spetta al debitore
dimostrare che tale inadempimento non vi è stato o che, pur
esistendo, non è stato, nella fattispecie concreta, causa
dell’evento dannoso lamentato.
La Corte osserva che se è vero che il progetto, sino a
quando non sia materialmente realizzato, costituisce una
fase preparatoria, strumentalmente preordinata alla concreta
attuazione dell’opera, è anche vero che, sul piano tecnico e
giuridico, il progettista deve assicurare la conformità del
progetto alla normativa urbanistica ed individuare in
termini corretti la procedura amministrativa da utilizzare,
così da assicurare la preventiva e corretta soluzione dei
problemi che precedono e condizionano la realizzazione
dell’opera richiesta dal committente (cfr. Cass. n. 2257 del
2007; Cass. n. 11728 del 2002; Cass. n. 22487 del 2004).
Sicché la scelta del percorso amministrativo da seguire per
ottenere il titolo autorizzativo idoneo al tipo d’intervento
edilizio progettato (nella specie, l’ottenimento del nulla
osta antisismico) spetta al professionista, trattandosi di
attività per la quale occorre una specifica competenza
tecnica e non certo un mero adempimento burocratico.
Rientra quindi nell’obbligo di diligenza a carico del
prestatore di opera professionale, ex art. 1176 c.c., comma
2, tanto il risultato finale mirante a soddisfare
l’interesse del creditore (committente) quanto i mezzi
necessari per realizzarlo, tramite l’adozione di determinate
modalità di attuazione che esigono il rispetto delle regole
professionali in funzione del raggiungimento del risultato
finale (Corte di
Cassazione, Sez. II civile, sentenza 15.10.2013 n. 23342
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 12/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
TRASFERIMENTO DI IMMOBILI EX ART. 2932 C.C. IN ASSENZA DEL
CERTIFICATO DI DESTINAZIONE URBANISTICA O DEL TITOLO
EDILIZIO.
Nelle controversie ex art. 2932 c.c., in
applicazione di quanto previsto dagli artt. 30 e 46 del
D.P.R. n. 380/2001, è necessaria l’allegazione -agli atti di
trasferimento, di costituzione o di scioglimento della
comunione di diritti reali relativi a terreni- del
certificato di destinazione urbanistica e d’indicazione
degli estremi del titolo abilitativo edilizio rilasciato
dall’autorità competente.
La questione concerne un terreno con annesso rustico del
quale il promissario acquirente aveva scoperto -solo dopo la
firma del preliminare di compravendita e malgrado la
garanzia di libertà dell’immobile da pesi, prestata dal
venditore- l’inedificabilità.
Ne seguì una controversia traslativa ex art. 2932 c.c. con
domanda di riduzione del prezzo ex art. 1489 c.c., in
dipendenza del predetto vincolo, e di risarcimento danni.
Dopo un’originaria reiezione del Tribunale, argomentata sul
fatto che il vincolo era conoscibile tanto facendo
riferimento al PRG quanto ad una specifica legge regionale
che lo aveva introdotto, la Corte d’appello accolse la
domanda, così trasferendo la proprietà del terreno e del
rustico in questione, con prezzo decurtato.
La Cassazione riforma la sentenza di merito, enunciando un
importante principio valido per le controversie aventi a
oggetto l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un
contratto preliminare di compravendita immobiliare ex art.
2932 c.c., ossia che ai sensi degli artt. 17, 18 e 40 della
L. n. 47/1985, quanto -oggi- degli artt. 30 e 46 del D.P.R.
n. 380/2001 deve dedursi la nullità di ogni atto di
trasferimento privo, per i terreni, dell’allegazione del
certificato di destinazione urbanistica, e, per gli edifici,
della indicazione degli estremi della concessione edilizia.
Tale dovuta allegazione -agli atti di trasferimento, o di
costituzione o di scioglimento della comunione di diritti
reali relativi a terreni- del certificato di destinazione
urbanistica nonché di indicazione (per gli edifici o parte
di essi) degli estremi del titolo abilitativo edilizio
rilasciato dall’autorità competente (ovvero di allegazione
della domanda di sanatoria corredata della prova
dell’avvenuto pagamento degli importi dovuti) determina
l’impossibilità, anche per il giudice, come per il notaio,
di pronunciare una sentenza traslativa dell’immobile ex art.
2932 c.c. (Corte
di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 15.10.2013 n.
23339 - tratto
da Urbanistica e appalti n. 12/2013). |
APPALTI:
ASSENZA DI FORMA SCRITTA NEI CONTRATTI DELLA PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE.
Il riconoscimento di debiti fuori
bilancio se da un lato consente di far salvi gli impegni di
spesa in precedenza assunti senza copertura contabile, per
altro verso non innova la disciplina che regolamenta la
conclusione dei contratti da parte della p.a., né introduce
una sanatoria per i contratti eventualmente nulli o comunque
invalidi, come quelli conclusi in assenza di forma scritta
ad substantiam per i contratti conclusi iure privatorum
dalla p.a..
Sorge questione tra un ente locale e un appaltatore per il
pagamento di un importo dovuto per forniture di merce,
oggetto di riconoscimento in debito fuori bilancio.
Il Tribunale e la Corte d’Appello rigettarono la domanda
dell’appaltatore sul rilievo che i contratti di fornitura
erano nulli perché privi di forma scritta, necessaria per
ogni contratto della p.a. ed ancora osservando che le
delibere ricognitive del debito fuori bilancio non potessero
considerarsi ricognitive del debito, in quanto non portate a
conoscenza del creditore.
La questione approda in Cassazione, che conferma le
statuizioni di merito, seppur integrando la motivazione
della pronuncia d’appello.
In particolare, merita di essere segnalato come la
Cassazione abbia affermato che il riconoscimento, da parte
degli enti locali di debiti fuori bilancio (ex art. 24 del
D.L. 02.03.1989 n. 66, convertito con modificazioni in L.
24.04.1989 n. 144, nonché dell’art. 12-bis del D.L.
12.01.1991 n. 6, convertito con modificazioni in L.
15.03.1991 n. 80) se da un lato consente di far salvi gli
impegni di spesa in precedenza assunti senza copertura
contabile, per altro verso non innova la disciplina che
regolamenta la conclusione dei contratti da parte della
p.a., né introduce una sanatoria per i contratti
eventualmente nulli o comunque invalidi, come quelli
conclusi in assenza di forma scritta ad substantiam
per i contratti conclusi iure privatorum dalla p.a.
Tale riconoscimento di debito fuori bilancio, quindi,
presuppone l’esistenza di un’obbligazione validamente
assunta dall’ente locale, pur se in assenza di copertura
finanziaria, ma non può costituire fonte di obbligazione
(cfr. Cass. n. 9412/2011; id. n. 2489/2007; id. n.
11021/2005; id. n. 26826/2006).
In altri termini, la procedura di riconoscimento dei debiti
fuori bilancio sana la nullità conseguente alla mancata
indicazione della copertura finanziaria ed ha cioè l’effetto
contabile di rendere possibile il pagamento, ma non vale a
sanare altre cause di nullità, né in particolare quella
derivante dalla mancata attribuzione dell’incarico in forma
scritta (Cass. civ. n. 7966/2008, id., n. 27406/2008) (Corte
di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 04.10.2013 n.
22754 - tratto
da Urbanistica e appalti n. 12/2013). |
TRIBUTI:
La tassa sui rifiuti è sempre dovuta.
In tema di Tarsu-Tia, lo smaltimento dei rifiuti ordinari in
maniera autonoma, a proprie spese, insieme a quelli
speciali, non esonera l'azienda dal pagamento della tassa
comunale. L'obbligo di versamento scatta comunque, al di là
del fatto che si utilizzi il servizio pubblico o meno.
Sono le conclusioni che si leggono nella
sentenza
27.09.2013 n.
89/22/13 emessa dalla Sez. XXII della Ctr Lombardia.
Nella sentenza menzionata, il collegio regionale lombardo
capovolge la decisione dei colleghi di prima istanza della
Ctp di Milano, che avevano annullato la pretesa del comune
di Varedo, e stabilisce che la tassa sui rifiuti è comunque
dovuta, indipendentemente dall'utilizzo del servizio
pubblico.
«In tema di autosmaltimento», osservano i giudici meneghini,
«il costo relativo alla gestione dei rifiuti solidi urbani e
di quelli assimilabili grava sui cittadini indipendentemente
dal fatto che si utilizzi il servizio medesimo».
Infatti, la Commissione precisa che il tributo è rapportato
unicamente alla superficie occupata a qualsiasi uso
destinata; solo per i rifiuti speciali, tossici, pericolosi
o nocivi, il produttore è obbligato allo smaltimento in
proprio, con l'esonero dal tributo, ferma restando la
tassazione sui rifiuti ordinari.
La legittimità della richiesta è suffragata dal fatto che il
comune si sia attenuto alle superfici dichiarate dalla
società, sulla base della denuncia dalla stessa prodotta.
Nel caso specifico, anche gli imballaggi sono stati
ricondotti dal comune alla categoria dei rifiuti speciali
non pericolosi e pertanto assimilabili agli urbani (articolo ItaliaOggi
Sette del 24.02.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ORDINE DI DEMOLIZIONE ‘‘SOPRAVVIVE’’ AL
PROVVEDIMENTO DI ACQUISIZIONE GRATUITA AL PATRIMONIO
COMUNALE IN MANCANZA DI DECISIONI COMUNALI INCOMPATIBILI.
L’acquisizione del bene al patrimonio
comunale, conseguente all’inerzia del privato rispetto
all’ingiunzione di demolizione delle opere, non fa venire
meno l’efficacia dell’ordine impartito dal giudice penale e,
avuto riguardo al D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 31, comma
9, tale ordine deve essere eseguito ove non siano assunte da
parte delle autorità comunali decisioni che, prevalendo un
interesse pubblico diverso, risultino incompatibili con
l’ordine di demolizione e impongano di revocarlo.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della
Suprema Corte verte, ancora una volta, sul tema dell’ordine
di demolizione del manufatto abusivo impartito dal giudice
con la sentenza di condanna irrevocabile, stavolta riferito
alla questione della sua ‘‘sopravvivenza’’ nel caso
in cui intervenga, medio tempore, un provvedimento di
acquisizione gratuita al patrimonio comunale.
La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza con cui
il Tribunale, quale giudice dell’esecuzione, aveva respinto
la richiesta di revoca dell’ordine di demolizione contenuto
nella sentenza di condanna irrevocabile per il reato
previsto dal D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44. Avverso
tale decisione proponeva ricorso il condannato, in sintesi
lamentando l’errata applicazione di legge ex art. 606, lett.
b), c.p.p., per avere il Tribunale omesso di considerare che
l’avvenuta acquisizione del bene al patrimonio comunale
inibisce l’esecuzione dell’ordine demolitorio impartito in
sede penale, risultando prevalenti gli interessi pubblici e
potendosi procedere alla demolizione solo in presenza di una
palese rinuncia dell’ente territoriale a far valere le
proprie prerogative.
La tesi non ha però convinto i Supremi giudici, che,
nell’affermare l’importante principio di cui in massima,
hanno dichiarato inammissibile il ricorso, così richiamando
una giurisprudenza di legittimità già da tempo esistente sul
tema secondo cui l’ordine di demolizione delle opere abusive
risponde alla finalità di ripristinare la legalità violata e
di rimuovere gli effetti negativi della violazione rispetto
ai beni tutelati dalla norma penale (Cass. pen., sez. III,
23.01.2007, n. 1904, in CED Cass., n. 235645).
Contrariamente a quanto esposto in ricorso, dunque, secondo
la Cassazione, non si ravvisavano in atti determinazioni
dell’ente pubblico che individuassero per il bene
destinazioni specifiche sorrette da pubblico e prevalente
interesse, con la conseguenza che non vi era alcuna ragione
per annullare il provvedimento impugnato (Corte
di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.09.2013 n.
39115 - tratto
da Urbanistica e appalti n. 12/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
ACQUISIZIONE GRATUITA AL PATRIMONIO COMUNALE ED
IDENTIFICAZIONE DELL’AVENTE DIRITTO ALLA RESTITUZIONE
DELL’OPERA SEQUESTRATA.
In materia edilizia, qualora debba
procedersi alla restituzione di un manufatto abusivo per il
venire meno dell’efficacia del sequestro (probatorio o
preventivo), dovendo la restituzione essere effettuata a
favore di chi ‘‘ne abbia il diritto’’, è necessario
accertare se si sia verificata l’acquisizione del bene al
patrimonio del Comune, quale effetto di diritto
dell’inottemperanza, nel termine di giorni 90 dalla
notificazione, all’ingiunzione a demolire emessa dal
dirigente o responsabile del competente ufficio tecnico ai
sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 31 (già L. n. 47 del
1985, art. 7).
Il tema oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte
con la sentenza in esame è quello relativo alla corretta
individuazione del soggetto avente diritto alla restituzione
dell’immobile abusivamente sequestrato nel caso in cui si
accerti che si sia verificata l’acquisizione gratuita
dell’immobile al patrimonio comunale.
La vicenda processuale segue alla sentenza con cui il
Tribunale dichiarava non doversi procedere nei confronti di
S.R., in relazione ad abusi edilizi, per intervenuta
prescrizione dei reati contestati. La difesa del S.,
successivamente, avanzava specifica istanza rivolta ad
ottenere la restituzione del manufatto oggetto del
procedimento, previa declaratoria di inefficacia del
sequestro probatorio a suo tempo adottato ed il Tribunale
disponeva la restituzione dell’immobile in favore
dell’amministrazione comunale, tenuto conto
dell’inottemperanza all’ordine comunale di demolizione.
Lo stesso Tribunale, poi, quale giudice dell’esecuzione, con
ordinanza rigettava l’opposizione proposta dall’interessato
ai sensi dell’art. 667 c.p.p., comma 4, rilevando che le
motivazioni addotte a sostegno della stessa attenevano
esclusivamente al merito della vicenda ormai coperto dal
giudicato. Avverso tale ordinanza hanno proposto ricorso per
cassazione i difensori del S., i quali hanno eccepito, per
quanto di interesse in questa sede, la illegittimità del
provvedimento del Tribunale «che non avrebbe potuto
ordinare la demolizione del manufatto abusivo, riparando
alla omissione intervenuta in sede di cognizione, perché
tale attività non rientra tra le competenze specifiche e
tassativamente individuate del giudice dell’esecuzione».
La Corte ha ritenuto infondato il ricorso e, nell’affermare
il principio di cui in massima, ha ricordato che tutte le
volte in cui l’amministrazione comunale abbia ingiunto la
demolizione e questa non sia stata eseguita dal responsabile
dell’abuso nel termine di 90 giorni dalla notifica,
l’acquisizione avviene a titolo originario ed ‘‘ope legis’’,
per il solo decorso del tempo, con il conseguente carattere
meramente dichiarativo del successivo provvedimento
amministrativo, che è atto dovuto, privo di qualsiasi
contenuto discrezionale.
Ove venga accertata l’intervenuta acquisizione,
conseguentemente, il manufatto abusivo va restituito non già
al privato committente, quand’anche egli sia ancora in
possesso del bene, bensì all’ente comunale ormai divenuto
proprietario a tutti gli effetti e titolare dello ius
possidendi (Cass. pen., sez. III, 01.12.1995, n. 3572,
in CED Cass., n. 203107) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.09.2013 n.
39109 - tratto
da Urbanistica e appalti n. 12/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
IL REATO DI MANCANZA DEL CERTIFICATO DI COLLAUDO HA NATURA
GIURIDICA DI REATO PERMANENTE A CONDOTTA MISTA.
Il reato di cui al D.P.R. n. 380 del
2001, art. 75 (mancanza del certificato di collaudo) è un
reato permanente a condotta mista, comprendendo un aspetto
commissivo (utilizzazione delle opere edilizie) ed un
aspetto omissivo (mancanza del certificato di collaudo); ne
consegue che il colpevole può far cessare l’offesa agli
interessi urbanistici e di incolumità pubblica tutelati
dalla norma penale con la condotta simmetricamente opposta a
quella a costitutivo del reato, e cioè dismettendo
l’utilizzazione dell’immobile ovvero ottenendo il
certificato di collaudo.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della
Suprema Corte verte, ancora una volta, sul tema dell’ordine
di demolizione del manufatto abusivo impartito dal giudice
con la sentenza di condanna irrevocabile, stavolta riferito
alla questione della sua ‘‘sopravvivenza’’ nel caso
in cui intervenga, medio tempore, un provvedimento di
acquisizione gratuita al patrimonio comunale.
La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza con cui
il Tribunale, quale giudice dell’esecuzione, aveva respinto
la richiesta di revoca dell’ordine di demolizione contenuto
nella sentenza di condanna irrevocabile per il reato
previsto dal D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44. Avverso
tale decisione proponeva ricorso il condannato, in sintesi
lamentando l’errata applicazione di legge ex art. 606, lett.
b), c.p.p., per avere il Tribunale omesso di considerare che
l’avvenuta acquisizione del bene al patrimonio comunale
inibisce l’esecuzione dell’ordine demolitorio impartito in
sede penale, risultando prevalenti gli interessi pubblici e
potendosi procedere alla demolizione solo in presenza di una
palese rinuncia dell’ente territoriale a far valere le
proprie prerogative.
La tesi non ha però convinto i Supremi giudici, che,
nell’affermare l’importante principio di cui in massima,
hanno dichiarato inammissibile il ricorso, così richiamando
una giurisprudenza di legittimità già da tempo esistente sul
tema secondo cui l’ordine di demolizione delle opere abusive
risponde alla finalità di ripristinare la legalità violata e
di rimuovere gli effetti negativi della violazione rispetto
ai beni tutelati dalla norma penale (Cass. pen., sez. III,
23.01.2007, n. 1904, in CED Cass., n. 235645).
Contrariamente a quanto esposto in ricorso, dunque, secondo
la Cassazione, non si ravvisavano in atti determinazioni
dell’ente pubblico che individuassero per il bene
destinazioni specifiche sorrette da pubblico e prevalente
interesse, con la conseguenza che non vi era alcuna ragione
per annullare il provvedimento impugnato (Corte
di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.09.2013 n.
39090 - tratto
da Urbanistica e appalti n. 12/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
NECESSARIO IL PERMESSO DI COSTRUIRE IN CASO DI VARIANTI
ESSENZIALI.
Rispetto alle figure delle cd.
‘‘varianti leggere o minori’’ (assoggettate alla mera
denuncia di inizio dell’attività da presentarsi prima della
dichiarazione di ultimazione dei lavori) e delle ‘‘varianti
in senso proprio’’ (le quali, in relazione alla loro
caratteristica intrinseca necessitano del rilascio del cd.
‘‘permesso in variante’’, complementare ed accessorio
rispetto all’originario permesso a costruire), le cd.
‘‘varianti essenziali’’ sono caratterizzate da
incompatibilità quali-quantitativa con il progetto
edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dal
D.P.R. n. 380 del 2001, art. 32 e sono soggette al rilascio
di un permesso a costruire nuovo ed autonomo rispetto a
quello originario, in osservanza delle disposizioni vigenti
al momento di realizzazione della variante.
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza
in esame attiene all’individuazione del titolo abilitativo
necessario in caso di varianti cosiddette essenziali al
progetto approvato.
La vicenda processuale segue alla sentenza della Corte di
Appello che, per quanto qui rileva, in parziale riforma
della sentenza del Tribunale pronunciata nei confronti di
B.C. e F.S. (soggetti imputati dei reati di cui al D.P.R. n.
380 del 2001, art. 44, lett. c), e D.Lgs. n. 42 del 2004,
art. 181-bis), revocava -per quanto qui d’interesse- il
concesso beneficio ad entrambi della sospensione
condizionale della pena, che dichiarava interamente
condonata e concedeva il beneficio della non menzione della
condanna, confermando, nel resto, la sentenza impugnata con
la quale i due imputati erano stati condannati per i detti
reati alla pena di mesi cinque e giorni dieci di reclusione
ciascuno.
Avverso la detta sentenza proponevano ricorso per cassazione
entrambi gli imputati a mezzo del loro difensore di fiducia
deducendo, con un unico, articolato, motivo, violazione di
legge sub specie di erronea applicazione della legge penale
con riferimento alla violazione edilizia contestata al capo
a), per avere escluso che le opere edilizie eseguite sul
preesistente immobile (consistenti in alcune variazioni
essenziali rispetto al progetto approvato comportanti
aumenti di superfici utile e di volumi e la realizzazione di
alcune ‘‘bucature’’ nella parti esterne
dell’edificio) integrassero un intervento manutentivo di
carattere straordinario come, invece, prospettato con l’atto
di impugnazione.
La tesi difensiva è stata ritenuta infondata dagli Ermellini
che, sul punto, nell’affermare il principio di cui in
massima, hanno osservato come la nozione di variazione
essenziale dal permesso di costruire, di cui al menzionato
D.P.R. n. 380 del 2001, art. 32, costituisce una tipologia
di abuso intermedia tra la difformità totale e quella
parziale, di regola sanzionata, dal cit. D.P.R., art. 44,
lett. a), tranne che non si versi in una delle ipotesi
disciplinate dall’art. 32, comma 3, al di fuori delle
ipotesi di cui all’art. 32, comma 3, T.U. edilizia (Cass.
pen., sez. III, 22.10.2012, n. 41167, in CED Cass., n.
253599).
Ciò precisato, nel caso in esame, hanno osservato i giudici
di legittimità, alcune delle varianti apportate al
preesistente manufatto rientravano certamente nel novero
delle varianti essenziali in quanto della sagoma, altezza,
volume e superficie dell’edificio, tanto da escludersi
l’ipotesi di un intervento di tipo manutentivo di minima
rilevanza (Corte
di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.09.2013 n.
39049 - tratto
da Urbanistica e appalti n. 12/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
LA DONAZIONE DEL MANUFATTO ABUSIVO NON NE BLOCCA LA
DEMOLIZIONE.
Al fine di escludere l’esecuzione della
demolizione, nessun rilievo può attribuirsi all’atto di
donazione in favore di un terzo stipulato in epoca
successiva alla condanna, ciò in quanto il donatario riceve
il bene nelle condizioni giuridiche e gravato dai vincoli
che al momento del perfezionamento dell’atto insistono sul
bene per le condotte del donante; ne consegue che è
nell’ambito dei rapporti fra donante e donatario che
potranno essere fatti valere eventuali danni ed eventuali
pretese dei privati, non sussistendo alcuna preclusione a
che il donante debba dare corso all’obbligo impostogli
dall’autorità giudiziaria anteriormente all’atto di
liberalità, obbligo che continua a gravare su di lui anche
nella ipotesi che il bene sia stato acquisito da altro
soggetto.
La Corte di Cassazione si sofferma, con la sentenza in
esame, ad analizzare una interessante questione giuridica
afferente alle possibili conseguenze, in senso ostativo,
derivanti da un atto di liberalità eseguito a favore di un
terzo, ma avente ad oggetto un immobile soggetto ad ordine
di demolizione.
La vicenda processuale trae origine da un’ordinanza del
Tribunale di rigetto di un’istanza di revoca o sospensione
dell’ordine di demolizione emesso dal pubblico ministero al
fine di dare esecuzione a quanto disposto con una sentenza
del medesimo Tribunale, divenuta irrevocabile. Avverso tale
decisione il condannato proponeva ricorso per cassazione,
censurandola, per quanto qui d’interesse, per l’errata
applicazione di legge ai sensi dell’art. 606, lett. b),
c.p.p. per essere stata disposta le demolizione di un
manufatto non più nella disponibilità del ricorrente, che ne
aveva fatto donazione al figlio.
La tesi è stata respinta dalla Corte di Cassazione che, sul
punto, nell’affermare il principio di cui in massima, ha per
la prima volta risolto una questione nuova, facendo,
tuttavia, coerente applicazione di un principio
giurisprudenziale secondo cui l’obbligo di eseguire la
demolizione permane in capo al condannato, ad esempio, anche
successivamente all’acquisizione del bene al patrimonio
comunale (si veda per tutte: Cass. pen., sez. III,
23.01.2007, n. 1904, in CED Cass., n. 235645) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.09.2013 n.
38941 -
tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
PER LA REALIZZAZIONE DI UN PIAZZALE SEMPRE NECESSARIO IL
PERMESSO DI COSTRUIRE.
Il D.P.R. n. 380 del 2001 (art. 3, comma
1, lett. e) assoggetta a permesso di costruire non soltanto
le attività di edificazione, ma anche altre attività che,
pur non integrando interventi edilizi in senso stretto,
comportano comunque una modificazione permanente dello stato
materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad
un impiego diverso da quello che gli è proprio in relazione
alla sua condizione naturale ed alla sua qualificazione
giuridica; ne consegue che per la realizzazione di un
piazzale in luogo di una strada carrabile è sempre
necessario il permesso di costruire, trattandosi di
intervento edilizio determinante una modifica, in maniera
definitiva, dell’assetto territoriale.
La Corte di Cassazione si pronuncia con la sentenza in esame
sul tema della individuazione del titolo abilitativo
necessario per l’esecuzione di interventi edilizi che, pur
non potendosi qualificare come tali stricto sensu
intesi, comportino pur sempre una trasformazione
irreversibile del territorio.
La vicenda processuale segue all’ordinanza con cui il
Tribunale rigettava la richiesta di riesame, proposta
nell’interesse di Z.C., avverso il decreto di sequestro
preventivo, emesso dal GIP del Tribunale, di un piazzale,
ipotizzandosi il reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001,
art. 44. Rilevava il Tribunale che, in luogo della strada
carrabile (era stata prevista una lunghezza di m. 67 ed una
larghezza di m. 6) era stato realizzato un piazzale di m. 26
X 65,00, con conseguente modifica, in maniera definitiva,
dell’assetto territoriale, per cui era necessario permesso
di costruire.
Ricorreva per Cassazione Z.C., a mezzo del difensore,
denunciando la violazione di legge in relazione al D.P.R. n.
380 del 2001, artt. 23 e 44; in particolare, sottolineava
come la lunghezza della strada sarebbe rimasta la stessa,
mentre, trattandosi di terreno acquitrinoso, sarebbe stato
depositato del brecciolino per il drenaggio senza che ciò
avesse determinato la realizzazione di un piazzale.
In altri termini, secondo la difesa, la collocazione del
brecciolino non può certo considerarsi una stabile
trasformazione del territorio, né tanto meno può parlarsi di
ampliamento della strada; essendo l’intervento realizzabile
con semplice DIA, non sussisterebbe il fumus del
reato contestato.
La tesi non ha però convinto gli Ermellini che, sul punto,
nell’affermare il principio di cui in massima, hanno
confermato l’orientamento giurisprudenziale, ormai
consolidato, il quale ritiene necessario il permesso di
costruire, ad esempio, per la realizzazione di un’area
attrezzata per il rimessaggio ed il deposito di veicoli
(Cass. pen., sez. III, 10.07.2009, n. 28457, in CED Cass.,
n. 244569) oppure per l’ampliamento di un piazzale per uso
industriale (Cass. pen., sez. III, 15.07.2005, n. 26139, in
CED Cass., n. 231933).
Inoltre, secondo costante giurisprudenza della Cassazione,
anche la realizzazione di strade e piste è soggetta a
permesso di costruire, senza alcuna distinzione riguardo
alle caratteristiche costruttive, dimensioni e finalità,
ritenendosi sempre necessario il titolo abilitativo anche
per l’esecuzione di strade o piste sterrate (Cass. pen.,
sez. III, 14.07.2004, n. 30594, in CED Cass., n. 230152) o
realizzate su un preesistente tracciato (Cass. pen., sez.
III, 02.07.1994, n. 7556, in CED Cass., n. 198386) e ciò in
quanto trattasi di opere che consentono ed incrementano il
traffico veicolare, determinando una trasformazione
urbanistica del territorio (Cass. pen., sez.
III, 04.08.1999, n. 9912, in CED Cass., n. 214343) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.09.2013 n.
38933 - tratto
da Urbanistica e appalti n. 12/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
INTERVENTO CONSERVATIVO O DI RISANAMENTO EDILIZIO, NOZIONE E
LIMITI.
Un intervento edilizio non può essere
qualificato come ‘‘meramente conservativo’’ o ‘‘di
risanamento’’ del fabbricato quando sia variata la copertura
del tetto a falda in terrazza praticabile con elevazione
della quota di gronda e abbassamento del colmo.
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Ove occorra stabilire le distanze legali tra costruzioni
sporgenti dal suolo, e i regolamenti edilizi dettano i
criteri per la misurazione delle altezze dei fabbricati
frontistanti, queste devono essere determinate con
riferimento al piano di posa, che è quello dell’originario
piano di campagna e non la quota di terreno sistemato.
La sentenza risolve una controversia nata come azione di
nunciazione ex artt. 1170 e 1171 c.c. promossa dai
proprietari di un terreno con retrostante fabbricato,
confinante con un immobile i cui titolari, dietro rilascio
di concessione edilizia, eseguivano lavori di risanamento.
La concessione autorizzava, tra l’altro, la modifica del
tetto a terrazzo del corpo sporgente, con realizzazione di
un rialzo della quota di gronda e il conseguente aumento di
altezza e volume, in ragione del quale gli attori deducevano
la violazione delle distanze tra costruzioni. Ancora, era
dedotta la circostanza che i box autorizzati non erano
completamente interrati, anzi in parte rialzati rispetto al
piano di campagna originario, così costituendo in parte qua
‘‘volume’’ lesivo, esso pure, della distanza legali
tra fabbricati.
Gli attori deducevano altresì che nell’esecuzione delle
opere fossero stati realizzati alcuni corpi sporgenti in
cemento armato, essi pure in violazione delle distanze
legali; l’innalzamento del piano di calpestio con
realizzazione di una soletta in cemento armato anche al di
fuori del perimetro del fabbricato e, in ultimo, la modifica
e l’apertura di finestre su tutti i prospetti.
I resistenti -eccepita in rito l’improcedibilità del rimedio
nunciatorio per intervenuta conclusione delle lavorazioni-
deducevano, nel merito, l’ottenimento di autorizzazione in
sanatoria per le opere de quibus, non lesiva dei
diritti dei terzi perché conformi alla previsione dell’art.
873 c.c. Le domande erano respinte in primo grado dal
Tribunale.
Avanti la Corte d’Appello, il gravame era proposto
deducendosi, tra l’altro, che per la vigente disciplina
normativa urbanistica le distanze minime sono di metri 1,5
dai confini i e metri 3 dalle costruzioni. La Corte
territoriale riformava la sentenza di primo grado e
condannava gli appellati alla demolizione e, in altra parte,
all’arretramento (fino al rispetto della distanza di metri
12 dal fabbricato degli appellanti).
E` proposto ricorso per la cassazione, che la Corte
respinge.
Il Giudice nomofilattico non condivide la prospettata
violazione dell’art. 873 c.c. ad opera della sentenza
d’appello che è condivisa nell’avere ritenuto applicabile al
caso in esame le norme del PRG denunciate che, fra l’altro,
prevedono una distanza di metri 6 dal confine e di metri 12
tra fabbricati.
La Corte evidenzia che quanto realizzato non erano opere di
restauro o risanamento conservativo del fabbricato né
integravano gli estremi d’interventi di minima consistenza
e, ancora, che i box realizzati non erano completamente
interrati, sicché andava correttamente applicato -come
giustamente fatto dalla Corte di merito- la normativa
edilizia comunale giusta quale doveva intercorrere una
distanza di metri 6 dal confine e di metri 12 tra fabbricati
Del resto, osserva la Corte, è stato chiarito in grado
d’appello che le opere non integravano gli estremi di un
mero intervento conservativo o di risanamento del fabbricato
oggetto di controversia, perché si era trasformata, su di un
lato, la copertura del tetto a falda divenuto una terrazza
praticabile e che, a tal fine, la quota di gronda era stata
elevata di mt. 0,60 (non di 0,30) con abbassamento del colmo
in pari misura.
Ancora, era stato correttamente appurato in sede di merito
che i due corpi di box emergevano, per poco meno di un
metro, rispetto all’originario piano di campagna. Tale
fuoriuscita non può ritenersi lecita perché costituisce
violazione delle distanze legali, in quanto i corpi dei box
costituiscono costruzioni di altezza più che apprezzabile
rispetto all’originario piano di campagna.
Né poteva assumere rilevanza che il colmo di tale
costruzione si trovasse a livello dei marciapiedi delle
attigue vie pubbliche, laddove -avuto riguardo
all’interesse dei confinanti e controparti processuali-
rilevava la presenza di costruzioni prima inesistenti che
ora raggiungevano una quota nettamente più alta rispetto a
quella del terreno circostante all’immobile dei confinanti
medesimi.
D’altro canto, la Cassazione qui ricorda propri precedenti
(Cass. civ. 17.03.2006, n. 6058) secondo cui allorché
occorre stabilire le distanze legali tra costruzioni
sporgenti dal suolo, i regolamenti edilizi dettano i criteri
per la misurazione delle altezze dei fabbricati frontistanti,
queste devono essere determinate con riferimento al piano di
posa, che è quello dell’originario piano di campagna e non
la quota di terreno sistemato (Corte
di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 11.09.2013 n.
20851 - tratto
da Urbanistica e appalti n. 11/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
DIFFERENZE FRA VIOLAZIONE DI NORME IN MATERIA
DI DISTANZE E DI NORME URBANISTICHE.
La realizzazione di opere edilizie abusive
è fonte di responsabilità
risarcitoria verso il proprietario del fondo limitrofo
sia per il deprezzamento commerciale del bene,
sia per la limitazione del suo godimento in termini di
amenità.
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Va fatta distinzione tra violazioni in materia di distanze
e altre violazioni della normativa urbanistica, affermando
che la realizzazione di opere in violazione di norme
recepite negli strumenti urbanistici locali (diverse da
quelle in materia di distanze) non comporta un immediato
e contestuale danno per i vicini, il cui diritto al
risarcimento
presuppone l’accertamento di un nesso causale
tra la violazione contestata e l’effettivo pregiudizio
subito; la prova di tale pregiudizio deve essere fornita
dall’interessato in modo preciso con riferimento alla
sussistenza del danno ed all’entità dello stesso.
---------------
Il diritto a conservare la gradevolezza dell’abitare del
proprietario nella sua casa non si arresta a ciò che si
trova
all’interno della stessa, ma si espande a tutto il luogo
circostante la cui amenità , può essere compromessa
dalla realizzazione, da parte del vicino, di un manufatto
difforme da quanto consentito dalla normativa urbanistica.
La controversia concerne l’esecuzione di opere edili su
terreno confinante, in totale difformità della concessione
edilizia
e in violazione della destinazione urbanistica a verde
agricolo.
La Corte territoriale accoglie la domanda risarcitoria
avanzata
dal proprietario del fondo finitimo, peraltro misura ridotta
rispetto
all’originaria portata, di contro, respingendo la tesi
dell’autore dell’edificazione abusiva, secondo il quale era
l’immobile delle controparti a essere illegittimo. Osserva
la
Corte d’Appello, a tale ultimo proposito, che le norme
tecniche
del locale strumento urbanistico consentivano, in
quell’area,
la costruzione di fabbricati residenziali concentrati in
piccolo nucleo.
Di contro, contrastava con le prescrizioni
urbanistiche
la costruzione realizzata dall’originario convenuto,
costituita da un capannone destinato a centro commerciale
per l’edilizia, appunto distonico con la destinazione
urbanistica
agricola dell’area che con gli standard urbanistici vigenti,
che consentivano una costruzione del volume complessivo
di 219 metri cubi, a fronte dei 10.242 metri cubi
realizzati. Significativamente,
la Corte di merito osserva che la realizzazione
di opere in violazione di norme di edilizia o di tutela
ambientale è fonte di responsabilità risarcitoria tanto in
relazione
al minore valore del bene quanto in relazione alla lesione
dei godimento del bene in termini di diminuzione di amenità
e comodità.
La Cassazione -nel rigettare il ricorso proposto
dall’originario
convenuto- afferma in limine alle doglianze da questi
reiterate,
per le quali il danno era, di contro, subito dallo stesso a
causa dell’assunta abusività dell’immobile delle originarie
attrici
(per vero, sanata da tempo) che è pur vero che sussiste
giurisprudenza della stessa Cassazione per la quale il danno
subito da un immobile costruito abusivamente «ancor prima
che ingiusto, è inesistente, in quanto il bene abusivo non
è
suscettibile di essere scambiato sul mercato» (Cass. civ. 21.02.2011, n. 4206), ma si tratta d’insegnamenti che -pur riferiti a contenziosi relativi a pretese di indennizzi
in materia
espropriativa (Cass. 14.12.2007, n. 26260)- ben
potrebbero essere calati nella realtà di una controversia
fra
privati, laddove sorgano questioni risarcitorie, a
condizione,
come di contro qui si è verificato, che l’immobile della
parte
attrice ‘‘abusivo’’ non è.
Infatti, l’immobile era stato
oggetto
di sanatoria, quindi da ritenersi conforme alle norme
urbanistiche
e, in quanto tale, destinatario di un danno meritevole
di risarcimento. Un immobile sanato non è più
caratterizzato
da quell’incommerciabilità propria degli immobili abusivi,
né
l’originaria abusività, ormai non più sussistente,
potrebbe
pregiudicare il diritto al risarcimento per il diminuito
valore
commerciale.
Ancora, la Cassazione rimarca (con riferimento all’immobile
delle originarie attrici, resistenti in Cassazione) che le
concessioni
edilizie e quelle in sanatoria sono provvedimenti
amministrativi non tecnicamente equipollenti al condono, il
quale -a differenza della sanatoria- rende possibile
sanare
anche interventi non permessi dalla normativa vigente.
In diritto, la Corte richiama la propria costante
giurisprudenza
per la quale la realizzazione di opere in violazione di
norme edilizie è fonte di responsabilità risarcitoria
verso il
proprietario del fondo limitrofo sia per il deprezzamento
commerciale del bene, sia per la limitazione del suo
godimento
in termini di amenità. Ciò è conforme alla giurisprudenza
della Corte che opera una distinzione tra violazioni
in materia di distanze e altre violazioni della normativa
urbanistica,
affermando che la realizzazione di opere in violazione
di norme recepite negli strumenti urbanistici locali
(diverse da quelle in materia di distanze) non comporta un
immediato e contestuale danno per i vicini il cui diritto al
risarcimento
presuppone l’accertamento di un nesso causale
tra la violazione contestata e l’effettivo pregiudizio
subito;
la prova di tale pregiudizio deve essere fornita
dall’interessato
in modo preciso con riferimento alla sussistenza
del danno ed all’entità dello stesso (in termini, Cass.
civ.,
23.02.1999, n. 1513; Cass. civ., 12.06.2001, n.
7909; Cass. civ., 07.03.2002, n. 3341; Cass. civ., 01.12.2010, n. 24387; Cass. Civ., 27.03.2013, n.
7752).
Il diritto a conservare la gradevolezza dell’abitare del
proprietario
nella sua casa non si arresta a ciò che si trova
all’interno
della stessa, ma si espande a tutto il luogo circostante la
cui amenità, secondo la valutazione di merito della Corte,
è
stata compromessa dalla realizzazione, da parte del vicino
di
un capannone di dimensioni esorbitanti rispetto a quanto
consentito dalla normativa urbanistica (Corte
di
Cassazione, Sez. II civile, sentenza 11.09.2013 n. 20849
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 11/2013). |
EDILIZIA PRIVATA: No all'autolavaggio troppo vicino al cimitero.
Non si disturba il sonno, anche quello eterno. Stop
all'autolavaggio self service da realizzare a ridosso del
cimitero: ha ragione il comune a negare la concessione
edilizia all'imprenditore laddove il manufatto risulterebbe
troppo ingombrante nella fascia di rispetto di duecento
metri prevista dalla legge.
Lo stabilisce il TAR Veneto, Sez. II, con
la
sentenza
08.07.2013 n. 932.
Deve
essere rilevato un vincolo di inedificabilità assoluta sul
terreno che il proprietario intendeva mettere a reddito con
un sistema telematico in grado di gestire il tunnel con gli
spazzoloni senza l'aiuto di personale. Il punto è che
l'impianto comincia a essere un manufatto di una certa
importanza fra tettoie e casotti a ridosso del muro di cinta
del cimitero e, peraltro, pregiudica l'eventuale espansione
dell'area destinata all'estrema dimora dei concittadini.
La
fascia di rispetto prevista dalla legge di rispetto nei
dintorni del camposanto serve senz'altro a tutelare la
sacralità dei luoghi destinati alla sepoltura ma, ricordano
i giudici, anche a garantire una serie di esigenze di natura
igienico-sanitarie.
Non si salva dalla bocciatura il progetto presentato
dall'imprenditore anche se l'impianto è costituito da
strutture amovibili come gli spazzoloni e il box tunnel e
risulta del tutto automatizzato perché anche il pagamento
degli utenti viene gestito per via telematica: è infatti
ritenuto legittimo il diniego opposto dal dirigente comunale
all'istanza di concessione edilizia, motivato sul rilievo
che l'intervento ricade nel vincolo cimiteriale previsto
dall'articolo 338 del rd 1265/1934 che vieta la costruzione
di qualsiasi fabbricato e contrasta con l'articolo 22 delle
norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale
il quale prevede che nelle zone F2 («fascia di rispetto»)
non può essere consentito alcun tipo di costruzione o di
intervento che non siano strettamente relativi alle
infrastrutture protette.
Sul «no» all'autorizzazione all'impianto pesano le diverse
strutture prefabbricate previste dal progetto. Risultato:
niente autolavaggio, ma l'imprenditore evita almeno il
pagamento delle spese di giudizio per la peculiarità della
controversia (articolo ItaliaOggi del
27.02.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Eventuali
divieti assoluti di edificazione nelle aree agricole
richiedono una specifica e particolare motivazione, in
quanto le stesse ledono la legittima aspettativa
dell’imprenditore agricolo allo sviluppo della propria
attività.
La legislazione regionale sull’edificazione nelle aree
agricole (articoli da 59 a 62 della legge regionale 12/2005,
che ricalcano l’abrogata legge regionale 93/1980), é
ispirata da una duplice finalità: da una parte la
preservazione delle aree agricole e dei valori che le stesse
rappresentano nell’economia e nella società lombarda,
dall’altra la salvaguardia e lo sviluppo delle imprese
agricole, per un concreto sostegno di tale settore
economico.
Così l’art. 59, comma 1°, della LR 12/2005, consente nelle
aree agricole la realizzazione delle attrezzature e delle
infrastrutture necessarie all’attività di cui all’art. 2135
del codice civile (vale a dire l’attività di imprenditore
agricolo), fra le quali –l’indicazione è solo
esemplificativa– stalle, silos, serre, magazzini e locali
per la lavorazione, conservazioni e vendita dei prodotti
agricoli.
E’ ammessa anche l’edificazione di abitazioni per
l’imprenditore, nel rispetto dei limiti massimi di densità
fondiaria previsti dal comma 3° dell’art. 59 citato.
Tenuto conto che le norme legislative di cui sopra sono
immediatamente prevalenti sulle contrastanti disposizioni
del PGT (così espressamente, l’art. 61 della LR 12/2005), la
giurisprudenza del TAR Lombardia ha da tempo stabilito che
eventuali divieti assoluti di edificazione nelle aree
agricole richiedono una specifica e particolare motivazione,
in quanto le stesse ledono la legittima aspettativa
dell’imprenditore agricolo allo sviluppo della propria
attività (cfr. TAR Lombardia, Brescia, 27.06.2005, n. 674;
TAR Lombardia, Milano, sez. II, 29.09.2009 n. 4749 e
08.01.2010, n. 3, dove si specifica che la potestà
pianificatoria comunale in area agricola coesiste e si
armonizza con le prevalenti previsioni legislative).
In questo senso, il divieto assoluto di edificazione di cui
al citato art. 38 non appare logico o coerente con le
finalità legislative di sviluppo dell’impresa agricola
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 07.07.2011 n. 1843 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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