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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di AGOSTO 2012

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aggiornamento al 27.08.2012

aggiornamento al 20.08.2012

aggiornamento al 16.08.2012

aggiornamento al 13.08.2012

aggiornamento al 06.08.2012

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 27.08.2012

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UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazioni e risparmio energetico - Tutti i chiarimenti di prassi da ricordare per ottimizzare il beneficio fiscale (articolo ItaliaOggi Sette del 20.08.2012).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Procedimento di autorizzazione paesaggistica art. 146 D.Lgs. 42/2204 - Conferenza di servizi - Parere (Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Ufficio Legislativo, nota 16.02.2012 n. 2807 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: D.P.C.M. 12.12.2005 - relazioni paesaggistiche redatte da dottori agronomi o dottori forestali - richiesta parere (Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Ufficio Legislativo, nota 15.02.2012 n. 2588 di prot.).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e s.m.i., recante "Codice dei beni culturali e del paesaggio ai sensi dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137", articolo 143, comma 1, lett. c): ricognizione delle aree tutelate per legge ai sensi dell'art. 142, comma 1, lett. c). Quesito della Direzione Regionale per i beni culturali e paesaggistici della Puglia (Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Generale per il paesaggio, le belle arti, l'architettura e l'arte contemporanee, circolare 04.04.2012 n. 10).
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La Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici della Puglia ha sottoposto a questa Direzione generale la questione della mancata ricognizione ai sensi dell'art. 143, comma 1, lettera c), di un corso d'acqua in sede di copianificazione paesaggistica. L'analisi del quesito ha assunto per questa Direzione generale una particolare importanza, da cui l'opportunità di approfondire quanto già reso pubblico sul tema con la circolare DG PBAAC n. 12/2011, rendendo partecipi gli uffici in indirizzo degli approfondimenti in merito.
ALLEGATI:
All_5_UCBAAAAS_Circolare_8_del_31_08_1985
All_4_AvvGenStato_04_02_2000_art_142_lettera_C
All_3_MATTM_27308_del_27_10_2010_DR_BCP_Toscana
All_2_Consiglio_di_Stato_Sentenza_657_del_04_02_2012
All_1_Quesito_DR_BCP_della_Puglia

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: D.lgs. 29.12.2003 n. 387, art. 12, cc. 3 e 4 - Autorizzazione unica per la costruzione e l'esercizio degli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili - Parere della Soprintendenza BAP in Conferenza di servizi (Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Generale per il paesaggio, le belle arti, l'architettura e l'arte contemporanee, circolare 01.03.2012 n. 5).
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ALLEGATO:
Circ_5_2012_ALL_A

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e s.m.i., recante "Codice dei beni culturali e del paesaggio ai sensi dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137", articolo 143, comma 1, lett. b): determinazione delle specifiche prescrizioni d'uso per gli immobili e le aree dichiarati di notevole interesse pubblico ai sensi degli artt. 136 e 157 - "Scheda metodologica": proposta (Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Generale per il paesaggio, le belle arti, l'architettura e l'arte contemporanee, circolare 21.12.2011 n. 30).
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Allegato:
Scheda_metodologica_DM

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: D.Lgs. 42/2004 - art. 142, comma 1, lett. m), del Codice dei Beni Culturali e del paesaggio (Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Generale per il paesaggio, le belle arti, l'architettura e l'arte contemporanee, circolare 15.12.2011 n. 28).
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A fine di chiarire tre fondamentali questioni interpretative in relazione alle "zone di interesse archeologico", di cui all'art. 142, comma 1, lett. m), del Codice dei beni culturali e del paesaggio, si forniscono opportuni chiarimenti sulla scorta dei pareri resi dall'Ufficio legislativo.
ALLEGATI:
Parere leg. n. 12974 del 05.07.2011
Parere leg. n. 8562 del 06.05.2011
Parere leg. n. 18056 del 05.10.2011 - Chiarimenti Appia Antica

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: D.L. n. 70 del 2011 - modifiche al procedimento di autorizzazione paesaggistica - circolare esplicativa (Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Generale per il paesaggio, le belle arti, l'architettura e l'arte contemporanee, circolare 08.11.2011 n. 24).
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In riferimento alle modifiche apportate all'art. 146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio dal decreto legge indicato in oggetto, convertito in legge n. 106 del 12/07/2011, si emanano indicazioni operative al fine di fornire un supporto alle attività degli Uffici periferici.
Allegato:
Allegato MATTM_DG Protezione natura mare_articolo 146_nuova disciplina_16791_05 08 2011

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nella p.a. promozioni senza soldi. Fino al 2013 le progressioni produrranno effetti solo giuridici. Corte conti Liguria conferma le tesi del Mef e della Rgs. Risorse in economia al bilancio dell'ente.
Le progressioni economiche dei dipendenti pubblici nel triennio 2011/2013 producono effetti solo giuridici, senza determinare alcun miglioramento dello stipendio, ma le risorse necessarie per il loro finanziamento devono essere tratte comunque dal fondo per la contrattazione decentrata, senza alcuna possibilità di destinarle ad altre finalità.
In altri termini, si può dire «il danno e la beffa»: il danno perché per questo periodo i dipendenti destinatari di progressioni orizzontali non ricevono concretamente nulla, e la beffa perché queste risorse vanno in economia al bilancio dell'ente e non possono essere destinate al finanziamento di altre forme di salario accessorio.

Sono queste le indicazioni che il ministro dell'economia ha dettato nella circolare n. 12/2011, che la Ragioneria generale dello stato ha ribadito nella circolare n. 16/2012 e che la sezione regionale di controllo della Corte dei conti della Liguria ha precisato nel parere 01.08.2012 n. 89.
Qualche spiraglio di dubbio sussiste ancora per la Corte dei conti della Campania che, con la deliberazione n. 170/2012, ha rimesso la questione all'esame delle sezioni riunite per chiarire se il vincolo legislativo si estende anche alle progressioni economiche.
È evidente che il consolidamento di questo orientamento determinerà il sostanziale blocco delle progressioni economiche, per evitare effetti di depauperamento del fondo. La materia è disciplinata dal comma 9 dell'articolo 9 del dl n. 78/2010 che sancisce che le progressioni producano nel triennio 2011/2013 effetti esclusivamente giuridici.
Vi sono dei dubbi sugli effetti di questa formulazione, tanto più dopo che l'Inpdap ha chiarito che anche ai fini pensionistici la decorrenza si realizza dal momento dell'effettiva corresponsione del beneficio economico. Sostanzialmente, siamo dinanzi a nulla più che ad una sorta di prenotazione. Si ricorda che, sulla base delle previsioni dettate dal dl n. 78/2011, il governo può estendere tale limitazione anche all'anno 2014.
Il primo dubbio che ci si è posti è se questo vincolo si applica esclusivamente alle progressioni di carriera o si estende anche a quelle economiche o orizzontali.
La sezione di controllo della Corte dei conti della Liguria, anche sulla scorta delle indicazioni della Ragioneria generale dello stato, «confermando l'indirizzo giurisprudenziale affermatosi nelle altre sezioni di controllo, ritiene applicabile il comma 21 citato anche alle progressioni c.d. orizzontali optando per un'applicazione che prescinda dalla nozione in concreto individuata per la progressione di carriera, comunque denominata, nel senso che ogni variazione d'inquadramento del dipendente produrrà effetti soltanto sullo status giuridico, ma non sul trattamento economico dell'impiegato».
Ed aggiunge che, anche ove tale disposizione non fosse applicabile, comunque gli effetti sarebbero gli stessi in virtù del tetto al trattamento economico individuale fissato per lo stesso triennio dal comma 1 dello stesso articolo 9 del dl n. 78/2010.
Le somme destinate nel triennio 2011/2013 al finanziamento delle progressioni orizzontali non possono essere destinate ad altri istituti di salario accessorio, per la Corte dei conti della Liguria, «secondo un ragionamento di ordine sistematico, per un generale divieto in merito ad un utilizzo alternativo delle risorse così accantonate. Diversamente, qualora si ammettesse tale utilizzo alternativo delle somme risparmiate ai sensi del comma 21 dell'art. 9 più volte citato, si vanificherebbe l'obiettivo del contenimento della spesa di personale (particolarmente incidente sul totale della spesa corrente delle pubbliche amministrazioni) indicato quale fine primario di tale intervento normativo».
In questo senso va anche la circolare 16/2012 della Rgs per la quale le somme non utilizzate del fondo dell'anno precedente vanno riportate nel fondo dell'anno successivo, ma esse devono essere «depurate dalle poste che per previsione contrattuale o normativa non possono essere riportate al nuovo Fondo, come i risparmi per progressioni orizzontali giuridiche o altri disposti dell'art. 9 dl n. 78/2010 convertito nella legge n. 122/2010».
In precedenza la circolare 12/2011 del ministro dell'economia aveva chiarito che «qualora le amministrazioni intendano programmare, sia pure solo ai fini giuridici, progressioni economiche all'interno delle aree professionali, le stesse dovranno quantificare i relativi oneri finanziari rendendo indisponibili le necessarie risorse certe e stabili fino a tutto il 2013. Soltanto a decorrere dall'01.01.2014 le progressioni potranno produrre anche gli effetti economici, beninteso senza il beneficio della retroattività» (articolo ItaliaOggi del 24.08.2012 - tratto da www.corteconti.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 23.08.2012 n. 196 "Regolamento recante modifiche ed integrazioni al decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare 18.02.2011, n. 52, avente ad oggetto «Regolamento recante istituzione del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti, ai sensi dell’articolo 189, del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, e successive modifiche e integrazioni, e dell’articolo 14 -bis del decreto-legge 01.07.2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 03.08.2009, n. 102»" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 25.05.2012 n. 141).
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In Gazzetta un decreto del ministro dell'ambiente Corrado Clini. Contingentati i dispositivi Usb.
Il Sistri va pagato entro novembre. Iscrizione obbligatoria per i centri raccolta dei comuni campani
Il pagamento a carico delle imprese del contributo Sistri, per l'anno 2012, dovrà essere effettuato entro il 30 novembre prossimo.

Lo stabilisce un decreto del ministro dell'ambiente (n. 141 del 25 maggio scorso, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 196 del 23.08.2012). Il provvedimento modifica la normativa in vigore sul sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti, estendendo vincoli e raggio d'azione. In particolare, l'iscrizione al Sistri diventa obbligatoria per i centri di raccolta comunali o intercomunali campani, disciplinati da un decreto del ministro dell'ambiente dell'08.04.2008.
Non solo. Il decreto firmato dal ministro Corrado Clini dispone anche che gli enti titolari di autorizzazione al trattamento di rifiuti possano «in attesa della voltura dell'autorizzazione», delegare iscrizione e procedure Sistri a soggetti terzi in possesso dei requisiti soggettivi richiesti dalla legge per la gestione in conto terzi degli impianti. Il tutto dandone preventiva comunicazione al Sistri stesso. In queste ipotesi, spiega il decreto, «l'iscrizione al Sistri dovrà essere effettuata a nome del gestore».
Il decreto Clini modifica poi alcune delle tempistiche previste attualmente per l'iscrizione al Sistema e la movimentazione dei rifiuti. E aggiunge alcune specifiche nella gestione degli stessi scarti. In particolare, si prevede testualmente che l'inserimento nel sistema (informatico) delle informazioni (richieste) non è obbligatorio per le movimentazioni fatte mentre si attende il recapito dei dispositivi di tracciabilità «in fase di prima iscrizione e nei sette giorni successivi alla consegna dei dispositivi (telematici) stessi».
In questa fase, però, gli interessati dovranno conservare copia cartacea delle cosiddette schede Sistri-Area Movimentazione, previste dal sistema a indicazione dell'iter seguito dai rifiuti. Gli stessi soggetti entranti nel Sistri dovranno invece compilare, per i soli rifiuti ancora in carico, la scheda prevista denominata Sistri-Area Registro Cronologico. Compilazione che andrà fatta entro e non oltre 15 giorni dalla consegna dei dispositivi. Sempre in fatto di dispositivi telematici da adottare, dopo aver dettato una raffica di istruzioni ai soggetti incaricati della compilazione delle schede su modalità e tempistica delle compilazioni, il decreto prevede che gli interessati possano anche richiedere un numero di dispositivi Usb aggiuntivi rispetto a quelli assegnati, ma entro certi limiti.
Una simile richiesta deve però essere giustificata e sarà accettata nei limiti della disponibilità tecnologica. Il decreto Clini prevede che l'entità del contributo, per ogni dispositivo Usb aggiuntivo richiesto, è fissato in 100 euro, da versare in una soluzione all'atto della richiesta. Il decreto prevede una griglia di possibilità previste per aggiudicare i dispositivi aggiuntivi a imprese ed enti. Questa verrà decisa in base agli addetti per unità locale. Ecco i limiti:
- le imprese fino a 20 addetti per unità locale avranno al massimo due dispositivi;
- le attività da 21 a 50 addetti al massimo quattro;
- le aziende da 51 a 250 addetti al massimo sei;
- le imprese da 251 a 500 addetti al massimo otto;
- le attività oltre 500 addetti per unità locale al massimo dieci.
Per quanto riguarda enti e comuni della regione Campania:
- quelli inferiori a 20 mila abitanti avranno al massimo due dispositivi;
- quelli tra 20 mila e 50 mila abitanti al massimo quattro;
- i comuni tra 50 mila e 100 mila abitanti al massimo sei dispositivi;
- infine, i comuni superiori a 100 mila abitanti potranno avere un numero massimo dispositivi aggiuntivi Sistri pari a dieci (articolo ItaliaOggi del 25.08.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 34 del 22.08.2012, "Approvazione di modifiche ed integrazioni al d.d.u.o. n. 1556 del 21.02.2011 e s.m.i. sulle modalità di accesso e di funzionamento della procedura informatizzata per il taglio di boschi, in attuazione dell’art. 11, comma 2, del r.r. 5/2007 (Norme forestali regionali)" (decreto D.U.O. 10.08.2012 n. 7301).

INCARICHI PROFESSIONALI: G.U. 22.08.2012 n. 195 "Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni regolarmente vigilate dal Ministero della giustizia, ai sensi dell’articolo 9 del decreto-legge 24.01.2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.03.2012, n. 27" (Ministero della Giustizia, decreto 20.07.2012 n. 140).
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PROFESSIONI/ Un compenso per fasi di giudizio. Per gli avvocati non si fa più riferimento a singole attività. In Gazzetta il regolamento sui compensi. Che è operativo fin da oggi.
Compenso agli avvocati per fasi del giudizio e non più per singole attività. Il prontuario per i giudici per la liquidazione dei compensi ai professionisti (regolamento n. 140 del 20.07.2012) approda in G.U. (n. 195 del 22.08.2012) e si applica fin da oggi ogni volta che il magistrato deve quantificare quanto è dovuto al professionista (non solo avvocato, ma anche dottore commercialista ed esperto contabile, notaio o professionista tecnico o altro professionista).
Il regolamento (si veda ItaliaOggi del 18 agosto) si caratterizza per il fatto di costituire un indirizzo di massima, non vincolante né per il giudice né tanto meno nel rapporto tra cliente e professionista.
La liquidazione da parte del giudice, per gli avvocati, avviene all'esito della causa o al momento in cui si rilascia un decreto ingiuntivo o in altro provvedimento che per legge preveda la liquidazione delle spese. Per l'ambito forense va sottolineato che vengono riportati parametri anche per il caso in cui l'avvocato si autoliquida i compensi nell'atto di precetto, che da l'avvio all'esecuzione forzata.
Il prontuario si caratterizza per il fatto di costituire una griglia, non obbligatoria per il magistrato e tanto meno nel rapporto tra cliente e proprio avvocato.
Il prontuario non è vincolante per il magistrato, in quanto costituisce una linea di indirizzo per la determinazione del corrispettivo sia in sentenza sia negli altri provvedimenti nei quali la legge attribuisce al giudice di liquidare le spese.
Il giudice è svincolato dall'applicazione cogente delle cifre, ma è soggetto ai principi generali relativi alla determinazione del compenso in relazione alla quantità e alla qualità della prestazione effettuata.
È vero che per le singole voci del prontuario si indicano livelli minimi e livelli massimi, ma non si tratta di importi cogenti e vincolanti. D'altra parte l'abbandono del sistema delle tariffe, stabilite con decreto ministeriale, non poteva essere frustrato dalla individuazione di parametri minimi e massimi altrettanto obbligatori.
Il prontuario non è, poi, vincolante nei rapporti tra cliente e professionista singolo, associato o società professionale.
Nei rapporti interni sarà il contratto di prestazione di opera intellettuale a determinare i compensi spettanti al professionista, senza alcun obbligo di riferimento ai parametri ministeriali.
Peraltro questo non significa che non vi sia alcuna regola per la determinazione dei compensi in sede contrattuale. Si pensi per la categoria degli avvocati, per i quali rimane vigente la regola del codice deontologico forense, che impone di non stabilire compensi eccessivi o sproporzionati.
La nuova situazione (abolizione delle tariffe obbligatorie e individuazione di parametri per la liquidazione giudiziale), unita al valore del preventivo e del contratto di conferimento di incarico, potrà spingere i professionisti singoli o associati e le società professionali a costruire un proprio prezziario, da riversare nelle scritture contrattuali, e da utilizzare anche nella pubblicità informativa consentita dalle norme deontologiche. Il prontuario si caratterizza per tutte le categorie professionali per una spiccata semplificazione e onnicomprensività. Per gli avvocati si abbandona un sistema articolato in diritti e onorari rapportati alle autorità giudiziarie procedenti e al valore della causa, in cui sia i diritti che gli onorari elencavano ogni singola prestazione: dalla formazione del fascicolo alla corrispondenza con parti e controparti, dalla stesura degli atti di causa alla notificazione della sentenza, e così via.
I parametri individuano alcune fasi: di studio della controversia; di introduzione del procedimento; istruttoria; decisoria; esecutiva. In relazione a ciascuna fase il parametro è onnicomprensivo, anche se suscettibile di aumenti e diminuzioni. La semplificazione riguarda anche il procedimento di ingiunzione e il precetto. In quest'ultimo caso è l'avvocato che redige l'atto, che avvia l'esecuzione forzata: i parametri ministeriali individuano quattro scaglioni con relativo compenso onnicomprensivo. I parametri per gli avvocati mandano, dunque, in soffitta sia i diritti che gli onorari e individuano una unica voce di compenso. L'importo conteggiato dal giudice sarà comunque onnicomprensivo per la prestazione professionale, incluse le attività accessorie alla stessa.
Nei compensi, determinati dal regolamento, non sono comprese le spese da rimborsare secondo qualsiasi modalità: le parti possono anche mettersi d'accordo per il rimborso in modo forfettario. Non sono compresi oneri e contributi dovuti a qualsiasi titolo. Mentre sono compresi i costi degli ausiliari incaricati dal professionista.
Quando l'incarico professionale è conferito a una società tra professionisti, si applica il compenso spettante a uno solo di essi anche per la stessa prestazione eseguita da più soci.
Una importante novità, che vale per tutti i professionisti, riguarda il preventivo. L'assenza di prova del preventivo di massima (articolo 9, comma 4, terzo periodo, del decreto legge 1/2012) costituisce elemento di valutazione negativa da parte dell'organo giurisdizionale per la liquidazione del compenso (articolo ItaliaOggi del 23.08.2012).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

VARIPatente valida fino al compleanno. Il termine allineato con la carta d'identità per i titoli nuovi o rinnovati.
IL DIVERBIO/ La Motorizzazione si era espressa contro la regola ma è stata contraddetta dalla Funzione pubblica.

Scadenza che coincide con il giorno del compleanno e rinnovo semplificato per gli ultraottantenni. Sono le ultime novità sulle patenti di guida, in attesa della raffica di ulteriori modifiche attese per il 19.01.2013, quando entrerà in vigore il Dlgs 59/2011, che recepisce le ultime due direttive europee sulla materia (la 2006/126 e la 2009/113) introducendo fra l'altro una vera e propria patente (la AM) anche per ciclomotori e quadricicli leggeri (si veda la scheda a destra).
Come ha stabilito l'articolo 7 del decreto semplificazioni (Dl 5/12), la scadenza dei documenti d'identità e riconoscimento emessi o rinnovati dal l'entrata in vigore della norma (10.02.2012) non coincide più con la data del rilascio, ma slitta a quella del compleanno successivo. Visto che la patente è anche un documento che attesta l'idoneità alla guida, il 5 marzo (circolare 6193) la Motorizzazione ha chiarito che non riteneva si dovessero applicarvi queste nuove regole e che quindi avrebbe adeguato la propria prassi.
Dunque, anche le patenti rinnovate o rilasciate sinora riportano una scadenza determinata secondo il Codice della strada: per esempio, una licenza B di una persona sotto i 50 anni vale dieci anni (dalla data di rilascio se è nuova, dalla data della visita medica di convalida se è rinnovata).
Ora occorre fare i conti con l'interpretazione diversa fornita dal ministro della Funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi, con la circolare 20.07.2012 n. 7/2012, pubblicata pochi giorni fa (si veda Il Sole 24 Ore del 21 agosto), che estende alla patente la "regola del compleanno". Nei prossimi giorni dovrebbero arrivare chiarimenti della Motorizzazione per capire da quale data le licenze rilasciate o rinnovate avranno la scadenza determinata in base al nuovo criterio. Si dovrà anche vedere come risolvere il problema dei documenti emessi dal 10 febbraio, che hanno scadenza allineata al giorno del rilascio o del rinnovo.
Nel frattempo, si può dire che: ... (articolo Il Sole 24 Ore del 24.08.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

VARI: La patente scade al compleanno. Ma fanno eccezione i documenti per gli autisti e i malati. Circolare della presidenza del consiglio smentisce l'interpretazione restrittiva dei Trasporti.
Anche la patente di guida (come la carta d'identità) scadrà il giorno del compleanno ma questa novità non si applicherà alle patenti superiori (per camion, corriere ecc.) e a quelle con durata limitata (per esempio per motivi medici). In ogni caso l'allineamento non sarà automatico e richiederà l'aggiornamento della licenza di guida.
In altre parole, il documento inizialmente scadrà alla data naturale e sarà poi rinnovato con scadenza il giorno del compleanno.

Lo ha affermato la presidenza del consiglio dei ministri con la circolare 20.07.2012 n. 7/2012, appena divulgata, che ribalta le indicazioni di segno opposto fornite dal ministero dei trasporti.
L'art. 7 del dl 5/2012 dispone che i documenti di identità e di riconoscimento di cui all'art. 1, comma 1, lett. c), d) ed e), del dpr n. 445 del 28.12.2000 sono rilasciati o rinnovati con validità fino alla data del compleanno del titolare immediatamente successiva alla scadenza che sarebbe altrimenti prevista per il documento stesso. Si tratta dei documenti di riconoscimento e d'identità rilasciati o rinnovati dopo il 10.02.2012, data di entrata in vigore del decreto legge. Da subito erano stati avanzati dubbi sulla possibilità di ricomprendere le patenti fra i documenti soggetti alla semplificazione imposta dalla novella (si veda ItaliaOggi del 21/02/2012).
E il ministero delle infrastrutture e dei trasporti, con la circolare n. 6193 del 05.03.2012 aveva precisato a chiare lettere che alla patente di guida non si applica l'allineamento della scadenza al compleanno dell'interessato (si veda ItaliaOggi del 07/03/2012). Infatti occorre considerare che in materia di durata di validità delle patenti di guida le norme del decreto legislativo n. 285/1992 sono speciali rispetto alle norme del decreto legge n. 5/2012. Inoltre, la materia è disciplinata dettagliatamente dalla normativa comunitaria, di volta in volta recepita dall'ordinamento interno.
Precisamente, l'iniziale facoltà d'imporre liberamente le disposizioni nazionali in materia di durata di validità, originariamente consentita dalla direttiva 91/439/Cee del 29.07.1991 del consiglio, è stata poi superata dalla direttiva 2006/126/Ce del 20.12.2006 del Parlamento europeo e del consiglio, che ha fissato limiti precisi per la durata della licenza di guida, derogabili solo previa consultazione della commissione. Tali vincoli temporali sono stati definiti concretamente dal decreto legislativo di attuazione n. 59 del 18.04.2011, che, fra l'altro, introduce modifiche dell'art. 126 del codice della strada con disposizioni applicabili dal 19.01.2013. Ora, però, con la circolare n. 7 del 20.07.2012 la presidenza del consiglio di ministri interpreta in senso estensivo la portata dell'art. 7 del dl 5/2012, affermando che la nuova regola che fissa la scadenza dei documenti in coincidenza con la data del compleanno si applica anche alle patenti di guida.
A parere della presidenza del consiglio dei ministri il legislatore comunitario non impone alcuna corrispondenza tra il giorno e il mese indicati nel riquadro relativo alla data di rilascio e quelli indicati nel riquadro relativo alla data di scadenza. Secondo quanto affermato nella circolare n. 7/2012, la coincidenza della data di scadenza della patente con quella di nascita del titolare non si pone in contrasto con l'ordinamento comunitario, in quanto la direttiva fissa unicamente il limite massimo (pari a quindici anni) del periodo di validità amministrativa delle patenti, senza imporre una coincidenza tra la data di rilascio e quella di scadenza.
Peraltro, prosegue la nota, la disposizione di cui all'art. 7 del dl 5/2012 non si applica alle patenti rilasciate per le categorie superiori C e D, a quelle la cui durata è fissata in misura ridotta, rispetto alla durata ordinaria, dalla commissione medica legale, e alla carta di qualificazione del conducente.
Dunque, secondo la presidenza, l'allungamento della scadenza della patente fino alla data del compleanno si applica alle patenti di categoria AM, A1, A, B1, B e BE che hanno una durata ordinaria, comunque solo in sede di primo rilascio o rinnovo del documento (articolo ItaliaOggi del 21.08.2012 - tratto da www.corteconti.it).

VARI: Burocrazia. In una circolare della Funzione pubblica l'equiparazione agli altri documenti d'identità.
La patente scade al compleanno
I LIMITI/ Il termine vale per i nuovi documenti o quelli da portare a rinnovo ma non per le licenze di guida dei mezzi pesanti.

Contrordine: anche la patente scadrà il giorno del compleanno. È l'indicazione più importante tra quelle date dalla
circolare 20.07.2012 n. 7/2012 firmata dal ministro della Funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi, per chiarire come va applicato l'allineamento (previsto lo scorso febbraio dal decreto semplificazioni, Dl 5/12) della scadenza dei documenti di identità e riconoscimento alla data di nascita del titolare.
La circolare –emanata il 20 luglio col numero di protocollo Dfp 0029981P e resa nota sul sito web della Funzione pubblica solo ora– chiarisce anche che tra questi documenti rientrano pure le tessere di riconoscimento rilasciate dalle amministrazioni dello Stato, che l'allineamento al compleanno non vale per le patenti superiori (C e D) e che il calcolo della nuova scadenza va effettuato prolungandola fino al giorno del compleanno salvo che nei casi di rinnovo tardivo dei documenti.
Era già evidente nel testo dell'articolo 7 della norma, ma la circolare ribadisce che le novità si applicano solo sui documenti rilasciati ex novo o rinnovati a partire dalla data di entrata in vigore del decreto semplificazioni (il 10 febbraio scorso).
L'indicazione più importante è quella sulla validità della patente, perché finora la Motorizzazione ha continuato ad applicare alla licenza di guida le regole consuete: una prima scadenza che arriva il giorno corrispondente a quello del primo rilascio e quelle successive che coincidono con la data di effettuazione della visita di rinnovo. Una prassi giustificata dal fatto che la patente non è solo un documento di riconoscimento, ma anche di abilitazione alla guida e sotto quest'ultimo profilo si era ritenuto che tutto restasse invariato (si veda anche «Il Sole 24 Ore» del 21 febbraio).
Ora la Funzione pubblica argomenta che l'articolo 7 del decreto non confligge con la normativa in materia di patenti, che il Codice della strada è allineato alla direttiva europea 2006/126, la cui entrata in vigore in Italia è fissata per il 19.01.2013 (come ha stabilito il Dlgs 59/2011 di recepimento, che ha inserito le nuove norme nel Codice). La direttiva –si osserva nella circolare– si limita a stabilire che la durata di validità delle patenti fino alla BE non può superare i 15 anni e «non impone alcuna corrispondenza tra il giorno e il mese indicati nel riquadro (della patente, ndr) relativo alla data di rilascio e quelli indicati nel riquadro relativo alla data di scadenza».
Resta il problema del rapporto tra il decreto semplificazioni e il Codice della strada. Si può infatti ritenere che il decreto sia una norma generale e il Codice una speciale che, per principio, deroga a quella generale. La Funzione pubblica ritiene invece che il problema non si ponga, perché il decreto è a sua volta una norma speciale. Questa interpretazione si basa sul fatto che il decreto vale solo per i primi rilasci e i rinnovi successivi alla sua entrata in vigore.
Per la Motorizzazione si apre quindi il problema di adeguarsi a questa nuova interpretazione. Da valutare anche il regime da applicare a chi ha ottenuto o rinnovato la patente dal 10 febbraio ad oggi e non ha una scadenza allineata al compleanno.
Va comunque precisato che questi problemi non si pongono per le patenti soggette a regole particolari, come quelle superiori (C, CE, D, DE) e quelle con durata ridotta rispetto a quella ordinaria per le licenze dello stesso tipo (accade quando si ha un problema fisico tale da imporre il passaggio in Commissione medica legale).
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Le altre novità
01 | RINNOVO RITARDATO
Normalmente, l'allineamento al compleanno va calcolato in modo favorevole al cittadino: si determina la nuova scadenza del documento in base alle regole consuete e si aggiungono i giorni che restano fino alla data di nascita. Ma non per chi rinnova in ritardo: in questo caso, invece di aggiungere, si sottrae. Consideriamo l'esempio di un documento con validità decennale di una persona che compie gli anni il 20.10.2012 e lo rinnova il 15.01.2013: la nuova scadenza non sarà al 20.10.2023 ma al 20.10.2022
02 | PATENTI INFERIORI
L'allineamento al compleanno vale solo per le patenti che non sono soggette a regole particolari. La circolare della Funzione pubblica le elenca una per una: AM (quella per ciclomotori e quadricicli leggeri, che sostituirà il certificato d'idoneità alla guida per i nuovi rilasci dal 19 gennaio 2013), A1, A, B1 (per quadricicli sotto i 400 chili e i 15 kiloWatt di potenza, anch'essa partirà il 19 gennaio e servirà) e BE
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Vera semplificazione. L'alternativa percorribile: l'avviso a casa.
L'intenzione è lodevole: evitare che si guidi con la patente scaduta, visto che da quando è stato abolito il bollo annuale su questo documento (1998) la gente non ha più occasione di controllare la scadenza e bisogna essere davvero scrupolosi per ricordarsene. Lo dimostra la rivolta che si scatenò nel 2000, quando fu introdotto il fermo amministrativo del veicolo per chi guidava con patente scaduta; tanto che questa sanzione fu abolita nel giro di pochi mesi.
Detto questo, la soluzione di allineare la scadenza al compleanno è sensata, ma apre alcune questioni giuridiche, che ora si spera non diano problemi. E resta il dubbio che non ci fossero altre soluzioni più semplici e pure più comode. Come mandare un avviso a casa del cittadino, quando ci si avvicina alla scadenza. Lo si è anche valutato, ma costava circa un euro per volta e non c'erano i fondi. Molti cittadini sarebbero anche disposti a pagare in più, ma per le contorte regole della contabilità pubblica non è facile aumentare la tariffa. Così non resta che affidarsi a internet: ci sono siti –pubblici e privati– in cui si registrano i propri dati e si viene avvisati automaticamente (articolo Il Sole 24 Ore del 21.08.2012).

PUBBLICO IMPIEGO: Congedi biennali, fatta chiarezza. Definiti i requisiti, soggetti legittimati e possibili cumuli. Nella circolare del ministro Patroni Griffi tutte le specifiche per la fruizione del trattamento.
La fruizione del congedo straordinario retribuito, per un periodo massimo di due anni nell'arco della vita lavorativa, finalizzato all' assistenza di un parente disabile in situazione di gravità, di cui ai commi 5 e 5-quinquies dell'art. 42 del decreto legislativo n. 151/2001, non presenta più zone d'ombra.
La circolare 03.02.2012 n. 1 del Dipartimento della Funzione Pubblica, firmata dal ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, Filippo Patroni Griffi, ed elaborata a seguito di un lavoro istruttorio di confronto con il ministero del lavoro, l'Inps/Inpdap fornisce, infatti, una serie di precisi chiarimenti circa i soggetti legittimati alla fruizione del congedo, le modalità di fruizione, la durata del congedo e il trattamento economico spettante.
I chiarimenti non potranno che favorire in tutte le istituzioni scolastiche una corretta e omogenea applicazione dell'istituto e prevenire ulteriori conflitti tra personale e dirigenti scolastici.
Soggetti legittimati
Sono legittimati alla fruizione del congedo e in ordine di priorità:coniuge convivente della persona in situazione di handicap grave; padre o madre, anche adottivi o affidatari, della persona in situazione di handicap grave, in caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti del coniuge convivente; uno dei figli conviventi della persona in situazione di handicap grave, nel caso in cui il coniuge convivente ed entrambi i genitori del disabile siano mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti; uno dei fratelli o sorelle conviventi nel caso in cui il coniuge convivente, entrambi i genitori ed i figli conviventi della persona in situazione di handicap grave siano mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti.
Poiché l'ordine dei soggetti possibili beneficiari è stato indicato direttamente ed espressamente dalla legge, tale ordine, si legge nella circolare, non è da ritenere derogabile.
Ne consegue che non è possibile accogliere dichiarazioni di rinuncia alla fruizione al fine di fare scattare la legittimazione al soggetto successivo. Tranne che per i genitori, il diritto al congedo è subordinato alla sussistenza della convivenza.
La convivenza
Importante anche il chiarimento in tema del requisito della convivenza. Ribadito che, tranne che per i genitori, il diritto al congedo è subordinato alla sussistenza della convivenza, la circolare precisa che la convivenza deve essere provata mediante la produzione di dichiarazioni sostitutive dalle quali risulti la concomitanza della residenza anagrafica e della convivenza, ossia della coabitazione. Al fine di venire incontro all'esigenza di tutela delle persone disabili, il requisito della convivenza si può intendere soddisfatto anche nel caso in cui la dimora abituale del dipendente e della personale in situazione di handicap grave siano nello stesso stabile( appartamenti distinti nell'ambito dello stesso numero civico) ma non nello stesso interno. Potrà inoltre ritenersi soddisfatto anche nei casi in cui sia attestata, mediante la dichiarazione sostitutiva, la dimora temporanea, ossia l'iscrizione nello schedario della popolazione temporanea di cui all'art. 32 del decreto 223/1989, pur risultando diversa la dimora abituale (residenza) del dipendente o del disabile.
La fruizione
Nella circolare viene preliminarmente ribadito che il congedo potrà essere fruito anche in modo frazionato, ma che tale frazionamento potrà riguardare solo giorni interi e non ore. Di rilevante interesse anche in tema di computo nel periodo di congedo dei giorni festivi, delle domeniche e dei sabati nel caso in cui l'articolazione dell'orario di servizio è su cinque giorni, come avviene per la maggioranza delle istituzioni scolastiche. Affinché tali giorni non vengano computati nel periodo di congedo, è necessario che si verifichi l'effettiva ripresa del lavoro al termine del periodo di congedo richiesto. Tali giornate, si sottolinea nella circolare, non saranno comunque conteggiate nel caso in cui la domanda di congedo sia stata presentata dal lunedì al venerdì, se il lunedì successivo si verifica la ripresa dell'attività di servizio, ovvero una assenza per malattia del dipendente o della persona che si assiste.
Identico trattamento si applica nel caso in cui il dipendente fruisca di un rapporto di lavoro a part-time. Se il part-time è verticale, il conteggio delle giornate dovrà essere effettuato sottraendo i periodi in cui non è prevista l'attività lavorativa, considerato che in tale ipotesi la prestazione e la retribuzione del dipendente sono entrambe proporzionate alla percentuale di part-time.
La durata
Di interesse altrettanto rilevante è la precisazione sulla possibilità di cumulare il congedo retribuito per l'assistenza ai disabili di cui trattasi con altri periodi di congedo fruiti per gravi e documentati motivi familiari. A prescindere dalla causa specifica per cui il congedo è fruito, il periodo massimo nell'arco dell'attività lavorativa del dipendente non potrà superare il limite dei due anni.
Il trattamento
I periodi di congedo straordinario continuano a non essere computati ai fini della determinazione di ferie, tredicesime e trattamento di fine servizio o di fine rapporto. Sono validi, invece, ai fini del calcolo dell'anzianità pensionistica.
Durante il congedo il dipendente della scuola ha diritto a percepire un'indennità lorda corrispondente all'ultima retribuzione, ma con riferimento esclusivamente alle voci fisse e continuative. Per il 2012 l'indennità lorda massima è fissata in 45.472,00 (articolo ItaliaOggi del 21.08.2012).

NEWS

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nell'agenda di Palazzo Chigi. Previsto anche il rafforzamento della valutazione.
Statali, arriva la nuova stretta con riforma Fornero e mobilità
SINDACATI IN ALLARME/ Le organizzazioni chiedono al Governo di chiarire se nell'agenda per la crescita c'è un altro giro di vite sul pubblico impiego.

Mobilità, rafforzamento dei sistemi di valutazione delle performance. E, soprattutto, armonizzazione della riforma Fornero sul lavoro con quella del pubblico impiego entro la fine del'anno. Su queste coordinate, in parte tracciate dalla prima fase di spending review, dovrà essere orientata la partita sul pubblico impiego. Che è già considerata una delle più delicate d'autunno. Anche se il ministro della Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi, continua a garantire che non sarà alcun intervento invasivo. Ma la riorganizzazione degli statali resta un punto fermo anche nell'agenda del governo, che è stata stilata venerdì dal premier Mario Monti, alla fine di un lungo Consiglio dei ministri. E i sindacati sono in allarme.
«Nell'agenda sulla crescita c'è un'ulteriore stretta sugli statali che non comprendiamo bene», afferma il leader della Cisl, Raffaele Bonanni. Che aggiunge: l'armonizzazione della riforma del mercato del lavoro privato con quella del lavoro pubblico, ribadita dal Consiglio dei ministri di venerdì, «va chiarita fino in fondo nel confronto tra governo e sindacati». La tensione, insomma, sale. Fp-Cgil, Uil-Fpl, Uil-Pa e Ugl hanno già indetto per il 28 settembre lo sciopero generale nel pubblico impiego (al quale non aderisce la Cisl) contro le misure contenute nella prima spending review. Che, tra l'altro, prevedono la riduzione degli organici (-20% per i dirigenti e -10% per gli altri dipendenti) con la creazione, secondo le stime del governo, di 24mila esuberi.
Ma secondo la Cgil il numero degli esuberi sarà sensibilmente superiore ... (articolo Il Sole 24 Ore del 26.08.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: P.a., trasparenza solo a cose fatte. Per contributi sopra i 1.000 dati online a contratto siglato. L'obbligo non sembra potersi applicare prima che il provvedimento amministrativo sia formato.
Le pubbliche amministrazioni che erogano somme superiori a 1.000 euro a titolo di contratti o contributi di qualunque tipo, devono far precedere queste erogazioni dalla pubblicazione sul proprio sito internet di una serie di informazioni tra le quali il nome del beneficiario e i suoi dati fiscali; la norma o il titolo a base dell'attribuzione; l'ufficio e il funzionario o dirigente responsabile del relativo procedimento amministrativo.
Se non vengono rispettate queste regole, le erogazioni sono illegittime e ne va di mezzo, a titolo di responsabilità patrimoniale, il funzionario che non le ha fatte rispettare. Le nuove regole previste dal decreto sviluppo scatteranno dall'01.01.2013. Ma le amministrazioni ancora non sanno se la pubblicazione va effettuata prima ancora di formare il provvedimento amministrativo alla base dell'erogazione del contributo o subito dopo.

A partire dall'01.01.2013, la norma sulla cosiddetta «amministrazione aperta» introdotta dal dl 83/2012, convertito in legge 134/2012 introduce un nuovo adempimento burocratico (nonostante sia qualificata come norma di semplificazione) di fondamentale importanza per la legittimità dei procedimenti amministrativi. Il primo periodo del comma 5 dell'articolo 18 del «decreto sviluppo» stabilisce infatti che «a decorrere dall'01.01.2013, per le concessioni di vantaggi economici successivi all'entrata in vigore del presente decreto-legge, la pubblicazione ai sensi del presente articolo costituisce condizione legale di efficacia del titolo legittimante delle concessioni e attribuzioni di importo complessivo superiore a 1.000 euro nel corso dell'anno solare previste dal comma 1, e la sua eventuale omissione o incompletezza è rilevata d'ufficio dagli organi dirigenziali e di controllo, sotto la propria diretta responsabilità amministrativa, patrimoniale e contabile per l'indebita concessione o attribuzione del beneficio economico».
Quanto stabilisce la norma apparentemente è chiaro. Ma si pone, invece, il problema di stabilire quando, in realtà, la pubblicazione vada effettuata, se cioè prima ancora di formare il provvedimento amministrativo alla base della stipulazione del contratto o dell'erogazione del contributo o dopo.
Non è una questione di poco conto, perché i dati da inserire nel portale delle amministrazioni, ai sensi del comma 2 dell'articolo 18 sono parecchi: a) il nome dell'impresa o altro soggetto beneficiario e i suoi dati fiscali; b) l'importo; c) la norma o il titolo a base dell'attribuzione; d) l'ufficio e il funzionario o dirigente responsabile del relativo procedimento amministrativo; e) la modalità seguita per l'individuazione del beneficiario; f) il link al progetto selezionato, al curriculum del soggetto incaricato, nonché al contratto e capitolato della prestazione, fornitura o servizio.
Molti degli elementi richiesti sono ricavabili dal provvedimento a contrattare o finalizzato alla concessione del contributo, ma ovviamente il contratto sarà disponibile solo una volta conclusa la fase di individuazione del contraente.
Letteralmente, la disposizione prevede che la pubblicazione prevista sia condizione legale di efficacia del titolo legittimante. Si deve intendere per titolo legittimante appunto il contratto o l'atto di regolazione del contributo concesso.
Pare necessario, allora, concludere che l'amministrazione possa legittimamente andare avanti con la procedura di gara o di selezione del destinatario del contributo senza pubblicare alcun dato fino alla stipulazione del contratto o dell'atto convenzionale che legittima l'erogazione (si ricorda che i provvedimenti a contrattare o che acconsentano all'erogazione costituiscono meri atti interni e non sono titoli validi per far suscitare il rapporto obbligatorio col destinatario).
L'adempimento della pubblicazione, dunque, appare potersi e doversi effettuare subito dopo la stipulazione del contratto o la formazione di altro titolo per l'erogazione (convenzione che disciplini l'erogazione di contributi, ad esempio). Solo una volta formatosi il «titolo», infatti, la sua efficacia può risultare «condizionata».
Poiché la pubblicazione prevista dall'articolo 18 del decreto sviluppo è una condizione di efficacia, il dirigente o il responsabile del procedimento materialmente non potrà, nel caso di contratti ad esempio, ordinare l'avvio della prestazione, se non si sia provveduto alla pubblicazione.
Si comprende, dunque, che l'onere burocratico ricadrà prevalentemente, a seconda di come sono organizzati gli enti, o sugli uffici che gestiscono in modo accentrato l'attività contrattuale; oppure su ciascun responsabile del procedimento, se la scelta organizzativa è quella di decentrare la gestione (articolo ItaliaOggi del 25.08.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Stretta Ue sulla raccolta dei rifiuti elettrici.
Aumentato l'obiettivo di raccolta dei Rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee): entro l'anno 2016 bisognerà raccogliere 45 tonnellate di Raee per ogni 100 di nuovi apparecchi elettronici immessi sul mercato. Dal 2019, l'obiettivo verrà ulteriormente innalzato a 65 tonnellate su 100.
Questo è quanto prevede, la DIRETTIVA 2012/19/UE DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 04.07.2012 pubblicata, sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea L 197/38 del 24.07.2012. Il provvedimento è entrato in vigore dal 13 agosto. Le nuove regole europee hanno presentato un nuovo modo di calcolare i tassi di raccolta, non più basati sui classici chilogrammi per abitante.
È invece valida la quantità di rifiuti raccolti considerando la media delle apparecchiature nei tre anni precedenti. Altra novità introdotta dalla direttiva comunitaria, il cosiddetto ritiro «uno contro zero» per i rifiuti elettronici di piccole dimensioni. I vari distributori devono in sostanza provvedere al ritiro gratuito degli apparecchi anche in assenza di un prodotto nuovo equivalente (ritiro «uno contro uno»).
Gli stati membri avranno 16 mesi di tempo per adeguarsi alle novità, che dovranno essere recepite entro il 14.02.2014 allorquando scatterà l'abrogazione della direttiva 2002/96/CE del 27.01.2003, recepita in Italia -congiuntamente alla direttiva 2002/95/CE sulla riduzione dell'uso di sostanze pericolose nelle apparecchiature elettriche ed elettroniche- attraverso il dlgs 25.07.2005, n. 151 (articolo ItaliaOggi del 25.08.2012).

CONDOMINIOI condomini fotovoltaici? Come i commercianti.
I condomini che realizzano negli spazi condominiali un impianto fotovoltaico di potenza superiore a 20 kw o che cedono, a fini commerciali, tutta l'energia prodotta con impianti fino a 20 kw, si configurano dal punto di vista fiscale come società di fatto e come tali realizzano un reddito d'impresa.
Più precisamente, poiché la realizzazione dell'impianto fotovoltaico per fini commerciali rientra tra le «Innovazioni» che i condomini possono disporre ai sensi dell'art. 1120 del codice civile «(_) dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni» sono considerati soci della società di fatto i condomini che hanno deliberato con la maggioranza richiesta dall'art. 1136 del codice civile, la realizzazione dell'investimento. Restano esclusi dalla società di fatto i condomini che non hanno approvato la decisione e che non intendono trarre vantaggio dall'investimento.
In questo caso gli stessi, sulla base di quanto disposto dall'art. 1121, primo comma, ultima parte, del codice civile «sono esonerati da qualsiasi contributo di spesa». La società di fatto tra condomini che gestisce un impianto fotovoltaico è commerciale e deve emettere fattura nei confronti del Gse, in relazione all'energia che immette in rete. Il Gse che eroga la tariffa incentivante deve operare nei confronti della società di fatto la ritenuta del 4% (art. 28 del dpr n. 600 del 1973) sulla tariffa relativa alla parte di energia immessa in rete. Ai fini delle imposte dirette e dell'Iva, la società di fatto tra condomini diventa, dunque, soggetto d'imposta autonomo e quindi è tenuto a redigere un'autonoma dichiarazione dei redditi e un'autonoma dichiarazione Iva.

Sono questi i principali chiarimenti forniti dai tecnici delle Entrate con la risoluzione 10.08.2012 n. 84/E.
Si ha una società di fatto in presenza di una intesa verbale oppure quando si ha un comportamento concludente idoneo a dimostrare l'intento collettivo delle parti di stipulare un accordo per l'esercizio di un'attività imprenditoriale. La sussistenza di un elemento oggettivo, rappresentato dal conferimento di beni o servizi finalizzato alla formazione di un fondo comune, e di un elemento soggettivo, costituito dalla comune intenzione dei contraenti di vincolarsi e di collaborare allo scopo di conseguire risultati patrimoniali comuni, identifica, infatti, un contratto sociale.
Pertanto, a prescindere dalla modalità con cui si perfeziona il contratto sociale, che può anche risultare esclusivamente da manifestazioni esteriori dell'attività di gruppo, la presenza della contemporanea sussistenza dei suddetti presupposti oggettivo e soggettivo presuppone l'esistenza di una qualunque società.
Nella fattispecie in esame sottolineano i tecnici delle Entrate, si è in presenza di un accordo che interviene tra i condomini caratterizzato da un elemento oggettivo, rappresentato dal conferimento di beni e servizi, vale a dire dall'impianto fotovoltaico e dagli spazi comuni, e da un elemento soggettivo, dato dalla comune intenzione di voler conseguire dei proventi (articolo ItaliaOggi del 25.08.2012).

CONDOMINIO: Cassazione. Quando le auto rendono difficoltoso il passaggio. Vietato il parcheggio nel viale del condominio.
La sosta nella stradina condominiale è vietata: anche se lo spazio la consentirebbe senza impedire il transito. Il parcheggio da parte di alcuni abitanti del palazzo ha l'effetto di rendere meno agevole la manovra per entrare e uscire dalle autorimesse per i condomini più ligi che usano la stradina solo per entrare o uscire dai box.

La Corte di cassazione, con la sentenza 14633, torna a censurare le abitudini e le consuetudini che hanno come effetto quello di limitare «
il pari diritto di godimento del bene comune da parte degli altri condomini».
La Suprema corte si schiera dalla parte dei condomini più disciplinati e respinge le proteste di quelli più permissivi, secondo i quali «il vialetto veniva da anni pacificamente utilizzato sia per la sosta che per il transito delle vetture, in quanto la sua larghezza consentiva entrambi gli usi». Per gli appartenenti alla "fazione" della sosta libera non si trattava di un'occupazione stabile degli spazi comuni ma solo di un uso «eventuale e temporaneo».
Ma la Corte di cassazione dirime la lite di condominio in punta di codice affermando che, in base all'articolo 1102 del codice civile, «il singolo condomino può servirsi della cosa comune a patto che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto».
Una limitazione che per la Suprema corte è provata sulla base di un sopralluogo sul luogo del "crimine", disposto dal Tribunale nel corso del primo grado di giudizio. Con l'indagine in loco si era, infatti, appurato che la manovra per entrare e uscire dal garage era meno agevole, ed era inoltre indispensabile mettere le macchine "a filo" per evitare i problemi che potevano sorgere in caso di affiancamento di due vetture.
Per i giudici solo la restituzione del bene alla sua destinazione naturale (il passaggio), consente il pari godimento a tutti gli abitanti (articolo Il Sole 24 Ore del 25.08.2012).

ENTI LOCALI - VARI: Piano «bis» anti-burocrazia. Controlli semplificati sulle imprese, taglio degli oneri del 30-40%.
VIA I VISTI «LOCALI» - Regioni e Comuni dovranno ridurre le autorizzazioni per le attività produttive sotto la sorveglianza diretta di Palazzo Chigi.
STRETTA SUGLI STATALI - Si punta all'armonizzazione della riforma Fornero con quella del pubblico impiego. Maggiore spinta alla mobilità per i dipendenti in esubero.

Un nuovo sistema semplificato di controlli sulle imprese, fondato sulla "proporzionalità". Completamento anche a livello regionale, comunale e provinciale del processo di liberalizzazione delle attività produttive, con la soppressione di visti, nulla-osta e autorizzazioni, su cui vigilerà direttamente la presidenza del Consiglio. Rivisitazione della Scia e riduzione dei costi per la costituzione di Srl. Taglio degli oneri burocratici e di almeno il 30-40% degli adempimenti a carico di cittadini e, soprattutto, imprese. Ulteriore accelerazione della fase attuativa del decreto Semplifica-Italia e varo in tempi rapidi del regolamento sull'autorizzazione ambientale unica per le Pmi. Sono questi gli assi portanti della fase 2 delle semplificazioni amministrative, che dovrà contribuire a dare una significativa spinta alla crescita.
Il pacchetto è stato messo a punto dal ministro della Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi, in collaborazione con i titolari di altri dicasteri, a cominciare dal ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera. L'obiettivo è velocizzare il più possibile la macchina burocratica, fissando tempi certi per le procedure, e diminuire gli adempimenti e gli oneri a carico degli utenti, a partire dalle imprese. ... (articolo Il Sole 24 Ore del 25.08.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - VARI: Anagrafi via pec, in tribunale per le false dichiarazioni.
Dal 9 maggio scorso è più facile effettuare una pratica anagrafica anche per via telematica con pec e firma digitale. Ma è anche possibile finire in tribunale per false dichiarazioni se l'interessato dichiara situazioni dolosamente artificiali per eludere i controlli del comune in materia di iscrizioni anagrafiche.

Lo ha ribadito la polizia municipale di Torino con la circolare 12.07.2012 n. 83.
La sbandierata semplificazione in materia di iscrizione anagrafica interferisce anche con i compiti della polizia municipale, da sempre tradizionalmente dedicata ad approfondire la conoscenza dei nuovi residenti con sopralluoghi dedicati al reperimento sul campo delle informazioni necessarie. Con il dl 5/2012, convertito nella legge 35/2012, a decorrere dal 9 maggio si sono però invertiti i termini dell'intervento dei vigili. Non più sopralluoghi preventivi per verificare la reale compatibilità della richiesta con lo stato dei fatti ma successivi. L'ufficiale d'anagrafe ha infatti a disposizione 45 giorni per procedere alle verifiche del caso da effettuarsi, d'ora in poi, successivamente alla registrazione anagrafica.
In buona sostanza mentre prima l'anagrafe attendeva il resoconto degli informatori per procedere con la registrazione anagrafica dal 9 maggio la procedura è stata invertita. Per meglio dettagliare le incombenze della polizia locale il comando torinese ha quindi diramato una circolare ad hoc. I cittadini possono inoltrare la richiesta anche a mezzo fax o per via telematica mediante l'utilizzo della posta elettronica certificata e della firma digitale.
L'ufficiale d'anagrafe entro due giorni lavorativi registra le dichiarazioni e richiede alla polizia municipale gli opportuni accertamenti. All'esito di queste verifiche potranno però nascere delle brutte sorprese per i furbi. Specifica infatti la nota torinese che in caso di dichiarazioni mendaci scatterà la denuncia dell'interessato alla procura della repubblica per i reati previsti dall'art. 76 del dpr 445/2000 ovvero falsa attestazione a pubblico ufficiale ex art. 495 cp.
Attenzione a farsi trovare in casa dai vigili per evitare il rigetto delle richieste. Spiega infatti la circolare che dopo tre passaggi negativi della polizia urbana la pratica sarà rigettata. Ma prima sarà inviato all'interessato un preavviso di rigetto (articolo ItaliaOggi del 24.08.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Esuberi indolore negli enti locali. Polillo: puntare sui prepensionamenti. Bilanci locali oscuri. Il sottosegretario al Mef mette in guardia: molti comuni stanno diventando la Grecia d'Italia.
Esuberi senza «macelleria sociale» negli enti locali. I 13 mila dipendenti di troppo che andranno sfoltiti dagli organici di regioni, comuni e province saranno per gran parte («oltre la metà») individuati tra coloro che stanno per maturare i requisiti per il prepensionamento.
I conti comunque si faranno a fine anno, quando il governo con dpcm individuerà il «giusto» livello medio delle dotazioni organiche degli enti territoriali e chiederà alle amministrazioni che si pongono al di sopra di questa asticella di virtuosità di non assumere più personale (se lo sforamento supera il 20%) o dare corso ai tagli (se lo sforamento supera il 40%). In attesa di conoscere come verranno spalmati i 24 mila esuberi preventivati dall'esecutivo per tutto il pubblico impiego, il consiglio ai comuni è di «limitare il più possibile le assunzioni, soprattutto quelle fatte in modo surrettizio attraverso le partecipate».
La reale tenuta dei bilanci locali preoccupa, e non poco, il sottosegretario all'economia, Gianfranco Polillo, secondo cui la ricetta per accendere i riflettori su alcune «gestioni allegre al limite del default» è solo una: istituire un organismo indipendente di certificazione dei bilanci. Perché l'idea, lanciata in un'intervista a ItaliaOggi (il 13 luglio scorso) dal presidente della Corte dei conti, Luigi Giampaolino, di ripristinare i controlli preventivi di legittimità, pur essendo «sacrosanta», è di difficile attuazione «in quanto richiederebbe una modifica costituzionale». Mentre un freno va posto subito visto che «molti enti locali sono diventati la Grecia d'Italia» ... (articolo ItaliaOggi del 24.08.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dividendi di efficienza congelati. Impossibile investire le risorse nei fondi per la produttività. La legge 135 tenta di rilanciare i premi individuali. Ma per gli enti non ci sono molti margini.
La spending review rende sostanzialmente impossibile investire nei fondi contrattuali per la produttività le risorse ottenute da misure di risparmio adottate dalle pubbliche amministra ai sensi dell'articolo 16, comma 5, del dl 98/2011.
La disposizione prevede che per effetto di piani triennali di riorganizzazione e riqualificazione della spesa «eventuali economie aggiuntive effettivamente realizzate rispetto a quelle già previste dalla normativa vigente», possano utilizzarsi annualmente, per non oltre il 50% destinandole alla contrattazione integrativa, a condizione che per almeno il 50% siano destinate ai premi di produttività, secondo le fasce regolate dall'articolo 19 del dlgs 150/2009. Aggiunge l'articolo 16, comma 5 che, tali risorse «sono utilizzabili solo se a consuntivo è accertato, con riferimento a ciascun esercizio, dalle amministrazioni interessate, il raggiungimento degli obiettivi fissati per ciascuna delle singole voci di spesa previste nei piani di cui al comma 4 e i conseguenti risparmi. I risparmi sono certificati, ai sensi della normativa vigente, dai competenti organi di controllo».
Il dl 95/2012, convertito in legge 135/2012 tenta di rilanciare la possibilità di incrementare le risorse del bilancio destinandole a premi individuali, all'articolo 5, comma 11-quinquies, che costituisce una sorta di sperimentazione per ripristinare la mai attuata valutazione per fasce.
Il problema, tuttavia, consiste nel fatto che non vi sono sostanzialmente margini per dare corso ai piani di riorganizzazione e riqualificazione della spesa, in modo da ricavare economie da riversare in parte alla contrattazione. Non deve sfuggire che tali economie debbono essere «aggiuntive» rispetto a quelle fissate dalla legislazione vigente. Per fare solo due esempi, ciò significa che il piano dovrebbe prevedere una riduzione della spesa per il parco macchine superiore al 50% rispetto al 2011, oppure una riduzione dei buoni pasto a una cifra inferiore ai 7 euro, due tra le misure di recente introdotte dalla spending review.
Fin qui, l'applicazione dell'articolo 16, comma 5, del dl98/2011 non pare abbia avuto molta fortuna, sia perché richiede l'attivazione delle fasce di valutazione (invise ai sindacati), sia perché l'operazione di recupero di risparmi ulteriori a quelli già imposti dalla legge è molto complicata. Ma, la spending review rende i piani di riqualificazione della spesa ancora più complessi. Infatti, al di là di puntuali interventi, come nell'esempio dei buoni pasto, la legge 135/2012 prevede per gli enti locali tagli rilevantissimi ai servizi intermedi. Per le province, per esempio, si parla di 1,5 miliardi di tagli tra il 2012 e il 2013, una media di 10 milioni di taglio a provincia, mediamente il 15% del totale dei loro bilanci.
Si comprende che tra i tagli puntuali a singole voci di spesa previsti dalla legge e ancor maggiori limitazioni alle spese per servizi intermedi dovute ai fortissimi tagli ai trasferimenti ai fondi statali, margini per ulteriori risparmi di spesa da riversare alla contrattazione sostanzialmente non ve ne sono o sarebbero soltanto simbolici.
Insomma, la differenziazione delle retribuzioni di risultato di dirigenti e dipendenti privi di qualifica dirigenziale che il legislatore vorrebbe attivare con l'articolo 5, comma 11-quinquies, del dl 95/2012, convertito in legge 135/2012 pare da subito un'arma spuntata, destinata a restare solo enunciazione di principio (articolo ItaliaOggi del 24.08.2012).

ENTI LOCALI: Superbiciclette per i comuni. Pronto uno stock di 1.000 esemplari a pedalata assistita. Un bando del ministero dell'ambiente punta a incentivare la mobilità sostenibile negli enti.
Parte la sperimentazione del prototipo di bicicletta a pedalata assistita ad alto rendimento e a emissioni zero, denominato «e-bike zero» e sviluppato da Ducati Energia.
L'avviso del ministero dell'ambiente consente ai comuni di beneficiare di uno stock di 1.000 prototipi di bicicletta e di fondi per sperimentarne l'utilizzo.
Obiettivo del bando è rafforzare e integrare le azioni di mobilità sostenibile già adottate dai comuni per ridurre l'inquinamento atmosferico e la congestione derivante dal traffico veicolare, diffondere la cultura della mobilità sostenibile e l'utilizzo di mezzi di trasporto a impatto ambientale nullo per gli spostamenti quotidiani dei cittadini nonché aggiornare gli strumenti di pianificazione della mobilità nelle città. I comuni dovranno manifestare il proprio interesse alla sperimentazione entro il 30.09.2012
Fino a 100 bici per ciascun comune. Per attuare la sperimentazione, il ministero mette a disposizione dei comuni un totale di 1.000 biciclette a pedalata assistita, le quali saranno assegnate in lotti da dieci unità. Il numero minimo di biciclette assegnabili a ciascun comune è pari a 10, mentre il numero massimo è pari a 100.
Fondi per 1,2 milioni di euro a sostegno della sperimentazione. Oltre ad assegnare i prototipi di bicicletta, il ministero stanzia fondi per 1,2 milioni di euro destinati a cofinanziare i costi direttamente legati alle attività di sperimentazione e sviluppo di servizi che utilizzano il prototipo di bicicletta a pedalata assistita. I fondi saranno assegnati nella misura di 1.200 euro per ciascuna bicicletta assegnata.
Il contributo servirà a coprire i costi per la realizzazione degli info points, costi del personale dei comuni impiegato nella sperimentazione, costi delle attrezzature, dei materiali, delle strumentazioni anche tecnologiche utilizzate per la realizzazione a livello locale della sperimentazione. Inoltre potrà coprire i costi di comunicazione e disseminazione anche via web, costi del personale per le attività amministrative e di supporto tecnico, costi del personale per le attività di analisi, ricerca e monitoraggio delle azioni per tutta la fase di sperimentazione. Infine finanzierà i costi del personale per le attività di formazione tecnica specialistica e i costi di assicurazione dei prototipi.
Beneficiari i comuni sopra 30 mila abitanti. Possono presentare manifestazione di interesse i comuni con una popolazione pari o superiore a 30 mila abitanti che siano riconosciuti come comuni capoluogo di aree metropolitane ai sensi dell'art. 22 del dlgs 18.08.2000, n. 267 oppure non siano riconosciuti come comuni capoluogo di aree metropolitane ai sensi dell'art. 22 del dlgs 18.08.2000, n. 267 ma siano comunque individuati dalle regioni e dalle province autonome nelle liste di zona e di agglomerati nelle quali il livello di uno o più inquinanti eccedano il valore limite aumentato del margine di tolleranza.
Inoltre, i comuni devono aver già partecipato ai progetti predisposti dal ministero e da Anci per il monitoraggio degli interventi di tipo ambientale e in favore della mobilità sostenibile sul territorio nazionale. La manifestazione di interesse deve essere corredata dalla delibera di giunta comunale con la quale il comune delibera l'interesse a partecipare alla sperimentazione.
Possibile destinare le bici al personale comunale o a servizi di bike sharing. Nella manifestazione di interesse i comuni dovranno indicare i servizi, i soggetti o le figure professionali cui saranno assegnate le biciclette. Si potrà scegliere tra area politico-istituzionale quali sindaci, assessori, agenti di polizia municipale, dipendenti comunali; area socio-culturale quali rappresentanti delle associazioni, fondazioni, organizzazioni; area professionale quali manager, direttori di banca, rappresentanti delle associazioni di categoria; area istruzione quali direttori, presidi, rettori, professori; area servizi inteso come servizio di bike sharing; altro (articolo ItaliaOggi del 24.08.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Paletti ai gruppi unipersonali. Ammessi solo se il consigliere è l'unico eletto di una lista. La materia è regolata dal Tuel che però lascia spazio all'autonomia organizzativa degli enti.
Quali norme regolano la costituzione dei gruppi consiliari?

La materia dei gruppi consiliari è regolata dalle apposite norme statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti locali nell'ambito dell'autonomia organizzativa dei consigli, riconosciuta espressamente agli stessi dall'art. 38, comma 3, del Tuel n. 267/2000. In linea di principio sono ammissibili i mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale, per effetto di dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari, ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti.
Tuttavia, sono i singoli enti locali, nell'ambito della propria potestà di organizzazione, i titolari della competenza a dettare norme, statutarie e regolamentari, nella materia e le relative problematiche dovrebbero trovare adeguata soluzione nella specifica disciplina di cui l'ente stesso si è dotato.
Nel caso di specie, la questione riguarda la possibilità di un consigliere di tornare ad appartenere ad un gruppo i cui tre componenti, compreso lo stesso, dopo averlo regolarmente costituito ai sensi delle norme statutarie, «entro dieci giorni dalla data di convalida degli eletti», si sono determinati a costituire un gruppo diverso. Sembrerebbe, pertanto, venuto a cessare, all'interno del consiglio comunale, il gruppo originale in quanto tutti i componenti hanno costituito il nuovo gruppo consiliare.
Peraltro, nella fattispecie, lo statuto del comune prevede che, successivamente al termine su indicato, sia possibile esclusivamente «la costituzione di nuovi gruppi quando non meno di tre consiglieri si dissociano dal o dai gruppi cui avevano originariamente aderito e dichiarino di voler costituire il nuovo gruppo». Secondo le norme statutarie e regolamentari richiamate, invece, i gruppi unipersonali, per quanto riguarda l'ipotesi del consigliere che solo si è distaccato dal gruppo ultimo costituito, sarebbero ammessi solo se coincidenti con l'unico consigliere eletto in una lista, mentre non potrebbe costituire un gruppo l'unico consigliere che rappresenti la lista dopo il distacco degli altri componenti.
Non è, invece, consentita, nel corso della consiliatura, come nel caso di specie, la costituzione di un gruppo formato da una sola persona, qualora lo statuto preveda che «è consentita la costituzione di un gruppo misto, se a comporlo siano almeno tre consiglieri».
In tal caso «il singolo consigliere che fuoriesca dal gruppo di appartenenza ha una sola alternativa: confluire in altro gruppo costituito, ma non può autonomamente formare un nuovo gruppo consiliare» (Tar Sicilia–Palermo sentenza n. 1462 del 2003).
Peraltro, in relazione alla mancata previsione di costituire gruppi c.d. unipersonali, la giurisprudenza ha ritenuto legittima la norma regolamentare che prevede un numero minimo di componenti per la formazione di un gruppo nell'ambito del consiglio comunale, rientrando dunque, nella scelta discrezionale dello stesso consiglio stabilire il minimum necessario per la costituzione del gruppo (Tar Sicilia ult.cit.).
Solo il consiglio comunale, nella sua autonomia e in quanto titolare della competenza a dettare le norme cui conformarsi in tale materia, è abilitato a fornire un'interpretazione autentica delle proprie norme statutarie e regolamentari (articolo ItaliaOggi del 24.08.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

VARI: Grupponi in bici solo in sicurezza. I Trasporti: servono le luci e i campanelli.
Sono fuori legge i gruppi di ciclisti in tenuta sportiva che circolano affiancati sulle strade carrabili con biciclette da corsa e mountain bike senza dispositivi di segnalazione visiva e campanelli. Una deroga particolare è infatti prevista dal codice stradale solo in caso di competizioni agonistiche ma non certo per le passeggiate domenicali turistiche.

Lo ha chiarito il Mintrasporti con il parere 01.08.2012 n. 4447 di prot..
È una doccia fredda per gli appassionati delle due ruote a pedali che specialmente nei fine settimana scorazzano in lungo e in largo su tutte le strade della Penisola non sempre con comportamenti molto corretti. L'associazione nazionale camperisti di Firenze ha infatti richiesto chiarimenti circa la legittimità di queste pedalate e in particolare sulle dotazioni minime che devono essere applicate alle biciclette e alle regole di comportamento da osservare.
Ai sensi dell'art. 68 del codice stradale, specifica innanzitutto il ministero, i velocipedi devono essere muniti anteriormente e posteriormente di luci. Ma anche di catadiottri posteriori, laterali e sui pedali anch'essi debitamente omologati ai sensi dell'art. 224 del regolamento stradale. Solo quando i velocipedi sono utilizzati durante competizioni sportive non trova applicazione questa disposizione, prosegue la nota. E con strade chiuse al traffico ben vengano pure i gruppi dei ciclisti in fuga verso il traguardo.
Attenzione però al corretto comportamento sulle strade aperte al traffico. L'art. 182 del codice specifica che i ciclisti in questo caso devono procedere su unica fila in tutti i casi in cui le condizioni della circolazione lo richiedano e comunque mai affiancati in numero superiore a due. Quando circolano fuori dai centri abitati i ciclisti devono sempre procedere su unica fila, prosegue la nota, «salvo che uno di essi sia minore di anni dieci e proceda sulla destra dell'altro».
In ogni caso i ciclisti quando circolano in promiscuo con altri veicoli sono tenuti a rispettare le norme di comportamento previste dal titolo V del codice, in quanto applicabili. Ovvero fermarsi ai semafori, agli incroci e dare la precedenza dove previsto. Per cambiare direzione o corsia, conclude la nota ministeriale, anche i ciclisti devono assicurarsi di non creare pericolo segnalando in anticipo le proprie intenzioni (articolo ItaliaOggi del 22.08.2012).

ENTI LOCALI: Lucro sulle sanzioni stradali. Porta chiusa per i privati.
L'importo che può essere erogato dai comuni per il noleggio di sistemi autovelox non può mai essere collegato al numero delle sanzioni accertate e neppure a quello delle multe riscosse.

Lo ha ribadito il ministero dei trasporti con il parere 25.06.2012 n. 3639 di prot..
La questione dell'ingerenza dei privati nella gestione dei proventi sanzionatori è ancora molto dibattuta a causa delle frequenti irregolarità riscontrate sul campo con contratti capestro a percentuale decisamente vietati dalla legge.
Nonostante le sonore e ripetute bocciature di questa pratica ci sono ancora dubbi tra gli operatori di settore e per questo il ministero dei trasporti ha divulgato ulteriori istruzioni. Con la direttiva del Viminale del 14.08.2009 la questione delle modalità di intervento dei privati nelle pratiche autovelox è già stata chiaramente trattata. L'esercizio dell'attività di controllo spetta esclusivamente alla polizia stradale che deve avere la gestione e la disponibilità anche dei sistemi elettronici per il controllo del traffico.
Al paragrafo 5.3 della nota 14.08.2009, viene inoltre specificamente trattata anche la questione del corrispettivo da erogare in caso di locazione degli strumenti. Questo importo deve essere sempre commisurato al costo delle operazioni effettuate o in funzione del tempo di utilizzo delle apparecchiature e non alle sanzioni eventualmente riscosse.
Del resto la stessa legge 120/2010, in vigore definitivamente dal 13.08.2010, specifica all'art. 61 che agli enti locali è consentita l'attività di accertamento strumentale delle violazioni al decreto legislativo n. 285 del 1992 soltanto mediante strumenti di loro proprietà o da essi acquisiti con contratto di locazione finanziaria o di noleggio a canone fisso, da utilizzare ai fini dell'accertamento delle violazioni esclusivamente con l'impiego del personale dei corpi e dei servizi di polizia locale.
Da quanto sopra, conclude la nota in commento, «appare evidente come il legislatore, nel richiamare il noleggio a canone fisso quale modalità di acquisizione degli strumenti da utilizzare ai fini degli accertamenti delle violazioni al codice della strada, abbia volutamente escluso la possibilità di utilizzare il sistema a percentuale applicata ai proventi sanzionatori, a fronte del corrispettivo da elargire per il noleggio dei medesimi strumenti» (articolo ItaliaOggi del 21.08.2012).

APPALTI: L'impresa bara? Un sito lo scopre. Le p.a. verificano le autocertificazioni. Con un sito internet.  Il portale, realizzato da InfoCamere, consente l'accesso diretto ai dati del Registro Imprese.
Il servizio per la verifica delle autocertificazioni delle imprese da parte delle pubbliche amministrazioni è attivo. Le amministrazioni pubbliche hanno a disposizione un nuovo portale https://verifichepa.infocamere.it, che consente loro di controllare la veridicità delle dichiarazioni sostitutive ricevute dalle imprese e dalle persone, relativamente ai dati contenuti nel registro delle imprese.
Le p.a. che necessitano di verificare, a campione o sistematicamente, le autocertificazioni prodotte dalle imprese e dai cittadini, possono trovare immediata risposta tramite questo servizio telematico anziché rivolgersi alla Camera di commercio competente. Il sito VerifichePA è stato realizzato da InfoCamere per conto delle Cciaa per rispondere a quanto stabilito dall'art. 15 della legge n. 183/2011 (legge di Stabilità 2012), che ha sancito il principio della «decertificazione».
Questa norma ha previsto che dall'01.01.2012 i certificati rilasciati dalla pubbliche amministrazioni, relativi a stati, qualità personali e fatti siano validi ed utilizzabili solo nei rapporti tra privati e, pertanto, le stesse p.a. devono acquisire d'ufficio tutti i dati in possesso delle altre amministrazioni pubbliche, senza chiederle direttamente all'interessato.
Il servizio, oltre a fornire documenti che attestano la veridicità delle dichiarazioni sostitutive fornisce elenchi di caselle Pec delle società di persone e di capitale, secondo quanto previsto dall'art. 6, comma 1-bis, del dlgs n. 82/2005 (Codice dell'amministrazione digitale). In particolare, il sito «verifichepa.infocamere.it» consente agli utenti abilitati, di ottenere due tipologie di informazioni:
- documento di verifica autocertificazione;
- elenchi di Pec.
Tra i documenti disponibili non è compreso quello antimafia. Per accedere al sito occorre registrarsi fornendo gli estremi della propria p.a. (il codice Ipa e posta elettronica certificata, Pec). Le p.a. che vorranno accedere ai dati delle Camere di commercio in cooperazione applicativa, in base a quanto previsto dal Cad, dovranno sottoscrivere con InfoCamere una diversa Convenzione.
Per usufruire del servizio, completamente gratuito, bisogna:
- essere iscritti all'Indice delle pubbliche amministrazioni (Ipa);
- inserire, tramite le pagine del sito, i dati anagrafici del soggetto incaricato, l'ente di riferimento e l'indirizzo Pec depositato all'Ipa;
- trasmettere al Call Center, via fax, il modulo cartaceo scaricato dal sito, compilato e sottoscritto, accompagnato dalla copia di un documento di identità valido dopo aver ricevuto, alla propria casella Pec, le credenziali per l'accesso, accettare via web le condizioni di utilizzo specifiche del servizio (articolo ItaliaOggi del 21.08.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pubblico impiego. Per invertire la rotta si punta sulla flessibilità dei meccanismi di valutazione prevista dalla spending review.
Produttività e premi, sfida d'autunno per la Pa.
ADDETTI IN CALO/ La Corte dei conti certifica la diminuzione di 124.700 unità tra il 2007 e il 2010 A ottobre via al confronto sui 24mila esuberi in agenda.

Il Governo sarà probabilmente celebrato per tanti obiettivi che verranno raggiunti con il primo ciclo di spending review ma non passerà alla storia per i nuovi interventi sul pubblico impiego. Semplicemente perché, in questo campo, i "risultati storici" sarebbero già stati acquisiti anche senza l'ultimo decreto. Parlano i numeri messi in fila dalla Corte dei conti in maggio: tra il 2007 e il 2010 i dipendenti pubblici sono calati di 124.700 unità (-3,4%). In quei quattro anni in Germania sono aumentati del 3% e in Spagna dell'11%, mentre in Francia e Regno Unito la flessione dello 0,5% è arrivata dopo anni di incrementi consistenti.
Se si allunga lo sguardo al decennio 2001-2010, con l'ausilio delle statistiche Ocse si scopre che solo in Italia e Portogallo il numero dei dipendenti pubblici si è ridotto (da noi del 4,4%, da 3,67 milioni a 3,51). Mentre in Irlanda, Grecia e Spagna la crescita è stata attorno al 30%, del 10% nel Regno Unito e in Belgio, del 5,1% in Francia e del 2,5% in Germania. Che cosa succederà entro fine legislatura? Nell'ultima Relazione annuale al Parlamento sullo stato della Pa dello scorso novembre, Renato Brunetta ha indicato un calo di addetti di oltre 300mila unità tra il 2008 e il 2013 (-8,4%). Si vedrà.
Tavolo d'autunno
Il tavolo che si aprirà in autunno per la gestione dei tagli alle dotazioni organiche è naturalmente molto importante. E la partita che su quel tavolo dovrà giocare il ministro Filippo Patroni Griffi sarà cruciale. Secondo i calcoli -prudenziali per i sindacati- della relazione tecnica alla spending review, in ballo ci sarebbero 24mila addetti (11mila delle Pa centrali e 13 mila degli enti territoriali) da avviare al pensionamento anticipato oppure alla mobilità collettiva in vista di un possibile trasferimento ad amministrazioni in penuria di personale.
Ma la stessa relazione non stima i risparmi conseguibili, preferendo rinviare la verifica a cosa fatte, vale a dire al 2014-2015. Anche qui, però, non c'è da aspettarsi più di un miglioramento al margine. Perché gli obiettivi più grandi sono già stati colti. È sempre la Corte dei conti a rilevarlo: nel 2011 la spesa per redditi da lavoro dipendente è scesa dell'1,2% (-0,8% in termini di cassa) a 170,05 miliardi, facendo segnare la prima inversione di tendenza dal 1998.
Contratti e turn over
La spesa per stipendi è passata dall'11,1 al 10,8% del Pil. Il perché è noto: il blocco del turn over e della contrattazione, i limiti alla crescita dei trattamenti individuali e la stretta sui fondi unici di amministrazione che hanno di fatto azzerato lo slittamento salariale. Questi motori, a legislazione invariata, continueranno a funzionare fino al 2014 –anno del sostanziale allineamento tra la dinamica delle retribuzioni pubbliche con quelle private– con cali di spesa dello 0,6% quest'anno, dello 0,5% nel 2013 e dello 0,1% l'anno dopo. Se i contratti verranno sbloccati si prevede un rialzo dello 0,5% nel 2015, anno in cui la massa salariale dell'intera Pa scenderebbe però sotto il 10% del Pil.
Dobbiamo credere in queste previsioni, contenute nel Documento di economia e finanza firmato da Mario Monti lo scorso aprile? L'Istat dice di sì, visto che negli ultimi dieci anni lo scostamento tra le previsioni del governo con i suoi dati a consuntivo ha avuto oscillazioni comprese tra gli 8 e i 2 milioni, su un aggregato di 170 miliardi di euro. E come siamo messi nelle classifiche europee sulla spesa per i dipendenti pubblici? Ai primi posti, con un incidenza pari al 23,2% del totale della spesa corrente del 2010, solo la Germania e i Paesi Bassi hanno fatto meglio nell'Ue a 27, con un 17,8% e un 21,6 per cento.
La produttività perduta
Il gap che resta da colmare con gli altri Paesi riguarda la produttività. Calcolata in termini di costo del lavoro per unità di prodotto (clup), è in costante calo dal 2003, passata dal 4 all'1,5% sul Pil, e dopo la ripresina del 2009 (4,1%) è precipitata sotto il 2 per cento. Una Pa efficiente ovviamente eleva la produttività totale dei fattori e il Pil potenziale. Su questo terreno le classifiche internazionali (Ocse, Eurostat, Banca mondiale) si sprecano.
Tutte fotografano il ritardo italiano e la convergenza è unanime nelle indicazioni di policy: serve una premialità selettiva basata su merito e performance e serve più formazione. Anche qui siamo indietro: l'ultimo Rapporto sulla formazione fatto dalla Scuola superiore della Pa –ha ricordato recentemente Luciano Hinna, ex membro della Commissione indipendente per la valutazione e la trasparenza (Civit)– dice che nel 2009, per le sole Pa centrali, sono stati investiti 141 milioni (lo 0,65% della massa salariale), in Francia si investe circa il 6% e in Germania il 4,4.
In questo contesto non bisogna abbassare la guarda sul fronte della valutazione delle performance degli uffici, obiettivo che la spending review ha rilanciato: «Noi in giugno avevamo allertato il governo che in troppe amministrazioni centrali non erano state effettuate le valutazioni individuali previste dalla riforma Brunetta», spiega Romilda Rizzo, presidente della Civit. Lo stop, oltre alla mancanza di risorse da redistribuire, era legato alla rigidità della vecchia norma, che prevedeva una premialità su tre fasce, con l'ultima di fatto costretta a rinunciare a risorse accessorie.
«Ora la previsione normativa è che non meno del 10% del personale, dirigente e non, se supera gli obiettivi di performance potrà contare su un trattamento accessorio maggiorato del 10-30% –ricorda Rizzo–. C'è maggiore flessibilità e semplicità per la misurazione degli obiettivi, che devono essere specifici, ripetibili, ragionevolmente realizzabili e collegati a scadenze temporali. Ora vediamo come andrà ma mi sembra la strada giusta» (articolo Il Sole 24 Ore del 21.08.2012 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: La Suprema corte sulla giusta causa. Licenziato l'impiegato maleducato di carattere.
Rischia il licenziamento il dipendente che con il suo comportamento danneggia l'immagine dell'azienda presso i clienti esterni.

La Corte di Cassazione, con la sentenza 14575, si allinea ai giudici di merito che avevano considerato legittima la massima punizione nei confronti dell'impiegata di una società che forniva servizi in materia di proprietà intellettuale per l'Ufficio italiano brevetti e marchi di Roma.
A far scattare il licenziamento erano state in primo luogo le "dimenticanze" della ricorrente che, sistematicamente, ometteva di riferire al suo datore di lavoro le segnalazioni che l'Ufficio brevetti faceva sulle imprecisioni riscontrate nelle pratiche eseguite dalla Spa.
Non paga della sua "reticenza" la dipendente aveva un comportamento «scorretto e imbarazzante, offensivo nei confronti di dirigenti e impiegati»: un pessimo carattere che la portava a non fare discriminazioni e a essere maleducata sia con i colleghi sia con i clienti.
Inevitabile il licenziamento, disposto soprattutto per il danno all'immagine provocato alla società dalle inadempeinze e dalle intemperanze dell'impiegata, accusata anche di essere poco collaborativa con i colleghi, tanto da deteriorare il clima lavorativo.
La sezione lavoro avalla il licenziamento ampliando così la casistica di quello che si può o non si può fare all'interno del posto di lavoro.
Con la sentenza 10426, del luglio scorso, gli stessi giudici della Suprema corte erano stati più clementi verso un lavoratore a cui era sfuggito un "vaffa" al capo, liquidato come «mera intemperanza verbale, non seguita da altri comportamenti scorretti e inidonea a dimostrare una volontà di insubordinazione o di aperta insofferenza nei confronti del potere disciplinare e organizzativo del datore di lavoro».
Nel marzo 2011 (sentenza 6500) la sezione lavoro aveva deciso di farla passare liscia anche a due colleghi che si erano azzuffati. Troppo severa la misura del licenziamento per «un diverbio litigioso che, seppur acceso, non aveva degenerato né aveva dato luogo ad un blocco della produzione» (articolo Il Sole 24 Ore del 21.08.2012).

ENTI LOCALI - VARI: Semafori laser ancora in stand by. Mancano le norme attuative alla legge 120/2010. Ferme le tabelle countdown e i pannelli velocità.
Regolarizzazione dei semafori laser, delle tabelle countdown e dei pannelli luminosi installati a lato della strada per indicare la velocità dei veicoli. Accertamenti relativi alla guida con droghe.
Sono questi gli aspetti più rilevanti della riforma del codice stradale persi nel cammino ovvero che a distanza di due anni dall'entrata in vigore della legge n. 120 del 29.07.2010 attendono disposizioni di attuazione per diventare concretamente operativi.
Semafori laser e tabelle countdown. Doveva essere adottato entro il 12.10.2010 ma non è ancora stato emanato il decreto ministeriale per definire le caratteristiche per l'omologazione e l'installazione degli impianti di regolazione della velocità, degli impianti che si attivano al rilevamento della velocità dei veicoli in arrivo e dei dispositivi finalizzati a visualizzare il tempo residuo di accensione delle luci dei nuovi impianti semaforici.
Quindi, per la regolarizzazione si dovrà attendere quanto meno il 2013, considerato che le disposizioni di cui all'art. 60 della legge n. 120/2010 si applicheranno decorsi sei mesi dalla data di adozione del decreto ministeriale.
Recentemente, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, con il parere 04.07.2012 n. 3925 di prot., ha ribadito che, in assenza del decreto attuativo, tutte le postazioni attive e troppo creative non sono conformi alla normativa stradale e pertanto vanno spente.
Pannelli luminosi della velocità. Anche se l'art. 7 della legge n. 120/2010 ha ammesso la regolamentazione dei pannelli luminosi che segnalano all'utenza la velocità dei veicoli in transito, questi strumenti restano tuttora fuori legge. Infatti, in assenza delle regole tecniche necessarie all'omologazione dei modelli, queste installazioni risultano essere al momento ancora non conformi al codice della strada. Ciò è stato ribadito più volte nel corso degli ultimi mesi dal ministero delle infrastrutture e dei trasporti. E non è detto che gli impianti esistenti possano poi essere regolarizzati. Gli enti che impiegano i tabelloni possono incorrere in responsabilità amministrative e civili e ingenerare inutili contenziosi con l'utenza stradale.
Guida con droghe. La riforma stradale introdotta dalle legge n. 120 del 29.07.2010 ha voluto potenziare l'utilizzo dei precursori, ovvero strumenti portatili non invasivi facilmente manovrabili, per l'accertamento della guida con droghe. Le disposizioni dell'art. 187 del codice della strada, come modificato dalla legge n. 120/2010, prevedono che se l'accertamento preliminare ha dato esito positivo ovvero la polizia ha comunque ragionevole motivo di ritenere che il conducente è alterato dalla droga, il personale medico può procedere ad accertamenti clinico-tossicologici ovvero a prelievo di campioni di mucosa del cavo orale.
Però manca ancora all'appello il decreto ministeriale che deve definire le modalità di effettuazione degli accertamenti e le caratteristiche degli strumenti da impiegare. Lo stesso decreto potrà prevedere e disciplinare gli accertamenti sulla guida drogata anche su campioni di fluido del cavo orale, anziché su campioni di mucosa.
Il ministero dell'interno con la circolare 16.03.2012 n. 300/A/1959/12/109/56, ha confermato che il prelievo veloce in strada della saliva all'automobilista sospettato di guida alterata dalla droga non è ancora stato approvato dal ministero e pertanto non ha pieno valore legale. Ma ora tutte le procedure di accertamento potrebbero essere rimesse in discussione dai disegni di legge C 4662 e C 5361 all'esame della camera.
Multe a rate. Per quanto riguarda il pagamento rateizzato delle sanzioni per le multe stradali, pur non essendo stato ancora emanato il decreto ministeriale di attuazione, il ministero dell'interno con la circolare n. 6535 del 22.04.2011 ha precisato che l'art. 202-bis è già direttamente applicabile. Pertanto, per le sanzioni di importo superiore a 200 euro l'interessato può chiedere, entro 30 giorni, la ripartizione del pagamento in rate mensili, qualora si trovi in condizioni economiche disagiate.
La presentazione dell'istanza preclude la facoltà di ricorrere al prefetto o al giudice di pace. Entro novanta giorni l'autorità deve adottare un provvedimento di accoglimento o di rigetto. In caso di accoglimento della richiesta il pagamento può essere ripartito fino a 60 rate, con l'applicazione di interessi. L'ammontare di ciascuna rata comunque non può essere inferiore a 100 euro.
Il beneficio decade in caso di mancato pagamento della prima rata o successivamente di due rate.
Contrassegno invalidi. Grazie alla riforma stradale del 2010, si erano poste le basi per adottare il contrassegno uniforme europeo per la sosta dei disabili. Infatti, l'art. 58 della legge n. 120 del 29.07.2010 aveva modificato l'art. 74 del decreto legislativo n. 196 del 30.06.2003 (codice in materia di protezione dei dati personali), sopprimendo il divieto di usare diciture o simboli, dai quali si possa desumere la speciale natura dell'autorizzazione per effetto della sola visione del contrassegno.
Queste nuove disposizioni, in vigore dal 13.08.2010, avevano eliminato gli ostacoli normativi all'adozione in Italia del contrassegno europeo per invalidi. Finalmente, a distanza di due anni, è stato recentissimamente firmato il decreto del presidente della repubblica che introduce nell'ordinamento interno il contrassegno invalidi comunitario, apportando modifiche all'art. 381 del regolamento di esecuzione e attuazione del codice della strada. Il nuovo «contrassegno di parcheggio per disabili» sarà conforme al modello previsto dalla raccomandazione del consiglio dell'Unione europea del 04.06.1998.
Sul modello di colore azzurro chiaro, con il simbolo bianco della sedia a rotelle su fondo azzurro scuro, saranno trascritti e apposti la data di scadenza, il numero di serie e il nome e il timbro dell'autorità nazionale che rilascia il contrassegno e nella parte retrostante, non visibile, il nominativo e la fotografia del soggetto autorizzato.
Entro tre anni dall'entrata in vigore del dpr i vecchi modelli di contrassegno invalidi dovranno essere sostituiti dal nuovo contrassegno salvo che i comuni stabiliscano un periodo inferiore a tre anni. Durante il periodo transitorio i permessi invalidi già rilasciati resteranno validi. Si attende ora solo la pubblicazione del dpr sulla Gazzetta Ufficiale.
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Dal 2013 proventi autovelox da ripartire.
Scatterà dal 2013 l'obbligo dell'attesa ripartizione dei proventi autovelox con tutta la filiera burocratica connessa. Il comma 16 dell'art. 4-ter del decreto legge n. 16/2012, inserito in sede di conversione dalla legge n. 44/2012, in vigore dal 29.04.2012, ha introdotto un automatismo specificando che anche in mancanza dell'atteso decreto necessario per avviare la ripartizione e la rendicontazione dei proventi (frutto della riforma stradale di agosto 2010) il meccanismo antiabusi entrerà ugualmente in vigore.
La ripartizione dei proventi autovelox riguarderà gli accertamenti alle violazioni dei limiti di velocità rilevati dagli organi di polizia stradale sulle strade appartenenti a enti diversi da quelli dai quali dipendono gli organi accertatori.
Le somme derivanti dalla ripartizione dei proventi delle sanzioni dovranno essere destinate alla realizzazione di interventi mirati, preventivamente individuati dalla legge.
Inoltre, sarà necessario relazionare annualmente al ministero, entro il 31 maggio, tutte le infrazioni stradali accertate nel corso dell'anno precedente, con particolare attenzione all'autovelox. Una criticità dell'impianto normativo riguarda la data esatta dalla quale decorrono questi nuovi obblighi.
L'Anci, con una nota interpretativa, ha affermato che il dies a quo per il calcolo dei novanta giorni che daranno il via all'automatismo si calcola dal 29.04.2012, data di entrata in vigore della legge n. 44/2012. In tal caso, dunque, l'obbligo di ripartizione dei proventi e tutta la burocrazia connessa decorrono dal 29.07.2012. O meglio a partire dall'esercizio finanziario immediatamente successivo, cioè dall'01.01.2013. Infatti, secondo l'Anci la novella non ha abrogato il comma 3° dell'art. 25 della legge 120/2010.
Questa disposizione consente di rinviare all'esercizio finanziario dell'anno 2012 tutte le novità in materia di autovelox con conseguente obbligo di relazione annuale procrastinato al 31.05.2014 (articolo ItaliaOggi Sette del 20.08.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Decreto sviluppo. L'obiettivo delle nuove norme è creare un'interfaccia «globale» che dialoghi con cittadini e professionisti.
Front-office unico per l'edilizia. Lo sportello comunale dovrà ottenere tutti gli assensi dalle altre Pa coinvolte.
LE CRITICITÀ/ L'allargamento delle competenze pone una sfida organizzativa non trascurabile a molte realtà locali.

Varie sono le novità, formali e sostanziali, che l'articolo 13 della legge 134/2012, di conversione del decreto sviluppo 83/2012, ha apportato alla disciplina dello sportello unico per l'edilizia (Sue), del quale sono ridefinite e rafforzate le funzioni, sia nei confronti del cittadino, che delle altre amministrazioni. Il fatto che lo sportello debba acquisire direttamente gli atti di assenso dalle altre amministrazioni, comunque, porrà anche una sfida organizzativa di non poco conto per molti uffici, chiamati ad attrezzarsi per affrontare le nuove incombenze, senza però poter contare su maggiori risorse.
All'articolo 5 del Dpr 380/2001 viene innanzitutto aggiunto il comma 1-bis, in forza del quale il Sue costituisce da oggi il solo front-office per il privato, essendo «l'unico punto di accesso» al quale il soggetto interessato da una pratica dovrà rivolgersi «in relazione a tutte le vicende amministrative riguardanti il titolo abilitativo e l'intervento edilizio oggetto dello stesso».
A rimarcare la peculiarità della funzione svolta dal Sue, lo stesso comma stabilisce inoltre che sia questo l'ufficio tenuto a fornire al cittadino una «tempestiva risposta» alle sue istanze «in luogo di tutte le pubbliche amministrazioni», che possono essere a vario titolo coinvolte nel procedimento. A questo fine, ricalcando le previsioni relative al responsabile del procedimento (articolo 6, legge 241/1990), la norma dispone che il Sue, anche attraverso l'indizione di conferenza di servizi, debba acquisire gli atti di assenso eventualmente necessari e che debbano essere rilasciati dalle Pa preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e storico-artistica o alla tutela della salute e della pubblica incolumità.
Il comma lascia comunque espressamente inalterate le competenze dello sportello unico per le attività produttive, così come definite dal regolamento approvato col Dpr 160/2010.
Viene aggiunto anche il comma 1-ter, che ribadisce l'unicità delle attribuzioni del Sue, che diviene l'unico ufficio competente a intrattenere rapporti col soggetto interessato e a trasmettergli qualunque comunicazione.
Ogni altro ufficio comunale o Pa interessata dal procedimento dovrà inoltrare «immediatamente» al Sue eventuali atti autorizzatori, nulla osta, pareri o atti di consenso, anche a contenuto negativo, comunque denominati, senza avere rapporti diretti col cittadino, al quale dovrà in ogni caso comunicare di avere trasmesso allo sportello la documentazione che lo interessa.
Ulteriori modifiche riguardano l'abrogazione del comma 4, i cui contenuti vengono in parte trasfusi nel nuovo comma 3, che ridefinisce l'attività istruttoria dell'ufficio e tende a escludere qualunque obbligo di produzione di certificati da parte del cittadino, in coerenza con le disposizioni in tema di decertificazione; finalità rimarcata anche dalle modifiche introdotte all'articolo 20, comma 3, ove non si prevede più che il richiedente possa autonomamente allegare alla domanda per il rilascio del permesso di costruire pareri o altri atti di assenso.
Spetta dunque unicamente allo sportello l'acquisizione –diretta o tramite conferenza di servizi– degli atti di assenso, comunque denominati, necessari alla realizzazione dell'intervento edilizio.
Tra questi, oltre ai pareri della Asl e dei Vigili del fuoco, già previsti dalle lettere a) e b) dell'originario comma 3, vengono ricompresi quelli delle nuove lettere da c) a m), che ricalcano le previsioni contenute nelle lettere da a) a i) del soppresso quarto comma.
In particolare, sarà compito del Sue acquisire: dagli uffici tecnici regionali le autorizzazioni relative alle costruzioni in zone sismiche di cui agli articoli 61, 62 e 94 del Testo unico e dall'amministrazione militare quelle relative alle costruzioni nelle zone di salvaguardia contigue a opere di difesa dello Stato o a stabilimenti militari, nei Comuni militarmente importanti, ai sensi dell'articolo 333 del Dlgs 66/2010.
Le ulteriori autorizzazioni che il Sue, ove necessario, è tenuto ad acquisire sono quelle del direttore della circoscrizione doganale, nei casi di costruzione, spostamento o modifica di edifici posti nelle zone di salvaguardia in prossimità della linea doganale e del mare territoriale (articolo 19, Dlgs 374/1990), nonché quelle dell'autorità competente per le costruzioni su terreni confinanti con il demanio marittimo (articolo 55, Codice della navigazione).
Lo sportello unico dovrà inoltre acquisire gli atti di assenso necessari per l'esecuzione di interventi edilizi su immobili assoggettati a vincoli da parte del Codice dei beni culturali e del paesaggio –fermo restando che, in caso di dissenso manifestato dall'amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali, si procede ai sensi del medesimo Codice (articolo 25, Dlgs 42/2004)– nonché il parere vincolante della Commissione per la salvaguardia di Venezia, ai sensi dell'articolo 6, legge 171/1973.
Di competenza dello sportello è infine l'acquisizione di:
- parere dell'autorità competente in materia di assetti e vincoli idrogeologici;
- assensi in materia di servitù viarie, ferroviarie, portuali e aeroportuali;
- nulla osta dell'autorità competente in materia di aree naturali protette, ai sensi dell'articolo 13 della legge quadro 394/1991 ... (
articolo Il Sole 24 Ore del 20.08.2012).

GIURISPRUDENZA

APPALTIDal compendio delle norme enucleabili dall’art. 37 del D.Lgs. 163/2006 si desume che, quale che sia il settore dell’appalto (lavori, servizi, forniture), l’A.T.I. offerente deve indicare sia le quote di partecipazione di ciascun componente, sia le quote di esecuzione dell’appalto, e vi deve essere corrispondenza tra quota di partecipazione e quota di esecuzione: tale obbligo di duplice indicazione è espressione di un principio generale che prescinde dall’assoggettamento della gara alla disciplina comunitaria e non consente distinzioni legate alla morfologia del raggruppamento (verticale o orizzontale), o alla tipologia delle prestazioni, principali o secondarie, scorporabili o unitarie.
Si richiede altresì che la singola impresa componente dell’A.T.I. abbia la qualifica, ovvero i requisiti di ammissione, in misura corrispondente alla quota di partecipazione, il tutto a garanzia della stazione appaltante e del buon esito del programma contrattuale nella fase di esecuzione: l’inosservanza di detta regola comporta l’inammissibilità dell’offerta contrattuale, perché implica l’esecuzione della prestazione da parte di un’impresa priva (almeno in parte) di qualificazione in una misura simmetrica alla quota di prestazione ad essa devoluta dall’accordo associativo ovvero dall’impegno delle parti a concludere l’accordo stesso.
In particolare l’art. 37, comma 13, del D.Lgs 163/2006 –con disposizione valida anche per gli appalti di servizi e forniture– stabilisce che i concorrenti riuniti in ATI devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento, per cui è evidente che deve sussistere una perfetta corrispondenza tra quota di lavori (o, nel caso di forniture o servizi, di parti di esse) eseguita dal singolo operatore economico e quota di effettiva partecipazione al raggruppamento, e che vi è la necessità che sia l’una che l’altra siano specificate dai componenti del raggruppamento all’atto della partecipazione alla gara.
Il Consiglio di Stato ha puntualizzato che:
• a fini di garanzia di effettività della disposizione lo stesso art. 37, al comma 4, statuisce che nel caso di forniture o servizi (alle quali ultime si riferisce appunto la gara all’esame) devono essere specificate le parti della fornitura o del servizio che saranno eseguite dai singoli operatori economici riuniti o consorziati;
• l’indicazione delle stesse si rivela dunque requisito di ammissione alla gara e deve quindi provvedersi a tale incombente nella domanda di partecipazione alla gara (valendo anche per le A.T.I. costituende, che sono tenute a fornire l’indicazione già nella fase di ammissione alla gara, e dunque prima dell’aggiudicazione) e non in sede di esecuzione del contratto;
• l’obbligo di specificazione in esame trova la sua ratio nella necessità di assicurare alle amministrazioni aggiudicatrici la conoscenza preventiva del soggetto che in concreto eseguirà la fornitura, non solo per consentire una maggiore speditezza nella fase di esecuzione del contratto, ma anche per rendere edotta l’amministrazione procedente dell’impresa che eseguirà le varie parti dell’appalto e dei requisiti per realizzarle a regola d’arte, così da permettere la previa verifica sulla competenza tecnica dell’esecutore ed evitare che le imprese si avvalgano del raggruppamento non per unire le rispettive disponibilità tecniche e finanziarie, ma per aggirare le norme d’ammissione alle gare;
• trattandosi di norma di rilievo pubblicistico di chiara natura imperativa, che è volta a porre la stazione appaltante nelle migliori condizioni per verificare i requisiti di tutti i soggetti partecipanti alle procedure di evidenza pubblica, la sua cogenza è piena a prescindere da un necessario richiamo negli atti di gara e dall’esistenza di una sanzione espressa di esclusione posta a presidio del rispetto della norma.
La chiara disposizione dettata, per gli appalti di servizi, dal comma 4 dello stesso articolo 37 –secondo cui “nel caso di forniture o servizi nell'offerta devono essere specificate le parti del servizio o della fornitura che saranno eseguite dai singoli operatori economici riuniti o consorziati”– non può determinare la non applicazione anche del successivo comma 13 dello stesso articolo: le due disposizioni non sono infatti incompatibili e quella dettata dal comma 4 costituisce (anche) una garanzia di effettività della disposizione di cui al comma 13.

Con riguardo all’ultima contestazione, la Sezione si è recentemente pronunciata sull’argomento (cfr. sentenza 23/01/2012 n. 99, che risulta appellata), sottolineando come secondo il giudice d’appello dal compendio delle norme enucleabili dall’art. 37 del D.Lgs. 163/2006 si desume che, quale che sia il settore dell’appalto (lavori, servizi, forniture), l’A.T.I. offerente deve indicare sia le quote di partecipazione di ciascun componente, sia le quote di esecuzione dell’appalto, e vi deve essere corrispondenza tra quota di partecipazione e quota di esecuzione (Consiglio di Stato, sez. IV – 27/11/2010 n. 8253): tale obbligo di duplice indicazione è espressione di un principio generale che prescinde dall’assoggettamento della gara alla disciplina comunitaria e non consente distinzioni legate alla morfologia del raggruppamento (verticale o orizzontale), o alla tipologia delle prestazioni, principali o secondarie, scorporabili o unitarie (Consiglio di Stato, sez. III – 15/07/2011 n. 4323; sez. V – 08/11/2011 n. 5892, che ha dato conto del consolidarsi dell’indirizzo giurisprudenziale ed ha disatteso la richiesta di rimessione dell’affare all’adunanza plenaria; si veda anche TAR Sardegna, sez. I – 19/04/2012 n. 385).
Si richiede altresì che la singola impresa componente dell’A.T.I. abbia la qualifica, ovvero i requisiti di ammissione, in misura corrispondente alla quota di partecipazione, il tutto a garanzia della stazione appaltante e del buon esito del programma contrattuale nella fase di esecuzione: l’inosservanza di detta regola comporta l’inammissibilità dell’offerta contrattuale, perché implica l’esecuzione della prestazione da parte di un’impresa priva (almeno in parte) di qualificazione in una misura simmetrica alla quota di prestazione ad essa devoluta dall’accordo associativo ovvero dall’impegno delle parti a concludere l’accordo stesso (Consiglio di Stato, sez. III – 16/2/2012 n. 793).
In particolare l’art. 37, comma 13, del D.Lgs 163/2006 –con disposizione valida anche per gli appalti di servizi e forniture– stabilisce che i concorrenti riuniti in ATI devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento, per cui è evidente che deve sussistere una perfetta corrispondenza tra quota di lavori (o, nel caso di forniture o servizi, di parti di esse) eseguita dal singolo operatore economico e quota di effettiva partecipazione al raggruppamento, e che vi è la necessità che sia l’una che l’altra siano specificate dai componenti del raggruppamento all’atto della partecipazione alla gara (cfr. TAR Lazio Roma, sez. II – 30/04/2012 n. 3891).
Il Consiglio di Stato, sez. III – 11/05/2011 n. 2804, ha puntualizzato che:
• a fini di garanzia di effettività della disposizione lo stesso art. 37, al comma 4, statuisce che nel caso di forniture o servizi (alle quali ultime si riferisce appunto la gara all’esame) devono essere specificate le parti della fornitura o del servizio che saranno eseguite dai singoli operatori economici riuniti o consorziati;
• l’indicazione delle stesse si rivela dunque requisito di ammissione alla gara e deve quindi provvedersi a tale incombente nella domanda di partecipazione alla gara (valendo anche per le A.T.I. costituende, che sono tenute a fornire l’indicazione già nella fase di ammissione alla gara, e dunque prima dell’aggiudicazione) e non in sede di esecuzione del contratto;
• l’obbligo di specificazione in esame trova la sua ratio nella necessità di assicurare alle amministrazioni aggiudicatrici la conoscenza preventiva del soggetto che in concreto eseguirà la fornitura, non solo per consentire una maggiore speditezza nella fase di esecuzione del contratto, ma anche per rendere edotta l’amministrazione procedente dell’impresa che eseguirà le varie parti dell’appalto e dei requisiti per realizzarle a regola d’arte (cfr. Consiglio di Stato, sez. V – 08/09/2010 n. 6490), così da permettere la previa verifica sulla competenza tecnica dell’esecutore ed evitare che le imprese si avvalgano del raggruppamento non per unire le rispettive disponibilità tecniche e finanziarie, ma per aggirare le norme d’ammissione alle gare;
• trattandosi di norma di rilievo pubblicistico di chiara natura imperativa, che è volta a porre la stazione appaltante nelle migliori condizioni per verificare i requisiti di tutti i soggetti partecipanti alle procedure di evidenza pubblica, la sua cogenza è piena a prescindere da un necessario richiamo negli atti di gara e dall’esistenza di una sanzione espressa di esclusione posta a presidio del rispetto della norma; peraltro nella fattispecie l’art. 2.2 h.1 del disciplinare (doc. 14 Cogeme) esigeva per i raggruppamenti temporanei non ancora costituiti, tra la documentazione di carattere amministrativo, l’indicazione dei servizi o della quota dei servizi affidata a ciascun componente ai sensi dell’art. 37 del D.Lgs. 163/2006, mentre l’art. 2.6 lett. b) –recante le cause di esclusione– prevedeva detta sanzione per il concorrente, da costituirsi in forma di raggruppamento temporaneo che “non abbia dichiarato i servizi o le parti di lavoro a eseguirsi da parte di ciascun operatore economico raggruppato o consorziato, …”.
La chiara disposizione dettata, per gli appalti di servizi, dal comma 4 dello stesso articolo 37 –secondo cui “nel caso di forniture o servizi nell'offerta devono essere specificate le parti del servizio o della fornitura che saranno eseguite dai singoli operatori economici riuniti o consorziati”– non può determinare la non applicazione anche del successivo comma 13 dello stesso articolo: le due disposizioni non sono infatti incompatibili e quella dettata dal comma 4 costituisce (anche) una garanzia di effettività della disposizione di cui al comma 13 (Consiglio di Stato, sez. III – 15/07/2011 n. 4323) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 24.08.2012 n. 1468 - link a www.giustizia-amministrativa.it)

EDILIZIA PRIVATAE' indubbio che la disposizione invocata (art. 9 L. 10/1977) deve ritenersi di stretta interpretazione, in quanto introduce talune ipotesi di deroga alla previsione generale la quale assoggetta a contributo tutte le opere che comportino trasformazione del territorio.
Lo speciale regime di gratuità di cui alla lett. f) richiede peraltro il concorso di due requisiti, il primo dei quali di carattere soggettivo che si risolve nell'esecuzione delle opere da parte degli Enti istituzionalmente competenti: in effetti, secondo l’indirizzo più rigoroso l'opera, per conseguire il beneficio, deve essere necessariamente realizzata da un Ente pubblico, non spettando lo stesso per le opere eseguite da soggetti privati, quale che sia la rilevanza sociale dell'attività esercitata nella o con l'opera edilizia alla quale la concessione si riferisce; in ogni caso ammettendo l’iniziativa di un privato, questo deve agire per conto di un Ente pubblico, come nell’istituto della concessione di opera pubblica o in altre analoghe figure organizzatorie ove l’intervento è realizzato da soggetti non animati dallo scopo di lucro o che accompagnano tale obiettivo con un legame istituzionale con l’azione dell’amministrazione per la cura degli interessi della collettività.
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Il quadro normativo … prevede un’ipotesi di esenzione totale dal contributo di costruzione [art. 17, comma 3, lett. c), del DPR 380/2001] e un’ipotesi di scomputo della quota del contributo di costruzione relativa agli oneri di urbanizzazione (art. 16, comma 2, del DPR 380/2001; art. 45 della LR 12/2005).
Nell’ipotesi relativa all’esenzione totale il privato realizza un’opera espressamente qualificata di interesse pubblico nello strumento urbanistico generale o nei piani attuativi. Essendovi una tale previsione urbanistica l’utilità per l’amministrazione deriva direttamente dalla realizzazione dell’opera e pertanto l’esenzione è automatica. Non ricorre tuttavia questa fattispecie quando lo strumento urbanistico si limita ad autorizzare una destinazione d’uso implicante la realizzazione di opere astrattamente qualificabili come urbanizzazioni.
L’ammissibilità di queste opere in una certa zona del territorio non equivale al riconoscimento del loro interesse pubblico ma è soltanto una regola che disciplina l’interesse economico dei privati. Il passaggio da opera di pertinenza privata a opera di urbanizzazione richiede l’inclusione tra gli standard urbanistici che definiscono la dotazione di servizi del territorio. Tale inclusione non deriva dalla semplice esistenza dell’opera ma presuppone che sulla stessa vi possa essere un controllo pubblico.
In proposito le direttive regionali sul piano dei servizi (DGR n. 7/7586 del 21.12.2001, parte III punto 2-e) specificano che i privati possono integrare gli standard urbanistici garantiti dall’ente pubblico purché l’attività dei privati sia regolata da un atto di asservimento o da un regolamento d'uso che assicurino lo svolgimento e il controllo delle funzioni di interesse generale.

Secondo la giurisprudenza è indubbio che la disposizione invocata (art. 9 L. 10/1977) deve ritenersi di stretta interpretazione, in quanto introduce talune ipotesi di deroga alla previsione generale la quale assoggetta a contributo tutte le opere che comportino trasformazione del territorio (cfr. TAR Puglia Bari, sez. III – 11/06/2010 n. 2420).
Lo speciale regime di gratuità di cui alla lett. f) richiede peraltro il concorso di due requisiti, il primo dei quali di carattere soggettivo che si risolve nell'esecuzione delle opere da parte degli Enti istituzionalmente competenti: in effetti, come precisato dal TAR Veneto, sez. II – 16/06/2011 n. 1047, secondo l’indirizzo più rigoroso l'opera, per conseguire il beneficio, deve essere necessariamente realizzata da un Ente pubblico, non spettando lo stesso per le opere eseguite da soggetti privati, quale che sia la rilevanza sociale dell'attività esercitata nella o con l'opera edilizia alla quale la concessione si riferisce (Consiglio di Stato, sez. V – 15/12/2005 n. 7140; TAR Lombardia Milano, sez. II – 17/09/2009 n. 4672); in ogni caso ammettendo l’iniziativa di un privato, questo deve agire per conto di un Ente pubblico, come nell’istituto della concessione di opera pubblica o in altre analoghe figure organizzatorie ove l’intervento è realizzato da soggetti non animati dallo scopo di lucro o che accompagnano tale obiettivo con un legame istituzionale con l’azione dell’amministrazione per la cura degli interessi della collettività (Consiglio di Stato, sez. IV – 10/05/2005 n. 2226).
La Fondazione ricorrente è priva della qualità di Ente istituzionalmente competente, poiché è legata agli Istituti scolastici (proprietari) da un semplice rapporto di locazione, ed è dunque assente il titolo concessorio.
Sulla profilata natura di “opera di urbanizzazione” della scuola il Collegio richiama il proprio precedente (TAR Brescia – 27/11/2008 n. 1704) ai sensi del quale “il quadro normativo … prevede, per quanto interessa il presente giudizio, un’ipotesi di esenzione totale dal contributo di costruzione [art. 17, comma 3, lett. c), del DPR 380/2001] e un’ipotesi di scomputo della quota del contributo di costruzione relativa agli oneri di urbanizzazione (art. 16, comma 2, del DPR 380/2001; art. 45 della LR 12/2005). … Nell’ipotesi relativa all’esenzione totale il privato realizza un’opera espressamente qualificata di interesse pubblico nello strumento urbanistico generale o nei piani attuativi. Essendovi una tale previsione urbanistica l’utilità per l’amministrazione deriva direttamente dalla realizzazione dell’opera e pertanto l’esenzione è automatica. Non ricorre tuttavia questa fattispecie quando lo strumento urbanistico si limita ad autorizzare una destinazione d’uso implicante la realizzazione di opere astrattamente qualificabili come urbanizzazioni. L’ammissibilità di queste opere in una certa zona del territorio non equivale al riconoscimento del loro interesse pubblico ma è soltanto una regola che disciplina l’interesse economico dei privati. Il passaggio da opera di pertinenza privata a opera di urbanizzazione richiede l’inclusione tra gli standard urbanistici che definiscono la dotazione di servizi del territorio. Tale inclusione non deriva dalla semplice esistenza dell’opera ma presuppone che sulla stessa vi possa essere un controllo pubblico. In proposito le direttive regionali sul piano dei servizi (DGR n. 7/7586 del 21.12.2001, parte III punto 2-e) specificano che i privati possono integrare gli standard urbanistici garantiti dall’ente pubblico purché l’attività dei privati sia regolata da un atto di asservimento o da un regolamento d'uso che assicurino lo svolgimento e il controllo delle funzioni di interesse generale”.
Nel caso in esame non è rinvenibile nessuno dei suddetti presupposti, in quanto da un lato la scuola non risulta direttamente prevista nello strumento urbanistico come opera di interesse pubblico (sul punto non è stata fornita indicazione alcuna) e dall’altro la gestione di tale struttura non è oggetto di convenzionamento con il Comune ma costituisce un’iniziativa economica di esclusivo interesse privato.
Neppure è possibile giovarsi delle disposizioni sullo scomputo parziale o totale degli oneri di urbanizzazione, afferenti ad opere che una volta realizzate non rimangono nella disponibilità dei privati ma vengono acquisite al patrimonio indisponibile del Comune: nel caso in esame questa circostanza non si verifica (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 24.08.2012 n. 1467 - link a www.giustizia-amministrativa.it)

EDILIZIA PRIVATASia nella precedente che nell’attuale normativa in effetti (articoli 3, 5, 6 della L. 10/1977 e 16 del D.P.R. 380/2001) alle nuove edificazioni e agli altri interventi –comunque soggetti a titolo abilitativo– corrisponde il pagamento di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione, nonché al costo di costruzione. La natura giuridica del predetto contributo è quella di prestazione patrimoniale imposta, anche indipendentemente dall'utilità specifica del singolo concessionario, comunque tenuto a concorrere alla spesa pubblica per le infrastrutture che debbono accompagnare ogni nuovo insediamento edificatorio.
In particolare il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae. Il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di urbanizzazione va ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.) nell’area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione d’uso concretamente impressa all’alloggio, in quanto una diversa utilizzazione rispetto a quella stabilita nell’originario titolo abilitativo può determinare una variazione quantitativa e qualitativa del carico urbanistico.
In termini generali, il fondamento del contributo di urbanizzazione –da versare al momento del rilascio di una concessione edilizia– non consiste nell'atto amministrativo in sé bensì nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare sugli interessati che beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime, secondo modalità eque per la comunità.
L'entità degli oneri di urbanizzazione è in buona sostanza correlata alla variazione del carico urbanistico, sicché è ben possibile che un intervento di ristrutturazione e mutamento di destinazione d'uso possa non comportare aggravi di carico urbanistico e quindi l'obbligo della relativa corresponsione degli oneri; al contrario è altrettanto possibile che in caso di mutamento di destinazione di uso nell'ambito della stessa categoria urbanistica, faccia seguito un maggior carico urbanistico indotto dalla realizzazione di quanto assentito e correlativamente siano dovuti gli oneri concessori.
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In presenza di un insediamento già capace di rispondere a bisogni collettivi (come la struttura preesistente adibita ad orfanatrofio) l’amministrazione –per poter legittimamente esigere il contributo per gli oneri di urbanizzazione– deve dare contezza degli indici o, comunque, delle condizioni da cui si evince il maggior carico urbanistico addebitabile al richiesto mutamento di destinazione.
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Pacifica è la diversa natura degli oneri di urbanizzazione rispetto ai costi di costruzione, i quali rappresentano una compartecipazione comunale all’incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore a seguito della nuova edificazione.
Mentre il contributo per gli oneri di urbanizzazione ha funzione recuperatoria delle spese sostenute dalla collettività comunale in relazione alla trasformazione del territorio assentita al singolo, il contributo per costo di costruzione, che è rapportato alle caratteristiche ed alla tipologia delle costruzioni e non è alternativo ad altro valore di genere diverso, afferisce alla mera attività costruttiva in sé valutata: l’obbligazione contributiva per costo di costruzione, dunque, è a-causale ed appare soffermarsi sulla produzione di ricchezza connessa all’utilizzazione edificatoria del territorio ed alle potenzialità economiche che ne derivano e, pertanto, ha natura essenzialmente paratributaria. Il contributo afferente al costo di costruzione, a norma dell’art. 6 della L. 10/1977, è determinato in rapporto alle caratteristiche, alle tipologie delle costruzioni e delle loro destinazioni ed ubicazioni (oggi occorre fare riferimento all’art. 16 del D.P.R. 380/2001).
Ne deriva, quindi, che nell’ipotesi di variazione di destinazione d’uso di un immobile accompagnata dalla realizzazione di opere, sussiste il presupposto per il pagamento della parte di contributo afferente al costo di costruzione, da riferire al dato oggettivo della risistemazione dell’edificio.

Passando all’esame della prospettazione principale, parte ricorrente sostiene che la trasformazione di un orfanatrofio in scuola dell’obbligo non determina un mutamento di destinazione d’uso rilevante ai fini urbanistici edilizi, dato che si tratta di servizi assimilabili, collocati all’interno della stessa categoria funzionale; aggiunge che le opere realizzate non determinano uno stravolgimento dell’organismo edilizio esistente, bensì il consolidamento, ripristino e rinnovo di alcuni elementi costitutivi (pavimenti e solai) e l’inserimento di accessori (ascensore, servo scala, servizi igienici, etc.): l’intervento è ascrivibile nella categoria del restauro e risanamento conservativo, non soggetto al pagamento di contributi.
La tesi è parzialmente fondata.
Deve essere vagliata preliminarmente la deduzione di parte ricorrente tesa a mettere in luce l’assenza di un maggiore carico urbanistico a seguito della realizzazione della nuova struttura.
Sia nella precedente che nell’attuale normativa in effetti (articoli 3, 5, 6 della L. 10/1977 e 16 del D.P.R. 380/2001) alle nuove edificazioni e agli altri interventi –comunque soggetti a titolo abilitativo– corrisponde il pagamento di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione, nonché al costo di costruzione. La natura giuridica del predetto contributo è quella di prestazione patrimoniale imposta, anche indipendentemente dall'utilità specifica del singolo concessionario, comunque tenuto a concorrere alla spesa pubblica per le infrastrutture che debbono accompagnare ogni nuovo insediamento edificatorio (Consiglio di Stato, sez. VI – 25/08/2009 n. 5059).
In particolare il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae (cfr. per tutti TAR Puglia Bari, sez. III – 10/02/2011 n. 243). Il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di urbanizzazione va ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.) nell’area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione d’uso concretamente impressa all’alloggio, in quanto una diversa utilizzazione rispetto a quella stabilita nell’originario titolo abilitativo può determinare una variazione quantitativa e qualitativa del carico urbanistico (Sentenza Sezione 11/06/2004 n. 646; TAR Lombardia Milano, sez. II – 02/10/2003 n. 4502; Consiglio Stato, sez. V – 25/05/1995 n. 822).
In termini generali, il fondamento del contributo di urbanizzazione –da versare al momento del rilascio di una concessione edilizia– non consiste nell'atto amministrativo in sé bensì nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare sugli interessati che beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime, secondo modalità eque per la comunità. L'entità degli oneri di urbanizzazione è in buona sostanza correlata alla variazione del carico urbanistico, sicché è ben possibile che un intervento di ristrutturazione e mutamento di destinazione d'uso possa non comportare aggravi di carico urbanistico e quindi l'obbligo della relativa corresponsione degli oneri; al contrario è altrettanto possibile che in caso di mutamento di destinazione di uso nell'ambito della stessa categoria urbanistica, faccia seguito un maggior carico urbanistico indotto dalla realizzazione di quanto assentito e correlativamente siano dovuti gli oneri concessori (TAR Lazio Roma, sez. II – 14/11/2007 n. 11213).
Nella fattispecie non affiorano elementi utili a comprovare che il mutamento di destinazione d'uso sia stato accompagnato da un’alterazione del carico urbanistico. Al contrario la stessa amministrazione comunale afferma di aver concesso una riduzione dell’80% rispetto a quanto dovuto in applicazione della tabella C.3 allegata alla L.r. 60-61/1977 (seppur motivato dalla natura di interesse generale dell’opera).
In ogni caso, come sostenuto di recente (cfr. sentenza Sezione 02/03/2012 n. 355) in presenza di un insediamento già capace di rispondere a bisogni collettivi (come la struttura preesistente adibita ad orfanatrofio) l’amministrazione –per poter legittimamente esigere il contributo per gli oneri di urbanizzazione– avrebbe dovuto dare contezza degli indici o, comunque, delle condizioni da cui si evinceva il maggior carico urbanistico addebitabile al richiesto mutamento di destinazione (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. IV – 04/05/2009 n. 3604).
Non avendo evidenziato la ricorrenza, nel caso concreto (mediante raffronto tra la destinazione originaria e quella attuale) del presupposto del pagamento richiesto –ossia della variazione in aumento della domanda di servizi– deve ritenersi indebitamente preteso l’importo di € 39.280,38, da restituire alla parte ricorrente.
Pacifica è la diversa natura degli oneri di urbanizzazione rispetto ai costi di costruzione, i quali rappresentano una compartecipazione comunale all’incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore a seguito della nuova edificazione (cfr. TAR Abruzzo Pescara – 18/10/2010 n. 1142).
Mentre il contributo per gli oneri di urbanizzazione ha funzione recuperatoria delle spese sostenute dalla collettività comunale in relazione alla trasformazione del territorio assentita al singolo, il contributo per costo di costruzione, che è rapportato alle caratteristiche ed alla tipologia delle costruzioni e non è alternativo ad altro valore di genere diverso, afferisce alla mera attività costruttiva in sé valutata: l’obbligazione contributiva per costo di costruzione, dunque, è a-causale ed appare soffermarsi sulla produzione di ricchezza connessa all’utilizzazione edificatoria del territorio ed alle potenzialità economiche che ne derivano e, pertanto, ha natura essenzialmente paratributaria (TAR Campania Salerno, sez. II – 11/06/2002 n. 459). Il contributo afferente al costo di costruzione, a norma dell’art. 6 della L. 10/1977, è determinato in rapporto alle caratteristiche, alle tipologie delle costruzioni e delle loro destinazioni ed ubicazioni (oggi occorre fare riferimento all’art. 16 del D.P.R. 380/2001).
Ne deriva, quindi, che nell’ipotesi di variazione di destinazione d’uso di un immobile accompagnata dalla realizzazione di opere, sussiste il presupposto per il pagamento della parte di contributo afferente al costo di costruzione, da riferire al dato oggettivo della risistemazione dell’edificio. Deve dunque essere assoggettato ad imposizione il complessivo valore aggiunto del fabbricato destinato a nuova struttura ricettiva, e la base di calcolo è stata correttamente individuata in € 49.280,30 €.
In conclusione il ricorso è parzialmente fondato e deve essere accolto nella parte in cui il Comune ha erroneamente preteso la quota di oneri di urbanizzazione (€ 39.280,38), che devono essere restituiti. Sulla somma vanno calcolati gli interessi i quali decorrono –trattandosi di azione di ripetizione di indebito– dalla data di proposizione della domanda giudiziale, dovendosi presumere la buona fede dell’amministrazione resistente in assenza di dimostrazione contraria, mentre non spetta la rivalutazione monetaria trattandosi di indebito oggettivo il quale genera solo l’obbligazione di restituzione degli interessi a norma dell’art. 2033 del c.c. (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II – 05/05/2004 n. 1620; TAR Lazio Roma, sez. I – 19/01/1999 n. 99; Consiglio di Stato, sez. V – 30/10/1997 n. 1207) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 24.08.2012 n. 1467 - link a www.giustizia-amministrativa.it)

EDILIZIA PRIVATALa zonizzazione elettromagnetica è legittima se rimane entro i confini della funzione urbanistica senza interferire con interessi di altra natura e in particolare con la tutela della salute.
L’adozione di criteri localizzativi da parte degli enti locali non deve pregiudicare l'interesse nazionale alla realizzazione delle reti di telecomunicazione: di conseguenza non possono considerarsi legittime previsioni generiche o eccessivamente discrezionali.
In definitiva attraverso i suddetti criteri possono essere imposte localizzazioni alternative purché siano garantiti lo sviluppo delle reti e la copertura del territorio.
Proprio per questo la zonizzazione è normalmente preceduta da accordi con i gestori delle reti di telefonia, che sono tenuti a prospettare tutti i punti equivalenti sotto il profilo della copertura ottimale delle varie aree del territorio per consentire poi ai comuni di effettuare le proprie valutazioni urbanistiche.

La zonizzazione elettromagnetica è legittima se rimane entro i confini della funzione urbanistica senza interferire con interessi di altra natura e in particolare con la tutela della salute (v. art. 4, comma 11, della LR 11.05.2001 n. 11).
La giurisprudenza costituzionale ha precisato che l’adozione di criteri localizzativi da parte degli enti locali non deve pregiudicare l'interesse nazionale alla realizzazione delle reti di telecomunicazione: di conseguenza non possono considerarsi legittime previsioni generiche o eccessivamente discrezionali (v. C.Cost. 07.10.2003 n. 307 punti 7 e 21; C.Cost. 07.11.2003 n. 331 punto 6; C.Cost. 27.07.2005 n. 336 punto 9.1; C.Cost. 28.03.2006 n. 129 punto 7.3).
In definitiva attraverso i suddetti criteri possono essere imposte localizzazioni alternative purché siano garantiti lo sviluppo delle reti e la copertura del territorio.
Proprio per questo la zonizzazione è normalmente preceduta da accordi con i gestori delle reti di telefonia, che sono tenuti a prospettare tutti i punti equivalenti sotto il profilo della copertura ottimale delle varie aree del territorio per consentire poi ai comuni di effettuare le proprie valutazioni urbanistiche (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 24.08.2012 n. 1461 - link a www.giustizia-amministrativa.it)

ENTI LOCALI - VARI: Pericolo autocertificazioni. Il carcere a chi dichiara un reddito più basso. La Cassazione: è reato di falsità ideologica. E la buona fede non serve.
Rischia di finire in carcere chi autocertifica un reddito più basso. Il reato è falsità ideologica punibile con il carcere fino a due anni.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con sentenza 23.08.2012 n. 33218.
La V sez. penale ha respinto il ricorso di una donna che aveva dichiarato di avere redditi zero in una dichiarazione sostitutiva di certificazione. Per questo erano scattate le accuse per falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico. Lei si era difesa sostenendo che l'autocertificazione non è un atto pubblico. Ma Tribunale e Corte d'appello l'avevano condannata. La tesi non ha fatto breccia neppure in Cassazione.
La quinta sezione penale ha infatti reso definitiva la condanna spiegando che l'art. 483 cp ha natura di norma in bianco e, quindi, richiede, per la definizione del suo contenuto precettivo, il collegamento con una diversa norma, eventualmente di carattere extrapenale, che conferisca attitudine probatoria all'atto in cui confluisce la dichiarazione non veritiera, così dando luogo all'obbligo per il dichiarante di attenersi alla verità.
Insomma, l'autocertificazione, prevista dal dpr 28.12.2000, n. 445 svolge, proprio la funzione di norma integratrice del precetto penale attribuendo efficacia probatoria ai fini amministrativi alla dichiarazione del privato di provare i fatti attestati, evitando l'onere di provarli con la produzione nella specie, della dichiarazione dei redditi e così collegando l'efficacia probatoria dell'atto ai dovere dell'istante di dichiarare il vero.
Nulla da fare neppure sull'altro grimaldello usato dalla difesa per far annullare la doppia condanna di merito e cioè la buona fede della signora. Infatti secondo i Supremi giudici la donna non poteva non conoscere che il suo reddito non era pari a zero.
Quindi non era neppure necessario che l'accusa provasse il dolo dell'imputata connaturato all'operazione stessa. Infatti nel delitto di falso il dolo viene escluso tutte le volte in cui tale falsità risulti essere semplicemente dovuta a una leggerezza o negligenza, dal momento che il nostro codice penale non prevede la figura del falso documentale colposo (articolo ItaliaOggi del 24.08.2012).

EDILIZIA PRIVATALa legge 122/1989 ha introdotto per quanto riguarda i parcheggi pertinenziali tre importanti innovazioni:
(1) l’art. 2, comma 2, ha incrementato la misura minima obbligatoria di parcheggi pertinenziali nei nuovi edifici (il rapporto di 1mq/20mc stabilito inizialmente dall’art. 41-sexies, comma 1, della legge 17.08.1942 n. 1150 nel testo aggiunto dall'art. 18 della legge 06.08.1967 n. 765 è stato portato a 1mq/10mc);
(2) l’art. 9, comma 1, ha stabilito il principio secondo cui i parcheggi pertinenziali possono essere realizzati anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti;
(3) l’art. 11, comma 1, ha esteso ai parcheggi pertinenziali il regime di gratuità proprio delle opere di urbanizzazione ex art. 9, comma 1-f, della legge 10/1977.
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Un primo problema è se la gratuità vada collegata soltanto ai parcheggi pertinenziali realizzati negli edifici esistenti o se debba essere estesa anche ai nuovi edifici, dove la dotazione minima è comunque obbligatoria.
La soluzione preferibile appare quella dell’applicabilità del beneficio a tutte le costruzioni, esistenti e di nuova realizzazione, in quanto la presenza di una superficie minima destinata a parcheggio soddisfa allo stesso modo l’interesse pubblico grazie a spese di investimento sostenute dai privati: riscuotendo anche gli oneri concessori i comuni otterrebbero un arricchimento non giustificato.
Un secondo problema, strettamente connesso, è se la gratuità riguardi anche i parcheggi pertinenziali che eccedono la misura minima di legge.
In questo caso la risposta preferibile è quella negativa: essendo già assicurato l’obiettivo posto dal legislatore non vi sono ragioni per imporre ai comuni di rinunciare ai corrispettivi collegati all’edificazione. Sotto questo profilo la qualificazione dei parcheggi come opere di urbanizzazione ex art. 11, comma 1, della legge 122/1989 rimane circoscritta, in mancanza di una specifica norma espansiva, entro i confini della pertinenzialità tracciati dall’art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942;
Questa soluzione trova conferma in ambito locale nell’art. 4, comma 4, della LR 05.12.1977 n. 60, secondo il quale nel calcolo degli oneri di urbanizzazione degli edifici residenziali “i volumi e gli spazi destinati al ricovero di autovetture non sono computati, salvo che per la quota eccedente quella richiesta obbligatoriamente per parcheggio”. Tale norma (ora abrogata dalla più ampia disciplina della LR 12/2005) conteneva un rinvio implicito all’art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942 e distingueva con chiarezza tra i parcheggi obbligatori e quelli facoltativi, evidentemente attribuendo ai secondi una funzione speculativa (ossia la finalità di incrementare il valore dell’immobile di cui costituiscono pertinenze) incompatibile con la gratuità del titolo edilizio.
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Quando non sono coinvolte questioni di finanza pubblica il favore per l’incremento dei parcheggi pertinenziali manifestato dall’art. 9, comma 1, della legge 122/1989 può esplicarsi liberamente. Pertanto la deroga alle norme urbanistiche può essere utilizzata anche per costruire parcheggi pertinenziali in misura superiore a quella minima.
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Un vero cambio di regime si è verificato invece con l’entrata in vigore della LR 12/2005, che tramite l’art. 69 ha introdotto il principio della gratuità dei titoli edilizi relativi ai parcheggi collegando l’utilità di queste opere direttamente agli interessi della viabilità senza la mediazione di uno specifico edificio (di qui l’abbandono del requisito della pertinenzialità) e senza la predeterminazione di limiti quantitativi (di qui il superamento della misura minima di legge). La nuova disciplina, che non può avere effetti per il passato, costituisce dunque lo spartiacque in materia di titoli edilizi riferiti ai parcheggi.
Solo con l’art. 69 della LR 12/2005 si può ritenere che le opere accessorie ai parcheggi (rampe, corselli, spazi di manovra) siano sottoposte al regime di piena gratuità. Nel periodo anteriore si applicava lo stesso trattamento dei parcheggi: l’art. 2 del DM Lavori Pubblici 10.05.1977 n. 801, pur non elencando espressamente queste opere, parla comprensivamente di servizi e accessori. Pertanto, se le opere accessorie servono senza alcuna distinzione materiale sia i parcheggi rientranti nel minimo di legge sia quelli eccedenti, devono essere aggregate pro quota all’una o all’altra di queste categorie applicando il rapporto tra le superfici dei parcheggi (ad esempio, se il 50% dei parcheggi ricade nel minimo di legge e il 50% eccede tale minimo, gli spazi accessori dovranno essere ripartiti nella stessa proporzione).
Parimenti è solo con l’art. 69, comma 2, della LR 12/2005 che le superfici destinate a parcheggio non concorrono alla definizione della classe dell'edificio ai fini del calcolo del costo di costruzione. Per il periodo precedente si deve invece tenere conto delle superfici relative ai parcheggi eccedenti la dotazione minima di legge.

Sulle questioni formulate dalle parti si possono svolgere le seguenti considerazioni:
(a) la vicenda in esame si colloca nella fascia temporale compresa tra la LR 19.11.1999 n. 22 e la LR 11.03.2005 n. 12;
(b) l’art. 2, comma 2, della LR 22/1999 qualifica i parcheggi come opere di urbanizzazione ai sensi dell'art. 9, comma 1-f, della legge 28.01.1977 n. 10 stabilendo in questo modo la gratuità del relativo titolo edilizio. L’art. 2, comma 1, della LR 22/1999 richiama la disciplina di favore prevista per i parcheggi pertinenziali dall’art. 9 della legge 24.03.1989 n. 122. Per ricostruire il quadro normativo anteriore alla LR 12/2005 occorre partire proprio dalla normativa statale sui parcheggi pertinenziali;
(c) la legge 122/1989 ha introdotto per quanto riguarda i parcheggi pertinenziali tre importanti innovazioni:
     (1) l’art. 2, comma 2, ha incrementato la misura minima obbligatoria di parcheggi pertinenziali nei nuovi edifici (il rapporto di 1mq/20mc stabilito inizialmente dall’art. 41-sexies, comma 1, della legge 17.08.1942 n. 1150 nel testo aggiunto dall'art. 18 della legge 06.08.1967 n. 765 è stato portato a 1mq/10mc);
     (2) l’art. 9, comma 1, ha stabilito il principio secondo cui i parcheggi pertinenziali possono essere realizzati anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti;
     (3) l’art. 11, comma 1, ha esteso ai parcheggi pertinenziali il regime di gratuità proprio delle opere di urbanizzazione ex art. 9, comma 1-f, della legge 10/1977;
(d) la suddetta normativa statale prevede un obiettivo di interesse pubblico (parcheggi pertinenziali nella misura minima di 1mq/10mc), uno strumento giuridico (possibilità di deroga alla disciplina urbanistica) e un incentivo (gratuità del titolo edilizio). La deroga alla disciplina urbanistica permette di superare gli ostacoli presenti nella zonizzazione e nelle norme comunali sulle distanze, e in astratto è riferibile a qualsiasi nuovo parcheggio pertinenziale. L’incentivo della gratuità è invece diretto principalmente ai proprietari di edifici esistenti (di per sé esclusi dall’obbligo di dotarsi di parcheggi pertinenziali nella misura minima di legge);
(e) un primo problema è quindi se la gratuità vada collegata soltanto ai parcheggi pertinenziali realizzati negli edifici esistenti o se debba essere estesa anche ai nuovi edifici, dove la dotazione minima è comunque obbligatoria. La soluzione preferibile appare quella dell’applicabilità del beneficio a tutte le costruzioni, esistenti e di nuova realizzazione, in quanto la presenza di una superficie minima destinata a parcheggio soddisfa allo stesso modo l’interesse pubblico grazie a spese di investimento sostenute dai privati: riscuotendo anche gli oneri concessori i comuni otterrebbero un arricchimento non giustificato;
(f) un secondo problema, strettamente connesso, è se la gratuità riguardi anche i parcheggi pertinenziali che eccedono la misura minima di legge. In questo caso la risposta preferibile è quella negativa: essendo già assicurato l’obiettivo posto dal legislatore non vi sono ragioni per imporre ai comuni di rinunciare ai corrispettivi collegati all’edificazione. Sotto questo profilo la qualificazione dei parcheggi come opere di urbanizzazione ex art. 11, comma 1, della legge 122/1989 rimane circoscritta, in mancanza di una specifica norma espansiva, entro i confini della pertinenzialità tracciati dall’art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942;
(g) questa soluzione trova conferma in ambito locale nell’art. 4, comma 4, della LR 05.12.1977 n. 60, secondo il quale nel calcolo degli oneri di urbanizzazione degli edifici residenziali “i volumi e gli spazi destinati al ricovero di autovetture non sono computati, salvo che per la quota eccedente quella richiesta obbligatoriamente per parcheggio”. Tale norma (ora abrogata dalla più ampia disciplina della LR 12/2005) conteneva un rinvio implicito all’art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942 e distingueva con chiarezza tra i parcheggi obbligatori e quelli facoltativi, evidentemente attribuendo ai secondi una funzione speculativa (ossia la finalità di incrementare il valore dell’immobile di cui costituiscono pertinenze) incompatibile con la gratuità del titolo edilizio;
(h) quando invece non sono coinvolte questioni di finanza pubblica il favore per l’incremento dei parcheggi pertinenziali manifestato dall’art. 9, comma 1, della legge 122/1989 può esplicarsi liberamente. Pertanto la deroga alle norme urbanistiche può essere utilizzata anche per costruire parcheggi pertinenziali in misura superiore a quella minima (con alcune limitazioni: v. TAR Brescia Sez. I 15.04.2009 n. 858);
(i) le medesime considerazioni valgono per la legislazione regionale, in quanto l’art. 2, comma 2, della LR 22/1999 mantiene la stessa impostazione della normativa statale (v. TAR Brescia Sez. II 29.03.2011 n. 498; TAR Brescia Sez. I 26.09.2007 n. 898). Una differenza è costituita dall’estensione del concetto di pertinenza, applicato anche agli immobili non residenziali dall’art. 1, comma 1, della LR 22/1999. Si tratta però di un’innovazione che non interessa il caso in esame;
(j) un vero cambio di regime si è verificato invece con l’entrata in vigore della LR 12/2005, che tramite l’art. 69 ha introdotto il principio della gratuità dei titoli edilizi relativi ai parcheggi collegando l’utilità di queste opere direttamente agli interessi della viabilità senza la mediazione di uno specifico edificio (di qui l’abbandono del requisito della pertinenzialità) e senza la predeterminazione di limiti quantitativi (di qui il superamento della misura minima di legge). La nuova disciplina, che non può avere effetti per il passato, costituisce dunque lo spartiacque in materia di titoli edilizi riferiti ai parcheggi (v. TAR Brescia, Sez I, 29.09.2009 n. 1709);
(k) solo con l’art. 69 della LR 12/2005 si può ritenere che le opere accessorie ai parcheggi (rampe, corselli, spazi di manovra) siano sottoposte al regime di piena gratuità. Nel periodo anteriore si applicava lo stesso trattamento dei parcheggi: l’art. 2 del DM Lavori Pubblici 10.05.1977 n. 801, pur non elencando espressamente queste opere, parla comprensivamente di servizi e accessori. Pertanto, se le opere accessorie servono senza alcuna distinzione materiale sia i parcheggi rientranti nel minimo di legge sia quelli eccedenti, devono essere aggregate pro quota all’una o all’altra di queste categorie applicando il rapporto tra le superfici dei parcheggi (ad esempio, se il 50% dei parcheggi ricade nel minimo di legge e il 50% eccede tale minimo, gli spazi accessori dovranno essere ripartiti nella stessa proporzione);
(l) parimenti è solo con l’art. 69, comma 2, della LR 12/2005 che le superfici destinate a parcheggio non concorrono alla definizione della classe dell'edificio ai fini del calcolo del costo di costruzione. Per il periodo precedente si deve invece tenere conto delle superfici relative ai parcheggi eccedenti la dotazione minima di legge.
In conclusione il ricorso deve essere parzialmente accolto nel senso che il costo di costruzione e la classe degli edifici devono essere determinati prendendo in considerazione i soli parcheggi eccedenti la dotazione minima di legge (e i relativi spazi accessori).
Il Comune è quindi tenuto a effettuare un nuovo calcolo del contributo sul costo di costruzione nel rispetto dei criteri esposti ai punti precedenti. Per tale adempimento è fissato il termine di 30 giorni dal deposito della presente sentenza. Qualora la ricorrente risulti aver pagato un importo superiore a quello così ricalcolato il Comune dovrà restituire la differenza entro i successivi 30 giorni, applicando gli interessi legali dalla data di notifica del ricorso fino al saldo. Se la ricorrente per i titoli edilizi in oggetto non risulterà debitrice di somme ulteriori rispetto a quelle già versate, il Comune dovrà restituire immediatamente la polizza fideiussoria.
Non sono dovuti indennizzi o risarcimenti per il costo della suddetta polizza, in quanto prima della LR 12/2005 vi era incertezza sui criteri di calcolo degli oneri concessori relativi ai parcheggi (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 23.08.2012 n. 1454 - link a www.giustizia-amministrativa.it)

EDILIZIA PRIVATAa) l'art. 13 (della legge 47/1985: NdE) disciplina la sanatoria di opere realizzate senza titolo ma conformi agli strumenti urbanistici vigenti alla data della costruzione ed alla data della domanda, mentre l'applicazione della sanzione di cui all'articolo 12 (stessa legge: NdE) è prevista per le ipotesi di non conformità della costruzione allo strumento urbanistico;
b) la sanzione pecuniaria inflitta ai sensi dell'art. 12 l. 28.02.1985 n. 47 -secondo il quale il Sindaco, qualora ritenga di non ordinare la demolizione delle opere eseguite in parziale difformità dalla concessione, applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione (oppure del valore venale) delle opere medesime- ha natura e finalità del tutto diverse dal versamento dell'oblazione, cui è subordinato il conseguimento della sanatoria delle opere abusive;
c) da tale natura radicalmente differente delle ipotesi contemplate dai citati artt. 12 e 13 legge 47/1985 (nel primo e più grave caso: opere eseguite in parziale difformità dalla concessione di cui, tuttavia, non è possibile ordinare la demolizione senza pregiudizio della parte conforme; nel secondo, di gravità inferiore: sanatoria postuma di opere intrinsecamente conformi) discende anche la diversità dei parametri rispettivamente previsti dai menzionati artt. 12 e art. 13, e cioè:
   - ai fini del calcolo della sanzione pecuniaria ex art. 12: doppio del costo di produzione della parte dell'opera realizzata in difformità dalla concessione, se ad uso residenziale; ovvero doppio del valore venale, determinato a cura dell'ufficio tecnico erariale, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale;
   - ai fini dell’oblazione ex art. 13: contributo di concessione in misura doppia e calcolata con riferimento alla (sola) parte di opera difforme dalla concessione.

Iil Collegio osserva che, al fine di decidere la controversia come sopra tratteggiata, occorre premettere, in diritto, quanto segue:
a) <<l'art. 13 (della legge 47/1985: NdE) disciplina la sanatoria di opere realizzate senza titolo ma conformi agli strumenti urbanistici vigenti alla data della costruzione ed alla data della domanda, mentre l'applicazione della sanzione di cui all'articolo 12 (stessa legge: NdE) è prevista per le ipotesi di non conformità della costruzione allo strumento urbanistico.>> (cfr. in termini: TAR Sardegna, 15.10.2003, n. 1260);
b) anche la giurisprudenza della Cassazione penale è, da tempo (cfr. sez. III, 14.10.01988, Brunini), nel senso che la sanzione pecuniaria inflitta ai sensi dell'art. 12 l. 28.02.1985 n. 47 -secondo il quale il Sindaco, qualora ritenga di non ordinare la demolizione delle opere eseguite in parziale difformità dalla concessione, applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione (oppure del valore venale) delle opere medesime- ha natura e finalità del tutto diverse dal versamento dell'oblazione, cui è subordinato il conseguimento della sanatoria delle opere abusive (nella specie, è stato rigettato il ricorso dell'imputato, condannato per avere eseguito lavori edili in difformità dalla concessione, il quale presumeva di essere stato ammesso alla sanatoria, essendogli stata applicata dall'amministrazione comunale la sanzione pecuniaria);
c) da tale natura radicalmente differente delle ipotesi contemplate dai citati artt. 12 e 13 legge 47/1985 (nel primo e più grave caso: opere eseguite in parziale difformità dalla concessione di cui, tuttavia, non è possibile ordinare la demolizione senza pregiudizio della parte conforme; nel secondo, di gravità inferiore: sanatoria postuma di opere intrinsecamente conformi) discende anche la diversità dei parametri rispettivamente previsti dai menzionati artt. 12 e art. 13, e cioè:
   - ai fini del calcolo della sanzione pecuniaria ex art. 12: doppio del costo di produzione della parte dell'opera realizzata in difformità dalla concessione, se ad uso residenziale; ovvero doppio del valore venale, determinato a cura dell'ufficio tecnico erariale, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale;
   - ai fini dell’oblazione ex art. 13: contributo di concessione in misura doppia e calcolata con riferimento alla (sola) parte di opera difforme dalla concessione (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 23.08.2012 n. 1449 - link a www.giustizia-amministrativa.it)

URBANISTICA: Il potere di modificare l’assetto territoriale, già in precedenza configurato dallo stesso Comune, è comunque correlato all’esercizio di un potere di natura discrezionale, essendo, com’è, diretto a contemperare l’interesse privato con il perseguimento dell’interesse pubblico generale e collettivo contenuto nel Piano di Intervento. Detto interesse pubblico deve necessariamente considerare l’intero territorio, e non esclusivamente una parte di esso.
L’esistenza di tale potere discrezionale, laddove non integri il vizio dell’eccesso di potere permette allora di ritenere legittimo il comportamento dell’Amministrazione.

Va ricordato come per un costante orientamento il potere di modificare l’assetto territoriale, già in precedenza configurato dallo stesso Comune, è comunque correlato all’esercizio di un potere di natura discrezionale, essendo, com’è, diretto a contemperare l’interesse privato con il perseguimento dell’interesse pubblico generale e collettivo contenuto nel Piano di Intervento. Detto interesse pubblico deve necessariamente considerare l’intero territorio, e non esclusivamente una parte di esso (Consiglio Stato, IV, 25.11.2003, n. 7782).
L’esistenza di tale potere discrezionale, laddove non integri il vizio dell’eccesso di potere (ipotesi non dimostrata dal ricorrente) permette allora di ritenere legittimo il comportamento dell’Amministrazione (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 06.08.2012 n. 1116 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La repressione degli abusi edilizi non incontra limiti di tempo e, ciò, costituendo l’esercizio di un atto dovuto, in quanto tale, diretto a ripristinare la situazione antecedente alla violazione.
Analogamente a ciò, l’ordine di demolizione costituisce un atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione tra lo stesso interesse pubblico e gli interessi privato, essendo comunque obbligata l’Amministrazione a ricondurre la situazione di diritto a quella di fatto.

Costituisce principio oramai consolidato in Giurisprudenza in base al quale la repressione degli abusi edilizi non incontra limiti di tempo e, ciò, costituendo l’esercizio di un atto dovuto, in quanto tale, diretto a ripristinare la situazione antecedente alla violazione (per tutti si veda Consiglio di Stato n. 2010/3955).
Analogamente a ciò, l’ordine di demolizione costituisce un atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione tra lo stesso interesse pubblico e gli interessi privato, essendo comunque obbligata l’Amministrazione a ricondurre la situazione di diritto a quella di fatto
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 06.08.2012 n. 1114 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli interventi edilizi in totale difformità dalla concessione, sanzionabili con l'ordine di demolizione, sono quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile.
Con riferimento al terzo motivo vengono contestati gli abusi riscontrati dal Comune, in quanto, a parere del ricorrente, si farebbe riferimento a violazioni inesistenti nella realtà. Va rilevato, al contrario, come l’Amministrazione abbia pienamente dimostrato come l’edificio realizzato sia integralmente diverso per tipologia, posizionamento e per superficie. L’entità dell’abuso realizzato ha, pertanto, legittimato l’applicazione della sanzione della demolizione di cui all’art. 31 del dpr 380/2001 nella parte in cui è diretta a sanzionare proprio “la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, plano volumetriche o di utilizzazione…”.
Un costante orientamento Giurisprudenziale afferma, infatti, che…”gli interventi edilizi in totale difformità dalla concessione, sanzionabili con l'ordine di demolizione, sono quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile (Consiglio di Stato Sez. V, sent. n. 1726 del 21-03-2011)
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 06.08.2012 n. 1114 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le opere di recinzione del terreno non si configurano come nuova costruzione, per la quale è necessario il previo rilascio di permesso di costruire, quando, per natura e dimensioni, rientrino tra le manifestazioni del diritto di proprietà, comprendente lo ius excludendi alios o, comunque, la delimitazione e l'assetto delle singole proprietà.
Tale è il caso della recinzione eseguita senza opere murarie, costituita da una semplice rete metallica sorretta da paletti in ferro, la quale costituisce installazione precaria e non incide in modo permanente sull'assetto edilizio del territorio.
L'intervento in questione, per costante giurisprudenza, non rientra, tuttavia, tra gli interventi di edilizia libera specificamente elencati dall’art. 6 del D.P.R. 380/2001, come sostenuto dalla ricorrente, bensì nella portata residuale degli interventi realizzabili con il regime semplificato della d.i.a. di cui all’art. 22 del D.P.R. 380/2001.

Nel merito, quanto al fatto che per la realizzazione di una recinzione in rete metallica e paletti non è prescritto il permesso di costruire, esso appare irrilevante, atteso che l'ordine di demolizione è connesso, non solo alla mancanza del titolo edilizio, ma anche al mancato rispetto della norma del regolamento edilizio che stabilisce le altezze massime delle recinzioni, nonché al mancato rilascio del nulla osta paesaggistico, trattandosi di opera realizzata in zona vincolata.
Più precisamente, va premesso che le opere di recinzione del terreno non si configurano come nuova costruzione, per la quale è necessario il previo rilascio di permesso di costruire, quando, per natura e dimensioni, rientrino tra le manifestazioni del diritto di proprietà, comprendente lo ius excludendi alios o, comunque, la delimitazione e l'assetto delle singole proprietà.
Tale è il caso della recinzione eseguita senza opere murarie, costituita da una semplice rete metallica sorretta da paletti in ferro (come è nel caso di specie), la quale costituisce installazione precaria e non incide in modo permanente sull'assetto edilizio del territorio. L'intervento in questione, per costante giurisprudenza, non rientra, tuttavia, tra gli interventi di edilizia libera specificamente elencati dall’art. 6 del D.P.R. 380/2001, come sostenuto dalla ricorrente, bensì nella portata residuale degli interventi realizzabili con il regime semplificato della d.i.a. di cui all’art. 22 del D.P.R. 380/2001 (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 06.08.2012 n. 1102 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINelle gare di appalto l'interesse che assurge ad interesse legittimo tutelato in sede giurisdizionale non è quello generico al rifacimento della gara, proprio di tutte le imprese rimaste estranee al procedimento, ma solo quello concreto ed attuale, finalizzato all'ottenimento dell'aggiudicazione cui può anelare l'aspirante alla gara attraverso la eliminazione delle clausole lesive.
Si è quindi ritenuto inammissibile per difetto di interesse l'impugnazione della lex specialis quando l’impresa non abbia presentato alcuna offerta e quindi si sia autoesclusa dall'ulteriore corso della procedura se le prescrizioni contenute nella stessa procedura non impediscano la partecipazione alla gara, né rendano impossibile la presentazione dell'offerta.
La legittimazione al ricorso in materia di affidamento di contratti pubblici spetta solo al soggetto che ha legittimamente partecipato alla procedura selettiva; in termini di ratio è stato evidenziato che “... deve essere tenuta rigorosamente ferma la netta distinzione tra la titolarità di una posizione sostanziale differenziata che abilita un determinato soggetto all'esercizio dell'azione (legittimazione al ricorso) e l'utilità ricavabile dall'accoglimento della domanda di annullamento (interesse al ricorso) anche prescindendo dal carattere finale e strumentale di tale vantaggio. In altri termini, ai fini della legittimazione al ricorso, l'asserito valore sintomatico derivante dal riscontro fattuale della utilità pratica della decisione di accoglimento presenta un risalto del tutto marginale, in assenza di ulteriori dati significativi”.

Nell’individuare, in termini peraltro non restrittivi, le uniche eccezioni in base alle quali sia possibile riconoscere la legittimazione a impugnare una procedura di affidamento anche da parte di un soggetto che non ha partecipato a tale procedimento, la stessa giurisprudenza predetta è giunta ad enucleare esclusivamente le seguenti:
a) il soggetto che non ha partecipato alla gara contesta in radice la scelta di indizione della procedura;
b) l'operatore economico di settore contesta un affidamento diretto o senza gara;
c) l'operatore manifesta la intenzione di impugnare una clausola del bando escludente in relazione alla illegittima previsione di determinati requisiti di qualificazione.

In proposito, la giurisprudenza formatasi sia prima che successivamente alla Adunanza Plenaria n. 1 del 2003, e condivisa dal Collegio, ha ritenuto che nelle gare di appalto l'interesse che assurge ad interesse legittimo tutelato in sede giurisdizionale non sia quello generico al rifacimento della gara, proprio di tutte le imprese rimaste estranee al procedimento, ma solo quello concreto ed attuale, finalizzato all'ottenimento dell'aggiudicazione cui può anelare l'aspirante alla gara attraverso la eliminazione delle clausole lesive. Si è quindi ritenuto inammissibile per difetto di interesse l'impugnazione della lex specialis quando l’impresa non abbia presentato alcuna offerta e quindi si sia autoesclusa dall'ulteriore corso della procedura se le prescrizioni contenute nella stessa procedura non impediscano la partecipazione alla gara, né rendano impossibile la presentazione dell'offerta (ex plurimis Cons. Stato, V Sez., n. 102 del 2009 VI Sez., n. 3786 del 2008).
Tali principi sono stati ribaditi dall’Adunanza plenaria nel 2011: salve puntuali eccezioni, individuate in coerenza con il diritto comunitario, la legittimazione al ricorso in materia di affidamento di contratti pubblici, spetta solo al soggetto che ha legittimamente partecipato alla procedura selettiva; in termini di ratio è stato evidenziato che “... deve essere tenuta rigorosamente ferma la netta distinzione tra la titolarità di una posizione sostanziale differenziata che abilita un determinato soggetto all'esercizio dell'azione (legittimazione al ricorso) e l'utilità ricavabile dall'accoglimento della domanda di annullamento (interesse al ricorso) anche prescindendo dal carattere finale e strumentale di tale vantaggio. In altri termini, ai fini della legittimazione al ricorso, l'asserito valore sintomatico derivante dal riscontro fattuale della utilità pratica della decisione di accoglimento presenta un risalto del tutto marginale, in assenza di ulteriori dati significativi”.
Nell’individuare, in termini peraltro non restrittivi, le uniche eccezioni in base alle quali sia possibile riconoscere la legittimazione a impugnare una procedura di affidamento anche da parte di un soggetto che non ha partecipato a tale procedimento, la stessa giurisprudenza predetta è giunta ad enucleare esclusivamente le seguenti:
a) il soggetto che non ha partecipato alla gara contesta in radice la scelta di indizione della procedura;
b) l'operatore economico di settore contesta un affidamento diretto o senza gara;
c) l'operatore manifesta la intenzione di impugnare una clausola del bando escludente in relazione alla illegittima previsione di determinati requisiti di qualificazione (TAR Liguria, Sez. II, sentenza 03.08.2012 n. 1135 - link a www.giustizia-amministrativa.it)

EDILIZIA PRIVATAQuando non siano necessarie valutazioni di ordine prettamente tecnico, che involgano profili di tutela territoriale e paesaggistica, ma emergano quelle di ordine più squisitamente giuridico, l'Amministrazione può provvedere pure in assenza del parere della Commissione edilizia.
Neppure è fondato il terzo motivo di ricorso che lamenta la violazione dell’art. 3 del regolamento edilizio comunale.
L’articolo citato impone il parere della CE in ogni ipotesi di opere edilizie che non siano semplici varianti ex art. 15 l. n. 47/1985 o disciplinate dalla DIA, e certamente quella in oggetto è per la trasformazione operata sul primitivo permesso di costruzione un’iniziativa edilizia del tutto diversa come testimoniano in primo luogo, l’aumento di cubatura e la modifica della sagoma dell’edificio.
Tuttavia il Collegio ritiene fondata l’eccezione del comune secondo la quale, nel caso di specie, proprio per la radicale trasformazione dell’opera progettata e la diversa disciplina che sostiene il cd. Piano-casa, il nuovo progetto non potesse essere considerato una variante del primo, con la conseguenza di non dover essere sottoposto alla CE integrata, ma semplicemente rigettato sulla base delle considerazioni giuridiche che negavano la continuità tra l’originaria iniziativa edilizia e il nuovo progetto.
Le considerazioni sopra svolte hanno trovato già conforto nella giurisprudenza amministrativa che ha affermato: ”Quando non siano necessarie valutazioni di ordine prettamente tecnico, che involgano profili di tutela territoriale e paesaggistica, ma emergano quelle di ordine più squisitamente giuridico, l'Amministrazione può provvedere pure in assenza del parere della Commissione edilizia”. (Tar Lazio I 10.05.2011 n. 4019; Tar Liguria, I 02.11.2011 n. 1509) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 03.08.2012 n. 1134 - link a www.giustizia-amministrativa.it)

EDILIZIA PRIVATALa questione dell'adeguatezza o meno della motivazione con cui il Comune ha esplicitato i criteri di calcolo applicati è destinata a risultare recessiva rispetto a quella della correttezza o meno di tali criteri: al riguardo, infatti, va richiamato il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui la determinazione degli oneri di urbanizzazione si correla a una precisa disciplina normativa, di modo che i provvedimenti applicativi di essa non richiedono di per sé alcuna puntuale motivazione allorché le scelte dell'Amministrazione si conformino a detti criteri.
La società ricorrente impugna la suddetta nota n. 1617 del 02.02.1993, deducendo , sotto un primo profilo, che la rideterminazione assunta dal Comune risulterebbe del tutto carente di motivazione circa la rinnovata qualificazione dell’intervento, essendosi l’amministrazione limitata ad asserire: “un supplemento di istruttoria ha dimostrato che la riduzione sugli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria era stata applicata erroneamente”.
Sul punto, è opportuno sottolineare come la questione dell'adeguatezza o meno della motivazione con cui il Comune ha esplicitato i criteri di calcolo applicati è destinata a risultare recessiva rispetto a quella della correttezza o meno di tali criteri: al riguardo, infatti, va richiamato il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui la determinazione degli oneri di urbanizzazione si correla a una precisa disciplina normativa, di modo che i provvedimenti applicativi di essa non richiedono di per sé alcuna puntuale motivazione allorché le scelte dell'Amministrazione si conformino a detti criteri (cfr. Cons. St., Sez. IV, 27.04.2012, n. 2471; Sez. V, 09.02.2001, nr. 584).
Nel caso che qui occupa, inoltre, il Comune ha esplicitato in corso di giudizio le ragioni che lo hanno indotto alla riqualificazione dell’intervento, sottolineando –senza incontrare in proposito specifica contestazione– che l’intervento ha comportato un diverso carico urbanistico, non solo quantitativo ma anche qualitativo, per la destinazione commerciale di parte dell’immobile. Ha quindi tratto da tale elemento un argomento decisivo per escludere la modesta entità e frammentarietà dell’intervento.
La delibera C. C. n. 75 del 14.07.1977 norme generali punto 2) prevede che “agli interventi caratterizzati da modesta entità o da frammentarietà come ad esempio gli ampliamenti, i completamenti, i restauri e le ristrutturazioni che non comportano carico aggiuntivo di popolazione, oltreché gli interventi singoli in zone (già dotate in tutto o in parte di urbanizzazione) si applica, per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria, un contributo forfetario di un terzo del valore stimato in modo sintetico per le zone di espansione”.
Orbene, le deduzioni svolte dall’amministrazione consentono di escludere la sussistenza del requisito che giustifica l’applicazione del contributo in misura contingentata, ovvero l’invarianza del carico urbanistico.
Che tale fattore non sia rimasto immutato è circostanza riconosciuta anche dalla parte ricorrente (cfr. pag. 10 ricorso introduttivo).
D’altra parte, avendo ad oggetto il giudizio in corso l’accertamento negativo del diritto di credito azionato dal comune, incombe sull'attore l'onere di provare, ai sensi dell'art. 2697 c.c., i fatti costituenti il fondamento della pretesa azionata (cfr. TAR Latina Lazio sez. I, 04.07.2007, n. 477).
Nell'ambito di siffatto giudizio di accertamento, in cui le posizioni possedute ed azionate hanno consistenza di diritto soggettivo, il giudice dispone di soli poteri acquisitivi e non dispositivi; sicché, egli non può sostituirsi alle parti ricercando e/o allegando lui le prove dei fatti su cui è stato fondato il diritto azionato. Grava sull'interessato l'onere di comprovare le ragioni fondanti i fatti da lui allegati; il giudice, dal suo canto, potrà solo avvalersi di mezzi ausiliari (c.t.u., verificazioni) utili al fine della valutazione di elementi probatori già acquisiti o della soluzione di questioni che comportino specifiche conoscenze tecniche che vanno oltre il senso comune.
Alla luce dei principi enunciati, non essendo stato allegato nessun elemento di prova dei presupposti della riduzione degli oneri, in conseguenza del carattere modesto dell’intervento edilizio, la determinazione assunta dal Comune sul punto non appare censurabile.
Sotto questo primo profilo, il ricorso non può trovare accoglimento (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 03.08.2012 n. 971 - link a www.giustizia-amministrativa.it)

EDILIZIA PRIVATADevesi ritenere legittima la condotta dell'amministrazione che, valutando la tipologia di lavori edilizi posti in essere, ritenga di qualificare ed istruire come istanza di concessione in sanatoria (art. 13 l. 28.02.1985 n. 47) la domanda formalmente presentata come concessione in variante ai sensi dell'art. 15 l. n. 47/1985.
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L'entità del contributo per oneri di urbanizzazione deve essere individuata con riferimento al momento in cui viene rilasciata la concessione edilizia in sanatoria e in cui, quindi, sorge l'obbligazione.

La ricorrente contesta l’atto impugnato anche con riguardo alla determinazione degli oneri dovuti in relazione alla variante del 22.11.1988.
La censura si fonda sull’asserita irrazionalità della determinazione –che quantifica l’oblazione prevista dall’art. 13 L. 47/1985- in quanto afferente a vicenda non ancora conclusa, per non essere stato presentato il progetto di sanatoria e per non essere stati acquisiti tutti gli elementi necessari ad una completa rappresentazione delle opere realizzate.
La stessa nota n. 1617 del 02.02.1993 contiene l’espressa riserva di “rideterminare gli oneri stessi in base al progetto di sanatoria che dovrà essere presentato”.
Sussisterebbe, pertanto, assoluta incertezza circa l’entità effettiva dell’oblazione e il titolo della richiesta avanzata in tal senso dal Comune.
Dalle difese della parte resistente si ricava che il Comune, sul presupposto -non contestato- che le opere eseguite in variante sono abusive, perché prive di concessione, ha inteso valutare ed esaminare la domanda di variante “a titolo di sanatoria”.
Della menzionata riqualificazione la ricorrente non ha interesse a dolersi. Si tratta, peraltro, di procedura ammissibile, dovendosi ritenere legittima la condotta dell'amministrazione che, valutando la tipologia di lavori edilizi posti in essere, ritenga di qualificare ed istruire come istanza di concessione in sanatoria (art. 13 l. 28.02.1985 n. 47) la domanda formalmente presentata come concessione in variante ai sensi dell'art. 15 l. n. 47/1985 (cfr. TAR Toscana Sez. III, 07-11-1998, n. 374).
Nondimeno, il contenuto dell’atto impugnato appare sul punto non adeguatamente motivato, in quanto recante conteggi non supportati da alcun dato oggettivo di riferimento e da alcuna tavola progettuale, alla cui successiva acquisizione si riserva la rideterminazione degli oneri stessi: nella nota è infatti precisato che: “le somme riferite alla variante potranno essere rideterminate in base al progetto di sanatoria che dovrà essere presentato dalla società AL.E.RO.”.
L’iter seguito dal Comune, poi, non appare in linea con le disposizioni normative vigenti in materia, stando alle quali l’intervento del Comune, ai fini della determinazione in via definitiva del relativo importo, fa seguito alla disamina della domanda di concessione o di autorizzazione e ai necessari correlati accertamenti. Solo all’esito degli stessi, il sindaco “determina in via definitiva l'importo dell'oblazione e rilascia, salvo in ogni caso il disposto dell'articolo 37, la concessione o l'autorizzazione in sanatoria” (art. 35 L. 47/1985).
Analogo principio è sinteticamente espresso dall’art. 13, comma 3, L. 47/1985, ove si dispone che “il rilascio della concessione in sanatoria è subordinato al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di concessione in misura doppia...”.
L’interpretazione che la giurisprudenza fornisce di tali disposizioni è nel senso che l'entità del contributo per oneri di urbanizzazione deve essere individuata con riferimento al momento in cui viene rilasciata la concessione edilizia in sanatoria e in cui, quindi, sorge l'obbligazione (TAR Lazio sez. II, 04.05.2011, n. 3854; Tar Lazio, sez. II-ter, n. 1059 del 2009; Cons. Stato, Sez. V, 26.03.2003, n. 1564).
L’amministrazione è quindi tenuta ad effettuare adeguati accertamenti istruttori sulla pratica di sanatoria, a determinarsi sulla stessa e a riformulare, alla luce del relativo esito, il conteggio degli oneri dovuti ai sensi dell’art. 13 L. 47/1985 (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 03.08.2012 n. 971 - link a www.giustizia-amministrativa.it)

EDILIZIA PRIVATAGli obblighi concernenti il pagamento di oneri di urbanizzazione, la sopratassa per il pagamento ritardato degli stessi e gli interessi legali relativi, sono qualificabili come obbligazioni di fonte legale e quindi sono soggetti alla relativa disciplina civilistica, in quanto non derogata da norme speciali.
Con il quarto motivo, la ricorrente contesta l’immotivata richiesta di interessi avanzata dal Comune con lettera 11.03.1993 prot. n. 3941 in relazione ai versamenti indicati nella precedente nota prot. n. 1617 del 02.02.1993.
Nella censura si lamenta l’assenza di chiarezza del conteggio ivi riportato, nonché l’illegittimità in sé della richiesta, in difetto di inadempimento colpevole imputabile alla parte ricorrente, essendo la stessa rimasta in attesa delle definitive determinazioni comunali.
Sul punto occorre premettere che gli obblighi concernenti il pagamento di oneri di urbanizzazione, la sopratassa per il pagamento ritardato degli stessi e gli interessi legali relativi, sono qualificabili come obbligazioni di fonte legale e quindi sono soggetti alla relativa disciplina civilistica, in quanto non derogata da norme speciali (TAR Lombardia, Brescia Sez. I Sent. 14-12-2007, n. 1333).
La censura è parzialmente fondata, peraltro, in ragione dell’accoglimento delle censure sin qui esaminate, che comportano una rideterminazione degli importi dovuti costituenti la base di calcolo degli interessi. L’amministrazione dovrà infatti procedere ad una rideterminazione degli stessi che tenga conto delle deduzioni degli importi già versati.
Quanto alla loro decorrenza, gli interessi legali di mora dovranno essere calcolati dalla data di comunicazione dell’atto di determinazione degli oneri dovuti, oltre che dalla scadenza del termine assegnato per l'adempimento (cfr. Cons. Giust. Amm. Sic. Sez. giurisdiz., 05-05-1993) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 03.08.2012 n. 971 - link a www.giustizia-amministrativa.it)

APPALTIIn base all’art. 46, comma 1-bis, del D.L.vo 12.04.2006, n. 163, aggiunto dall’art. 4, 2° comma, n. 2, lett. d), del D.L. n. 70 del 2011, convertito con modificazioni nella L. 12.07.2011, n. 106, è oggi possibile comminare l’esclusione da una gara solo ove vi sia incertezza in ordine alla provenienza della domanda, al suo contenuto o alla sigillazione dei plichi e che ogni altra ragione di non partecipazione agli incanti non può essere prevista, a pena di nullità, dal bando o dalla lettera d’invito.
La giurisprudenza ha già avuto modo di chiarire che tale nuova disciplina restringe la possibilità di comminare l’esclusione da tali procedure alle ipotesi di mancato adempimento a specifiche prescrizioni di legge previste dal codice degli appalti, dal regolamento attuativo (D.P.R. n. 207 del 2010) e da altre disposizioni legislative vigenti, e solo ove vi sia incertezza relativamente alla provenienza della domanda, al suo contenuto o alla sigillazione dei plichi, sanzionando con la nullità ogni altra previsione di impedimento alla partecipazione.
In particolare, è già chiarito, che è illegittima l’esclusione da una gara, ad esempio, per la mancata presentazione delle referenze bancarie, di una fotocopia del documento d’identità del sottoscrittore, di una cauzione provvisoria di importo inferiore a quello richiesto dal bando di gara o di irregolarità della polizza fideiussoria.
Ciò posto, ritiene il Collegio che la mancata indicazione del tipo di società, del numero, del nominativo e dell’indirizzo dei soci non avrebbe dovuto determinare l’automatica esclusione dalla gara del raggruppamento in questione, specie ove si consideri che tali elementi erano facilmente rinvenibili consultando -come poi ha effettuato la Stazione appaltante- altri atti depositati dal concorrente in parola o effettuando una visura camerale; tale mancanza non crea, infatti, alcuna incertezza “assoluta” sulla provenienza e sul contenuto dell’offerta.

Va, al riguardo, ricordato che l’art. 46, comma 1-bis, del D.L.vo 12.04.2006, n. 163, aggiunto dall’art. 4, 2° comma, n. 2, lett. d), del D.L. n. 70 del 2011, convertito con modificazioni nella L. 12.07.2011, n. 106, ha introdotto il principio della tassatività delle cause di esclusione dei soggetti partecipanti agli esperimenti indetti dalla P.A, prevedendo la possibilità di comminare l’esclusione solo “nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l’offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte” e che “i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione” e che “dette prescrizioni sono comunque nulle”.
In base a tale norma, in definitiva -applicabile alla gara in questione, in quanto il relativo bando è stato pubblicato dopo l’entrata in vigore del predetto decreto legge (TAR Puglia, sede Bari, Sez. I, 11.01.2012)- è oggi possibile comminare l’esclusione da una gara solo ove vi sia incertezza in ordine alla provenienza della domanda, al suo contenuto o alla sigillazione dei plichi e che ogni altra ragione di non partecipazione agli incanti non può essere prevista, a pena di nullità, dal bando o dalla lettera d’invito.
Ora, interpretando tale normativa, la giurisprudenza (cfr. da ultimo TAR Sicilia, sez. Catania, sez. IV, 10.02.2012, n. 348, TAR Valle d’Aosta, 23.01.2012, n. 6, TAR Liguria, sez. II, 22.09.2011, n. 1396, e TAR Veneto, sez. I, 13.09.2011, n. 1376) ha già avuto modo di chiarire che tale nuova disciplina restringe la possibilità di comminare l’esclusione da tali procedure alle ipotesi di mancato adempimento a specifiche prescrizioni di legge previste dal codice degli appalti, dal regolamento attuativo (D.P.R. n. 207 del 2010) e da altre disposizioni legislative vigenti, e solo ove vi sia incertezza relativamente alla provenienza della domanda, al suo contenuto o alla sigillazione dei plichi, sanzionando con la nullità ogni altra previsione di impedimento alla partecipazione.
In particolare, è già chiarito, che è illegittima l’esclusione da una gara, ad esempio, per la mancata presentazione delle referenze bancarie (TAR Abruzzo, sede Pescara, 09.11.2011, n. 632), di una fotocopia del documento d’identità del sottoscrittore (TAR Lombardia, sede Milano, sez. III, 23.05.2012, n. 1397), di una cauzione provvisoria di importo inferiore a quello richiesto dal bando di gara (Cons. St., sez. III, 01.02.2012, n. 493, e TAR Lombardia, sede Milano, sez. I, 14.06.2012, n. 1658) o di irregolarità della polizza fideiussoria (TAR Lazio, sede Roma, Sez. I-bis 15.12.2011, n. 9791).
Ciò posto, ritiene il Collegio che la mancata indicazione del tipo di società, del numero, del nominativo e dell’indirizzo dei soci non avrebbe dovuto determinare l’automatica esclusione dalla gara del raggruppamento in questione, specie ove si consideri che tali elementi erano facilmente rinvenibili consultando -come poi ha effettuato la Stazione appaltante- altri atti depositati dal concorrente in parola o effettuando una visura camerale; tale mancanza non crea, infatti, alcuna incertezza “assoluta” sulla provenienza e sul contenuto dell’offerta
(TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 03.08.2012 n. 372 - link a www.giustizia-amministrativa.it)

LAVORI PUBBLICIL’impresa che abbia richiesto nei prescritti termini la verifica triennale del proprio attestato SOA può partecipare alle gare indette dopo il triennio anche se la verifica sia compiuta successivamente, fermo restando che l’efficacia dell’aggiudicazione è subordinata all’esito positivo della verifica stessa; mentre ove l’impresa che abbia presentato la richiesta fuori termine (cioè, oggi, dopo la scadenza del triennio) può partecipare alle gare soltanto dopo la data di positiva effettuazione della verifica.
Quanto alla prima va evidenziato che l’art. 77 del regolamento di esecuzione ed attuazione del codice dei contratti pubblici (D.P.R. 05.10.2010, n. 207) dispone che in data “non antecedente a novanta giorni prima della scadenza del previsto termine triennale, l’impresa deve sottoporsi alla verifica di mantenimento dei requisiti … stipulando apposito contratto” e che “qualora l’impresa si sottoponga a verifica dopo la scadenza del triennio di validità dell’attestazione, la stessa non può partecipare alle gare nel periodo decorrente dalla scadenza del triennio fino alla data di effettuazione con esito positivo”.
Va osservato che questa disposizione, che modifica la disciplina previgente contenuta nell’art. 15-bis del D.P.R. 25.01.2000, n. 34, non pone più un termine minimo per l’avvio delle operazioni di verifica: mentre, infatti, tale art. 15-bis, oggi abrogato, prevedeva che “almeno” sessanta giorni prima della scadenza del previsto termine triennale, l’impresa avrebbe dovuto sottoporsi alla verifica di mantenimento dei requisiti presso la stessa SOA che aveva rilasciato l’attestazione oggetto della revisione e che nei trenta giorni successivi avrebbe dovuto compiersi l’istruttoria, la nuova normativa, oggi vigente ed applicabile alla fattispecie ora all’esame, fissa il diverso termine prima del quale non possono iniziarsi le operazioni di verifica (“non antecedente a novanta giorni prima della scadenza”); con la conseguenza che, per aversi continuità dell’iscrizione, è oggi sufficiente che l’impresa stipuli il relativo contratto con la SOA prima della scadenza triennale.
Pertanto, come è stato di recente chiarito (Cons. St., Ad. pl., 18.07.2012 n. 27), l’impresa che abbia richiesto nei prescritti termini la verifica triennale del proprio attestato SOA può partecipare alle gare indette dopo il triennio anche se la verifica sia compiuta successivamente, fermo restando che l’efficacia dell’aggiudicazione è subordinata all’esito positivo della verifica stessa; mentre ove l’impresa che abbia presentato la richiesta fuori termine (cioè, oggi, dopo la scadenza del triennio) può partecipare alle gare soltanto dopo la data di positiva effettuazione della verifica
(TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 03.08.2012 n. 372 - link a www.giustizia-amministrativa.it)

APPALTIQuello di continuità delle gare è un principio tendenziale, che deve applicarsi per soddisfare le due esigenze fondamentali di garantire la celerità delle operazioni, in ossequio al principio del buon andamento e di efficienza dell'Amministrazione, e di garantire l’assoluta indipendenza di giudizio di chi presiede la gara e sottrarlo a possibili influenze esterne.
Tale principio, però, ha valenza solo orientativa, potendo essere derogato sia in ragione della complessità delle operazioni di gara (quali quelle ricomprese nel sub-procedimento di verifica dell’anomalia) e sia in presenza di situazioni particolari che impediscano la concentrazione delle stesse operazioni in una sola seduta.
Per cui si è al riguardo già precisato che, considerate le ragioni di celerità e di imparzialità sottese al principio di continuità della gara, lo stesso, in concreto, non viene violato se le operazioni di gara si siano svolte in un tempo ragionevole e se venga rispettato il principio di segretezza delle operazioni di gara fino all’enunciazione dell’esito della stessa, né può essere addotta ad indice di illegittimità dell’operato del seggio di gara la pretesa inadeguatezza dei tempi impiegati per l’esame delle offerte.

Va, invero, al riguardo ricordato che quello di continuità delle gare è un principio tendenziale, che deve applicarsi per soddisfare le due esigenze fondamentali di garantire la celerità delle operazioni, in ossequio al principio del buon andamento e di efficienza dell'Amministrazione, e di garantire l’assoluta indipendenza di giudizio di chi presiede la gara e sottrarlo a possibili influenze esterne.
Tale principio, però, ha valenza solo orientativa, potendo essere derogato sia in ragione della complessità delle operazioni di gara (quali quelle ricomprese nel sub-procedimento di verifica dell’anomalia) e sia in presenza di situazioni particolari che impediscano la concentrazione delle stesse operazioni in una sola seduta.
Per cui si è al riguardo già precisato che, considerate le ragioni di celerità e di imparzialità sottese al principio di continuità della gara, lo stesso, in concreto, non viene violato se le operazioni di gara si siano svolte in un tempo ragionevole e se venga rispettato il principio di segretezza delle operazioni di gara fino all’enunciazione dell’esito della stessa (Cons. St., sez. VI, 29.12.2010, n. 9577), né può essere addotta ad indice di illegittimità dell’operato del seggio di gara la pretesa inadeguatezza dei tempi impiegati per l’esame delle offerte (Cons. St., sez. IV, 28.03.2011, n. 1871, e TAR Lazio, sede Roma, sez. III-bis, 27.06.2012, n. 5860)
(TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 03.08.2012 n. 372 - link a www.giustizia-amministrativa.it)

LAVORI PUBBLICI - VARI: Se l'albero rovina l'asfalto il padrone paga dazio.
Il proprietario degli alberi posizionati a margine di una strada rovinata dalle radici è sanzionabile e tenuto al ripristino del danno provocato nel rispetto del codice stradale. E non importa se la strada è pubblica o privata essendo sufficiente che la stessa sia ammessa a transito indistinto dei veicoli e quindi all'applicazione diretta delle regole stradali.
Lo ha evidenziato la Corte di Cassazione, Sez. II civ., con la sentenza 17.07.2012 n. 12262.
La polizia municipale di Terni ha sanzionato il proprietario di alcuni alberi per aver omesso di evitare il danneggiamento della sede stradale con il loro apparato radicale. Contro questa misura punitiva l'interessato ha proposto ricorso senza successo fino al Palazzaccio.
Gli alberi in questione a parere del giudice d'appello risultano piantati fuori dal confine stradale, su un terreno privato, neppure sulle fasce di pertinenza.
Per questo motivo a parere del collegio le censure del trasgressore devono essere respinte. Come evidenziato anche dal consulente tecnico d'ufficio incaricato dal tribunale i pini incriminati risultano privati e posizionati fuori dalla strada. E non serve neppure richiamare la vecchia legge sui lavori pubblici n. 2248/1865, prosegue il collegio, «perché genericamente dedotta e comunque non collegata a una ricostruzione di fatto smentita dagli accertamenti tecnici espletati».
L'art. 22 della legge 2248, prosegue la sentenza, non stabilisce infatti una vera e propria presunzione di pertinenzialità degli spazi adiacenti al tracciato stradale, natura che questi spazi assumono con certezza solo quando sono parte integrante della strada e di proprietà pubblica.
Circa la proprietà pubblica o privata della strada il collegio non si è espresso. Il codice stradale però non fa differenza. All'art. 2/1° è infatti chiaramente specificato che le regole della strada trovano applicazione su tutte le strade a uso pubblico destinate alla circolazione.
In buona sostanza sono guai seri per il privato che non fa manutenzione delle piante poste vicino al confine stradale. Nel caso dei pini che sono notoriamente invasivi con radici molto pericolose il trasgressore è stato infatti sanzionato e obbligato a pagare il ripristino del manufatto. In pratica tra sanzione e nota spese non sono bastati 10 mila euro per far fronte all'intera vicenda (articolo ItaliaOggi del 21.08.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Posizioni giuridiche cedevoli dinanzi all'annullamento.
L'esercizio del potere di annullamento in autotutela è espressione di una facoltà ampiamente discrezionale dell'amministrazione, a fronte della quale non sussistono posizioni giuridiche qualificate dell'interessato: così argomentando, il Consiglio di Stato (Sez. V, sentenza 06.07.2012 n. 3958) ha respinto il ricorso mosso da una donna avverso il provvedimento di concessione edilizia rilasciata dal Comune per «l'insediamento in prossimità della sua abitazione di un impianto meccanico di autolavaggio».
Confermando il dictat del Tar adito, la V Sezione ha, infatti, chiarito che «allorché si richiede all'amministrazione l'annullamento in autotutela di provvedimenti asseritamente illegittimi, l'amministrazione non ha alcun obbligo di procedere»: ergo «il mancato esercizio del potere di annullamento d'ufficio non può essere sindacato in sede giurisdizionale», dal momento che soltanto l'ente può valutare il singolo provvedimento emanato, gli interessi dei privati concorrenti ed il loro affidamento.
A nulla sono valse, quindi, le doglianze della ricorrente, la quale –affermando di agire per la tutela di un interesse pubblico– lamentava in particolare non solo che la realizzazione e il funzionamento dell'impianto avevano arrecato alla sua abitazione «immediatamente frontistante» gravissimi danni derivanti dai rumori e dalle vibrazioni «costanti e insopportabili» prodotte dalle macchine di lavaggio, ma anche che il Comune, al quale si era rivolta inizialmente, non aveva dato seguito alla sua richiesta, «malgrado i rappresentati profili di illegittimità che in detta istanza di annullamento in autotutela aveva evidenziato».
Secondo il Collegio giudicante, invece, l'interesse pubblico utilizzato come «porta bandiera» delle proprie ragioni non poteva trovare alcun sostegno: «Tale interesse», spiegano, infatti, i giudici, «non è azionabile direttamente dal privato», il quale, a contrario, potrebbe agire solo a tutela del proprio utile; né tanto meno poteva avere «pregio alcuno dissertare sul rigetto dell'istanza di annullamento in autotutela e sulla sufficienza ed adeguatezza delle motivazioni rappresentate dall'amministrazione».
Infine, relativamente alle emissioni rumorose ed alle vibrazioni che avrebbero arrecato fastidio all'abitazione, osservano che «compete al giudice ordinario la cognizione in materia di emissioni di qualunque tipo, comprese quelle acustiche» (articolo ItaliaOggi del 23.08.2012).

VARI: Autovelox, proteste con giudizio.
L'automobilista incorso nei rigori dell'autovelox che per protesta si piazza con l'auto davanti al misuratore di velocità commette reato solo se concretamente impedisce la regolarità del servizio di polizia stradale.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI pen., con la sentenza 05.07.2012 n. 25574.
Un utente stradale contrariato dall'autovelox dei vigili è tornato indietro affiancandosi con la vettura a quella della polizia municipale e impedendo in questo modo agli agenti di continuare il servizio, nonostante le richieste di rimozione.
Contro la conseguente condanna per interruzione di pubblico servizio l'interessato ha proposto ricorso con successo in Cassazione. A parere del collegio integra il reato di interruzione di pubblico servizio anche la condotta che determina una alterazione temporanea della regolarità dell'ufficio o servizio.
Tale alterazione tuttavia, specifica la sentenza, «deve essere concretamente apprezzabile, mentre nel caso in esame risulta piuttosto derivante da un soggettivo apprezzamento dei vigili operanti, senza che emerga dalle sentenze dei giudici di merito un qualche elemento di fatto che possa costituire un indice oggettivo» (articolo ItaliaOggi del 21.08.2012).

CONDOMINIO: Quote modificate a maggioranza. Per rivedere le tabelle millesimali non serve l'unanimità. La Cassazione sulla ripartizione delle spese comuni conferma il principio introdotto nel 2010.
Per la modifica delle tabelle millesimali è sufficiente la maggioranza dei voti espressi dai condomini in assemblea e non è quindi necessaria l'unanimità.
Con la recente ordinanza 27.06.2012 n. 10762 la VI Sez. civile della Corte di Cassazione ha fatto applicazione del nuovo principio di diritto pronunciato in materia dalle sezioni unite con la storica sentenza n. 18477 del 2010.
Il caso concreto.
Nella specie alcuni condomini avevano impugnato la delibera condominiale con la quale, in seconda convocazione, erano stati approvati a maggioranza il rendiconto consuntivo e il preventivo di spesa presentati dall'amministratore. Secondo loro, infatti, il riparto delle spese era stato effettuato sulla base di tabelle millesimali diverse da quelle allegate al regolamento di condominio predisposto dall'originario costruttore dell'edificio e depositato presso la conservatoria immobiliare. Nella dichiarata contumacia del condominio convenuto in giudizio il tribunale aveva però dichiarato inammissibile l'impugnazione.
La sentenza di primo grado era quindi stata appellata e, in questo caso, con la partecipazione al giudizio del condominio, in totale riforma della sentenza impugnata, era stata ritenuta l'ammissibilità dell'impugnazione della delibera condominiale, che era stata dichiarata nulla dai giudici di appello nella parte in cui erano stati approvati il rendiconto consuntivo e il preventivo di spesa in difformità dei millesimi indicati dalle tabelle allegate al regolamento condominiale trascritto. Il condominio aveva allora presentato ricorso in cassazione avverso la sentenza della Corte d'appello.
La decisione della Suprema corte.
La Corte di appello aveva fondato la propria pronuncia sulla circostanza della radicale nullità della deliberazione assembleare, in quanto adottata soltanto a maggioranza dei voti e non con l'unanimità dei consensi dei condomini. I giudici di secondo grado avevano infatti ritenuto che, essendo stata provata l'esistenza di tabelle millesimali allegate al regolamento condominiale confezionato dal costruttore originario dell'edificio e regolarmente trascritto presso la conservatoria immobiliare, la ripartizione delle spese comuni avrebbe dovuto essere effettuata sulla base delle predette tabelle e che la loro eventuale modifica non poteva avvenire con la semplice maggioranza dei partecipanti all'assemblea.
La sesta sezione della Suprema corte, facendo al contrario leva sulla sopravvenuta recente sentenza (n. 18477 del 2010) con la quale le sezioni unite della medesima Cassazione hanno escluso la necessità del consenso unanime dei condomini per l'approvazione e la revisione delle tabelle millesimali, ritenendo viceversa sufficiente la maggioranza qualificata di cui all'articolo 1136, comma 2, del codice civile, hanno quindi ritenuto di dover cassare la decisione impugnata.
In effetti, essendo sopravvenuta, nelle more del ricorso in cassazione, la predetta sentenza del 2010, era venuto meno il supporto logico sul quale era stata basata la decisione della Corte d'appello, considerando che nel caso di specie la deliberazione assembleare di modifica delle tabelle millesimali era stata appunto approvata con la maggioranza prevista dall'articolo 1136, comma 2, del codice civile ... (articolo ItaliaOggi Sette del 20.08.2012).

CONDOMINIO: Condominio. Danni in sede civile. Se è circoscritto lo schiamazzo non è un reato.
Urla per le scale, porte che sbattono, sedie che volano: uno scenario ricorrente in molti condomini .
Non sempre però questi rumori, espressione più delle volte di maleducazione, che ledono il diritto alla tranquillità sono tutelabili in sede penale.
Le immissioni rumorose trovano la loro tutela in sede civile nell'articolo 844 del Codice civile, ma il comportamento di chi commette immissioni rumorose può integrare la fattispecie delittuosa di cui all'articolo 659 del Codice penale («Disturbo delle occupazioni e del riposto delle persone») solo in presenza di certe condizioni.
Per integrare questo reato non è necessaria la prova reale del disturbo provocato, ma occorre la certezza che i rumori siano obiettivamente idonei a creare il disturbo trattandosi di reato di pericolo e, soprattutto, è necessario che il fenomeno rumoroso sia idoneo a disturbare un numero indeterminato di persone e non solo un numero limitato.

A questi principi di diritto si è appellata la Corte di Cassazione, Sez. I penale, sentenza 26.06.2012 n. 25225, affrontando il caso di alcuni condomini che erano stati condannati, dal tribunale, alla pena di giustizia (per il reato di cui agli articoli 81, 110 e 659, Codice penale) per avere, in concorso fra di loro, cagionato disturbo a cinque condomini dello stabile sbattendo con violenza le porte dell'appartamento e d'ingresso condominiale, urlando immotivatamente sulle scale del condominio, nonché sbattendo tavoli e sedie sul pavimento dell'appartamento da essi occupato.
Il Tribunale ha fondato la penale responsabilità degli imputati sulle deposizioni rese dalle parti offese e dall'amministratore condominiale pro-tempore, oltre che sulla denuncia-querela presentata da uno dei condomini.
Inoltrato il ricorso, i condannati eccepivano che non era stato accertato che i rumori molesti provenissero dal loro appartamento, né era stata accertata la natura di tali rumori né che sussisteva, nella specie, il reato a essi contestato in quanto il disturbo da essi arrecato era rimasto circoscritto all'interno delle mura condominiali, sì da non essere idoneo ad arrecare danno a una generalità indistinta di persone, elemento che costituisce la ratio dell'articolo 659, Codice penale, ovvero la tutela della quiete pubblica, intesa come collettività indistinta.
La Corte, nell'accogliere il ricorso ha precisato che: «La contravvenzione prevista dall'articolo 659, primo comma, Codice penale ... persegue la finalità di preservare la quiete e la tranquillità pubblica e i correlati diritti delle persone all'occupazione e al riposo; e la giurisprudenza di legittimità è orientata nel senso di ritenere che elemento essenziale di detta contravvenzione sia l'idoneità del fatto ad arrecare disturbo a un numero indeterminato di persone» (Cassazione n. 25225 citato). Nel caso in esame è emerso che gli unici soggetti danneggiati dai rumori molesti erano i cinque condomini occupanti la palazzina e che i rumori sono rimasti circoscritti all'interno dello stabile.
I fatti denunciati, pertanto, sono stati definiti «privi di rilevanza penale» e tali da poter trovare tutela solo in sede civile, con conseguente annullamento, senza rinvio, della sentenza impugnata (articolo Il Sole 24 Ore del 20.08.2012).

ATTI AMMINISTRATIVI: Pratiche avanti tutta. La causa civile non blocca la p.a. Una sentenza del Consiglio di stato sulle interferenze.
La circostanza che penda una causa civile dall'esito suscettibile di interferire sull'assetto di rapporti amministrativi (la qual cosa non è del tutto infrequente) «non giustifica certo, ogni volta che si manifesti, un congelamento sine die dell'azione amministrativa».
E' quanto si legge nella sentenza 26.06.2012 n. 3739 del Consiglio di Stato, Sez. V.
Il caso sottoposto all'attenzione della V Sezione riguardava la riforma di una sentenza del Tar concernente il diritto di superficie di un lotto demaniale: nello specifico, gli eredi universali ab intestato, «nella loro qualità, in comune e pro indiviso», avevano richiesto all'amministrazione la voltura della concessione cimiteriale, sulla cui istanza, però, il responsabile dell'Ufficio aree cimiteriali del Comune aveva stabilito di sospendere ogni determinazione, in attesa dell'esito di un altro contenzioso, questa volta civile, promosso contro gli stessi istanti dagli eredi della titolare più remota della concessione.
Di qui l'impugnativa, respinta, ed il successivo ricorso in appello: tra i diversi motivi di doglianza i ricorrenti lamentavano soprattutto che il primo giudice invece di pronunziarsi sugli specifici vizi che erano stati dedotti, si era «concentrato sulla distinta tematica della accoglibilità (o meno) dell'istanza di voltura: così pervenendo al risultato di escludere l'annullabilità della soprassessoria solo alla luce dell'esito negativo che il procedimento sospeso avrebbe dovuto a suo avviso avere».
Il collegio giudicante, al contrario, nell'accogliere il ricorso e annullare il provvedimento impugnato, ha ricordato come la voltura richiesta costituisce per l'amministrazione «un atto sostanzialmente dovuto»: il diritto sul sepolcro costituisce, infatti, un diritto soggettivo perfetto, di natura reale, assimilabile al diritto di superficie e suscettibile di possesso e di trasmissione sia inter vivos che per successione mortis causa.
Ne deriva che un congelamento sine die –legato alla imprevedibilità della durata di un giudizio civile– e la consequenziale l'impossibilità di avvalersi medio tempore del bene demaniale «sottratto a qualsiasi utilizzazione» avrebbero finito con l'intaccare il principio di non aggravamento del procedimento, «volto ad evitare che il medesimo subisca, oltre che onerosi appesantimenti, degli inutili rallentamenti» e l'integrare un «irragionevole spreco di risorse» (articolo ItaliaOggi del 23.08.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Videosorveglianza. La Cassazione interviene sull'installazione degli impianti.
Il sì di tutti i dipendenti «accende» le telecamere. Anche in assenza del via libera da parte sindacale.

Per accendere le telecamere in azienda è sufficiente che vi sia il consenso informato dei lavoratori. Infatti, per la Corte di cassazione –che si è espressa in questo senso con la sentenza 11.06.2012 n. 22611– così può essere superata la necessità dell'accordo preventivo con le rappresentanze sindacali aziendali oppure, in mancanza di queste, con le commissioni interne, come è ancora previsto dallo Statuto dei lavoratori. Ciò, beninteso, purché tutti i dipendenti dell'azienda abbiano prestato l'approvazione espressa all'installazione di telecamere.
Condanna cancellata
L'importante novità nasce dalla vicenda della titolare di un'impresa che, dopo un accesso ispettivo, veniva condannata per la violazione della normativa che tutela i lavoratori dai controlli indiretti mediante sistemi di videosorveglianza, malgrado avesse raccolto il consenso dei propri dipendenti e avesse segnalato in tutto lo stabilimento, con cartelli, la presenza delle telecamere. All'imprenditrice era stato contestato di avere proceduto all'installazione degli apparecchi senza avere preventivamente raggiunto l'accordo con le rappresentanze sindacali, in base all'articolo 4 della legge 300/1970.
Per la Cassazione, tuttavia, è apparso logicamente ammissibile che "il più contenga il meno", ossia che non possa essere negata validità a un consenso chiaro ed espresso proveniente dalla totalità dei lavoratori e non soltanto da una loro rappresentanza. Del resto, non risultando esservi disposizioni di alcun tipo che disciplinino l'acquisizione del consenso, ritenere che le rappresentanze sindacali possano intervenire ove neppure la totalità dei lavoratori potrebbe farlo, a parere della Cassazione darebbe alla materia il taglio di un «formalismo estremo», tale da contrastare con la stessa logica della disposizione voluta dal legislatore.
In definitiva, per i giudici di legittimità, una volta che sia stata provata la piena consapevolezza dei lavoratori –non solo dal documento di consenso da loro sottoscritto, ma anche dal fatto che l'impresa abbia fatto comunque installare dei cartelli in segnalazione della presenza del sistema di videosorveglianza– nessuna censura può essere validamente mossa al datore di lavoro.
Una soluzione evolutiva, volta, in sostanza, a superare il sistema delineato dalla legge 300/1970, che apparentemente ammette l'installazione solo in presenza dell'accordo sindacale o, in alternativa, dell'autorizzazione accordata dalla Direzione territoriale del lavoro competente.
Le istruzioni del Ministero
Un principio innovativo, quello della Cassazione, che segue di poco tempo la nota di «semplificazione» del ministero del Lavoro (del 16.04.2012, protocollo 37/0007162) per cui oggi, per accendere le telecamere in azienda (ove manchi l'accordo sindacale), basta formulare la domanda in maniera corretta. In altre parole, è sufficiente fornire tutte le idonee indicazioni sull'impianto prescelto e sull'utilizzo che si intende farne. Anche così è diventato finalmente più facile ottenere il rilascio delle autorizzazioni al l'uso degli impianti audiovisivi e di tutte le apparecchiature di controllo. Tali sistemi, del resto, sono oramai di quotidiano utilizzo presso tutti i luoghi di lavoro (dalle farmacie ai bar) e non più, come in passato, mero appannaggio di banche, grandi industrie e magazzini.
A fronte di una richiesta fattasi sempre più massiccia nel corso degli anni (grazie a tecnologie più maneggiabili e accessibili), si è reso però necessario lo snellimento delle procedure amministrative. Già da tempo, del resto, gli Uffici del lavoro –competenti a vigilare e a decidere in materia– non erano più in grado di sostenere l'aumento esponenziale delle pratiche per posizionare gli impianti di controllo della sicurezza e dell'integrità patrimoniale dell'azienda.
Il ministero del Lavoro ha deciso perciò di superare la prassi operativa, consolidatasi nel tempo tra le Direzioni territoriali, di fare operare agli ispettori un sopralluogo preventivo all'emissione del l'autorizzazione per valutare la rispondenza rispetto a quanto dichiarato dalle ditte nelle loro istanze. Del resto, a parere del Ministero, sussiste già una sostanziale «presunzione» di ammissibilità all'installazione di apparecchiature nei casi in cui (ad esempio, per rischio di rapine) la domanda appaia di per sé volta a garantire l'incolumità del personale lavorativo e di terzi.
In sostanza, interpretando con maggiore flessibilità le indicazioni dell'articolo 4 della legge 300/1970 che ancora governa la materia, oggi ci si potrà vedere più rapidamente garantito il diritto a collocare gli apparecchi con la mera presentazione di domande idonee, contenenti le specifiche dell'impianto prescelto.
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La vicenda
01|I GIUDICI DI MERITO
La titolare di un'azienda si vede condannata in sede penale per avere installato apparecchi di videosorveglianza, sebbene tutti i dipendenti avessero espresso formalmente il consenso scritto all'installazione e l'azienda avesse esposto cartelli che segnalavano la presenza di telecamere.
A parere dei giudici di merito, infatti, è violato l'articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, per non avere richiesto preventivamente il consenso delle rappresentanze sindacali o l'autorizzazione della Direzione del lavoro.
02|LA SUPREMA CORTE
Per la Cassazione, non è corretta l'equazione per cui il difetto degli accordi dava automaticamente luogo al reato contestato, e la titolare dell'azienda va assolta, perché non è stata interpretata correttamente la norma, sia sotto il profilo oggettivo, sia sotto quello psichico ... (articolo Il Sole 24 Ore del 20.08.2012).

EDILIZIA PRIVATANon spetta la gratuità del contributo di costruzione, per la costruzione di una caserma dei carabinieri, alla società (richiedente il permesso di costruire) che è un soggetto privato che opera a fini di lucro e non ha alcun rapporto o collegamento di tipo pubblicistico con la Pubblica Amministrazione.
... per l'accertamento del diritto della ricorrente ad essere esonerata, nei confronti della del Comune di Vico del Gargano, dal pagamento degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, nonché del costo di costruzione, ai sensi dell’art. 17, co. 3, lett. c), del DPR 06.06.2001 n. 380, relativamente alle rilasciata concessione edilizia n. 19/1999 e successive varianti n.3421/2000 e 2033/2001, per la costruzione di un immobile da adibire a locale caserma dei Carabinieri;
...
Con il ricorso in esame la società ricorrente impugna i provvedimenti di cui in epigrafe e ne chiede l’annullamento, previo accertamento del proprio diritto ad essere esonerata dal pagamento del costo di costruzione e degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria per la costruzione di una Caserma dei Carabinieri richiesti dall’Amministrazione Comunale intimata. Occorre premettere che, alla stregua dell’accordo intervenuto tra il Ministero dell’Interno e la ditta esecutrice/autofinanziatrice (sig. Salcuni Damiano), con atto di impegno depositato presso la Prefettura di Foggia il 02.02.1998, la ditta esecutrice si è obbligata a realizzare l’opera di che trattasi entro 18 mesi dalla data di impegno, nonché a locare l’immobile per un periodo di anni 6 (rinnovabili) al Ministero dell’Interno, prevedendo un canone annuo di € 235.000,00 e la possibilità per l’Amministrazione locataria di procedere all’acquisto dello stesso.
...
Premessa in via generale l’onerosità (oneri di urbanizzazione e contributo sul costo di costruzione) del rilascio di permesso di costruire ex art. 16 D.P.R. 380/2001, il successivo articolo 17 contiene una elencazione tassativa delle ipotesi in cui il contributo di costruzione non è dovuto e, in particolare, al comma 3, lett. c), prevede l’esonero dal versamento del contributo di costruzione “per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti, nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
Ciò premesso, appare quasi superfluo sottolineare che la società ricorrente, non potendo annoverarsi tra gli “enti istituzionalmente competenti”, difetta anzitutto del requisito soggettivo.
Non può condividersi in proposito l’assunto di parte ricorrente, che –sovrapponendo la prima e la seconda parte della norma citata– tende a prospettare una perfetta equivalenza degli enti istituzionalmente competenti con i soggetti privati.
L’esonero previsto dalla seconda parte della norma citata concerne invero i soggetti privati ma solo in relazione alla realizzazione di opere di urbanizzazione in attuazioni di strumenti urbanistici.
Né miglior sorte può avere la tesi della equiparazione cui parte ricorrente perviene attraverso una esclusiva attenzione all’elemento oggettivo consistente nella realizzazione di opere pubbliche o di interesse generale.
Ed invero, anche a prescindere dalla considerazione che siffatto argomentare porterebbe –in contrasto con il chiaro tenore della norma– ad un azzeramento del requisito soggettivo, deve altresì rilevarsi che la norma citata –proprio per la sua natura di norma eccezionale rispetto alla regola della onerosità del titolo– deve essere riguardata in termini restrittivi, non ponendosi neanche in tal caso un problema di interpretazione, attesa la chiarezza e univocità del dato testuale della norma (in claris non fit interpretatio).
Peraltro la società ricorrente, che è un soggetto privato che opera a fini di lucro, non ha alcun rapporto o collegamento di tipo pubblicistico con la Pubblica Amministrazione, a differenza di quanto si verifica con riferimento ai concessionari di opera pubblica (C.d.S. Sez. V 12.07.2005 n. 3774; Sez. V 18.09.2003 n. 5315) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 11.06.2010 n. 2420 - link a www.giustizia-amministrativa.it)

AGGIORNAMENTO AL 20.08.2012

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UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Per chi compra casa in costruzione e non vuole avere "fregature" è bene che si informi cliccando qui (link a www.consap.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Ritardi nei pagamenti nelle transazioni commerciali: tasso 01/07/2012-31/12/2012.
Il saggio d'interesse per ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali per il semestre 1° luglio - 31.12.2012 è determinato all'8%.
E' quanto risulta dal comunicato del Ministero dell'Economia e delle Finanze pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 162 del 13.07.2012 che ha fissato il saggio di cui all'art. 5, comma 2, del D.lgs. n. 231/2002 (link a www.altalex.com).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: M. Tagliabue, I beni culturali e la loro tutela giuridica (Non profit n. 2-3/2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. L. Vergine, Disposizioni penali maldestramente redatte, decisioni correttamente assunte, immeritate critiche (nota a Cass. pen. n. 15732/2012) (link a www.lexambiente.it).
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Commento a Corte di Cassazione penale, sez. III, sentenza 24.04.2012, n. 15732
Trasporto rifiuti pericolosi senza formulario o con dati incompleti o inesatti - Artt. 258 e 260-bis del D.Lgs. n. 152/2006 a seguito del D.Lgs. n. 205/2010 - Condotta attualmente priva di rilevanza penale ai sensi del comma 4, art. 258.
La modifica normativa apportata dalla legge n. 205 del 2010 all’art. 258 D.Lgs. n. 152/2006 ha determinato il venir meno della punibilità della condotta di trasporto di rifiuti pericolosi senza formulario o con formulario con dati incompleti o inesatti non più sanzionata penalmente in quanto non riconducibile ne´ alle previsioni del nuovo testo dell’art. 258 né alla fattispecie introdotta con l’art. 260-bis, che opera un riferimento alla scheda Sistri e non ai precedenti formulari con la conseguenza che, in applicazione dei principi fissati dall’art. 2 cod. pen. le condotte poste in essere devono essere ritenute non più riconducibili all’ipotesi di reato contemplate dalla disciplina previgente.

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. Miele, Ordinanze comunali contingibili ed urgenti in materia di rimozione rifiuti (nota a sentenza del TAR Campania-Napoli Sez. V, 26.07.2012 n. 3635) (link a www.lexambiente.it).

QUESITI & PARERI

APPALTI SERVIZI: Tracciabilità dei flussi finanziari.
1) Le spese che le organizzazioni di volontariato sostengono per l'espletamento delle attività previste dalle convenzioni di cui all'art. 7 della L. 266/1991, che la controparte convenzionata è tenuta a rimborsare, esulano dalle fattispecie di flussi finanziari che, ai sensi dell'art. 3 della L. 136/2010, sono assoggettati a tracciabilità.
2) Si ritiene che l'obbligo di tracciabilità dei pagamenti sia applicabile all'affidamento di servizi rivolti a determinate categorie di utenza, che un'ASP presta per specifica finalità istituzionale, giacché:
a) tale caratteristica non incide sul rapporto contrattuale che si instaura tra l'ASP e l'amministrazione committente, il quale sembra possedere i contenuti tipici dell'appalto;
b) l'Avcp ha chiarito che l'art. 3 della L. 136/2010 si applica ai «contratti aggiudicati da un'amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore ad un'altra amministrazione aggiudicatrice o ad un'associazione o consorzio di amministrazioni aggiudicatrici, in condizioni di concorrenza con operatori di mercato».

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Il Servizio sociale dei comuni dell'Ambito distrettuale chiede un parere in ordine all'obbligatorietà, o meno, di acquisizione del codice identificativo di gara (CIG), previsto nell'ambito della disciplina in tema di tracciabilità dei flussi finanziari, di cui alla legge 13.08.2010, n. 136, relativamente a due distinte casistiche:
1) corresponsione di rimborsi spese, ai sensi dell'art. 5, comma 1, lett. f)[1], della legge 11.08.1991, n. 266, alle associazioni di volontariato con le quali vengono stipulate le convenzioni ex art. 7[2] della medesima legge;
2) affidamento del servizio di accoglienza diurna e residenziale di persone disabili ad un'Azienda pubblica di servizi alla persona (ASP), che vi provvede in conseguenza dei propri fini istituzionali [3].
Con riferimento alla prima ipotesi, l'Ente ritiene che l'obbligo non dovrebbe sussistere, considerato che:
- le somme corrisposte ai sensi del predetto art. 5, comma 1, lett. f), della L. 266/1991 non costituiscono il corrispettivo di una prestazione, bensì un mero rimborso delle spese effettivamente sostenute e documentate dall'associazione di volontariato;
- il rapporto convenzionale che si instaura tra la P.A. e l'associazione di volontariato non è riconducibile alla nozione di contratto di appalto, contenuta nell'art. 1655[4] del codice civile;
- il rimborso spese di cui trattasi non sembra neppure annoverabile tra i finanziamenti pubblici cui fa riferimento l'art. 3, comma 1[5], della L. 136/2010, posto che, come ha chiarito l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (Avcp) nella determinazione n. 4 del 07.07.2011, la sottoposizione alla disciplina della tracciabilità dei flussi finanziari dei predetti finanziamenti presuppone che i soggetti percettori siano «a qualsiasi titolo interessati ai lavori, ai servizi e alle forniture pubblici», ovvero «richiede una correlazione con l'esecuzione di appalti di lavori, servizi e forniture»[6];
- l'esclusione dell'obbligo di tracciabilità dovrebbe trovare applicazione anche alle convenzioni (pur non disciplinate da apposita normativa) con altri soggetti del terzo settore, concernenti attività di supporto, integrazione e collaborazione con il Servizio sociale dei comuni per l'esecuzione di progetti sociali in favore della comunità di riferimento, purché in tali convenzioni sia previsto il mero rimborso delle spese e non già la realizzazione delle attività quale controprestazione del finanziamento previsto[7].
Le osservazioni svolte dal Servizio sociale dei comuni, in ordine alla non assoggettabilità, alle prescrizioni di cui all'art. 3 della L. 136/2010, dei rimborsi spese connessi allo svolgimento delle attività previste dalle convenzioni con le organizzazioni di volontariato, appaiono pienamente condivisibili[8], anche considerando le disposizioni contenute negli artt. 2, commi 1[9] e 2[10] e 3, commi 1[11] e 3[12], della L. 266/1991, che evidenziano l'assenza di fini di lucro nell'espletamento dell'attività di volontariato e dispongono l'assoluta gratuità delle prestazioni rese dai volontari[13].
Detti elementi escludono, pertanto, che, in tale contesto, le somme corrisposte dalla P.A. alle organizzazioni di cui trattasi possano qualificarsi come 'corrispettivi'[14] dell'attività prestata dai soggetti aderenti.
Sulla questione della liquidazione delle spese connesse ad una convenzione tra un comune ed un'associazione di volontariato, l'Associazione nazionale dei comuni italiani (A.N.C.I.) ha dapprima ipotizzato l'applicabilità delle disposizioni concernenti la tracciabilità dei flussi finanziari[15] mentre, successivamente, ha negato la sussistenza dei relativi presupposti[16].
Quanto alla seconda casistica oggetto di quesito, concernente l'affidamento del servizio di accoglienza diurna e residenziale di persone disabili ad un'ASP, che vi provvede per specifica finalità istituzionale[17], non sembrano potersi ravvisare elementi che inducano ad escludere l'applicabilità della disciplina dettata dalla L. 136/2010.
Infatti, la circostanza che l'ASP si caratterizzi per erogare servizi a favore di specifiche categorie di utenza non incide sul rapporto contrattuale che si instaura tra essa e l'amministrazione committente, il quale sembra possedere i contenuti tipici dell'appalto, a prescindere dalle modalità di affidamento del servizio[18].
Né la soggettività pubblica del prestatore del servizio sembra poter esonerare le parti dagli obblighi concernenti la tracciabilità, che l'Avcp ritiene applicabili ai «contratti aggiudicati da un'amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore ad un'altra amministrazione aggiudicatrice o ad un'associazione o consorzio di amministrazioni aggiudicatrici, in condizioni di concorrenza con operatori di mercato»[19].
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[1] «1. Le organizzazioni di volontariato traggono le risorse economiche per il loro funzionamento e per lo svolgimento della propria attività da:
[...]
f) rimborsi derivanti da convenzioni;
[...]».
[2] «1. Lo Stato, le regioni, le province autonome, gli enti locali e gli altri enti pubblici possono stipulare convenzioni con le organizzazioni di volontariato iscritte da almeno sei mesi nei registri di cui all'articolo 6 e che dimostrino attitudine e capacità operativa.
2. Le convenzioni devono contenere disposizioni dirette a garantire l'esistenza delle condizioni necessarie a svolgere con continuità le attività oggetto della convenzione, nonché il rispetto dei diritti e della dignità degli utenti. Devono inoltre prevedere forme di verifica delle prestazioni e di controllo della loro qualità nonché le modalità di rimborso delle spese.
3. La copertura assicurativa di cui all'articolo 4 è elemento essenziale della convenzione e gli oneri relativi sono a carico dell'ente con il quale viene stipulata la convenzione medesima.».
[3] Ad es., servizio di accoglienza in centro diurno di persone non vedenti, effettuato da un'istituzione specializzata per ciechi e ipovedenti.
[4] «L'appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un'opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro.».
[5] «1. Per assicurare la tracciabilità dei flussi finanziari finalizzata a prevenire infiltrazioni criminali, gli appaltatori, i subappaltatori e i subcontraenti della filiera delle imprese nonché i concessionari di finanziamenti pubblici anche europei a qualsiasi titolo interessati ai lavori, ai servizi e alle forniture pubblici devono utilizzare uno o più conti correnti bancari o postali, accesi presso banche o presso la società Poste italiane Spa, dedicati, anche non in via esclusiva, fermo restando quanto previsto dal comma 5, alle commesse pubbliche. Tutti i movimenti finanziari relativi ai lavori, ai servizi e alle forniture pubblici nonché alla gestione dei finanziamenti di cui al primo periodo devono essere registrati sui conti correnti dedicati e, salvo quanto previsto al comma 3, devono essere effettuati esclusivamente tramite lo strumento del bonifico bancario o postale, ovvero con altri strumenti di incasso o di pagamento idonei a consentire la piena tracciabilità delle operazioni.».
[6] In tale contesto (v. par. 3.3), l'Avcp ha, inoltre, rilevato che, stante la natura eccezionale delle previsioni dettate dall'art. 3 della L. 136/2010, va esclusa la possibilità di operare un'interpretazione estensiva delle relative norme.
[7] Così come sostenuto da questo Ufficio nel parere 01.12.2010, prot. 28279, richiamato nel quesito.
[8] Considerato il contesto oggetto della presente trattazione, si richiamano le considerazioni già espresse da questo Ufficio nei pareri 09.06.2011, prot. 22511 e 26.01.2011, prot. 2437.
[9] «1. Ai fini della presente legge per attività di volontariato deve intendersi quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l'organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà.».
[10] «2. L'attività del volontario non può essere retribuita in alcun modo nemmeno dal beneficiario. Al volontario possono essere soltanto rimborsate dall'organizzazione di appartenenza le spese effettivamente sostenute per l'attività prestata, entro limiti preventivamente stabiliti dalle organizzazioni stesse.».
[11] «1. È considerato organizzazione di volontariato ogni organismo liberamente costituito al fine di svolgere l'attività di cui all'articolo 2, che si avvalga in modo determinante e prevalente delle prestazioni personali, volontarie e gratuite dei propri aderenti.».
[12] «3. Negli accordi degli aderenti, nell'atto costitutivo o nello statuto [...] devono essere espressamente previsti l'assenza di fini di lucro [...] nonché la gratuità delle prestazioni fornite dagli aderenti [...].».
[13] Sul punto, v. i pareri dello scrivente Servizio 16 aprile 2012, prot. 13600, 30.04.2009, prot. 6816, 31.12.2008, prot. 19851 e 02.10.2008, prot. 15255.
[14] Al riguardo, si evidenzia che l'Avcp, nella citata determinazione 4/2011, ha affermato che la tracciabilità dei flussi finanziari introdotta dall'art. 3 della L. 136/2010 costituisce «uno degli strumenti che l'ordinamento appronta nel dichiarato intento di arginare la penetrazione economica delle organizzazioni mafiose nell'attività di esecuzione delle commesse pubbliche», la cui «finalità specifica è quella di rendere trasparenti le operazioni finanziarie relative all'utilizzo del corrispettivo dei contratti pubblici» (v. par. 1).
[15] V. parere 18.07.2011 nel quale, dopo aver ricordato che l'art. 3 della L. 136/2010 si applica ai flussi finanziari derivanti dai contratti d'appalto di servizi ed aver richiamato la nozione contenuta nell'art. 1655 del codice civile, l'A.N.C.I. ha affermato che, dalle informazioni fornite dall'ente, «emerge la sostanziale sussistenza degli elementi negoziali del contratto di appalto, e quindi il presupposto per l'applicabilità degli adempimenti previsti dal citato art. 3. Tuttavia è da verificare se gli atti (e, se ritenuto opportuno, considerare una loro riformulazione) definiscono effettivamente un rapporto di natura sinallagmatica - e quindi un contratto di appalto di servizi soggetto a tracciabilità - oppure la corresponsione di un contributo, ossia di un 'mero contributo', non a titolo di corrispettivo, in favore dell'associazione per la sua più complessiva attività, nell'ambito della quale sono compresi i compiti di cui trattasi, fattispecie che risulterebbe diversa da un contratto di appalto, potendosi quindi considerare la medesima erogazione nell'ambito dei contributi concessi, e dei soggetti degli stessi beneficiari, come regolamentati ai sensi dell'art. 12 della legge n. 241/1990.».
Si ritiene necessario evidenziare che la perplessità manifestata dall'A.N.C.I. potrebbe emergere dalla dichiarazione, contenuta nel quesito posto, che le spese da liquidare all'associazione di volontariato «sono iscritte nel bilancio comunale come prestazioni di servizio».
[16] V. parere 27.07.2011, in cui si sostiene che «il riconoscimento da parte dell'ente, con conseguente rimborso, delle spese sostenute da parte dell'organismo trova le sue motivazioni nel contesto di un rapporto con l'associazione che appare fondato sulla cd. 'sussidiarietà orizzontale', e non in base ad un rapporto negoziale riconducibile alla nozione di contratto di appalto di cui all'art. 1665 del Codice civile. Si è quindi del parere che per la fattispecie di cui trattasi non sussista il presupposto che conduce all'applicazione degli adempimenti di tracciabilità.».
[17] Profilo, questo, che appare distinto dal 'diritto esclusivo' contemplato dall'art. 19, comma 2 («Il presente codice non si applica agli appalti pubblici di servizi aggiudicati da un'amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore ad un'altra amministrazione aggiudicatrice o ad un'associazione o consorzio di amministrazioni aggiudicatrici, in base ad un diritto esclusivo di cui esse beneficiano in virtù di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative pubblicate, purché tali disposizioni siano compatibili con il trattato.»), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, rispetto al quale l'Avcp, nel par. 3.6 della determinazione 4/2011, afferma che «Si ritiene, al riguardo, che, in considerazione della ratio della legge n. 136/2010, detti appalti non siano soggetti agli obblighi di tracciabilità in quanto contenuti in un perimetro pubblico, ben delimitato da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, tali da rendere ex se tracciati i rapporti, anche di natura finanziaria, intercorrenti tra le amministrazioni aggiudicatrici [...].».
[18] Si ricorda che l'Avcp ha più volte affermato che non rileva né l'importo del contratto, né la procedura di scelta del contraente adottata, tant'è che l'assoggettabilità alle disposizioni in tema di tracciabilità viene estesa ai contratti conclusi tramite cottimo fiduciario ed affidamento diretto, nonché a quelli concernenti le attività finalizzate all'inserimento lavorativo di persone svantaggiate, ai sensi dell'art. 5 della legge 08.11.1991, n. 381.
[19]
V. par. 3.6 della determinazione 4/2011 (26.07.2012 - link a www.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Servitù di uso pubblico. Strade vicinali. Iscrizione nell'elenco comunale dei percorsi/transiti ad uso pubblico. Obblighi di manutenzione.
1) Per la individuazione dell'organo competente ad effettuare la classificazione delle strade vicinali si ritiene si possa applicare, per analogia, l'art. 17 della legge 2248/1865 relativo alla formazione degli elenchi delle strade comunali il quale attribuisce alla giunta il compito della loro formazione ed al consiglio comunale la successiva approvazione dello stesso.
2) Circa le opere di manutenzione sussiste sul Comune un obbligo di compartecipazione a tali spese, in attuazione di quanto dispone l'articolo 3 del D.L.Lgt. 1446/1918 il quale obbliga il Comune a concorrere alla spesa per la manutenzione, sistemazione e ricostruzione delle strade vicinali in una misura che varia a seconda dell'importanza della strada: da un minimo di un quinto della spesa, sino ad arrivare alla metà.

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Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla disciplina giuridica relativa a servitù di uso pubblico. Più in particolare, riferisce che sul territorio comunale sussiste, da tempo, una 'viabilità secondaria' (rappresentata, per lo più, da sentieri di bosco, mulattiere e similari) che collega due zone pubbliche o il cui transito permette di raggiungere luoghi pubblici. In relazione ad essa l'Ente desidera sapere se può introdurla nell'elenco comunale dei percorsi/transiti ad uso pubblico; quale sia l'organo competente all'approvazione di tale elenco; se tale inserimento legittimi il Comune ad eseguire opere di manutenzione della viabilità in argomento.
Con l'espressione servitù ad uso pubblico si intendono quei diritti reali spettanti allo Stato, alle Province ed ai Comuni per il conseguimento di fini di pubblico interesse corrispondenti a quelli a cui servono i beni medesimi. Si tratta di diritti reali di godimento costituiti a carico di un bene privato a vantaggio di una collettività e per il raggiungimento di un fine di pubblico interesse.[1]
Con riferimento specifico ai transiti costituenti la c.d. viabilità secondaria, di cui al quesito in riferimento, si ritiene che essi vadano annoverati tra le c.d. strade vicinali pubbliche, tali essendo, per l'appunto, le vie di proprietà privata, soggette a pubblico transito.[2] In concreto, il sedime della strada vicinale, compresi accessori e pertinenze, è privato, di proprietà dei titolari dei terreni latistanti, mentre l'ente pubblico è titolare di un diritto reale di transito.[3]
La giurisprudenza,[4] in diverse occasioni, ha precisato che la natura pubblica della strada dipende dalla coesistenza effettiva delle tre condizioni di seguito indicate:
1. il passaggio esercitato iure servitutis pubblicae, da una collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad un gruppo territoriale;
2. la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via;
3. un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell'uso da tempo immemorabile.
Alla luce della qualificazione giuridica che, come sopra affermato, può essere attribuita alla viabilità secondaria esistente sul territorio del Comune che ha posto il quesito, segue che la stessa possa essere inserita nell'elenco comunale delle strade vicinali.
Circa l'individuazione dell'organo competente all'approvazione di tale elenco si osserva che l'unica disposizione di legge che concerne, in generale, la compilazione da parte del Comune dell'elenco delle vie vicinali soggette al pubblico transito si rinviene nell'allegato 4 all'articolo 83 del regolamento per l'esecuzione della legge comunale e provinciale,[5] approvato con regio decreto 12.02.1911, n. 297, il quale, tuttavia, non indica la procedura da osservare per la formazione degli elenchi delle strade vicinali. Tale articolo è stato, peraltro, abrogato dall'articolo 64, comma 1, lettera a), della legge 08.06.1990, n. 142.[6]
La dottrina,[7] tuttavia, ritiene che, in mancanza di norme specifiche per la classificazione delle strade vicinali, si possano seguire, per analogia, le disposizioni riguardanti la formazione degli elenchi delle strade comunali, atteso che le strade vicinali hanno interesse pubblico al pari di quelle comunali perché soggette a servitù del pubblico, anche se di secondaria importanza.
Al riguardo, l'articolo 17 della legge 20.03.1865, n. 2248 attribuisce alla giunta municipale il compito della formazione dell'elenco delle strade da classificarsi fra le comunali precisando, altresì, al secondo comma, che 'questo elenco sarà per la durata di un mese depositato in una delle sale della residenza comunale ed affisso in copia all'albo pretorio. Gli interessati verranno con pubblico avviso invitati a prenderne cognizione ed a presentare in iscritto entro il termine suddetto le loro osservazioni ed i loro reclami. Spirato quel termine, il Consiglio comunale, deliberando sulla proposta della Giunta e sui reclami dei privati, stabilirà l'elenco delle strade comunali [...]'.
Con riferimento alle opere di manutenzione delle strade vicinali si osserva che l'articolo 14 del decreto legislativo 285/1992 prevede che: 'Gli enti proprietari delle strade, allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, provvedono: a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi; b) al controllo tecnico dell'efficienza delle strade e relative pertinenze; c) alla apposizione e manutenzione della segnaletica prescritta'. Il successivo comma 4 dispone, poi, che 'Per le strade vicinali di cui all'art. 2, comma 7, i poteri dell'ente proprietario previsti dal presente codice sono esercitati dal comune'.
Tra i compiti attribuiti al Comune vi sono, pertanto, anche quelli volti a garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, e di provvedere alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade e delle pertinenze. I comuni, tuttavia, sono chiamati ad assolvere a tali obblighi di manutenzione solo in caso di inadempimento da parte dei soggetti a ciò tenuti, - ossia i consorzi per la manutenzione delle strade vicinali, da costituirsi con la procedura di cui all'articolo 2 del decreto legge luogotenenziale 01.09.1918, n. 1446,[8] o qualora si tratti di interventi urgenti.
Alla luce di un tanto segue l'impossibilità per l'ente locale di farsi integralmente carico degli oneri di sistemazione delle strade vicinali. Sul Comune sussiste, invece, un obbligo di compartecipazione a tali spese, in attuazione di quanto dispone l'articolo 3 del D.L.Lgt. 1446/1918[9] il quale obbliga il Comune a concorrere alla spesa per la manutenzione, sistemazione e ricostruzione delle strade vicinali in una misura che varia a seconda dell'importanza della strada: da un minimo di un quinto della spesa, sino ad arrivare alla metà. Nel caso in cui L'Ente anticipi tali somme sussisterà, a suo favore, l'obbligo di recuperare le somme di altrui spettanza.[10]
Circa l'inderogabilità dei limiti di compartecipazione stabiliti dall'articolo 3 del D.L.Lgt. 1446/1918 si è espressa la Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per il Veneto, con la sentenza del 07.11.2008, n. 140 la quale ha precisato che 'il legislatore con tale disciplina, tenendo conto dello speciale regime giuridico di tali strade, ha già contemperato a monte gli interessi pubblici e privati in gioco, demandando ai comuni solo la possibilità di scegliere in concreto l'ammontare della contribuzione all'interno dei limiti minimi e massimi consentiti. Tale scelta, corredata da esaustiva motivazione anche in relazione al grado di fruizione pubblica della strada oggetto di intervento, dovrà ovviamente seguire criteri di trasparenza, parità di trattamento, economicità e razionalità di gestione, e dovrà tener conto anche delle disponibilità finanziarie complessive dell'ente'.
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[1] Sul punto si veda Cassazione civile, sez. II, sentenza del 10.01.2011, n. 333 la quale recita: 'La servitù ad uso pubblico è caratterizzata dall'utilizzazione, da parte di una collettività indeterminata di persone, di un bene il quale sia idoneo al soddisfacimento di un interesse collettivo'.
[2] Si precisa, altresì, che una definizione di strada vicinale si ritrova nell'articolo 3, comma 1, n. 52 del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) il quale definisce la strada vicinale (o Poderale o di Bonifica) quale 'strada privata fuori dai centri abitati ad uso pubblico'.
[3] Interessante, al riguardo, è la sentenza del TAR Lombardia, Brescia, sez. I, dell'11.11.2008, n. 1602 relativa ad un sentiero di montagna soggetto ad uso pubblico per finalità turistiche, naturalistiche, ricreative, e anche al servizio delle attività agricole della zona, in riferimento alla quale il giudice amministrativo ha affermato che 'Se una strada può essere percorsa indistintamente da tutti i cittadini per una molteplicità di usi e con una pluralità di mezzi non può essere negata la presenza del pubblico transito solo perché materialmente la strada si presenta disagevole in alcuni tratti e poco frequentata nel complesso. L'uso pubblico, assimilabile a una servitù collettiva, legittima i comuni a introdurre alcune limitazioni al traffico, ad esempio vietando l'uso di alcuni mezzi (specie di quelli molto impattanti) in modo continuativo o in particolari periodi, come per il resto della viabilità comunale. L'apposizione di limiti e divieti non fa venire meno la caratteristica del pubblico transito'.
[4] Tra le altre, Cassazione civile, sez. II, sentenza del 10.01.2011, n. 354; TAR Puglia, Lecce, sez. I, sentenza del 09.01.2008, n. 48; TAR Marche, Ancona, sez. I, sentenza del 10.10.2007, n. 1595.
[5] Recita l'articolo 83 del r.d. 297/1911: 'In ogni Comune il segretario deve tenere in corrente e in ordine cronologico le leggi e i decreti appartenenti all'edizione ufficiale, i registri, gli elenchi e gli atti indicati nell'allegato n. 4, obbligatori per i Comuni, oltre a quelli speciali prescritti da leggi e da regolamenti. [...]'. L'allegato 4 del regolamento n. 297 del 1911 comprende, al n. 4, l'elenco delle strade comunali e di quelle private soggette a servitù pubblica, ma non indica la procedura da osservare per la formazione degli elenchi delle strade vicinali.
[6] Si ricorda che la legge 142/1990 è stata successivamente abrogata dall'articolo 274, comma 1, lettera q), del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267.
[7] Cfr. P. La Rocca, 'Il regime giuridico delle strade provinciali, comunali, vicinali e private', Maggioli editore, 2006, pag. 257.
[8] Si consideri, al riguardo, anche la legge 12.02.1958, n. 126 che prescrive, all'articolo 14, l'obbligatorietà della costituzione dei consorzi per le strade vicinali di uso pubblico fra utenti e Comune per il concorso nelle spese di manutenzione.
[9] Per completezza espositiva, si segnala che il D.L.Lgt. 1446/1918 era stato abrogato, a decorrere dal 16.12.2009, dall'articolo 2, comma 1, del D.L. 22.12.2008, n. 200. Successivamente, tuttavia, l'efficacia dell'indicato decreto è stata ripristinata dall'articolo 1, comma 2, del D.Lgs. 01.12.2009, n. 179.
[10] In questo senso si veda, anche, il parere rilasciato dal Ministero dell'Interno, del 16.10.2009 e quello della Regione Emilia Romagna, Servizio affari istituzionali e delle autonomie locali, del 23.04.2010.
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L 20.03.1865, n. 2248, art. 17; D.L.Lgt. 01.09.1918, n. 1446, art. 3
(25.07.2012 - link a www.regione.fvg.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Incarichi per convegno.
Si ritiene che gli enti locali, per l'affidamento di incarichi occasionali o di collaborazione coordinata e continuativa, in relazione all'organizzazione e svolgimento di un convegno, debbano applicare la disciplina di cui all'art. 7, comma 6, del d.lgs. 165/2001.
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Il Comune ha formulato una richiesta di parere in ordine alla corretta configurazione di alcune prestazioni professionali, fornite da docenti e ricercatori universitari, nell'ambito dell'organizzazione di un convegno programmato dall'Ente per il mese di novembre 2012.
In particolare, l'Amministrazione istante precisa che i docenti parteciperanno al convegno per due giornate, mentre i ricercatori universitari saranno coinvolti in una consistente attività di studio, ricerca e documentazione finalizzata alla pubblicazione di materiale specifico. Il Comune si pone, quindi, il problema concernente la corretta configurazione giuridica delle predette prestazioni, anche alla luce delle nuove normative intervenute in materia di riforma del lavoro.
Preliminarmente, si osserva che le recenti disposizioni approvate in materia di mercato del lavoro, per espressa previsione di quanto disposto all'art. 1, comma 7, della l. n. 92/2012, costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001 (enti locali compresi). Il successivo comma 8 del citato articolo precisa, ad ogni buon conto, che, al fine dell'applicazione di quanto statuito al comma 7, il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, individua e definisce, anche mediante iniziative normative, gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche.
Pertanto, alla luce di quanto rilevato, la riforma del mercato del lavoro non ha un'immediata ricaduta applicativa sul sistema delle pubbliche amministrazioni, richiedendo per l'appunto ulteriori e specifici interventi da parte delle autorità competenti.
Premesso un tanto, si evidenzia che, nella fattispecie rappresentata, gli operatori interessati appartengono all'ambiente universitario e soggiacciono, conseguentemente, alle regole e alla disciplina in vigore per tale ordinamento.
Si richiama ad esempio quanto prescritto dall'art. 53, comma 6, del d.lgs. 165/2001[1], che prevede che 'i commi da 7 a 13 del medesimo articolo si applicano ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, dello stesso decreto, ...con esclusione dei dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento di quella a tempo pieno, dei docenti universitari a tempo definito...'.
Il successivo comma 7 precisa poi che: 'i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza. Con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell'autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto'.
In linea generale, si osserva che è prevista la previa autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza per tutti gli incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri d'ufficio, per i quali è previsto sotto qualsiasi forma un compenso. Sono, invece, eccezionali e tassative le deroghe previste per incarichi retribuiti, dal comma 6 del citato art. 53, che contempla, tra le varie fattispecie, anche la partecipazione a convegni e seminari.
E' da notare, inoltre, che la 'riforma Gelmini' introdotta dalla l. n. 240/2011 ha, in larga parte, innovato il regime delle incompatibilità dei professori e dei ricercatori universitari, sia a tempo pieno che a tempo definito, liberalizzando alcune attività prima soggette ad autorizzazione e sottoponendo all'autorizzazione del Rettore altre tipologie di attività, in riferimento all'assenza di conflitto di interessi con l'Università di appartenenza, nonché a condizione che le attività medesime non rappresentino detrimento alle attività didattiche, scientifiche e gestionali affidate ai richiedenti.
In particolare, l'art. 6 della suddetta legge, al comma 10, prevede che i professori a tempo pieno possano svolgere liberamente, anche con retribuzione e, conseguentemente, senza la necessità di acquisire un'autorizzazione preventiva, attività correlata a lezioni e seminari di carattere occasionale.
Per quanto concerne la configurazione delle attività di cui si discute e dell'inquadramento giuridico delle fattispecie in esame, considerate sotto il profilo dell'amministrazione comunale procedente, si rileva quanto segue.
Al di là delle diverse caratteristiche che contraddistinguono le prestazioni di cui si discute (attività limitata nel tempo, in un caso, e attività a carattere più prolungato e impegnativo, nell'altra fattispecie) e dell'appartenenza dei soggetti interessati al sistema universitario, si ritiene che dette attività rientrino, a pieno titolo, nell'ambito del conferimento di incarichi esterni, sotto la forma di collaborazioni occasionali o coordinate e continuative, come disciplinate dall'art. 7, comma 6, del d.lgs. 165/2001 e dalle norme regolamentari peculiari adottate dall'Ente locale[2].
Pertanto, l'Amministrazione dovrà attenersi alla predetta norma, che definisce puntualmente requisiti, condizioni e procedure per l'affidamento di collaborazioni esterne nella pubblica amministrazione, tenendo conto anche dei presupposti legittimanti il conferimento di detti incarichi, come rilevati dalla magistratura contabile[3].
In particolare, si richiama anche il contenuto della circolare n. 2 dell'11.03.2008, diramata dal Dipartimento della funzione pubblica. Al punto 7. della predetta circolare (Esclusioni) è espresso l'orientamento secondo cui le collaborazioni meramente occasionali, che si esauriscono in una sola azione o prestazione, caratterizzata da un rapporto intuitu personae che consente il raggiungimento del fine, e che comportano, per loro stessa natura, una spesa equiparabile ad un rimborso spese, quali ad esempio la partecipazione a convegni, la singola docenza, la traduzione di pubblicazioni e simili, non debbano comportare l'utilizzo delle procedure comparative per la scelta del collaboratore, né gli obblighi di pubblicità.
Si evidenzia, da ultimo, che, qualora l'Ente intenda procedere all'affidamento dell'attività in argomento all'Università (che poi provvederà all'organizzazione e alla gestione concreta), risulta necessario attivare preventivamente una procedura comparativa aperta a tutti gli Istituti interessati.
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[1] Detto articolo rappresenta la normativa di riferimento, per tutti i dipendenti pubblici, in materia di incompatibilità e conferimento di incarichi extraistituzionali.
[2] Cfr. parere ANCI del 03.03.2008. Vedasi anche il parere reso da questo Servizio, prot. n.. 16192 del 07.05.2012, consultabile sul sito: http:autonomielocali.regione.fvg.it., in cui si evidenzia la natura degli incarichi professionali quali contratti di prestazione d'opera ex artt. 2222-2238 del codice civile.
[3] Cfr. Corte dei conti, sezione regionale di controllo per il Molise, deliberazione n. 26/2010/COMP
(20.07.2012 - link a www.regione.fvg.it).

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PUBBLICO IMPIEGOPermessi disabili, le ferie non riducono i tre giorni. Il Welfare: nessun riproporzionamento in caso di assenze giustificate.
La malattia (o la maternità o il permesso sindacale o le ferie o le festività) non riduce il diritto ai tre giorni di permesso mensili per assistenza a familiari disabili (legge n. 104/1992). Infatti, qualora in uno stesso mese si trovi a fruire anche di altre assenze «giustificate» perché riconosciute per legge, il lavoratore ha comunque diritto a fruire dei tre giorni di permesso mensili in quanto aventi natura, funzione e caratteri diversi.

Lo precisa il Ministero del lavoro nell'interpello 01.08.2012 n. 24/2012, spiegando che il riproporzionamento dei giorni di permesso scatta invece in caso di prima richiesta nel corso del mese.
Interpello. L'interpello, presentato da Federambiente (federazione italiana servizi pubblici igiene ambientale), concerne le modalità di fruizione dei tre giorni mensili di permesso retribuiti previsti dall'articolo 33, comma 3, della legge n. 104/1992. Si tratta, spiega il ministero, del diritto spettante al coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti. In particolare, è stato chiesto al ministero del lavoro:
● se sia legittimo un eventuale riproporzionamento del diritto ai tre giorni di permesso in base alla prestazione lavorativa effettivamente svolta, qualora il dipendente fruitore dei permessi abbia legittimamente beneficiato di altre tipologie di permessi o di congedi a lui spettanti (quali, per esempio, permesso sindacale, maternità facoltativa, maternità obbligatoria, malattia, congedo straordinario invalidi ecc.) e si sia, pertanto, assentato dal lavoro durante il mese di riferimento;
● se il dipendente che inoltri domanda di riconoscimento del diritto ai tre giorni di permesso per la prima volta nel corso del mese (ad esempio, il giorno 19) abbia diritto al riproporzionamento o il diritto ai tre giorni spetti comunque in misura intera.
Quando non c'è riproporzionamento. Nelle ipotesi in cui il dipendente, nel corso del mese, fruisca di altri permessi, quali ad esempio permesso sindacale, maternità, malattia, il ministero non ritiene giustificabile il riproporzionamento del diritto, in quanto trattasi comunque di assenze «giustificate», riconosciute per legge come diritti spettanti al lavoratore.
L'intento di garantire alla persona con disabilità grave una assistenza morale e materiale adeguata, anche attraverso la fruizione, da parte di colui che la assiste, dei permessi mensili, spiega il ministero, non sembra possa subire una menomazione a causa della fruizione di istituti aventi funzione, natura e caratteri diversi.
Quando c'è il riproporzionamento. Viceversa, aggiunge il ministero, nella diversa ipotesi in cui il dipendente presenti istanza per la prima volta nel corso del mese (per esempio nel giorno 19), appare evidentemente possibile operare un riproporzionamento del numero dei giorni mensili di permesso spettanti.
In tal caso, aggiunge il ministero, il riproporzionamento avviene in base ai criteri indicati dall'Inps (circolare n. 128/2003 si veda ItaliaOggi del 12.07.2003), secondo cui viene concesso un giorno di permesso ogni dieci giorni di assistenza continuativa e, per periodi inferiori a dieci giorni, non si ha diritto a nessuna giornata (articolo ItaliaOggi del 18.08.2012).

ENTI LOCALI:  Autunno caldo per gli enti locali. Bonus Patto, poi riordino province e tagli a consumi e organici. Pubblicata in G.U. la spending review, scatta la fase attuativa con un fitto calendario di scadenze.
Sarà un autunno caldo quello che attende gli enti locali. Dopo la pubblicazione della legge n. 135/2012 di conversione del dl 95 sulla spending review, sta per scattare la fase attuativa delle numerose disposizioni che toccano l'assetto organizzativo, la finanza e le funzioni di province e comuni.
I primi provvedimenti sono attesi subito dopo la pausa estiva.
Entro il 10 settembre, infatti, le regioni dovranno ripartire i bonus destinati ad alleggerire gli obiettivi del Patto di stabilità interno. Sul piatto ci sono 800 milioni di euro di incentivi, per aggiudicarsi i quali i governatori dovranno mettere a disposizione di sindaci e presidenti almeno 960 milioni di spazi finanziari.
C'è tempo fino al 30 settembre, invece, per raggiungere in Conferenza stato-città e autonomie locali un accordo sulla ripartizione dei nuovi tagli al fondo sperimentale di riequilibrio ed ai residui trasferimenti erariali, che per il 2012 valgono complessivamente 500 milioni per i comuni e altrettanti per le province. A tal fine, si dovrà tenere conto delle analisi della spesa effettuate dal commissario Bondi, nonché (solo per i comuni) degli elementi di costo nei singoli settori merceologici, dei dati raccolti nell'ambito della procedura per la determinazione dei fabbisogni standard e dei conseguenti risparmi potenziali di ciascun ente.
Se non si troverà una quadra, la ripartizione verrà operata entro il 15 ottobre da un decreto del ministero dell'interno in proporzione alle spese sostenute per consumi intermedi desunte, per l'anno 2011, dal Siope.
Tra la fine di settembre e gli inizi di ottobre entrerà nel vivo anche la complessa partita relativa al riordino delle province, che dovrà essere operato sulla base dei due criteri (popolazione non inferiore a 350 mila abitanti e superficie non inferiore a 2.500 kmq) fissati dalla deliberazione del consiglio dei ministri del 20 luglio scorso. E proprio la data di pubblicazione di tale provvedimento sulla G.U., ovvero il 24 luglio, rappresenta il riferimento per le successive scadenze.
Entro 70 giorni, quindi entro il 2 ottobre, i Consigli delle autonomie locali (o, in mancanza dei Cal, gli altri organi regionali di raccordo tra regioni ed enti locali) dovranno approvare un'ipotesi di riordino relativa alle province ubicate nel territorio della rispettiva regione, inviandola alla regione medesima entro il giorno successivo. Entro i 20 giorni successivi (quindi, al più tardi entro il 23 ottobre), le regioni dovranno trasmettere al governo una proposta di riordino, formulata sulla base dell'ipotesi elaborata dal competente cal; in mancanza di quest'ultima, le regioni dovranno comunque provvedere autonomamente entro il 24 ottobre. Infine, toccherà all'esecutivo, al quale è imposto un termine di 60 giorni dalla data di entrata in vigore della l 135 (8 agosto), che scade il 7 ottobre e che, non essendo coordinato con gli altri momenti procedurali, va inteso come ordinatorio (si veda ItaliaOggi del 7/8/2012).
Non è chiaro, inoltre, che forma avrà l'«atto legislativo di iniziativa governativa» che dovrà chiudere il procedimento: se, come pare, si tratterà di un disegno di legge, servirà anche un passaggio parlamentare (per questo il governo starebbe pensando a un decreto legge, ma si tratta di una soluzione problematica dal punto di vista costituzionale, si veda ItaliaOggi dell'11/08/2012).
Completato il riordino, occorrerà procedere alla redistribuzione delle funzioni (che in gran parte passeranno ai comuni) e di beni e risorse umane, strumentali e finanziarie: a tal fine, si procederà con una serie di dpcm da adottare entro 60 e 180 giorni dall'entrata in vigore del dl 95 (avvenuta, lo ricordiamo, il 6 luglio): anche in tal caso, pertanto, si ritiene trattarsi di termini ordinatori.
Sempre con dpcm, ma entro il 31 dicembre, si procederà, invece, a definire i parametri di virtuosità per la determinazione delle dotazioni organiche degli enti locali, sulla base dei quali dovranno essere definiti i margini di manovra di ogni amministrazione sulla gestione del rispettivo personale.
Ha invece effetto immediato l'obbligo di attenersi alle convenzioni Consip o a quelle stipulate dalle centrali di committenza regionali, anche se sono fatte salve le procedure di gara il cui bando sia stato pubblicato precedentemente alla data di entrata in vigore del dl 95.
La stretta sulle spese per le locazioni passive (con riduzione del 15% dei canoni attuali) andrà a regime dall'01.01.2015, ma scatta fin da subito il blocco degli adeguamenti Istat, che durerà fino al 2014 compreso.
Tempi più lunghi per gli interventi sulle società strumentali, ma occorre mettersi al lavoro fin da subito perché quelle che non riusciranno a beneficiare delle deroghe previste in sede di conversione del dl 95 dovranno essere dimesse entro il 30.06.2013 con alienazione delle partecipazioni da parte degli enti controllanti o, in mancanza, sciolte entro il successivo 31 dicembre.
Dal 1° ottobre, infine, è operativo il tetto ai buoni pasto, che non potranno superare il valore giornaliero di 7 euro, mentre il nuovo taglio alle spese per l'acquisto, la manutenzione, il noleggio e l'esercizio di autovetture, nonché per l'acquisto di buoni taxi diverrà operativo nel 2013 (articolo ItaliaOggi del 17.08.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOConcertazione sugli esuberi. Torna il confronto amministrazione-sindacati. La legge 135 porta a 30 giorni il tempo per definire le modalità di reimpiego.
È da considerare di trenta e non dieci giorni dall'informazione alle organizzazioni sindacali il tempo a disposizione delle amministrazioni pubbliche per definire le modalità per reimpiegare il personale in esubero.
Le relazioni sindacali sulle procedure per la rilevazione degli esuberi del personale alle dipendenze della pubblica amministrazione sono rese particolarmente incerte dalla «spending review» (il dl 95/2012 convertito nella legge 135/2012 pubblicata nel Supplemento ordinario n. 173 allegato alla Gazzetta Ufficiale n. 189 del 14.08.2012) che gioca un cattivo scherzo alle amministrazioni, complicando non di poco il sistema per giungere alla determinazione dei casi di eccedenza dei dipendenti, a causa della classica modifica normativa non coordinata con disposizioni precedenti.
Il cortocircuito procedimentale è dovuto all'articolo 2, comma 18, lettera b), della legge 135/2012, che inserisce nell'articolo 6, comma 1, del dlgs 165/2001, il seguente periodo: «Nei casi in cui processi di riorganizzazione degli uffici comportano l'individuazione di esuberi o l'avvio di processi di mobilità, al fine di assicurare obiettività e trasparenza, le pubbliche amministrazioni sono tenute a darne informazione, ai sensi dell'articolo 33, alle organizzazioni sindacali rappresentative del settore interessato e ad avviare con le stesse un esame sui criteri per l'individuazione degli esuberi o sulle modalità per i processi di mobilità. Decorsi trenta giorni dall'avvio dell'esame, in assenza dell'individuazione di criteri e modalità condivisi, la pubblica amministrazione procede alla dichiarazione di esubero e alla messa in mobilità».
La norma, come si vede, richiama l'articolo 33 del dlgs 165/2001, ma non si coordina con esso. La spending review, nella sostanza, reintroduce nel citato articolo 33 una fase di confronto tra amministrazioni pubbliche e sindacati che la legge 183/2011, modificando appunto l'articolo 33, aveva eliminato.
Infatti, il testo vigente dell'articolo 33, commi 4 e 5, dispone che laddove sia individuato personale in esubero, il dirigente responsabile deve dare un'informativa preventiva alle rappresentanze unitarie del personale e alle organizzazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo nazionale del comparto o area; trascorsi dieci giorni da detta informativa, scattano le azioni per ricollocare il personale all'interno del medesimo ente o in altre amministrazioni.
La modifica all'articolo 6, comma 1, del dlgs 165/2001 rende, però, di fatto inoperante la previsione del comma 5 dell'articolo 33. Infatti, aggiunge indirettamente alla procedura ivi descritta l'obbligo, conseguente all'informazione preventiva, di attivare un esame congiunto, per concordare, laddove possibile, come individuare gli esuberi e come attivare la mobilità (cioè i trasferimenti) del personale interessato.
Trattandosi di una disposizione tendente a valorizzare la funzione dei sindacati, la novellazione dell'articolo 6, comma 1, del dlgs 165/2001 deve essere intesa come prevalente sull'articolo 33, comma 5. Insomma, la sola informazione preventiva ed il decorso dei dieci giorni non possono più bastare per legittimare le azioni di ricollocazione del personale in esubero. I sindacati hanno un diritto pieno all'esame congiunto, anche se non possono pretendere di avere l'ultima parola.
L'esame congiunto è nella sostanza una procedura di concertazione della durata di 30 giorni, al termine della quale se sindacati ed amministrazione non concordino con criteri per gli esuberi e modalità per porvi rimedio, comunque il potere decisionale ultimo resta all'amministrazione, che potrà agire in via unilaterale (articolo ItaliaOggi del 17.08.2012 - link a www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ La rinuncia anticipata da parte del primo dei non eletti è inefficace. Dimissioni subito operative. Ma per il subentro serve la delibera di surroga.
Qual è il presupposto giuridico per l'adozione del provvedimento di surrogazione?

L'articolo 38, comma 8, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, prevede che le dimissioni dalla carica di consigliere devono essere presentate personalmente ed assunte immediatamente al protocollo dell'ente nell'ordine temporale di presentazione. In alternativa, le dimissioni non presentate personalmente devono essere autenticate ed inoltrate al protocollo per il tramite di persona delegata con atto autenticato in data non anteriore a cinque giorni.
Esse sono irrevocabili, non necessitano di presa d'atto e sono immediatamente efficaci. Il consiglio, entro e non oltre dieci giorni, deve procedere alla surroga dei consiglieri dimissionari, con separate deliberazioni, seguendo l'ordine di presentazione delle dimissioni quale risulta dal protocollo.
Ad avviso del Tar Lombardia (sentenza 28.02.2006, n. 245), «l'abdicazione dalla carica di consigliere comunale, seppure immediatamente operativa, è logicamente e cronologicamente distinta dal subentro del primo dei candidati non eletti, che si realizza con l'adozione di un atto consequenziale e subordinato entro il termine di legge», rappresentando il presupposto giuridico per l'adozione dell'ulteriore provvedimento di surrogazione.
Dunque, la lettera dell'art. 38 del Tuel è sufficientemente chiara nel disporre che «lo status di consigliere si acquista, in caso di dimissioni, quale effetto immediato della deliberazione di surrogazione da parte dell'organo consiliare, la cui adozione è peraltro preceduta dalla verifica, normativamente prevista, dell'assenza di eventuali cause di ineleggibilità e di incompatibilità alla carica» (Tar ult. cit.).
Tale premessa permette di comprendere meglio e di condividere quell'orientamento giurisprudenziale secondo cui, la dichiarazione di indisponibilità resa dal primo dei non eletti anticipatamente rispetto all'adozione della delibera di surrogazione deve ritenersi priva di ogni effetto, non potendo egli disporre di un munus di cui ancora non è investito. Pertanto, ogni anticipata rinuncia a quel diritto non può che essere radicalmente inefficace (Tar Lazio, Latina, 05.05.2006, n. 651).
Per quanto riguarda la surroga del consigliere dimessosi, si fa rilevare che dalla lettura dell'art. 45 del dlgs n. 267/2000 non si evincono dubbi interpretativi sull'individuazione del successore, in quanto la norma stabilisce che «il seggio che rimanga vacante è attribuito al candidato che nella medesima lista segue immediatamente l'ultimo eletto».
Si soggiunge che il vigente ordinamento non prevede poteri di controllo di legittimità sugli atti degli enti locali in capo all'amministrazione dell'interno, pertanto gli eventuali vizi di legittimità degli atti adottati, potranno essere fatti valere solo nelle competenti sedi giurisdizionali, secondo le consuete regole vigenti in materia (articolo ItaliaOggi del 17.08.2012).

GIURISPRUDENZA

INCARICHI PROFESSIONALIAbolizione dei tariffari senza riflessi per lo stato. Parere del Consiglio di stato sul dpr con i nuovi parametri.
L'abolizione delle tariffe non deve danneggiare le casse professionali e gli archivi notarili.
È quanto prevede il parere 13.08.2012 n. 3576 del Consiglio di Stato, che ha licenziato favorevolmente lo schema di Regolamento sulla determinazione dei parametri per oneri e contribuzioni dovuti alle Casse professionali e agli Archivi, in attuazione dell'articolo 9, comma 2, secondo e terzo periodo, del decreto-legge 1/2012.
Si tratta di un derivato della abolizione delle tariffe professionali e il principio generale da perseguire è salvaguardare l'equilibrio finanziario, anche di lungo periodo, delle casse previdenziali professionali; inoltre si deve evitare una riduzione delle principali entrate dell'amministrazione degli archivi notarili (tassa archivio, tassa iscrizione al Registro generale dei testamenti e diritti per i servizi resi all'utenza), basate sulla tariffa notarile.
Lo schema di regolamento mantiene un importo base di calcolo unico sia per le tasse che per i contributi; tale importo rimane graduale per gli atti di valore determinato o determinabile, mentre è stabilito in misura fissa per gli altri atti, a seconda della tipologia dell'atto.
Inoltre gli importi da indicare al repertorio per il calcolo di tasse e contributi sono stati adeguati all'andamento dell'inflazione nel periodo 2001-2011 (23%).
Il Consiglio di stato rileva che l'adeguamento non deve necessariamente essere pienamente corrispondente all'incremento Istat per le professioni liberali, soprattutto in un momento di crisi economica e finanziaria.
Anche se la misura, più bassa del tasso d'inflazione, deve essere rimessa all'amministrazione, tenuto conto anche della finalità di salvaguardare l'equilibrio finanziario, anche di lungo periodo, delle casse previdenziali professionali.
Lo schema di decreto prevede una sola tabella per i parametri determinati in misura graduale, da applicare sia per gli atti pubblici, sia per le scritture private autenticate, con allineamento agli importi previsti per gli atti pubblici.
Il Consiglio di stato suggerisce, tuttavia, di conservare una riduzione per le scritture private autenticate o, comunque, di mantenere una unica tabella con importi determinati in misura inferiore e non allineati verso l'alto.
Altro punto da rivedere è l'importo dovuto per il rilascio delle copie di atto cartaceo, raddoppiato in caso di copia esecutiva: palazzo Spada chiede di valutare la congruità degli importi, tenuto conto che si tratta di un semplice rilascio di copie (articolo ItaliaOggi del 17.08.2012 - link a www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATANel caso in cui l’Autorità Giudiziaria penale accerti, con valore di giudicato, la falsità di titoli edilizi formati da funzionari comunali, responsabili del relativo reato, sul piano amministrativo-urbanistico le opere realizzate in forza di tali atti sono da considerare, a tutti gli effetti, “sine titulo” e sussiste l’obbligo per il Comune di esercitare il proprio potere di controllo urbanistico, adottando gli appropriati provvedimenti sanzionatori (in base alla qualità dell’abuso), entro i termini di legge decorrenti dal passaggio in giudicato della sentenza che accerta la falsità degli stessi titoli edilizi o, comunque, a richiesta del privato portatore di un interesse qualificato al corretto assetto dei luoghi, il quale, in difetto, può ricorrere avverso il silenzio della PA di fronte al giudice amministrativo.
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La giurisprudenza più qualificata ritiene che la formazione del provvedimento amministrativo in un ambiente collusivo penalmente rilevante (e, quindi, a maggior ragione, l’accertamento in sede penale della falsità di un titolo edilizio) produce, sul piano amministrativo, una causa di nullità del provvedimento ex art. 21-septies della l. 241/1990 (cfr. Consiglio di Stato, V, 04.03.2008 n. 890, che ha affermato l’esposto principio in relazione ad una fattispecie nella quale il Sindaco che aveva rilasciato le concessioni edilizie, poi dichiarate nulle d'ufficio dal suo successore, era stato condannato in sede penale per abuso di ufficio ex art. 323 c.p., con sentenza di applicazione della pena su richiesta, ex art. 444 c.p.p.).
Più precisamente, la nullità di un atto amministrativo non si riscontra solo nel caso di carenza di potere dell’Amministrazione, ma anche in quello della mancanza degli elementi essenziali, come accade al venir meno dell’imputabilità dell’atto alla P.A. per interruzione del rapporto organico.
In tali fattispecie, va ritenuto che se la volontà di adottare un determinato provvedimento amministrativo si è formata in violazione dei principi cogenti sanciti dall’art. 97 della Costituzione, tanto da integrare gli estremi di un comportamento penalmente rilevante per violazione di quegli specifici beni giuridici che i principi appena richiamati sono posti a presidiare, non può dubitarsi che il procedimento formativo della volontà dell’organo è abnorme, al limite dell’inesistenza, e dunque non ha titolo ad impegnare l’Ente, difettando l’immedesimazione organica ex art. 28 della Costituzione.
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Il giudicato penale non ha effetti caducatori dell’atto amministrativo ed esso impedisce di considerare invalido, in assenza di specifica ed autonoma valutazione dell’autorità amministrativa o di giudizio del giudice amministrativo, il provvedimento che è stato ritenuto illegittimo dal giudice penale incidenter tantum; ma tale principio presuppone che l’illegittimità così accertata dal giudice penale rientri pur sempre nell’ambito degli ordinarie patologie che determinano l’annullabilità del provvedimento amministrativo, mentre quando il reato incide sulla qualificazione del comportamento stesso dei funzionari pubblici ed è tale da impedire la riferibilità della volontà dei soggetti titolari dell'organo a quella dell’Ente, quest’ultimo resta del tutto estraneo alla fattispecie, con la conseguenza che l’assetto d’interessi che avrebbe dovuto essere regolato dal provvedimento rimane senza fondamento normativo e gli atti così prodotti non rientrano nella “categoria” dei provvedimenti amministrativi.
A stretto rigore, poiché il comportamento penalmente rilevante dell’agente dipendente pubblico è tale da interrompere la riferibilità della volontà di quest’ultimo alla PA (tant’è vero che egli risponde in proprio della condotta penalmente rilevante, che non si imputa all’Ente pubblico), gli atti formati in occasione dell’esercizio dell’attività illecita dovrebbero essere ascritti, sul piano amministrativo, alla categoria dogmatica dell’inesistenza; ma è comunque certo che, nulli o inesistenti, tali atti non possono in alcun modo impegnare la volontà pubblica e regolare i relativi assetti degli interessi sostanziali che dipendono dall’azione della PA, siano essi di natura pubblica che privata, sussistendo degli atti amministrativi solo una mera apparenza.
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Quando è accertata in sede penale, con sentenza passata in giudicato, la falsità di un titolo edilizio per fatto dei dipendenti dell’ufficio comunale responsabile, in accordo o comunque a favore del privato richiedente, ai relativi documenti non può essere in alcun modo riconosciuta natura di atti amministrativi, neppure in via mediata, essendo essi solo apparentemente riconducibili alla volontà dell’Ente, che non può essere impegnata mediante comportamenti di dipendenti pubblici costituenti reato, dal momento che viene interrotto il nesso di immedesimazione organica dell’agente rispetto all’Ente del quale è stato speso illecitamente il nome.
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Anche a voler accedere all’orientamento secondo cui l’accertamento da parte del giudice penale dell’illegittimità di un provvedimento amministrativo non implica automaticamente la sua caducazione neppure nelle ipotesi di nullità, rendendosi sempre necessaria una corrispondente decisione dell’Autorità amministrativa, l’esercizio dell’autotutela va considerato in questi casi come doveroso e, a richiesta del privato interessato, atto obbligato, da esercitarsi anche a distanza di tempo dall’abuso e senza che possano venire in rilievo eventuali aspettative di terzi (come, nella specie, dell'odierno controinteressato) o degli stessi titolari del titolo edilizio, perché l'accertata rilevanza penale non può in alcun modo giustificare la permanenza dell'efficacia e la presunzione di legittimità di un provvedimento amministrativo "contra legem", a pena di intuibili contraddizioni nella coerenza dell’Ordinamento, dal momento che così opinando si consentirebbe sul piano amministrativo e civile il mantenimento di quelle utilità illecite che costituiscono il frutto del reato e che la prevenzione penale mira invece ad impedire.
L’obbligo a provvedere discende, in questo caso, dal principio -di immediata cogenza- dell'imparzialità dell’azione amministrativa sancito dall’art. 97 della Costituzione.

Nell’odierno giudizio, parte ricorrente si duole dell’inerzia che il Comune di Palmi ha mantenuto sulla propria istanza volta ad ottenere da parte dell’Ente l’annullamento in autotutela di titoli edilizi illegittimi, per falsità penalmente accertata, e l’attivazione dei poteri repressivi in materia edilizia.
Disattendendo le numerose eccezioni processuali della difesa comunale e del controinteressato, acquirente di una unità immobiliare nel fabbricato di cui si discute, e gli argomenti che questi ultimi hanno spiegato nel merito, il ricorso è fondato e deve essere accolto, con le precisazioni che seguono.
I) Nel caso in cui l’Autorità Giudiziaria penale accerti, con valore di giudicato, la falsità di titoli edilizi formati da funzionari comunali, responsabili del relativo reato, sul piano amministrativo-urbanistico le opere realizzate in forza di tali atti sono da considerare, a tutti gli effetti, “sine titulo” e sussiste l’obbligo per il Comune di esercitare il proprio potere di controllo urbanistico, adottando gli appropriati provvedimenti sanzionatori (in base alla qualità dell’abuso), entro i termini di legge decorrenti dal passaggio in giudicato della sentenza che accerta la falsità degli stessi titoli edilizi o, comunque, a richiesta del privato portatore di un interesse qualificato al corretto assetto dei luoghi, il quale, in difetto, può ricorrere avverso il silenzio della PA di fronte al giudice amministrativo.
Per la migliore comprensione di tale principio di diritto, è opportuno anteporre alla trattazione dei motivi di gravame ed alle preliminari eccezioni difensive del Comune un sintetico inquadramento della fattispecie nella sua corretta qualificazione giuridica.
In linea di principio, la giurisprudenza più qualificata (che il Collegio condivide) ritiene che la formazione del provvedimento amministrativo in un ambiente collusivo penalmente rilevante (e, quindi, a maggior ragione, l’accertamento in sede penale della falsità di un titolo edilizio) produce, sul piano amministrativo, una causa di nullità del provvedimento ex art. 21-septies della l. 241/1990 (cfr. Consiglio di Stato, V, 04.03.2008 n. 890, che ha affermato l’esposto principio in relazione ad una fattispecie nella quale il Sindaco che aveva rilasciato le concessioni edilizie, poi dichiarate nulle d'ufficio dal suo successore, era stato condannato in sede penale per abuso di ufficio ex art. 323 c.p., con sentenza di applicazione della pena su richiesta, ex art. 444 c.p.p.).
Più precisamente, secondo tale giurisprudenza la nullità di un atto amministrativo non si riscontra solo nel caso di carenza di potere dell’Amministrazione, ma anche in quello della mancanza degli elementi essenziali, come accade al venir meno dell’imputabilità dell’atto alla P.A. per interruzione del rapporto organico (Cfr. Cons. Stato, nr. 890/2008 cit.).
In tali fattispecie, a giudizio del Collegio, va ritenuto che se la volontà di adottare un determinato provvedimento amministrativo si è formata in violazione dei principi cogenti sanciti dall’art. 97 della Costituzione, tanto da integrare gli estremi di un comportamento penalmente rilevante per violazione di quegli specifici beni giuridici che i principi appena richiamati sono posti a presidiare, non può dubitarsi che il procedimento formativo della volontà dell’organo è abnorme, al limite dell’inesistenza, e dunque non ha titolo ad impegnare l’Ente, difettando l’immedesimazione organica ex art. 28 della Costituzione.
Non possono dunque trovare applicazione nella odierna fattispecie le pronunce che affermano il diverso principio, secondo cui “non sono nulle le concessioni edilizie assentite sulla base di una riscontrata falsità degli elaborati progettuali, in quanto in base all'art. 21-septies la nullità del provvedimento è determinata dalla mancanza di uno degli "elementi essenziali" dell'atto amministrativo, quale é la "volontà decidente"; ma tale nullità si produce quando detta volontà è del tutto inesistente e non quando la volontà, ancorché viziata, esiste“ (TAR Pescara Abruzzo sez. I, 04.05.2012, n. 178). Infatti tale principio è stato enunciato in relazione ad una fattispecie nella quale la falsità accertata dal giudice penale era inerente agli elaborati tecnici di provenienza dei privati, che avevano tratto in inganno l’Amministrazione comunale, mentre nel caso odierno è il comportamento degli stessi funzionari dell’Ente ad essere penalmente rilevante.
Né può essere condivisa l’impostazione seguita da altre pronunce secondo cui, premesso che “la valutazione che il giudice penale compie in ordine alla validità di un atto amministrativo, al fine di accertare o di escludere l'esistenza del reato della cui cognizione è investito, è eseguita -ai sensi dell'art. 5 l. 20.03.1865 n. 2248 all. E- "incidenter tantum" ed ha efficacia circoscritta all'oggetto dedotto in giudizio” con la conseguenza che “il giudicato sul caso deciso, …non può travolgere gli effetti di un provvedimento amministrativo divenuto inoppugnabile”, si nega che “i citati titoli possono ritenersi "nulli", atteso che le nullità dei provvedimenti amministrativi sono tassative e vanno ricondotte, ex art. 21-septies, l. n. 241 del 1990, esclusivamente alla mancanza di elementi essenziali dell'atto, ad ipotesi di incompetenza assoluta dell'organo che adotta il provvedimento o alla violazione di giudicato” (TAR Napoli Campania sez. III, 01.03.2011, n. 1248). Ad avviso di questo Tribunale, tale ultima affermazione, meramente assertiva, non spiega come possa salvaguardarsi la riferibilità del comportamento penalmente rilevante dell’agente all’amministrazione pubblica, secondo il principio dell'immedesimazione organica, e come quest’aspetto non debba essere ricondotto nel novero di quegli elementi essenziali dell’atto, la cui mancanza comporta nullità.
Peraltro, è incontestabile il principio secondo cui il giudicato penale non ha effetti caducatori dell’atto amministrativo ed esso impedisce di considerare invalido, in assenza di specifica ed autonoma valutazione dell’autorità amministrativa o di giudizio del giudice amministrativo, il provvedimento che è stato ritenuto illegittimo dal giudice penale incidenter tantum; ma tale principio presuppone che l’illegittimità così accertata dal giudice penale rientri pur sempre nell’ambito degli ordinarie patologie che determinano l’annullabilità del provvedimento amministrativo, mentre quando il reato incide sulla qualificazione del comportamento stesso dei funzionari pubblici ed è tale da impedire la riferibilità della volontà dei soggetti titolari dell'organo a quella dell’Ente, quest’ultimo resta del tutto estraneo alla fattispecie, con la conseguenza che l’assetto d’interessi che avrebbe dovuto essere regolato dal provvedimento rimane senza fondamento normativo e gli atti così prodotti non rientrano nella “categoria” dei provvedimenti amministrativi.
A stretto rigore, poiché il comportamento penalmente rilevante dell’agente dipendente pubblico è tale da interrompere la riferibilità della volontà di quest’ultimo alla PA (tant’è vero che egli risponde in proprio della condotta penalmente rilevante, che non si imputa all’Ente pubblico), gli atti formati in occasione dell’esercizio dell’attività illecita dovrebbero essere ascritti, sul piano amministrativo, alla categoria dogmatica dell’inesistenza; ma è comunque certo che, nulli o inesistenti, tali atti non possono in alcun modo impegnare la volontà pubblica e regolare i relativi assetti degli interessi sostanziali che dipendono dall’azione della PA, siano essi di natura pubblica che privata, sussistendo degli atti amministrativi solo una mera apparenza.
Va dunque ritenuto che quando è accertata in sede penale, con sentenza passata in giudicato, la falsità di un titolo edilizio per fatto dei dipendenti dell’ufficio comunale responsabile, in accordo o comunque a favore del privato richiedente, ai relativi documenti non può essere in alcun modo riconosciuta natura di atti amministrativi, neppure in via mediata, essendo essi solo apparentemente riconducibili alla volontà dell’Ente, che non può essere impegnata mediante comportamenti di dipendenti pubblici costituenti reato, dal momento che viene interrotto il nesso di immedesimazione organica dell’agente rispetto all’Ente del quale è stato speso illecitamente il nome.
Sotto diversa prospettiva, anche a voler accedere all’orientamento secondo cui l’accertamento da parte del giudice penale dell’illegittimità di un provvedimento amministrativo non implica automaticamente la sua caducazione neppure nelle ipotesi di nullità, rendendosi sempre necessaria una corrispondente decisione dell’Autorità amministrativa, l’esercizio dell’autotutela va considerato in questi casi come doveroso e, a richiesta del privato interessato, atto obbligato, da esercitarsi anche a distanza di tempo dall’abuso e senza che possano venire in rilievo eventuali aspettative di terzi (come, nella specie, dell'odierno controinteressato) o degli stessi titolari del titolo edilizio, perché l'accertata rilevanza penale non può in alcun modo giustificare la permanenza dell'efficacia e la presunzione di legittimità di un provvedimento amministrativo "contra legem", a pena di intuibili contraddizioni nella coerenza dell’Ordinamento, dal momento che così opinando si consentirebbe sul piano amministrativo e civile il mantenimento di quelle utilità illecite che costituiscono il frutto del reato e che la prevenzione penale mira invece ad impedire.
L’obbligo a provvedere discende, in questo caso, dal principio -di immediata cogenza- dell'imparzialità dell’azione amministrativa sancito dall’art. 97 della Costituzione.
La posizione del terzo che, in buona fede, si sia reso cessionario di diritti sull’immobile, pur essendo ovviamente estraneo all’abuso, ne sarà comunque travolta, dovendo trovare tutela sul piano contrattuale delle garanzie della compravendita (o del diverso negozio stipulato; sul punto si tornerà meglio oltre) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 11.08.2012 n. 536 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’impugnazione della disciplina urbanistica d’aree estranee a quelle di proprietà del ricorrente è consentita soltanto “qualora incida direttamente sul godimento o sul valore di mercato delle aree stesse, o comunque su interessi propri e specifici dell’istante”.
Così, “la legittimazione all’impugnativa non deriva dal mero riverbero che la nuova, diversa destinazione attribuita alle aree limitrofe può avere sull’area di proprietà di parte ricorrente, occorrendo che tale riverbero assuma una connotazione e consistenza oggettivamente negative, che determini cioè una lesione effettiva ed attuale nella posizione sostanziale degli esponenti”.
Non è in altre parole sufficiente “affermare che la nuova disciplina urbanistica delle aree adiacenti avrà ripercussioni anche all’esterno delle stesse, ma occorre dimostrare che tali ripercussioni si caratterizzano in maniera sicuramente pregiudizievole per i ricorrenti.

A tale riguardo questo Tribunale Amministrativo ha già avuto modo di manifestare il proprio orientamento circa la rilevanza della mera vicinitas in rapporto alla configurazione della legittimazione e dell’interesse ad agire, osservando in più occasioni (cfr. TAR Veneto, I, n. 1190/2009 e II, n. 2347/2009) come l’impugnazione della disciplina urbanistica d’aree estranee a quelle di proprietà del ricorrente sia consentita soltanto “qualora incida direttamente sul godimento o sul valore di mercato delle aree stesse, o comunque su interessi propri e specifici dell’istante”.
Così, “la legittimazione all’impugnativa non deriva dal mero riverbero che la nuova, diversa destinazione attribuita alle aree limitrofe può avere sull’area di proprietà di parte ricorrente, occorrendo che tale riverbero assuma una connotazione e consistenza oggettivamente negative, che determini cioè una lesione effettiva ed attuale nella posizione sostanziale degli esponenti”.
Non è in altre parole sufficiente “affermare che la nuova disciplina urbanistica delle aree adiacenti avrà ripercussioni anche all’esterno delle stesse, ma occorre dimostrare che tali ripercussioni si caratterizzano in maniera sicuramente pregiudizievole per i ricorrenti (cfr. TAR Veneto, II, n. 4074/2006)”.
Tale orientamento è stato confermato dal Consiglio di Stato, il quale ha avuto modo di pronunciarsi, anche di recente, proprio in ordine alla rilevanza della mera vicinitas (sentenza TAR Veneto, Sez. II, sentenza 06.08.2012 n. 1119 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittimo il regolamento edilizio comunale che prescrive per le nuove costruzioni, al netto delle murature e degli accessori, una superficie utile di almeno 80 mq.
Va condiviso l’assunto di parte ricorrente che rileva la diversa finalità attribuita alle disposizioni contenute nei regolamenti edilizi comunali, le quali, pur essendo destinate a disciplinare le modalità costruttive, hanno il precipuo scopo di assicurare che gli alloggi rispettino i requisiti minimi di carattere igienico-sanitario, ovvero rispondano a determinate caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero ancora assicurino determinate condizioni di sicurezza e vivibilità.
Orbene, il limite fissato dal Comune per le nuove costruzioni, che impone, al netto delle murature e degli accessori, una superficie utile di almeno 80 mq, non appare giustificato da alcuna delle suddette finalità: lo stesso limite fissato dal D.M. del 1975 impone infatti una dimensione minima della superficie da assicurare in rapporto al numero degli abitanti l’unità residenziale che è palesemente inferiore a quella fissata dal Comune (56 mq per quattro occupanti), pur essendo ritenuta conforme ai requisiti di carattere igienico-sanitario degli immobili.

Il ricorso è fondato e meritevole di accoglimento sulla base delle seguenti considerazioni.
Come rilevabile dagli atti di causa e dalla stessa deliberazione n. 15/2012, assunta nelle more del giudizio dal Consiglio Comunale di Colle S. Lucia, l’obiettivo sotteso alla disposizione introdotta con il Regolamento Edilizio, stabilente la metratura minima della superficie di pavimento per i nuovi edifici a destinazione residenziale (80 mq), è quello di assicurare la realizzazione di appartamenti aventi dimensioni idonee alla residenza di carattere stabile, arginando il fenomeno delle “seconde case”, utilizzate stagionalmente da non residenti.
Scoraggiando così la realizzazione di nuovi immobili con dimensioni ridotte, a favore di interventi che privilegiano l’insediamento di nuovi nuclei familiari stanziali in appartamenti di più ampie dimensioni, con la norma regolamentare, più volte modificata nel corso degli anni attraverso le varianti approvate, il Comune ha inteso esercitare il proprio potere di disciplina dell’uso del territorio.
Ritiene il Collegio che gli atti assunti in tale ottica, così come perseguita attraverso la disposizione contenuta nel regolamento edilizio, siano illegittimi.
Va infatti condiviso l’assunto di parte ricorrente che rileva la diversa finalità attribuita alle disposizioni contenute nei regolamenti edilizi comunali, le quali, pur essendo destinate a disciplinare le modalità costruttive, hanno il precipuo scopo di assicurare che gli alloggi rispettino i requisiti minimi di carattere igienico-sanitario, ovvero rispondano a determinate caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero ancora assicurino determinate condizioni di sicurezza e vivibilità.
Orbene, il limite fissato dal Comune per le nuove costruzioni, che impone, al netto delle murature e degli accessori, una superficie utile di almeno 80 mq, non appare giustificato da alcuna delle suddette finalità: lo stesso limite fissato dal D.M. del 1975 impone infatti una dimensione minima della superficie da assicurare in rapporto al numero degli abitanti l’unità residenziale che è palesemente inferiore a quella fissata dal Comune (56 mq per quattro occupanti), pur essendo ritenuta conforme ai requisiti di carattere igienico-sanitario degli immobili.
In realtà, come espressamente ammesso dalla stessa amministrazione, la prescrizione impugnata rappresenta lo strumento utilizzato per il contenimento dell’edilizia a scopo eminentemente turistico, al fine di favorire degli insediamenti della popolazione locale.
Una simile impostazione, tuttavia, non solo non è rispettosa dei contenuti propri e delle finalità delle disposizioni contenute nei regolamenti edilizi, ma finisce per incidere in modo sensibile sul libero esercizio dello ius aedificandi, limitando la libera scelta degli operatori del settore, senza considerare che, nell’attuale congiuntura economica, la realizzazione e successiva messa sul mercato di abitazioni di dimensioni più contenute (non necessariamente rivolte al solo mercato delle seconde case) può assicurare maggiori possibilità di alienazione dei nuovi immobili.
Non può essere infatti ignorato il dato di fatto per cui, allo stato attuale, le dimensioni dei nuclei familiari sono sempre più contenute, senza contare il fenomeno dei “single”, e quindi può apparire anacronistica l’affermazione del Comune secondo la quale solo garantendo la realizzazione di nuovi appartamenti di più ampie dimensioni si favorirebbe l’insediamento di nuovi nuclei familiari.
Non si può non rilevare che sono le regole del libero mercato e la domanda di alloggi con superficie inferiore a 45 mq a determinare la scelta dell’imprenditore di realizzare abitazioni adeguate alle necessità sociali degli acquirenti, mentre un’eventuale inadeguatezza degli alloggi rispetto alle richieste del mercato, comporta un naturale squilibrio nell’offerta delle tipologie edilizie” (TAR Brescia, n. 301/2055).
Peraltro, non può essere ignorata la considerazione dedotta in ricorso secondo la quale il perseguimento di tali obiettivi può essere ottenuto attraverso altri strumenti di politica sociale, quale è l’edilizia economico popolare o la riserva di appartamenti a favore dei nuovi nuclei familiari.
In conclusione, per le considerazioni sin qui svolte, il ricorso può essere accolto con conseguente annullamento degli atti impugnati (sentenza TAR Veneto, Sez. II, sentenza 06.08.2012 n. 1117 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONESecondo una giurisprudenza risalente, nel caso di irreversibile utilizzazione del suolo per finalità pubbliche avvenuta, come pacificamente nella specie, in pendenza della occupazione legittima (non seguita da rituale e tempestiva espropriazione) il dato temporale di riferimento, per la collocazione dell'effetto appropriativo e per la conseguente determinazione del valore del bene ai fini risarcitori della correlativa perdita da parte del proprietario, è non già legato al momento della irreversibile trasformazione dell'immobile sebbene a quello successivo di scadenza del termine di occupazione legittima.
L’altro orientamento, di più recente emersione, sostiene che la permanenza della situazione di abusiva occupazione impedisce di determinare puntualmente il dies a quo di un’eventuale prescrizione. Tale termine inizierà a decorrere a seguito dell’adozione di un formale provvedimento espropriativo o di specifico accordo traslativo o di apposita acquisizione sanante. Nel caso di specie, non essendo intervenuto nessuno di questi tre atti, il termine di prescrizione non è iniziato a decorrere.
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La realizzazione dell'opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è in sé un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per cui solo il formale atto di acquisizione dell'amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi, che dir si voglia) della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni.
A tale riguardo la giurisprudenza ha affermato che il proprietario del fondo illegittimamente occupato, ottenuta la declaratoria di illegittimità dell'occupazione e l'annullamento dei relativi provvedimenti, può legittimamente domandare sia il risarcimento, sia la restituzione, previa riduzione in pristino, e che solo il formale atto di acquisizione dell'amministrazione, ora ai sensi dell'art. 42-bis D.P.R. 327/2001, può limitarne il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni.
Detta disposizione, sul presupposto che la perdita della proprietà non possa collegarsi se non ad un atto di natura contrattuale o autoritativa, attribuisce all'Amministrazione, qualora si sia verificata una sostanziale perdita della disponibilità del bene in capo al privato, il potere di acquisire la proprietà dell'area con un atto formale di natura ablatoria e discrezionale (in sostanziale sanatoria), al termine del procedimento legale nel corso del quale vanno motivatamente valutati gli interessi in conflitto.
Nel caso in esame, il Comune non ha ritenuto di acquisire la proprietà dell’area illegittimamente trasformata mediante formale atto di acquisizione sanante a mente del citato art. 42-bis D.P.R. 327/2001.
In conclusione, affinché possa perfezionarsi il trasferimento della proprietà del fondo occupato sine titulo, su cui è stata realizzata un'opera pubblica, e che costituisce la sola condizione legittimante la mancata restituzione, è necessario che l'Amministrazione si avvalga dell'art. 42-bis del T.U.E., fatto sempre salvo il ricorso alternativo ai possibili strumenti di natura privatistica, come la stipula di un contratto di acquisto avente anche funzione transattiva, ovvero con la riattivazione del procedimento espropriativo in sanatoria con le relative garanzie

Sulla decorrenza del termine prescrizionale del diritto al risarcimento del danno da occupazione sine titulo, si registrano sostanzialmente due orientamenti assunti dalla giurisprudenza amministrativa, la cui applicazione, nel caso di specie, esclude la prescrizione dell’azione risarcitoria.
Secondo una giurisprudenza risalente “-nel caso di irreversibile utilizzazione del suolo per finalità pubbliche avvenuta, come pacificamente nella specie, in pendenza della occupazione legittima (non seguita da rituale e tempestiva espropriazione)- il dato temporale di riferimento, per la collocazione dell'effetto appropriativo e per la conseguente determinazione del valore del bene ai fini risarcitori della correlativa perdita da parte del proprietario, è non già legato al momento della irreversibile trasformazione dell'immobile sebbene a quello successivo di scadenza del termine di occupazione legittima” (Cons. stato sez. IV 26.09.2008 n. 4660; Cons. Stato 10.11.2003 n. 7135; Cass. n. 6825/1994).
Nel caso di specie l’irreversibile trasformazione del fondo deve presumersi avvenuta in data 24.06.1997, per quanto emerge dal certificato di ultimazione dei lavori dell’impresa Spizzirri con cui si attestava la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria stradale e dell’impianto sportivo in via Sicilia e via Montevideo. Orbene tale ultimazione si colloca durante il periodo di occupazione legittima del bene, avvenuta con decreto di urgenza del 15.04.1996 e avente durata di cinque anni. Il dies a quo del termine di prescrizione, dunque, ha inizio con la scadenza del termine di occupazione legittima ovvero il 15.04.2001, mentre l’atto di citazione è stato notificato in data 26.11.2004, quindi, entro il termine quinquennale di prescrizione.
L’altro orientamento, di più recente emersione, sostiene che la permanenza della situazione di abusiva occupazione impedisce di determinare puntualmente il dies a quo di un’eventuale prescrizione. Tale termine inizierà a decorrere a seguito dell’adozione di un formale provvedimento espropriativo o di specifico accordo traslativo o di apposita acquisizione sanante (C.G.A. 20.11.2008 n. 946; Cons. Stato sez IV n. 258272007). Nel caso di specie, non essendo intervenuto nessuno di questi tre atti, il termine di prescrizione non è iniziato a decorrere.
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Occorre innanzitutto premettere che la realizzazione dell'opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è in sé un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per cui solo il formale atto di acquisizione dell'amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi, che dir si voglia) della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni.
A tale riguardo la giurisprudenza, dalla quale il Collegio non ha ragione di discostarsi, ha affermato che il proprietario del fondo illegittimamente occupato, ottenuta la declaratoria di illegittimità dell'occupazione e l'annullamento dei relativi provvedimenti, può legittimamente domandare sia il risarcimento, sia la restituzione, previa riduzione in pristino, e che solo il formale atto di acquisizione dell'amministrazione, ora ai sensi dell'art. 42-bis D.P.R. 327/2001, può limitarne il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni (Cons. Stato sez. IV 4833/2011).
Detta disposizione, sul presupposto che la perdita della proprietà non possa collegarsi se non ad un atto di natura contrattuale o autoritativa, attribuisce all'Amministrazione, qualora si sia verificata una sostanziale perdita della disponibilità del bene in capo al privato, il potere di acquisire la proprietà dell'area con un atto formale di natura ablatoria e discrezionale (in sostanziale sanatoria), al termine del procedimento legale nel corso del quale vanno motivatamente valutati gli interessi in conflitto.
Nel caso in esame, il Comune di Cosenza non ha ritenuto di acquisire la proprietà dell’area illegittimamente trasformata mediante formale atto di acquisizione sanante a mente del citato art. 42-bis D.P.R. 327/2001.
In conclusione, affinché possa perfezionarsi il trasferimento della proprietà del fondo occupato sine titulo, su cui è stata realizzata un'opera pubblica, e che costituisce la sola condizione legittimante la mancata restituzione, è necessario che l'Amministrazione si avvalga dell'art. 42-bis del T.U.E., fatto sempre salvo il ricorso alternativo ai possibili strumenti di natura privatistica, come la stipula di un contratto di acquisto avente anche funzione transattiva, ovvero con la riattivazione del procedimento espropriativo in sanatoria con le relative garanzie (Cons. Stato, sez. V 31.10.2011 n. 5813)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 03.08.2012 n. 857 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIConsiglio di Stato. Sentenza sul principio dell'affidamento. Asili comunali, in corso d'anno vietati gli aumenti della retta.
Rette annuali invariate per chi fruisce di asili comunali, anche se diminuiscono le entrate pubbliche.

Lo sottolinea il Consiglio di Stato, Sez. V, la con sentenza 31.07.2012 n. 4362, in una vicenda relativa al Comune di Bologna, al tempo amministrato dal Commissario straordinario, Anna Maria Cancellieri. Risparmiano quindi i genitori, che ad aprile 2011 avevano visto lievitare le quote mensili, mentre il Comune dovrà reperire altrove le risorse mancanti.
L'ammissione a nidi comunali e convenzionati (servizio pubblico a domanda individuale) avviene previa formazione di graduatorie redatte all'inizio dell'anno educativo: nel bando del Comune felsineo si era appunto specificata la quota di contribuzione a carico degli utenti, cioè la tariffa mensile rapportata all'indicatore della situazione economica equivalente (cosiddetto Isee). Sennonché una sopravvenuta riduzione delle risorse finanziarie disponibili aveva nella primavera indotto il Comune a innalzare le tariffe per continuare a erogare le prestazioni. L'ente locale applicava così una norma specifica (articolo 53, comma 16, della legge 388/2000), che ammette la portata retroattiva ai regolamenti sulle entrate locali, con effetto dal 1° gennaio dell'anno di riferimento.
Ciò, tuttavia, secondo i giudici contrasta con l'affidamento che i genitori bolognesi avevano riposto circa gli oneri economici annuali per i figli all'asilo, oneri che per tutto l'anno educativo devono rimanere invariati.
Prevale quindi il diritto dei genitori a confidare nella permanenza delle condizioni economiche almeno per l'anno in corso, con conseguente annullamento degli aumenti. Per giungere a questa conclusione, le tariffe degli asili sono quindi state assimilate al corrispettivo di un contratto privatistico, che appunto non può variare nel corso dello svolgimento del contratto.
Si tratta di un passo avanti nell'equilibrio dei rapporti tra utenti e pubblica amministrazione, in un contesto in cui una recente circolare (10 agosto n. 9) del ministro della Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi, apre spazi anche per la conciliazione stragiudiziale. Prima di rivolgersi al Tar i genitori, ritenendo di essere danneggiati in un contesto di tipo contrattuale, cioè da atti non autoritativi, avrebbero infatti potuto rivolgersi a un organismo di mediazione (Dlgs 28/20101), facendo presente che non bastano calcoli errati di bilancio o sopravvenute contrazioni di trasferimenti di risorse dallo Stato, per rivedere le tariffe di un servizio pubblico a domanda individuale. E già in sede di mediazione, probabilmente, il bilancio delle famiglie avrebbe potuto prevalere sulle esigenze della finanza del Comune.
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MASSIMA
Si deve allora convenire che, a prescindere dalla qualificazione in termini pubblicistici o privatistici del rapporto instaurato, la pubblicazione del bando integri un auto-vincolo con il quale l'amministrazione, a tutela del legittimo affidamento ingenerato negli utenti circa la permanenza per ogni anno scolastico delle condizioni esposte, si impegna a mantenere ferme le condizioni pubblicizzate (Consiglio di Stato, sentenza 4362/2012) (articolo Il Sole 24 Ore del 18.08.2012 - link a www.ecostampa.it).

URBANISTICA: Il carattere espropriativo o meno di un vincolo di piano si desume non già, in maniera astratta, dalla qualificazione che il P.R.G. dà della destinazione impressa ai suoli, ma dalla concreta disciplina urbanistica per essi stabilita quale ricavabile dalle prescrizioni delle N.T.A..
Più specificamente, il carattere conformativo dei vincoli non dipende dalla collocazione in una specifica categoria di strumenti urbanistici, ma soltanto dai requisiti oggettivi, di natura e struttura, dei vincoli stessi, ricorrendo in particolare tale carattere ove siano inquadrabili nella zonizzazione dell’intero territorio comunale o di parte di esso, sì da incidere su di una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione dell’intera zona in cui i beni ricadono ed in ragione delle sue caratteristiche intrinseche o del rapporto, per lo più spaziale, con un’opera pubblica; di contro il vincolo, se incide su beni determinati, in funzione non già di una generale destinazione di zona, ma della localizzazione di un’opera pubblica, la cui realizzazione non può coesistere con la proprietà privata, deve essere qualificato come preordinato alla relativa espropriazione
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Con riferimento alla destinazione a zona N (“verde pubblico attrezzato”) stabilita dal previgente strumento urbanistico, sulla scorta del consolidato indirizzo della Sezione può convenirsi con l’avviso di parte appellante secondo cui questa aveva natura conformativa e non comportava un vincolo preordinato all’esproprio, in quanto non comportava né l’ablazione dei suoli né il sostanziale svuotamento dei diritti dominicali di natura privata insistenti su di essi; infatti, detta disciplina previgente consentiva significativi e consistenti interventi edificatori, sia pure limitati a particolari tipologie di opere (p.es. impianti sportivi) e previa predisposizione di piani particolareggiati, allo scopo di assicurare la coerenza dell’edificazione privata con la generale “zonizzazione” intesa al perseguimento di obiettivi di interesse pubblico: ciò che, in ragione di quanto più sopra precisato, è sufficiente per escludere che potesse trattarsi di vincoli espropriativi.
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Il fatto che le previsioni del Nuovo P.R.G. comportino l’introduzione di vincoli di natura espropriativa non modifica le conclusioni dianzi anticipate in ordine all’infondatezza delle censure articolate in primo grado dalla società ricorrente: infatti, alla luce di quanto si è più sopra rilevato circa il carattere non espropriativo della precedente disciplina urbanistica, è evidente che ci si trova in presenza non di reiterazione di vincoli espropriativi, ma al più di previsioni espropriative ex novo introdotte (o, se si vuole, di trasformazione in espropriativa di una precedente destinazione conformativa), con la conseguente non invocabilità del principio che impone all’Amministrazione un onere motivazionale particolarmente intenso, applicandosi –al contrario– i comuni principi in ragione dei quali a sostegno delle scelte pianificatorie del Comune non è richiesta, salvi i casi di sussistenza di aspettative giuridiche qualificate in capo ai privati interessati, una motivazione specifica ed estesa, e le ragioni delle scelte adottate possono ricavarsi dai principi generali che ispirano lo strumento urbanistico.
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Per identiche ragioni, non può concordarsi col primo giudice neanche in ordine al carattere viziante della mancata previsione di un indennizzo per la previsione del vincolo espropriativo de quo.
Infatti, è jus receptum che detta omissione, al di là della possibilità di far valere la pretesa all’indennizzo dinanzi al giudice ordinario –e fuori dei casi, come detto non pertinenti alla fattispecie, di reiterazione del vincolo-, non si riverbera in termini di illegittimità sulla previsione del P.R.G. che impone su un suolo un vincolo di natura espropriativa.
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Le modifiche che, all’esito di tale piano, impongono al Comune una nuova pubblicazione del P.R.G. sono solo quelle che comportano uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, e non anche le modifiche, per quanto numerose sul piano quantitativo e incidenti in modo inteso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree, che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario.

In primo luogo, con riguardo alle porzioni di proprietà della società ricorrente in primo grado che nel Nuovo P.R.G. sono state destinate a “verde pubblico” e “servizi pubblici di livello urbano”, il primo giudice, tenuto conto della pregressa zonizzazione di dette aree, ha ravvisato nella complessiva operazione posta in essere dall’Amministrazione una reiterazione di vincoli espropriativi, ritenendola illegittima siccome non congruamente motivata e non accompagnata dalla previsione di indennizzo.
Tuttavia, anche a voler prescindere dalle osservazioni in fatto svolte dall’Amministrazione appellante –laddove, sulla scorta di un’accurata ricostruzione della “storia” urbanistica dell’area, esclude vi sia stata continuità fra la destinazione precedente e quella attuale, di modo che non sarebbe possibile parlare di “reiterazione” di vincoli– la Sezione non ritiene di dover condividere le conclusioni raggiunte dal TAR.
Sul punto, questa Sezione ha già più volte avuto modo di enunciare il principio per cui il carattere espropriativo o meno di un vincolo di piano si desume non già, in maniera astratta, dalla qualificazione che il P.R.G. dà della destinazione impressa ai suoli, ma dalla concreta disciplina urbanistica per essi stabilita quale ricavabile dalle prescrizioni delle N.T.A..
Più specificamente, si è avuto modo di affermare che il carattere conformativo dei vincoli non dipende dalla collocazione in una specifica categoria di strumenti urbanistici, ma soltanto dai requisiti oggettivi, di natura e struttura, dei vincoli stessi, ricorrendo in particolare tale carattere ove siano inquadrabili nella zonizzazione dell’intero territorio comunale o di parte di esso, sì da incidere su di una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione dell’intera zona in cui i beni ricadono ed in ragione delle sue caratteristiche intrinseche o del rapporto, per lo più spaziale, con un’opera pubblica; di contro il vincolo, se incide su beni determinati, in funzione non già di una generale destinazione di zona, ma della localizzazione di un’opera pubblica, la cui realizzazione non può coesistere con la proprietà privata, deve essere qualificato come preordinato alla relativa espropriazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 23.07.2009, nr. 4662; id., 23.09.2008, nr. 4606).
Ciò premesso, con riferimento alla destinazione a zona N (“verde pubblico attrezzato”) stabilita dal previgente strumento urbanistico, sulla scorta del consolidato indirizzo della Sezione può convenirsi con l’avviso di parte appellante secondo cui questa aveva natura conformativa e non comportava un vincolo preordinato all’esproprio, in quanto non comportava né l’ablazione dei suoli né il sostanziale svuotamento dei diritti dominicali di natura privata insistenti su di essi; infatti, detta disciplina previgente consentiva significativi e consistenti interventi edificatori, sia pure limitati a particolari tipologie di opere (p.es. impianti sportivi) e previa predisposizione di piani particolareggiati, allo scopo di assicurare la coerenza dell’edificazione privata con la generale “zonizzazione” intesa al perseguimento di obiettivi di interesse pubblico: ciò che, in ragione di quanto più sopra precisato, è sufficiente per escludere che potesse trattarsi di vincoli espropriativi (cfr. Cons. Stato, sez. V, 13.04.2012, nr. 2116; Cons. Stato, sez. IV, 19.01.2012, nr. 244; id., 13.07.2011, nr. 4242; id., 03.12.2010, nr. 8531; id., 12.05.2010, nr. 2843; id., 12.05.2010, nr. 2159).
Se tale è la conclusione per quanto concerne la destinazione pregressa, qualche dubbio può sorgere invece in ordine alla disciplina urbanistica impressa ai medesimi suoli dal Nuovo P.R.G., laddove è dato cogliere nelle prescrizioni di piano una tendenza ad ampliare e consolidare gli obiettivi pubblicistici cui le aree de quibus risultano asservite, con correlativo intensificarsi delle previsioni vincolistiche e dell’incidenza della mano pubblica a scapito della proprietà privata.
Ciò è dato evincere soprattutto dalla disciplina generale dei “servizi pubblici” contenuta nell’art. 83 delle N.T.A., il quale, con disposizioni applicabili tanto alle aree destinate a “servizi pubblici di livello urbano” (art. 84) quanto a quelle destinate a “verde pubblico” (art. 85), prevede fra l’altro:
- che “...Le aree su cui tali servizi non siano già stati realizzati e che non siano già di proprietà di Enti pubblici, o comunque istituzionalmente preposti alla realizzazione e/o gestione dei servizi di cui al comma 1, sono preordinate alla acquisizione pubblica da parte del Comune o di altri soggetti qualificabili quali beneficiari o promotori dell’esproprio, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. c) e d), del DPR n. 327/2001” (comma 2);
- che “...Gli immobili privati esistenti, non adibiti a servizi pubblici, ma a funzioni assimilabili alle destinazioni d’uso di cui agli articoli 84 e 85, possono rimanere di proprietà privata, purché ne sia garantito l’uso pubblico tramite convenzione con il Comune o con altri Enti pubblici competenti” (comma 4);
- che “...Le aree di cui al comma 2 sono acquisite tramite espropriazione per pubblica utilità, ai sensi del DPR n. 327/2001, ovvero, nei casi e con le modalità espressamente previste dall’art. 22, mediante cessione compensativa” (comma 5).
Tuttavia, il fatto che le previsioni del Nuovo P.R.G. capitolino comportino l’introduzione di vincoli di natura espropriativa non modifica le conclusioni dianzi anticipate in ordine all’infondatezza delle censure articolate in primo grado dalla società ricorrente: infatti, alla luce di quanto si è più sopra rilevato circa il carattere non espropriativo della precedente disciplina urbanistica, è evidente che ci si trova in presenza non di reiterazione di vincoli espropriativi, ma al più di previsioni espropriative ex novo introdotte (o, se si vuole, di trasformazione in espropriativa di una precedente destinazione conformativa), con la conseguente non invocabilità del principio che impone all’Amministrazione un onere motivazionale particolarmente intenso, applicandosi –al contrario– i comuni principi in ragione dei quali a sostegno delle scelte pianificatorie del Comune non è richiesta, salvi i casi di sussistenza di aspettative giuridiche qualificate in capo ai privati interessati, una motivazione specifica ed estesa, e le ragioni delle scelte adottate possono ricavarsi dai principi generali che ispirano lo strumento urbanistico (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, 04.04.2011, n. 2104; id., 09.12.2010, nr. 8682; id., 04.05.2010, nr. 2545; id., 29.12.2009, nr. 9006).
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Per identiche ragioni, non può concordarsi col primo giudice neanche in ordine al carattere viziante della mancata previsione di un indennizzo per la previsione del vincolo espropriativo de quo.
Infatti, è jus receptum che detta omissione, al di là della possibilità di far valere la pretesa all’indennizzo dinanzi al giudice ordinario –e fuori dei casi, come detto non pertinenti alla fattispecie, di reiterazione del vincolo-, non si riverbera in termini di illegittimità sulla previsione del P.R.G. che impone su un suolo un vincolo di natura espropriativa (cfr. Cons. Stato, Ad. Pl., 24.05.2007, nr. 7; Cons. Stato, sez. IV, 06.05.2010, nr. 2627; id., 21.04.2010, nr. 2262).
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Al riguardo, va richiamato anche il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui le modifiche che, all’esito di tale piano, impongono al Comune una nuova pubblicazione del P.R.G. sono solo quelle che comportano uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, e non anche le modifiche, per quanto numerose sul piano quantitativo e incidenti in modo inteso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree, che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario (cfr. Cons. Stato, sez. III, 24.03.2009, nr. 617; Cons. Stato, sez. IV, 26.04.2006, nr. 2297; id., 05.09.2003, nr. 4980; id., 04.03.2003, nr. 1197; id., 20.11.2000, nr. 6178; id., 20.02.1998, nr. 301; id., 11.06.1996, nr. 777) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.07.2012 n. 4321 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn caso di presentazione di D.I.A., l'inutile decorso del termine, di cui all'art. 23, t.u. 06.06.2001 n. 380, dei 30 giorni assegnati all'autorità comunale per l'adozione del provvedimento di inibizione ad effettuare il previsto intervento edificatorio, non comporta che l'attività del privato, ancorché del tutto difforme dal paradigma normativo, possa considerarsi lecitamente effettuata e, quindi possa andare esente dalle sanzioni previste dall'ordinamento per il caso di sua mancata rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi.
Il titolo abilitativo formatosi per effetto dell'inerzia dell'amministrazione può infatti comunque formare oggetto, alle condizioni previste in via generale dall'ordinamento, di interventi di annullamento d'ufficio o revoca.
L'amministrazione non perde infatti i propri poteri di vigilanza e sanzionatori per cui, a fronte della presentazione della d.i.a., i controinteressati sono legittimati a gravarsi non avverso il silenzio stesso ma, nelle forme dell'ordinario giudizio di impugnazione, avverso il titolo che si è consolidato per effetto del decorso del termine procedimentale.

In caso di presentazione di dichiarazione di inizio di attività, l'inutile decorso del termine, di cui all'art. 23, t.u. 06.06.2001 n. 380, dei 30 giorni assegnati all'autorità comunale per l'adozione del provvedimento di inibizione ad effettuare il previsto intervento edificatorio, non comporta che l'attività del privato, ancorché del tutto difforme dal paradigma normativo, possa considerarsi lecitamente effettuata e, quindi possa andare esente dalle sanzioni previste dall'ordinamento per il caso di sua mancata rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi. Il titolo abilitativo formatosi per effetto dell'inerzia dell'amministrazione può infatti comunque formare oggetto, alle condizioni previste in via generale dall'ordinamento, di interventi di annullamento d'ufficio o revoca (cfr. Consiglio Stato, Sez. IV 25.11.2008 n. 5811).
L'amministrazione non perde infatti i propri poteri di vigilanza e sanzionatori per cui, a fronte della presentazione della d.i.a., i controinteressati sono legittimati a gravarsi non avverso il silenzio stesso ma, nelle forme dell'ordinario giudizio di impugnazione, avverso il titolo che si è consolidato per effetto del decorso del termine procedimentale (cfr. Cons. Stato, sez. IV 08.03.2011 n. 1423)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.07.2012 n. 4318 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI caratteri della rimovibilità della struttura e dell’assenza di opere murarie non rilevano per nulla, quando l’installazione attua una consistente trasformazione del tessuto edilizio, in conseguenza della sua conformazione e della sua destinazione all’attività imprenditoriale.
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Sul piano funzionale poi, la destinazione a spazio destinato a soddisfare una migliore sistemazione della clientela, non costituiva un fine contingente ma una finalità permanente -sia pure per una parte dell'anno- che, come visto, comunque necessita di concessione edilizia, a nulla rilevando l'eventuale precarietà strutturale del manufatto.
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Il carattere “pertinenziale” all'intervento in contestazione non muta il suo regime giuridico (d.i.a. in luogo di quello concessorio), in quanto la nozione di “pertinenza urbanistica“ ha peculiarità proprie che la distinguono da quella civilistica, dal momento che il manufatto -preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio- deve soprattutto avere un volume modesto, rispetto all'edificio principale in modo da escludere ogni ulteriore “carico urbanistico”.

Come ricordato l’art. 3, lett. e.5), del d.P.R. n. 380/2001, con l’evidente finalità di frenare il fenomeno dei c.d. “abusi progressivi”, riconduce alla nozione di “intervento di nuova costruzione" anche le istallazioni di strutture non murarie, con la diretta conseguenza che, in tali ipotesi, sia sempre necessario il “permesso di costruire”.
E ciò a maggior ragione nel caso di una struttura in legno, che:
- di fatto costituivano un unico manufatto;
- occupava infatti la superficie della terrazza superiore dell'Hotel (peraltro abusivamente realizzato, con istanze di condono edilizio ai sensi della L. 47/1985 ancora pendenti);
- era stata ottenuta mediante la congiunzione di n. 4 “gazebo” (dei quali due di 138 mq ciascuno e due da complessivi mq. 102,2: mq. 59,9 e 46,28 mq) per una superficie complessiva coperta di ben mq. 378,84;
- aveva una copertura del tetto in tela di plastica; con uno sviluppo massimo in altezza delle coperture al colmo di ben mq. 3,45;
- era chiusa su tutti i lati esterni attraverso paratie sovrastate da una grigliatura;
- aveva due porte e due finestre (così l’accertamento dei VV.UU. del 22.01.2006).
Le dimensioni e la finalità della struttura realizzata implicavano che l’intervento non potesse essere qualificato come semplice “gazebo”, in quanto assumeva la consistenza di un vero e proprio piano in elevazione che, come tale, avrebbe dovuto in ogni caso essere oggetto di concessione edilizia e di autorizzazione paesaggistica.
Il “gazebo” costituiva infatti una rilevante alterazione della sagoma esterna, e finiva per avere un impatto visivo che provocava un indubbio vulnus agli eccezionali valori paesaggistici oggetto di salvaguardia. Di qui, se non la compiacenza, per lo meno l’erroneità della qualificazione come “gazebo”, assunta dall’amministrazione intimata come presupposto del suo illegittimo rifiuto ad intervenire.
I caratteri della rimovibilità della struttura e dell’assenza di opere murarie non rilevano per nulla, quando l’installazione attua una consistente trasformazione del tessuto edilizio, in conseguenza della sua conformazione e della sua destinazione all’attività imprenditoriale (cfr. proprio a proposito di gazebo: Sez. V 13.06.2006 n. 3490, Cons. Sez. IV 06.06.2008 n. 2705).
Sul piano funzionale poi, la destinazione a spazio destinato a soddisfare una migliore sistemazione della clientela, non costituiva un fine contingente ma una finalità permanente -sia pure per una parte dell'anno- che, come visto, comunque necessita di concessione edilizia, a nulla rilevando l'eventuale precarietà strutturale del manufatto (Cfr. in tal senso: Consiglio Stato, Sez. V 01.12.2003 n. 7822; Cons. St., sez. V, 20.04.2000 n. 2436, idem n. 419 del 27.01.2003; idem n. 696 dell'11.02.2003).
Per le predette ragioni, il carattere “pertinenziale” all'intervento in contestazione non muta il suo regime giuridico (d.i.a. in luogo di quello concessorio), in quanto la nozione di “pertinenza urbanistica“ ha peculiarità proprie che la distinguono da quella civilistica, dal momento che il manufatto -preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio- deve soprattutto avere un volume modesto, rispetto all'edificio principale in modo da escludere ogni ulteriore “carico urbanistico” (cfr. Consiglio Stato; Sez. V n. 2325 del 18.04.2001; idem Sez. VI n. 1174 dell'08.03.2000).
In definitiva, se in relazione al ricordato art. 3, lett. e.5), del d.P.R. n. 380/2001, la struttura avrebbe comunque richiesto la concessione edilizia e non poteva essere ontologicamente qualificata come intervento di “manutenzione straordinaria”, in quanto costituiva una alterazione “dell’aspetto esteriore dell’edificio” non consentita dalla lett. a) dell’art. 149 del d.lgs. n. 42/2004 e s.m.i .
L’amministrazione avrebbe quindi dovuto qualificare correttamente la struttura come intervento in zona vincolata soggetto a concessione edilizia e, comunque, attivare l’apposito sub-procedimento per l’autorizzazione paesistica di cui all’art. 146 del d.lgs. 22.01.2004 n. 42
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.07.2012 n. 4318 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAFerma l’osservazione iniziale sull’impossibilità di fondare sulle norme finalizzate al risparmio energetico un metodo di esenzione dall’onere di rispettare in generale i parametri edilizi, non può certo convenirsi che la norma regionale (lombarda, n. 21/1996) facoltizzi ex se un aumento di altezza in gronda, fino a cm. 25 per ogni solaio.
È invece corretto affermare che la detta disciplina comporti che i tamponamenti orizzontali che determinino spessori complessivi superiori a centimetri 30, non siano considerati nei computi per la determinazione dei volumi, per la sola parte eccedente i centimetri 30 e fino ad un massimo di ulteriori centimetri 25, e ciò qualora il maggior spessore contribuisca al miglioramento dei livelli di coibentazione. Tale criterio è poi applicabile, con gli stessi scopi e limiti quantitativi, anche alle costruzioni già esistenti, come prevede il comma 3 dell’art. 2 della legge regionale n. 21 del 1996, ma unicamente “in relazione ai soli spessori da aggiungere a quelli esistenti”.
Pertanto, nel caso in specie, dove si è assistito ad una sopraelevazione ai fini del recupero del sottotetto, con realizzazione ex novo della copertura, il detto criterio, ossia quello dell’aggiunta all’esistente, non è applicabile, stante la natura non conservativa della copertura.

In rapporto al tema della disciplina degli spessori realizzati ai fini della coibentazione termica, l’appellante censura la mancata considerazione della differenza disciplinare tra interventi sul pregresso e quelli sull’esistente, atteso che, in relazione a questi ultimi, la normativa regionale si riferisce ai soli spessori da aggiungere.
La doglianza non è fondata.
Premessa la condivisibile ricostruzione in merito sull’entità dimensionale del realizzato (come si precisa nella già citata nota del 29.12.2008 “il prospetto NORD della sezione CC risulta essere più alto di 44 cm rispetto al progetto approvato e quindi con un rialzo, della copertura esistente di 84 cm anziché dei 40 cm consentiti dalle N.A. di zona; tale difformità è evidenziata dal confronto delle documentazioni fotografiche allegate alle relazioni di sopralluogo della Polizia Locale in data 16.04.2008 e in data 26.01.2004, descritte nella relazione istruttoria”, mentre “il prospetto SUD della sezione AA risulta essere più alto di 29 cm rispetto al progetto approvato e quindi con un rialzo della copertura esistente di 69 cm anziché dei 40 cm, consentiti dalle N.A. di zona; anche tale difformità è evidenziata dal confronto della foto n. 12 datata dicembre 2004 con le foto della tav. 3 datata aprile 2008, descritte nella relazione istruttoria”), deve convenirsi con il TAR in merito alla non compatibilità di tali realizzazioni con la evocata disciplina regionale.
Ferma l’osservazione iniziale sull’impossibilità di fondare sulle norme finalizzate al risparmio energetico un metodo di esenzione dall’onere di rispettare in generale i parametri edilizi, non può certo convenirsi che la norma regionale facoltizzi ex se un aumento di altezza in gronda, fino a cm. 25 per ogni solaio.
È invece corretto affermare che la detta disciplina comporti che i tamponamenti orizzontali che determinino spessori complessivi superiori a centimetri 30, non siano considerati nei computi per la determinazione dei volumi, per la sola parte eccedente i centimetri 30 e fino ad un massimo di ulteriori centimetri 25, e ciò qualora il maggior spessore contribuisca al miglioramento dei livelli di coibentazione. Tale criterio è poi applicabile, con gli stessi scopi e limiti quantitativi, anche alle costruzioni già esistenti, come prevede il comma 3 dell’art. 2 della legge regionale n. 21 del 1996, ma unicamente “in relazione ai soli spessori da aggiungere a quelli esistenti”.
Pertanto, nel caso in specie, dove si è assistito ad una sopraelevazione ai fini del recupero del sottotetto, con realizzazione ex novo della copertura, il detto criterio, ossia quello dell’aggiunta all’esistente, non è applicabile, stante la natura non conservativa della copertura.
Il criterio applicato dal TAR va quindi condiviso, con consequenziale rigetto della censura (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.07.2012 n. 4304 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 34, comma secondo, del d.P.R. 380 del 2001 (sotto tale profilo doppiato dalla legge regionale n. 61 del 1985) prevede che, qualora gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire non possano venire demoliti “senza pregiudizio della parte eseguita in conformità”, allora l’ente competente “applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27.07.1978, n. 392, della parte dell’opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale”.
L’elemento su cui si applica la sanzione ed a cui fa riferimento il legislatore non è quindi limitata al solo segmento spaziale modificato, atteso che la norma non si riferisce alla modificazione planovolumetrica, ma si riferisce ai diversi concetti di opere o interenti, con palese riferimento alle tipologie edilizie previste nello stesso testo unico all’art. 3. Pertanto, è corretto riferire la nozione di parte dell’opera realizzata in difformità dal permesso ad un ambito diverso, ossia all’intero manufatto, separatamente individuabile all’interno dell’intervento, dove gli abusi insistono, e che da questi ultimi è inciso e modificato, e non al solo incremento dimensionale determinatosi.
Pertanto, nel caso in specie, la disposizione normativa è stata correttamente riferita al secondo piano dell’edificio ed i garages, e non solo una frazione percentuale di essi, atteso che gli stessi, in conseguenza degli abusi sopra evidenziati a cui si legano in maniera diretta ed ineliminabile, hanno acquistato una nuova rilevanza, valutabile in senso urbanistico e commerciale.

Maggiore attenzione va posta sull’altro profilo di doglianza, in merito cioè all’individuazione dimensionale della parte realizzata in difformità, ossia all’elemento da porre alla base del calcolo della sanzione, la cui diversa ponderazione può condurre a quantificazioni diverse dell’entità della sanzione.
A parere dell’appellante, la maggiore altezza del fabbricato non ha inciso sulla volumetria assentita e, per quanto riguarda i garages, questi rimangono del tutto interrati, non avendo quindi una valenza urbanistica autonoma.
Le affermazioni dell’appellante non sono condivisibili.
In merito ai garages, si è sopra evidenziato come gli stessi fossero in contrasto con la disciplina urbanistica, e ciò elide in radice la tesi qui sostenuta.
In merito alla sopraelevazione, ritiene la Sezione, muovendosi in assenza di una consolidata giurisprudenza in merito, che sia corretta l’affermazione del TAR, il quale ha condiviso il criterio di calcolo seguito dall’amministrazione, dove si è fatto riferimento non soltanto alle parti ritenute abusive, ma alla superficie complessiva delle parti dell’edificio dove gli abusi erano stati realizzati, giacché senza la sopraelevazione e senza la realizzazione della sporgenza fuori terra dei garages, tali manufatti avrebbero avuto una disciplina urbanistica diversa.
Si tratta di un’applicazione della disciplina contenuta nel testo unico dell’edilizia che appare connotata da criteri di razionalità e, soprattutto, appare aderente alla ratio sanzionatoria espressa dalla normativa primaria e regionale. Infatti, l’art. 34, comma secondo, del d.P.R. 380 del 2001 (sotto tale profilo doppiato dalla legge regionale n. 61 del 1985) prevede che, qualora gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire non possano venire demoliti “senza pregiudizio della parte eseguita in conformità”, allora l’ente competente “applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27.07.1978, n. 392, della parte dell’opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale”.
L’elemento su cui si applica la sanzione ed a cui fa riferimento il legislatore non è quindi limitata al solo segmento spaziale modificato, atteso che la norma non si riferisce alla modificazione planovolumetrica, ma si riferisce ai diversi concetti di opere o interenti, con palese riferimento alle tipologie edilizie previste nello stesso testo unico all’art. 3. Pertanto, è corretto riferire la nozione di parte dell’opera realizzata in difformità dal permesso ad un ambito diverso, ossia all’intero manufatto, separatamente individuabile all’interno dell’intervento, dove gli abusi insistono, e che da questi ultimi è inciso e modificato, e non al solo incremento dimensionale determinatosi.
Pertanto, nel caso in specie, la disposizione normativa è stata correttamente riferita al secondo piano dell’edificio ed i garages, e non solo una frazione percentuale di essi, atteso che gli stessi, in conseguenza degli abusi sopra evidenziati a cui si legano in maniera diretta ed ineliminabile, hanno acquistato una nuova rilevanza, valutabile in senso urbanistico e commerciale (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.07.2012 n. 4304 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASi è detto pertanto, in passato, che:
- l'art. 43, comma 5, l. 28.02.1985 n. 47, nella parte in cui prevede che possono ottenere la sanatoria le opere non ultimate per effetto di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali, ma limitatamente alle strutture realizzate e ai lavori necessari alla loro funzionalità, è applicabile solo ai lavori necessari per assicurare la funzionalità di quanto già costruito e non consente, pertanto, di integrare le opere con interventi edilizi che diano luogo a nuove strutture;
- l'art. 43, comma 5, l. 28.02.1985 n. 47, nella parte in cui prevede che possono ottenere la sanatoria le opere non ultimate per effetto di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali, ma limitatamente alle strutture realizzate e ai lavori strettamente necessari alla loro funzionalità, è applicabile solo ai lavori necessari per assicurare la funzionalità di quanto già costruito e non consente, pertanto, di integrare le opere con interventi edilizi che diano luogo a nuove strutture.
Deve certamente condiscendersi con detta tesi, evidenziandosi che quanto all'evocato art. 43 della legge 28.02.1985, n. 47 questa Sezione ha già precisato che, poiché oggetto della norma sono i lavori attinenti alle "strutture realizzate" e che "siano strettamente necessari alla loro funzionalità", ciò implica che la norma può essere applicata ai soli lavori necessari per assicurare la funzionalità di quanto già costruito e non consente, invece, di integrare le opere con interventi edilizi che diano luogo di per sé a nuove strutture.
Si attaglia perfettamente al caso di specie quanto condivisibilmente rilevato dalla interpretazione giurisprudenziale della norma laddove questa ha chiarito che la sanatoria di edifici non ultimati per effetto di provvedimenti di sospensione postula la mancanza dei lavori strettamente necessari alla funzionalità di quanto già costruito e non consente l'integrazione delle opere con interventi edilizi che diano luogo a nuove strutture e che, di conseguenza , la realizzazione della sola struttura portante in travi e pilastri non risulta sufficiente, mancando il completamento delle strutture edilizie necessarie a definire la volumetria edilizia.
È stato, poi, affermato in passato che la richiamata disposizione normativa può essere applicata agli edifici che, anche se non ultimati, abbiano acquistato una fisionomia che ne renda riconoscibile il disegno progettuale e la destinazione e debba essere solo completato ai fini della sua funzionalità; pertanto, la sanatoria anzidetta non può essere concessa nel caso in cui i lavori di costruzione si siano arrestati alla prima fase e non siano riconoscibili oggettivamente né la funzione né la configurazione generale del costruendo edificio.
Rileva in proposito il Collegio che il requisito della "non ultimazione" previsto dall'art. 43 deve essere logicamente letto in relazione a quello ordinario della "ultimazione" previsto dall'art. 31 della legge n. 47/1985 ("si intendono ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura ovvero, quanto alle opere interne e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano completate funzionalmente"), con la conseguenza che possono certamente conseguire la sanatoria edilizia anche manufatti la cui realizzazione si sia arrestata ad uno stadio anteriore a quello di configurabilità dei predetti requisiti.
Tuttavia, avendo la disposizione di cui all'art. 43 carattere eccezionale rispetto alla regola generale sancita dall'articolo 31, essa è di stretta interpretazione ed applicabile in termini restrittivi (vertendosi, tra l'altro, in materia di beneficio di condono di lavori abusivi), richiedendosi necessariamente che il manufatto, pur non ultimato, sia suscettibile di una sicura identificazione edilizia, sia da un punto di vista strutturale che della destinazione.

Si rammenta in proposito che l’articolo 31 della legge n. 47/1985 (richiamato dall’articolo 39 della legge 23.12.1994, n. 724 laddove si prescrive che “le disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28-02-1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni, … si applicano alle opere abusive che risultino ultimate entro il 31.12.1993”) chiarisce, al secondo comma, che “si intendono ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura …”.
Ed è pacifico che alla data del 31-12-1993 il fabbricato dell’odierno appellante non possedeva le dette caratteristiche, in quanto presentava la sola struttura in cemento armato ed era privo del tetto di copertura: ciò appare incontrovertibile, risultando dalla documentazione prodotta dal sig. D’Alessandro a corredo delle pratiche di condono edilizio e di completamento ed, in particolare, dalla relazione tecnica nella quale era stato precisato che “il fabbricato allo stato attuale consiste nella sola struttura portante in c.a.” (si veda sul punto la allegata documentazione fotografica).
E’ ben vero che il comma quinto dell’articolo 43 della legge n. 47/1985, stabilisce che “possono ottenere la sanatoria le opere non ultimate per effetto di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali limitatamente alle strutture realizzate e ai lavori che siano strettamente necessari alla loro funzionalità”.
E’ però certamente condivisibile, del pari, che nel caso di specie la detta disposizione non appare invocabile con successo.
Ciò perché, la pacifica giurisprudenza amministrativa, muovendo dal legame tra l’avverbio “strettamente” ed il concetto di “funzionalità” ivi contenuto ha sempre e costantemente interpretato la detta norma in senso diametralmente opposto a quanto dall’appellante sostenuto.
Si è detto pertanto, in passato, che:
- “l'art. 43, comma 5, l. 28.02.1985 n. 47, nella parte in cui prevede che possono ottenere la sanatoria le opere non ultimate per effetto di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali, ma limitatamente alle strutture realizzate e ai lavori necessari alla loro funzionalità, è applicabile solo ai lavori necessari per assicurare la funzionalità di quanto già costruito e non consente, pertanto, di integrare le opere con interventi edilizi che diano luogo a nuove strutture.” (TAR Puglia Bari, sez. II, 15.04.2010, n. 1392);
- ”l'art. 43, comma 5, l. 28.02.1985 n. 47, nella parte in cui prevede che possono ottenere la sanatoria le opere non ultimate per effetto di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali, ma limitatamente alle strutture realizzate e ai lavori strettamente necessari alla loro funzionalità, è applicabile solo ai lavori necessari per assicurare la funzionalità di quanto già costruito e non consente, pertanto, di integrare le opere con interventi edilizi che diano luogo a nuove strutture.” (Consiglio Stato, sez. IV, 18.06.2009, n. 4011).
Deve certamente condiscendersi con detta tesi, evidenziandosi che quanto all'evocato art. 43 della legge 28.02.1985, n. 47 questa Sezione ha già precisato (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. VI, 27.06.2008 n. 3282) che, poiché oggetto della norma sono i lavori attinenti alle "strutture realizzate" e che "siano strettamente necessari alla loro funzionalità", ciò implica che la norma può essere applicata ai soli lavori necessari per assicurare la funzionalità di quanto già costruito e non consente, invece, di integrare le opere con interventi edilizi che diano luogo di per sé a nuove strutture (vedi ancora Consiglio di Stato, sez. IV, 30.06.2005, n. 3542; sez. V, 20.12.2001, n. 6327 e 11.08.1998, n. 1240).
Si attaglia perfettamente al caso di specie quanto condivisibilmente rilevato dalla interpretazione giurisprudenziale della norma (cfr. Cons. Stato, IV, 30-06-2005, n. 3542; V, 20-12-2001, n. 6327) laddove questa ha chiarito che la sanatoria di edifici non ultimati per effetto di provvedimenti di sospensione postula la mancanza dei lavori strettamente necessari alla funzionalità di quanto già costruito e non consente l'integrazione delle opere con interventi edilizi che diano luogo a nuove strutture e che, di conseguenza , la realizzazione della sola struttura portante in travi e pilastri non risulta sufficiente, mancando il completamento delle strutture edilizie necessarie a definire la volumetria edilizia.
È stato, poi, affermato in passato (cfr. Cons. Stato, II, 14-03-1990, n. 669) che la richiamata disposizione normativa può essere applicata agli edifici che, anche se non ultimati, abbiano acquistato una fisionomia che ne renda riconoscibile il disegno progettuale e la destinazione e debba essere solo completato ai fini della sua funzionalità; pertanto, la sanatoria anzidetta non può essere concessa nel caso in cui i lavori di costruzione si siano arrestati alla prima fase e non siano riconoscibili oggettivamente né la funzione né la configurazione generale del costruendo edificio.
Rileva in proposito il Collegio che il requisito della "non ultimazione" previsto dall'art. 43 deve essere logicamente letto in relazione a quello ordinario della "ultimazione" previsto dall'art. 31 della legge n. 47/1985 ("si intendono ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura ovvero, quanto alle opere interne e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano completate funzionalmente"), con la conseguenza che possono certamente conseguire la sanatoria edilizia anche manufatti la cui realizzazione si sia arrestata ad uno stadio anteriore a quello di configurabilità dei predetti requisiti.
Tuttavia, avendo la disposizione di cui all'art. 43 carattere eccezionale rispetto alla regola generale sancita dall'articolo 31, essa è di stretta interpretazione ed applicabile in termini restrittivi (vertendosi, tra l'altro, in materia di beneficio di condono di lavori abusivi), richiedendosi necessariamente che il manufatto, pur non ultimato, sia suscettibile di una sicura identificazione edilizia, sia da un punto di vista strutturale che della destinazione
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.07.2012 n. 4287 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: La disciplina relativa alla valutazione di impatto ambientale non può essere elusa a mezzo di un riferimento a realizzazioni o interventi parziali, caratteristici nelle opere da realizzarsi per "tronchi" o "lotti", …La valutazione ambientale necessita, infatti, di una valutazione unitaria dell'opera, non essendo possibile che, con un meccanismo di stampo elusivo, l'opera venga artificiosamente frazionata in porzioni eseguite in assenza della valutazione perché, isolatamente prese, non configurano interventi sottoposti al regime protettivo.
La giurisprudenza della Corte Giustizia UE (Corte Giustizia CE, Sez. II, 10.12.2009) e del Giudice amministrativo italiano (Cons. Stato, sez. VI, 30.08.2002, n. 4368; sez. IV, 02.10.2006, n. 5760; sez. V, 16.06.2009, n. 3849; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 16.04.2010, n. 926; TAR Puglia, Bari, sez. II, 23.06.2010 n. 2602) è, infatti, concorde nello stigmatizzare il cd. scorporo in lotti di opere aventi carattere unitario, al fine di eludere la normativa in tema di valutazione di impatto ambientale: <<la disciplina relativa alla valutazione di impatto ambientale non può essere elusa a mezzo di un riferimento a realizzazioni o interventi parziali, caratteristici nelle opere da realizzarsi per "tronchi" o "lotti", …La valutazione ambientale necessita, infatti, di una valutazione unitaria dell'opera, non essendo possibile che, con un meccanismo di stampo elusivo, l'opera venga artificiosamente frazionata in porzioni eseguite in assenza della valutazione perché, isolatamente prese, non configurano interventi sottoposti al regime protettivo>> (Cons. Stato, sez. V, 16.06.2009, n. 3849) (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 30.07.2012 n. 1388 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ordine di demolizione, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato, e quindi non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti; il presupposto per l'adozione dell'ordinanza di demolizione è costituito soltanto dalla constatata esecuzione dell'opera in difformità dal titolo abilitativo od in carenza dello stesso, con la conseguenza che, ove ricorrano tali requisiti, il provvedimento è sufficientemente motivato, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione.
Questo Collegio è, altresì, a conoscenza dell’ulteriore orientamento giurisprudenziale diretto a sancire la necessità di una “congrua”, e più articolata, motivazione in considerazione del notevole lasso di tempo trascorso tra la sanzione e l’abuso e, ciò, nelle ipotesi in cui l’inerzia dell’Amministrazione abbia ingenerato un affidamento del privato.
Detto ultimo orientamento, al fine di essere concretamente applicabile, va necessariamente correlato a due presupposti, precisamente riconducibili all’avvenuto accertamento del fatto che gli abusi siano stati eseguiti in un periodo molto risalente e, ancora, alla constatazione circa l’effettiva inerzia dell’Amministrazione (inerzia che presuppone una conoscenza dell’abuso) che, in quanto tale, sia stata l’effettiva causa dell’affidamento ingenerato nei confronti del privato.

Con i due motivi, tutti e due comuni ad entrambi i ricorsi, i ricorrenti sostengono la violazione dell’art. 3 della L. n. 241/1990, in quanto entrambe le ordinanze impugnate risulterebbero carenti dal punto di vista dell’onere motivazione commisurato al prevalente interesse pubblico in ordine alla demolizione e, ciò, in presenza di un presunto affidamento del ricorrente riconducibile al fatto che le opere abusive sarebbero state realizzate in un periodo molto risalente nel tempo.
Il motivo deve ritenersi infondato in quanto in contrasto con l’orientamento prevalente in materia che sancisce che …”l'ordine di demolizione, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato, e quindi non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti; il presupposto per l'adozione dell'ordinanza di demolizione è costituito soltanto dalla constatata esecuzione dell'opera in difformità dal titolo abilitativo od in carenza dello stesso, con la conseguenza che, ove ricorrano tali requisiti, il provvedimento è sufficientemente motivato, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione” (da ultimo TAR Napoli Campania sez. III del 04.05.2012).
Se detto orientamento sopra ricordato costituisce, oramai, un principio generale questo Collegio è, altresì, a conoscenza dell’ulteriore orientamento giurisprudenziale diretto a sancire la necessità di una “congrua”, e più articolata, motivazione in considerazione del notevole lasso di tempo trascorso tra la sanzione e l’abuso e, ciò, nelle ipotesi in cui l’inerzia dell’Amministrazione abbia ingenerato un affidamento del privato (Cons. Stato Sez. V, 29.05.2006, n. 3270).
A parere di questo Collegio detto ultimo orientamento, al fine di essere concretamente applicabile, va necessariamente correlato a due presupposti, precisamente riconducibili all’avvenuto accertamento del fatto che gli abusi siano stati eseguiti in un periodo molto risalente e, ancora, alla constatazione circa l’effettiva inerzia dell’Amministrazione (inerzia che presuppone una conoscenza dell’abuso) che, in quanto tale, sia stata l’effettiva causa dell’affidamento ingenerato nei confronti del privato.
Per quanto riguarda la data effettiva di realizzazione degli abusi di cui si tratta, deve evidenziarsi come parte ricorrente non abbia fornito una prova inequivocabile, in quanto riferita ad elementi documentali incontrovertibili, che permetta di datare con certezza i manufatti in questione.
Va inoltre rilevato che l’applicazione dello stesso orientamento Giurisprudenziale sopra citato, in merito alla necessità di una “congrua motivazione” e in deroga ai principi che ritengono la motivazione “in re ipsa” , deve essere comunque considerare anche “l’entità” dell’abuso realizzato.
Nella fattispecie sottoposta a questo Collegio è del tutto evidente come siamo in presenza (e con riferimento ad entrambi i ricorsi) di interventi considerevoli (consistenti nella realizzazione di diversi manufatti) che hanno certamente avuto l’effetto di modificare sostanzialmente e radicalmente sia gli edifici che l’intera azienda su cui essi incidono, fino ad incidere (per quanto attiene la realizzazione del fienile) su aree già “conformate” in quanto incidenti su una fascia di rispetto stradale e, quindi, in aree deputata alla sicurezza del traffico (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 27.07.2012 n. 1044 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa Commissione (nei casi in cui la gara non si esaurisca in una sola seduta) deve predisporre particolari cautele a tutela dell’integrità e della conservazione delle buste contenenti le offerte, di cui deve necessariamente farsi menzione nel verbale di gara, e che tale tutela deve essere assicurata in astratto ed a prescindere dalle prescritte modalità di presentazione delle offerte tecniche e dalla mancata dimostrazione dell’effettiva manomissione dei plichi contenenti le stesse.
Appare, invece, sicuramente condivisibile, tra le censure prospettate in via subordinata dalla Società ricorrente, quella incentrata sulla violazione dei principi generali in tema di segretezza e genuinità delle offerte, perché la procedura aperta in questione si è svolta in più sedute successive (per una durata di quasi due anni e, dunque, ben oltre il termine di 360 giorni prefissato dal punto IV.3.7 del bando) senza che sia stata fatta adeguata menzione nei verbali (e in particolare nel verbale n° 3 del 16.07.2010 del seggio di gara e nel verbale n° 1 dell'01.09.2010 della Commissione giudicatrice tecnica) dell’adozione di misure cautelari idonee a tutelare l’integrità e la conservazione delle buste contenenti le offerte tecniche: ossia senza indicare se i plichi (anche nello spazio temporale intercorso dal 16.07.2010 al 18.03.2011) siano stati risigillati o comunque richiusi in modo adeguato (ad esempio: in una cassaforte, in un armadio o in un locale archivio chiusi a chiave), così da evitare qualsiasi ipotesi di manomissione, condividendosi l’orientamento giurisprudenziale prevalente secondo cui la Commissione (nei casi in cui la gara non si esaurisca in una sola seduta) deve predisporre particolari cautele a tutela dell’integrità e della conservazione delle buste contenenti le offerte, di cui deve necessariamente farsi menzione nel verbale di gara, e che tale tutela deve essere assicurata in astratto ed a prescindere dalle prescritte modalità di presentazione delle offerte tecniche e dalla mancata dimostrazione dell’effettiva manomissione dei plichi contenenti le stesse (Cfr: TAR Puglia Lecce, II Sezione, 31.10.2011 n. 1876; Consiglio di Stato, V Sezione, 21.05.2010 n. 3203; 12.12.2009 n. 7804) (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 18.07.2012 n. 1320 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI - INCARICHI PROGETTUALI - SICUREZZA LAVOROConsip, la gara è la regola.
Le gare Consip sono illegittime se prevedono che l'aggiudicatario possa a sua volta scegliere senza gara professionisti ai quali affidare servizi di ingegneria, proponendoli direttamente alle amministrazioni aderenti alla convenzione Consip; occorre invece affidare una gara ad hoc.

È questo il contenuto principale della interessante sentenza 16.07.2012 n. 4163 della VI Sez. del Consiglio di stato.
La sentenza, almeno con riguardo all'impostazione di alcune gare seguite da Consip negli ultimi anni, pone dei paletti invalicabili quando le attività date in appalto contengano anche servizi di ingegneria e architettura, sia pure in misura complessivamente marginale. Nel caso specifico gli atti di gara prevedevano che l'aggiudicatario stipulasse una convenzione con la Consip, aperta all'adesione delle amministrazioni interessate, attraverso la quale egli si impegnasse a indicare all'amministrazione aderente alla convenzione il curriculum e quindi il nominativo del professionista da incaricare per lo svolgimento del coordinamento della sicurezza in fase di progettazione e in fase di esecuzione.
In prima istanza il Tar aveva giudicato legittimo l'operato della Consip sul rilievo che le attività di coordinamento della sicurezza non sarebbero riservate a ingegneri e architetti e che gli affidamenti non sarebbero stati soggetti all'applicazione dell'articolo 91 del Codice dei contratti pubblici. Il Consiglio di stato ribalta il giudizio di primo grado innanzitutto per quel che riguarda la non esclusività delle prestazioni in capo a ingegneri e architetti.
Per quel che riguarda invece le modalità di affidamento di tali prestazioni i giudici affermano che se ad assumere le vesti del committente-datore di lavoro è un soggetto pubblico, le regole per la individuazione delle figure professionali incaricate del coordinamento della sicurezza non potrebbero essere diverse da quelle prescritte dal codice dei contratti in relazione alle medesime figure.
Si tratta quindi di attività riservate da affidare secondo le regole del Codice dei contratti pubblici: oltre 100.000 euro con gara e al di sotto con la procedura a inviti (a cinque) prevista dall'art. 57, comma 6. La convenzione è dunque illegittima perché aggira l'evidenza pubblica (articolo ItaliaOggi del 17.08.2012 - link a www.corteconti.it).
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Coordinatori sicurezza: Sentenza del Consiglio di Stato sulle modalità di affidamento.
Con la sentenza 16.07.2012 n. 4163, il Consiglio di Stato, sezione VI, si è definitivamente espresso in merito alle modalità delle nomine del coordinatore della sicurezza in fase di progettazione ed in fase di esecuzione nei cantieri temporanei e mobili.
La vicenda nasce da un ricorso del Consiglio nazionale degli Ingegneri contro la Consip s.p.a. per la riforma della sentenza n. 7124/2011 del Tar del Lazio–Roma sezione III concernente la fornitura servizi e gestione integrata della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro.
Con bando pubblicato sulla Gazzetta ufficiale delle comunità europee del 23.10.2009 Consip spa aveva indetto una gara a procedura aperta, strutturata in sei lotti corrispondenti a distinte aree geografiche del Paese, per la fornitura del servizio di gestione integrata della sicurezza sui luoghi di lavoro negli immobili in uso a qualsiasi titolo alle pubbliche amministrazioni.
Tra i tanti servizi oggetto di gara era anche ricompreso il servizio denominato “Misure di sicurezza nei cantieri”, avente ad oggetto la fornitura, alle amministrazione richiedenti, delle risorse e degli strumenti necessari a garantire la tutela della salute e della sicurezza nei cantieri temporanei e mobili che rientrano nel campo di applicazione del d.lgs. n. 81 del 2008, in forza del quale l'aggiudicatario avrebbe tra l'altro fornito all'amministrazione i nominativi del coordinatore della sicurezza in fase di progettazione e del coordinatore della sicurezza in fase esecutiva.
Con ricorso al Tar del Lazio il Consiglio Nazionale degli Ingegneri aveva impugnato gli esiti della predetta gara nella parte in cui a mezzo di tale selezione è stato sostanzialmente affidato all'aggiudicatario dei singoli lotti d'appalto anche il compito di indicare alle amministrazioni aderenti alla convenzione i nominativi dei soggetti responsabili dei servizi relativi al coordinamento della sicurezza in fase di progettazione ed in fase di esecuzione.
Con sentenza n. 7124 del 05.09.2011 il Tar aveva respinto il ricorso.
Ora il Consiglio di stato da ragione al Consiglio nazionale degli Ingegneri precisando che le conclusioni cui pervengono i giudici del Tar in ordine alla legittimità degli affidamenti degli incarichi di coordinatore della sicurezza in fase di progettazione e di coordinatore della sicurezza in fase esecutiva non appaiono condivisibili.
I Giudici di Palazzo Spada ricordano che alla luce delle previsioni contenute negli articoli 90 e 91 del Codice dei contratti, l'affidamento degli incarichi di progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva nonché gli incarichi di supporto tecnico-amministrativo, può essere compiuto in favore di una pluralità di soggetti ma quel che più rileva è che, indipendentemente dalla natura giuridica del soggetto affidatario dell'incarico, lo stesso deve essere espletato da professionisti iscritti negli appositi albi previsti dai vigenti ordinamenti professionali, personalmente responsabili e nominativamente indicati già in sede di presentazione dell'offerta, con la specificazione delle rispettive qualificazioni professionali. Deve inoltre essere indicata, sempre nell'offerta, la persona fisica incaricata dell'integrazione tra le varie prestazioni specialistiche. Quanto alle modalità di affidamento, l'articolo 91 è tassativo nel prescrivere che gli incarichi di progettazione, di coordinamento della sicurezza in fase di progettazione, di direzione dei lavori, di coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione e di collaudo , ovvero, per i soggetti operanti nei settori di cui alla parte III, delle disposizioni ivi previste.
Nella sentenza viene, anche, precisato che tali affidamenti, nei quali rientrano anche quelli afferenti i servizi di coordinatore della sicurezza in fase di progettazione ed in fase di esecuzione, postulano l'esperimento di una procedura ad evidenza pubblica per l’individuazione del contraente e che, anche per le gare di importo inferiore alla soglia di centomila euro, devono comunque osservarsi i principi di non discriminazione, parità di trattamento, proporzionalità e trasparenza, secondo la procedura prevista dall'articolo 57, comma 6, del Codice dei contratti. Per altro, nell'articolo 91, comma 8, del codice dei contratti viene definito il divieto di affidamento di attività di progettazione coordinamento della sicurezza in fase di progettazione, direzione dei lavori, coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione, collaudo, indagine e attività di supporto a mezzo di contratti a tempo determinato o altre procedure diverse da quelle previste dal codice.
Peraltro ai giudici del Consiglio di Stato, stante l'obbligo normativo dell'evidenza pubblica in tal genere di affidamenti, non appare pertinente, per evidente incompatibilità applicativa, il richiamo alla disciplina del subappalto ed ai suoi limiti applicativi (commento tratto da www.lavoripubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni ambientali. Normativa di riferimento.
In caso di realizzazione, senza la prescritta autorizzazione, di due baracche in zona soggetta a vincolo paesaggistico per valutare la conformità non deve farsi ricorso al Codice dei beni culturali e del paesaggio, bensì alla legge regionale che rafforza la difesa dell’ambiente con indicazioni più dettagliate (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.07.2012 n. 28135 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Rifiuti plastici e spedizioni in Cina.
1. Anche i teloni e i film di protezione dei prodotti agricoli non costituiscono "imballaggio" bensì oggetti a composizione plastica destinati a supportare le attività agricole produttive; con la conseguenza che tali oggetti, indipendentemente dalla operatività del decreto 02/05/2006 del Ministero dell'Ambiente e del Territorio, una volta cessato il loro ciclo di impiego, vanno considerati rifiuti destinati possibilmente al recupero.
2. Il mancato conferimento al consorzio Polieco da parte del ricorrente non può allo stato essere considerato condotta antigiuridica e valutabile come “abusiva" nei termini integrativi della fattispecie incriminatrice ex art. 260 d.lgs. 152/2006.
3. I trasporti di rifiuti plastici non pericolosi destinati ad impianti di recupero operanti all'interno della Repubblica popolare Cinese debbono rispettare le formalità e le garanzie prescritte, con conseguente illiceità anche per l'ordinamento italiano delle relative violazioni (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.07.2012 n. 27413 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Raccolta e di trasporto dei rifiuti in forma ambulante.
Secondo l'art. 266 del d.lgs. n. 152 del 2006, le disposizioni di cui agli articoli 189, 190, 193 e 212 del citato decreto non si applicano alle attività di raccolta e trasporto di rifiuti, effettuate dai soggetti abilitati allo svolgimento delle attività medesime in forma ambulante, limitatamente ai rifiuti che formano oggetto del loro commercio.
La materia del commercio ambulante è regolata dall'art. 28 del D.Lgs. 31.03.1998 n. 114, che impone agli ambulanti di munirsi di una specifica autorizzazione comunale, sulla base della normativa di attuazione, che ogni regione deve emanare entro un anno dalla data di pubblicazione dello stesso decreto.
Di conseguenza, l’attività di raccolta e di trasporto dei rifiuti in forma ambulante può essere legittimamente esercitata solo previo conseguimento di detto titolo abilitativo, e limitatamente ai rifiuti compresi nell'attività autorizzata; in caso contrario, in assenza di siffatta abilitazione, è configurabile il reato di cui all'art. 256 del D.lgs. n. 152 del 2006 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.07.2012 n. 27290 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio armato.
La contravvenzione di omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio armato (artt. 65 e 72, 95 d.P.R. 380 del 2001) costituisce un reato omissivo proprio del costruttore.
Tuttavia, la natura di reato proprio non esclude la possibilità che un soggetto diverso da quello individuato dall'art. 65 del D.P.R. n. 380 del 2001 possa concorrere alla realizzazione del fatto, sia pure in qualità di extraneus apportando un contributo consapevole, sia pure solo morale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.07.2012 n. 27260 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIATassa solo chi differenzia. Rifiuti speciali non sempre assimilabili agli urbani. Paletti dalla Cassazione. Ma il decreto Ronchi dà pieni poteri ai comuni.
I comuni non possono assimilare i rifiuti degli imballaggi, secondari e terziari, a quelli urbani nel caso in cui non abbiano attivato la raccolta differenziata. I rifiuti da imballaggi vanno trattati come quelli speciali. Quindi, non e' previsto l'esonero dal pagamento della Tarsu, ma una riduzione della superficie proporzionale alla quantità di rifiuti avviata al recupero.

È quanto affermato dalla Corte di Cassazione, con l'ordinanza 09.07.2012 n. 11500.
In realtà, l'articolo 21, comma 2, lettera g) del decreto legislativo 22/1997 (decreto Ronchi) attribuisce ai comuni il potere di assimilazione dei rifiuti speciali non pericolosi ai rifiuti urbani.
Anche il semplice rinvio contenuto nel regolamento comunale ai criteri generali previsti nella deliberazione 27.07.1984 del comitato interministeriale consente all'amministrazione comunale di applicare la tassa. Dunque, la dichiarazione di assimilabilità dei rifiuti speciali (tossici o nocivi) a quelli urbani adottata dal comune costituisce il presupposto per poterli tassare.
Del resto proprio la Corte di cassazione, con le sentenze 6389/1994 e 12752/2002, ha stabilito che deve essere assoggettata alla Tarsu la superficie sulla quale venga svolta un'attività commerciale produttiva di rifiuti che, benché in astratto qualificabili come speciali e quindi esclusi dal presupposto di imposizione, siano poi stati equiparati a quelli solidi urbani da una delibera comunale.
Con la sentenza n. 27057/2007 ha poi precisato che a decorrere dall'entrata in vigore della legge n. 128/1998 e in base al dlgs n. 22/1997 nessuno dei rifiuti speciali è assimilato per legge a quelli urbani. Anche quando si tratti di rifiuti di origine industriale, artigianale, commerciale o connessi a servizi possono essere assimilati agli urbani dai comuni, ad eccezione dei rifiuti pericolosi.
Nello specifico, i giudici di legittimità hanno ritenuta legittima l'assimilazione degli imballaggi ai rifiuti urbani contenuta in un regolamento comunale, senza porre ulteriori condizioni. Dunque, la delibera di assimilazione dovrebbe costituire titolo per la riscossione della tassa, a prescindere dal fatto che il contribuente ne affidi a terzi lo smaltimento.
La tassa non può essere applicata solo sulle superfici o sulle aree nelle quali, per specifiche caratteristiche strutturali o per destinazione, si producono rifiuti speciali. Per quanto concerne il regime fiscale da applicare a questi rifiuti, l'articolo 62 del decreto legislativo 507/1993 prevede che l'esclusione dell'obbligo di conferirli al servizio pubblico si ha soltanto nei casi in cui sia fornita dimostrazione dell'avvio al recupero, con attestazione di ricevuta da parte dell'impresa incaricata del trattamento.
Qualora il produttore abbia fornito la prova di aver avviato effettivamente al recupero i rifiuti, per la relativa superficie non è prevista la detassazione ma una riduzione della misura della tassa che il comune ha facoltà di stabilire con un'apposita norma regolamentare, rapportata proporzionalmente all'entità del recupero rispetto alla produzione complessiva dei rifiuti.
Però, anche nelle ipotesi di recupero totale dei rifiuti non si ottiene l'esonero totale dall'assoggettamento al prelievo tributario, in quanto lo stesso è finalizzato a coprire i costi comuni e collettivi del servizio (articolo ItaliaOggi del 17.08.2012 - link a www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATAPUBBLICITÀ/ La Cassazione sugli impianti abusivi. Verbali a tappeto. Paga pure il proprietario del fondo.
Nelle installazioni pubblicitarie abusive posizionate vicino alle autostrade la multa può interessare anche il mero proprietario del fondo ma solo se lo stesso non ottempera alla diffida di demolizione del manufatto fuori legge. In prima battuta quindi il verbale per impianto irregolare deve essere contestato solo all'autore materiale dell'infrazione.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI civ., con l'ordinanza 05.07.2012 n. 11280.
Il proprietario di una porzione di terreno affiancato a una autostrada si è visto recapitare dalla polizia stradale un verbale per installazione pubblicitaria abusiva ai sensi dell'art. 23 del codice stradale. Contro questa misura punitiva l'interessato ha proposto con successo censure fino al Palazzaccio.
A parere del collegio, nonostante le recenti modifiche introdotte dalla legge 120/2010 nel corpo del codice stradale «il proprietario del suolo, in quanto tale, è estraneo alla fattispecie prevista e disciplinata dall'art. 23, comma 7, Codice della strada; questa, infatti, sanzionando la condotta di colui che colloca cartelli e mezzi pubblicitari senza autorizzazione, fa riferimento, chiaramente ed esclusivamente alla condotta di chi si rende specificamente responsabile di una siffatta attività».
In buona sostanza a parere del collegio non può trovare applicazione diretta nella diffusa ipotesi sanzionatoria in esame il principio di solidarietà sancito dalla legge 689/1981 in quanto questo principio resta necessariamente circoscritto e limitato alle ipotesi espressamente previste che fanno riferimento letteralmente «al proprietario della cosa che servì o fu destinata a commettere la violazione».
La disciplina stradale del resto si interessa anche del proprietario del suolo, nel successivo comma 13-bis dell'art. 23, così come modificato dalla legge 120/2010. A parere del collegio solo se il proprietario del terreno non ottempera alla specifica, successiva diffida di rimozione incorrerà in una autonoma sanzione.
Questa volta a prevedere la multa salatissima di 4455 euro però è lo stesso comma 13-bis dell'art. 23 del codice. Oltre alla sanzione per installazione abusiva di impianto pubblicitario scatteranno quindi ulteriori verbali per i destinatari della diffida di ripristino. Ma per l'infrazione originaria non ci possono essere immediate estensioni, conclude la sentenza (articolo ItaliaOggi del 17.08.2012).

URBANISTICA: Lottizzazione e buona fede.
Nella lottizzazione abusiva, la necessità evidente di un piano di lottizzazione per procedere all’edificazione di un complesso urbanistico di rilevanti dimensioni, nonché il prezzo di acquisto delle singole unità immobiliari, se inferiore a quello di mercato, costituiscono dati sintomatici circa il difetto di buona fede degli acquirenti degli immobili abusivi (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 28.06.2012 n. 25541 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Scala esterna in muratura e distanze tra costruzioni.
La scala, anche se priva di copertura, costituisce corpo aggettante rilevante ai fini della disciplina delle distanza, essendo idoneo a ridurre le intercapedini tra un edificio e l’altro e quindi a pregiudicare l’esigenza di salubrità che costituisce finalità essenziale della previsione di distanze minime.
Infine, con riferimento alla lamentata violazione della distanza dal confine prevista dall’art. 10 N.T.A. (m. 5), essendo prevista una rampa di scale a distanza inferiore, osserva il Collegio che la scala, anche se priva di copertura, costituisce corpo aggettante rilevante ai fini della disciplina delle distanza, essendo idoneo a ridurre le intercapedini tra un edificio e l’altro e quindi a pregiudicare l’esigenza di salubrità che costituisce finalità essenziale della previsione di distanze minime.
In tal senso si è espressa con orientamento costante la giurisprudenza della Cassazione in materia di distanze, evidenziando che “Nel calcolo della distanza minima fra costruzioni, posta dall'art. 873 c.c. o da norme regolamentari integrative, deve tenersi conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato (nella specie, scala esterna in muratura), qualora queste, presentando connotati di consistenza e stabilità, abbiano natura di opera edilizia” (Cass. 1966/2007, 17390/2004, 4372/2002, tutte con riferimento a scale esterne) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 21.06.2012 n. 1219 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Cartelloni autostradali in zona sismica: necessaria autorizzazione per realizzarli.
La normativa antisismica deve essere applicata a tutte le costruzioni la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità, a nulla rilevando la natura dei materiali usati e delle strutture realizzate, in quanto l’esigenza di maggior rigore nelle zone dichiarate sismiche rende ancora più necessari i controlli e le cautele prescritte, quando si impiegano elementi strutturali meno solidi e duraturi del cemento armato.
E’ questa la sintesi del principio ripreso dalla Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 18.06.2012 n. 24086, applicato rigorosamente anche per i cartelloni autostradali.
Al riguardo, infatti, gli Ermellini non possono fare a meno di richiamare il dato di comune conoscenza che i cartelloni recanti indicazioni sulla viabilità apposti ai margini di un tratto autostradale non possono essere per la funzione svolta di modeste dimensioni e, anche se riferiti ad interventi in apparenza minori, possono in concreto rilevare sul piano della pericolosità.
Nella valutazione sul punto –si legge nella sentenza- non possono non concorrere, infatti, con l'elemento dimensionale anche altri aspetti quali, ad esempio, le modalità di collocazione del manufatto, la morfologia del sito, la pendenza del terreno, le modalità di realizzazione delle strutture di sostegno, in quanto suscettibili di accrescere il grado di pericolo per l'incolumità pubblica.
Allo stesso modo da tale valutazione non sarà possibile prescindere anche per quelle zone in il grado di sismicità non sia particolarmente elevato.
Nel caso di specie, il Tribunale aveva condannato il direttore del tronco autostradale, in qualità di committente, e la ditta, esecutrice dei lavori, alla pena dell’ammenda per il reato di cui all’art. 95 del T.U.E. per aver realizzato opere di installazione di pannelli a messaggi variabili in zona sismica senza la prescritta autorizzazione dell’ufficio competente. Il ricorrente aveva contestato la possibilità di applicare l’articolo 95 del T.U.E. al caso concreto in quanto il concetto di costruzione cui fa riferimento la disposizione predetta si riferisce alle sole opere edili in senso stretto e non anche, quindi, alla realizzazione di semplici pannelli contenenti messaggi autostradali dalla cui istallazione, non può peraltro, oggettivamente derivare una concreta fonte di rischio per l'incolumità.
Come si è visto, la Cassazione respinge fortemente questa interpretazione del ricorrente, ribadendo l’applicabilità della norma ai cartelloni autostradali. Peraltro, sostengono i giudici di Piazza Cavour, la nozione di costruzione è stata ampiamente elaborata dalla giurisprudenza della Corte stessa e da quella amministrativa con riferimento alle tematiche connesse al rilascio della concessione ed è stato rilevato che debbano essere ricompresi nella nozione di costruzione tutte le opere che alterino in modo stabile lo stato dei luoghi, ancorché riconducibili a manufatti privi di volume interno utilizzabile e che, in particolare, anche la sistemazione di una insegna o tabella pubblicitaria richiede il rilascio del preventivo permesso di costruire quando per le sue rilevanti dimensioni comporti un mutamento territoriale.
Da qui la già dichiarata conseguenza dell’applicabilità della disposizione di cui all’art. 95 del T.U.E. ai cartelloni autostradali con il rigetto di tale motivo di ricorso da parte del Supremo giudice di legittimità (link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATA: Titoli abilitativi e promissario acquirente.
Ai fini della legittimazione attiva al rilascio di titoli abilitativi nella materia edilizia è necessaria, sulla base degli artt. 11 e 23 del D.P.R. 380/2011, la titolarità del diritto di proprietà, ovvero di altro diritto reale od anche obbligatorio a condizione, in tale ultima ipotesi, del riconoscimento della disponibilità giuridica e materiale del bene nonché della relativa potestà edificatoria.
Quanto al promissario acquirente si richiede, anche in ipotesi di preliminare ad effetti anticipati, la specifica autorizzazione del proprietario promissario venditore all’esercizio dello ius aedificandi.
La posizione di promissario conduttore, in assenza di specifico consenso del proprietario, non è titolo di legittimazione idoneo al rilascio di titoli abilitativi, anche se a regime semplificato, mancando la disponibilità giuridica dell’area su cui realizzare l’intervento. E ciò è tanto più vero nella fattispecie, laddove il proprietario promissario locatore si è espressamente riservata la disponibilità ed il godimento del bene fino alla stipula del contratto definitivo.

Ai fini della legittimazione attiva al rilascio di titoli abilitativi nella materia edilizia, la giurisprudenza ritiene necessaria, sulla base degli artt. 11 e 23 del D.P.R. 380/2011, la titolarità del diritto di proprietà, ovvero di altro diritto reale od anche obbligatorio a condizione, in tale ultima ipotesi, del riconoscimento della disponibilità giuridica e materiale del bene nonché della relativa potestà edificatoria (Consiglio di Stato sez. V 28.05.2001 n. 2881; id. sez. IV 25.11.2008, n. 5811; TAR Emilia Romagna Bologna 21.02.2007, n. 53; TAR Lombardia Milano sez II 31.03.2010, n. 842).
Quanto al promissario acquirente, la tesi che ne riconosce la legittimazione non è affatto pacifica in giurisprudenza, richiedendosi, anche in ipotesi di preliminare ad effetti anticipati, la specifica autorizzazione del proprietario promissario venditore all’esercizio dello ius aedificandi (Consiglio Stato, sez. IV, 18.01.2010, n. 144; Cassazione civile sez III 15.03.2007, n. 6005; TAR Lazio-Latina 26.07.2005, n. 636). Tale opzione esegetica risulta ancor più corretta qualificando la relazione del promissario acquirente con l’immobile, anche in caso di preliminare ad effetti anticipati, quale “detenzione qualificata” e non già come possesso, secondo la più recente ricostruzione pretoria (ex multis Cassazione Sez. Unite 27.03.2008, n. 7930. id. sez. I 01.03.2010, n. 4863).
Ciò premesso, la posizione di promissario conduttore, in assenza di specifico consenso del proprietario, non è titolo di legittimazione idoneo al rilascio di titoli abilitativi, anche se a regime semplificato, mancando la disponibilità giuridica dell’area su cui realizzare l’intervento. E ciò è tanto più vero nella fattispecie, laddove il proprietario promissario locatore si è espressamente riservata la disponibilità ed il godimento del bene fino alla stipula del contratto definitivo (punto 9.2 del contratto sottoscritto il 02.12.2008)
(TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 18.06.2012 n. 1195 - link a  www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Presupposti indefettibili perché una d.i.a. possa essere produttiva di effetti sono la completezza e la veridicità delle dichiarazioni contenute nell'autocertificazione. Infatti, il decorso del termine di 30 giorni non può avere alcun effetto di legittimazione dell'intervento, rispetto ad una dichiarazione inesatta o incompleta, con la conseguenza che l'Amministrazione ha la facoltà ed il potere di inibire l'attività o di sospendere i lavori.
Così opinando, tale potere non è equiparabile ad un potere di autotutela, poiché non vi è alcun provvedimento su cui intervenire, ma ad un “potere di verifica della non formazione della d.i.a.”, con conseguente ordine di interruzione dei lavori, così come d’altronde normativamente previsto per l’ipotesi di mendacio (vedi comma 3, art. 19, L. 241/1990); per tale motivo, l'esercizio di tale potere non è sottoposto al termine perentorio di 30 giorni, che presuppone invece che la d.i.a. sia completa nei suoi elementi essenziali.

Con riferimento sia alle d.i.a. di cui alla normativa di settore (con particolare riferimento all’edilizia) sia al modello generale di cui all’art. 19 legge 241/1990, la giurisprudenza ritiene che presupposti indefettibili perché una d.i.a. possa essere produttiva di effetti siano la completezza e la veridicità delle dichiarazioni contenute nell'autocertificazione (ex multis TAR Lombardia Milano II 09.12.2008 n. 5737; TAR Emilia-Romagna Bologna sez. II 17.07.2006 n. 142; Consiglio di Stato sez. IV 24.05.2010, n. 3263; TAR Lazio-Roma sez. I 02.12.2010, n. 35023). Infatti, il decorso del termine di trenta giorni non può avere alcun effetto di legittimazione dell'intervento, rispetto ad una dichiarazione inesatta o incompleta, con la conseguenza che l'Amministrazione ha la facoltà ed il potere di inibire l'attività o di sospendere i lavori.
Così opinando, tale potere non è equiparabile ad un potere di autotutela, poiché non vi è alcun provvedimento su cui intervenire, ma ad un “potere di verifica della non formazione della d.i.a.”, con conseguente ordine di interruzione dei lavori, così come d’altronde normativamente previsto per l’ipotesi di mendacio (vedi comma 3, art. 19, L. 241/1990); per tale motivo, l'esercizio di tale potere non è sottoposto al termine perentorio di trenta giorni, che presuppone invece che la d.i.a. sia completa nei suoi elementi essenziali (ex multis TAR Lombardia Milano II 09.12.2008, n. 5737)
(TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 18.06.2012 n. 1195 - link a  www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Vincoli preordinati all'esproprio.
L’approvazione del progetto di un'opera pubblica, quando comporti la dichiarazione della p.u., indifferibilità ed urgenza della stessa, è atto che deve essere notificato al privato, proprietario del terreno, in quanto impositivo di vincolo specifico preordinato all’espropriazione e produttivo di effetti giuridici lesivi immediati e diretti nei confronti del destinatario individuato, così che il decorso del termine per l’impugnazione non può essere collegato alla semplice pubblicazione, ma trova il suo parametro temporale di riferimento nella data della sua notificazione o della sua piena conoscenza.
Un copioso insegnamento giurisprudenziale (ex multis: Cons. Stato, sez. IV, 22.02.2000 n. 939; nonché TAR Piemonte, sez. I, 21.05.2010 n. 2438, TAR Sicilia, Catania, sez. II, 04.06.2008 n. 1071, TAR Sardegna, sez. II, 19.10.2006 n. 2248, TAR Campania, Napoli, sez. IV, 24.10.2002 n. 6609) ha rilevato come l’approvazione del progetto di un'opera pubblica, quando comporti la dichiarazione della p.u., indifferibilità ed urgenza della stessa, è atto che deve essere notificato al privato, proprietario del terreno, in quanto impositivo di vincolo specifico preordinato all’espropriazione e produttivo di effetti giuridici lesivi immediati e diretti nei confronti del destinatario individuato, così che il decorso del termine per l’impugnazione non può essere collegato alla semplice pubblicazione, ma trova il suo parametro temporale di riferimento nella data della sua notificazione o della sua piena conoscenza (TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 14.06.2012 n. 5467 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni ambientali. Piani paesaggistici e prevalenza sulle disposizioni contenute in altri atti di pianificazione.
L’art. 145, comma 3, del d.lgs. n. 42/2004 stabilisce che “Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione, ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette”.
La prevalenza è quindi attinente solo agli aspetti delle altre disposizioni prima indicate relativi alla mera tutela del paesaggio.
In relazione ai Piani dei Parchi, che tutelano un sistema di valori complesso, identificato, in base all’art. 12, comma 1, della l. n. 394/1991, come modificato dall'art. 2, della l. n. 426/1998, nella “tutela dei valori naturali ed ambientali nonché storici, culturali, antropologici, tradizionali”, detta prevalenza è da ritenersi quindi relativa solo agli aspetti paesaggistici, sicché ben può affermarsi che la disciplina più restrittiva rispetto al Piano paesaggistico stabilita per determinate aree sia volta a tutelare quegli ulteriori valori che il Piano dei Parchi pure tutela e non violi quindi il principio di prevalenza sopra evidenziato.

Osserva la Sezione che l’art. 145, comma 3, del d. lgs. n. 42/2004, come modificato dall’art. 15 del d.lgs. n. 157/2006 e dall'articolo 2, comma 1, lettera r) del d.lgs. n. 63/2008, stabilisce che “Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione, ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette”.
La prevalenza è quindi attinente solo agli aspetti delle altre disposizioni prima indicate relativi alla mera tutela del paesaggio.
In relazione ai Piani dei Parchi, che tutelano un sistema di valori complesso, identificato, in base all’art. 12, comma 1, della l. n. 394/1991, come modificato dall'art. 2, della l. n. 426/1998, nella “tutela dei valori naturali ed ambientali nonché storici, culturali, antropologici, tradizionali”, detta prevalenza è da ritenersi quindi relativa solo agli aspetti paesaggistici, sicché ben può affermarsi che la disciplina più restrittiva rispetto al Piano paesaggistico stabilita per determinate aree sia volta a tutelare quegli ulteriori valori che il Piano dei Parchi pure tutela e non violi quindi il principio di prevalenza sopra evidenziato
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.06.2012 n. 3518 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA La formulazione del precetto contenuto nell’art. 32, comma 27, lettera d), legge 47/1985 lascia intendere che i vincoli in esso indicati costituiscono fattore preclusivo all’ottenimento della sanatoria soltanto ove gravino direttamente sul manufatto abusivamente realizzato o manipolato, e non sull’area in cui sorge l’edificio.
La giurisprudenza ha fatto da tempo giustizia di tale assunto, affermando come il contrasto con la disciplina vincolistica che legittima il diniego di condono debba essere riferito all’area di realizzazione dell’intervento abusivo e “non in maniera specifica al singolo immobile”; in tal senso vi sono numerose pronunce di questo Tribunale, ai cui contenuti argomentativi si rinvia, qui limitandosi a riportare, facendolo proprio, il passo conclusivo in cui si afferma che “la proposta distinzione fra “immobile” ed “area” (per quanto suggestiva) è inconsistente, in quanto il carattere vincolato di un edificio si rapporta per insuperabile necessità logico–giuridica alla vincolatezza del sito ove è stato edificato, sicché, dettando la norma generale ex art. 32, c. 27, lett. d), l. 326/2003, il legislatore ha disciplinato l’ipotesi di tutte le costruzioni effettuate in siti vincolati e come tali riflettenti la disciplina vincolistica della zona su cui insistono”.

Così, da ultimo, in situazione similare, la condivisa conclusione di TAR Campania, Napoli, sezione settima, 03.11.2010, n. 22299, che non può mutare alla luce della doglianza del ricorrente che, tralasciando di considerare il profilo della incompatibilità urbanistica, si limita a sostenere che la formulazione del precetto contenuto nell’art. 32, comma 27, lettera d), lascia intendere che i vincoli in esso indicati costituiscono fattore preclusivo all’ottenimento della sanatoria soltanto ove gravino direttamente sul manufatto abusivamente realizzato o manipolato, e non sull’area in cui sorge l’edificio.
La giurisprudenza ha fatto da tempo giustizia di tale assunto, affermando come il contrasto con la disciplina vincolistica che legittima il diniego di condono debba essere riferito all’area di realizzazione dell’intervento abusivo e “non in maniera specifica al singolo immobile”; in tal senso vi sono numerose pronunce di questo Tribunale (TAR Campania, Napoli, questa sesta sezione, sentenza n. 359 del 27.01.2010 cit., n. 844 del 10.02.2010; n. 884 del 24.01.2006; sez. settima, 03.11.2010, n. 22299 e n. 9355 del 24.07.2008; Salerno, sez. I, 14.01.2011, n. 26), ai cui contenuti argomentativi si rinvia, qui limitandosi a riportare, facendolo proprio, il passo conclusivo in cui si afferma che “la proposta distinzione fra “immobile” ed “area” (per quanto suggestiva) è inconsistente, in quanto il carattere vincolato di un edificio si rapporta per insuperabile necessità logico–giuridica alla vincolatezza del sito ove è stato edificato, sicché, dettando la norma generale ex art. 32, c. 27, lett. d), l. 326/2003, il legislatore ha disciplinato l’ipotesi di tutte le costruzioni effettuate in siti vincolati e come tali riflettenti la disciplina vincolistica della zona su cui insistono”.
Conclusioni, queste, esplicitamente confermate dal Consiglio di Stato (sez. quarta, 10.08.2007, n. 4396) in sede di reiezione dell’appello proposto contro la sopracitata sentenza di questa Sezione del 24.01.2006, n. 884
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 07.06.2012 n. 2699 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’efficacia dei provvedimenti di demolizione non è suscettibile di essere paralizzata dalla successiva presentazione di una istanza di accertamento di conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia, né da un’istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica, le quali non incidono sulla legittimità del provvedimento sanzionatorio “ma unicamente sulla possibilità dell’amministrazione di portare ad esecuzione la sanzione”, “autonomamente valutando gli effetti” delle sopravvenute istanze a detti fini.
In proposito, và ribadito l’orientamento della Sezione, avallato da pronunce del giudice di appello, secondo cui l’efficacia dei provvedimenti di demolizione non è suscettibile di essere paralizzata dalla successiva presentazione di una istanza di accertamento di conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia, né da un’istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica, le quali non incidono sulla legittimità del provvedimento sanzionatorio “ma unicamente sulla possibilità dell’amministrazione di portare ad esecuzione la sanzione” (cfr., fra le ultime, C. di S., Sezione IV, ord. n. 3055 del 12.06.2009 e n. 870 del 21.02.2008), “autonomamente valutando gli effetti” delle sopravvenute istanze a detti fini (cfr., fra tante, TAR Campania, Sezione VI, sent. n. 26787 del 03.12.2010 e la restante giurisprudenza anche del giudice di appello ivi riportata) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 07.06.2012 n. 2699 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANella formulazione di cui all'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, il silenzio dell'Amministrazione su un'istanza di sanatoria di abusi edilizi costituisce ipotesi di silenzio significativo, al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego, con la conseguenza che si viene a determinare una situazione del tutto simile a quella che si verificherebbe in caso di provvedimento espresso.
In virtù della previsione legale di implicito diniego, il silenzio tenuto dall'Amministrazione non può, infatti, essere inteso come mero fatto di inadempimento, ma abilita l'interessato alla proposizione di impugnazione, una volta decorso dal suo perfezionarsi il termine decadenziale di sessanta giorni.
Il silenzio sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica postula l'esercizio di un'attività amministrativa essenzialmente vincolata, trattandosi di un meccanismo predisposto per sanare opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il prescritto titolo edilizio, ma sostanzialmente conformi alla normativa urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della loro realizzazione sia al momento della presentazione della domanda.
Trattasi quindi di attività amministrativa per lo più priva di apprezzabili margini di discrezionalità in quanto riferita ad un assetto di interessi già prefigurato dalle previsioni dello strumento urbanistico generale.
In ogni caso il sindacato del giudice amministrativo sul diniego implicito presuppone che sia assolto da parte del ricorrente l'onere di provare la illegittimità del rifiuto ossia la fondatezza della sua pretesa sostanziale al rilascio di un provvedimento a lui favorevole

Per quanto concerne l’inquadramento del provvedimento di diniego tacito ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 380/2001 concretizzatosi per effetto del decorso del termine di sessanta giorni, l’orientamento giurisprudenziale prevalente, da cui questo Collegio non ha motivo di discostarsi (ex multis, TAR Campania, Napoli sez. VIII 13.12.2011 n. 5797), ritiene che nella formulazione di cui all'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, il silenzio dell'Amministrazione su un'istanza di sanatoria di abusi edilizi costituisce ipotesi di silenzio significativo, al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego, con la conseguenza che si viene a determinare una situazione del tutto simile a quella che si verificherebbe in caso di provvedimento espresso. In virtù della previsione legale di implicito diniego, il silenzio tenuto dall'Amministrazione non può, infatti, essere inteso come mero fatto di inadempimento, ma abilita l'interessato alla proposizione di impugnazione, una volta decorso dal suo perfezionarsi il termine decadenziale di sessanta giorni (C.d.S. sez. IV 3.03.2006 n. 1037l; C.d.S. sez. IV 03.02.2006 n. 401; TAR Piemonte, Torino 08.03.2006 n. 1173; TAR Campania, Salerno, sez. II 13.01.2005 n. 18).
Una volta riconosciuto il valore di provvedimento amministrativo al silenzio di cui all'art. 36 cit. e la natura impugnatoria del presente giudizio, va precisato che nella specie, il silenzio sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica postula l'esercizio di un'attività amministrativa essenzialmente vincolata, trattandosi di un meccanismo predisposto per sanare opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il prescritto titolo edilizio, ma sostanzialmente conformi alla normativa urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della loro realizzazione sia al momento della presentazione della domanda.
Trattasi quindi di attività amministrativa per lo più priva di apprezzabili margini di discrezionalità in quanto riferita ad un assetto di interessi già prefigurato dalle previsioni dello strumento urbanistico generale (cfr. TAR Campania Napoli questa stessa sezione, 05.05.2005 n. 5484).
In ogni caso il sindacato del giudice amministrativo sul diniego implicito presuppone che sia assolto da parte del ricorrente l'onere di provare la illegittimità del rifiuto ossia la fondatezza della sua pretesa sostanziale al rilascio di un provvedimento a lui favorevole
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 07.06.2012 n. 2699 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Direttore dei lavori.
Il direttore dei lavori ha una posizione di garanzia in merito alla regolare esecuzione dei lavori ed ha, pertanto, l’obbligo di esercitare un’attiva vigilanza sulle opere realizzate, per cui -esclusi i casi in cui abbia puntualmente svolto l’attività prevista dal II comma art. 29 T.U.E.- è responsabile anche delle violazioni edilizie commesse in sua assenza, in quanto questi deve sovrintendere con continuità alle opere della cui esecuzione ha assunto la responsabilità tecnica.
L
a giurisprudenza, specie quella penale, ha già avuto modo di chiarire che il direttore dei lavori ha una posizione di garanzia in merito alla regolare esecuzione dei lavori ed ha, pertanto, l’obbligo di esercitare un’attiva vigilanza sulle opere realizzate, per cui -esclusi i casi in cui abbia puntualmente svolto l’attività prevista dal II comma art. 29 T.U.E.- è responsabile anche delle violazioni edilizie commesse in sua assenza, in quanto questi deve sovrintendere con continuità alle opere della cui esecuzione ha assunto la responsabilità tecnica (così, da ultimo, Cass. Pen., sez. III, 17.06.2000, n. 34602, e 20.01.2009, n. 14504) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 04.06.2012 n. 247 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’errata o insufficiente rappresentazione delle circostanze di fatto e di diritto poste alla base del rilascio della concessione edilizia, che diversamente non sarebbe stata rilasciata, costituisce da sola ragione sufficiente per giustificare un provvedimento di annullamento di ufficio della concessione medesima.
In una tale situazione, può prescindersi dal contemperamento dell’interesse privato con un interesse pubblico attuale e concreto. Ciò perché, ai fini dell'annullamento d'ufficio di una concessione edilizia, è ben vero necessario, in linea di principio, l'accertamento della sussistenza di una situazione di interesse pubblico attuale e concreto che giustifichi il ricorso all'autotutela, ma da tale valutazione si può prescindere quando risulti che il rilascio della concessione è derivato da un'erronea rappresentazione (non importa se dolosa o colposa) dei fatti da parte del privato richiedente.
Tale avviso, peraltro, si è da tempo pacificamente radicato nella giurisprudenza anche di altre sezioni di questo Consiglio, che hanno parimenti escluso la necessità di una comparata ponderazione dell'interesse pubblico all'annullamento d'ufficio di un atto amministrativo e dell'interesse oppositivo del privato, quando si sia in presenza di sostanziale negligenza del privato stesso, il quale, per insufficiente rappresentazione di circostanze di fatto, non importa se per colpa o per dolo, abbia contribuito all'errore dell'Amministrazione inducendola, sostanzialmente, ad adottare atti poi rivelatisi palesemente illegittimi.
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Se è vero che è ius receptum che l'annullamento di ufficio di un provvedimento debba essere sorretto anche da autonome ed attuali ragioni di pubblico interesse, laddove incida su posizioni giuridiche che risultino ormai consolidate in ragione del tempo trascorso dall'emanazione del provvedimento annullato ed in ragione dell'affidamento sulla sua legittimità ingenerato nei suoi destinatari, siccome atto proveniente dall'amministrazione pubblica, è, però, corollario di tale principio, che non occorre la presenza di preminenti ragioni di interesse pubblico quando il soggetto nei cui confronti si esercita il potere di annullamento non sia in buona fede.

Questa Sezione ha già avuto modo di chiarire, con avviso del tutto condivisibile, che l’errata o insufficiente rappresentazione delle circostanze di fatto e di diritto poste alla base del rilascio della concessione edilizia, che diversamente non sarebbe stata rilasciata, costituisce da sola ragione sufficiente per giustificare un provvedimento di annullamento di ufficio della concessione medesima ed ha, altresì, precisato che, in una tale situazione, può prescindersi dal contemperamento dell’interesse privato con un interesse pubblico attuale e concreto (cfr. sez. IV, n. 6554 del 24.12.2008). Ciò perché, ai fini dell'annullamento d'ufficio di una concessione edilizia, è ben vero necessario, in linea di principio, l'accertamento della sussistenza di una situazione di interesse pubblico attuale e concreto che giustifichi il ricorso all'autotutela, ma da tale valutazione si può prescindere quando risulti che il rilascio della concessione è derivato da un'erronea rappresentazione (non importa se dolosa o colposa) dei fatti da parte del privato richiedente.
Tale avviso, peraltro, si è da tempo pacificamente radicato nella giurisprudenza anche di altre sezioni di questo Consiglio (cfr. C.G.A.R.S. n. 552 del 13.09.2011; CdS, Sez. V, n. 592 dell'08.02.2010 e n. 6554 del 12.10.2004), che hanno parimenti escluso la necessità di una comparata ponderazione dell'interesse pubblico all'annullamento d'ufficio di un atto amministrativo e dell'interesse oppositivo del privato, quando si sia in presenza di sostanziale negligenza del privato stesso, il quale, per insufficiente rappresentazione di circostanze di fatto, non importa se per colpa o per dolo, abbia contribuito all'errore dell'Amministrazione inducendola, sostanzialmente, ad adottare atti poi rivelatisi palesemente illegittimi.
Orbene, se è vero, come affermato dall’appellante nella memoria depositata il 09.02.2012, che è ius receptum che l'annullamento di ufficio di un provvedimento debba essere sorretto anche da autonome ed attuali ragioni di pubblico interesse, laddove incida su posizioni giuridiche che risultino ormai consolidate in ragione del tempo trascorso dall'emanazione del provvedimento annullato ed in ragione dell'affidamento sulla sua legittimità ingenerato nei suoi destinatari, siccome atto proveniente dall'amministrazione pubblica, è, però, corollario di tale principio, alla stregua della citata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, che il Collegio condivide, che non occorre la presenza di preminenti ragioni di interesse pubblico quando il soggetto nei cui confronti si esercita il potere di annullamento non sia in buona fede.
Nel caso in esame, ben può ritenersi che siano sussistenti le condizioni evidenziate dalla richiamata giurisprudenza, cioè l’erronea rappresentazione (non importa se dolosa o colposa) dei fatti da parte del privato e la conseguente negligenza da questi manifestata, al fine di prendere atto della carenza di buona fede in capo al privato stesso nel richiedere i due permessi di costruire annullati di ufficio, nella specie, con il provvedimento impugnato (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.05.2012 n. 3150 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALILegittime le tariffe Tia deliberate dalla giunta.
Sono legittime le tariffe Tia deliberate dalla giunta comunale. Al consiglio comunale spetta solo la disciplina generale delle tariffe.

Lo ha precisato il TAR Veneto, Sez. III, con la sentenza 10.05.2012 n. 680.
Per il giudice amministrativo non sussiste il vizio di incompetenza della giunta, «essendo riservata al consiglio comunale esclusivamente la disciplina generale delle tariffe».
Infatti, al consiglio è delegata l'individuazione dei criteri economici sulla base dei quali vanno determinate le tariffe, le eventuali esenzioni o agevolazioni, le modalità di graduazione delle tariffe sulla base di fasce orarie o delle zone in cui il servizio viene prestato. Mentre la concreta quantificazione degli importi tariffari spetta alla giunta.
Negli ultimi anni si è formato un contrasto giurisprudenziale sull'obbligo di motivare le delibere che prevedono aumenti tariffari Tarsu o Tia. Essendo la delibera un atto generale, per la Cassazione (sentenza 22804/2006) non c'è alcun obbligo di motivare gli aumenti delle tariffe. Secondo il Consiglio di stato (sentenza 5616/2010), invece, l'amministrazione comunale deve motivare la delibera che prevede un aumento delle tariffe per coprire i costi del servizio di smaltimento dei rifiuti. E non si può invocare genericamente la necessità di assicurare la tendenziale copertura totale della spesa, senza avere dati certi sullo scostamento tra entrate e costo del servizio.
In effetti, pur essendo la delibera un atto generale sussiste a carico dell'ente l'obbligo specifico di motivare gli aumenti delle tariffe. Per stabilire in una determinata entità l'importo dell'aumento, occorre almeno indicare dati certi in ordine a spese e entrate.
Sia per la Tarsu che per la Tia la legge detta i criteri ai quali i comuni si devono attenere per la determinazione delle tariffe e indica le categorie di locali e aree con omogenea potenzialità di rifiuti. Gli enti sono tenuti a adottare un regolamento che deve contenere non solo la classificazione delle categorie e eventuali sottocategorie, ma anche la graduazione delle tariffe ridotte per particolari condizioni d'uso.
Nell'ambito del potere regolamentare possono essere individuate anche le fattispecie agevolative, con relative condizioni, modalità di richiesta e eventuali cause di decadenza.
Se queste regole non vengono rispettate, il contribuente può impugnare i relativi atti generali (regolamenti e delibere) innanzi al giudice amministrativo. Tuttavia, anche l'eventuale dichiarazione d'illegittimità di una delibera tariffaria non comporta la liberazione dall'obbligo di pagamento del tributo. Il contribuente è comunque tenuto a pagare applicando la tariffa vigente in precedenza (Cassazione, sentenza 8875/2010) (articolo ItaliaOggi del 17.08.2012 - link a www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATALa disciplina contenuta nell’art. 22 del D.L.vo 285 del 1992 e quella a sua volta contenuta nell’art. 4 del R.D. 1740 del 1933 non assolve per certo a finalità urbanistico-edilizie ma ad esigenze di sicurezza della circolazione stradale che identificano un pubblico interesse di maggior rilievo rispetto alle finalità anzidette, e tali quindi da rendere le finalità medesime nettamente recessive rispetto alle valutazioni compiute dall’Autorità istituzionalmente deputata a garantire l’incolumità degli utenti delle pubbliche strade, ovvero dallo stesso legislatore in sede di diretta disciplina della relativa materia.
In tale contesto, quindi, il parere favorevole dell’ente proprietario della strada va configurato, a’ sensi degli artt. 5, comma 4, 20, comma 3, e 23, comma 4, del T.U. approvato con D.P.R. 380 del 2001, quale necessario e del tutto condizionante presupposto per la legittima esplicazione dell’attività edilizia da parte del soggetto privato.

a) A parte la ben evidente e generale confusione di ordine sistematico operata dall’appellante tra titolo edilizio e titolo autorizzatorio rilasciato dall’ente proprietario della strada al fine dell’apertura del passo carraio, va rimarcato che la disciplina contenuta nell’art. 22 del D.L.vo 285 del 1992 e quella a sua volta contenuta nell’art. 4 del R.D. 1740 del 1933 non assolve per certo a finalità urbanistico-edilizie ma ad esigenze di sicurezza della circolazione stradale che identificano un pubblico interesse di maggior rilievo rispetto alle finalità anzidette, e tali quindi da rendere le finalità medesime nettamente recessive rispetto alle valutazioni compiute dall’Autorità istituzionalmente deputata a garantire l’incolumità degli utenti delle pubbliche strade, ovvero –come nel caso di specie– dallo stesso legislatore in sede di diretta disciplina della relativa materia.
In tale contesto, quindi, il parere favorevole dell’ente proprietario della strada va configurato, a’ sensi degli artt. 5, comma 4, 20, comma 3, e 23, comma 4, del T.U. approvato con D.P.R. 380 del 2001, quale necessario e del tutto condizionante presupposto per la legittima esplicazione dell’attività edilizia da parte del soggetto privato.
Né può essere condivisa la prospettazione dell’appellante secondo cui la norma risolutiva per il caso di specie risiederebbe nell’art. 4 del R.D. 1740 del 1933 che prima dell’entrata in vigore dell’attuale Codice della Strada disciplinava il rilascio dei permessi di passo carraio e non contemplava il divieto di rilascio della relativa autorizzazione nelle ipotesi in cui il passo medesimo dovrebbe aprirsi su di una rampa di accelerazione.
Risulta infatti assodato che il Turi mai ha chiesto il rilascio di tale autorizzazione nel corso della vigenza di tale disciplina e che, una volta sopravvenuto l’attuale divieto contenuto nell’art. 22 dell’attuale Codice della Strada, non può pretendere l’ultrattività dello ius vetus; né può giovare allo stesso Turi la circostanza che il proprio accesso alla pubblica strada sarebbe stato di fatto tollerato “per fatto concludente” dall’Anas anche mediante l’asserita posa in opera di un guard rail che sin qui gli ha consentito il materiale accesso al fondo, ovvero un richiamo analogico del tutto inconferente nell’economia di causa ad una giurisprudenza (oltre a tutto neppure condivisa da questo Collegio) circa la norma da applicare per l’accertamento di conformità degli interventi di ristrutturazione urbanistica.
b) E’ del tutto infondato l’assunto dell’appellante secondo il quale l’art. 22 del Codice della Strada contemplerebbe al comma 9 un’espressa possibilità di deroga al susseguente suo comma 10, recante il diniego di apertura di accessi lungo le rampe di accelerazione: possibilità in alcun modo considerata dall’Anas e dallo stesso giudice di primo grado.
Tale assunto, infatti, va radicalmente capovolto.
Il comma 9 anzidetto reca infatti non già una disciplina di deroga, ma la disciplina sostantiva dei presupposti per il rilascio delle autorizzazioni all’apertura dei passi carrai, laddove –per l’appunto– si dispone che “nel caso di proprietà naturalmente incluse o risultanti tali a seguito di costruzioni o modifiche di opere di pubblica utilità, nei casi di impossibilità di regolarizzare in linea tecnica gli accessi esistenti, nonché in caso di forte densità degli accessi stessi e ogni qualvolta le caratteristiche plano-altimetriche nel tratto stradale interessato dagli accessi o diramazioni non garantiscano requisiti di sicurezza e fluidità per la circolazione, l'ente proprietario della strada rilascia l'autorizzazione per l'accesso o la diramazione subordinatamente alla realizzazione di particolari opere quali innesti attrezzati, intersezioni a livelli diversi e strade parallele, anche se le stesse, interessando più proprietà, comportino la costituzione di consorzi obbligatori per la costruzione e la manutenzione delle opere stesse”.
Nel susseguente comma 10 si dispone, invece, che “il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti stabilisce con proprio decreto, per ogni strada o per ogni tipo di strada da considerare in funzione del traffico interessante le due arterie intersecantisi, le caratteristiche tecniche da adottare nella realizzazione degli accessi e delle diramazioni, nonché le condizioni tecniche e amministrative che dovranno dall'ente proprietario essere tenute a base dell'eventuale rilascio dell'autorizzazione”, soggiungendosi nella seconda sua parte che “è comunque vietata l’apertura di accessi lungo le rampe di intersezioni sia a raso che a livelli sfalsati, nonché lungo le corsie di accelerazione e di decelerazione”.
Tale ultima disposizione costituisce, quindi, norma generale di “chiusura” del “sistema”, che inequivocabilmente ed in ogni caso (“comunque”) inibisce -anche, quindi, per la fattispecie che segnatamente riguarda il Turi- il rilascio di qualsivoglia autorizzazione in deroga alla stessa (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.04.2012 n. 2271 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Abuso di ufficio.
Nell'abuso d'ufficio connesso al rilascio di un permesso edilizio ritenuto illegittimo e nei reati edilizi compiuti in esecuzione di tale permesso, uno degli elementi dai quali desumere l'intenzionalità del dolo o la colpa e costituito appunto dall'analisi del contrasto del permesso di costruire con la norma urbanistica nel senso che, quanto più è palese o macroscopico tale contrasto, tanto più e evidente la ricorrenza dell'elemento psicologico del reato.
Il dolo intenzionale del delitto di abuso d'ufficio può desumersi, non solo dal rapporto collusivo, ma anche da una serie di altri indizi diversi, quali ad esempio: la natura dell'illegittimità dell'atto, i rapporti tra il pubblico ufficiale ed il privato, la mancanza di una doverosa istruttoria della pratica (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.01.2012 n. 649 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione di istanza di condono edilizio, successivamente alla impugnazione dell'ordinanza di demolizione, produce l'effetto di rendere improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, l'impugnazione stessa.
Ed invero, il riesame dell’abusività dell'opera al fine di verificarne la eventuale sanabilità -provocato dall'istanza de qua- comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito (di accoglimento o di rigetto).

Posto che, in data 27.02.1995, è stata presentata, con riguardo alle opere realizzate abusivamente di cui all’impugnato provvedimento sanzionatorio, domanda di condono ai sensi della legge 724/1994 (prot. nn. 4912, in atti), osserva il Collegio che la giurisprudenza amministrativa ha già avuto modo di rilevare come la presentazione di tali domande, successivamente alla impugnazione dell'ordinanza di demolizione, produca l'effetto di rendere improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, l'impugnazione stessa (Cfr. ex multis, TAR Campania, Sez. VI, 11.07.2007, n. 7129 sez. I, 18.05.2006 n. 4743).
Ed invero, il riesame dell’abusività dell'opera al fine di verificarne la eventuale sanabilità -provocato dall'istanza degli interessati- comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito (di accoglimento o di rigetto), che vale, comunque, a superare il provvedimento tacito di diniego oggetto del presente ricorso (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 26.10.2011 n. 4968 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nell’ambito del procedimento per il rilascio di un titolo abilitativo all’edificazione, poiché la legittimazione attiva a chiedere il rilascio di un titolo abilitativo edilizio è configurabile non solo in capo al proprietario del terreno, ma anche in favore del soggetto titolare di altro diritto di godimento del fondo, che lo autorizzi a disporne con un intervento costruttivo, la pubblica amministrazione non è tenuta a svolgere una preliminare indagine istruttoria che si estenda fino alla ricerca d'ufficio di eventuali elementi limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità allegato dal richiedente.
In via preliminare, la Sezione ritiene di dover ricordare come sia oramai consolidato in giurisprudenza un orientamento, a cui si è rifatto il TAR nella sentenza gravata, che identifica i limiti istruttori nell’ambito del procedimento per il rilascio di un titolo abilitativo all’edificazione. In tali occasioni, poiché la legittimazione attiva a chiedere il rilascio di un titolo abilitativo edilizio è configurabile non solo in capo al proprietario del terreno, ma anche in favore del soggetto titolare di altro diritto di godimento del fondo, che lo autorizzi a disporne con un intervento costruttivo, la pubblica amministrazione non è tenuta a svolgere una preliminare indagine istruttoria che si estenda fino alla ricerca d'ufficio di eventuali elementi limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità allegato dal richiedente (da ultimo, Consiglio di stato, sez. VI, 10.02.2010, n. 675).
Il controllo dell’azione amministrativa da parte di questo giudice non può che conformarsi a tale assetto, dovendosi limitare a valutare se l’amministrazione ha effettivamente operato nel rispetto delle sue attribuzioni (
Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.09.2011 n. 4968 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Responsabile ufficio tecnico e abuso d’ufficio.
Configura un ingiusto vantaggio patrimoniale anche il mero incremento del valore commerciale dell’immobile, per cui ben può essere chiamato a rispondere di abuso di ufficio il responsabile del settore urbanistico del Comune che abbia rilasciato una concessione edilizia in sanatoria per un’opera non conforme agli strumenti urbanistici generali vigenti in quel Comune (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.07.2011 n. 27703 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abuso di ufficio ed elemento soggettivo del reato.
Nel reato di abuso d'ufficio il perseguimento del fine pubblico dell’agente non vale ad escludere il dolo sotto il profilo dell’intenzionalità allorché rappresenti un mero pretesto con il quale venga mascherato l’obiettivo reale della condotta. In definitiva il vantaggio o danno per il privato può essere affiancato anche da una finalità pubblica che rappresenti una mera occasione o pretesto per coprire la condotta illecita.
La finalità pubblica non deve essere confusa con il fine politico dell’agente,con l’esigenza di dimostrare la propria capacità dl “governo” ai consociati, con la smania di protagonismo, con la finalità propagandistica,con l’aspirazione ad aumentare il consenso elettorale perché questi sono motivi egoistici che si pongono in antitesi con la finalità altruistica e collettiva che deve connotare la finalità pubblica (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.05.2011 n. 18895 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Impianto calcestruzzo amovibile.
E' illegittima l'autorizzazione provvisoria riguardante opere trasferibili e precarie (impianto di calcestruzzo amovibile) installate sul suolo agricolo posto che il concetto di opera contingente, momentanea e transitoria va parametrato con riferimento non alle dimensioni ma alla durata nel tempo dei bisogni che l'edificazione dell'opera intende soddisfare.
Pertanto, l'assenza di permesso a costruire comporta la sussistenza del reato di cui all'art. 44, lett. b, DPR 380/2001. Di converso, tale illegittimità non costituisce violazione di legge macroscopica idonea a provare ex se il dolo intenzionale del delitto di abuso d'ufficio (TRIBUNALE di Santa Maria C.V., sentenza 10.03.2011 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATAIl provvedimento di autorizzazione o concessione edilizia può essere accordato al proprietario dell’area o a chi ha titolo per richiederla, quale titolare di un diritto reale ovvero un diritto obbligatorio che accordi al richiedente la disponibilità del suolo o la potestà edificatoria, mentre una semplice relazione di fatto, ancorché tutelata, quale quella legata al mero possesso dell’area, non è idonea a conferire il diritto ad ottenere il rilascio del titolo concessorio.
Il richiedente il permesso di costruire deve, infatti, avere la disponibilità giuridica dell’area interessata alla costruzione in progetto, non essendo sufficiente la mera disponibilità di fatto di essa.
In altre parole, per edificare è necessario che il soggetto istante sia o il titolare del diritto di proprietà sul fondo o chi, pur essendo titolare di altro diritto, reale o di obbligazione, abbia, per effetto di questo obbligo o facoltà di eseguire i lavori per cui chiede il permesso, quindi, ad esempio, anche il locatario se il contratto di locazione reca l’esplicita o implicita, ma inequivocabile, autorizzazione all’esecuzione di dati interventi di trasformazione del bene in funzione dell’uso per il quale lo stesso è stato concesso ad altri.
E d’altra parte, certamente spetta al Comune la verifica del possesso del titolo, la cui mancanza impedisce all’Amministrazione di procedere oltre nell’esame del progetto.

In proposito devesi osservare che il provvedimento di autorizzazione o concessione edilizia può essere accordato al proprietario dell’area o a chi ha titolo per richiederla, quale titolare di un diritto reale ovvero un diritto obbligatorio che accordi al richiedente la disponibilità del suolo o la potestà edificatoria, mentre una semplice relazione di fatto, ancorché tutelata, quale quella legata al mero possesso dell’area, non è idonea a conferire il diritto ad ottenere il rilascio del titolo concessorio.
Il richiedente il permesso di costruire deve, infatti, avere la disponibilità giuridica dell’area interessata alla costruzione in progetto, non essendo sufficiente la mera disponibilità di fatto di essa.
Analogamente un richiesta di variante o la denuncia di inizio attività deve essere prodotta, ai sensi dell’art. 23, primo comma, del DPR 06.06.2001 n. 380, dal soggetto legittimato, ovvero dal proprietario dell’immobile o da chi abbia titolo per presentare la denuncia di inizio attività.
La formulazione ultima richiama, invero, quella dell’art. 11 del DPR 380/2001, a sua volta ispirata dall’art. 4 della legge 28.01.1977 n. 10.
In altre parole, per edificare è necessario che il soggetto istante sia o il titolare del diritto di proprietà sul fondo o chi, pur essendo titolare di altro diritto, reale o di obbligazione, abbia, per effetto di questo obbligo o facoltà di eseguire i lavori per cui chiede il permesso, quindi, ad esempio, anche il locatario se il contratto di locazione reca l’esplicita o implicita, ma inequivocabile, autorizzazione all’esecuzione di dati interventi di trasformazione del bene in funzione dell’uso per il quale lo stesso è stato concesso ad altri.
E d’altra parte, certamente spetta al Comune la verifica del possesso del titolo, la cui mancanza impedisce all’Amministrazione di procedere oltre nell’esame del progetto
(TAR Basilicata, sentenza 26.07.2010 n. 532 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIn tema di responsabilità dell’amministrazione per attività provvedimentale illegittima, il risarcimento del danno richiede la positiva verifica di tutti i presupposti previsti dalla legge e cioè, oltre alla lesione della situazione soggettiva tutelata dall’ordinamento e alle conseguenze pregiudizievoli immediate e dirette di essa, il positivo accertamento dell’ingiustizia di tale lesione, la colpa della P.A., la dimostrazione e quantificazione di specifiche perdite di possibilità alternative di guadagno e la sussistenza del nesso di causalità tra illecito e danno, fermo restando che fa capo alla parte ricorrente l’onere della prova in ordine al concreto pregiudizio subito e alla sua ingiustizia, che, nel caso di attività provvedi mentale ampliativa asseritamente illegittima della P.A., consiste nella dimostrazione della spettanza del bene della vita di cui si lamenta il mancato conseguimento.
In proposito è sufficiente osservare che in tema di responsabilità dell’amministrazione per attività provvedimentale illegittima, il risarcimento del danno richiede la positiva verifica di tutti i presupposti previsti dalla legge e cioè, oltre alla lesione della situazione soggettiva tutelata dall’ordinamento e alle conseguenze pregiudizievoli immediate e dirette di essa, il positivo accertamento dell’ingiustizia di tale lesione, la colpa della P.A., la dimostrazione e quantificazione di specifiche perdite di possibilità alternative di guadagno e la sussistenza del nesso di causalità tra illecito e danno, fermo restando che fa capo alla parte ricorrente l’onere della prova in ordine al concreto pregiudizio subito e alla sua ingiustizia, che, nel caso di attività provvedi mentale ampliativa asseritamente illegittima della P.A., consiste nella dimostrazione della spettanza del bene della vita di cui si lamenta il mancato conseguimento (TAR Basilicata, sentenza 26.07.2010 n. 532 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'annullamento di ufficio presuppone una congrua motivazione sull'interesse pubblico attuale e concreto a sostegno dell'esercizio discrezionale dei poteri di autotutela, con una adeguata ponderazione comparativa, che tenga anche conto dell'interesse dei destinatari dell'atto al mantenimento delle posizioni, che su di esso si sono consolidate e del conseguente affidamento derivante dal comportamento seguito dall'amministrazione.
Tale principio ha trovato da ultimo esplicito riscontro normativo nell'art. 14 della legge n. 15 del 2005, con il quale è stato introdotto l'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990.
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Il tempo successivo alla comunicazione di avvio del procedimento di riesame della validità della concessione edilizia deve ritenersi utile alla formazione di un legittimo affidamento in capo al privato titolare della medesima [nella fattispecie, la stessa sua abnormità ossia circa 14 mesi a fronte del termine legislativamente fissato in 30 giorni dall’art. 2 della legge n. 241/1990 nella versione ratione temporis applicabile alla fattispecie) rispetto al brevissimo termine (15 giorni) dato al privato stesso con detta comunicazione per la presentazione di memorie scritte, è indubbiamente valsa a rafforzare man mano, col trascorrere del tempo successivo alla scadenza del termine assegnato al privato per la utile partecipazione al procedimento, tale affidamento circa il consolidamento della propria posizione giuridica e dunque circa il mantenimento di validità ed efficacia del provvedimento ampliativo della sua sfera giuridica].
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L'emanazione di un provvedimento di carattere autoritativo, ovverosia in caso di esercizio del potere di autotutela, è potere tipicamente discrezionale della Pubblica amministrazione, che non ha alcun obbligo di attivarlo e, qualora intenda farlo, deve valutare la sussistenza o meno di un interesse che giustifichi la rimozione dell'atto, valutazione della quale essa sola è titolare e che non può ritenersi dovuta nel caso di una situazione già definita con provvedimento inoppugnabile.
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Sull'argomento v’è, invero, da osservare che questo Collegio si è già pronunciato su fattispecie del tutto analoghe relative a provvedimenti di annullamento d’ufficio di concessioni edilizie posti in essere dallo stesso Comune di Marino per gli stessi motivi ed in epoca coeva a quella dell’atto oggetto del presente giudizio, statuendo, con motivazioni e conclusioni del tutto pertinenti al caso di specie (v, per tutte, Cons. St., IV, 21.12.2009, n. 8526), che l'annullamento di ufficio presuppone una congrua motivazione sull'interesse pubblico attuale e concreto a sostegno dell'esercizio discrezionale dei poteri di autotutela, con una adeguata ponderazione comparativa, che tenga anche conto dell'interesse dei destinatari dell'atto al mantenimento delle posizioni, che su di esso si sono consolidate e del conseguente affidamento derivante dal comportamento seguito dall'amministrazione (cfr. Cons. St., sez. VI, 14/10/2004, n. 6656).
È appena il caso di soggiungere che tale principio, già enunciato dalla giurisprudenza amministrativa (invero già la risalente sentenza del Cons. St., VI, 24.12.1982, n. 721 affermava il principio, secondo cui la rimozione degli atti amministrativi illegittimi non deve pregiudicare l’interesse, cedevole solo a fronte di un più grave interesse pubblico, di chi sugli effetti di quell’atto abbia fatto affidamento), ha trovato da ultimo esplicito riscontro normativo nell'art. 14 della legge n. 15 del 2005, con il quale è stato introdotto l'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990.
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Quanto, poi, al legittimo affidamento maturato nel destinatario del titolo abilitativo in relazione al tempo intercorso dal rilascio del titolo illegittimo (e che occorra a tal fine far riferimento, quale momento iniziale di tale periodo giuridicamente rilevante, alla data di rilascio dello stesso e non invece, come pretende l’appellante senza peraltro nemmeno individuarla, a quella di inizio lavori, non v’è, a parere del Collegio, alcun dubbio, dal momento che è la concessione edilizia in quanto tale –e non certo l’inizio lavori, ch’è in facoltà del concessionario individuare in assoluta autonomia nel termine assegnatogli dalle condizioni apposte alla concessione stessa– a rappresentare il bene della vita, che, entrato al momento stesso del rilascio nella sfera patrimoniale e, trattandosi qui di soggetto imprenditoriale, economico-organizzativa dell’impresa, ne viene poi espunto con l’atto di annullamento), un chiaro difetto di motivazione si rileva nel provvedimento oggetto del presente giudizio, siccome adottato dall’Amministrazione nell’esercizio del potere di annullamento, laddove la frustrazione dell’affidamento ingenerato in capo al destinatario non risulta in alcun modo presa in considerazione dall’Amministrazione, nemmeno per affermare in ipotesi che nessuna situazione di affidamento fosse da ponderarsi ai fini della necessaria comparazione dell’incisione delle posizioni in rilievo (v. Cons. St., VI, 04.12.2006, n. 7102 ).
Sotto questo profilo, l’affermazione della difesa dell’appellante, secondo cui “il lasso di tempo intercorso tra la comunicazione di inizio lavori e la comunicazione di avvio del procedimento” dovrebbe ritenersi “non sufficiente a ritenere maturato in capo al concessionario un legittimo affidamento della validità della concessione tale da rendere non più possibile l’annullamento”, deve considerarsi, ancor prima che infondata, inammissibile, giacché indebitamente integra in sede giurisdizionale, con motivazione postuma e dunque nuova, il decisivo profilo motivazionale del provvedimento impugnato, per rimediare ad indubitabili carenze dello stesso.
Vero è, comunque, che l’affidamento dell’interessato non è stato affatto valutato dal Comune nell’esercizio del potere di autotutela e che, pur consapevole dell’esigenza dell’individuazione del giusto punto di equilibrio tra il diritto del cittadino alla tutela dell’affidamento in lui ingenerato dal rilascio del titolo e dal successivo trascorrere del tempo in assenza di provvedimenti inibitori dell’attività edilizia assentita e la necessità per il potere pubblico di esercitare la propria discrezionalità tecnica nel procedimento di riesame mediante un adeguato iter istruttorio, il Collegio non può non considerare abnorme, anche in considerazione della non particolare complessità quali-quantitativa dell’istruttoria risultante dagli atti, il provvedimento di annullamento di cui si discute, nella misura in cui è intervenuto, come sopra rilevato, circa 29 mesi dopo il rilascio dell’atto annullato (quando i relativi lavori erano terminati da quasi quattro mesi) e 14 mesi dopo la relativa comunicazione di avvio del procedimento di riesame.
Né può condividersi l’assunto dell’Amministrazione, secondo cui non rileverebbe, ai fini della valutazione dell’affidamento del privato, “il tempo decorso successivamente alla comunicazione dell’avvio del procedimento” (ch’è proprio quello, peraltro, che risulta invece determinante, ad avviso del Collegio, ai fini della veduta qualificazione di abnormità), atteso che, in assenza dell’esercizio da parte dell’Amministrazione, in un momento contestuale o successivo a detta comunicazione, di qualsivoglia potere cautelare (riconosciuto in via generale dalla giurisprudenza ancor prima del riconoscimento normativo poi operatone dal comma 2 dell’art. 21-quater della legge n. 241/1990, previsto inoltre nella specifica materia del governo del territorio dagli artt. 27 e 39 del D.P.R. n. 327/2001 sub specie “sospensione lavori” e del tutto incongruamente qui esercitato dal Comune solo contestualmente al provvedimento di annullamento, quando i lavori erano da tempo terminati), alla comunicazione stessa non può che riconoscersi la sola funzione sua propria di assicurare all’interessato la partecipazione al procedimento amministrativo e non certo quella ulteriore, che incongruamente il Comune pretende di attribuirle, di affievolire il suo affidamento sulla legittimità della concessione, assistita da presunzione di validità fino al suo annullamento, una volta che nemmeno l’Amministrazione abbia ritenuto di sospenderne tempestivamente, con gli strumenti datile dall’ordinamento, l’efficacia.
Non solo, dunque, a differenza di quanto sostenuto dall’appellante, il tempo successivo alla comunicazione di avvio del procedimento di riesame della validità della concessione edilizia deve ritenersi utile alla formazione di un legittimo affidamento in capo al privato titolare della medesima, ma la stessa sua abnormità (nella fattispecie circa 14 mesi a fronte del termine legislativamente fissato in 30 giorni dall’art. 2 della legge n. 241/1990 nella versione ratione temporis applicabile alla fattispecie) rispetto al brevissimo termine (15 giorni) dato al privato stesso con detta comunicazione per la presentazione di memorie scritte, è indubbiamente valsa a rafforzare man mano, col trascorrere del tempo successivo alla scadenza del termine assegnato al privato per la utile partecipazione al procedimento, tale affidamento circa il consolidamento della propria posizione giuridica e dunque circa il mantenimento di validità ed efficacia del provvedimento ampliativo della sua sfera giuridica.
Né il privato medesimo, come pure erroneamente sostiene l’Amministrazione, in quanto “avvisato del rischio di un eventuale annullamento”, per “avere certezza della sua situazione giuridica soggettiva”, avrebbe dovuto “mettere in mora l’amministrazione per una conclusione tempestiva del procedimento” ( pag. 7 app. ).
Se, infatti, da un lato la pubblica amministrazione ha l’obbligo di portare a compimento i procedimenti amministrativi con un’azione definita tanto nei modi dalle varie disposizioni che regolano il procedimento amministrativo in generale e le singole fattispecie di procedimento (in relazione a quello ch’è al tempo stesso il suo atto conclusivo ed il fine espresso per il quale il procedimento stesso è stato instaurato) quanto nei tempi concessi per la sua definizione (art. 2 della legge n. 241/1990) e dall’altro al soggetto, che a tale definizione sia interessato, è concesso di attivare la procedura per la rimozione dell’inerzia amministrativa con il nuovo rito previsto dall’art. 2 della legge n. 205/2000, comunque le procedure e gli strumenti di tutela previsti dall'ordinamento contro l'inerzia dell'amministrazione si riferiscono invero ai casi, nei quali sia riscontrabile l'inadempimento da parte dell'autorità ad un obbligo di provvedere sulla istanza del privato tendente a sollecitare l'esercizio di un pubblico potere e, quindi, l'emanazione di un provvedimento di carattere autoritativo; per cui si palesa evidente la insussistenza di tali presupposti in caso di esercizio del potere di autotutela, ch’è potere tipicamente discrezionale della Pubblica amministrazione, che non ha alcun obbligo di attivarlo e, qualora intenda farlo, deve valutare la sussistenza o meno di un interesse che giustifichi la rimozione dell'atto, valutazione della quale essa sola è titolare e che non può ritenersi dovuta nel caso di una situazione già definita con provvedimento inoppugnabile.
Dato, peraltro, che la certezza delle situazioni giuridiche definite è essa stessa un bene irrinunciabile, posto a tutela dei cittadini (Cons. St., VI, 01.04.1992, n. 201), la stessa non può certo considerarsi attenuata, come già detto, da una mera comunicazione di avvio del procedimento inteso all’adozione di provvedimenti di annullamento o di modifica di precedenti determinazioni, una volta che dal concreto svolgersi del procedimento stesso il privato abbia buoni motivi di evincere l’abbandono, da parte della P.A., della volontà di provvedere nuovamente, sacrificando il suo interesse al mantenimento dell’efficacia del provvedimento, sul rapporto come delineato dal provvedimento stesso; e ciò in ragione dell’evidente irragionevolezza di un intervento di tal fatta in relazione al tempo che va trascorrendo rispetto al momento in cui, in forza proprio di quel provvedimento, la sua sfera giuridico-patrimoniale s’è arricchita di un bene nuovo, come pure in ragione del palese contrasto con i principi di ragionevolezza, proporzionalità e correttezza dell’azione amministrativa di un atto di ritiro, che sopraggiunga 14 mesi dopo l’inizio del relativo procedimento, senza, peraltro, recare né i “segni” di una istruttoria particolarmente laboriosa e ponderosa, né, come s’è visto, la puntuale esternazione (con adeguata motivazione della scelta effettuata) delle ragioni, per le quali si ritiene prevalente l’interesse pubblico e recessivo quello privato.
Ne deriva che l’affidamento maturato in capo all’odierna appellata in relazione al rilascio della concessione edilizia poi annullata non presenta margini di incertezza sufficientemente apprezzabili, rilevando semmai il mancato utilizzo, da parte dell’interessato, della facoltà di sollecitare l’Amministrazione alla conclusione del procedimento di riesame, più che sulla legittimità del provvedimento alfine adottato all’ésito del procedimento stesso, in un’eventuale sede risarcitoria, estranea all’oggetto del presente giudizio come risultante dalla devoluzione operatane con l’atto di appello.
Quanto, poi, alla verifica, richiesta al Giudice di legittimità, della correttezza della valutazione effettuata dall’Amministrazione circa la sussistenza di elementi ulteriori rispetto a quello della mera illegittimità dell’atto da eliminare, essa va in ogni caso compiuta sulla base dell’effettiva e specifica situazione creatasi a séguito del rilascio dell’atto abilitativo e della situazione, che si determina a séguito del suo ritiro.
Una simile valutazione risulta nel caso di specie viziata, come correttamente rilevato dal TAR, in ordine alla omessa considerazione, da parte dell’Amministrazione, in sede di adozione dell’atto di ritiro, della “incidenza specifica dell’immobile in questione sulla vivibilità e funzionalità dell’intero insediamento abitativo, anche in considerazione dell’imminente approvazione, da parte dell’Autorità regionale, della nuova Variante Generale al P.R.G. adottata dal Comune di Marino con deliberazione consiliare n. 62 del 24.11.2000, in base alla quale l’intervento realizzato dalla ricorrente doveva ritenersi pienamente rispondente agli indici di fabbricabilità ivi contemplati” (pag. 7 sent.).
Ciò non significa, si badi, che il tecnico chiamato a verificare la conformità urbanistica dell’intervento già assentito e la sussistenza delle condizioni per l’annullamento dell’atto abilitativo avrebbe dovuto (illegittimamente, come ha buon gioco ad affermare l’odierno appellante) “anticipare gli effetti del nuovo e non ancora approvato P.R.G.” (pag. 8 app.).
Ciò significa invece, piuttosto, che l’intervenuta adozione di una variante al P.R.G., nella quale incontestatamente le nuove norme prevedono il solo intervento diretto per la sottozona in questione, all’uopo riprendendo l’indice fondiario da quello della Tabella “A” delle norme tecniche del vigente P.R.G. (e quindi proprio l’indice, di cui è stata fatta applicazione in sede di rilascio della concessione edilizia oggetto del qui controverso atto di annullamento), doveva portare logicamente l’organo agente in autotutela ad escludere la intervenuta menomazione, per effetto dell’effettuato rilascio della concessione edilizia pur pacificamente illegittima, di interessi (nella fattispecie quello ad “un adeguato apporto di standard urbanistici”, che l’illegittimo “incremento volumetrico verrebbe inevitabilmente a compromettere in modo irreparabile”: così, come s’è visto, la motivazione del provvedimento oggetto del giudizio), che lo stesso Comune, con lo strumento di una Variante al piano in corso di approvazione (che sarebbe poi intervenuta circa un mese dopo l’adozione dell’atto di ritiro di cui si tratta e che deve ritenersi assistita, in virtù del regime di pubblicità che la contraddistingue, dal carattere della notorietà), laddove, al secondo comma dell’art. 30 delle nuove NN.TT.A., stabilisce che “la variante generale conferma i caratteri edilizi consolidati con l’attuazione del vigente P.R.G.” e laddove conseguentemente (come s’è già detto) prevede il solo intervento diretto per le sottozone “B4” e “B5” con un indice fondiario pari a quello applicato per il rilascio della concessione edilizia annullata, ha ritenuto invece recessivi o comunque adeguatamente soddisfatti dagli standards urbanistici esistenti.
Ne risulta, in definitiva, una valutazione della sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale all’adozione dell’atto di ritiro (che, si ricorda, dev’essere diverso dal mero ripristino della legalità), illogica e contraddittoria rispetto alla valutazione dello stesso interesse pubblico compiuta in sede di nuove scelte di pianificazione urbanistica; e se ciò non vale certo a rendere dette scelte applicabili alla fattispecie relativa alla pratica edilizia de qua (che si sottrae ratione temporis alla loro operatività, sì che esse rilevano, come correttamente deduce il Comune, per un eventuale accertamento di conformità ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001), siffatta incongruità rende l’atto di ritiro stesso, anche in relazione al già veduto lasso di tempo trascorso dal rilascio della concessione edilizia oggetto di annullamento ed alla intervenuta pacifica esecuzione dei relativi lavori, inidoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato.
Detto sacrificio, peraltro, non risulta nemmeno legittimato da una adeguata attività istruttoria quanto all’affermata mancanza, posta nell’atto di ritiro a supporto della ritenuta compromissione ad opera dell’illegittima concessione edilizia di “un sufficiente grado di funzionalità e vivibilità dell’attuale insediamento abitativo” (così, sempre, la veduta motivazione), di “un adeguato supporto di standard urbanistici”.
Per escludere, invero, l’applicazione delle direttive impartite con la propria precedente deliberazione n. 50 in data 29.10.2001, lo stesso Consiglio Comunale, con la successiva deliberazione n. 45/2003, riteneva necessarie “puntuali verifiche in mérito alla esistenza delle opere di urbanizzazione nella qualità e nella quantità previste dalle N.T.A. del vigente P.R.G. per le zone B”.
Se è vero, dunque, che il P.R.G. stabilisce un diverso indice fondiario a seconda dell’intervenuta adozione o meno di Piani Particolareggiati ovvero di Piani di Lottizzazione Convenzionati e se è altrettanto vero che la valutazione del grado di urbanizzazione dell’area va effettuata in relazione alla adeguatezza e fruibilità delle opere di urbanizzazione medesime tenuto conto sia della consistenza dell’intervento di cui si tratti sia della situazione esistente dell’intera zona (il che vale ad escludere che il dovuto accertamento possa ritenersi, come pretende in questa sede l’appellante peraltro in contrasto con le precedenti vedute sue determinazioni, contenuto nelle stesse norme tecniche di attuazione del P.R.G. allora vigente), la prova rigorosa della non esistenza e non sufficienza delle opere di urbanizzazione, quale elemento imprescindibile dell’istruttoria del procedimento di cui si tratta, spetta indubbiamente all’Amministrazione.
Orbene, proprio in relazione a tale valutazione in concreto (come s’è visto) ritenuta necessaria dallo stesso organo di indirizzo politico-amministrativo deve notarsi come né il provvedimento oggetto del giudizio, né gli atti della relativa istruttoria  ed in particolare la relazione del Responsabile del Procedimento), non illustrino per nulla l’accertamento effettuato in ordine alla esistenza o meno di dette opere con particolare riferimento alla loro consistenza ed eventuale insufficienza a sopportare l’incremento del carico urbanistico discendente dall’intervento illegittimamente assentito; e ciò a maggior ragione, in presenza di una pregressa valutazione, da parte del Consiglio Comunale, in sede di adozione delle predette nuove scelte pianificatòrie (pur non direttamente rilevanti, come già detto, nel procedimento di cui si tratta), di sostanziale sufficienza degli standards urbanistici nella sottozona de qua.
Né è condivisibile il ribaltamento dell’onere della prova, che l’Amministrazione tenta in proposito di operare nell’atto di appello.
Occorre invero notare che il fatto, di cui deve dare in tal caso prova la pubblica amministrazione, è un fatto negativo (ossia la mancanza di un determinato elemento, assunta a presupposto della valutazione dell’interesse pubblico posto a base dell’atto impugnato); e la relativa prova non può che essere riportata all’interno dell’obbligo generale incombente sull’Amministrazione di acquisizione completa dei fatti (con correlato onere di trasparenza ed accessibilità) nella sede procedimentale, la cui funzione ordinatrice (essendo il procedimento strumento di affermazione del principio di conformità dell'azione, attribuendo significato all'attività amministrativa, in seno alla quale la fattispecie legale è destinata a realizzarsi: Cons. St., IV, 21.10.2008, n. 5154) rende rilevanti, sotto il profilo della produzione degli effetti definitivi che il provvedimento conclusivo è destinato a produrre, tutti quegli atti ("materiale amministrativo"), che sono stati utilizzati a tal fine e che comunque incidono sul risultato finale.
Una volta, sulla base delle considerazioni di cui sopra, accertata l’illegittimità del provvedimento di ritiro di cui si tratta per la mancanza di idonea specifica motivazione atta a dimostrare le ragioni che lo sostengono, non può trovare infine nemmeno adesione l’invocato richiamo, effettuato dall’Amministrazione nell’atto di appello, al disposto dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990.
Avendo, invero, il provvedimento, di cui all’art. 21-nonies della legge n. 241/1990, carattere tipicamente discrezionale (Cons. St., V, 07.01.2009, n. 17), l’Amministrazione, al fine di escludere l’effetto invalidante del vizio procedimentale ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della stessa legge, ha l’onere di dimostrare che, anche alla luce della comparazione con gli affidamenti ingenerati e di una completa valutazione delle posizioni antagoniste, la determinazione di ritiro sia l’unico sbocco decisionale possibile a séguito del riscontro della illegittimità dell’atto oggetto di ritiro.
Orbene, una tale dimostrazione manca del tutto nelle deduzioni dell’appellante, che pone a base della affermata “evidenza” circa un non possibile diverso ésito del procedimento:
- il “palese ed accertato contrasto della concessione annullata con le norme di piano regolatore indicate nel provvedimento”, dimenticando che non è qui in discussione la sussistenza o meno di siffatto “contrasto”, quanto, piuttosto, la necessità che, nell’ipotesi in cui la legittimità dell'opera edilizia dipenda da valutazioni discrezionali e di merito tecnico che possono mutare nel tempo, il potere di autotutela risulti opportunamente coordinato con il principio di certezza dei rapporti giuridici e di salvaguardia del legittimo affidamento del privato nei confronti dell'attività amministrativa (Cons. St., IV, 25.01.2008, n. 5811);
- “il parere del tecnico comunale del 17.10.2003, in cui vengono evidenziate in maniera dettagliata le necessità urbanistiche dell’area”: parere, questo, che, come s’è visto, si configura invero come atto infraprocedimentale privo di qualsivoglia riferimento alla necessaria e ponderata valutazione comparativa degli interessi contrapposti in considerazione e privo altresì di una accettabile, concreta e compiuta verifica quanto a quella asserita mancanza di “adeguato supporto di standard urbanistici”, che il provvedimento conclusivo assume come presupposto dell’interesse pubblico, posto a base del provvedimento stesso, alla non compromissione del “già precario assetto urbanistico-edilizio della zona B4 interessata”;
- il “fatto che lo stesso TAR Lazio, in altre vicende similari, riguardanti sempre il Comune di Marino ed ambiti omogenei di P.R.G. equivalenti a quelli in esame, ha ritenuto invece di non annullare i provvedimenti di annullamento in autotutela proprio perché è stata riconosciuta l’insufficienza degli standard per cui è causa”: assunto, questo, che pretende indebitamente di porre a supporto del procedimento di cui si tratta pronunce giurisprudenziali ad esso estranee e successive, peraltro nemmeno passate in giudicato e comunque facenti stato, com’è noto, solo tra le parti, che risultano diverse da quelle del procedimento di autotutela, di cui si tratta.
L’Amministrazione, insomma, neanche nella sede giudiziaria è stata in grado di dimostrare l’ineluttabilità del contrastato provvedimento mediante la puntuale esplicitazione o di ragioni già emergenti dall’istruttoria e rimaste inespresse, o di accertamenti nel corso della stessa effettuati e suscettibili di caratterizzare il provvedimento stesso come necessitato, o di richiami normativi prima non risultanti dal provvedimento, ovvero di nuove, adeguate, giustificazioni sottese alla scelta discrezionale compiuta con l’atto; il che vale, in definitiva, ad escludere l’applicabilità, nella fattispecie, dell’art. 21-octies, comma 2, seconda parte, della legge n. 241 del 1990.
L’appello, in definitiva, è da respingere
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.04.2010 n. 2178 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’annullamento d’ufficio di concessione edilizia non necessita di specifica motivazione sul pubblico interesse, specie se sia disposto in considerazione della natura permanente del contrasto con lo strumento urbanistico e soprattutto se interviene dopo un breve lasso di tempo dal rilascio dei titoli senza che l’edificazione sia stata ultimata.
Invero, secondo consolidata giurisprudenza, l’annullamento d’ufficio di concessione edilizia non necessita di specifica motivazione sul pubblico interesse, specie se sia disposto in considerazione della natura permanente del contrasto con lo strumento urbanistico e soprattutto se interviene dopo un breve lasso di tempo dal rilascio dei titoli senza che l’edificazione sia stata ultimata (cfr. Cons. Stato, V Sez., n. 211/1997; n. 1567/1995 e n. 187/1995) (Nel caso de quo, l’intervallo temporale fra rilascio della concessione ed intervento di autotutela va letto tenendo della sospensione temporale operata dal provvedimento di sequestro dell’area) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.10.2007 n. 5601 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAlcuni brevi cenni sul potere di annullamento ministeriale attribuito dall’art. 82 del D.P.R. n. 616 del 1977, relativamente a nulla-osta, autorizzazioni et similia rilasciati dalla Regione o da altri Enti locali sub-delegati, specificamente in materia paesaggistico-ambientale.
Per una migliore comprensione della controversia all’esame del Collegio giova premettere alcuni brevi cenni sul potere di annullamento ministeriale attribuito dall’art. 82 del D.P.R. n. 616 del 1977, relativamente a nulla-osta, autorizzazioni et similia rilasciati dalla Regione o da altri Enti locali sub-delegati, specificamente in materia paesaggistico-ambientale.
Il predetto potere trova il suo fondamento nella competenza, sicuramente prevalente, spettante allo Stato in materia di tutela del paesaggio e, più in generale, dell’Ambiente, inteso come bene unitario ed indivisibile di cui, ai sensi dell’art. 9 Cost. risulta titolare direttamente lo Stato. Se poi le relative funzioni vengono, in concreto, esercitate, in prima battuta, dall’Ente Regione delegata o da altri Enti locali sub-delegati, ciò avviene in conseguenza del principio costituzionale decentramento amministrativo (art. 5 Cost.), vieppiù accentuato dalle recenti Riforme ispirate al c.d. principio di sussidiarietà, di derivazione comunitaria, in forza del quale si verifica un generalizzato slittamento verso il basso dell’esercizio di tutte le funzioni amministrative, attraverso un meccanismo di deleghe e di sub-deleghe che lasciano al livello istituzionale sovrastante un ruolo di intervento residuale e suppletivo.
In buona sostanza, il potere di annullamento ministeriale esercitato dal Ministero dei Beni culturali ed ambientali ex art. 82 del D.P.R. n. 616 del 1977, si configura come un potere di ultima istanza a tutela di una competenza propria dello Stato a salvaguardia dell’interesse pubblico al paesaggio ed all’ambiente (Cfr. art. 9 Cost.), in un settore in cui sussistono ulteriori interessi pubblici, quale quello all’ordinato sviluppo urbanistico del territorio, facente capo agli enti territoriali di base, e privati che potenzialmente potrebbero trovarsi in contrapposizione con quello alla tutela dell’Ambiente (inteso come habitat naturale per l’esistenza stessa dell’uomo ed, in genere, della vita), la qual cosa rende necessario ed urgente trovare un equilibrio fra i predetti interessi, rendendo compatibili le scelte urbanistiche con l’articolato e complesso sistema di vincoli posti, direttamente o indirettamente, dal Legislatore a tutela del territorio.
Un tale contemperamento è preferibile avvenga “a monte”, con l’apposita previsione e predisposizione di piani paesaggistici di primo livello che condizionano le scelte urbanistiche dei Comuni in occasione dell’adozione dei Piani regolatori generali (P.R.G.), stabilendo se, e con quali modalità ed entro quali limiti, tenuto conto della totalità dei vincoli preesistenti gravanti sul territorio (anche coincidente con l’intero Comune), ai sensi delle varie leggi succedutesi nel tempo -prima fra tutte la fondamentale L. n. 1497 del 1939- il potere comunale urbanistico di pianificazione possa trovare pratica e legittima estrinsecazione.
Tale è il sistema organico a cui si è ispirata la L. n. 431 del 1985 che si riprometteva di dare una soluzione radicale e generalizzata all’annoso problema del contemperamento dei due interessi pubblici in esame, sempre in potenziale conflitto, sì da evitare la disdicevole situazione per cui un’area considerata urbanizzabile per il P.R.G., trovasse, poi, impedimenti ad una tale destinazione a cagione della diversa considerazione operata sotto il profilo paesaggistico, per la presenza di vincoli, almeno in origine, prevalenti.
Purtroppo il sistema su delineato, implicante la fattiva collaborazione di una pluralità di soggetti, pubblici e privati, per più svariate cause -non sempre commendevoli- non sempre ha funzionato bene per cui rimane sempre attuale e determinante quel potere di ultima istanza di annullamento ex art. 82 del D.P.R. n. 616 del 1977 che il Ministro per i Beni culturali ed ambientali può esercitare, in via di autotutela, a salvaguardia di beni unitari ed indivisibili che, per l’art. 9 Cost., spettano in esclusiva allo Stato.
Ma, se tale è la ratio del potere in esame, è, altresì, evidente che il suo esercizio, venendo ad incidere sul diritto di proprietà dei cittadini, pure costituzionalmente rilevante (art. 42 Cost.), non può che esercitarsi entro rigorosi limiti temporali, anche per ovvie esigenze di certezza del diritto. Allora il legislatore ha disciplinato il potere in questione in capo al Ministro per i beni culturali ed ambientali ovvero alla Soprintendenza ai B.A.A.A.S in modo tale che esso debba esercitarsi entro il ristretto arco di tempo di giorni sessanta da quando la documentazione afferente all’autorizzazione o nulla-osta paesaggistico gli è pervenuta completa.
Secondo consolidata giurisprudenza (Cfr: C. di S., Sez. VI, 25.09.1995, n. 963, TAR Campania, Salerno, 04.06.1997, n. 351), che si ritiene senz’altro da preferire rispetto a quella minoritaria, di segno contrario, richiamata dal ricorrente, il suddetto termine attiene esclusivamente all’esercizio del potere di annullamento, sicché è necessario (e sufficiente) che entro giorni 60 il relativo provvedimento sia stato emanato, ma non anche comunicato ai destinatari. Non sussiste, infatti, alcuna specifica indicazione normativa dalla quale possa desumersi la natura recettizio del decreto di annullamento, sicché l’ulteriore adempimento della sua comunicazione è da considerarsi afferente esclusivamente alla fase di integrazione degli effetti dell’atto, allo scopo di far decorrere il termine per l’eventuale impugnativa (C. di S. , Sez. VI, 03.02.1998, n. 131)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 10.04.2007 n. 3193 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAllorquando l’annullamento in autotutela della concessione edilizia da parte del Comune viene disposto non per ragioni prettamente urbanistiche, ma, doverosamente, in conseguenza di un provvedimento di annullamento ministeriale del nulla-osta paesaggistico, l’interesse pubblico all’annullamento è in re ipsa per l’assoluta preminenza dei valori di rango costituzionale (Cfr. art. 9 Cost.) sottesi ad entrambi gli atti di autotutela posti in essere.
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L'annullamento, in autotutela, di una concessione edilizia non deve essere preceduto dal parere della Commissione edilizia nel caso in cui il provvedimento sia sorretto unicamente da valutazioni logico-giuridiche (come quando si renda necessario adeguarsi all’annullamento ministeriale del nulla-osta paesaggistico) e non anche e solo da valutazioni di ordine tecnico-edilizio.
Secondo la giurisprudenza il parere della commissione comunale edilizia non è necessario per la revoca di una licenza edilizia laddove non venga richiesto alcun apprezzamento tecnico di competenza dell'organo consultivo ed il provvedimento di autotutela venga adottato per ragioni strettamente giuridiche.

Q
uanto all’ulteriore argomento secondo cui a distanza di sette anni dalla realizzazione delle opere occorrerebbe un adeguata motivazione circa la sussistenza di un interesse pubblico attuale ad operare l’annullamento in sede di autotutela, considerando anche il consolidamento delle situazioni giuridiche degli interessati, basterà rilevare che, allorquando l’annullamento in autotutela della concessione edilizia da parte del Comune viene disposto non per ragioni prettamente urbanistiche, ma, doverosamente, in conseguenza di un provvedimento di annullamento ministeriale del nulla-osta paesaggistico, l’interesse pubblico all’annullamento è in re ipsa per l’assoluta preminenza dei valori di rango costituzionale (Cfr. art. 9 Cost.) sottesi ad entrambi gli atti di autotutela posti in essere.
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Infondata, quindi, è anche l’ultima censura atteso che l'annullamento, in autotutela, di una concessione edilizia non deve essere preceduto dal parere della Commissione edilizia nel caso in cui il provvedimento sia sorretto unicamente da valutazioni logico-giuridiche (come quando si renda necessario adeguarsi all’annullamento ministeriale del nulla-osta paesaggistico) e non anche e solo da valutazioni di ordine tecnico-edilizio.
Secondo la giurisprudenza il parere della commissione comunale edilizia non è necessario per la revoca di una licenza edilizia laddove non venga richiesto alcun apprezzamento tecnico di competenza dell'organo consultivo ed il provvedimento di autotutela venga adottato per ragioni strettamente giuridiche (TAR Sicilia Catania, 29.12.1981, n. 639)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 10.04.2007 n. 3193 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'annullamento della concessione risulta giustificato dalla necessità di applicazione di norme volte a tutelare interessi pubblici, quali quelle relative alla distanza tra fabbricati, che essendo inderogabili rendono sostanzialmente vincolata l’iniziativa assunta dal Comune.
Il quarto motivo è volto a riproporre le doglianze in ordine alla asserita inesistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla eliminazione dell'atto concessorio, prevalente sul contrapposto interesse del privato.
A tali argomentazioni è agevole replicare che, nel caso di specie, come espressamente indicato nel provvedimento impugnato, l'annullamento della concessione risultava giustificato dalla necessità di applicazione di norme volte a tutelare interessi pubblici, quali quelle relative alla distanza tra fabbricati, che essendo inderogabili rendevano sostanzialmente vincolata l’iniziativa assunta dal Comune (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 12.07.2002, n. 3929) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.05.2006 n. 3201 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa clausola relativa alla salvezza dei diritti dei terzi deve intendersi nel senso che non incombe all'autorità che rilascia la concessione di compiere complesse ricognizioni giuridico-documentali ovvero accertamenti in ordine ad eventuali pretese che potrebbero essere avanzate da soggetti estranei al rapporto concessorio, essendo sufficiente per l’Amministrazione l’acquisizione del titolo che formalmente abiliti alla concessione.
La clausola relativa alla salvezza dei diritti dei terzi, d’altronde, deve intendersi nel senso che non incombe all'autorità che rilascia la concessione di compiere complesse ricognizioni giuridico-documentali ovvero accertamenti in ordine ad eventuali pretese che potrebbero essere avanzate da soggetti estranei al rapporto concessorio, essendo sufficiente per l’Amministrazione l’acquisizione del titolo che formalmente abiliti alla concessione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 02.10.2002, n. 5165) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.05.2006 n. 3201 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl mero ritardo nell'adempimento degli obblighi procedimentali non comporta, per ciò solo, la possibilità del risarcimento danni per responsabilità dell'Amministrazione, ove non si riscontri la sussistenza di un interesse pretensivo del privato che abbia per oggetto la tutela di interessi sostanziali, come nel caso di mancata emanazione o di ritardo nella emanazione di un provvedimento amministrativo vantaggioso per l'interessato.
P
er quanto riguarda, infine, la contestuale richiesta intesa ad ottenere il risarcimento dei danni, essa non può che venire disattesa in questa sede, dovendosi condividere l'autorevole orientamento giurisprudenziale secondo cui il mero ritardo nell'adempimento degli obblighi procedimentali non comporta, per ciò solo, la possibilità del risarcimento danni per responsabilità dell'Amministrazione, ove non si riscontri la sussistenza di un interesse pretensivo del privato che abbia per oggetto la tutela di interessi sostanziali, come nel caso di mancata emanazione o di ritardo nella emanazione di un provvedimento amministrativo vantaggioso per l'interessato (Cons. Stato, Ad. Plen. 15.09.2005, n. 7) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.05.2006 n. 3201 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon appare neppure condivisibile l’ultima censura dedotta in ricorso e cioè la mancanza dell’interesse pubblico all’annullamento della rilasciata concessione in variante, dal momento che, oramai per giurisprudenza costante, va ritenuto che quando il provvedimento di autotutela si basa sul contrasto dell’opera da realizzare con gli strumenti urbanistici l’interesse pubblico all’annullamento è in re ipsa e non è necessaria una specifica motivazione al riguardo.
Oltre tutto il breve lasso di tempo intercorso tra il rilascio della concessione e il suo annullamento (circa sei mesi), peraltro rilevato dalla motivazione del provvedimento stesso laddove si specifica che non sono neppure iniziati i lavori di costruzione, essendo limitati ad un parziale sbancamento, impedisce che si siano consolidate posizioni soggettive anche di affidamento sì da rendere necessaria una precisa e puntuale motivazione in ordine al detto interesse pubblico.

Non appare neppure condivisibile l’ultima censura dedotta in ricorso e cioè la mancanza dell’interesse pubblico all’annullamento della rilasciata concessione in variante, dal momento che, oramai per giurisprudenza costante, va ritenuto che quando il provvedimento di autotutela si basa sul contrasto dell’opera da realizzare con gli strumenti urbanistici l’interesse pubblico all’annullamento è in re ipsa e non è necessaria una specifica motivazione al riguardo (TAR Veneto, sez. II, 09.10.2003, n. 5227).
Oltre tutto il breve lasso di tempo intercorso tra il rilascio della concessione e il suo annullamento (circa sei mesi), peraltro rilevato dalla motivazione del provvedimento stesso laddove si specifica che non sono neppure iniziati i lavori di costruzione, essendo limitati ad un parziale sbancamento, impedisce che si siano consolidate posizioni soggettive anche di affidamento sì da rendere necessaria una precisa e puntuale motivazione in ordine al detto interesse pubblico (TAR Sicilia, Catania, sez. I, 17.06.2003, n. 965) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 15.06.2005 n. 1110 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn presenza della realizzazione di una significativa parte delle opere assentite, non può l’Amministrazione, tornando, dopo oltre un anno, sul titolo concessorio rilasciato, disporne l’annullamento per semplici ragioni di ripristino della legalità.
E, invero, correttamente il TAR ha escluso che il provvedimento di annullamento di concessione edilizia fosse correttamente motivato sotto il profilo dell’interesse pubblico e della comparazione con quello privato.
In presenza, infatti, come nella specie, della realizzazione di una significativa parte delle opere assentite, non può l’Amministrazione, tornando, dopo oltre un anno, sul titolo concessorio rilasciato, disporne l’annullamento per semplici ragioni di ripristino della legalità; e ciò tanto più dopo avere assunto, nel tempo (e, precisamente, a partire dal 1988), a favore della Cooperativa, una serie di determinazioni, mai rimosse dal mondo giuridico (sebbene pure esse adottate nell’asserita assenza di validità del P. di Z.), tali da avere determinato un più che valido e legittimo affidamento, da parte della Cooperativa stessa, in merito alla realizzabilità dell’intervento, concretizzatasi, poi, con il rilascio del contestato titolo edificatorio (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.11.2003 n. 7218 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl potere di annullamento di una concessione edilizia prescinde dalla valutazione del pubblico interesse, che è in re ipsa.
... considerato che il potere di annullamento ex art. 98 L.R. 61/1985 (ndr: annullamento dei provvedimenti comunali, da parte del consiglio provinciale) prescinde dalla valutazione del pubblico interesse, che è in re ipsa (cfr. Cons. St., IV, 16.03.1998 n. 443) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 09.10.2003 n. 5227 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAl momento dell’adozione del provvedimento di annullamento, della concessione edilizia, erano già stati da tempo realizzati i lavori di costruzione della rimessa e si era già innescata, tra interessati e Comune, una precedente vicenda contenziosa in quanto gli odierni appellanti, nel realizzare l’opera, non si sarebbero conformati al titolo edificatorio del 1992.
Ebbene, è da ritenere, in questa situazione, che gli interessati abbiano maturato un legittimo affidamento in merito alla realizzabilità delle opere in questione (e alla loro piena conformità alle disposizioni contenute nello strumento pianificatorio), quanto meno se e in quanto rispettosa dei limiti fissati in concessione; anzi, il fatto che la contestazione del 1994 avesse rilevato solo una eccedenza di altezza non consentita e non avesse, per contro, nulla dedotto in merito alla sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto preordinati al rilascio del titolo edificatorio, va rivisto come elemento capace di radicare ulteriormente, nel privato, il convincimento in merito alla legittimità, sotto tali profili, del titolo stesso.
Con la conseguenza che gli ulteriori provvedimenti del 2002 appaiono adottati ad una distanza di tempo tale da richiedere l’idonea motivazione di cui si è detto; motivazione (tanto più necessaria allorché, come nella specie, siano passati altri sette anni prima dell’adozione, da parte dell’Amministrazione, delle iniziative demolitorie di cui si tratta) che, per ciò stesso, non può essere legata al puro e semplice ripristino della legalità, ma deve dar conto della sussistenza di un interesse pubblico attuale e concreto alla rimozione del titolo in questione (ad esempio, per significative ragioni legate alla tutela della igiene e sanità, della sicurezza, dell’ambiente etc.) e della comparazione tra tale interesse e l’entità del sacrificio imposto all’interesse del privato.

Osserva, però, il Collegio che, al momento dell’adozione del provvedimento di annullamento del 1995, erano già stati da tempo realizzati i lavori di costruzione della rimessa e che, inoltre, si era innescata, tra interessati e Comune, una precedente vicenda contenziosa (definita con la citata sentenza di improcedibilità n. 349/2001) in quanto gli odierni appellanti, nel realizzare l’opera, non si sarebbero conformati al titolo edificatorio del 1992.
Ebbene, è da ritenere, in questa situazione, che gli interessati abbiano maturato un legittimo affidamento in merito alla realizzabilità delle opere in questione (e alla loro piena conformità alle disposizioni contenute nello strumento pianificatorio), quanto meno se e in quanto rispettosa dei limiti fissati in concessione; anzi, il fatto che la contestazione del 1994 avesse rilevato solo una eccedenza di altezza non consentita e non avesse, per contro, nulla dedotto in merito alla sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto preordinati al rilascio del titolo edificatorio, va rivisto come elemento capace di radicare ulteriormente, nel privato, il convincimento in merito alla legittimità, sotto tali profili, del titolo stesso (salve restando, naturalmente, le problematiche relative agli eventuali abusi in sede di realizzazione delle opere, che non possono, però, indurre a ritenere l’illegittimità del titolo, al contrario, confermato nei suoi contenuti).
Con la conseguenza che gli ulteriori provvedimenti del 2002 appaiono adottati ad una distanza di tempo tale da richiedere l’idonea motivazione di cui si è detto; motivazione (tanto più necessaria allorché, come nella specie, siano passati altri sette anni prima dell’adozione, da parte dell’Amministrazione, delle iniziative demolitorie di cui si tratta) che, per ciò stesso, non può essere legata al puro e semplice ripristino della legalità, ma deve dar conto della sussistenza di un interesse pubblico attuale e concreto alla rimozione del titolo in questione (ad esempio, per significative ragioni legate alla tutela della igiene e sanità, della sicurezza, dell’ambiente etc.) e della comparazione tra tale interesse e l’entità del sacrificio imposto all’interesse del privato (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 01.03.2003 n. 1150 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' illegittimo il provvedimento di revoca dell'autorizzazione edilizia rilasciata dal quale non solo non emergono neppure in via indiretta o implicita motivazioni o ragioni di particolare interesse pubblico alla sua emanazione, ma anzi è dato ragionevolmente desumere ragioni di puro interesse privatistico a difesa di diritti di terzi che la legge fa comunque salvi e che ben possono essere tutelati in altra e più opportuna sede senza coinvolgere l’amministrazione comunale in beghe di condominio.
Sotto il profilo del c.d. “ripristino della legalità”, non possono essere legittimamente addotte solo motivazioni correlate alla mera tutela dell’interesse privatistico dei terzi; tale interesse è fatto normalmente salvo da tutti i provvedimenti autorizzatori o concessori in ambito edilizio, mentre non spetta all’Amministrazione prendere posizione su di esso allorché non sia denegata la legittimazione dell’interessato (quanto meno nella veste di comproprietario) al rilascio del titolo richiesto e non si faccia questione in merito alla eventuale lesione di norme poste a tutela di interessi primari curati dall’Amministrazione (ad esempio, norme igienico-sanitarie) che, indirettamente, tutelano anche la posizione dei terzi.
Inoltre, trattandosi di provvedimento teso a rimuovere una precedente determinazione ampliativa della sfera giuridica dell’interessato, non può esso non recare (e a maggior ragione, nel caso di specie, in quanto emanato ad oltre tre anni dal rilascio del titolo autorizzatorio e ad opere ormai eseguite) puntuali precisazioni in merito all’interesse pubblico in concreto tutelato che vadano al di là del mero ripristino della legalità e, correlativamente, in ordine al pregiudizio che lo stesso, in quanto incidente sull’affidamento ingenerato nel privato, è in grado di produrre nella sfera di quest’ultimo.

Con la sentenza appellata il TAR ha rigettato il ricorso proposto dall’odierno appellante per l’annullamento del provvedimento 14.02.1995 con il quale il Sindaco di Trento ha revocato l’autorizzazione edilizia 21.09.1992, n. 20329.
...
Esattamente deduce l’interessato, con il terzo motivo del ricorso di primo grado, che dal provvedimento impugnato “non solo non emergono neppure in via indiretta o implicita motivazioni o ragioni di particolare interesse pubblico alla sua emanazione, ma anzi è dato ragionevolmente desumere ragioni di puro interesse privatistico a difesa di diritti di terzi che la legge faceva e fa comunque salvi e che ben potevano essere tutelati in altra e più opportuna sede senza coinvolgere l’amministrazione comunale in beghe di condominio”.
E, in effetti, sotto il profilo del c.d. “ripristino della legalità”, non potevano essere legittimamente addotte solo motivazioni correlate alla mera tutela dell’interesse privatistico dei terzi; tale interesse è fatto normalmente salvo –come, nella specie, è stato fatto espressamente salvo- da tutti i provvedimenti autorizzatori o concessori in ambito edilizio, mentre non spetta all’Amministrazione prendere posizione su di esso allorché non sia denegata –come nel caso in esame, non è stata denegata- la legittimazione dell’interessato (quanto meno nella veste di comproprietario) al rilascio del titolo richiesto e non si faccia questione in merito alla eventuale lesione di norme poste a tutela di interessi primari curati dall’Amministrazione (ad esempio, norme igienico-sanitarie) che, indirettamente, tutelano anche la posizione dei terzi.
Che la titolarità del sottotetto debba fare capo al richiedente il titolo concessorio o al condominio è, del resto, questione che involge esclusivamente i rapporti interprivati ed eventuali controversie in materia possono essere definite solo dal giudice competente; mentre non può sposare l’Amministrazione la posizione di uno dei contendenti, né addurre a supporto delle proprie determinazioni sopravvenienze giuridiche (nella specie, decreto tavolare del 26.01.1994), potenzialmente controverse nei loro contenuti e che incidono, a loro volta, su rapporti interprivati.
Inoltre, trattandosi di provvedimento teso a rimuovere una precedente determinazione ampliativa della sfera giuridica dell’interessato, non poteva esso non recare, anche in quanto emanato ad oltre tre anni dal rilascio del titolo autorizzatorio e ad opere ormai eseguite, puntuali precisazioni in merito all’interesse pubblico in concreto tutelato che andassero al di là del mero ripristino della legalità e, correlativamente, in ordine al pregiudizio che lo stesso, in quanto incidente sull’affidamento ingenerato nel privato, era in grado di produrre nella sfera di quest’ultimo (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.02.2003 n. 899 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe N.T.A. sono atti a contenuto generale, recanti prescrizioni a carattere normativo e programmatico, destinate a regolare la futura attività edilizia e, in quanto tali, non sono di per sé immediatamente lesive di posizioni giuridiche soggettive di singoli, per cui la loro impugnazione può avvenire soltanto unitamente all’impugnazione del provvedimento che ne costituisca la concreta applicazione e il termine per la proposizione del relativo ricorso decorre non dalla data di pubblicazione della norma di piano, bensì dalla piena conoscenza del provvedimento esecutivo.
Le N.T.A., infatti, sono atti a contenuto generale, recanti prescrizioni a carattere normativo e programmatico, destinate a regolare la futura attività edilizia e, in quanto tali, non sono di per sé immediatamente lesive di posizioni giuridiche soggettive di singoli, per cui la loro impugnazione può avvenire soltanto unitamente all’impugnazione del provvedimento che ne costituisca la concreta applicazione e il termine per la proposizione del relativo ricorso decorre non dalla data di pubblicazione della norma di piano, bensì dalla piena conoscenza del provvedimento esecutivo (cfr. Cons. St., IV, 13.08.1997, n. 845; Cons. St., V, 29.04.1991, n. 699; Cons. St., IV, 06.10.1983, n. 700)
(cfr. Cass. civ., 25.08.1989, n. 3762) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.07.2002 n. 3929 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl D.M. 02.04.1968 n. 1444, emanato in forza dell’art. 17 della <<legge ponte>>, trae da questa la forza di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l’inderogabile distanza di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima, essendo consentita alla P.A. solo la fissazione di distanze superiori.
Non può, pertanto, escludersi la legittimazione e l’interesse del privato confinante ad impugnare le norme dello strumento urbanistico comunale ed i conseguenti atti applicativi nel momento in cui in base ad essi sia prevista a favore del vicino costruttore una consistente deroga alla rigida osservanza delle distanze tra fabbricati di cui al D.M. n.1444/1968 cit., nella specie attuata, come dedotto dagli appellati, tramite la demolizione di un edificio preesistente -una villetta- e la ricostruzione al suo posto di un fabbricato di sei piani posto a una distanza inferiore ai dieci metri prescritti; la deroga, infatti, viene ritenuta ammissibile unicamente nei casi di demolizione e ricostruzione in forma fedele (quantomeno nelle medesime dimensioni esterne), non potendosi ritenere sussistente in tal caso una nuova costruzione, ma solo il suo recupero, con una serie di interventi assimilabili alla manutenzione straordinaria.

Il D.M. 02.04.1968 cit., infatti, emanato in forza dell’art. 17 della <<legge ponte>> trae da questa la forza di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l’inderogabile distanza di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima (cfr. Cass. civ., SS.UU., 21.02.1994, n.1645), essendo consentita alla P.A. solo la fissazione di distanze superiori (cfr. Cons. St., IV, 13.05.1992, n. 511; Cass. civ., 29.10.1994, n. 8944; id., 21.02.1994, n. 1645; id. 04.02.1998, n.1132); non può, pertanto, escludersi la legittimazione e l’interesse del privato confinante ad impugnare le norme dello strumento urbanistico comunale ed i conseguenti atti applicativi nel momento in cui in base ad essi sia prevista a favore del vicino costruttore una consistente deroga alla rigida osservanza delle distanze tra fabbricati di cui al D.M. n. 1444/1968 cit., nella specie attuata, come dedotto dagli appellati, tramite la demolizione di un edificio preesistente -una villetta- e la ricostruzione al suo posto di un fabbricato di sei piani posto a una distanza inferiore ai dieci metri prescritti; la deroga, infatti, viene ritenuta ammissibile unicamente nei casi di demolizione e ricostruzione in forma fedele (quantomeno nelle medesime dimensioni esterne), non potendosi ritenere sussistente in tal caso una nuova costruzione, ma solo il suo recupero, con una serie di interventi assimilabili alla manutenzione straordinaria (cfr. Cass. civ., 25.08.1989, n. 3762) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.07.2002 n. 3929 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 16.08.2012

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GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

APPALTI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 14.08.2012 n. 189, suppl. ord. n. 173/L, "Testo del decreto-legge 06.07.2012, n. 95, coordinato con la legge di conversione 07.08.2012, n. 135, recante: “Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario”.

VARI: G.U. 14.08.2012 n. 189 "Regolamento recante riforma degli ordinamenti professionali, a norma dell’articolo 3, comma 5, del decreto-legge 13.08.2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14.09.2011, n. 148" (D.P.R. 07.08.2012 n. 137).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 33 del 14.08.2012, "Criteri e modalità per la redazione, la presentazione e la valutazione delle domande per il riconoscimento della figura di tecnico competente in acustica ambientale" (deliberazione G.R. 06.08.2012 n. 3935).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 33 del 14.08.2012, "Criteri per l’installazione e l’esercizio degli impianti di produzione di energia collocati sul territorio regionale" (deliberazione G.R. 06.08.2012 n. 3934).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U.U.E. 24.07.2012 n. L 197/1 "DIRETTIVA 2012/18/UE DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 04.07.2012 sul controllo del pericolo di incidenti rilevanti connessi con sostanze pericolose, recante modifica e successiva abrogazione della direttiva 96/82/CE del Consiglio" (link a http://eur-lex.europa.eu).
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Una consultazione pubblica prima di costruire fabbriche.
Consultazione pubblica sui progetti, piani e programmi prima di costruire lo stabilimento, salva la possibilità di azioni legali se non sono state fornite adeguate informazioni. Norme più rigorose per l'ispezione degli stabilimenti per garantire una maggiore efficacia delle norme di sicurezza. Non solo, ma d'ora innanzi, chiunque deve poter disporre delle informazioni sui rischi industriali, per via informatica, perché tutti gli stabilimenti dovranno fornire le indicazioni sui sistemi d'allarme e sulle norme di comportamento in caso di grave incidente.
È quanto prevede la DIRETTIVA 2012/18/UE DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 04.07.2012, sul controllo del pericolo di incidenti connessi con sostanze pericolose, entrata in vigore ieri.
La direttiva, nota come Seveso III, prevede che gli stati membri dovranno applicare le nuove norme dall'01.06.2015, data in cui diventa applicabile la legislazione sulla classificazione delle sostanze chimiche in Europa. In particolare, prevede che in caso di incidente, le autorità dovranno informarne tutti gli interessati comunicando le principali misure del caso. Le modifiche in termini di pianificazione del territorio comporteranno l'introduzione di una distanza «di sicurezza» nei progetti relativi a nuovi stabilimenti e infrastrutture da costruire vicino agli stabilimenti esistenti.
Quando le autorità e le imprese giudicano che siano presenti rischi di incidenti gravi e adottano le misure per farvi fronte, dovranno tenere in maggior conto il potenziale aumento dei rischi dovuto alla vicinanza di altri siti industriali e le potenziali ripercussioni sugli impianti vicini. Le disposizioni rientrano in un aggiornamento tecnico sotto altri aspetti della direttiva Seveso, che è strumento essenziale nella gestione dei rischi industriali, la quale viene adeguata alla luce della recente evoluzione della classificazione delle sostanze chimiche a livello europeo e internazionale.
La direttiva obbliga anche gli Stati membri a preparare piani di emergenza per le zone intorno agli impianti industriali in cui si trovano ingenti quantitativi di sostanze pericolose (articolo ItaliaOggi del 14.08.2012).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Mediaconciliazione estesa alla p.a.. Amministrazione rappresentata da dirigenti o dipendenti. Circolare della funzione pubblica sul dlgs 28/2010. L'Avvocatura dello stato farà solo consulenza.
Mediaconciliazione aperta anche alla p.a. Ma solo per le controversie che riguardano la responsabilità della pubblica amministrazione per atti di natura non autoritativa. La direttiva Ue sulla mediazione civile e commerciale (2008/52/Ce) che, assieme alla legge delega n. 69/2009, ha ispirato il dlgs 28/2010 esclude infatti dal proprio ambito di applicazione «la materia fiscale, doganale e amministrativa» oltre alla «responsabilità dello stato per atti o omissioni nell'esercizio di pubblici poteri». A rappresentare la p.a. davanti agli organismi di conciliazione non sarà però né l'Avvocatura dello stato (che potrà svolgere solo funzione consultiva) né gli avvocati del libero foro, ma il dirigente dell'Ufficio competente in materia o un dipendente, privo di qualifica dirigenziale, dotato di «comprovata e particolare competenza». L'Avvocatura dello stato interverrà dinanzi all'organismo di conciliazione «solo in casi eccezionali, giustificati dalla particolare rilevanza della potenziale controversia». E, in ogni caso, «non sostituendo, ma affiancando il rappresentante dell'amministrazione». Le p.a., infine, dovranno avvalersi dell'organismo di mediazione più economico e per sceglierlo dovranno bandire una gara.
Sono questi i principali chiarimenti della circolare 10.08.2012 n. 9/2012 emanata dal dipartimento della funzione pubblica per assicurare un'omogenea attuazione della mediazione civile e commerciale da parte delle p.a.
Dopo aver ribadito che la conciliazione è esperibile solo per risolvere controversie sorte tra privati, o tra privati e pubbliche amministrazioni che agiscono «iure privatorum», la circolare ribadisce che ai sensi del dlgs 28/2010 il ricorso a procedure deflative del contenzioso è facoltativo per le cause civili e commerciali aventi ad oggetto diritti disponibili, mentre è obbligatorio per le liti condominiali e in materia di diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di azienda, risarcimento del danno derivante dalla circolazione dei veicoli, responsabilità medica, diffamazione a mezzo stampa, contratti assicurativi, bancari e finanziari.
A queste tipologie va poi aggiunta la conciliazione in materia di lavoro, prevista dal codice di procedura civile (art. 410) e applicabile anche alle pubbliche amministrazioni. Restano invece escluse dalla mediaconciliazione le cause di risarcimento per violazione del termine ragionevole di durata dei processi ai sensi della legge Pinto (legge n. 89/2001) dal momento che «il potere giurisdizionale rientra nell'esercizio dell'attività amministrativa di natura autoritativa».
Delineati i confini della mediazione, la circolare di palazzo Vidoni fornisce indicazioni su ciò che l'amministrazione, come parte attrice o convenuta, deve fare ai fini dell'eventuale transazione. Nelle procedure di mediazione l'Avvocatura dello stato, a cui ordinariamente spetta la difesa in giudizio della p.a., svolgerà esclusivamente funzione consultiva, intesa come «assistenza tecnica complementare».
«Trattandosi di procedura non riconducibile alla tutela legale contenziosa», scrive il ministro della funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi, «resta infatti esclusa la rappresentanza processuale e la difesa in giudizio delle amministrazioni patrocinate da parte dell'Avvocatura dello stato». Le p.a. non potranno avvalersi neppure dell'assistenza di avvocati del libero foro. Largo dunque ai dirigenti oppure ai dipendenti, privi di qualifica dirigenziale, che siano dotati di «comprovata e particolare competenza e esperienza nella materia del contenzioso».
La nota della funzione pubblica dà alle amministrazioni qualche suggerimento su come scegliere questi dipendenti secondo criteri «trasparenti e oggettivi». Meglio dunque affidare l'incarico a dipendenti di area III del comparto ministeri, o di categoria equiparata, con formazione di tipo giuridico-economico, in possesso della laurea o del diploma di laurea, che potranno essere coadiuvati da personale tecnico o professionale. Gli enti potranno in ogni caso scegliere se assegnare la funzione di rappresentanza a un ufficio dirigenziale già esistente, centralizzando in questo modo la competenza sulla procedura di mediazione, o attribuire la funzione all'ufficio dirigenziale di volta in volta competente per materia.
Pur escludendo la rappresentanza da parte dell'Avvocatura dello stato, la nota di palazzo Vidoni ritiene opportuno che le p.a. si rivolgano agli avvocati erariali per un motivato parere tutte le volte in cui «il tentativo di transazione riguardi controversie di particolare rilievo, dal punto di vista della materia che ne costituisce l'oggetto o degli effetti in termini finanziari che ne potrebbero conseguire anche con riferimento al numero di ulteriori controversie che potrebbero derivarne». Al di fuori di questi casi, il parere all'Avvocatura andrà chiesto solo quando il dirigente si sia espresso (motivando la sua scelta) in senso favorevole alla conclusione dell'accordo (articolo ItaliaOggi del 15.08.2012).

NEWS

VARISenza pista ciclabile occhio al semaforo.
Se il ciclista pedala fuori dalla sede stradale ordinaria deve omologare il suo comportamento a quello degli altri utenti deboli presenti sul tracciato. In particolare nel caso di piste ciclopedonali agli incroci dovrà osservare le lanterne semaforiche dedicate ai pedoni oppure quelle riservate alle biciclette sulle piste ciclabili, se installate. In mancanza di piste e tracciati riservati agli utenti a pedali anche il ciclista osserverà le normali regole del traffico veicolare e dovrà quindi fermarsi al semaforo a fianco dei mezzi a motore.
Lo ha chiarito il Ministero dei Trasporti con il parere 04.07.2012 n. 3936 di prot..
La questione dell'arresto dei ciclisti ai semafori pedonali è stata oggetto di interpretazioni contrastanti a seguito di un precedente parere del ministero dell'01.06.2012. In pratica in questa nota d'inizio estate l'organo centrale di coordinamento tecnico del codice stradale evidenziava la necessità per tutti i ciclisti di osservare agli incroci (senza piste ciclabili con semafori ad hoc) le indicazioni delle lanterne semaforiche pedonali.
La questione ha subito suscitato clamore tra gli addetti ai lavori e per questo il ministero è tornato sul punto articolando meglio la precedente risposta. Nel caso di piste ciclabili con tanto di attraversamento dedicato possono essere impiegate lanterne semaforiche speciali per velocipedi. Ma si tratta di esperienze ancora poco diffuse sul territorio nazionale.
Più comunemente in Italia i velocipedi circolano in promiscuo con gli altri veicoli oppure sulle piste ciclopedonali assieme ai pedoni. Solo in questo caso i ciclisti sono tenuti ad attraversare gli incroci sugli attraversamenti pedonali, anche in sella alla bicicletta, osservando le indicazioni delle lanterne semaforiche (articolo ItaliaOggi del 15.08.2012).

CONDOMINIOGiardino, area destinata a parcheggio.
«La delibera assembleare di destinazione a parcheggio di un'area di giardino condominiale, interessata solo in piccola parte da alberi di alto fusto e di ridotta estensione rispetto alla superficie complessiva, non dà luogo a una innovazione vietata dall'art. 1120 cod. civ., non comportando tale destinazione alcun apprezzabile deterioramento del decoro architettonico, né alcuna significativa menomazione del godimento e dell'uso del bene comune, e anzi, da essa derivando una valorizzazione economica di ciascuna unità abitativa e una maggiore utilità per i condòmini».
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione (sent. n. 15319/2011, inedita) (articolo ItaliaOggi del 15.08.2012).

ATTI AMMINISTRATIVIUna frenata ai documenti inutili. In ogni atto pubblico lista degli oneri per cittadini e imprese. Dopo l'ok del Consiglio di stato il dpcm è in dirittura. Obbligatorio il referente dei reclami.
Un responsabile a cui i cittadini possano inoltrare i reclami contro provvedimenti amministrativi, circolari e regolamenti ministeriali. I quali dovranno essere sempre pubblicati sui siti internet delle p.a. allo scopo di rendere trasparenti tutti gli oneri informativi gravanti sui cittadini e sulle imprese, introdotti o eliminati con gli atti medesimi.
È ormai in dirittura il dpcm attuativo dell'articolo 7, comma 2, della legge 11.11.2011, n. 180, vale a dire lo Statuto delle imprese, che punta a responsabilizzare le amministrazioni dello Stato per evitare oneri sproporzionati rispetto alle esigenze di tutela degli interessi pubblici e a rendere immediatamente conoscibili ai cittadini e alle imprese questi adempimenti.
Il Consiglio di stato, con il parere 19.07.2012 n. 3326, ha dato il via libera al decreto, con una serie di spunti e suggerimenti di integrazione del testo. Gli oneri informativi toccati dal provvedimento sono tutti quegli adempimenti che comportino la raccolta, elaborazione, trasmissione, conservazione e produzione di informazioni e documenti alla pubblica amministrazione.
In parole povere, carte e documenti da girare agli uffici. Con riferimento, dunque, a ogni regolamento o provvedimento amministrativo, il cittadino dovrà sapere se tali atti introducono o riducono gli oneri in questione, mentre in relazione alle modalità di presentazione dei reclami, la legge 180 e il dpcm specificano che si tratta di un tassello essenziale ai fini della valutazione degli eventuali profili di responsabilità dei dirigenti preposti agli uffici interessati. Insomma, chi non risponde, paga.
Nei quattro articoli del decreto si stabiliscono i criteri e le modalità di pubblicazione delle informazioni sui siti istituzionali, grazie a una apposita sezione denominata «oneri informativi» introdotti ed eliminati e individuando i soggetti responsabili dell'allegazione, dell'istruttoria e della pubblicazione. L'articolo 3 riguarda invece le modalità di presentazione dei reclami, e prescrive la pubblicazione sul sito dei riferimenti del responsabile del trattamento reclami, nonché la casella di posta elettronica a cui scrivere, e l'obbligo di inoltrare i reclami anche all'Ispettorato della funzione pubblica per il previsto monitoraggio.
Entro nove mesi dell'entrata in vigore del regolamento scatterà una valutazione sulle modalità di attuazione delle disposizioni, dopo aver sentito le associazioni di categoria rappresentative a livello nazionale, allo scopo eventualmente di rivedere e integrare lo stesso regolamento. Il giudizio di palazzo Spada sul dpcm è «sostanzialmente positivo», ma non mancano osservazioni sullo schema di regolamento, e non solo di forma. Il parere suggerisce ad esempio di fare riferimento alla pubblicazione dei regolamenti ministeriali o interministeriali, dei provvedimenti amministrativi a carattere generale ma anche di circolari e atti di indirizzo, ai quali allegare l'elenco degli oneri informativi introdotti o eliminati.
Altro suggerimento, precisare che il regolamento si applica soltanto alle amministrazioni dello Stato e specificare meglio la natura di «onere informativo», intendendo con esso qualunque adempimento previsto per determinate categorie di cittadini o imprese o per le generalità degli stessi, di raccogliere, elaborare, conservare, produrre e trasmettere dati, notizie, comunicazioni, relazioni, dichiarazioni, istanze e documenti alle p.a., anche su richiesta di queste ultime, a determinate scadenze o con periodiche cadenze.
Ovviamente non rientrano tra gli oneri informativi gli obblighi di natura fiscale, né quelli che discendono dall'adeguamento di comportamenti, di processi produttivi o di prodotti. Da sottolineare infine come ai giudici di palazzo Spada sembrino non piacere gli anglicismi. E così, il termine checklist andrebbe sostituito con «lista di controllo», «box» con «quadro» ed help desk con «ufficio per la semplificazione amministrativa del Dipartimento della funzione pubblica» (articolo ItaliaOggi del 14.08.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI:  Comunità montane salve come unioni. Dopo anni di tentativi di soppressione la spending review ribalta tutto. E le regioni si adeguano.
Le comunità montane cambiano pelle, ma si salvano di fatto dall'abrogazione. Anche grazie al taglio delle province. Gli enti montani potranno continuare a sopravvivere, trasformati in unioni di comuni, e avranno pure più poteri perché, sotto questa nuova veste, svolgeranno le funzioni che i minienti dovranno obbligatoriamente gestire in forma associata a partire dal 2013.
Ci ha pensato Mario Monti con la spending review a mettere in cassaforte gli enti di montagna, bersaglio cinque anni or sono del primo tentativo di riduzione dei costi della politica.
Con la Finanziaria 2008 il governo Prodi ha provato a sopprimere gli enti di montagna, ma poi la Corte costituzionale (sentenza n. 237/2009) ha affidato la competenza in materia alle regioni stabilendo che lo Stato non avesse il potere di eliminare le comunità ma tutt'al più di decretarne una morte lenta e graduale non finanziando il fondo che le alimenta.
La patata bollente è passata così ai governatori che in questi anni hanno fatto poco o nulla. A parte qualche eccezione (Basilicata, Liguria, Molise, Puglia, Toscana e Friuli-Venezia Giulia) le regioni hanno progressivamente ridotto i trasferimenti alle comunità montane senza però avere il coraggio di eliminarle del tutto o trasformarle in unioni. Tanto che, ad oggi, se ne contano ancora 161.
E mentre in alcune regioni (Piemonte e Veneto), senza l'intervento salvifico della spending review, gli enti sarebbero dovuti scomparire entro fine anno, in altre, come la Lombardia, prendere tempo alla fine ha giovato. In tutti questi anni l'assessore al bilancio del Pirellone, Romano Colozzi, non ha mai voluto saperne di staccare la spina alle comunità montane, anzi ha puntualmente compensato con 9 milioni di euro di finanziamenti regionali i contributi erariali soppressi.
C'è stato anche chi, come il Molise, è arrivato a commissariare gli enti attribuendo le loro funzioni all'ennesima agenzia regionale costituita ad hoc (con conseguente aggravio di spesa pubblica) o chi, come la Calabria, ha provato a fare lo stesso ma non ha avuto abbastanza tempo. Perché, come detto, la spending review (art. 19 del dl 95/2012 atteso oggi in G.U.) ha rimesso le cose a posto. Tanto che ieri le comunità montane hanno celebrato una loro, particolarissima, ricorrenza.
Esattamente un anno fa, il 13.08.2011, la manovra d'estate del governo Berlusconi (dl 138/2011), con una norma molto discussa (art. 16), aveva imposto ai comuni con meno di mille abitanti di mettersi insieme fondendo bilanci e funzioni. Una forzatura che secondo il presidente di Uncem Piemonte, Lido Riba, «avrebbe distrutto la montagna» e con essa «i territori marginali dove il comune è un punto fermo e gli amministratori locali sono volontari» al servizio dei cittadini.
A un anno di distanza tutto è cambiato perché il decreto sulla riduzione della spesa pubblica, pur obbligando gli enti sotto i 5.000 abitanti (o sotto i 3.000 se montani) a esercitare le funzioni fondamentali in forma associata a partire dall'anno prossimo (cominciando con tre su nove fino ad arrivare a metterle insieme tutte dal 2014, si veda tabelle in pagina), ha lasciato ampia libertà di scelta sulla forma associativa da scegliere tra unione e convenzione. Non solo. Potrebbe sembrare un paradosso, ma un punto a favore della sopravvivenza delle comunità montane potrebbe proprio arrivare dal riordino delle province. «Se con il taglio degli enti intermedi si stabilisce per esempio che le competenze in materia di risorse idrogeologiche passano ai comuni, si dovranno costituire unioni di dimensioni tali da ricomprendere un intero bacino», spiega a ItaliaOggi Enrico Borghi, presidente della commissione montagna dell'Anci.
«In questa nuova prospettiva l'esperienza di governo del territorio delle comunità montane sarà fondamentale. Ecco perché la nascita delle unioni montane rappresenta un momento storico per far mantenere nelle mani delle popolazioni locali le redini di un destino che sembra sempre più deciso da soggetti esterni». E così, a tempo di record, le regioni, anche quelle che avevano deciso di fare sul serio, tornano sui loro passi. Lo farà il Piemonte che a settembre porterà in consiglio un correttivo del ddl sulla messa in liquidazione delle comunità montane dal 31/12/2012.
E lo farà il Veneto che ha presentato un progetto di legge bipartisan che trasforma le comunità montane in unioni. Tirando le somme, cinque anni di riforme annunciate per un nulla di fatto. Un precedente che non induce all'ottimismo quando il riordino delle province entrerà nel vivo. Anche perché l'iniziativa dovrà nuovamente partire dalle regioni (articolo ItaliaOggi del 14.08.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti elettrici, non tutto si butta. Verifica pre-smaltimento per salvare ciò che si può riusare. In vigore la direttiva europea che spinge verso il riciclaggio dei materiali per pc, tv e cellulari.
Gli esportatori dovranno verificare il funzionamento degli apparecchi, per evitare che si tratti di rifiuti da smaltire invece che materiale usato da riutilizzare. Tuttavia, saranno anche semplificati gli adempimenti previsti per la raccolta ed il trattamento dei rifiuti elettronici.
Queste, alcune delle novità contenute nella
DIRETTIVA 2012/19/UE DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 04.07.2012, sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche, entrata in vigore ieri con l'obiettivo di aumentare la protezione dell'ambiente perché riguarda articoli che rientrano tra i rifiuti dal tasso di crescita più elevato ma presentano anche un grande potenziale in termini di commercializzazione di materie prime secondarie.
La raccolta sistematica, quindi, unitamente al corretto trattamento sono indispensabili per il riciclaggio di materiali come l'oro, l'argento, il rame e i metalli rari usati per la produzione, tanto per citarne alcuni, di televisori, computer portatili e telefoni cellulari. La normativa, che è stata pubblicata sulla Gazzetta dell'Ue lo scorso 24 luglio, si colloca nell'ambito della direttiva Raee (direttiva 2002/96/Ce), entrata in vigore nel febbraio 2003 e che prevedeva la restituzione gratuita dei rifiuti elettronici da parte dei consumatori.
Oggi, l'obiettivo del nuovo provvedimento è quello di prevenire danni alla salute umana e all'ambiente dovuti alle sostanze pericolose contenute nei rifiuti elettronici aumentando il riciclaggio e il riutilizzo di prodotti e materiali. Ma l'intento della direttiva è quello anche di pervenire, a decorrere dal 2016, alla raccolta pari al 45% delle apparecchiature elettroniche.
In un secondo tempo, dal 2019, l'obiettivo salirà al 65% delle apparecchiature vendute, oppure all'85% dei rifiuti elettronici prodotti e gli Stati membri potranno scegliere liberamente quale sistema adottare per la misurazione dello scopo raggiunto. La direttiva comunque entrerà in vigore, a regime, a partire dal 2018. Ciò in quanto, fino al 14.08.2018, l'ambito di applicazione è limitato ai prodotti espressamente individuati negli allegati alla direttiva stessa. Solo per questi, in pratica, fin da subito vige l'obbligo del loro conferimento presso i centri autorizzati.
Si tratta, in particolare, dei grandi e piccoli elettrodomestici, delle apparecchiature informatiche e per telecomunicazioni, dei pannelli fotovoltaici, delle apparecchiature di illuminazione, degli strumenti elettrici ed elettronici (ad eccezione degli utensili industriali fissi di grandi dimensioni), dei giocattoli elettronici e dei distributori automatici.
I consumatori potranno restituire i rifiuti elettronici di piccole dimensioni presso i negozi al dettaglio, eccetto nei casi in cui sistemi alternativi già in uso diano prova di essere almeno di pari efficacia. Al più tardi entro il 14.02.2014 gli stati membri saranno tenuti a modificare la legislazione nazionale in vigore in materia di Raee per conformarsi alle disposizioni della nuova direttiva e ai relativi obiettivi (articolo ItaliaOggi del 14.08.2012).

APPALTI: Appalti. Istruzioni anche sugli affidamenti alle cooperative sociali.
Gare, l'Autorità frena sul prestito dei requisiti. No all'avvalimento per certificazioni di qualità e iscrizioni all'albo.

L'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici ha tradotto in due determinazioni i risultati delle consultazioni sull'istituto dell'avvalimento e sui rapporti delle amministrazioni pubbliche con le cooperative sociali coinvolgenti nelle attività soggetti svantaggiati, che assumono notevole rilevanza per le stazioni appaltanti, soprattutto in relazione ai percorsi (con gara o derogatori) per l'acquisizione di beni o servizi.
L'avvalimento
Secondo la determinazione 01.08.2012 n. 2 le prospettive di ampio utilizzo del l'avvalimento non possono permettere l'elusione del dato normativo contenuto nell'articolo 49 del Codice dei contratti pubblici, il cui comma 2 è preordinato a garantire la certezza del rapporto tra concorrente e impresa ausiliaria in relazione al prestito dei requisiti.
I documenti elencati nella disposizione devono quindi essere allegati alla domanda di partecipazione a pena di esclusione. Secondo l'Autorità l'avvalimento non può essere utilizzato per la certificazione di qualità tranne nell'ipotesi in cui la stessa sia compresa nell'attestazione Soa, in quanto essa è assimilabile a un requisito soggettivo, poiché attinente a uno specifico "status" dell'imprenditore.
In simile prospettiva, l'Autorità non ritiene assoggettabili al l'avvalimento molti requisiti di idoneità professionale, come l'iscrizione ad albi specifici o il possesso di particolari licenze legate all'esercizio dell'attività.
L'istituto può trovare applicazione nelle gare per servizi di architettura e ingegneria, ma solo in relazione ai requisiti di partecipazione e non anche per i tre servizi analoghi da considerare nella parte tecnico-qualitativa dell'offerta. Inoltre, l'avvalimento può aversi tra due imprese che facciano parte dello stesso raggruppamento temporaneo partecipante a una gara. In ogni caso, il rapporto tra operatore economico concorrente e impresa ausiliaria deve essere documentato da un contratto molto dettagliato, nel quale devono essere specificamente indicati i requisiti prestati.
Le cooperative
Per gli acquisti di beni e servizi di valore inferiore alla soglia comunitaria l'Avcp evidenzia invece nella determinazione 01.08.2012 n. 3 i presupposti che possono permettere il ricorso ad affidamenti alle cooperative sociali di tipo B, specificando anzitutto che questi organismi devono avere in organico almeno il 30 per cento dei lavoratori (soci o non) costituito da persone svantaggiate (nell'accezione dell'articolo 4 della legge n. 381/1991) e che devono essere iscritte all'apposito albo regionale (condizione necessaria per la stipula delle convenzioni).
Focalizzando l'attenzione sui limiti per il ricorso a tali affidamenti derogatori, individuati dall'articolo 5 della stessa legge n. 381/1991 nel valore inferiore alla soglia comunitaria e nella riconduzione a forniture di beni e di servizi non sociali, l'Autorità richiede che essi avvengano in base a un confronto concorrenziale.
Nella determinazione si evidenzia infatti la necessità di procedere alla pubblicazione, sul profilo committente, di un avviso pubblico, per rendere nota la volontà di riservare parte degli appalti di determinati servizi e forniture alle cooperative sociali di tipo B, per le finalità di reinserimento lavorativo di soggetti svantaggiati. L'ente locale, se rileva che sussistono più cooperative interessate alla convenzione, nel rispetto dei principi dell'ordinamento comunitario è chiamato a promuovere una procedura competitiva di tipo negoziato tra tali soggetti (articolo Il Sole 24 Ore del 13.08.2012 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Decreto sviluppo. Cambi d'uso e manutenzione straordinaria senza permessi.
Per gli immobili d'impresa si amplia l'edilizia libera. Le incertezze interpretative frenano però l'applicazione.
I DUBBI/ Le modifiche urbanistiche non possono interessare i fabbricati che non sono ancora adibiti alle attività produttive.

Il legislatore nazionale torna a occuparsi dell'attività edilizia libera, con l'articolo 13-bis del Dl 83/2012, introdotto dalla legge di conversione in attesa di pubblicazione sulla «Gazzetta»). Dopo le significative modificazioni già apportate alla materia dal Dl 40/2010, la nuova norma amplia ulteriormente il novero degli interventi per la cui esecuzione non è necessario un titolo abilitativo, inserendo al secondo comma dell'articolo 6 del Dpr 380/2001 la lettera e-bis), specificamente rivolta agli immobili utilizzati per lo svolgimento di attività imprenditoriali, nel cui ambito, stante la generalità (o genericità) del termine, possono ragionevolmente ricomprendersi di fatto tutti gli immobili non destinati alla residenza (capannoni e negozi, ad esempio).
Da domani, quindi, sarebbe sufficiente una semplice comunicazione al Comune sia per realizzare «le modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti ad esercizio d'impresa», sia per effettuare «le modifiche della destinazione d'uso» di questi locali.
La disposizione solleva varie perplessità, innanzitutto per il ricorso alla locuzione "modifiche interne" senza alcuna ulteriore specificazione tipologica. Appare azzardato ipotizzare che il legislatore abbia inteso consentire cambiamenti anche di tipo strutturale, oppure interventi riconducibili al novero della ristrutturazione o del restauro e risanamento conservativo, poiché in tal caso verrebbe a delinearsi una incongrua disparità di trattamento e il sospetto di incostituzionalità della previsione. Infatti, solo i proprietari di immobili adibiti ad attività imprenditoriali risulterebbero esentati dalla necessità di un titolo abilitativo per queste categorie di interventi.
È quindi preferibile una lettura costituzionalmente orientata, che riconduca le modifiche interne nel novero degli interventi di manutenzione straordinaria ammessi dal comma 2, lettera a), che già contempla «l'apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne»; anche in questo caso con ovvia esclusione delle opere di tipo strutturale –per le quali è richiesto in via generale il titolo abilitativo– e senza alcun mutamento di destinazione d'uso, trattandosi di modifiche edilizie relative a fabbricati comunque già adibiti a esercizio di impresa. Ma con questa più prudente chiave interpretativa, la previsione finisce con lo svuotarsi di contenuto sostanziale.
Anche la seconda parte della disposizione desta incertezze, nella misura in cui prevede la possibilità di effettuare «modifiche della destinazione d'uso dei locali adibiti ad esercizio d'impresa». Trattandosi di misure teoricamente volte a favorire le iniziative produttive, la norma avrebbe forse dovuto adoperare il termine "da adibirsi", così sancendo la possibilità di utilizzare a esercizio di impresa spazi in precedenza destinati ad altro uso. Inoltre, se i locali sono (già) adibiti ad attività imprenditoriale, la modifica d'uso non potrà che avvenire nell'ambito della stessa tipologia ed essere di tipo funzionale, quindi senza l'esecuzione di opere. Diversamente si ricadrebbe in un'ipotesi interpretativa sperequata e di dubbia costituzionalità, esentando i soli proprietari imprenditori dall'obbligo del previo titolo abilitativo (che nelle zone omogenee "A" è il permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, primo comma, lettera c), Testo unico).
Secondo la giurisprudenza (si veda ad esempio Consiglio di Stato, Sezione V, 1650/2010, 498/2009; Tar Lazio-Roma, 4622/2011; Cassazione penale, Sezione III, 20350/2010) il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, posto che nell'ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico costruttivi, stante le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito della medesima categoria. Peraltro, in questo caso, la modifica d'uso non dovrebbe comportare il pagamento di un ulteriore contributo di costruzione.
La previsione, dunque, dovrebbe essere letta e interpretata tenendo presente le possibili ripercussioni del mutamento d'uso sui parametri urbanistici e sulle volumetrie massime assentibili in relazione agli indici della zona, così come individuati dai piani regolatori generali, nonché i limiti di carattere generale posti per l'attività edilizia che può essere eseguita in assenza di pianificazione urbanistica, specie per ciò che attiene alle destinazioni produttive (articolo 9, testo unico).
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Le nuove definizioni
Le tipologie di attività edilizia libera dopo l'intervento del decreto sviluppo nell'articolo 6 del Testo unico dell'edilizia
ARTICOLO 6, COMMA 1 - Attività edilizia totalmente libera
● lettera a) - manutenzione ordinaria;
● lettera b) - eliminazione di barriere architettoniche senza realizzazione di rampe, di ascensori esterni o altri manufatti che alterino la sagoma dell'edificio;
● lettera c) - opere temporanee per attività di ricerca nel sottosuolo, eseguite in aree esterne al centro edificato, di carattere geognostico, ad esclusione di attività di ricerca di idrocarburi;
● lettera d) - movimenti di terra strettamente pertinenti all'esercizio dell'attività agricola e delle pratiche agro-silvo-pastorali, compresi gli interventi su impianti idraulici agrari;
● lettera e) - serre mobili stagionali, sprovviste di strutture in muratura, funzionali allo svolgimento dell'attività agricola
ARTICOLO 6, COMMA 2 - Attività edilizia libera previa comunicazione inizio lavori
● lettera a) - manutenzione straordinaria, compresa l'apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne, che non riguardi parti strutturali dell'edificio, non aumenti il numero delle unità immobiliari e non incrementi i parametri urbanistici;
● lettera b) - opere dirette a soddisfare esigenze contingenti e temporanee e da rimuovere al cessare della necessità, comunque, entro novanta giorni;
● lettera c) - pavimentazione e finitura di spazi esterni, anche per aree di sosta, contenute entro l'indice di permeabilità, ove stabilito dallo strumento urbanistico comunale, ivi compresa la realizzazione di intercapedini interamente interrate e non accessibili, vasche di raccolta delle acque, locali tombati;
● lettera d) - pannelli solari, fotovoltaici, a servizio degli edifici, da realizzare al di fuori delle zone A (centri storici);
● lettera e) - aree ludiche senza fini di lucro ed elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici;
● lettera e-bis) - modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti ad esercizio d'impresa e modifiche della destinazione d'uso dei locali adibiti ad esercizio d'impresa
ARTICOLO 6, COMMA 4, PRIMO E SECONDO PERIODO - Attività edilizia libera previa comunicazione inizio lavori, trasmissione dati identificativi dell'impresa esecutrice dei lavori e relazione tecnica, con elaborati progettuali, asseverante la conformità a strumenti urbanistici e regolamenti edilizie e non necessità di titolo abilitativo
● interventi articolo 6, comma 2, lettera a) - manutenzione straordinaria, compresa l'apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne, che non riguardi parti strutturali dell'edificio, non aumenti il numero delle unità immobiliari e non incrementi i parametri urbanistici;
● lettera e-bis) - modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti ad esercizio d'impresa e modifiche della destinazione d'uso dei locali adibiti ad esercizio d'impresa (con dichiarazione di conformità da parte dell'Agenzia per le imprese, su sussistenza requisiti)
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SEMPLIFICAZIONI/ Via anche i nullaosta da allegare
L'articolo 13-bis abroga l'intero comma 3 dell'articolo 6 del Dpr 380/2001, facendo venire meno l'obbligo generalizzato di allegare alla comunicazione di inizio dei lavori «le autorizzazioni eventualmente obbligatorie ai sensi delle normative di settore», per tutti gli interventi di cui al comma 2.
Con le contestuali modifiche apportate al comma 4, questo onere permane solo nel caso degli interventi di cui alla lettera a) e alla nuova lettera e-bis), per i quali andranno comunicati i dati identificativi dell'impresa cui si intende affidare la realizzazione dei lavori, nonché una relazione, redatta da un tecnico abilitato. Questi dovrà prima dichiarare di non avere rapporti di dipendenza con l'impresa, né con il committente, quindi asseverare, sotto la propria responsabilità, che i lavori sono conformi agli strumenti urbanistici approvati e ai regolamenti edilizi e che non è necessario il titolo abilitativo.
Infine, per i soli interventi di cui alla lettera e-bis), dovranno essere trasmesse le dichiarazioni di conformità da parte dell'Agenzia per le imprese concernenti la realizzazione, la trasformazione, il trasferimento e la cessazione dell'esercizio del l'attività di impresa.
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INTERVENTO/ Sui tecnici gravano oneri impropri
Per comprendere appieno la portata delle ultime modifiche in tema di attività edilizia libera introdotte dall'articolo 13-bis della legge di conversione del decreto-sviluppo occorrerà attendere un chiarimento giurisprudenziale, se non legislativo. Sino ad allora la complessità delle questioni dovrebbe suggerire ai professionisti di agire con la massima prudenza e di interpretare in senso restrittivo le nuove disposizioni.
Essi vengono chiamati dall'articolo 6, comma 4, del Testo unico dell'edilizia non solo ad asseverare che i lavori progettati siano conformi agli strumenti urbanistici approvati e ai regolamenti edilizi vigenti (e sin qui il compito sarebbe relativamente facile, potendosi fare affidamento su fonti certe e provenienti dalla stessa amministrazione), ma anche a certificare al Comune -e a garantire al committente- che la normativa statale e regionale non prevede il rilascio di un titolo abilitativo per l'intervento che si intende eseguire.
In tal modo, ai tecnici abilitati risulta assegnato un compito esegetico della portata applicativa della norma che non solo li espone a rilevanti responsabilità di natura civile, penale e professionale, ma, soprattutto, che istituzionalmente non compete loro. La funzione interpretativa della norma, infatti, non può che spettare al giudice chiamato ad applicarla, oppure al legislatore che l'ha formulata, operando un chiarimento quando incerta si presenta l'enunciazione normativa o il suo ambito di operatività.
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Le competenze. La Consulta ha chiarito che è il legislatore nazionale a fissare il regime delle autorizzazioni.
Alle Regioni spazi limitati per incidere sui titoli abilitativi.
LA RIPARTIZIONE/ Sulla materia del governo del territorio ancora incerti i confini della potestà normativa suddivisa tra Stato e governi locali.

L'articolo 6, comma 6, lettera a), del Testo unico dell'edilizia stabilisce che le Regioni a statuto ordinario possono estendere la disciplina dell'attività edilizia libera a interventi edilizi ulteriori rispetto a quelli previsti dai commi 1 e 2. La previsione ripropone la tematica dei rapporti tra il Dpr 380/2001 e le leggi regionali in materia, dopo le modifiche del titolo V della Costituzione e solleva dubbi che non vengono sedati –ma semmai ampliati– dal decreto sviluppo di quest'anno.
Norma di riferimento è l'articolo 2 del Testo unico, il cui comma 1 dispone che le Regioni a statuto ordinario «esercitano la potestà legislativa concorrente in materia edilizia nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale desumibili dalle disposizioni contenute nel Testo unico». Inoltre (comma 3) le disposizioni, anche di dettaglio, del Testo unico, e attuative dei principi di riordino in esso contenuti, operano direttamente nei riguardi delle medesime Regioni, fino a quando queste non adeguino la propria legislazione a tali principi.
La prima difficoltà, quindi, è quella di circoscrivere la categoria dei principi di riordino e capire in cosa si differenzino dai principi fondamentali. Il Consiglio di Stato (adunanza plenaria del 07.04.2008, n. 2) ha rilevato come il legislatore nazionale, attraverso il Testo unico, ha proceduto al complessivo riordino della materia, assegnando alle disposizioni in esso contenute carattere di norme di principio, con la conseguente abrogazione delle disposizioni regionali con esse confliggenti. Pertanto «fino al l'adeguamento delle Regioni a statuto ordinario alle norme di principio recate nel Testo unico, le norme aventi tale portata in questo contenute sono destinate a prevalere sulle prime».
Anche l'adeguamento del legislatore regionale dovrà però comunque avvenire nel rispetto dei principi fondamentali, che, a loro volta, non sono chiaramente indicati dal Dpr 380/2001, bensì solo desumibili dal Testo unico. Sul punto la Corte costituzionale, con la sentenza 309/2011 ha ribadito che nella normativa di principio in materia di governo del territorio vanno ricondotte tutte le disposizioni legislative riguardanti i titoli abilitativi per gli interventi edilizi. Con l'ulteriore conseguenza che «a fortiori sono principi fondamentali della materia le disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali».
Per la Consulta, quindi, l'intero corpo normativo statale si fonda sulla definizione degli interventi edilizi e l'individuazione delle relative categorie spetta al legislatore nazionale. Sarà quindi arduo il compito del legislatore regionale che volesse estendere la disciplina dell'attività edilizia libera a interventi tipologicamente diversi da quelli previsti dalla norma statale, poiché l'esclusione per un intervento dalla necessità del titolo abilitativo potrebbe incorrere nella violazione dell'articolo 117, comma 3 della Costituzione e dei limiti posti alla legislazione concorrente nella materia del governo del territorio (articolo Il Sole 24 Ore del 13.08.2012).

GIURISPRUDENZA

AMBIENTE-ECOLOGIAIl Collegio ritiene che fermo restando che la qualifica del fresato d’asfalto rimane quella di “rifiuto” -e pertanto che ai fini dello smaltimento esso è soggetto a tutte le norme che valgono per la categoria dei rifiuti (nella specie non pericolosi)- che lo stesso materiale possa essere nondimeno qualificato sottoprodotto anziché rifiuto se lo stesso è inserito in un ciclo produttivo, ossia se viene utilizzato senza nessun trattamento diverso dalla normale pratica industriale (di fatto vengono effettuate solo operazioni di cernita e di selezione, che non possono essere, tuttavia, considerate operazioni di trasformazione preliminare cfr. Cass. Pen. N. 41839 del 07/11/2008) in un impianto che ne preveda l’impiego nello stesso ciclo di produzione, e precisamente per il reimpiego del materiale come componente del prodotto finale trattato nell’ambito dello stesso impianto.
L’impianto che utilizza il fresato come “sottoprodotto” non deve quindi, perché il materiale conservi la natura di sottoprodotto, stoccare quantitativi d’esso che eccedono rispetto al fabbisogno del proprio ciclo produttivo, perché la giacenza del materiale in attesa di un futuro reimpiego (nella stessa sede o altrove) integra la fase dello stoccaggio e pone il problema della permanenza del rifiuto, che invece va esclusa per quella limitata provvista di materiale che rientra quantitativamente nel normale processo di lavorazione dell’impianto.
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Né appare necessario al Collegio, come ritiene l’amministrazione provinciale, che ai fini della qualifica del fresato come sottoprodotto, il riutilizzo debba avvenire, per volontà della norma, nello stesso sito di produzione del rifiuto e sotto la direzione del medesimo imprenditore, posto che il fatto che il materiale fresato rimanga nel luogo di produzione, nelle vicinanze od in altro luogo non costituisce di per sé elemento univoco per qualificarlo come rifiuto dovendo ciò desumersi, invece, dalle modalità del deposito, dalla sua durata o da altre circostanze che evidenzino con certezza una situazione di abbandono (nella quale rientra lo stoccaggio del materiale in attesa di un futuro reimpiego); il che non si verifica nel caso in esame, dove il deposito di asfalto fresato verrà consumato (reimpiegato) quotidianamente per la produzione di nuovo asfalto.

Il Collegio non ignora, né lo ignorano le parti, che richiamano, ciascuna a proprio favore, la contrastata giurisprudenza sin qui intervenuta in subiecta materia, che in Italia la questione della classificazione del fresato d’asfalto come “rifiuto” o “sottoprodotto” costituisce tuttora, una problematica irrisolta e che sul piano pratico il persistente conflitto giurisprudenziale ha concorso, generando incertezza, a produrre una serie di conseguenze negative assai rilevanti sull’impiego e sul trattamento di quel materiale, peraltro assai ricercato e quindi intrinsecamente dotato di un apprezzabile valore economico.
Appare quindi utile esaminare nel dettaglio quali sono i due punti di vista diversi che sottostanno alle opposte soluzioni ermeneutiche.
Generalmente, le Pubbliche Amministrazioni considerano il fresato d’asfalto un rifiuto perché:
a) è sostanza di cui il detentore “si disfa” o ha l’intenzione o l’obbligo di disfarsi (art. 183 D.Lgs. 152/2006);
b) la sostanza è prevista e disciplinata come rifiuto dal D.M. 05.02.1998 sotto la voce 7.6 e 7.1 (modificata dal D.M. 05.04.2006);
c) alcuni contratti d’appalto stabiliscono che quel materiale deve essere smaltito in discarica, salvo recupero come rifiuto;
d) è contemplato dal Codice Europeo Rifiuti (CER -17.03.02).
Come rifiuto, inoltre, esso è classificato come speciale non pericoloso (CER 170302) perché: non è un “rifiuto urbano” ma un “materiale da demolizione” incluso nell’elenco (D.Lgs. 152/2006 art. 184) e non contraddistinto con l’asterisco (*) riservato ai materiali pericolosi.
La gestione del fresato in quanto rifiuto, peraltro, è notoriamente assai complicata e necessita di una serie di adempimenti burocratici che vanno: dalla fase della demolizione e produzione, in cui il produttore del rifiuto (l’impresa stradale) deve tenere il registro di carico e scarico ed effettuare la dichiarazione MUD; del trasporto, in cui il conglomerato bituminoso di recupero deve viaggiare accompagnato dal formulario di identificazione del rifiuto (FIR) e l’impresa che lo trasporta deve essere iscritta all’Albo Gestori Ambientali per il trasporto dei rifiuti (in conto proprio o in conto terzi, a seconda dei casi); al recupero e trattamento, dove l’impianto di trattamento del fresato è un tradizionale impianto di produzione del conglomerato bituminoso, che quando riceve un “rifiuto” deve essere autorizzato secondo le regole proprie di quel genere di impianti, tale per cui le attività presso l’impianto stesso sono subordinate al rilascio delle autorizzazioni “messa in riserva” R13 e/o “recupero” R5, il cui iter è complesso e prevede: procedura VIA (Valutazione Impatto Ambientale) o, in casi specifici, la VAS (Valutazione Ambientale Strategica).
A ciò va aggiunta una serie di richieste più restrittive rispetto a quelle di base (riduzione emissioni in atmosfera, post combustori, impianti con sistemi di aspirazione scarico prodotto finito fidejussioni a garanzia; limitazioni dei quantitativi di produzione giornaliera; speciali caratteristiche costruttive delle aree di stoccaggio e copertura, sistemi di raccolta delle acque con scolmatore e trattamento di prima pioggia).
La gestione come sottoprodotto è invece molto più semplice e le motivazioni per cui il fresato dovrebbe essere considerato un “sottoprodotto” sono:
a) che esso è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza (D.Lgs. 152, comma 1, art. 184-bis) ma il suo impiego: lo scopo per cui si fresa l’asfalto è, infatti, il rifacimento del manto stradale e non la produzione del fresato in quanto tale;
b) che l’utilizzo è certo (ha i requisiti tecnici per l’uso cui è destinato), legale (non reca pregiudizi alla salute umana e all’ambiente), non necessita di ulteriori preventivi trattamenti rispetto alla normale pratica industriale (lo si lavora in un normale impianto d’asfalto senza alcuna particolare modifica (cfr. D.Lgs. 152, comma 1, art. 184-bis);
c) ha un valore economico di mercato notevole, che deriva proprio dall’interesse al reimpiego dello stesso materiale piuttosto che al suo smaltimento come rifiuto.
Ebbene, alla luce di detta analisi il Collegio ritiene che fermo restando che la qualifica del fresato d’asfalto rimane quella di “rifiuto” -e pertanto che ai fini dello smaltimento esso è soggetto a tutte le norme che valgono per la categoria dei rifiuti (nella specie non pericolosi)- che lo stesso materiale possa essere nondimeno qualificato sottoprodotto anziché rifiuto se lo stesso è inserito in un ciclo produttivo, ossia se viene utilizzato senza nessun trattamento diverso dalla normale pratica industriale (di fatto vengono effettuate solo operazioni di cernita e di selezione, che non possono essere, tuttavia, considerate operazioni di trasformazione preliminare cfr. Cass. Pen. N. 41839 del 07/11/2008) in un impianto che ne preveda l’impiego nello stesso ciclo di produzione, e precisamente per il reimpiego del materiale come componente del prodotto finale trattato nell’ambito dello stesso impianto.
L’impianto che utilizza il fresato come “sottoprodotto” non deve quindi, perché il materiale conservi la natura di sottoprodotto, stoccare quantitativi d’esso che eccedono rispetto al fabbisogno del proprio ciclo produttivo, perché la giacenza del materiale in attesa di un futuro reimpiego (nella stessa sede o altrove) integra la fase dello stoccaggio e pone il problema della permanenza del rifiuto, che invece va esclusa per quella limitata provvista di materiale che rientra quantitativamente nel normale processo di lavorazione dell’impianto (cfr. Cass. n. 35235 del 12.09.2008).
Così posta la questione, e alla stregua del criterio di distinzione individuato da parte della giurisprudenza, ritiene il Collegio che poiché, secondo le dichiarazioni del legale rappresentante della società ricorrente, ribadite nella conferenza di servizio, l’impianto di betonaggio e asfalto della ditta Doneda, oggetto di autorizzazione, prevede l’impiego di fresato d’asfalto come sottoprodotto, ossia in quantità tale da poter essere trattato e smaltito all’interno del ciclo produttivo per soddisfare l’operatività giornaliera e continua dell’impianto e non in funzione di centro di stoccaggio a tempo indefinito di tale materiale (ciò che renderebbe l’impianto, a tutti gli effetti, una discarica, e comunque lo renderebbe strumentale a quest’ultima) il progetto in questione avrebbe dovuto essere approvato senza alcuna condizione, salvo quella relativa al rapporto tra stoccaggio e quantità trattata e reimpiegata nel ciclo produttivo.
Né appare necessario al Collegio, come ritiene l’amministrazione provinciale, che ai fini della qualifica del fresato come sottoprodotto, il riutilizzo debba avvenire, per volontà della norma, nello stesso sito di produzione del rifiuto e sotto la direzione del medesimo imprenditore, posto che il fatto che il materiale fresato rimanga nel luogo di produzione, nelle vicinanze od in altro luogo non costituisce di per sé elemento univoco per qualificarlo come rifiuto dovendo ciò desumersi, invece, dalle modalità del deposito, dalla sua durata o da altre circostanze che evidenzino con certezza una situazione di abbandono (nella quale rientra lo stoccaggio del materiale in attesa di un futuro reimpiego); il che non si verifica nel caso in esame, dove il deposito di asfalto fresato verrà consumato (reimpiegato) quotidianamente per la produzione di nuovo asfalto (cfr. Cass. n. 35235 del 12.09.2008).
E tutto ciò non senza chiarire peraltro, con riguardo all’art. 184-bis D.Lgs. 152/2006, che non si tratta di una certezza genericamente riferita “al normale reimpiego” del fresato d’asfalto, quanto di un dato che va dichiarato e indicato nell’autorizzazione e, in quanto tale, imposto come condizione di corretta gestione dell’impianto.
Il parere impugnato è stato quindi, a giudizio del Collegio, erroneamente applicato alla richiesta della ditta ricorrente, nella parte in cui lo stesso assume un contrasto insuperabile tra le previsioni del PPGR della Provincia di Monza e Brianza e il progetto del nuovo impianto della ditta Doneda s.r.l., per la parte relativa all’impiego del fresato d’asfalto, prescrivendone l’approvazione, in parte qua, condizionata.
Il ricorso è quindi, nei detti limiti fondato e va accolto, con conseguente annullamento degli atti che si sono espressi, contro tale progetto condizionandone la successiva fase di approvazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.08.2012 n. 2182 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’esito positivo della conferenza di servizio indetta ex DPR 447/1998 produce l’effetto di esigere dall’amministrazione che intenda respingere la conseguente variante di PGT una motivazione puntuale, non contraddittoria e non esorbitante dagli stretti limiti funzionali di tale provvedimento: in tal caso infatti un eventuale scostamento dai pareri confluiti nel modulo della conferenza di servizio richiede una motivazione tanto più stringente, in presenza di provvedimenti negativi per le aspettative degli interessati, quanto più avanzato è lo stato del procedimento e quanto più definito e quindi irretrattabile è il carattere delle decisioni assunte (e delle sottostanti valutazioni) dall’amministrazione sugli atti presupposti.
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Scelte diverse e di segno antitetico sono possibili e del tutto legittime, quando l’amministrazione debba ancora assumere le proprie decisioni, nell’esercizio delle funzioni discrezionali che le appartengono, ma che non sono tali, o quantomeno implicano conseguenze giuridiche che non possono essere trascurate, quando, e nella misura in cui, l’esercizio del potere discrezionale non trovi in concreto una legittima e coerente forma di esplicazione in sostanziale autotutela, con tutte le conseguenze che tale modus decidendi può comportare e che rilevano sia sul piano caducatorio (dei nuovi provvedimenti illegittimi) che sul piano risarcitorio.

Ancora più pertinenti, e quindi meritevoli di essere integralmente riportate, appaiono le affermazioni di principio di un precedente analogo di questa Sezione (cfr. sez. 2^ n. 1120 del 03.05.2011) in tema di procedura SUAP, laddove, esaminando un caso simile di diniego di approvazione di proposta SUAP già favorevolmente istruita e assentita in tutte le fasi del relativo procedimento, il Collegio ha rilevato: "che l’esito positivo della conferenza di servizio indetta ex DPR 447/1998 produce l’effetto di esigere dall’amministrazione che intenda respingere la conseguente variante di PGT una motivazione puntuale, non contraddittoria e non esorbitante dagli stretti limiti funzionali di tale provvedimento: in tal caso infatti un eventuale scostamento dai pareri confluiti nel modulo della conferenza di servizio richiede una motivazione tanto più stringente, in presenza di provvedimenti negativi per le aspettative degli interessati, quanto più avanzato è lo stato del procedimento e quanto più definito e quindi irretrattabile è il carattere delle decisioni assunte (e delle sottostanti valutazioni) dall’amministrazione sugli atti presupposti".
Il che, espresso con concetti applicabili al caso in esame, significa che la scelta dell’area di ubicazione dell’impianto, confermata con l’approvazione del relativo progetto non può più essere ritrattata in sede di approvazione della variante di PRG sulla base di una diversa valutazione degli stessi presupposti che, coevamente, anche se con atti diversi sono stati posti a base dell’approvazione del progetto e, prima ancora, che sono stati ribaditi in tutta la lunga e complessa fase di procedura SUAP, (procedimento di VAS e conferenza di servizio compresi).
Analoghe considerazioni valgono per tutta la parte della motivazione con cui l’amministrazione comunale ha rifiutato l’approvazione della variante adducendone l’incompatibilità con la destinazione agricola dell’area, poiché, anche a prescindere da quanto appena rilevato in funzione del principio di affidamento, dai documenti di causa emerge che rispetto al momento in cui il progetto fu presentato e la relativa allocazione ritenuta ammissibile (e persino caldeggiata) dall’amministrazione comunale di Arcore, che per la realizzazione del progetto della ditta Doneda ha richiesto e percepito un anticipo di 150 mila euro a titolo di oneri di urbanizzazione, (cfr. doc. n. 38 e 39 dep. il 19.09.2011 in allegato al ricorso principale) non ci sono stati mutamenti di programmazione urbanistica, intesi come nuove previsioni di PGT, che potessero giustificare un ripensamento, così motivato, sulla scelta di allocazione del progetto, né elementi di fatto sopravvenuti e riferibili specificamente all’area in questione -al di là dei nuovi criteri generali di programmazione dell’uso delle aree agricole che l’amministrazione invoca e che non sono applicabili a quell’area già individuata come unica opzione possibile in ambito provinciale, tali da poter giustificare un’incompatibilità sopravvenuta del sito- che non sia né arbitraria né contraddittoria rispetto a quanto già deciso dalla stessa amministrazione con altri distinti atti dello stesso procedimento.
Non resta quindi, come sostiene parte ricorrente, che ricondurre, quantomeno per questi specifici profili, la scelta dell’amministrazione alla c.d. volontà politica, peraltro non dissimulata nella stessa delibera impugnata, di segno diverso rispetto alla volontà manifestata nel corso del procedimento SUAP; volontà imputabile, in termini di ripensamento alla stessa amministrazione in scadenza, prima, e all’amministrazione subentrante, poi.
Sennonché, scelte diverse e di segno antitetico sono possibili e del tutto legittime, quando l’amministrazione debba ancora assumere le proprie decisioni, nell’esercizio delle funzioni discrezionali che le appartengono, ma che non sono tali, o quantomeno implicano conseguenze giuridiche che non possono essere trascurate, quando, e nella misura in cui, l’esercizio del potere discrezionale non trovi in concreto una legittima e coerente forma di esplicazione in sostanziale autotutela, con tutte le conseguenze che tale modus decidendi può comportare e che rilevano sia sul piano caducatorio (dei nuovi provvedimenti illegittimi) che sul piano risarcitorio
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.08.2012 n. 2182 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa consumazione del potere inibitorio (ndr: 30 gg. per la DIA) non preclude all’amministrazione stessa l’esercizio del diverso potere di autotutela, ex artt. 21-quinquies e 21-nonies legge n. 241/1990, oltre al potere sanzionatorio e di vigilanza di cui all’art. 21 stessa legge.
Anche ammesso che l’amministrazione abbia, con la nota datata 23.03.2007 (cfr. doc. n. 8 allegati di parte ricorrente), riscontrato positivamente la DIA prot. 2066 del 05.03.2007, (affermazione discutibile, tenuto conto sia del tenore della nota de qua, che si limita a richiedere il contributo di costruzione e i diritti di segreteria in relazione all’intervento dichiarato; che della sua datazione, ben anteriore alla scadenza del termine di trenta giorni spettante alla p.a. per l’esercizio del potere di diffida ex art. 23, co. 6, d.P.R. n. 380/2001), sta di fatto che la consumazione del potere inibitorio non preclude all’amministrazione stessa l’esercizio del diverso potere di autotutela, ex artt. 21-quinquies e 21-nonies legge n. 241/1990, oltre al potere sanzionatorio e di vigilanza di cui all’art. 21 stessa legge (cfr. sulla diversa natura del potere inibitorio e di quello di autotutela, entrambi richiamati dall’art. 19, co. 3, della legge n. 241/1990 Ad. Plen. Cons. Stato n. 15, del 29.07.2011; nonché, TAR Bologna, sez. I, 26.04.2012, n. 272; TAR Milano, sez. II, 24.11.2011, n. 2899) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 07.08.2012 n. 2181 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAQuanto al concetto di “intradosso del solaio di copertura”, lo stesso deve correttamente intendersi al netto di extra-spessori non strutturali, sì da rimanere indifferente alle opere interne realizzate in aderenza al tetto; diversamente opinando “…infatti, si renderebbe del tutto ondivaga, affidata alla mera volontà dell'interessato e senza alcun parametro che ne renda possibile il controllo, la determinazione dell'altezza ammissibile per l'edificazione, che potrebbe essere maggiorata semplicemente mediante la realizzazione di tramezzature e/o tamponature di qualsivoglia spessore. Al contrario, l'intradosso del solaio deve essere considerato quale elemento obiettivo, che prescinde dalle opere interne: nella fattispecie, dalla tamponatura per effetto del quale l'altezza dell'edificio (calcolata, all'epoca del permesso del 2003, all'intradosso del solaio come originariamente progettato) è stata inequivocabilmente innalzata”.
Quanto al concetto di “intradosso del solaio di copertura”, lo stesso deve correttamente intendersi al netto di extra-spessori non strutturali, sì da rimanere indifferente alle opere interne realizzate in aderenza al tetto; diversamente opinando “…infatti, si renderebbe del tutto ondivaga, affidata alla mera volontà dell'interessato e senza alcun parametro che ne renda possibile il controllo, la determinazione dell'altezza ammissibile per l'edificazione, che potrebbe essere maggiorata semplicemente mediante la realizzazione di tramezzature e/o tamponature di qualsivoglia spessore. Al contrario, l'intradosso del solaio deve essere considerato quale elemento obiettivo, che prescinde dalle opere interne: nella fattispecie, dalla tamponatura per effetto del quale l'altezza dell'edificio (calcolata, all'epoca del permesso del 2003, all'intradosso del solaio come originariamente progettato) è stata inequivocabilmente innalzata” (così, Consiglio di Stato, VI, 30.05.2011 n. 3228) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 07.08.2012 n. 2180 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl legislatore, intervenendo due volte sulle disposizioni di cui trattasi (ndr: art. 38, c. 1, lett. g) e c. 2, d.lgs. n. 163/2006) ha elaborato una norma complessa che, da un lato (v. d.l. n. 70/2011) introduce il concetto di “gravità” della violazione, predeterminandone però il quantum attraverso il rinvio nell’art. 38, c. 2 (terzo periodo, prima parte) all’art. 48-bis d.p.r. n. 602/1973 (euro diecimila, salvo modifiche da disporsi con apposito d.m. – v. art. 48-bis, c. 2-bis) e, dall’altro lato (v. d.l. n. 16/2012), fornisce la definizione del concetto di “violazioni definitivamente accertate”, che sono solo quelle “relative all'obbligo di pagamento di debiti per imposte e tasse certi, scaduti ed esigibili.” (v. art. 38, c. 2, terzo periodo, seconda parte).
Orbene, le disposizioni di cui al d.l. n. 70/2011, nel testo risultante dalla legge di conversione, che hanno modificato l’art. 38, c. 1, lett. g) e c. 2 (terzo periodo, prima parte), d.lgs. n. 163/2006, sono a stretto rigore applicabili solo alle procedure i cui bandi siano pubblicati successivamente alla data di entrata in vigore del d.l. n. 70/2011 (v. art. 4, c. 3, d.l. n. 70/2011); al contrario le disposizioni di cui al d.l. n. 16/2012, che hanno introdotto la seconda parte del terzo periodo dell’art. 38, c. 2, per espressa previsione della legge, si applicano retroattivamente (v. art. 1, c. 6, d.l. n. 16/2012).
Ciò nonostante, ritiene il Collegio che il nuovo art. 38, c. 1, lett. g) e c. 2, terzo periodo, prima e seconda parte, d.lgs. n. 163/2006, contenga delle disposizioni che vanno lette complessivamente in modo unitario. Da esse si astrae, attraverso una corretta e ragionevole operazione ermeneutica, una norma alla quale non può che darsi complessivamente valore di norma interpretativa nel segno di un’unitaria considerazione della regolazione della fattispecie, come tale avente, anch’essa, efficacia retroattiva e, dunque, in quanto tale, con effetti anche sulla controversia in esame.
In tal senso depone in particolare l’utilizzo dell’espressione “si intendono” al fine di predeterminare il concetto di “gravità” della violazione che è sottratto al sindacato discrezionale della stazione appaltante (v. determinazione dell’A.V.C.P. n. 1/2012: “non residua in capo alla stazione appaltante alcun margine di discrezionalità per effettuare un apprezzamento sulla gravità dell’illecito commesso dall’operatore economico; dunque, in presenza di un debito fiscale definitivamente accertato di importo superiore a quello previsto dalla legge citata, la stazione appaltante è costretta ad escludere, poiché la valutazione della gravità è stata già effettuata a monte dal legislatore”), nonché la ratio delle modifiche introdotte dal d.l. n. 70/2011, cioè quella di ridurre i tempi di costruzione delle opere pubbliche, semplificare le procedure di affidamento dei relativi contratti pubblici, garantire un più efficace sistema di controllo e ridurre il contenzioso (v. art. 1, c. 1, prima parte, d.l. n. 70/2011).
L’opzione ermeneutica offerta consente, invero, di porre fine ai contrasti giurisprudenziali in materia.

In punto di diritto, osserva il Collegio che il testo della disposizione di cui all’art. 38, c. 1, lett. g), d.lgs. n. 163/2006, vigente all’epoca di pubblicazione del bando (e richiamato espressamente nel disciplinare di gara – v. punto 4, lett. g) era il seguente: “1. Sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti … g) che hanno commesso violazioni, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse, secondo la legislazione italiana o quella dello Stato in cui sono stabiliti”.
Solo per effetto delle modifiche successivamente intervenute ed apportate dapprima dall’art. 4, c. 2, lett. b), punto 1.5, d.l. n. 13/05/2011, n. 70 (conv. in l. n. 106/2011) e poi dall’art. 1, c. 5, d.l. n. 02/03/2012, n. 16 (conv. in l. n. 44/2012) il testo dell’art. 38, c. 1, lett. g) e c. 2, d.lgs. n. 163/2006 è divenuto il seguente: “1. Sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti … g) che hanno commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse, secondo la legislazione italiana o quella dello Stato in cui sono stabiliti. … 2. Ai fini del comma 1, lettera g), si intendono gravi le violazioni che comportano un omesso pagamento di imposte e tasse per un importo superiore all’importo di cui all’articolo 48-bis, commi 1 e 2-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 29.09.1973, n. 602; costituiscono violazioni definitivamente accertate quelle relative all'obbligo di pagamento di debiti per imposte e tasse certi, scaduti ed esigibili.”.
In sostanza, il legislatore, intervenendo due volte sulle disposizioni di cui trattasi ha elaborato una norma complessa che, da un lato (v. d.l. n. 70/2011) introduce il concetto di “gravità” della violazione, predeterminandone però il quantum attraverso il rinvio nell’art. 38, c. 2 (terzo periodo, prima parte) all’art. 48-bis d.p.r. n. 602/1973 (euro diecimila, salvo modifiche da disporsi con apposito d.m. – v. art. 48-bis, c. 2-bis) e, dall’altro lato (v. d.l. n. 16/2012), fornisce la definizione del concetto di “violazioni definitivamente accertate”, che sono solo quelle “relative all'obbligo di pagamento di debiti per imposte e tasse certi, scaduti ed esigibili.” (v. art. 38, c. 2, terzo periodo, seconda parte).
Orbene, le disposizioni di cui al d.l. n. 70/2011, nel testo risultante dalla legge di conversione, che hanno modificato l’art. 38, c. 1, lett. g) e c. 2 (terzo periodo, prima parte), d.lgs. n. 163/2006, sono a stretto rigore applicabili solo alle procedure i cui bandi siano pubblicati successivamente alla data di entrata in vigore del d.l. n. 70/2011 (v. art. 4, c. 3, d.l. n. 70/2011); al contrario le disposizioni di cui al d.l. n. 16/2012, che hanno introdotto la seconda parte del terzo periodo dell’art. 38, c. 2, per espressa previsione della legge, si applicano retroattivamente (v. art. 1, c. 6, d.l. n. 16/2012).
Ciò nonostante, ritiene il Collegio che il nuovo art. 38, c. 1, lett. g) e c. 2, terzo periodo, prima e seconda parte, d.lgs. n. 163/2006, contenga delle disposizioni che vanno lette complessivamente in modo unitario. Da esse si astrae, attraverso una corretta e ragionevole operazione ermeneutica, una norma (sul rapporto tra “disposizioni” e “norma”, v. TAR Sicilia, sez. III, 05.07.2012, n. 1403), alla quale non può che darsi complessivamente valore di norma interpretativa nel segno di un’unitaria considerazione della regolazione della fattispecie, come tale avente, anch’essa, efficacia retroattiva e, dunque, in quanto tale, con effetti anche sulla controversia in esame.
In tal senso depone in particolare l’utilizzo dell’espressione “si intendono” al fine di predeterminare il concetto di “gravità” della violazione che è sottratto al sindacato discrezionale della stazione appaltante (v. determinazione dell’A.V.C.P. n. 1/2012: “non residua in capo alla stazione appaltante alcun margine di discrezionalità per effettuare un apprezzamento sulla gravità dell’illecito commesso dall’operatore economico; dunque, in presenza di un debito fiscale definitivamente accertato di importo superiore a quello previsto dalla legge citata, la stazione appaltante è costretta ad escludere, poiché la valutazione della gravità è stata già effettuata a monte dal legislatore”), nonché la ratio delle modifiche introdotte dal d.l. n. 70/2011, cioè quella di ridurre i tempi di costruzione delle opere pubbliche, semplificare le procedure di affidamento dei relativi contratti pubblici, garantire un più efficace sistema di controllo e ridurre il contenzioso (v. art. 1, c. 1, prima parte, d.l. n. 70/2011).
L’opzione ermeneutica offerta consente, invero, di porre fine ai contrasti giurisprudenziali in materia (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 02.08.2012 n. 1752 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa violazione della normativa urbanistica determina ex se l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata, sicché i provvedimenti di repressione degli abusi edilizi (ordine di demolizione e ogni altro provvedimento sanzionatorio) costituiscono atto dovuto della Pubblica amministrazione, riconducibile ad esercizio di potere vincolato, in mera dipendenza dall'accertamento dell'abuso e della riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge, con il risultato che il provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione del carattere illecito dell'opera realizzata, e senza che sia necessaria una previa comparazione dell'interesse pubblico alla repressione dell'abuso, che è in re ipsa , con l'interesse del privato proprietario del manufatto.
La violazione della normativa urbanistica determina ex se l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata (da ultimo, ex plurimis, TAR Campania, Napoli, sez. VII, 10.05.2012 n. 2175), sicché i provvedimenti di repressione degli abusi edilizi (ordine di demolizione e ogni altro provvedimento sanzionatorio) costituiscono atto dovuto della Pubblica amministrazione, riconducibile ad esercizio di potere vincolato, in mera dipendenza dall'accertamento dell'abuso e della riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge, con il risultato che il provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione del carattere illecito dell'opera realizzata, e senza che sia necessaria una previa comparazione dell'interesse pubblico alla repressione dell'abuso, che è in re ipsa , con l'interesse del privato proprietario del manufatto (così Cons. St., sez. IV, 20.07.2011 n. 4403)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 02.08.2012 n. 1742 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATALa comunicazione di avvio del procedimento è superflua quando:
- l'adozione del provvedimento finale è doverosa (oltre che vincolata) per l'Amministrazione;
- i presupposti fattuali dell'atto risultano assolutamente incontestati dalle parti; il quadro normativo di riferimento non presenta margini di incertezza sufficientemente apprezzabili;
- l'eventuale annullamento del provvedimento finale, per accertata violazione dell'obbligo formale di comunicazione, non priverebbe l'amministrazione del potere (o addirittura del dovere) di adottare un nuovo provvedimento di identico contenuto (anche in relazione alla decorrenza dei suoi effetti giuridici).
La giurisprudenza esclude l’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento per i provvedimenti a carattere sanzionatorio in materia di violazioni edilizie, anche in considerazione che l’art. 21-octies della l. 241 che non ammette l’annullamento del provvedimento emesso in violazione di norme del procedimento il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottabile.
Va altresì considerato che la comunicazione di avvio del procedimento serve a stimolare l’apporto partecipativo del privato al procedimento stesso, e risulta inutile proprio nei casi in cui l’apporto sarebbe inutile alla luce del contenuto dell’emanando provvedimento.

Per giurisprudenza costante e pacifica, la comunicazione di avvio del procedimento è superflua quando:
- l'adozione del provvedimento finale è doverosa (oltre che vincolata) per l'Amministrazione;
- i presupposti fattuali dell'atto risultano assolutamente incontestati dalle parti; il quadro normativo di riferimento non presenta margini di incertezza sufficientemente apprezzabili;
- l'eventuale annullamento del provvedimento finale, per accertata violazione dell'obbligo formale di comunicazione, non priverebbe l'amministrazione del potere (o addirittura del dovere) di adottare un nuovo provvedimento di identico contenuto (anche in relazione alla decorrenza dei suoi effetti giuridici) (TAR Piemonte, sez. II, 08.05.2012 n. 507).
D’altra parte la giurisprudenza esclude l’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento per i provvedimenti a carattere sanzionatorio in materia di violazioni edilizie (ex multis, TAR Reggio Calabria, 09.05.2012 n. 336), anche in considerazione che l’art. 21-octies della l. 241 che non ammette l’annullamento del provvedimento emesso in violazione di norme del procedimento il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottabile (ex plurimis, TAR Campania, Napoli, sez. III, 04.05.2012 n. 2052).
Va altresì considerato che la comunicazione di avvio del procedimento serve a stimolare l’apporto partecipativo del privato al procedimento stesso, e risulta inutile proprio nei casi in cui l’apporto sarebbe inutile alla luce del contenuto dell’emanando provvedimento, come nel caso concreto, in cui –stante l’indiscutibile accertamento del giudice civile in ordine alla proprietà dell’area– la ricorrente Lupo Grazia non avrebbe avuto alcun argomento sostanziale per opporsi all’emissione del provvedimento di annullamento d’ufficio, vincolato all’accertamento dell’inesistenza della titolarità dell’area di sedime dell’edificio realizzato (circostanza di fatto alla quale il Comune non avrebbe potuto ovviare in alcun modo, se non legittimando l’esistenza di una sanatoria di un edificio che, stando così le cose, non avrebbe mai potuto concedere)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 02.08.2012 n. 1742 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa semplice disponibilità dell’area non è sufficiente per conseguire l'effetto finale conseguente all'instaurazione di un procedimento amministrativo preordinato al rilascio di una concessione edilizia, in presenza di un esplicito atto di opposizione del proprietario.
... per l'annullamento, previa sospensione del provvedimento datato 04.04.2012, del Comune di Monreale - Area Gestione Territorio, con il quale venivano annullati la concessione edilizia in sanatoria n. 195 rilasciata in data 21.07.2004 e il certificato di abitabilità rilasciato in data 31.03.2005 afferente un edificio adibito a civile abitazione.
...
Grazia Lupo ha impugnato il provvedimento indicato in epigrafe, con il quale il Comune di Monreale ha annullato d’ufficio la concessione in sanatoria, rilasciata il 21.07.2004, e il certificato di abitabilità del 31.03.2005, entrambi relativi ad un edificio sito in Monreale, c.da Valle Sapone, fg. 25 p.lla 402 sub 4 e 5, la cui proprietà, in forza della sentenza definitiva della Corte di Cassazione del 22.02.2011, non è attribuibile a Lupo Grazia, sicché, difettando la titolarità dell’area, si è reso necessario l’annullamento.
...
La legittimazione dei proprietari di costruzioni a chiedere la sanatoria edilizia non significa che sia sufficiente la proprietà superficiaria dell’edificio, in mancanza di quella dell’area di sedime.
Tutto ciò considerando che nel provvedimento concessorio, del 2004, il presupposto fattuale consisteva nella “proprietà dell’area di sedime dell’edificio” da parte di Lupo Grazia, “giusto atto di assegnazione e divisione” del 1975, proprietà che, come più volte ripetuto, è stata messa in discussione a seguito dell’azione di regolamento di confini proposta da Lupo Enzo, che ha definitivamente accertato l’inesistenza del diritto reale in capo alla ricorrente, e quindi ha fatto venir meno il presupposto fondante del provvedimento annullato.
La giurisprudenza amministrativa, inoltre, ha osservato in più occasioni che la semplice disponibilità dell’area non è sufficiente per conseguire l'effetto finale conseguente all'instaurazione di un procedimento amministrativo preordinato al rilascio di una concessione edilizia, in presenza di un esplicito atto di opposizione del proprietario (TAR Sicilia, Catania, sez. I, 08.07.2010 n. 2911).
Ne consegue che, nel caso di specie, l’opposizione del germano Lupo Enzo (che aveva instaurato apposito contenzioso volto alla contestazione della proprietà dell’area) vale di per sé a rendere inesistente ab origine la stessa disponibilità giuridica dell’area da parte della ricorrente (in tal senso, si veda anche TAR Veneto, sez. II, 19.12.2008 n. 3922)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 02.08.2012 n. 1742 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIE' pacifico in giurisprudenza che l’attendibilità dell’offerta debba essere valutata in forza di un apprezzamento complessivo, ma resta fermo che le modificazioni consentite si riducono alla possibilità di variare le giustificazioni delle singole voci di costo rispetto a quelle già fornite e alla possibilità di “aggiustare” singole voci di costo, in ragione di documentate sopravvenienze di fatto o normative che comportino una riduzione dei costi, o di originari e comprovati errori di calcolo, o di altre ragioni plausibili.
Insomma, l'offerta è immodificabile, mentre modificabili sono le giustificazioni e sono ammesse giustificazioni sopravvenute, nonché compensazioni tra sottostime e sovrastime, purché l'offerta risulti nel suo complesso affidabile al momento dell'aggiudicazione e, a tale momento, dia garanzia di una seria esecuzione del contratto.
Viceversa, non sono consentiti aggiustamenti dell’offerta in itinere e l’amministrazione deve verificare “la serietà di una offerta consapevolmente già formulata ed immutabile”.
Pertanto, non si può “consentire che in sede di giustificazioni vengano apoditticamente rimodulate le voci di costo senza alcuna motivazione, con un’operazione di finanza creativa priva di pezze d’appoggio, al solo scopo di “far quadrare i conti”, ossia di assicurarsi che il prezzo complessivo offerto resti immutato e si superino le contestazioni sollevate dalla stazione appaltante su alcune voci di costo”.
Da ciò si ricava “l'inaccettabilità di quelle giustificazioni che risultino tardivamente dirette (nel tentativo di far apparire seria un'offerta che viceversa non è stata adeguatamente meditata) ad un'allocazione dei costi diversa rispetto a quella originariamente enunciata. Si vuol dire che se una quota di costo è stata indicata a titolo di spese generali, quella voce non può poi essere invocata, nel corso del subprocedimento di giustificazione, per coprire costi diversi”.

E' pacifico in giurisprudenza che l’attendibilità dell’offerta debba essere valutata in forza di un apprezzamento complessivo, ma resta fermo che le modificazioni consentite si riducono alla possibilità di variare le giustificazioni delle singole voci di costo rispetto a quelle già fornite e alla possibilità di “aggiustare” singole voci di costo, in ragione di documentate sopravvenienze di fatto o normative che comportino una riduzione dei costi, o di originari e comprovati errori di calcolo, o di altre ragioni plausibili.
Insomma, l'offerta è immodificabile, mentre modificabili sono le giustificazioni e sono ammesse giustificazioni sopravvenute, nonché compensazioni tra sottostime e sovrastime, purché l'offerta risulti nel suo complesso affidabile al momento dell'aggiudicazione e, a tale momento, dia garanzia di una seria esecuzione del contratto (Consiglio di Stato, sez. V, 23.06.2010, n. 3962).
Viceversa, non sono consentiti aggiustamenti dell’offerta in itinere e l’amministrazione deve verificare “la serietà di una offerta consapevolmente già formulata ed immutabile” (Consiglio di stato, sez. V, 12.03.2009, n. 1451).
Pertanto, non si può “consentire che in sede di giustificazioni vengano apoditticamente rimodulate le voci di costo senza alcuna motivazione, con un’operazione di finanza creativa priva di pezze d’appoggio, al solo scopo di “far quadrare i conti”, ossia di assicurarsi che il prezzo complessivo offerto resti immutato e si superino le contestazioni sollevate dalla stazione appaltante su alcune voci di costo” (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 07.02.2012, n. 636).
Da ciò si ricava “l'inaccettabilità di quelle giustificazioni che risultino tardivamente dirette (nel tentativo di far apparire seria un'offerta che viceversa non è stata adeguatamente meditata) ad un'allocazione dei costi diversa rispetto a quella originariamente enunciata. Si vuol dire che se, come avviene nella specie, una quota di costo è stata indicata a titolo di spese generali, quella voce non può poi essere invocata, nel corso del subprocedimento di giustificazione, per coprire costi diversi” (Consiglio di Stato, sez. V, 12.03.2009, n. 1451) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 01.08.2012 n. 2175 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa disposizione dell'art. 3, comma 4, l. n. 241 del 1990 non influisce sull'individuazione e sulla cura dell'interesse pubblico concreto cui è finalizzato il provvedimento, né sulla riconducibilità dello stesso all'autorità amministrativa, ma tende semplicemente ad agevolare il ricorso alla tutela giurisdizionale, sicché l'omissione de qua, nel concorso di significative ulteriori circostanze, potrebbe semmai dar luogo alla concessione del beneficio della rimessione in termini.
RITENUTO:
che va preliminarmente escluso il rilievo delle censure di natura formale attinenti alla violazione dell’art. 3 della legge n. 241/1990 per l’omessa menzione nell’atto impugnato del termine di impugnazione e dell’Autorità giudiziaria cui ricorrere, dal momento che la censura è innanzitutto smentita testualmente, in quanto la parte dispositiva del provvedimento gravato include esplicitamente la comunicazione che avverso il predetto è ammesso ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale “entro i termini di legge”, né alcun significato può attribuirsi alla omessa precisazione della durata del predetto termine, dal momento che ad essa pacificamente la giurisprudenza non attribuisce efficacia invalidante.
Infatti, la disposizione dell'art. 3, comma 4, l. n. 241 del 1990 non influisce sull'individuazione e sulla cura dell'interesse pubblico concreto cui è finalizzato il provvedimento, né sulla riconducibilità dello stesso all'autorità amministrativa, ma tende semplicemente ad agevolare il ricorso alla tutela giurisdizionale, sicché l'omissione de qua, nel concorso di significative ulteriori circostanze, potrebbe semmai dar luogo alla concessione del beneficio della rimessione in termini (cfr Tar Campania, Napoli, sez. VII 02.11.2010 n. 22291; Tar Campania Napoli sez. VIII 14.03.2011 n. 1459) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 31.07.2012 n. 3710 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’ordine di demolizione non deve essere necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, rispetto al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario ed il cui presupposto è costituito unicamente dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità o in assenza del titolo abilitativo.
Rispetto ad un ordine di demolizione non si richiede una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione, o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art. 3, l. n. 241 del 1990, dato che, ricorrendo i predetti requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione.
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In materia di demolizione, la figura del responsabile dell’abuso non si identifica solo in colui che ha materialmente eseguito l’opera ritenuta abusiva, ma si riferisce, necessariamente, anche a chi di quell’opera ha la materiale disponibilità e pertanto, quale detentore, è in grado di provvedere alla demolizione restaurando così l’ordine violato.
L’ordine di demolizione, infatti, non presuppone l’accertamento dell’elemento soggettivo integrante responsabilità a carico del suo destinatario, né è un provvedimento diretto a sanzionare un comportamento illegittimo del trasgressore, ma è un atto di tipo ripristinatorio avendo la funzione di eliminare le conseguenze della violazione edilizia, attraverso la riduzione in pristino dello stato dei luoghi conseguente alla rimozione delle opere abusive. Per tale ragione l’ordine di demolizione deve essere rivolto a colui che abbia la disponibilità materiale dell’opera abusiva, indipendentemente dal fatto che l’abbia concretamente realizzata, aspetto che potrebbe rilevare sotto il profilo della responsabilità penale, ma non per la legittimità dell’ordine di demolizione.
Si è difatti affermato con riguardo all’analoga posizione dell’utilizzatore di un bene abusivo realizzato su area demaniale, che: “i provvedimenti repressivi di illeciti edilizi possono essere indirizzati anche a persone diverse da quelle che hanno materialmente realizzato l’abuso, ma è anche vero che, ai fini della legittimità delle relative ingiunzioni, è sempre necessaria la sussistenza di una relazione giuridica o materiale del destinatario con il bene".
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L’ordine di demolizione correttamente è rivolto, ad avviso del Collegio, a colui che al momento della sua irrogazione aveva l’attuale disponibilità del bene abusivo e ciò indipendente dal fatto di averlo realizzato.

RITENUTO:
che, in ordine alla mancanza della previa diffida prevista per gli abusi contestati ai sensi dell’art. 35 d.p.r. n. 380/2001, deve osservarsi, ad avviso del Collegio, che si tratta di un adempimento prescritto dalla legge, onde consentire all’interessato di eliminare spontaneamente l’abuso contestatogli, al fine di evitare di incorrere nella misura del ripristino suscettibile di essere eseguita dal Comune d’ufficio ed a spese del responsabile dell’abuso.
Al riguardo, la ricorrente non ha dedotto che, ove previamente diffidata, avrebbe avuto la possibilità di eliminare l’abuso e di non incorrere nell’ordine gravato, avendo al contrario manifestato con il presente ricorso un interesse al mantenimento in vita delle opere abusive de quibus;
che, stante la descritta natura sollecitatoria della diffida in questione, la sua omissione non potrebbe acquisire rilievo nemmeno quale omessa garanzia partecipativa la cui operatività, peraltro, è pacificamente esclusa per orientamento costante di questo Collegio nella materia in esame.
L’ordine di demolizione, difatti, non deve essere necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, rispetto al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario ed il cui presupposto è costituito unicamente dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità o in assenza del titolo abilitativo;
che rispetto ad un ordine di demolizione non si richiede una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione, o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art. 3, l. n. 241 del 1990, dato che, ricorrendo i predetti requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (cfr, ex plurimis, Consiglio Stato, sez. IV, 31.08.2010, n. 3955);
che, quanto all’assunta estraneità all’abuso sul presupposto –rimasto comunque indimostrato in atti- della preesistenza delle opere alla consegna dell’alloggio in questione, è bene chiarire che in materia di demolizione, ad avviso del Collegio, la figura del responsabile dell’abuso non si identifica solo in colui che ha materialmente eseguito l’opera ritenuta abusiva, ma si riferisce, necessariamente, anche a chi di quell’opera ha la materiale disponibilità e pertanto, quale detentore, è in grado di provvedere alla demolizione restaurando così l’ordine violato.
L’ordine di demolizione, infatti, non presuppone l’accertamento dell’elemento soggettivo integrante responsabilità a carico del suo destinatario, né è un provvedimento diretto a sanzionare un comportamento illegittimo del trasgressore, ma è un atto di tipo ripristinatorio avendo la funzione di eliminare le conseguenze della violazione edilizia, attraverso la riduzione in pristino dello stato dei luoghi conseguente alla rimozione delle opere abusive. Per tale ragione l’ordine di demolizione deve essere rivolto a colui che abbia la disponibilità materiale dell’opera abusiva, indipendentemente dal fatto che l’abbia concretamente realizzata, aspetto che potrebbe rilevare sotto il profilo della responsabilità penale, ma non per la legittimità dell’ordine di demolizione.
Si è difatti affermato con riguardo all’analoga posizione dell’utilizzatore di un bene abusivo realizzato su area demaniale, che: “i provvedimenti repressivi di illeciti edilizi possono essere indirizzati anche a persone diverse da quelle che hanno materialmente realizzato l’abuso, ma è anche vero che, ai fini della legittimità delle relative ingiunzioni, è sempre necessaria la sussistenza di una relazione giuridica o materiale del destinatario con il bene” (cfr C.d.S. sez. IV 16.07.2007 n. 4008);
che il presupposto del provvedimento amministrativo emesso ai sensi dell’art. 35 d.p.r. n. 380/2001 è la realizzazione di un’opera in assenza di permesso di costruire (ovvero in totale o parziale difformità dal medesimo) su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di enti pubblici, la cui eliminazione è necessaria per ripristinare il corretto assetto del territorio, sicché l’ordine di demolizione correttamente è rivolto, ad avviso del Collegio, a colui che al momento della sua irrogazione aveva l’attuale disponibilità del bene abusivo e ciò indipendente dal fatto di averlo realizzato (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 31.07.2012 n. 3710 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell'art. 3, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, la costruzione di una veranda, con conseguente incremento di superficie utile e mutamento di destinazione d’uso della superficie occupata dal balcone che comporta un aumento di volumetria, deve essere qualificata ristrutturazione edilizia, in quanto si risolve nella realizzazione di un organismo diverso dal precedente per struttura e destinazione e quindi, ai sensi dell'art. 10, stesso d.P.R., richiede il previo rilascio del permesso di costruire in mancanza del quale è legittimo l'ordine di demolizione.
La realizzazione di una veranda cui consegua un aumento di volumetria deve essere qualificata, ai sensi dell'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, come ristrutturazione edilizia, in quanto comporta per effetto dell'aumento di volumetria correlata, la realizzazione di un organismo diverso dal precedente per struttura e destinazione.
L'intervento in questione, secondo quanto previsto dall'art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001, deve essere quindi assentito con permesso di costruire il che determina la legittimità della prescrizione demolitoria irrogata con il provvedimento impugnato.

RITENUTO:
che, analogamente, con riferimento alla contestata installazione di una veranda in alluminio sul balcone adibita in parte a ripostiglio, la documentazione versata in atti, costituita da una relazione redatta da un geometra, peraltro non giurata e dagli elaborati planimetrici ad essa allegati, in mancanza di riproduzioni fotografiche aggiornate dello stato dei luoghi, sono inidonei a dimostrare la assunta natura precaria e pertinenziale dell’opera, specie considerando che sugli elaborati redatti dal tecnico risulta rappresentato il solo ripostiglio, mentre l’ordinanza redatta all’esito del sopralluogo eseguito dai tecnici comunali descrive chiaramente una veranda adibita “solo in parte” a ripostiglio.
Ai sensi dell'art. 3, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, la costruzione di una veranda, con conseguente incremento di superficie utile e mutamento di destinazione d’uso della superficie occupata dal balcone che comporta un aumento di volumetria, deve essere qualificata ristrutturazione edilizia, in quanto si risolve nella realizzazione di un organismo diverso dal precedente per struttura e destinazione e quindi, ai sensi dell'art. 10, stesso d.P.R., richiede il previo rilascio del permesso di costruire in mancanza del quale è legittimo l'ordine di demolizione.
Recente la giurisprudenza ha infatti precisato che la realizzazione di una veranda cui consegua un aumento di volumetria deve essere qualificata, ai sensi dell'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, come ristrutturazione edilizia, in quanto comporta per effetto dell'aumento di volumetria correlata, la realizzazione di un organismo diverso dal precedente per struttura e destinazione.
L'intervento in questione, secondo quanto previsto dall'art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001, deve essere quindi assentito con permesso di costruire il che determina la legittimità della prescrizione demolitoria irrogata con il provvedimento impugnato (cfr. TAR Lazio Roma, sez. I, 01.09.2010, n. 32098; Tar Sicilia, Catania sez. II, 07.05.2012 n. 2079; Tar Napoli, sez. IV 04.02.2011 n. 716) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 31.07.2012 n. 3710 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe opere di demolizione e costruzione di tramezzi interni, finalizzate ad una diversa distribuzione degli spazi interni sono assoggettate a mera comunicazione ai sensi dell'art. 6 del d.p.r. n. 380 cit. che include tra le opere di manutenzione straordinaria lo spostamento di pareti interne.
RITENUTO:
che a diverse conclusioni deve pervenirsi limitatamente alle contestate opere di demolizione e costruzione di tramezzi interni finalizzate ad una diversa distribuzione degli spazi interni che, come innanzi anticipato, sono assoggettate a mera comunicazione ai sensi del sopra richiamato art. 6 del d.p.r. n. 380 cit. che include tra le opere di manutenzione straordinaria lo spostamento di pareti interne (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 31.07.2012 n. 3710 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVINon è ammissibile l’istanza con la quale sia chiesta all’Amministrazione non l’ostensione di atti già esistenti in rerum natura, ma una attività di elaborazione e formazione di nuovi documenti che non può mai essere pretesa in sede di accesso.
Non può sussistere alcun valido e qualificato interesse all’ostensione di atti e documenti che non hanno avuto alcuna rilevanza esterna, restando meri interna corporis dell’Amministrazione privi di ogni seguito.

Con riferimento a tali atti, l’Amministrazione appellante precisa che si tratterebbe, almeno in parte, di atti non esistenti presso l’Agenzia delle Entrate, e comunque che, per quanto concerne le informazioni esistenti nelle banche dati dell’Anagrafe Tributaria, sarebbe impossibile soddisfare le richieste della società appellata senza procedere ad una complessa estrapolazione di dati: infatti, l’istante non ha chiesto la trasmissione di documentazione “statica”, quale sarebbe ad esempio il complesso delle informazioni che la riguardano esistenti presso l’Anagrafe Tributaria, bensì l’acquisizione di specifici atti (segnalazioni, note di trasmissione etc.) che su tale realtà “statica” hanno inciso.
Pertanto, trova applicazione l’indirizzo per cui non è ammissibile l’istanza con la quale sia chiesta all’Amministrazione non l’ostensione di atti già esistenti in rerum natura, ma una attività di elaborazione e formazione di nuovi documenti che non può mai essere pretesa in sede di accesso (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 20.04.2012, nr. 2362; Cons. Stato, sez. VI, 12.07.2011, nr. 4209; Cons. Stato, sez. IV, 30.11.2010, nr. 8359).
Un discorso a parte, poi, va fatto per quanto concerne la richiesta di acquisizione di una pregressa iscrizione a ruolo e del relativo provvedimento di annullamento intervenuto prima che la stessa divenisse efficace, della quale la società appellata assume di essere venuta a conoscenza e che ritiene sintomatiche degli intenti scorretti e persecutori dell’Amministrazione.
Sul punto, al di là di quanto già evidenziato circa la genericità dell’affermazione di parte istante circa la “conoscenza” che avrebbe avuto degli atti richiesti, va richiamato l’orientamento per cui non può sussistere alcun valido e qualificato interesse all’ostensione di atti e documenti che non hanno avuto alcuna rilevanza esterna, restando meri interna corporis dell’Amministrazione privi di ogni seguito (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 10.01.2012, nr. 25; id., 29.10.2001, nr. 5636)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.07.2012 n. 4316 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONELa proroga dei termini previsti dall'art. 13 l. n. 2359 del 1865 è considerata istituto di carattere eccezionale finalizzato ad evitare di mantenere i beni espropriabili in stato di soggezione a tempo indeterminato e a tutelare l'interesse pubblico a che l'opera venga eseguita in un congruo arco di tempo, tale da giustificare le ragioni di serietà dell'azione amministrativa.
Da tale pacifica affermazione discende primariamente la conseguenza della necessaria individuazione di cause di forza maggiore indipendenti dalla volontà dei concessionari che giustifichino la proroga ed in assenza delle quali deve ritenersi vulnerato il principio di legalità che informa l'attività dell'amministrazione nella materia dell'espropriazione per pubblica utilità.
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L'obbligo di motivazione del provvedimento di proroga del termine per la conclusione della procedura espropriativa risulta adeguatamente assolto con il richiamo al ritardo degli organi pubblici preposti nella definizione delle procedure di esproprio, che costituisce fatto estraneo alla sfera di disponibilità dell'ente concessionario dei lavori e, quindi, riconducibile nei presupposti per l'adozione dell'atto di proroga del termine quali identificati dall'art. 13 l. n. 2359 del 1865.

La normativa di riferimento, costituita dall’evocato art. 13 della legge sull’espropriazione del 1865, oggi abrogata dal testo unico sulle procedure espropriative, ma rilevante ratione temporis per il presente appello, prevedeva, al comma 1, che nell’atto che dichiara la pubblica utilità di un’opera fossero indicati i termini “entro i quali dovranno cominciarsi e compiersi le espropriazioni e i lavori”, mentre al successivo comma 2 prevedeva che “l’autorità che stabilì i suddetti termini li può prorogare per casi di forza maggiore o per altre cagioni indipendenti dalla volontà dei concessionari, ma sempre con determinata prefissione di tempo”.
Dalla lettura giurisprudenziale data al complesso normativo, emerge come la proroga dei termini previsti dall'art. 13 l. n. 2359 del 1865 sia considerata istituto di carattere eccezionale finalizzato ad evitare di mantenere i beni espropriabili in stato di soggezione a tempo indeterminato e a tutelare l'interesse pubblico a che l'opera venga eseguita in un congruo arco di tempo, tale da giustificare le ragioni di serietà dell'azione amministrativa (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. VI, 10.10.2002 n. 5443).
Da tale pacifica affermazione discende primariamente la conseguenza della necessaria individuazione di cause di forza maggiore indipendenti dalla volontà dei concessionari che giustifichino la proroga ed in assenza delle quali deve ritenersi vulnerato il principio di legalità che informa l'attività dell'amministrazione nella materia dell'espropriazione per pubblica utilità.
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Quindi, anche nel procedimento civile, è emersa l’oggettiva complessità della vicenda catastale della particella, elemento questo a fondare la ragione giustificativa della proroga, atteso che l'obbligo di motivazione del provvedimento di proroga del termine per la conclusione della procedura espropriativa risulta adeguatamente assolto con il richiamo al ritardo degli organi pubblici preposti nella definizione delle procedure di esproprio, che costituisce fatto estraneo alla sfera di disponibilità dell'ente concessionario dei lavori e, quindi, riconducibile nei presupposti per l'adozione dell'atto di proroga del termine quali identificati dall'art. 13 l. n. 2359 del 1865 (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. VI, 22.06.2005 n. 3298) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.07.2012 n. 4301 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L'istituto della conferenza di servizi cosiddetta decisoria, disciplinato dagli artt. 14 ss. della legge 07.08.1990 n. 241, come modificato dalle leggi 24.11.2000 n. 340 e 11.02.2005 n. 15, è caratterizzato da una struttura dicotomica, articolata in una fase che si conclude con la determinazione della conferenza, che ha valenza endoprocedimentale, e in una successiva fase, che si conclude con l'adozione del provvedimento finale, che ha valenza esoprocedimentale ed esterna, effettivamente determinativa della fattispecie e incidente sulle situazioni degli interessati.
Ciò, in quanto la legge 11.2.2005 n. 15 ha espressamente abrogato la previsione normativa (art. 14-ter, comma 7), che consentiva alle amministrazioni dissenzienti di impugnare direttamente ed immediatamente la determinazione conclusiva della conferenza di servizi ed ha (comma 6-bis del citato art. 14-ter), rafforzato il ruolo e la responsabilità dell'amministrazione procedente, cui è rimessa la determinazione finale previa valutazione delle specifiche risultanze della conferenza, tenendo conto delle posizioni prevalenti ivi espresse, nonché ferma restando l'autonomia del potere provvedimentale dell'autorità procedente stessa -su cui si concentra l'imputazione di responsabilità che non è condivisa dagli altri partecipanti alla conferenza- a seguito della valutazione collegiale.
Pertanto, la conferenza di servizi decisoria va considerata uno strumento procedimentale di mero coordinamento tra amministrazioni autonome e distinte ed i verbali stilati a conclusione dei lavori, che, avendo natura endoprocedimentale, non è autonomamente impugnabile per carenza di interesse (TAR Toscana, sez. II, 20.10.2006, n. 4565, che ha precisato: “i verbali di conclusione delle conferenze di servizi decisorie, nell’ambito dei procedimenti di bonifica dei siti contaminati di interesse nazionale, ai sensi del d.m. 471 del 1999, non assurgono al rango di provvedimenti conclusivi del procedimento; trattandosi di atti endoprocedimentali, essi non possono ritenersi autonomamente impugnabili”).

Invero, secondo il prevalente orientamento -da cui non v'è motivo di discostarsi- l'istituto della conferenza di servizi cosiddetta decisoria, disciplinato dagli artt. 14 ss. della legge 07.08.1990 n. 241, come modificato dalle leggi 24.11.2000 n. 340 e 11.02.2005 n. 15, è caratterizzato da una struttura dicotomica, articolata in una fase che si conclude con la determinazione della conferenza, che ha valenza endoprocedimentale, e in una successiva fase, che si conclude con l'adozione del provvedimento finale, che ha valenza esoprocedimentale ed esterna, effettivamente determinativa della fattispecie e incidente sulle situazioni degli interessati.
Ciò, in quanto la legge 11.2.2005 n. 15 ha espressamente abrogato la previsione normativa (art. 14-ter, comma 7), che consentiva alle amministrazioni dissenzienti di impugnare direttamente ed immediatamente la determinazione conclusiva della conferenza di servizi ed ha (comma 6-bis del citato art. 14-ter), rafforzato il ruolo e la responsabilità dell'amministrazione procedente, cui è rimessa la determinazione finale previa valutazione delle specifiche risultanze della conferenza, tenendo conto delle posizioni prevalenti ivi espresse, nonché ferma restando l'autonomia del potere provvedimentale dell'autorità procedente stessa -su cui si concentra l'imputazione di responsabilità che non è condivisa dagli altri partecipanti alla conferenza- a seguito della valutazione collegiale (ex plurimis: Cons. Stato: Sez. VI, 11.12.2008 n. 5620; 09.11.2010 n. 7981; 31.01.2011 n. 712).
Pertanto, la conferenza di servizi decisoria va considerata uno strumento procedimentale di mero coordinamento tra amministrazioni autonome e distinte ed i verbali stilati a conclusione dei lavori, che, avendo natura endoprocedimentale, non è autonomamente impugnabile per carenza di interesse (ex plurimis: Cons. St., sez. VI, 09.11.2010, n. 7981; TAR Toscana, sez. II, 24.08.2009, n. 1398, ed ancora TAR Toscana, sez. II, 20.10.2006, n. 4565, che ha precisato: “i verbali di conclusione delle conferenze di servizi decisorie, nell’ambito dei procedimenti di bonifica dei siti contaminati di interesse nazionale, ai sensi del d.m. 471 del 1999, non assurgono al rango di provvedimenti conclusivi del procedimento; trattandosi di atti endoprocedimentali, essi non possono ritenersi autonomamente impugnabili”)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 26.07.2012 n. 810 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Quanto al rapporto tra il soggetto che procede alla bonifica e l’Autorità competente, il D.Lgs. n. 152/2006 individua nella Conferenza di Servizi il modulo procedimentale con cui valutare, approvare, magari con prescrizioni, o respingere i piani e i progetti presentati dal proponente, all’interno delle diverse fasi.
I provvedimenti assunti nel corso del procedimento di bonifica non si diversificano rispetto a quelli che, di norma, vengono assunti in materia ambientale nei confronti del proprietario o di chi gestisce un impianto produttivo, come, ad esempio, l’autorizzazione allo scarico (art. 124 D.Lgs. n. 152/2006) o l’autorizzazione alle emissioni in atmosfera (art. 269 D.Lgs. n. 152/2006), in relazione alle quali le Amministrazioni competenti, di solito, subordinano la validità dell’autorizzazione richiesta al rispetto di puntuali prescrizioni.
Secondo l’art. 245 D.Lgs. n. 03.04.2006 n. 152, il proprietario del sito ha il diritto, in qualunque momento, di intervenire nel procedimento di bonifica, sostituendosi a colui che lo aveva aperto.
L’art. 242 del D.Lgs. n.152/2006, prevede, sulla base del principio di matrice comunitaria del chi inquina paga, che, nelle attività di bonifica e messa in sicurezza del sito contaminato, sia coinvolto in primis il responsabile dell’inquinamento, mentre gli artt. 245 e 252 del D.Lgs. n.152/2006 prevedono che il soggetto non responsabile della potenziale contaminazione, id est il proprietario, ha soltanto una facoltà di intervento per la realizzazione delle attività di bonifica.
Invero, ai sensi dell’art. 253 del D.Lgs n. 152/2006, gli interventi, ove realizzati d’ufficio dall’autorità competente, nell’inerzia dei soggetti obbligati o volontariamente intervenuti, costituiscono onere reale sui siti e comportano spese assistite da privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime: è prevista, quindi, una forma di responsabilità patrimoniale indiretta per il proprietario dell’area, oltre che una limitazione alla sua responsabilità patrimoniale (ai sensi dell’art. 253, comma 4, il proprietario risponde nei limiti del valore di mercato del sito).
Conseguentemente, il suo obbligo di facere, già ex se incoercibile (nemo ad facere cogi potest), non potrebbe risultare incondizionato, essendo normativamente previsto che il proprietario non possa essere chiamato a rispondere ultra vires

Quanto al rapporto tra il soggetto che procede alla bonifica e l’Autorità competente, il D.Lgs. n. 152/2006 individua nella Conferenza di Servizi il modulo procedimentale con cui valutare, approvare, magari con prescrizioni, o respingere i piani e i progetti presentati dal proponente, all’interno delle diverse fasi.
I provvedimenti assunti nel corso del procedimento di bonifica non si diversificano rispetto a quelli che, di norma, vengono assunti in materia ambientale nei confronti del proprietario o di chi gestisce un impianto produttivo, come, ad esempio, l’autorizzazione allo scarico (art. 124 D.Lgs. n. 152/2006) o l’autorizzazione alle emissioni in atmosfera (art. 269 D.Lgs. n. 152/2006), in relazione alle quali le Amministrazioni competenti, di solito, subordinano la validità dell’autorizzazione richiesta al rispetto di puntuali prescrizioni (conf.: TAR Lombardia-Milano, 14.01.2009, n. 93; TAR Campania, 14.01.2011, n. 152; TAR Lombardia-Milano, 06.09.2011, n. 2166).
Secondo l’art. 245 D.Lgs. n. 03.04.2006 n. 152, il proprietario del sito ha il diritto, in qualunque momento, di intervenire nel procedimento di bonifica, sostituendosi a colui che lo aveva aperto.
L’art. 242 del D.Lgs. n.152/2006, prevede, sulla base del principio di matrice comunitaria del chi inquina paga, che, nelle attività di bonifica e messa in sicurezza del sito contaminato, sia coinvolto in primis il responsabile dell’inquinamento, mentre gli artt. 245 e 252 del D.Lgs. n.152/2006 prevedono che il soggetto non responsabile della potenziale contaminazione, id est il proprietario, ha soltanto una facoltà di intervento per la realizzazione delle attività di bonifica.
Invero, ai sensi dell’art. 253 del D.Lgs n. 152/2006, gli interventi, ove realizzati d’ufficio dall’autorità competente, nell’inerzia dei soggetti obbligati o volontariamente intervenuti, costituiscono onere reale sui siti e comportano spese assistite da privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime: è prevista, quindi, una forma di responsabilità patrimoniale indiretta per il proprietario dell’area, oltre che una limitazione alla sua responsabilità patrimoniale (ai sensi dell’art. 253, comma 4, il proprietario risponde nei limiti del valore di mercato del sito).
Conseguentemente, il suo obbligo di facere, già ex se incoercibile (nemo ad facere cogi potest), non potrebbe risultare incondizionato, essendo normativamente previsto che il proprietario non possa essere chiamato a rispondere ultra vires
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 26.07.2012 n. 810 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI lavori di demolizione e ricostruzione di immobile che ricada in zona vincolata ... richiedono, oltre al necessario titolo abilitativo, anche l'autorizzazione dell'amministrazione preposta alla tutela del vincolo, ai sensi degli arti. 151 e 152 del d.lgs. 29.10.1999, n. 490, ai fini della verifica della compatibilità dell'opera che si intende realizzare con le esigenze di conservazione dei valori protetti dal vincolo stesso.
La necessità di previo ottenimento dell’autorizzazione paesaggistica, peraltro, risulta affermata dalla giurisprudenza anche con riferimento alle (sole) attività di demolizione e ricostruzione, correttamente ricondotte alla lettera d) e non alla lettera b) dell’art. 3 del d.P.R. 380/2001 (cfr., ex multis, TAR Lazio, Roma, sez. II, 04.06.2007, n. 5158, secondo cui “...i lavori di demolizione e ricostruzione di immobile che ricada in zona vincolata ... richiedono, oltre al necessario titolo abilitativo, anche l'autorizzazione dell'amministrazione preposta alla tutela del vincolo, ai sensi degli arti. 151 e 152 del d.lgs. 29.10.1999, n. 490, ai fini della verifica della compatibilità dell'opera che si intende realizzare con le esigenze di conservazione dei valori protetti dal vincolo stesso”, negli stessi termini cfr. pure TAR Campania, Napoli, sez. IV, 31.01.2008, n. 430) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 25.07.2012 n. 3589 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’Autorità Comunale non può adottare provvedimenti sanzionatori di abusi edilizi prima di aver definito, con pronuncia espressa e motivata, il procedimento di concessione in sanatoria, in quanto nell’eventuale sussistenza della conformità del manufatto alla disciplina urbanistica, la pronuncia positiva sarebbe “inutiliter data” e gravemente illegittima risulterebbe l’eventuale demolizione del bene. In definitiva, una volta presentata un’istanza di concessione di condono edilizio, in assenza di preventiva determinazione su quest’ultima, l’Autorità urbanistica è tenuta ad adottare il provvedimento sull’istanza medesima prima di procedere all’irrogazione delle sanzioni definitive; ciò per non correre il rischio di vanificare l’eventuale procedimento teso a restituire alla legalità l’opera non più esistente.
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Rispetto al principio generale della non necessità di una particolare motivazione dell’ordine di demolizione è ammessa una deroga proprio per il caso in cui per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso e il protrarsi dell’inerzia dell’Amministrazione preposta alla vigilanza, avuto riguardo all’entità e alla tipologia dell’abuso, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato, ipotesi in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione sul pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato.
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Il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso può rappresentare un indice di affidamento solo ove il privato, il quale abbia correttamente e in modo compiuto reso nota la propria posizione alla P.A., venga indotto da un provvedimento della stessa a ritenere la legittimità del proprio operato, mentre ciò non si verifica quando si commette un abuso a tutta insaputa della P.A. medesima.

Relativamente alle opere per le quali è stata presentata domanda di condono, non evasa dal Comune, l’ordinanza di demolizione impugnata viola il principio, pacificamente affermato in giurisprudenza, secondo il quale detta sanzione non può essere irrogata, in assenza di definizione del relativo procedimento.
Cfr. ex multis la seguente massima: “L’Autorità Comunale non può adottare provvedimenti sanzionatori di abusi edilizi prima di aver definito, con pronuncia espressa e motivata, il procedimento di concessione in sanatoria, in quanto nell’eventuale sussistenza della conformità del manufatto alla disciplina urbanistica, la pronuncia positiva sarebbe “inutiliter data” e gravemente illegittima risulterebbe l’eventuale demolizione del bene. In definitiva, una volta presentata un’istanza di concessione di condono edilizio, in assenza di preventiva determinazione su quest’ultima, l’Autorità urbanistica è tenuta ad adottare il provvedimento sull’istanza medesima prima di procedere all’irrogazione delle sanzioni definitive; ciò per non correre il rischio di vanificare l’eventuale procedimento teso a restituire alla legalità l’opera non più esistente” (TAR Campania Napoli, sez. VI, 20.05.2009 n. 2760).
Per ciò che concerne gli ulteriori abusi contestati, la fondatezza del ricorso deriva dalla applicazione di altri due principi di marca giurisprudenziale, vale a dire quello secondo cui –prima di procedere alla demolizione– il Comune avrebbe dovuto annullare le autorizzazioni –in tesi– illegittimamente concesse, e avrebbe dovuto tenere conto del periodo risalente di edificazione delle opere indi ritenute abusive, motivando specificamente circa le ragioni d’interesse pubblico prevalenti sull’affidamento ingeneratosi nel privato.
Per un’esposizione di tali principi, si leggano le seguenti decisioni: “Rispetto al principio generale della non necessità di una particolare motivazione dell’ordine di demolizione è ammessa una deroga proprio per il caso, quale quello di specie, in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso e il protrarsi dell’inerzia dell’Amministrazione preposta alla vigilanza, avuto riguardo all’entità e alla tipologia dell’abuso, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato, ipotesi in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione sul pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato” (TAR Campania Napoli, sez. III, 04.05.2012, n. 2049); “Il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso può rappresentare un indice di affidamento solo ove il privato, il quale abbia correttamente e in modo compiuto reso nota la propria posizione alla P.A., venga indotto da un provvedimento della stessa a ritenere la legittimità del proprio operato, mentre ciò non si verifica quando si commette un abuso a tutta insaputa della P.A. medesima” (TAR Lombardia Brescia, Sez. I, 16.01.2012, n. 59)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 25.07.2012 n. 1480 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl potere ex art. 7, l. 29.06.1939, n. 1497, di autorizzare costruzioni edilizie in zone soggette a vincolo paesistico è delegato, nella regione Campania, al sindaco (l.reg. 01.09.1981, n. 65, e l. 23.02.1982, n. 10), che delibera previo parere espresso dalla commissione edilizia, integrata da cinque esperti in beni ambientali, storia dell’arte e discipline naturalistiche.
Di conseguenza è illegittima l’ordinanza del sindaco di demolizione di un impianto di distribuzione di energia elettrica per il quale la commissione edilizia si era pronunciata favorevolmente, ordinanza motivata con la mancante preventiva autorizzazione della sovrintendenza ai beni culturali e ambientali, cui l’autorizzazione del sindaco viene trasmessa all’unico scopo di consentire al Ministro l’esercizio del potere di annullamento ex art. 82, comma 9, d.P.R. 24.07.1977 n. 616.

Per ciò che concerne, infine, la dedotta illegittimità delle opere realizzate, per non essere state le stesse autorizzate dalla Soprintendenza (emergente da vari punti dalla relazione delle funzionarie di quest’ultimo ente, sulla quale s’è fondata l’ordinanza di demolizione impugnata), va richiamato l’ulteriore orientamento della giurisprudenza del TAR Campania, compendiato nella massima che segue: “Il potere ex art. 7, l. 29.06.1939, n. 1497, di autorizzare costruzioni edilizie in zone soggette a vincolo paesistico è delegato, nella regione Campania, al sindaco (l.reg. 01.09.1981, n. 65, e l. 23.02.1982, n. 10), che delibera previo parere espresso dalla commissione edilizia, integrata da cinque esperti in beni ambientali, storia dell’arte e discipline naturalistiche. Di conseguenza è illegittima l’ordinanza del sindaco di demolizione di un impianto di distribuzione di energia elettrica per il quale la commissione edilizia si era pronunciata favorevolmente, ordinanza motivata con la mancante preventiva autorizzazione della sovrintendenza ai beni culturali e ambientali, cui l’autorizzazione del sindaco viene trasmessa all’unico scopo di consentire al Ministro l’esercizio del potere di annullamento ex art. 82, comma 9, d.P.R. 24.07.1977 n. 616” (TAR Campania Napoli, sez. III, 31.10.1995, n. 585) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 25.07.2012 n. 1480 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio incombe sull'interessato e non sull'amministrazione che, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo edilizio e/o paesaggistico che la legittimi, ha solo “il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di adottare il provvedimento di demolizione.
Tale onere può ritenersi a sufficienza soddisfatto solo quando le prove addotte risultano obiettivamente inconfutabili sulla base di atti e documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi probatori, offrono la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione del manufatto, mentre la semplice produzione di una dichiarazione sostitutiva non può in alcun modo assurgere al rango di prova, seppur presuntiva, sull'epoca di realizzazione dell'abuso. Per converso, solo la deduzione, da parte del privato destinatario della sanzione, di “concreti elementi a sostegno delle proprie affermazioni volte a contrastare l’assunto dell’amministrazione trasferisce il suddetto onere in capo a questa ultima.

Orbene, venendo alla fase valutativa-decisionale, osserva il Collegio come costituisca pacifico e consolidato orientamento giurisprudenziale quello secondo cui l'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio incombe sull'interessato e non sull'amministrazione che, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo edilizio e/o paesaggistico che la legittimi, ha solo “il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di adottare il provvedimento di demolizione” (cfr. Cons. Stato, sezione quinta, 12.10.1999, n. 1440 e, omisso medio, fra le ultime, per tutte, Tar Liguria, Genova, sez. I, 08.03.2012, n. 367).
La giurisprudenza ha altresì affermato che tale onere può ritenersi a sufficienza soddisfatto solo quando le prove addotte risultano obiettivamente inconfutabili sulla base di atti e documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi probatori, offrono la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione del manufatto, mentre la semplice produzione di una dichiarazione sostitutiva non può in alcun modo assurgere al rango di prova, seppur presuntiva, sull'epoca di realizzazione dell'abuso (cfr., fra le ultime, la cennata pronuncia del Tar Liguria, Tar Campania, sezione ottava, 02.07.2010, n. 16569), ovvero (ha affermato per converso) che solo la deduzione, da parte del privato destinatario della sanzione, di “concreti elementi a sostegno delle proprie affermazioni volte a contrastare l’assunto dell’amministrazione trasferisce il suddetto onere in capo a questa ultima” (omisso medio, Cons. Stato, sempre sezione quinta, 09.11.2009, n. 6984 e Tar Campania, questa sesta sezione, sentenze n. 2380 del 28.04.2011; 23.06.2010, n. 1593, 25.05.2010, n. 8775 e 15.03.2010, n. 1460) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 24.07.2012 n. 3539 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: La valutazione di impatto ambientale, per giurisprudenza pacifica, si caratterizza quale giudizio espressione di ampia discrezionalità oltre che di tipo tecnico, anche amministrativa, sul piano dell’apprezzamento degli interessi pubblici in rilievo e della loro ponderazione rispetto all’interesse all’esecuzione dell’opera.
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L’asserita non corrispondenza contenutistica tra il preavviso di diniego e la v.i.a. negativa non può assurgere a vizio invalidante ex art. 21-octies legge 241/1990. Infatti, benché tale corrispondenza sia tendenzialmente da reputarsi necessaria al fine di non eludere la funzione collaborativa e deflattiva propria dell’istituto essa non deve essere assoluta, ben potendo l’Amministrazione, sulla base delle osservazioni dell’istante ma anche in via del tutto autonoma, precisare le proprie posizioni in sede decisoria, nel limite dei soli “punti salienti indicati nel preavviso.

Preliminarmente, va evidenziato come la valutazione di impatto ambientale, per giurisprudenza pacifica, si caratterizza quale giudizio espressione di ampia discrezionalità oltre che di tipo tecnico, anche amministrativa, sul piano dell’apprezzamento degli interessi pubblici in rilievo e della loro ponderazione rispetto all’interesse all’esecuzione dell’opera (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 22.06.2009, n. 4206; id., sez. V, 21.11.2007, n. 5910; id., sez. VI, 17.05.2006, n. 2851; id., sez. IV, 22.07.2005, n. 3917; TAR Puglia Bari sez I, 14.05. 2010, n. 1897; TAR Toscana sez II, 20.04.2010, n. 986).
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Infine, anche le censure “formali” di violazione del giusto procedimento (art. 7 e 10-bis legge 241/1990) sono prive di pregio, avendo l’Amministrazione puntualmente controdedotto alle osservazioni prodotte dalla ricorrente in seguito al preavviso di diniego.
L’asserita non corrispondenza contenutistica tra il preavviso di diniego e la v.i.a. negativa non può d’altronde assurgere a vizio invalidante ex art. 21-octies legge 241/1990. Infatti, benché tale corrispondenza sia tendenzialmente da reputarsi necessaria (Consiglio di Stato sez. IV 13.11.2007, n. 6325; TAR Piemonte, sez I, 07.02.2007, n. 503) al fine di non eludere la funzione collaborativa e deflattiva propria dell’istituto (TAR Puglia Bari, sez III, 25.03.2011, n. 500) essa non deve essere assoluta, ben potendo l’Amministrazione, sulla base delle osservazioni dell’istante ma anche in via del tutto autonoma, precisare le proprie posizioni in sede decisoria, nel limite dei soli “punti salienti indicati nel preavviso” (Consiglio di Stato sez. IV 13.11.2007, n. 6325) secondo quindi un criterio di “ragionevole flessibilità
(TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 24.07.2012 n. 1512 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La prospettata "astratta necessarietà" degli impianti eolici non può mai condizionare e vincolare in maniera assoluta il giudizio di compatibilità ambientale, obbligandone il rilascio in termini positivi in relazione ai benefici legati all'efficienza energetica per la collettività, perché, altrimenti, si darebbe luogo ad un totale sbilanciamento (in favore delle sole esigenze energetiche) di un sistema di valori -quali quelli paesistico-ambientali ed economici- aventi invece pari rilevanza costituzionale.
Va poi ribadito che la prospettata "astratta necessarietà" degli impianti eolici non può mai condizionare e vincolare in maniera assoluta il giudizio di compatibilità ambientale, obbligandone il rilascio in termini positivi in relazione ai benefici legati all'efficienza energetica per la collettività, perché, altrimenti, si darebbe luogo ad un totale sbilanciamento (in favore delle sole esigenze energetiche) di un sistema di valori -quali quelli paesistico-ambientali ed economici- aventi invece pari rilevanza costituzionale (TAR Toscana 14.10.2009, n. 1536; TAR Sardegna sez. II 03.10.2006, n. 2083) (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 24.07.2012 n. 1512 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Trattandosi di provvedimento “a motivazione plurima”, esso non può essere annullato qualora anche uno solo dei motivi fornisca autonomamente la legittima e congrua giustificazione della determinazione adottata.
Le ragioni ostative alla realizzazione dell’impianto esaminate rendono superfluo l’esame della fondatezza delle censure dedotte avverso gli ulteriori motivi a supporto della v.i.a. impugnata (tra cui l’impatto acustico e la insufficiente distanza delle torri dagli insediamenti abitativi presenti) poiché trattandosi di provvedimento “a motivazione plurima”, esso non può essere annullato qualora anche uno solo dei motivi fornisca autonomamente la legittima e congrua giustificazione della determinazione adottata (ex multis TAR Toscana sez. II 13.10.2010, n. 6457; Consiglio di Stato sez. V 10.03.2009, n. 1383; TAR Friuli Venezia Giulia, 11.02.2010, n. 101) (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 24.07.2012 n. 1512 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La destinazione d’uso di un immobile non si identifica con l’impiego che in concreto ne fa il soggetto che lo utilizza, ma con la destinazione impressa dal titolo abilitativo, e ciò in quanto la nozione di “uso” urbanisticamente rilevante è ancorata alla tipologia strutturale dell’immobile –quale individuata nel titolo edilizio–, senza che essa possa essere influenzata da utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori.
Va premesso che, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, la destinazione d’uso di un immobile non si identifica con l’impiego che in concreto ne fa il soggetto che lo utilizza, ma con la destinazione impressa dal titolo abilitativo (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 09.02.2001 n. 583; TAR Liguria, Sez. I, 25.01.2005 n. 85), e ciò in quanto la nozione di “uso” urbanisticamente rilevante è ancorata alla tipologia strutturale dell’immobile –quale individuata nel titolo edilizio–, senza che essa possa essere influenzata da utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori (v., tra le altre, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 07.
05.1992 n. 219).
Tale principio, d’altra parte, risulta codificato anche nella legislazione della Regione Emilia-Romagna, laddove è previsto che la “destinazione d’uso in atto dell’immobile o dell’unità immobiliare è quella stabilita dal titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o l’ultimo intervento e recupero o, in assenza o indeterminatezza del titolo, dalla classificazione catastale attribuita in sede di primo accatastamento ovvero da altri documenti probanti” (art. 26, comma 3, legge reg. n. 31/2002) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 24.07.2012 n. 520 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto stradale ha carattere assoluto e prescinde dalle caratteristiche dell’opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall’art. 9 della legge n. 729 del 1961 e dal successivo D.M. 01.04.1968 n. 1404 non può essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all’incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare un’area contigua all’arteria stradale utilizzabile in qualsiasi momento dall’Ente proprietario o gestore per l’esecuzione di lavori ivi compresi quelli di ampliamento senza limiti connessi alla presenza di costruzioni; pertanto tale distanze vanno mantenute anche con riferimento ad opere che pur rientrando nella fascia stessa, siano arretrate rispetto ad opere preesistenti qual è nel caso il muro di confine con la strada.
Tale principio trova applicazione per tutte le opere stabilmente realizzate sul terreno, a prescindere dalla loro tipologia, utilizzazione e dalla precarietà dei materiali utilizzati.
Trattandosi di vincolo assoluto permanente e inderogabile, non occorre alcuna particolare motivazione che si faccia carico della situazione in concreto, essendo sufficiente la verifica della violazione del limite di distanza dalla strada dato che l’atto di diniego si configura come un provvedimento del tutto vincolato. Dal che consegue anche l’infondatezza del vizio di disparità di trattamento, peraltro genericamente dedotta, non potendo giustificare eventuali illegittime precedenti autorizzazioni l’adozione di un provvedimento in ripetuta violazione della legge.
Neppure l’esistenza di un muro di confine fra l’opera abusiva e la fascia posta a rispetto della strada può costituire una deroga al divieto posto dalla legge posto che verificandosi la necessità anche tale muro di cinta può essere oggetto di interventi ripristinatori.
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La specialità del procedimento di condono edilizio, rispetto all'ordinario procedimento di rilascio della concessione ad edificare, e l'assenza di una specifica previsione in ordine alla sua necessità rendono, per il rilascio della concessione in sanatoria c.d. straordinaria (o condono), il parere della Commissione edilizia non obbligatorio ma, tutt'al più, facoltativo, al fine di acquisire eventuali informazioni e valutazioni con riguardo a particolari e sporadici casi incerti e complessi, in assenza dei quali il rilascio della concessione in sanatoria è subordinato alla semplice verifica dei numerosi presupposti e delle condizioni espressamente e chiaramente fissati dal legislatore.

Va detto che un pacifico orientamento giurisprudenziale che il Collegio non ha motivo di disattendere, ha da tempo affermato che il vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto stradale abbia carattere assoluto e prescinda dalle caratteristiche dell’opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall’art. 9 della legge n. 729 del 1961 e dal successivo D.M. 01.04.1968 n. 1404 non può essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all’incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare un’area contigua all’arteria stradale utilizzabile in qualsiasi momento dall’Ente proprietario o gestore per l’esecuzione di lavori ivi compresi quelli di ampliamento senza limiti connessi alla presenza di costruzioni; pertanto tale distanze vanno mantenute anche con riferimento ad opere che pur rientrando nella fascia stessa, siano arretrate rispetto ad opere preesistenti qual è nel caso il muro di confine con la strada (cfr. sul punto Cons. Stato, sez. IV, 30.09.2008 n. 4719).
Tale principio trova applicazione per tutte le opere stabilmente realizzate sul terreno, a prescindere dalla loro tipologia, utilizzazione e dalla precarietà dei materiali utilizzati.
Trattandosi di vincolo assoluto permanente e inderogabile, non occorre alcuna particolare motivazione che si faccia carico della situazione in concreto, essendo sufficiente la verifica della violazione del limite di distanza dalla strada dato che l’atto di diniego si configura come un provvedimento del tutto vincolato. Dal che consegue anche l’infondatezza del vizio di disparità di trattamento, peraltro genericamente dedotta, non potendo giustificare eventuali illegittime precedenti autorizzazioni l’adozione di un provvedimento in ripetuta violazione della legge.
Neppure l’esistenza di un muro di confine fra l’opera abusiva e la fascia posta a rispetto della strada può costituire una deroga al divieto posto dalla legge posto che verificandosi la necessità anche tale muro di cinta può essere oggetto di interventi ripristinatori.
La circostanza che dalla data di realizzazione dell’opera il Comune non abbia adottato alcun provvedimento repressivo non costituisce legittimo affidamento al mantenimento del manufatto abusivo né impedimento per l’Amministrazione al ripristino della legalità in occasione dell’esame della domanda di sanatoria.
Quanto alla mancanza del parere della C.E., va detto che l’orientamento costante dei giudici amministrativi è nel senso che la specialità del procedimento di condono edilizio, rispetto all'ordinario procedimento di rilascio della concessione ad edificare, e l'assenza di una specifica previsione in ordine alla sua necessità rendono, per il rilascio della concessione in sanatoria c.d. straordinaria (o condono), il parere della Commissione edilizia non obbligatorio ma, tutt'al più, facoltativo, al fine di acquisire eventuali informazioni e valutazioni con riguardo a particolari e sporadici casi incerti e complessi, in assenza dei quali il rilascio della concessione in sanatoria è subordinato alla semplice verifica dei numerosi presupposti e delle condizioni espressamente e chiaramente fissati dal legislatore (cfr. tra le tante Cons. Stato, sez. IV, 03.08.2010 n. 5156) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 23.07.2012 n. 1347 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa legge 122 del 1989, di incentivazione dei parcheggi, prevede solo la deroga agli strumenti urbanistici vigenti per la realizzazione in aree urbane di parcheggi all’interno di aree pertinenziali di edifici o esterne purché in prossimità degli stessi, senza alcuna previsione di deroga, invece, con riguardo alle fasce di rispetto stradali stabiliti dal D.M. n. 1404 del 1968 laddove i parcheggi vengano realizzati, come nel caso di specie (si veda pagina 1 del ricorso), al di fuori del centro abitato.
La norma dell'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122 consente di realizzare gratuitamente parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari solo se realizzati nel sottosuolo per l’intera altezza. La predetta norma, ponendosi in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, è di stretta interpretazione e di rigorosa applicazione.
In altre parole, la deroga per la realizzazione di autorimesse e parcheggi prevista dall'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122, opera solo ed esclusivamente nel caso in cui i detti garage (oltre ad essere formalmente vincolati a pertinenza di singole unità immobiliari) siano totalmente realizzati al di sotto dell’originario piano naturale di campagna, senza alcuna tolleranza di sorta, mentre la realizzazione di autorimesse e parcheggi, non totalmente al di sotto del piano naturale di campagna, è soggetta alla disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra.

Del tutto improprio e inconferente è, infine, il richiamo della legge 122 del 1989 di incentivazione dei parcheggi, prevedendo tale legge solo la deroga agli strumenti urbanistici vigenti per la realizzazione in aree urbane di parcheggi all’interno di aree pertinenziali di edifici o esterne purché in prossimità degli stessi, senza alcuna previsione di deroga, invece, con riguardo alle fasce di rispetto stradali stabiliti dal D.M. n. 1404 del 1968 laddove i parcheggi vengano realizzati, come nel caso di specie (si veda pagina 1 del ricorso), al di fuori del centro abitato (cfr. TAR Toscana, sez. III, 07.06.2002 n. 1174 e l’ulteriore giurisprudenza ivi richiamata).
Inoltre è da aggiungere che, come ha più volte affermato la giurisprudenza del Consiglio di Stato dalla quale il Collegio non ha motivo di divergere (Sez. IV, 13.07.2011 n.4234 e Sez. IV 16.04.2012 n. 2185), la norma dell'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122 consente di realizzare gratuitamente parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari solo se realizzati nel sottosuolo per l’intera altezza. La predetta norma, ponendosi in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, è di stretta interpretazione e di rigorosa applicazione.
In altre parole, la deroga per la realizzazione di autorimesse e parcheggi prevista dall'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122, opera solo ed esclusivamente nel caso in cui i detti garage (oltre ad essere formalmente vincolati a pertinenza di singole unità immobiliari) siano totalmente realizzati al di sotto dell’originario piano naturale di campagna, senza alcuna tolleranza di sorta, mentre la realizzazione di autorimesse e parcheggi, non totalmente al di sotto del piano naturale di campagna, è soggetta alla disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra (cfr. anche Consiglio Stato, sez. IV, 27.11.2010, n. 8260; Consiglio Stato, sez. IV, 23.02.2009, n. 1070) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 23.07.2012 n. 1347 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe osservazioni ai procedimenti di pianificazione costituiscono meri apporti collaborativi, dai quali non nasce alcuna aspettativa qualificata, per cui il rigetto delle osservazioni non richiede una motivazione puntuale e analitica.
Si ricordi -inoltre- che la giurisprudenza amministrativa ha più volte affermato che le osservazioni ai procedimenti di pianificazione costituiscono meri apporti collaborativi, dai quali non nasce alcuna aspettativa qualificata, per cui il rigetto delle osservazioni non richiede una motivazione puntuale e analitica (cfr. fra le tante, Consiglio di Stato, sez. IV, 12.01.2011, n. 133)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.07.2012 n. 1955 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe censure inerenti il procedimento di VAS sono ammissibili nei limiti in cui la parte istante specifichi quale concreta lesione alla sua proprietà siano derivate dall’inosservanza delle norme sul procedimento; in altri termini, non deve trattarsi di una doglianza meramente “strumentale”, ma sostanziale, visto che il generico interesse ad un nuovo esercizio del potere pianificatorio dell’Amministrazione è insufficiente a distinguere la posizione del ricorrente da quella del quisque de populo.
Nel secondo motivo, è denunciata la violazione delle norme sulla valutazione ambientale strategica (VAS), sotto vari profili.
La censura appare però inammissibile, alla luce della giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr. sez. IV, 12.01.2011, n. 133), per la quale le censure inerenti il procedimento di VAS sono ammissibili nei limiti in cui la parte istante specifichi quale concreta lesione alla sua proprietà siano derivate dall’inosservanza delle norme sul procedimento; in altri termini, non deve trattarsi di una doglianza meramente “strumentale”, ma sostanziale, visto che il generico interesse ad un nuovo esercizio del potere pianificatorio dell’Amministrazione è insufficiente a distinguere la posizione del ricorrente da quella del quisque de populo (cfr. in termini, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 12.01.2012, n. 297)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.07.2012 n. 1955 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa norma attributiva di potere dell’art. 167, co. 4, codice beni culturali ammette la sanatoria soltanto “per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
La lettera della norma (creazione di superfici “o” volumi) non è superabile da operazioni interpretative in cui, sostenendo che nonostante l’utilizzo della particella disgiuntiva “o” il legislatore abbia voluto dire “e”, si giunga alla disapplicazione della norma.
Si ricorda, infatti, che l’art. 12 delle preleggi prescrive che alle norme non possa essere attribuito altri senso che quello fatto proprio dal significato delle parole.
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Circa la paventata violazione degli artt. 167 e 181 d.lgs. 42/2004, perché la Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici si è pronunciata in ritardo di un mese oltre il termine legale di 90 gg., non è fondata in quanto -conformemente ai principi generali- il potere non si consuma per effetto del decorso del termine entro cui esso deve essere esercitato.
Invero, la giurisprudenza ha avuto modo di statuire che:
il termine di conclusione del procedimento non appare assistito, nella normalità dei casi, da alcuna previsione di perentorietà; ne consegue che l'amministrazione legittimamente può concludere il procedimento successivamente alla scadenza del relativo termine;
la violazione del termine finale di adozione dell'atto conclusivo di un procedimento determina un vizio dell'atto stesso quando produca una lesione specifica della posizione dell'interessato strettamente dipendente dal momento di adozione dell'atto, cioè dall'illegittimo trascorrere del tempo rispetto alla scadenza del termine legale;
il mancato rispetto del termine per la conclusione del procedimento costituisce causa di illegittimità del relativo provvedimento soltanto quando produca una lesione specifica della posizione dell'interessato strettamente dipendente dal momento dell'adozione dell'atto, come nell'ipotesi in cui nelle more della scadenza del termine cambi la normativa di riferimento in senso sfavorevole per il soggetto istante, e non nel caso in cui da essa non derivi alcun pregiudizio diretto alla posizione giuridica di quest'ultimo.

Il ricorrente sostiene che un’opera abusiva in area paesaggisticamente vincolata che crea volume, ma non crea superficie, possa essere oggetto di accertamento postumo di compatibilità, perché il divieto legale di sanatoria riguarderebbe solo le opere abusive che hanno creato sia volume che superficie.
L’interpretazione proposta in realtà non ha basi normative, in quanto la norma attributiva di potere dell’art. 167, co. 4, codice beni culturali ammette la sanatoria soltanto “per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
La lettera della norma (creazione di superfici “o” volumi) non è superabile da operazioni interpretative in cui, sostenendo che nonostante l’utilizzo della particella disgiuntiva “o” il legislatore abbia voluto dire “e”, si giunga alla disapplicazione della norma.
Si ricorda, infatti, che l’art. 12 delle preleggi prescrive che alle norme non possa essere attribuito altri senso che quello fatto proprio dal significato delle parole.
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Il terzo motivo di entrambi i ricorsi, in cui si sostiene la violazione degli artt. 167 e 181 d.lgs. 42/2004, perché la Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Brescia si è pronunciata in ritardo di un mese oltre il termine legale di 90 gg., non è fondato, in quanto -conformemente ai principi generali- il potere non si consuma per effetto del decorso del termine entro cui esso deve essere esercitato (Tar Liguria, II, 270/2005: "il termine di conclusione del procedimento non appare assistito, nella normalità dei casi, da alcuna previsione di perentorietà; ne consegue che l'amministrazione legittimamente può concludere il procedimento successivamente alla scadenza del relativo termine”; Tar Liguria, I 349/2006: “la violazione del termine finale di adozione dell'atto conclusivo di un procedimento determina un vizio dell'atto stesso quando produca una lesione specifica della posizione dell'interessato strettamente dipendente dal momento di adozione dell'atto, cioè dall'illegittimo trascorrere del tempo rispetto alla scadenza del termine legale”; Tar Piemonte, II, 2830/2005: “il mancato rispetto del termine per la conclusione del procedimento costituisce causa di illegittimità del relativo provvedimento soltanto quando produca una lesione specifica della posizione dell'interessato strettamente dipendente dal momento dell'adozione dell'atto, come nell'ipotesi in cui nelle more della scadenza del termine cambi la normativa di riferimento in senso sfavorevole per il soggetto istante, e non nel caso in cui da essa non derivi alcun pregiudizio diretto alla posizione giuridica di quest'ultimo”) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 02.07.2012 n. 1214 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ordine di demolizione di opere edilizie abusive non deve essere preceduto dall'avviso ex art. 7 della L. n. 241/1990, trattandosi di un atto dovuto, che viene emesso quale sanzione per l’accertamento della inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e conseguente disciplinato rigidamente dalla legge.
Gli atti sanzionatori in materia edilizia -attesa la loro natura rigidamente vincolata- non risultano viziati ove non siano stati preceduti dalla comunicazione d’avvio del procedimento.
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Il Comune non ha formalmente chiuso il procedimento attivato dalla istanza di compatibilità paesaggistica, ed ha provveduto direttamente ad ordinare la demolizione.
Questa irregolarità formale del procedimento di accertamento postumo di compatibilità paesaggistica non incide, però, sull’ordine di demolizione impugnato, in quanto, posto che il provvedimento conclusivo del procedimento di compatibilità paesaggistica non poteva che essere negativo dopo il parere negativo della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici, esso si risolve non in un vizio dei presupposti (come argomenta, la difesa del ricorrente), perché i presupposti della demolizione si risolvono nella mera constatazione dell’abusività dell’opera, ma in una irregolarità di tipo formale superabile attraverso la clausola sostanzialista dell’art. 21-octies, co. 2, l. 241/1990.
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Quando gli abusi sono in area vincolata, si applica in punto di sanzioni la disciplina speciale posta a tutela del paesaggio, che va rinvenuta nell’art. 167 d.lgs. 42/2004 che, nella sua versione novellata dall’art. 27 d.lgs. 24.03.2006 n. 157, dispone che “in caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese, fatto salvo quanto previsto al comma 4.

Nel primo ricorso per motivi aggiunti la ricorrente deduce la violazione degli artt. 167 d.lgs. 42/2004 e 36 e 37 d.p.r. 380/2001, in quanto il Comune non si è pronunciato formalmente sulla domanda di sanatoria dopo il parere contrario della Soprintendenza, nonché la mancanza di comunicazione di avvio del procedimento di demolizione.
Sulla seconda parte del motivo (mancanza comunicazione di avvio), la censura è infondata, in quanto tale comunicazione non è dovuta (Tar Campania, Napoli, sez. IV, 10.12.2007, n. 15871: “l'ordine di demolizione di opere edilizie abusive non deve essere preceduto dall'avviso ex art. 7 della L. n. 241/1990, trattandosi di un atto dovuto, che viene emesso quale sanzione per l’accertamento della inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e conseguente disciplinato rigidamente dalla legge”; nello stesso senso cfr. anche Cons. Stato, sez. IV, 26.09.2008, n. 4659, secondo cui “gli atti sanzionatori in materia edilizia -attesa la loro natura rigidamente vincolata- non risultano viziati ove non siano stati preceduti dalla comunicazione d’avvio del procedimento”).
Sulla prima parte del motivo, l’argomentazione della difesa del ricorrente, in realtà, è corretta, perché il Comune non ha formalmente chiuso il procedimento attivato dalla istanza di compatibilità paesaggistica, ed ha provveduto direttamente ad ordinare la demolizione.
Questa irregolarità formale del procedimento di accertamento postumo di compatibilità paesaggistica non incide, però, sull’ordine di demolizione impugnato, in quanto, posto che il provvedimento conclusivo del procedimento di compatibilità paesaggistica non poteva che essere negativo dopo il parere negativo della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Brescia, esso si risolve non in un vizio dei presupposti (come argomenta, la difesa del ricorrente), perché i presupposti della demolizione si risolvono nella mera constatazione dell’abusività dell’opera, ma in una irregolarità di tipo formale superabile attraverso la clausola sostanzialista dell’art. 21-octies, co. 2, l. 241/1990.
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Il secondo e nel terzo motivo del ricorso per motivi aggiunti, in cui il ricorrente vorrebbe regolarizzare gli abusi pagando una sanzione pecuniaria, sono infondati, in quanto affrontano la questione sotto il solo aspetto edilizio, pretermettendo la circostanza che, quando gli abusi sono in area vincolata, si applica in punto di sanzioni la disciplina speciale posta a tutela del paesaggio, che va rinvenuta nell’art. 167 d.lgs. 42/2004 che, nella sua versione novellata dall’art. 27 d.lgs. 24.03.2006 n. 157, dispone che “in caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese, fatto salvo quanto previsto al comma 4”.
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In ordine all’ultimo motivo, in cui si sostiene la violazione art. 6 d.p.r. 380/2001 per quanto riguarda lo spostamento dei tavolati interni, che sarebbe attività libera, e non soggetta a vincolo, è corretto l’argomento proposto dalla difesa del Comune che rileva che non era compito dell’amministrazione comunale scindere quali opere fossero assoggettabili alla normativa a tutela del paesaggio e quali no.
Dall’argomento proposto dalla difesa del ricorrente deriverebbe soltanto la possibilità per la ricorrente di ottenere un titolo per la sola parte dei tavolati interni, ma non la illegittimità dell’ordine di demolizione che ha attinto l’abuso nella sua complessità
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 02.07.2012 n. 1214 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARIPRIVACY/ La Cassazione punisce lo strumento di marketing. Perché comporta una perdita di tempo. Addio alle e-mail indesiderate Serve il consenso dell'interessato.
E-mail marketing alle corde. Lo strumento della mail di benvenuto (mail welcome) richiede il preventivo consenso dell'interessato.

La regola è stata rafforzata dalla sentenza 15.06.2012 n. 23798 della Corte di Cassazione, III Sez. penale, che ha bocciato le mail welcome indesiderate e ha punito l'invio delle stesse. La cassazione ha fatto applicazione dell'articolo 167 del codice della privacy, superando un ostacolo previsto dalla stessa norma. Si tratta del concetto di «nocumento»: senza nocumento, dice l'articolo 167 codice privacy non c'è punizione. È ovvio che per evitare la sanzione penale si cerchi di dimostrare che nei casi concreti non si siano verificati nocumenti per gli interessati.
La sentenza della Cassazione rintraccia il concetto di nocumento basandosi non tanto sul nocumento del singolo, ma quanto sul volume di mail indesiderate inviate: così se si inviano migliaia di mail, non si può sostenere a propria discolpa che nessuno si è lamentato.
Si tratta, quindi, di una scorciatoia giuridica, grazie alla quale non c'è alcun bisogno di chiedere se il destinatario della mail abbia avuto un danno patrimoniale rilevante: perché il reato sia consumato, basta la perdita di tempo per cestinare la mail o cancellarsi dalla mailing list. La Cassazione mette, quindi, sul chi va là l'e-mail marketing, confermando così la condanna dei titolari di una società che ha inviato mail indesiderate a oltre 150 mila destinatari utilizzando il data base di proprietà di un'altra società (list owner).
La pronuncia si caratterizza proprio per la conclusione cui arriva a proposito del nocumento, allontanandosi da altre pronunce nelle quali si è sostenuto che non è significativo il danno causato al destinatario della singola mail (perché troppo lieve).
Il codice della privacy. L'articolo 167 del codice della privacy (dlgs 196/2003) prevede il reato di trattamento illecito dei dati personali. Il reato si consuma quando si violano alcune importanti adempimenti: ad esempi non si chiede il consenso dell'interessato o si diffondono dati sanitari, ecc.
Per la punibilità la norma pone, però, alcune condizioni: il pubblico ministero deve provare che il colpevole è animato dal fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno e, inoltre, dal fatto deve derivare un nocumento: se non si verificano queste due condizioni la conclusione è l'assoluzione. Come è avvenuto tantissime volte: tanto che il legislatore è intervenuto nel 2008 con il decreto legge 207 e ha affiancato una sanzione amministrativa: in caso di trattamento di dati personali effettuato in violazione delle disposizioni indicate nell'articolo 167 è applicata in sede amministrativa, in ogni caso, la sanzione del pagamento di una somma da 10 mila euro a 120 mila euro.
Le sentenze restrittive. La punibilità dipende dal concetto di nocumento: più si allarga più aumentano i rischi penali.
La Cassazione è stata molto rigorosa e ha definito maglie strette: il «nocumento» richiesto dall'art. 167 dlgs n. 196 del 2003 per la configurabilità del reato di trattamento di dati sensibili senza il consenso dell'interessato costituisce una condizione obiettiva di punibilità che non può ritenersi implicita per il solo fatto che detto trattamento abbia avuto luogo, occorrendo invece la dimostrazione che dal fatto sia derivato un «vulnus» significativo alla persona offesa (Cassazione, sez. V, n. 40078, del 25.06.2009).
Più esplicitamente si è arrivati a dire che l'invio di un messaggio elettronico commerciale non autorizzato non costituisce il reato di trattamento illecito dei dati, mancando l'estremo del nocumento: non è rilevante, quindi, un solo messaggio non ripetuto che non ha provocato un concreto vulnus alla persona offesa, ma una lesione minima della privacy che non ha determinato un danno patrimonialmente apprezzabile (Tribunale Udine, sentenza 06.05.2005). D'altra parte non c'è reato se il trattamento dei dati avvenga per fini esclusivamente personali, senza una loro diffusione o destinazione ad una comunicazione sistematica (Cassazione penale, sez. V, del 22.10.2008, n. 46454).
Sulla stessa scia si colloca un'altra pronuncia con la quale si è mandato assolto un imputato, che ha comunicato ad alcuni provider le generalità, l'indirizzo, compreso quello di posta elettronica, il numero di telefono e il codice fiscale di una persona senza il suo consenso al fine di aprire un sito internet e tre nuovi indirizzi di posta elettronica a nome di tale persona (si è ritenuto che il fatto non configurasse una diffusione di dati o una comunicazione sistematica, non essendovi un pubblico accesso agli stessi o una loro immediata esposizione (Cassazione penale sez. III, del 17.11.2004, n. 5728).
Sentenze più garantiste. Con altre sentenze la cassazione si è mostrata più garantista e ha dato maggiore spazio alle ragioni di tutela degli interessati. Ad esempio ha stabilito che il nocumento, condizione obiettiva di punibilità del reato di trattamento illecito di dati personali, non è esclusivamente riferibile a quello derivato alla persona fisica o giuridica cui si riferiscono i dati, ma anche a quello causato a soggetti terzi quale conseguenza dell'illecito trattamento: ad esempio i familiari di persona, deceduta, la cui immagine in stato morente era stata illecitamente diffusa (Cassazione penale, sez. III, del 17.02.2011, n. 17215).
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Pregiudicati gli interessi del destinatario
La Cassazione con la sentenza 23798/2012 opera un'inversione di rotta e stabilisce nuovi principi.
La pronuncia non abbandona le astratte enunciazioni di carattere generale: certamente la richiesta di un nocumento significa che per la punizione non basta la sola violazione della privacy, altrimenti il reato scatterebbe per il solo fatto, ad esempio, che non è stato chiesto il consenso. Per la punizione ci vuole qualcosa di più e cioè un concreto pregiudizio agli interessi del destinatario della mail indesiderata.
Ma la novità della sentenza sta nella descrizione di questo concreto pregiudizio: può manifestarsi in forme molteplici, sia come pregiudizio al patrimonio sia come pregiudizio alla persona; e, se non è sufficiente la mera illecita utilizzazione di dati personali altrui, questo non vuol dire che il reato scatti solo quando la persona offesa sia stata danneggiata pesantemente nel suo patrimonio.
La sentenza, quindi, passa a descrivere alcuni esempi di nocumento e a questo proposito cita la «perdita di tempo nel vagliare mail indesiderate e nelle procedura da seguire per evitare ulteriori invii».
L'esperienza comune di qualunque internauta dimostra che si spende parecchio tempo a controllare posta elettronica di nessun interesse, magari censire la posta indesiderata o a sbrigare le procedure per evitare di avere comunicazioni successive, anche se poi comunque arrivano lo stesso, magari da un altro indirizzo mittente. Basta, per aversi «nocumento» il solo rischio di perdere il controllo dei propri dati, venduti e ceduti di mano in mano senza alcuna concreta possibilità di opporsi.
La cassazione rivoluziona, poi, il modo di provare il «nocumento»: per punire chi manda spamming, secondo la cassazione, non è neanche necessario provare che ogni singolo destinatario abbia subito il danno.
Un principio di questo tipo porterebbe al risultato (assurdo, secondo la Cassazione) di non poter mai punire nessuno. Si pensi al caso di migliaia di mail mandate ad altrettanti destinatari: si dovrebbero prima individuare i titolari degli indirizzi di posta elettronica (per cui si utilizzano magari nomi di fantasia o pseudonimi) e poi convocarli per chiedere solo se hanno subito un nocumento. Una indagine di questo tipo non è necessaria: il danno, al contrario, è insito (è in re ipsa) nell'avere mandato centinaia di migliaia di messaggi.
Non basta, poi, inserire avvisi sulla possibilità di cancellarsi dalla lista: la sentenza 23798/2012 afferma che si può mandare la mail di wellcome solo a chi già in precedenza ha dato il consenso e che se manca il consenso e il destinatario non si è cancellato (seguendo le indicazioni) il reato è stato ugualmente perfezionato.
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Sanzioni fino a 120 mila euro.
Anche se non c'è reato, il trattamento illecito di dati è punito con una sanzione amministrativa fino a 120 mila euro.
In caso di trattamento di dati personali effettuato in violazione delle disposizioni indicate nell'articolo 167 codice della privacy, infatti, è applicata in sede amministrativa, in ogni caso, la sanzione del pagamento di una somma da diecimila euro a centoventimila euro.
Se non scatta la sanzione penale, comunque, in ogni caso, la violazione del codice della privacy porterà a una sanzione pecuniaria, anche se amministrativa, applicata dal Garante della privacy.
Va però sottolineato, passando ad alcuni casi, che integra il reato di diffusione di dati sensibili la pubblicazione su internet del numero di cellulare altrui (Cassazione penale, sez. III del 17.02.2011, n. 21839); che anche la targa di un'auto è dato personale rilevante per la punibilità (Cassazione penale, sez. V, del 28-09-2011, n. 44940); integra il reato di trattamento illecito di dati personali il diffondere, per scopi diversi dalla tutela di un diritto proprio o altrui, una conversazione documentata mediante registrazione. (Cassazione penale, sez. III, del 24.03.2011, n. 18908).
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Linee guida del garante della privacy. L'obbligo riguarda società telefoniche e Internet provider. Attacco ai dati, utente da avvisare.
Utente avvisato in caso di attacco in rete ai suoi dati personali. In caso di distruzione o perdita dei dati personali società telefoniche e Internet provider hanno l'obbligo di avvisare gli utenti e il garante della privacy.
Lo prevede il decreto legislativo 69/2009, per attuare il quale il Garante ha adottato il provvedimento di Linee Guida n. 221 del 26.07.2012.
Il maggior livello di protezione nasce dal fatto che le società telefoniche e Internet provider devono di avvisare gli utenti dei casi più gravi di violazioni ai loro data base che dovessero comportare perdita, distruzione o diffusione indebita di dati. I nuovi obblighi sono stati introdotti dal decreto legislativo 69 del 28.05.2012, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 31.05.2012 n. 126, in vigore dall'01.06.2012. Il decreto recepisce le direttive 2009/136/Ce, e 2009/140/Ce e modifica il codice della privacy (dlgs 196/2003).
Con le nuove disposizioni, in particolare, i dati su ogni telefonata e sessione in rete devono essere tenuti al sicuro da un uso indesiderato, accidentale o fraudolento. Gli operatori devono rispondere della responsabilità che deriva loro dalla elaborazione e memorizzazione di queste informazioni.
Vengono, inoltre, introdotti obblighi di notifiche per le violazioni dei dati personali. Ciò significa che i fornitori di comunicazioni sono obbligati a informare le autorità e i loro clienti circa le violazioni della sicurezza che lede i loro dati personali. Ciò consentirà di aumentare gli incentivi per una migliore protezione dei dati personali da parte dei fornitori di reti e servizi di comunicazione.
Le Linee guida adottate dal Garante stabiliscono chi deve adempiere all'obbligo di comunicare, in quali casi scatta l'obbligo di avvisare gli utenti, le misure di sicurezza tecniche e organizzative da mettere in atto per avvisare l'Autorità e gli utenti di un avvenuto «data breach», i tempi e i contenuti della comunicazione.
Al fine di armonizzare le procedure e le modalità di notifica, il garante, presieduto da Antonello Soro, ha comunque deciso di avviare una consultazione pubblica (con pubblicazione sulla gazzetta ufficiale), per acquisire da parte delle società telefoniche e degli Isp elementi utili a valutare l'adeguatezza delle misure individuate.
Obbligo di notifica. Il decreto legislativo 69/2012 ha aggiunto l'articolo 32-bis al codice della privacy, relativo agli adempimenti conseguenti a una violazione di dati personali.
In caso di violazione di dati personali, il fornitore di servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico deve comunicarlo senza indebiti ritardi detta violazione al Garante. Inoltre il fornitore di un servizio di comunicazione elettronica accessibile al pubblico deve adottare misure tecniche e organizzative adeguate al rischio esistente, per salvaguardare la sicurezza dei suoi servizi. Inoltre i soggetti che operano sulle reti di comunicazione elettronica devono garantire che i dati personali siano accessibili soltanto al personale autorizzato per fini legalmente autorizzati.
L'obiettivo delle precauzioni è preservare la protezione dei dati relativi al traffico e all'ubicazione e degli altri dati personali archiviati o trasmessi dalla distruzione anche accidentale, da perdita o alterazione anche accidentale e da archiviazione, trattamento, accesso o divulgazione non autorizzati o illeciti: innanzi tutto deve essere attuata una politica di sicurezza.
In attuazione della direttiva europea in materia di sicurezza e privacy nel settore delle comunicazioni elettroniche, di recente recepita dall'Italia, il Garante per la privacy ha fissato un primo quadro di regole in base alle quali le società di tlc e i fornitori di servizi di accesso a Internet saranno tenuti a comunicare, oltre che allo stesso garante, anche agli utenti le «violazioni di dati personali» («data breaches») che i loro data base dovessero subire a seguito di attacchi informatici, o di eventi avversi, quali incendi o altre calamità.
Quando la violazione di dati personali rischia di arrecare pregiudizio ai dati personali o alla riservatezza di contraente o di altra persona, il fornitore deve comunicarlo agli stessi senza ritardo. Se il fornitore non vi abbia già provveduto, il Garante può, considerate le presumibili ripercussioni negative della violazione, obbligare lo stesso a comunicare al contraente o ad altra persona l'avvenuta violazione.
La comunicazione non è, però, dovuta se il fornitore ha dimostrato al Garante di aver utilizzato misure tecnologiche di protezione che rendono i dati inintelligibili a chiunque non sia autorizzato ad accedervi e che tali misure erano state applicate ai dati oggetto della violazione. Se c'è, dunque, la sicurezza che il tentativo di violare la privacy non può andare a buon fine il gestore è esonerato dalla notificazione.
La comunicazione al contraente o ad altra persona contiene almeno una descrizione della natura della violazione di dati personali e i punti di contatto presso cui si possono ottenere maggiori informazioni ed elenca le misure raccomandate per attenuare i possibili effetti pregiudizievoli della violazione di dati personali. La comunicazione al Garante descrive, inoltre, le conseguenze della violazione di dati personali e le misure proposte o adottate dal fornitore per porvi rimedio. Inoltre i fornitori devono tenere un aggiornato inventario delle violazioni di dati personali, incluse le circostanze in cui si sono verificate, le loro conseguenze e i provvedimenti adottati per porvi rimedio, in modo da consentire al Garante di verificare il rispetto delle disposizioni.
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Un giorno di tempo per comunicare la violazione.
La comunicazione della violazione dovrà avvenire in maniera tempestiva: entro 24 ore dalla scoperta dell'evento, aziende tlc e Internet provider dovranno fornire le informazioni per consentire una prima valutazione dell'entità della violazione (tipologia dei dati coinvolti, descrizione dei sistemi di elaborazione, indicazione del luogo dove è avvenuta la violazione). Aziende telefoniche o internet provider avranno 3 giorni di tempo per una descrizione più dettagliata.
Per agevolare l'adempimento il Garante ha predisposto un modello di comunicazione disponibile on line sul suo sito (www.garanteprivacy.it). All'esito delle verifiche, i provider dovranno comunicare al Garante le modalità con le quali hanno posto rimedio alla violazione e le misure adottate per prevenirne di nuove. L'obbligo di comunicare le violazione di dati personali spetta esclusivamente ai fornitori di servizi telefonici e di accesso a Internet. L'adempimento non riguarda quindi le reti aziendali, gli Internet point (che si limitano a mettere a disposizione dei clienti i terminali per la navigazione), i motori di ricerca, i siti Internet che diffondono contenuti.
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Criteri legati al grado di pregiudizio.
Nei casi più gravi, oltre al Garante, le società telefoniche e gli Isp avranno l'obbligo di informare anche ciascun utente delle violazioni di dati personali subite. I criteri per la comunicazione dovranno basarsi sul grado di pregiudizio che la perdita o la distruzione dei dati può comportare (furto di identità, danno fisico, danno alla reputazione), sulla «attualità» dei dati (dati più recenti possono rivelarsi più interessanti per i malintenzionati), sulla qualità dei dati (finanziari, sanitari, giudiziari , ecc.), sulla quantità dei dati coinvolti. La comunicazione agli utenti deve avvenire al massimo entro 3 giorni dalla violazione e non è dovuta se si dimostra di aver utilizzato misure di sicurezza e sistemi di cifratura e di anonimizzazione che rendono inintelligibili i dati.
In ogni caso, in ragione dell'entità del possibile pregiudizio per gli interessati, devono essere sempre comunicate immediatamente ai contraenti le violazioni che riguardano le credenziali di autenticazione (nome utente e password, ancorché quest'ultima sia cifrata o sottoposta a funzioni di hashing) o le chiavi di cifratura utilizzate dai contraenti medesimi. Per consentire l'attività di accertamento del Garante, i provider dovranno tenere un inventario costantemente aggiornato delle violazioni subite che dia conto delle circostanze in cui queste si sono verificate, le conseguenze che hanno avuto e i provvedimenti adottati a seguito del loro verificarsi.
Non comunicare al Garante la violazione dei dati personali o provvedere in ritardo espone a una sanzione amministrativa che va da 25mila a 150 mila euro. Stesso discorso per la omessa o mancata comunicazione agli interessati, siano essi soggetti pubblici, privati o persone fisiche: qui la sanzione prevista va da 150 euro a 1.000 euro per ogni società o persona interessata. La mancata tenuta dell'inventario aggiornato è punita con la sanzione da 20mila a 120mila euro (articolo ItaliaOggi Sette del 13.08.2012).

AGGIORNAMENTO AL 13.08.2012

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NOVITA' NEL SITO

Inseriti i nuovi bottoni:
dossier PERMESSO DI COSTRUIRE (legittimazione richiesta titolo)

dossier PERMESSO DI COSTRUIRE (deroga)
Nel contempo, si è colta l'occasione per rinominare -e rendere più funzionali- alcuni esistenti dossier nel seguente modo:
dossier PERMESSO DI COSTRUIRE (annullamento e/o impugnazione)
dossier PERMESSO DI COSTRUIRE (decadenza)
dossier PERMESSO DI COSTRUIRE (prescrizioni)
dossier PERMESSO DI COSTRUIRE (proroga)

UTILITA'

SICUREZZA LAVORO: La sicurezza sul lavoro e la delega delle funzioni (articolo ItaliaOggi Sette del 06.08.2012).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 11.08.2012 n. 187, suppl. ord. n. 171/L, "Testo del decreto-legge 22.06.2012, n. 83, coordinato con la legge di conversione 07.08.2012, n. 134 recante: «Misure urgenti per la crescita del Paese.»".

ENTI LOCALI: G.U. 09.08.2012 n. 185 "Modalità di applicazione dell’imposta comunale sulla pubblicità al marchio di fabbrica apposto sulle gru mobili, sulle gru a torre adoperate nei cantieri edili e sulle macchine da cantiere" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, decreto 26.07.2012).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTI SERVIZI: Linee guida per gli affidamenti a cooperative sociali ai sensi dell’art. 5, comma 1, della legge n. 381/1991 (determinazione 01.08.2012 n. 3 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: L’avvalimento nelle procedure di gara (determinazione 01.08.2012 n. 2 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: D. Chinello, Legittimazione edilizia dei singoli condòmini per intervenire sulle parti comuni e poteri comunali di verifica (Urbanistica e appalti n. 4/2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: T. Grandelli e M. Zamberlan, Il decreto fiscale cambia le regole sulle assunzioni e sugli incarichi dirigenziali ... a favore degli enti !!! (Risorse Umane n. 3/2012).

EDILIZIA PRIVATA: A. Fedeli, Il vincolo di rispetto cimiteriale e i parcheggi interrati (Urbanistica e appalti n. 2/2011).

EDILIZIA PRIVATA: F. P. Francica, Le antenne per telefonia mobile nella fascia di rispetto cimiteriale (Urbanistica e appalti n. 5/2010).

EDILIZIA PRIVATA: O. Carapelli, Brevi note in tema di soggetti legittimati a richiedere la concessione edilizia (07-08/2001 - link a www.giustamm.it).

EDILIZIA PRIVATA: G. Carlotti, Il permesso di costruire in deroga e la ristrutturazione edilizia nel d.p.r. n. 380/2001 (aprile 2004 - link a www.diritto.it).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl divieto di monetizzare le ferie vale per il futuro. Esclusi i rapporti di lavoro cessati prima del varo della spending review.
Il divieto di monetizzare le ferie residue ai dipendenti pubblici, stabilito dall'articolo 5 del decreto legge sulla spending review, non ha valore retroattivo. Pertanto, lo stesso non opera nel caso in cui si riferisca a rapporti di lavoro già cessati prima dell'entrata in vigore della norma, a situazioni in cui le ferie siano maturate prima di tale entrata in vigore e qualora la fruizione delle stesse sia oggettivamente incompatibile, per esempio, a causa della ridotta durata del rapporto di lavoro.
È quanto ha precisato il dipartimento della funzione pubblica nel testo della nota 06.08.2012 n. 32937 di prot., con cui, rispondendo a una precisa istanza formulata dall'Associazione nazionale dei comuni italiani (Anci) ha fatto chiarezza su alcuni aspetti conseguenti all'entrata in vigore dell'articolo 5, comma 8 del dl n. 95/2012.
Come noto, tale disposizione, nell'ottica di un generale contenimento della spesa pubblica, prevede che le ferie, i riposi e i permessi che spettano al personale pubblico devono essere obbligatoriamente fruiti e non danno luogo, in nessun caso, a trattamenti sostitutivi. Principio che opera anche nel caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione del contratto e pensionamento. In caso di violazione, si prevede l'avvio di un procedimento disciplinare e amministrativo per il dirigente responsabile.
Su queste basi, Palazzo Vidoni ha precisato che il tenore letterale della norma non prevede una disciplina transitoria. Pertanto, in base ai principi generali che governano le leggi nel tempo, è pacifico che sono da ritenersi escluse da tali limitazioni tutte quelle situazioni che si sono definite prima della sua entrata in vigore (06.07.2012), poiché, operando al contrario, si attribuirebbe alla norma una portata retroattiva che non è prevista.
In tale ottica, la funzione pubblica, ammette alla monetizzazione i rapporti di lavoro cessati prima del 6 luglio scorso, le situazioni in cui le giornate di ferie sono maturate prima della stessa data e quelle in cui risulti incompatibile la loro fruizione a causa della ridotta durata del rapporto o per altre cause ben definite. Resta comunque fermo il principio che la monetizzazione delle ferie nei residui casi potrà avvenire solo in presenza di ipotesi previste da norme di legge o da contratti di lavoro. Quindi, rivolgendosi alle amministrazioni, la nota suggerisce che ogni singolo caso sia esaminato attentamente, soprattutto nei motivi che hanno portato all'accumulo delle ferie per i lavoratore che lo stesso non è riuscito successivamente a «smaltire» (articolo ItaliaOggi dell'08.08.2012).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI SERVIZI - LAVORI PUBBLICI:  Appalti, solidarietà senza confini. Garanzia contributiva e retributiva estesa a tutti i lavoratori. Una circolare Inps illustra le novità introdotte dalla legge 44/2012 e in vigore dal 29 aprile.
Solidarietà senza confini negli appalti. Dal 29 aprile, infatti, riguarda non solo i dipendenti, ma pure i lavoratori impiegati con altre tipologie contrattuali (co.co.pro. per esempio) e quelli «in nero». Dalla stessa data, inoltre, vige un unico regime (di responsabilità) per committenti e appaltatori.
Lo spiega l'Inps, nella circolare 10.08.2012 n. 106/2012, illustrando le novità della legge n. 44/2012 di conversione del dl n. 16/2012.
La responsabilità solidale. È una sorta di vincolo che lega, negli appalti, la ditta che affida un lavoro a quella che tale lavoro esegue. Il vincolo vale relativamente ai diritti retributivi, fiscali e contributivi spettanti ai lavoratori che sono impiegati nell'esecuzione dei lavori.
L'Inps spiega che oggi vige una doppia disciplina: la prima (dlgs n. 276/2003) stabilisce che «in caso di appalto di opere o di servizi il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali ulteriori subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell'inadempimento».
La seconda (legge n. 248/2006) è quella interessata da recenti modifiche, per cui esiste una versione rimasta in vigore fino al 28 aprile e un'altra, quella vigente, operativa dal 29 aprile.
Una sola disciplina. Dall'analisi complessiva delle norme, spiega l'Inps, deriva che il committente (e anche l'appaltatore) è chiamato a rispondere in solido con l'appaltatore, nonché con gli eventuali subappaltatori, per l'intero importo della contribuzione previdenziale (nonché della retribuzione) dovuta, con esclusione, dal 10.02.2012 (entrata in vigore del dl n. 5/2012, il dl semplificazioni), delle sanzioni civili.
Circa le somme per le quali il committente è chiamato a rispondere in solidarietà, l'Inps richiama le indicazioni del ministero del lavoro nella parte in cui precisano che il regime di solidarietà permane sulle somme dovute a titolo di interesse moratorio sui debiti previdenziali. Inoltre, aggiunge l'Inps, il dies a quo a partire dal quale il committente non risponde dell'obbligo relativo alle somme aggiuntive coincide con tutti gli obblighi contributivi la cui scadenza del versamento è successiva al 10 febbraio.
Il vincolo della solidarietà viene meno dopo due anni dalla cessazione dell'appalto (o del subappalto). Atteso il tenore della norma, secondo l'Inps vanno tutelati tutti i lavoratori, ovvero non solo i lavoratori subordinati, ma anche quelli impiegati con altri tipi di contratti di lavoro (per esempio i collaboratori a progetto), nonché quelli in nero, purché impiegati direttamente nell'opera o nel servizio oggetto dell'appalto.
Obblighi per l'appaltatore. Dal 29.04.2012, spiega inoltre l'Inps, all'appaltatore si applica la stessa disciplina prevista per i committenti. Ciò in virtù della consolidata giurisprudenza che considera il contratto di subappalto null'altro che un vero e proprio appalto (per tutte, Cassazione n. 6208 del 07.03.2008).
Pertanto, a partire da tale data, il regime previsto per il committente obbligato in solido è da ritenersi esteso all'appaltatore chiamato in solidarietà (articolo ItaliaOggi dell'11.08.2012).

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - VARIAccatastamento d'ufficio con addebito.
Accatastamento d'ufficio con addebito delle spese e applicazione delle sanzioni amministrative per coloro che non provvederanno entro il prossimo 30 novembre a dichiarare al catasto edilizio urbano i fabbricati rurali iscritti al catasto terreni.
Lo ha precisato l'Agenzia del Territorio con la circolare 07.08.2012 n. 2/2012.
I fabbricati rurali, in base a quanto disposto dall'articolo 13 del dl «salva-Italia» (201/2011), devono transitare dal catasto terreni a quello edilizio urbano, con esclusione di quelli che non costituiscono oggetto di inventariazione, su apposita dichiarazione dei titolari degli immobili che deve essere presentata entro il 30 novembre. Per gli immobili soggetti all'obbligo di dichiarazione, l'Agenzia ha chiarito che deve essere previamente presentato «l'atto di aggiornamento del CT (tipo mappale), con passaggio dei cespiti alla partita speciale 1 “Enti urbani e promiscui”. E che nella relazione tecnica allegata all'atto di aggiornamento cartografico deve essere specificato che viene presentato secondo le regole imposte dall'articolo 13».
Nelle more della presentazione della dichiarazione di aggiornamento catastale, l'imposta municipale è dovuta a titolo di acconto e salvo conguaglio in base alla rendita delle unità similari già iscritte in catasto. Il conguaglio dell'imposta deve essere poi determinato dai comuni in seguito all'attribuzione della rendita definitiva.
Nella circolare viene posto in rilievo che, «in caso di inottemperanza da parte del soggetto obbligato» si applicano le disposizioni contenute nell'articolo 1, comma 336, della legge 311/2004. Quindi, se i contribuenti non presentano la dichiarazione di aggiornamento gli uffici provinciali dell'Agenzia del territorio provvedono d'ufficio, con oneri a carico dell'interessato, all'accatastamento dell'immobile rurale notificando le risultanze del classamento e la relativa rendita. In questo caso i titolari di diritti reali immobiliari (proprietari, usufruttuari, e via dicendo) saranno soggetti al pagamento delle spese e delle sanzioni amministrative.
Nel momento in cui l'Agenzia attribuisce la rendita catastale agli immobili è tenuta a notificare il provvedimento al soggetto interessato. L'avviso di classificazione di un immobile in una determinata categoria è comunque soggetto all'obbligo della motivazione. Questo adempimento deve ritenersi osservato anche mediante la semplice indicazione della consistenza, della categoria e della classe dell'immobile, trattandosi di dati sufficienti a porre il contribuente nella condizione di difendersi (Cassazione, sentenza 12068/2004).
L'obbligo di motivazione degli atti di natura tributaria è infatti finalizzato a garantire il diritto di difesa del contribuente. Il provvedimento attributivo della rendita catastale è impugnabile, per vizi propri, nel breve termine di decadenza di 60 giorni, innanzi al giudice tributario. Se la rendita non viene impugnata diventa definitiva e incontestabile.
E al contribuente rimane solo la possibilità di presentare istanza di autotutela all'Agenzia per correggere eventuali vizi o errori contenuti nel provvedimento. Il riesame d'ufficio o su segnalazione del contribuente, come indicato nella circolare 11/2005 della stessa Agenzia, consente di eliminare gli errori di inserimento dati o che derivano da erronee applicazioni dei principi dell'estimo catastale (articolo ItaliaOggi del 10.08.2012).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIPermessi al test di convenienza. Con il part-time orizzontale meglio usufruire di giorni non ore. Il quadro di riferimento fornito dall'Inps con circolare 100/2012 in merito all'assistenza a familiari disabili.
Il part-time orizzontale «obbliga» i lavoratori ai permessi giornalieri. Infatti, al dipendente assunto a tempo parziale orizzontale conviene richiedere i permessi giornalieri (tre giorni) e non orari (18 ore se l'orario di lavoro giornaliero è di 6 ore) per assistere a familiari disabili, perché nel primo caso i permessi spettano in misura interna mensile (cioè sono garantite le tre giornate mensili), mentre i permessi orari sono soggetti a riduzione in funzione della percentuale di riduzione della prestazione lavorativa.
A fornire un quadro di riferimento sul riconoscimento dei permessi ai lavoratori in part-time è l'Inps nella circolare 24.07.2012 n. 100.
Permessi ex legge n. 104/1992. I chiarimenti dell'Inps (rivolti al proprio personale ma applicabili, per analogia, a tutti i dipendenti) riguardano alcuni dei permessi mensili (retribuiti e coperti da contributi figurativi) che spettano, in virtù della legge n. 104/1992, ai lavoratori dipendenti. Nello specifico l'Inps prende in esame i seguenti permessi spettanti ai lavoratori dipendenti:
a) portatori di handicap in situazione di disabilità grave (due ore al giorno ovvero tre giorni mensili frazionabili in ore);
b) genitori di figli in situazione di disabilità grave (tre giorni mensili frazionabili in ore);
c) coniuge, parenti o affini entro il 2° grado (tre giorni al mese frazionabili in ore).
Lavoratori in part-time. Con riferimento ai dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale, l'Inps illustra le modalità con cui procedere al riproporzionamento dei permessi mensili spettanti (tre giorni ovvero 18 ore), a seconda della tipologia di part-time.
Part-time di tipo orizzontale. Il rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo orizzontale prevede l'articolazione della prestazione lavorativa secondo un orario ridotto uniformemente in tutti i giorni lavorativi. I dipendenti disabili con rapporto di lavoro a tempo parziale orizzontale, i quali assicurino una prestazione lavorativa fino a sei ore giornaliere, hanno diritto, in alternativa, ai seguenti benefici: un'ora di permesso giornaliero; tre giorni di permesso mensile; permessi orari mensili in misura corrispondente alla percentuale della prestazione lavorativa.
I dipendenti disabili che assicurino una prestazione lavorativa superiore a sei ore giornaliere hanno diritto, in alternativa ai benefici di tre giorni di permesso mensile e dei permessi mensili, a due ore di permesso giornaliero. Le stesse regole valgono anche per i dipendenti con rapporto di lavoro part-time orizzontale che fruiscono dei permessi in argomento per assistere un familiare disabile.
Part-time di tipo verticale. Quando il part-time è di tipo verticale la prestazione lavorativa può essere articolata concentrandola con due diverse modalità: 1) in tutti i giorni lavorativi, solo in alcuni mesi dell'anno; 2) soltanto in alcune settimane del mese o in alcuni giorni della settimana.
Conseguentemente, spiega l'Inps, nel caso in cui il contratto di part-time sia riconducibile alla prima ipotesi (prestazione lavorativa in tutti i giorni lavorativi, solo in alcuni mesi dell'anno), il lavoratore dipendente avrà diritto ai benefici dei permessi nella misura intera nei mesi in cui è prevista la prestazione lavorativa. Diversamente, qualora l'articolazione della prestazione lavorativa sia riconducibile alla prima ipotesi (soltanto in alcune settimane del mese o in alcuni giorni della settimana), il diritto ai permessi mensili è riconosciuto in misura ridotta proporzionalmente alla riduzione della prestazione lavorativa prevista dal contratto stesso nel mese di riferimento.
Part-time di tipo misto. L'articolazione della prestazione lavorativa deriva dalla combinazione delle due tipologie verticale e orizzontale e consiste, pertanto, nella concentrazione della prestazione lavorativa giornaliera ad orario ridotto soltanto in alcuni periodi dell'anno, del mese o della settimana. Il dipendente che assiste un familiare disabile ha diritto a un numero di permessi giornalieri calcolato sulla base della percentuale della prestazione lavorativa corrispondente alla componente verticale.
Diversamente, in caso di fruizione dei permessi mensili nella modalità oraria, il monte ore dei benefici spettanti è determinato sulla base della percentuale corrispondente alla componente orizzontale (articolo ItaliaOggi Sette del 06.08.2012).

CORTE DEI CONTI

APPALTI: PICCOLI COMUNI/ I mini-enti fanno acquisti insieme. Centrale unica di committenza per beni, forniture e gare. La Corte dei conti prevede poche eccezioni all'obbligo in vigore dal 31 marzo.
I comuni fino a 5 mila abitanti devono necessariamente attivare le centrali uniche di committenza per effettuare tutti gli acquisti di beni e forniture e tutte le aggiudicazioni di lavori pubblici a partire dal prossimo 31 marzo. Possono sfuggire da tale obbligo, sulla base delle prescrizioni del dl n. 95/2012, c.d. spending review, solamente nel caso in cui utilizzino altre centrali di committenza, ivi comprese le convenzioni di acquisto, ovvero facciano ricorso al mercato elettronico.
Per la Corte dei conti del Piemonte (parere 06.07.2012 n. 271) il vincolo al ricorso alla centrale unica di committenza si estende anche ai cottimi fiduciari. È perciò quanto mai urgente che i comuni fino a 5 mila abitanti avviino le procedure per realizzare questo nuovo strumento, visto che si sta per giungere alla scadenza del termine. Si deve subito ricordare che dall'01.04.2013 tutti gli acquisti e le aggiudicazioni effettuate direttamente da parte dei piccoli comuni con gare gestite direttamente saranno illegittimi.
Dunque, oltre alla gestione associata delle funzioni fondamentali per come individuate dal dl n. 95/2012 e nel rispetto del termine per cui questa esperienza si deve realizzare per almeno tre attività entro il 2012 e per le restanti sei entro il 2013, i comuni con popolazione inferiore a 5 mila abitanti devono effettuare gli acquisti di beni e servizi e le aggiudicazioni di lavori pubblici esclusivamente tramite centrali uniche di committenza.
È questo un obbligo che si può definire come «trasversale», intendendo con questa espressione che si estende a qualsivoglia funzione, quindi senza distinzione tra quelle fondamentali e le altre. Nelle previsioni legislative la unione dei comuni rappresenta lo strumento principali attraverso cui realizzare concretamente questa forma di gestione associata.
L'ambito di applicazione della disposizione è assai vasto. Per la sezione regionale di controllo della Corte dei conti del Piemonte, esso si estende a tutte le procedure che non siano «in economia» ed a quelle che hanno importo inferiore alla soglia comunitaria. Nell'ambito degli acquisti in economia si deve effettuare una distinzione tra quelli effettuati mediante «amministrazione diretta», che sono da considerare esclusi, e quelli per i quali si ricorre al metodo del «cottimo fiduciario». Per quest'ultimo strumento si deve pervenire alla conclusione dell'assoggettamento ai vincoli della utilizzazione delle centrali uniche di committenza in quanto essa, per la definizione dettata dal legislatore, «costituisce procedura negoziata, laddove per procedura negoziata di intende ogni procedura in cui la stazione appaltante consulta gli operatori economici scelti e negozia con uno o più di essi le condizioni dell'appalto».
Ed ancora, «risulta evidente la volontà del legislatore, confermata dalla disciplina contenuta nel regolamento di esecuzione, nonché dalla giurisprudenza amministrativa, di assoggettare la procedura di cottimo fiduciario alle norme del codice dei contratti pubblici previste per i procedimenti di affidamento ordinari, purché compatibili con la procedura semplificata». Il riferimento utilizzato dal legislatore alla gara non può determinare la esclusione di questa procedura, in quanto prevale il dato sostanziale della spinta alla razionalizzazione delle procedure.
Sulla base delle previsioni del dl n. 95/2012 il ricorso alla centrale unica di committenza non è obbligatorio nei seguenti due casi. In primo luogo, se l'ente aderisce ad un'altra esperienza di questo tipo: ricordiamo che molte regioni si sono e/o si stanno concretamente attivando in tale direzione e che è possibile per i comuni, come per tutte le altre pubbliche amministrazioni, aderire a tali esperienze.
In tale ambito sono comprese anche le convenzioni di acquisto, tra le quali assumono particolare e specifico rilievo quelle stipulate con la Consip. In secondo luogo, per quegli acquisti che si effettuano tramite il mercato elettronico. Alla base di questa esclusione il fatto che in queste esperienze il rischio della frammentazione è di per sé evitato, così come i costi di gestione per tali procedure sono ridotti al minimo (articolo ItaliaOggi del 10.08.2012 - tratto da www.corteconti.it).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Discarica non autorizzata.
Domanda
In presenza di una discarica non autorizzata di rifiuti provenienti da attività di demolizione, il ripristino ambientale può essere considerato risarcimento in forma specifica?
Risposta
La Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza del 12.05.2011, numero 18815, ha affermato che, in tema di smaltimento di rifiuti, conseguenti alla realizzazione e gestione di una discarica non autorizzata di rifiuti provenienti da attività di demolizione, il ripristino dello stato dei luoghi non è configurabile quale sanzione accessoria a quella penale, ma è, nella sostanza, un risarcimento in forma specifica che discende ex lege dalla condanna, con il limite previsto dalla legge («ove sia possibile») ed è anche diverso, pertanto, dall'obbligo di ripristino disciplinato dall'articolo 2058 del codice civile.
Il ripristino dello stato dei luoghi era previsto dall'articolo 18, comma 8, della legge 08.07.1986, numero 349, (legge istitutiva del ministero dell'ambiente), che statuiva, al citato comma 8, che «il giudice, nella sentenza di condanna dispone, ove possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile» . Detta disposizione è, all'attualità, contenuta, con formulazione non identica, nell'articolo 311 del decreto legislativo numero 152, del 3 aprile 2006. Detto articolo è stato poi modificato dalla legge numero 166, del 2009.
Ora la Suprema corte, con la summenzionata sentenza, ha puntualizzato che il ripristino dello stato dei luoghi non deve essere considerato come una sanzione accessoria penale, ma una forma di risarcimento del danno, di forma civilistica, distinta da quella prevista dall'articolo 2058 del codice civile, che dispone che: «Il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica, qualora sia in tutto o in parte possibile. Tuttavia, il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore» .
È da dire che già in tema di tutela del paesaggio, la stessa Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza del 10.06.1991, numero 6390 ebbe ad affermare che il provvedimento di ripristino non deve essere considerato come pena accessoria, perché le pene accessorie sono sempre di natura personale e mai patrimoniali. Esse, infatti, incidono sullo status del condannato, non aggrediscono il suo patrimonio, ma ne limitano la sua sfera giuridica.
Inoltre, l'istituto del ripristino è applicabile indipendentemente dalla proprietà del bene e dal responsabile. Ed è posto, come affermato dalla Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza del 21.04.1994, numero 4549, a tutela degli interessi della collettività (articolo ItaliaOggi Sette del 06.08.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Omessa compilazione.
Domanda
Il gestore dell'impianto di destinazione finale dei rifiuti ha responsabilità in ordine all'omessa compilazione del Formulario di identificazione del rifiuto (Fir)?
Risposta
La Corte di cassazione, sezione VI civile, con la sentenza dell'08.04.2011, numero 11160, ha fatto chiarezza al disposto di legge in materia di rifiuti e in particolare, in ordine all'omessa compilazione da parte del gestore dell'impianto di destinazione finale dei rifiuti e ha cassato, senza rinvio, la sentenza della Corte di appello che aveva ritenuto responsabile il predetto dell'illecito amministrativo per avere omesso di compilare il Formulario di identificazione del rifiuto (Fir).
La stessa Corte di cassazione, sezione II civile, con la sentenza numero 21781, dell'11 ottobre 2006, affrontando l'ambiguità e l'incertezza dell'obbligo della compilazione del Formulario di identificazione del rifiuto (Fir), aveva affermato che «...è sufficiente rilevare che la necessità dell'indicazione nel formulario di identificazione della quantità del rifiuto trasportato è chiaramente ed inequivocabilmente stabilita dall'articolo 15, comma 1, lettera b) del decreto legislativo numero 22, del 1997, secondo cui: durante il trasporto effettuato da enti o imprese i rifiuti sono accompagnati da un formulario di identificazione dal quale devono risultare, in particolare, i seguenti dati... b) origine, tipologia e quantità del rifiuto».
«In tema di rifiuti, il produttore di quelli che siano avviati allo smaltimento deve indicare, all'atto della partenza, la quantità degli stessi nel formulario di accompagnamento e la relativa omissione comporta la violazione, punita con sanzione amministrativa, degli articoli 15 e 52 del decreto legislativo numero 22, del 1997, posto che, dall'interpretazione letterale del combinato disposto di dette norme, si desume che la responsabilità per la mancata presenza del formulario a corredo del trasporto è attribuibile non solo al trasportatore, ma anche al produttore dei rifiuti» .
Peraltro, il destinatario del rifiuto non ha quelle notizie sul rifiuto note, soltanto, al produttore o al trasportatore o al detentore del rifiuto (articolo ItaliaOggi Sette del 06.08.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Risarcimento di danno ambientale.
Domanda
Il risarcimento del danno ambientale, quale lesione dell'interesse pubblico e generale dell'ambiente, spetta esclusivamente allo stato?
Risposta
La Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza del 27.05.2011, numero 21311, ha affermato che il risarcimento del danno ambientale, quale lesione dell'interesse pubblico e generale dell'ambiente, spetta esclusivamente allo stato, ai sensi dell'articolo 311, del decreto legislativo 03.04.2006, numero 152. Gli enti territoriali, per la Suprema corte di cassazione, sono legittimati a costituirsi parte civile nel giudizio penale al fine di ottenere il risarcimento del danno ambientale ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile.
La stessa Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza numero 14828, dell'11.02.2010, ebbe ad affermare che la legittimazione alla costituzione di parte civile delle associazioni ecologiche operanti nel settore dell'ambiente, richiede che le associazioni si atteggino quali enti esponenziali di interessi ambientali concretamente individualizzati e, cioè, di interessi collettivi legittimi e non di meri interessi diffusi. Al fine di accertare se la situazione giuridica soggettiva dell'ente sia differenziata e qualificata rispetto al mero interesse collettivo, di natura diffusa, è necessario che l'associazione abbia dato prova di continuità del suo contributo a difesa del territorio.
Ancora la Corte di cassazione, sezione III penale ha puntualizzato, con la sentenza del 03.11.2006, numero 36514, che le associazioni ambientaliste portatrici di interessi superindividuali possono costituirsi parte civile nel processo penale, avocando la risarcibilità del danno ambientale, con poteri identici a quelli della persona offesa, munendosi del consenso di quest'ultima, quale requisito essenziale della legittimazione processuale.
Alla luce della normativa in atto, pertanto, le regioni, gli enti pubblici territoriali minori, nonché gli altri protagonisti singoli o associati, possono agire per l'accertamento della responsabilità aquiliana ex articolo 2043, del codice civile, per ottenere il risarcimento del danno patrimoniale. Infatti il citato articolo 311 concentra la competenza in materia in capo allo stato, che la esercita, per il tramite il ministero dell'ambiente e della tutela del territorio, per la tutela, la prevenzione e la riparazione dei danni ambientali (articolo ItaliaOggi Sette del 06.08.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Trasporto di rifiuti senza formulario.
Domanda
Il trasporto di rifiuti senza formulario è sanzionato penalmente?
Risposta
Il comma 3 dell'articolo 52 del decreto legislativo numero 22, del 1997, poi diventato comma 4 dell'articolo 258 del decreto legislativo numero 152, del 2006, in forza del rinvio quoad poenam all'articolo 483 del codice penale sanzionava quale delitto la condotta di chiunque effettuasse trasporto di rifiuti pericolosi senza formulario, oppure avendo indicato nel formulario dei dati incompleti o inesatti. Sanzionava, pure, la condotta di chi, nella predisposizione di un certificato di analisi di rifiuti forniva false indicazioni sulla natura, sulla composizione e sulle caratteristiche chimico-fisiche dei rifiuti. Sanzionava, ancora, la condotta di colui che facesse uso di un certificato falso durante il trasporto.
Il legislatore, con il decreto legislativo numero 205, del 2010, che ha dato attuazione alla direttiva numero 98/1999/CE, con il nuovo comma 4 dell'articolo 258, ha ridimensionato il rilievo penale. Infatti la pena di cui all'articolo 483, del codice penale è applicabile non solamente a colui che nella predisposizione di un certificato di analisi di rifiuti fornisce false indicazioni sulla natura, sulla composizione e sulle caratteristiche chimico-fisiche de rifiuti, ma anche a colui che fa uso di un certificato falso durante il trasporto.
Detta condotta, dopo l'entrata in vigore del citato decreto legislativo numero 205, del 2010, è penalmente rilevante soltanto quando realizzata da imprese che raccolgono e trasportano i propri rifiuti non pericolosi di cui all'articolo 212, comma 8,e che non aderiscono al sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (Sistri), di cui all'articolo 188-bis, comma 2, lettera a).
Il tribunale di Bologna, sezione prima penale, con la sentenza del 19.05.2011, numero 109, ha affermato che l'articolo 35 del decreto legislativo n. 205, del 03.12.2010, ha depenalizzato il reato di cui all'articolo 52, comma 3, del decreto legislativo numero 22, del decreto legislativo numero 205, del 2010, ora articolo 258, comma 4, del decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, relativo al trasporto di rifiuti pericolosi senza l'apposito formulario o con l'indicazione inesatta o incompleta dei dati indicati nel formulario stesso e con «una lettura costituzionalmente orientata dell'articolo 484 del codice penale» ha ritenuto depenalizzata la condotta meno grave di chi attesti false indicazioni nei registri di cui al citato articolo 484 del codice penale (articolo ItaliaOggi Sette del 06.08.2012).

CONDOMINIO: Approvazione tabelle a maggioranza.
Domanda
L'approvazione delle tabelle millesimali in una palazzina condominiale con quali criteri deve essere fatta? Occorre l'unanimità oppure, come sostiene l'amministratore, è sufficiente la maggioranza assoluta (maggioranza degli intervenuti che rappresenti la metà almeno del valore dell'edificio)?
Risposta
Ha ragione l'amministratore. La sentenza n. 18477/2010 delle Sezioni unite della Corte di cassazione ha «validato» l'orientamento (minoritario) più recente affermando il principio che le tabelle millesimali non devono essere approvate con il consenso unanime dei condomini, essendo sufficiente la maggioranza qualificata di cui all'art. 1138, 3° c., c.c.
La Cassazione ha negato che i millesimi rappresentino l'espressione di una volontà negoziale dei condomini volta ad accertare il valore millesimale delle loro unità immobiliari da cui sarebbe conseguita la necessità dei consensi di tutti gli stessi per la loro approvazione.
La Cassazione ha esaminato anche la funzione delle tabelle millesimali, negando che la presunta necessità dell'unanimità dei consensi dipenderebbe dal fatto che la deliberazione di approvazione delle tabelle millesimali costituirebbe un negozio di accertamento del diritto di proprietà sulle singole unità immobiliari e sulle parti comuni; piuttosto, la tabella millesimale serve solo a esprimere in precisi termini aritmetici un già preesistente rapporto di valore tra i diritti dei vari condomini, senza incidere in alcun modo sulla consistenza dei diritti reali a ciascuno spettanti.
Afferma la Cassazione nella sentenza che la deliberazione che approva le tabelle millesimali non si pone come fonte diretta dell'obbligo contributivo del condomino, che è nella legge prevista, ma solo come parametro di quantificazione dell'obbligo, determinato in base a una valutazione tecnica; caratteristica propria del negozio giuridico è la conformazione della realtà oggettiva alla volontà delle parti: l'atto di approvazione della tabella, invece, fa capo a una documentazione ricognitiva di tale realtà, donde il difetto di note negoziali.
In sintesi, con la predetta sentenza le Sezioni Unite hanno affermato che:
1) le tabelle esprimono un rapporto di valore tra unità immobiliari e parti comuni, che preesiste alle tabelle stesse, ai soli fini della ripartizione delle spese e del corretto svolgimento dell'assemblea (art. 68 disp. att. c.c.); 2) le tabelle sono un allegato del regolamento del condominio che, se di origine «assembleare» (anziché «contrattuale»), può essere approvato e modificato a maggioranza;
3) in quanto allegato al regolamento assembleare, esse sono soggette alle norme che regolano tale atto principale e, poiché per le tabelle nulla è previsto mentre per il regolamento è specificato il quorum necessario per la sua approvazione (art. 1138, 3° c. e 1136, 2° c.), anche per l'approvazione e la revisione delle tabelle è sufficiente il voto favorevole della maggioranza degli interventi all'assemblea che rappresentino almeno 500 millesimi (articolo ItaliaOggi Sette del 06.08.2012).

NEWS

ENTI LOCALI - VARII comuni possono installare i box porta-autovelox.
I comuni possono installare box porta-sistemi autovelox anche in centro abitato senza necessità di alcuna autorizzazione particolare da parte di organi terzi. Il loro uso però sarà limitato a una attività dissuasiva e preventiva oppure all'accertamento non automatico dell'eccesso di velocità con la presenza costante dei vigili urbani.
Lo ha chiarito il ministero dei trasporti con il parere 04.07.2012 n. 3937 di prot.
I box colorati dissuasori dell'eccesso di velocità stanno spuntando come funghi specialmente nei centri abitati dove la normativa stradale limita fortemente l'uso degli autovelox fissi senza presidio. Per questo motivo una provincia ha richiesto chiarimenti al ministero dei trasporti che ha confermato la legittimità sostanziale di queste installazioni. I manufatti in oggetto, specifica il parere centrale, «non sono inquadrabili in alcuna delle categorie previste dal nuovo codice della strada e dal connesso regolamento di esecuzione e attuazione e dunque per essi non risulta concessa alcuna approvazione, ai sensi dell'art. 45, comma 6, del codice e dell'art. 192, comma 3, del regolamento da parte di questa direzione».
In pratica, gli armadietti non sono classificabili come segnaletica e nemmeno come sua componente. Ma non si tratta neppure di impianti, prosegue il Mit e «in quanto privi di qualsivoglia dispositivo deputato alla specifica funzione essi probabilmente non potranno neppure essere ricondotti alla futura nuova disciplina che sarà introdotta in attuazione dell'art. 60 della legge n. 120/2010».
Il riferimento ministeriale è al decreto che dovrà definire compiutamente le caratteristiche e le modalità di impiego di tutti gli impianti da utilizzare per il controllo elettronico della velocità. In buona sostanza, i manufatti porta-autovelox possono essere utilizzati con misuratori omologati, ma sempre con la presenza della pattuglia se l'accertamento viene effettuato in un tratto di strada non ricompreso tra quelli autorizzati dal prefetto per il controllo automatico (articolo ItaliaOggi dell'11.08.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODipendenti in fuga dalle province. Boom di richieste di mobilità volontaria per evitare gli esuberi. A preoccupare i lavoratori anche l'incertezza sulla nuova destinazione. Enti in imbarazzo.
Fuga dalle province. È caos sulla normativa e sulle modalità con le quali guidare e regolare i processi di trasferimento dei dipendenti delle amministrazioni provinciali verso i comuni o le regioni, che dovranno subentrare alle province nell'esercizio delle loro competenze, per effetto dell'articolo 17 del dl 95/2012.
La condizione di incertezza rispetto al destino delle province, sta inducendo circa 4/5 mila dipendenti provinciali ad anticipare decisamente i tempi ed a cercare da subito una nuova attività lavorativa, attraverso la «mobilità volontaria» prevista dall'articolo 30 del dlgs 165/2001, cioè il trasferimento verso altre amministrazioni.
Non c'è, in effetti, dubbio che il complicatissimo processo del passaggio delle funzioni provinciali ai comuni o alle regioni ponga almeno due elementi problematici.
Il primo, è il rischio di essere coinvolti negli «esuberi»: i dipendenti provinciali potrebbero, cioè, trovarsi senza una utile collocazione lavorativa e rischiare di essere inseriti nelle liste di «disponibilità» per 24 mesi, con stipendio ridotto all'80%.
Tale evenienza dovrebbe essere scongiurata, perché l'articolo 17, comma 9, del dl 95/2012 condiziona la decorrenza dell'esercizio delle funzioni provinciali trasferite a comuni o regioni al contestuale ed effettivo trasferimento di beni, risorse finanziarie, strumentali e di personale. In linea teorica, dunque, dovrebbe esserci una traslazione totale: le competenze provinciali passano agli enti subentranti in blocco col personale provinciale impiegato.
Il secondo elemento problematico, più concreto, è dato dall'incertezza della sede di nuova destinazione. In assenza di criteri su come ripartire le funzioni provinciali e su quali potranno essere degli 8.100 comuni destinatari quelli che subentreranno (lo stesso vale per l'eventuale subentro delle regioni), i lavoratori impiegati nelle province non sanno quale potrà essere il nuovo lavoro, il nuovo ente di appartenenza, la distanza, le condizioni di lavoro, contrattuali ed organizzative.
Nulla di sorprendente, allora, che molti cerchino di anticipare i tempi e di guidare il proprio passaggio lavorativo dalla provincia a un'altra amministrazione (eventualmente anche non del comparto regioni-autonomie locali) che possano in qualche modo scegliere.
Le altre amministrazioni sanno bene di questa situazione. E cercano di trarne vantaggio, in particolare i comuni. Infatti, le assunzioni per mobilità sostanzialmente si ritiene non incidano sui tetti al turnover e sui saldi finanziari, in quanto neutrali. Per rimpinguare la dotazione organica, dunque, la mobilità è una buona opportunità. Del resto, l'articolo 30, comma 2, del dlgs 165/2001 obbliga tutte le amministrazioni ad esperire una procedura finalizzata ad attivare la mobilità volontaria prima di espletare i concorsi.
A fronte del chiaro interesse dei dipendenti delle province a partecipare alle procedure di mobilità per cercare il trasferimento, le amministrazioni provinciali si trovano in un evidente imbarazzo.
L'articolo 16, comma 9, sempre del dl 95/2012 vieta alle province di assumere nuovo personale a tempo indeterminato nelle more dell'attuazione delle disposizioni finalizzate alla loro riduzione e razionalizzazione. Un divieto che si deve intendere esteso anche alle assunzioni mediante mobilità, per quanto ad oggi l'ipotesi di dipendenti pubblici che chiedano di trasferirsi presso una provincia appare piuttosto improbabile.
In conseguenza del divieto assoluto di assumere, se le province lasciassero andare in mobilità il personale non potrebbero sostituirlo.
Per questa ragione, alcune province, come per esempio Siena, hanno disposto una sorta di blocco totale alle mobilità in uscita, riservandosi di non esprimere il «nulla osta» alle domande di mobilità presentate dai propri dipendenti.
La mobilità verso altri enti non costituisce, per i dipendenti, un diritto soggettivo, dunque ogni amministrazione, comprese le province, possono negarla.
Di fatto, tuttavia, porte totalmente chiuse alla mobilità non sembrano una scelta corretta, considerando l'evidente favor del legislatore per questa forma di razionalizzazione della distribuzione dei dipendenti tra amministrazioni.
La difficile gestione del personale provinciale, circa 56 mila dipendenti, potrebbe risultare più agevole se il dipartimento della Funzione pubblica pubblicasse con urgenza l'elenco dei posti vacanti delle pubbliche amministrazioni e indicasse regole specifiche sulla mobilità dei dipendenti provinciali. Esiste, infatti, un interesse indiretto ma sostanziale, nell'organizzazione degli assetti del personale, alla migliore distribuzione dei dipendenti pubblici tra enti.
Processi di riordino come quelli previsti dal legislatore richiedono come necessità la regolazione dei trasferimenti da enti che vanno verso il depotenziamento, ad altri enti che, invece, risultino carenti di personale. Un blocco totale, pertanto, delle mobilità dalle province verso altri enti si rivela contrario ai principi di corretta amministrazione (articolo ItaliaOggi del 10.08.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALIGestioni unitarie solo per le competenze fondamentali. Per le funzioni di Ict non serve associarsi.
I piccoli comuni non devono gestire in forma associata le attività di Ict in modo da raggiungere la soglia minima di 30 mila abitanti.

È quanto prevede la legge di conversione del dl n. 95/2012, cd spending review, che limita le gestioni associate esclusivamente alle sole funzioni fondamentali. In tal modo viene superata una antinomia che si era determinata nella sovrapposizione delle previsioni normative, vincolando i piccoli comuni in modo duplice alla unificazione sia della gestione delle attività fondamentali, sia delle tecnologie, ma prevedendo anche soglie minime completamente diverse: per le funzioni fondamentali essa è fissata in 10 mila abitanti, che per scelta regionale possono anche essere inferiori, mentre per le attività di Ict veniva fissata nella soglia inderogabile di 30 mila abitanti.
Sulla base delle nuove disposizioni il dato prevalente, ai fini della individuazione delle attività da svolgere necessariamente in modo associato è costituito dalle funzioni fondamentali, che ricordiamo essere le seguenti: organizzazione generale della amministrazione, gestione, contabilità e controllo; organizzazione dei servizi pubblici di interesse comunale, ivi compresi i trasporti pubblici comunali; catasto; pianificazione urbanistica ed edilizia comunale e partecipazione a quella sovraccomunale; pianificazione della protezione civile e coordinamento dei primi soccorsi; organizzazione e gestione della raccolta e smaltimento dei rifiuti e dei relativi tributi; progettazione del sistema di servizi sociali ed erogazione delle relative prestazioni ai cittadini; edilizia scolastica e organizzazione e gestione dei servizi scolastici; polizia municipale e polizia amministrativa locale; tenuta dei registri di stato civile ed anagrafe, servizi anagrafici, elettorali e statistici.
Ciò che conta sono tali attività e non più le modalità di svolgimento; infatti per espressa previsione del dl n. 95/2012, cd spending review, «se l'esercizio di tali funzioni è legato alle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, i comuni le esercitano obbligatoriamente in forma associata secondo le modalità stabilite dal presente articolo, fermo restando che tali funzioni comprendono la realizzazione e la gestione di infrastrutture tecnologiche, rete dati, fonia, apparati, di banche dati, di applicativi software, l'approvvigionamento di licenze per il software, la formazione informatica e la consulenza nel settore dell'informatica».
Di conseguenza, la gestione associata comprende unicamente materie specifiche e cessa di comprendere modalità di esercizio di tali attività, cioè di essere «trasversale». L'unica eccezione è costituita dall'obbligo delle centrali uniche di committenza per ogni tipo di acquisto, a prescindere dalla destinazione a questa o a quella funzione. Siamo cioè in presenza di un chiarimento quanto mai opportuno, sul terreno concretamente operativo, perché permette di superare tutti i dubbi applicativi e di evitare la sovrapposizione di modalità diverse di gestione (articolo ItaliaOggi del 10.08.2012).

ENTI LOCALII consorzi locali si salvano ancora. Ma la deroga può incentivare tentativi di elusione del Patto. La spending review mette il welfare al riparo dai tagli. E alcuni enti subito ne approfittano.
A sorpresa, la spending review salva i consorzi socio-assistenziali. Si tratta di una deroga all'obbligo di sfoltire enti e società strumentali, che tuttavia rischia di dare la stura a nuovi tentativi di elusione dei vincoli di finanza pubblica.
Facciamo un passo indietro. Correva l'anno 2009 quando il legislatore statale decise di sopprimere tutti i consorzi di funzioni tra gli enti locali. L'art. 2, comma 186, lett. e), della legge 191/2009 non contemplava eccezioni di sorta (una venne prevista successivamente, dalla legge 42/2010, per salvare i bacini imbriferi montani), sicché la mannaia (come chiarito da varie pronunce della Corte dei conti) avrebbe dovuto colpire, fra gli altri, anche i consorzi socio-assistenziali, a decorrere dal primo rinnovo del rispettivo consiglio di amministrazione successivo al 2011. Ben pochi, in realtà, i consorzi fin qui davvero sciolti e ora, con il decreto sulla spending review (dl 95/2012), arriva per tutti un inaspettato salvagente.
A fronte di un art. 9, comma 1, del dl 95 –che in modo draconiano prevede l'obbligo per regioni ed enti locali di sopprimere «enti, agenzie e organismi comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica» che esercitino, anche in via strumentale, funzioni amministrative anche fondamentali– il successivo comma 1-bis (introdotto in sede di conversione) precisa che la tagliola non si applica «alle aziende speciali, agli enti ed alle istituzioni che gestiscono servizi socio-assistenziali, educativi e culturali».
Quindi anche ai consorzi da sopprimere in base alla disciplina pregressa? Parrebbe di sì, almeno stando all'ordine del giorno presentato dall'on.le Luigi Bobba (Pd) e approvato dalla camera (con l'ok del governo) in occasione del voto di fiducia al provvedimento di revisione della spesa proprio al fine di chiarire l'ambito di applicazione del comma 1-bis. Del resto, non è la prima volta che l'esecutivo si mostra disponibile ad allentare la stretta sugli organismi che operano nel sociale.
Già con l'art. 25, comma 2, del decreto «Cresci Italia» (dl 1/2012), infatti, era stata prevista (anche qui in sede di conversione) una deroga a favore di aziende speciali ed istituzioni (non per i consorzi) «che gestiscono servizi socio-assistenziali ed educativi, culturali e farmacie», che vennero salvate dall'assoggettamento al Patto e alle limitazioni sul personale che per tutte le altre scatteranno nel 2013. Non stupisce, quindi, che molti comuni si stiano interrogando sull'opportunità di costituire nuovi enti strumentali cui assegnare le funzioni «protette» . Il rischio, però, è che, in tal modo, si incentivino nuovi tentativi di elusione dei vincoli di finanza pubblica, tanto faticosamente combattuti in questi anni.
Senza voler essere maligni, fa certamente riflettere il fatto che il comune di Alessandria, che recentemente ha dovuto dichiarare il dissesto, abbia deciso di costituire un'azienda speciale per la gestione dei servizi per l'infanzia. Colpisce, soprattutto, il fatto che a presiedere il cda sia, di diritto, il sindaco malgrado la chiara causa di ineleggibilità/incompatibilità sancita per gli amministratori locali dal Tuel (articolo ItaliaOggi del 10.08.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIOsservatorio Viminale. Il sindaco non fa gruppo.
Se le disposizioni regolamentari di un comune consentono la costituzione di gruppi consiliari unipersonali, un sindaco, eletto in una lista, può costituire e fare parte di un nuovo gruppo consiliare?

La disciplina della materia relativa alla costituzione dei gruppi consiliari è demandata allo statuto e al regolamento del consiglio, nell'esercizio della propria autonomia funzionale ed organizzativa. Ne deriva che le problematiche relative alla costituzione e al funzionamento dei gruppi consiliari dovrebbero essere valutate alla stregua delle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l'ente locale si è dotato, competendo al consiglio comunale l'eventuale interpretazione autentica delle predette norme.
Tuttavia, l'attività interpretativa non può essere disgiunta dall'osservanza dei principi di buona amministrazione, né possono essere utilizzate, a sostegno di tale attività, massime giurisprudenziali che non si adattino perfettamente alla fattispecie esaminata. Occorre tenere presente che la candidatura del sindaco, per espressa previsione contenuta nell'art. 71 del Tuel, non è compresa ma «è collegata alla lista di candidati alla carica di consigliere comunale», unitamente alla quale è presentato il relativo nominativo del candidato. Il sindaco, pur se membro del consiglio comunale ai sensi dell'art. 46 Tuel, ha, in effetti, una posizione differenziata rispetto ai singoli consiglieri comunali.
Il sindaco e il consiglio comunale, di cui i gruppi consiliari sono organismi strumentali e funzionali, svolgono ruoli distinti; il primo, di organo responsabile dell'amministrazione dell'ente, il secondo, di organo di indirizzo e controllo dell'operato del sindaco e della giunta, con le specifiche competenze declinate dall'art. 42 del Tuel. Per lo svolgimento di siffatte attribuzioni il consiglio si avvale dei gruppi consiliari che rappresentano la proiezione dei partiti politici all'interno dell'ente.
Ne deriva che l'iscrizione del sindaco ad un gruppo, e a maggior ragione la costituzione di un gruppo unipersonale nel corso della consiliatura da parte dello stesso sindaco, può incidere sul corretto e bilanciato esercizio delle funzioni di governo dell'ente. Tale sbilanciamento può influire anche sull'esercizio del fondamentale diritto di iniziativa, nonché sull'attività di sindacato ispettivo dei consiglieri, ovvero, in casi estremi, venendo meno il rapporto fiduciario, sulla presentazione della mozione di sfiducia (articolo ItaliaOggi del 10.08.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOFunzione pubblica. Le vecchie ferie si possono monetizzare.
Il divieto di monetizzare le ferie non godute al termine del rapporto di lavoro si applica a partire dal 7 luglio, cioè dall'entrata in vigore del Dl 95/2012. Le ferie non godute dai dipendenti pubblici cessati dal servizio in precedenza possono continuare a essere monetizzate e, scelta ancora più rilevante, anche le ferie non godute fino a quella data dai dipendenti potranno essere monetizzate alla cessazione anche se questa interverrà dopo l'entrata in vigore della norma.
Lo sostiene la Funzione Pubblica in una risposta all'Anci. Il dipartimento giunge a questa conclusione per l'assenza di norme transitorie e l'applicazione dei principi generali di interpretazione delle leggi, che dispongono solo per il futuro. Appare come frutto di un'interpretazione "creativa" l'esclusione dei casi in cui il divieto di monetizzazione «risulti incompatibile con la fruizione delle ferie a causa della ridotta durata del rapporto o a causa della situazione di sospensione del rapporto cui segua la sua cessazione».
Per cui rimarranno per sempre al di fuori dell'ambito di applicazione della norma i casi eccezionali di sospensione del rapporto seguiti da cessazioni, ma anche buona parte delle assunzioni flessibili (articolo Il Sole 24 Ore del 10.08.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Addio ai superstipendi nella p.a.. Taglio della retribuzione per chi sfora il tetto dei 293.656 €.
La funzione pubblica promette tolleranza zero. E arriva un odg per estendere la stretta alle regioni.
Tolleranza zero per chi riceve a carico delle pubbliche finanze emolumenti che, in virtù del disposto previsto dall'articolo 23-ter del decreto salva Italia, superano il trattamento economico percepito dal primo presidente della Cassazione.
Infatti, i soggetti che sforeranno il limite oggi fissato a 293.656 euro, subiranno il taglio tra la retribuzione in godimento fino a concorrenza di quanto sopra.
Tale decurtazione non concorrerà a formare l'imponibile fiscale e sarà evidenziata in apposita nota nel cedolino delle spettanze quale «trattenuta ex articolo 23-ter del dl n. 201/2011».
Il trattamento da considerare, inoltre, sconterà il criterio di competenza e non di cassa e comprende anche il trattamento accessorio, anche se questo, di norma, viene erogato successivamente allo svolgimento della prestazione lavorativa. Restano comunque fuori da tale ambito applicativo coloro che hanno in corso rapporti di lavoro con amministrazioni regionali e locali.
Queste alcune delle indicazioni che il dipartimento della funzione pubblica ha ritenuto necessarie diffondere con la circolare n. 8 del 6 agosto, in ordine alla disciplina sui limiti retributivi operata dalla norma richiamata e alla luce delle indicazioni operative fissate dal relativo dpcm 23.03.2012 che è divenuto operativo il 17 aprile scorso, ovvero il giorno dopo la sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
Ma il giro di vite sui super stipendi potrebbe essere ancora più rigoroso ed estendersi anche agli enti locali (in primis ai governatori regionali) o ai presidenti degli enti pubblici. In pratica non solo a coloro che hanno un rapporto di lavoro subordinato o autonomo con la p.a., ma anche a tutti quelli che sono a carico delle finanze pubbliche a vario titolo.
Il governo si è impegnato a non fare eccezioni. E lo ha fatto accogliendo un ordine del giorno alla spending review a firma del deputato Pd Simonetta Rubinato. La proposta punta proprio a rafforzare le disposizioni del decreto Salva Italia che potrebbero presentare più di un punto debole. A cominciare dall'inadeguatezza di un provvedimento come il dpcm a ridurre un trattamento economico fissato con legge ordinaria. Ecco perché l'odg Rubinato prevede che l'adeguamento dei compensi debba avvenire con un provvedimento avente forza di legge e non con un dcpm che, per inciso, non potrebbe obbligare una regione ad adeguare i compensi dei propri amministratori o dirigenti.
Un'altra falla nel sistema risiede nel fatto che il dpcm del 23 marzo non esclude che trattamenti inferiori al trattamento economico del primo presidente della Cassazione possano essere elevati a tale limite. Basta leggere l'art. 5 del dpcm per rendersene conto: «Per il personale con qualifica dirigenziale cui non si applica la disposizione di cui all'art. 3, a causa del mancato raggiungimento del limite massimo retributivo ivi previsto, le pubbliche amministrazioni provvedono, in occasione del rinnovo del contratto individuale di lavoro, alla ridefinizione del relativo trattamento economico».
«Ridefinizione», fa notare Rubinato, «è un termine assai generico che non necessariamente significa riduzione e che non esclude la possibilità di un ritocco verso l'alto degli stipendi inferiori a 293.656 euro». Cosa che puntualmente si è verificata in qualche Authority negli ultimi mesi. Di qui l'impegno al governo a evitare che il limite di stipendio di cui sopra finisca per produrre un effetto paradossale elevando tutti gli altri stipendi e quindi contribuendo a incrementare la spesa pubblica invece di ridurla.
Tornando alla circolare della funzione pubblica, il dipartimento guidato da Filippo Patroni Griffi chiarisce che il limite di stipendio si applica a coloro che sono titolari di rapporti con amministrazioni «attratte» all'ambito statale. Per esempio la presidenza del consiglio dei ministri, la Corte dei conti, le agenzie fiscali, gli enti pubblici non economici, nonché i componenti e i presidenti delle Authority.
Vigilanza affidata ai diretti interessati.
Le operazioni di controllo sul corretto rispetto del limite partono dagli stessi interessati. Infatti, questi devono rendere all'amministrazione di appartenenza, sotto forma di dichiarazione sostitutiva di atto notorio, l'elenco dell'incarico o degli incarichi conferiti con il relativo importo. Nel caso di soggetti che sono titolari di uno o più incarichi di lavoro autonomo, questi dovranno trasmettere la documentazione all'amministrazione «con la quale è in corso l'incarico prevalente dal punto di vista economico».
L'inoltro delle dichiarazioni (se non già effettuato dai soggetti obbligati per effetto della pubblicazione del citato dpcm 23.3.2012), dovrà avvenire entro il 30 novembre di ciascun anno. Il controllo delle amministrazioni riceventi è la parte più delicata dell'intero iter di verifica. Queste dovranno operare secondo il criterio di competenza delle somme (e quindi non per quello di cassa), accertando quanto spetti al dipendente nel complesso «in ragione d'anno». A tal fine, la circolare precisa che deve essere incluso in tale ammontare anche la parte di trattamento accessorio, anche se, di regola, questo viene corrisposto nell'anno successivo all'espletamento della prestazione lavorativa (è il caso, per esempio, della retribuzione di risultato dei dirigenti). Il taglio non avrà effetti sugli atti già sottoscritti, nel senso che, come ammette la circolare di Palazzo Vidoni, non sarà necessario nei casi di sforamento sottoscrivere un nuovo contratto o un nuovo incarico.
Pertanto, i soggetti che sforeranno dal limite di 293.656 euro, subiranno una decurtazione pari alla differenza tra il trattamento complessivo goduto e il predetto limite. Quest'importo non sarà incluso nella massa imponibile (ovvero non si pagheranno le tasse) e sarà indicato separatamente nel cedolino delle spettanze stipendiali. In termini operativi, l'amministrazione comunicherà al soggetto che sta procedendo alla riduzione e, nell'anno successivo, operare la decurtazione vera e propria.
Occorre considerare che il trattamento del primo presidente della Cassazione varia di anno in anno, per cui le riduzioni dei trattamenti devono essere effettuati sulla base del dato disponibile relativo all'anno precedente. Per quanto riguarda i limiti per i soggetti che prestano servizio presso altre amministrazioni pubbliche, mantenendo il trattamento economico previsto dall'amministrazione di appartenenza (per esempio, i fuori ruolo), la circolare di Patroni Griffi ricorda che anche per tali soggetti vige il limite di cui sopra, con la precisazione che per l'incarico ricoperto, questi non possono percepire più del 25% dell'ammontare complessivo del trattamento riconosciuto dalla propria amministrazione (articolo ItaliaOggi dell'08.08.2012 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATAProcedure edilizie. Il caso in cui il collegio è integrato con esperti esterni.
Vincolo paesaggistico, serve la commissione. Per il Consiglio di Stato l'organismo è «indispensabile».
L'ALTRO ORIENTAMENTO/ Secondo i giudici di merito è possibile affidare le valutazioni a un soggetto tecnico con atto dirigenziale.

Il Comune può sempre fare a meno della commissione edilizia? Due recenti pronunce del Consiglio di Stato danno risposte differenti, mentre per la legge da oltre un decennio le commissioni edilizie comunali non sono più un organo consultivo di natura obbligatoria nell'ambito dei procedimenti edilizi.
L'articolo 4 del Dpr 380/2001 –innovando le disposizioni contenute nell'articolo 33 della legge urbanistica fondamentale 1150/1942– ha infatti lasciato ai Comuni, nell'ambito del regolamento edilizio, la potestà di prevederne o meno l'istituzione e precisare le relative attribuzioni.
Nella prima pronuncia (Sezione IV, 975/2012), a conferma dell'orientamento già espresso in passato dalla stessa sezione (4793/2008), si ribadisce che l'articolo 4 del Dpr 380/2001, nel rendere per i Comuni facoltativa l'istituzione della commissione edilizia, ha introdotto un principio fondamentale in materia di governo del territorio, al quale il legislatore regionale deve sottostare, ai sensi dell'articolo 117, comma 3, della costituzione.
Ne deriva che una norma regionale che preveda l'obbligatorietà del parere della commissione edilizia, deve ritenersi implicitamente soppressa ai sensi dell'articolo 10 della legge 62/1953, in base al quale le leggi della Repubblica che modificano i principi fondamentali abrogano le norme regionali che siano in contrasto con esse.
Di segno opposto è invece la sentenza 05.04.2012 n. 2013 della VI Sez. del Consiglio di Stato, che ha ritenuto illegittima la delibera con cui l'Unione di due Comuni aveva soppresso la commissione edilizia, poiché, in questo caso, si trattava di una commissione integrata con due esperti in materia di bellezze naturali e di tutela dell'ambiente, che aveva il compito di esprimere un parere nell'ambito dei procedimenti di rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche (articolo 146 del Dlgs 42/2004).
I giudici di Palazzo Spada affermano che un organo così costituito non può essere ritenuto «non indispensabile» ai sensi e per gli effetti dell'articolo 96, Dlgs 267/2000, poiché, a differenza della commissione edilizia prevista dall'articolo 4, si tratterebbe di un organismo diverso e «direttamente istituito da una legge regionale e portatore di competenze già delegate dallo Stato alla Regione e che solo l'autorità delegante (o sub-delegante) avrebbe potuto sopprimere avocando a sé le relative funzioni, con atto normativo primario o sub-primario».
Quest'ultima tesi, tuttavia, solleva alcune perplessità e non sembra offrire una lettura costituzionalmente orientata della normativa di riferimento, finendo per incidere sulla capacità organizzatoria e regolamentare dell'ente locale, oltreché sui principi in tema di attribuzione di funzioni, così come attualmente disegnati dagli articoli 117 e 118 della costituzione. Ai Comuni, infatti, il nostro ordinamento riconosce piena potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite, potendo quindi scegliere le modalità con cui le stesse saranno espletate, pur nel rispetto dei principi stabiliti dalla legge. Questa, peraltro, non impone che il parere in materia paesaggistica sia reso da un organo collegiale e tantomeno ne definisce una specifica composizione.
Appare quindi più convincente quel diverso orientamento giurisprudenziale in base al quale, in caso di soppressione della commissione edilizia, il compito di esprimere pareri in ordine agli interventi in zone soggette a vincolo paesaggistico venga riassegnato ad un organo tecnico interno, con provvedimento dirigenziale assunto sulla base di un atto di indirizzo dell'organo politico dell'ente locale (Tar Toscana, sezione III, 480/2004). Laddove quest'ultimo non proceda all'autonoma individuazione di un diverso ufficio in sostituzione della commissione, le funzioni di tutela saranno automaticamente riportate all'organo regionale cui compete la gestione del vincolo (Cassazione penale, sezione III, 42102/2006), senza necessità di un atto avocazione da parte della Regione. Infatti, la soppressione degli organismi non identificati come indispensabili per la realizzazione dei fini istituzionali dell'amministrazione è una conseguenza automatica che discende direttamente dalla legge statale (Tar Calabria, Sezione Reggio Calabria, 48/1999).
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Le pronunce
01|PARERE NON OBBLIGATORIO SE NON C'È LA COMMISSIONE
La legge regionale Piemonte 08.07.1999 n. 19 (norme in materia edilizia) deve essere interpretata in senso costituzionalmente coerente con i principi generali introdotti in materia dal Dpr 380/2011. La scelta comunale di non istituire la commissione edilizia, conformemente all'articolo 4, comma 2, del Dpr 380, implica necessariamente la non obbligatorietà dell'acquisizione del relativo parere.
Consiglio di Stato, sezione IV, 4793/2008
02|GLI ENTI LOCALI POSSONO SEMPRE SOPPRIMERE LA COMMISSIONE
A seguito delle innovazioni introdotte dal Dpr 380/2001, la commissione edilizia ha perso il suo carattere di organo necessario ex lege (articolo 4, comma 2), dal momento che alla concessione si sostituisce il permesso di costruire, secondo procedimenti strutturati sul modulo dello sportello unico comunale e dell'eventuale intervento sostitutivo del competente organo regionale con la conseguenza che, data la natura attualmente facoltativa della commissione edilizia, gli enti locali potranno scegliere se conservarla, adeguandone la composizione e indicando nel regolamento edilizio gli interventi sottoposti al suo preventivo parere, oppure sopprimerla.
Consiglio di Stato, commiss. spec., n. 492/99/2003
03|UNA COMMISSIONE TECNICA VALUTA IL VINCOLO PAESAGGISTICO
Ai sensi dell'articolo 96, Dlgs 267/2000, direttamente applicabile alle Regioni a statuto ordinario, spetta ai consigli e alle giunte comunali, secondo le rispettive competenze, individuare non solo gli organi collegiali ritenuti indispensabili per la realizzazione dei fini istituzionali dell'amministrazione, con conseguente soppressione di tutti gli altri, ma anche l'ufficio che rivesta maggiore competenza in materia, al quale –per legge– le relative funzioni siano poi attribuite; deve perciò ritenersi legittima, in caso di soppressione della commissione edilizia, l'attribuzione del compito di esprimere pareri in ordine agli interventi in zone soggette a vincolo paesaggistico ad una commissione tecnica interna, individuata a mezzo provvedimento dirigenziale.
Tar Toscana, sezione III, 480/2004
04|LE FUNZIONI DI TUTELA AMBIENTALE SPETTANO ALL'ORGANO REGIONALE
In materia edilizia, a seguito dell'entrata
in vigore del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali
(Dlgs 267/2000) le funzioni edilizie, precedentemente esercitate a titolo consultivo dalla commissione edilizia comunale integrata, sono state trasferite, ove non individuato come indispensabile ex articolo 96 dello stesso Testo unico, al competente ufficio comunale, mentre le funzioni di tutela ambientale sono state riportate all'organo regionale cui compete la gestione del vincolo ambientale.
Cassazione penale, sezione III, 42102/2006
05|ORGANISMI NON INDISPENSABILI, LA SOPPRESSIONE È UN ATTO DOVUTO
Dall'articolo 41, comma 1, legge 449/1997 si desume che la soppressione di taluni organismi non identificati come indispensabili per la realizzazione dei fini istituzionali dell'amministrazione o dell'ente è una conseguenza che discende direttamente dalla legge: mancando, al riguardo, qualsiasi potestà di scelta dell'amministrazione la soppressione si configura, pertanto, come un atto dovuto.
Tar Calabria, sez. Reggio Calabria, 48/1999
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L'obiettivo è il risparmio
Il Testo unico dell'edilizia, definendo la «non obbligatorietà» delle commissioni edilizie, riflette le più generali e incisive previsioni dell'articolo 96 del Testo unico degli enti locali, che lascia alle singole amministrazioni il compito di individuare con cadenza annuale ed entro sei mesi dall'inizio di ogni esercizio finanziario, «i comitati, le commissioni, i consigli e ogni altro organo collegiale con funzioni amministrative ritenuti indispensabili per la realizzazione dei fini istituzionali». Alla mancata individuazione degli organi non identificati come indispensabili consegue la loro automatica soppressione e l'attribuzione delle relative funzioni «all'ufficio che riveste preminente competenza nella materia».
Il fine dichiarato della norma –che ripropone i contenuti dell'articolo 41, comma 1, della legge 449/1997– è quello di conseguire un recupero di efficienza nei tempi dei procedimenti amministrativi e, soprattutto, un risparmio della spesa pubblica per organi collegiali; obiettivo che è stato perseguito da successive previsioni normative e che anche oggi è di massima attualità.
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Le ricadute. Le implicazioni delle pronunce di Palazzo Spada. A rischio le sub-deleghe regionali.
La pronuncia 2013/2012 del Consiglio di Stato suscita un'altra riflessione di carattere generale, quella relativa al permanere della possibilità per le Regioni di sub-delegare ai Comuni funzioni in materia paesaggistica, dopo le modifiche introdotte nel 2001 al titolo V della Costituzione; dubbio che riguarda non solo le norme regionali, ma le stesse previsioni del Dlgs 42/2004 in tale materia.
La funzione autorizzatoria, con l'articolo 146 del Codice del 2004, è stata conferita dallo Stato alle Regioni, che possono delegarla ad altri soggetti, tra cui i Comuni, purché essi dispongano di strutture in grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche e possano garantire la differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia.
Tuttavia, in forza dell'articolo 118 della Costituzione, comma 2, i Comuni sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite loro con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze. La tutela dei beni culturali, tra cui rientrano quelli paesaggistici, è materia di legislazione esclusiva statale (ex articolo 117, comma 2, lettera s, della costituzione), per cui è solo la legge statale che può attribuire direttamente la funzione amministrativa.
Nel caso dell'articolo 146, la scelta del legislatore nazionale ha direttamente riguardato la sola amministrazione regionale e alle Regioni manca uno strumento costituzionalmente valido per delegare ai Comuni (o ad altri soggetti) le funzioni in materia paesaggistica: non con legge regionale, essendo del tutto priva di competenza legislativa in materia; non con atto provvedimentale (quale una delibera di giunta), poiché le funzioni amministrative possono essere assegnate ai Comuni solo con legge e solo da parte del soggetto che ne ha la corrispondente competenza, secondo il riparto per materie sancito dalla Costituzione. Tantomeno una legge regionale potrebbe legittimamente imporre a un Comune il modello organizzativo con cui esercitare una funzione, laddove questa fosse effettivamente delegabile, pena la violazione della richiamata potestà organizzatoria e regolamentare degli enti locali.
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Organizzazione. La riduzione dei rimborsi. Ai componenti compensi limitati.
La riduzione dei costi degli organismi collegiali è un obiettivo che il legislatore statale persegue ormai da anni e che è oggetto di particolare attenzione anche da parte del Governo Monti. Dopo le indicazioni della prima Bassanini (articolo 12, comma 1, lettera p), legge 59/1997) il primo intervento è l'articolo 41 della legge 449/1997, che ha sancito l'automatica soppressione degli organismi non individuati come indispensabili da parte degli organi di direzione politica delle varie amministrazioni. Previsione è stata poi ripresa dall'articolo 96 del Tuel. L'articolo 18 della finanziaria per il 2002 (448/2001) ha poi fatto divieto a tutte le pubbliche amministrazioni, con l'esclusione delle Regioni e degli enti locali, «di istituire comitati, commissioni, consigli e altri organismi collegiali, a eccezione di quelli di carattere tecnico e a elevata specializzazione».
Ulteriore intervento è contenuto nell'articolo 26 del Dl 223/2006, che ha disposto la riduzione del 30% rispetto, a quella sostenuta nel 2005, della spesa per organi collegiali e altri organismi, anche monocratici, comunque denominati, operanti in tutte le amministrazioni; riduzione che andava ad aggiungersi a quella del 10% già sancita dall'articolo 1, comma 58 della finanziaria per il 2005 (266/2005) per le «indennità, compensi, gettoni, retribuzioni o altre utilità comunque denominate».
Il programma è stato poi proseguito dall'articolo 68 del Dl 112/2008, che ha sancito la necessità che nei trattamenti economici da versare ai componenti di tali organi fossero «privilegiati i compensi collegati alla presenza rispetto a quelli forfettari od omnicomprensivi». Questo principio è stato reso cogente dall'articolo 6 del Dl 78/2010, che ha sancito la natura onorifica dei componenti degli organi collegiali, disponendo che la partecipazione può dar luogo solo al rimborso delle spese e che eventuali gettoni di presenza non possono superare i 30 euro per ogni seduta giornaliera. La presidenza del Consiglio, con direttiva del 04.08.2010, ha fornito indirizzi interpretativi sul riordino degli organismi collegiali e la riduzione dei costi degli apparati amministrativi.
Nella stessa direzione, peraltro, si muove l'articolo 9 del Dl 95/2012 (spending review) ove si prevede che anche i Comuni debbano sopprimere –o accorpare, riducendo i relativi oneri finanziari– gli enti, le agenzie e gli organismi comunque denominati e che svolgano compiti di amministrazione attiva (articolo Il Sole 24 Ore del 06.08.2012).

APPALTI FORNITURESpending review. Canale centrale «aperto» anche ai Comuni fino a mille abitanti (5mila in montagna).
Acquisti Consip per tutti. Esteso agli enti locali l'obbligo di ricorrere alle convenzioni.
ADEGUAMENTI «AUTOMATICI»/ Se le convenzioni offrono prezzi inferiori a quelli degli appalti già in corso si può recedere dai contratti con preavviso di 15 giorni.

Le disposizioni del Dl 95/2012 che attende ora il via libera definitivo della Camera rafforzano il sistema delle convenzioni Consip e obbligano anche gli enti locali a farvi ricorso per alcune tipologie di beni e servizi. Il quadro è stato ridefinito dall'articolo 1 nella formulazione scaturita dal maxiemendamento.
Il comma 3 evidenzia l'obbligatorietà del ricorso a questa procedura in forza di quanto stabilito dalla norma-chiave, individuata nell'articolo 26, comma 3, della legge 488/1999 e dall'articolo 1, comma 499, della legge 296/2006 (recentemente modificato dalla legge 94/2012).
Quest'ultima disposizione prevede l'obbligo di adesione alle convenzioni Consip per le amministrazioni statali (tranne scuole e università) e l'obbligo di utilizzo delle convenzioni stipulate dalle centrali regionali da parte del servizio sanitario nazionale.
La stessa norma delinea come facoltativo l'utilizzo del sistema da parte delle altre amministrazioni pubbliche (ad esempio gli enti locali e le Camere di commercio), stabilendo tuttavia che esse sono tenute a utilizzare i parametri di qualità e prezzo, sia delle convenzioni stipulate dalla centrale di committenza statale che da quelle regionali, come limiti massimi per la stipulazione dei contratti (quindi come dato massimo per le basi d'asta nelle gare e negli affidamenti in economia).
L'articolo 26 della legge 488/1999 prevede peraltro una specifica esclusione, evidenziando come il meccanismo previsto dal comma 3 non si applichi comunque ai Comuni con popolazione fino a mille abitanti (5mila abitanti in montagna). Rispetto alla fascia degli enti di minori dimensioni, comunque, l'articolo 1, comma 4, del Dl 95/2012 delinea in alternativa alle gare aggregate, previste dall'articolo 33 del codice dei contratti, il ricorso agli strumenti di acquisto in forma telematica gestiti da Consip e dalle centrali di committenza regionali.
Tuttavia il comma 7 dello stesso articolo 1 del decreto spending review sancisce un obbligo specifico per tutte le amministrazioni pubbliche e per tutte le società inserite nel «consolidato Istat», stabilendo che tali soggetti devono fare ricorso alle convenzioni Consip o a quelle delle centrali regionali per l'acquisto di una serie di beni e servizi a consumo intensivo: energia elettrica, gas, carburanti rete e carburanti extra-rete, combustibili per riscaldamento, telefonia fissa e telefonia mobile.
Il comma 13 prevede anche un interessante meccanismo, finalizzato ad assicurare vantaggi economici alle amministrazioni pubbliche, quando la Consip stipuli una convenzione per l'acquisto di determinate tipologie di beni o servizi e queste abbiano prezzi inferiori a quelli dei contratti di appalto che le stesse amministrazioni hanno in corso per i medesimi beni o servizi con altri operatori economici. In tal caso le stazioni appaltanti possono recedere dal contratto (pagando le prestazioni eseguite oltre al decimo delle prestazioni non eseguite) con un preavviso breve (quindici giorni) qualora l'appaltatore non accetti la proposta migliorativa formulata da Consip rispetto ai parametri della propria convenzione.
Questa modulazione del diritto di recesso si inserisce automaticamente nei contratti in corso ai sensi dell'articolo 1339 del Codice civile, anche in deroga alle eventuali clausole difformi apposte dalle parti. Inoltre, nei futuri contratti le clausole di recesso dovranno essere rese conformi, in quanto ogni patto contrario alla disposizione sarà nulla.
Un meccanismo particolare è reso regola generale dall'articolo 1, comma 16-bis, del Dl 95/2012, il quale integra l'articolo 26 della legge 488/1999 con una disposizione in base alla quale le convenzioni centralizzate possono essere stipulate con una o più imprese alle condizioni contrattuali migliorative rispetto a quelle proposte dal miglior offerente.
Tale disposizione costituisce il primo dato normativo in materia di contratti pubblici che consente l'affidamento multiplo a più operatori economici in base al risultato di una gara.
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Beni e servizi. Le clausole. Appalti divisi in più lotti per aprirsi alle Pmi
VINCOLI ALLE DEROGHE/ Per i requisiti di fatturato con valori significativi serve la motivazione economica e organizzativa nel bando o nel disciplinare.

Le gare di appalto per beni e servizi devono essere impostate in modo tale da garantire l'accesso al confronto anche alle Pmi, anche quando gestite in forma aggregata.
L'articolo 1 del Dl 95/2012 introduce ulteriori elementi di salvaguardia per le piccole e medie imprese, rafforzando il sistema impostato dalla legge 180/2011 e sancito nel Codice Appalti, con il principio della necessaria suddivisione in lotti degli appalti, salve valutazioni (esplicite) di convenienza economica (articolo 2, comma 1-bis).
La norma integra l'articolo 41 del DLgs 163/2006, specificando che sono illegittimi i criteri che fissano, senza congrua motivazione, limiti di accesso connessi al fatturato aziendale.
Nelle gare di appalto per l'acquisizione di beni e servizi, le stazioni appaltanti devono motivare nel bando o nel disciplinare le ragioni operative e di convenienza economica che hanno indotto a realizzare una procedura con lotto unico e i motivi che hanno determinato i requisiti di capacità economico-finanziaria fondati sul fatturato secondo valori significativi.
Particolare attenzione è posta anche all'ammontare della cauzione provvisoria e definitiva, che nelle gare in forma aggregata effettuate da centrali di committenza è prevista rispettivamente nei termini massimi del 2 e del 10 per cento. Questo dato sembra compensare le linee di massima razionalizzazione introdotte per gli acquisti di beni e servizi di valore inferiore alla soglia comunitaria dall'articolo 7 della legge 94/2012 (di conversione del primo decreto spending review, il 52/2012).
La norma, infatti, riformulando l'articolo 1, comma 450, della legge 296/2006 stabilisce che tutte le amministrazioni pubbliche (compresi gli enti locali, le Camere di commercio, le Asl, le aziende speciali) sono tenute ad acquistare beni e servizi in tale fascia di valore ricorrendo al mercato elettronico della pubblica amministrazione gestito da Consip o ad altri mercati elettronici, gestiti ad altre amministrazioni.
La disposizione vale peraltro per tutte le tipologie di beni e servizi per i quali sia presente un catalogo attivo, con fornitori abilitati, ma comporta la necessaria verifica da parte delle stazioni appaltanti, le quali, in caso di rinvenimento della tipologia di prodotto o di attività che devono acquisire, hanno l'obbligo di fare ricorso al Mepa.
Per i beni e servizi non rinvenibili nei mercati elettronici della Consip, delle centrali di committenza regionali o di altre amministrazioni, gli enti locali possono continuare ad acquisire con gare sottosoglia o con procedure in economia.
La disposizione, peraltro, costituisce uno stimolo per le singole amministrazioni a costituire un proprio Mepa, facendo riferimento all'articolo 328 del Dpr 207/2010, in modo tale da poter gestire con lo questo sistema sia tipologie di beni e servizi pienamente corrispondenti alle proprie esigenze sia interazioni di mercato più favorevoli rispetto a quelle nazionali o regionali (articolo Il Sole 24 Ore del 06.08.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPersonale. Sulle ferie monetizzazione con rischi. Dirigenti, incarichi solo con l'obiettivo.
Individuazione degli obiettivi già al conferimento dell'incarico dirigenziale. Divieto di conferimento di incarichi di consulenza ai dipendenti collocati in quiescenza nelle materie di cui si sono occupati nell'ultimo anno. Divieto di monetizzazione delle ferie non godute e, dal prossimo ottobre, fissazione del tetto massimo di 7 euro per i buoni pasto dei dipendenti pubblici.

Sono queste alcune importanti novità contenute nella legge di conversione del Dl 95/2012.
Gli obiettivi su cui i dirigenti sono valutati per il trattamento accessorio collegato alle performance devono essere «predeterminati all'atto del conferimento dell'incarico dirigenziale». Si estende così a tutti i dirigenti pubblici una previsione fino a oggi limitata allo Stato; gli obiettivi dovranno avere una durata per lo meno triennale, e saranno assegnati dal sindaco, che conferisce l'incarico. Negli enti locali questa norma andrà raccordata con il piano degli obiettivi annualmente approvato dalla Giunta; si può ritenere che la novità si applichi ai titolari di posizione organizzativa nei Comuni sprovvisti di dirigenti.
I dipendenti collocati in quiescenza non potranno ricevere incarichi di consulenza, studio e ricerca dalla propria amministrazione nelle materie di cui si sono occupati nell'ultimo anno. Tale vincolo si aggiunge a quello (legge 724/1994) che vieta l'uso da parte delle Pa dei dipendenti collocati in quiescenza per ragioni diverse dalla maturazione del limite massimo di età, nei 5 anni successivi. La nuova norma vale solo per l'amministrazione con cui si è avuto l'ultimo rapporto di lavoro e ha natura permanente.
I buoni pasto da ottobre dovranno rientrare entro il tetto di 7 euro. I risparmi saranno acquisiti al bilancio degli enti e non potranno incrementare il fondo per le risorse decentrate. I problemi con i fornitori sono stati risolti attraverso la garanzia, che si realizza con l'allungamento della durata del contratto, dell'invarianza del valore della fornitura.
Dallo scorso 7 luglio, è poi vietata la monetizzazione delle ferie non godute e viene ribadito il principio per cui esse devono essere godute come previsto dal Dlgs 66/2003 e, ove contengano norme più favorevoli per i dipendenti, dai contratti nazionali. Tali disposizioni si applicano al personale e ai dirigenti di tutte le Pa. La monetizzazione delle ferie non godute era fin qui consentita nel pubblico impiego solo al momento della cessazione del rapporto di lavoro. La concreta applicazione di questa disposizione, per la mancanza di norme transitorie, solleva numerosi problemi.
Peraltro, la disposizione induce ad una lettura assai rigida visto che la sua violazione determina per i dirigenti il maturare di responsabilità amministrativa e disciplinare ed obbliga le amministrazioni al recupero a carico dei dipendenti (articolo Il Sole 24 Ore del 06.08.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALIMini-comuni, commissario per chi non si associa.
La norme (art. 19) del dl 95 sulla gestione associata obbligatoria delle funzioni fondamentali da parte dei piccoli comuni subiscono una sola, ma assai rilevante modifica.
È stato previsto che gli enti che risulteranno inadempienti alle scadenze fissate dal legislatore (31.01.2013 per almeno 3 funzioni, 01.01.2014 per le altre) subiranno un «richiamo» da parte del prefetto, che fisserà loro un termine perentorio per provvedere.
Decorso inutilmente tale termine, scatterà il potere sostitutivo del governo ex art. 8 della l 131/2003, con possibilità anche di nomina di un commissario ad acta.
Si tratta di una modifica importante, che completa una disciplina che, malgrado le numerose modifiche, risultava ancora monca proprio sul versante «sanzionatorio». Per il resto, viene confermato il testo originario del decreto, che ridefinisce il «core business» dei comuni, obbligando quelli di minori dimensioni (fino a 5 mila abitanti, senza più rigide distinzioni fra quelli sopra e sotto i mille) a dare vita a unioni o convenzioni (articolo ItaliaOggi Sette del 06.08.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIAPubblicate in Guue le direttive su gestione dei rifiuti elettronici e controllo delle sostanze pericolose. Raee e Seveso III, al via i cantieri. È conto alla rovescia per adeguarsi ai nuovi adempimenti.
Scatta il conto alla rovescia per l'adeguamento nazionale alle nuove regole comunitarie sui rifiuti elettronici e sulle sostanze pericolose. Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea (Guue) dello scorso 24.07.2012 (n. L/197) delle due attese direttive «Raee» (2012/19/Ue) e «Seveso III» (2012/18/Ue) assumono date certe (rispettivamente: 14.02.2014 e 01.06.2015) i termini entro i quali gli stati dovranno far rispettare sul piano interno le nuove regole Ue su gestione dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche e controllo delle industrie a rischio di incidenti rilevanti. Le nuove scadenze si aggiungono alla già nota deadline del prossimo gennaio 2013, data a partire dalla quale la direttiva 2011/65/Ce imporrà una stretta sulla fabbricazione ecocompatibile delle apparecchiature elettriche ed elettroniche (cd. «Aee»).
La gestione dei Raee. Le novità in arrivo con la direttiva 2012/19/Ue sui rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee) riguardano sostanzialmente distributori di nuove apparecchiature e gestori a valle dei relativi rifiuti. Per i distributori di nuove apparecchiature Aee si profila l'estensione dell'obbligo del ritiro gratuito dei Raee conferiti dagli utenti finali.
Il ritiro sarà, infatti, obbligatorio per i negozi al dettaglio con superficie di vendita di Aee uguale o superiore ai 400 metri quadrati e avrà a oggetto i rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche provenienti da nuclei domestici di «piccolissime dimensioni» (inferiori a 25 centimetri esterni) e conferiti dagli utenti finali, senza obbligo per questi di acquistare all'atto del conferimento una Aee di tipo equivalente.
L'obbligo potrà essere evitato dai distributori solo ove sia pubblicamente dimostrato che i regimi di raccolta alternativa esistenti siano altrettanto efficaci. Sul fronte della gestione a valle dei Raee, ci sarà invece l'aumento delle percentuali di raccolta differenziata e di recupero che ogni stato dovrà assicurare sul suo territorio nazionale, percentuali che dagli attuali volumi del 70/80% dovranno salire (a pieno regime) fino all'85%.
Dal punto di vista tecnico, l'adeguamento alla nuova direttiva 2012/19/Ue, destinata a sostituire la 2002/96/Ce, renderà necessario da parte del legislatore l'aggiornamento entro il 2014 della disciplina prevista dall'attuale dlgs 151/2005.
Le parallele novità sugli Aee. Entro l'inizio del 2013, come accennato, dovrà inoltre essere messa a regime dallo stesso legislatore nazionale l'operatività della nuova disciplina Ue sulla fabbricazione delle Aee contenuta nella direttiva 2011/65/Ce (Guue dell'01.07.2011, n. L/174), direttiva che riformulando l'intera materia (con parallela rottamazione della direttiva 2002/96/Ce, recepita tramite il citato dlgs 151/2005) prevede un allargamento del divieto di commercializzazione delle apparecchiature contenenti sostanze pericolose insieme a una restrizione delle attuali deroghe e all'aumento degli obblighi per fabbricanti, importatori e distributori.
L'estensione del divieto poggerà in particolare sull'allargamento della definizione di «Aee», estesa a qualsiasi apparecchiatura che dipende da correnti elettriche o campi elettromagnetici per espletare «almeno una» delle funzioni previste e ai relativi «pezzi di ricambio». L'utilizzo in deroga di determinate sostanze sarà invece permesso solo in condizioni di compatibilità con il regolamento Ce n. 1907/2006 (cd. «regolamento Reach» su fabbricazione e commercializzazione delle sostanze chimiche).
La stretta sugli operatori arriverà infine con l'obbligo per i fabbricanti di corredare le Aee prodotte con documentazione tecnica, dichiarazione di conformità e identificazione seriale, con l'onere per gli importatori di integrare i prodotti con propri dati identificativi; con il dovere per i distributori di effettuare a valle un controllo sugli adempimenti di fabbricanti e importatori.
La «Seveso III». Al centro delle novità previste dalla direttiva 2012/18/Ue sul «controllo dei pericoli di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose» vi saranno l'allargamento del novero degli impianti rientranti nel campo di applicazione della disciplina «Seveso» e l'ampliamento degli adempimenti a carico dei relativi gestori.
In particolare, a provocare l'allargamento delle industrie rientranti nel sistema «Seveso» è l'inclusione di 14 nuove sostanze nell'elenco di quelle che fanno scattare gli obblighi previsti dalla disciplina. Ad ampliare, invece, gli obblighi a carico dei responsabili delle strutture è la maggiore analiticità richiesta dalla nuova direttiva alla documentazione comprovante l'avvenuta attività preventiva degli incidenti. Una stretta arriverà, infine, sui controlli esterni, con l'obbligo per le Autorità nazionali competenti di procedere a ispezioni semestrali negli stabilimenti a più elevato rischio.
L'adeguamento alla nuova direttiva 2012/18/Ue renderà necessaria la rivisitazione entro il 2015 dell'impianto normativo previsto dal dlgs 334/1999, provvedimento nazionale di recepimento dell'uscente direttiva 96/82/Ce (cd. «Seveso II») (articolo ItaliaOggi Sette del 06.08.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIAPneumatici usati, la Cassazione chiarisce il confine con i beni ordinari.
Solo gli pneumatici usati non giacenti in evidente stato di abbandono e obiettivamente riutilizzabili (sia «tal quali» che tramite ricostruzione) possono essere considerati ordinari beni. Tutti gli altri sono invece rifiuti, e come tali vanno gestiti.

A chiarire a gommisti, demolitori di veicoli e ricostruttori di pneumatici le due condizioni che consentono di operare senza sottostare alla gravosa disciplina sui rifiuti dettata dal Codice ambientale (dlgs 152/2006) sono due sentenze della Corte di cassazione dello scorso giugno. Con i due provvedimenti della III Sez. penale, rubricati come 25207/2012 e 25385/2012, la Corte ha armonizzato e sintetizzato i diversi principi espressi dalle pronunce di legittimità stratificatesi fino a oggi.
Pneumatici, tra rifiuti e beni. Due i dati normativi sui quali sono fondate le pronunce della Cassazione: la fondamentale definizione di «rifiuto», secondo l'articolo 183, comma 1, lettera a), del dlgs 152/2006 (in base alla quale è tale «qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi») e la voce «pneumatici fuori uso» contenuta sotto il codice «16.01.03» dell'allegato «D» dello stesso decreto (allegato recante l'elenco dei rifiuti di matrice comunitaria).
Sotto il primo profilo la Cassazione, abbracciando l'interpretazione estensiva della nozione di «rifiuto» adottata dalla Corte Ue di giustizia (fin dalla sentenza 15.06.2000 n. C-418/97), ritiene integrata la volontà del «disfarsi» ogni qualvolta le circostanze provino l'intenzione di abbandonare l'oggetto, che deve di conseguenza essere ritenuto un rifiuto con tutte le conseguenti responsabilità per il suo produttore o detentore. Sotto questo aspetto, ricorda la Corte, qualsiasi pneumatico può essere potenzialmente un rifiuto.
Sotto il secondo profilo, lo stesso giudice sottolinea invece come, anche in assenza di abbandono (fatto che di per se qualificherebbe a monte l'oggetto come rifiuto) gli «pneumatici fuori uso», ossia gli pneumatici che per condizioni di decadimento o per altre ragioni non risultano ricostruibili, sono comunque da considerarsi rifiuto quando appaiono nella disponibilità degli operatori in parola e devono dunque essere gestiti di conseguenza. Escono invece sicuramente dal novero dei rifiuti, precisano le due sentenze, gli «pneumatici usati», ossia quelli passibili di ricostruzione o riutilizzabili tal quali.
Il ragionamento della Cassazione è fondato sulla duplice classificazione degli pneumatici che si evince dall'attuale assetto normativo nazionale, assetto generato dalla legge 179/2002 che (in attuazione della decisione comunitaria 2000/532/Ce) ha provveduto a mutare il contenuto della voce «16.01.03» del Catalogo europeo dei rifiuti (attualmente riprodotto nel Codice ambientale) da «pneumatici usati» a «pneumatici fuori uso», sancendo di conseguenza una fuoriuscita dal novero dei rifiuti (sempre che non si versino in stato di abbandono) degli pneumatici ricostruibili.
Il tutto però, conclude la Corte, con l'onere della prova (della ricostruibilità) a carico dell'operatore che li detiene, e ciò per il fatto che trattasi di una disciplina (quella degli «pneumatici usati») eccezionale rispetto a quella ordinaria in tema di rifiuti (ossia di «pneumatici fuori uso»).
Gli obblighi degli operatori. La corretta condotta che la Cassazione suggerisce con le pronunce a gommisti e riparatori varia in funzione dello «status» dello pneumatico detenuto ed è sostanzialmente la seguente: nel caso in cui sia manifestamente evidente l'impossibilità di procedere a una ricostruzione dello pneumatico, il gommista ha l'onere di conferirlo come rifiuto (con codice «16.01.03: pneumatico fuori uso») a un operatore autorizzato, ponendo nelle more tutti gli accorgimenti stabiliti dal Codice ambientale in materia (limiti quantitativi e temporali del deposito temporaneo; tenuta dei registri e dei formulari per il tracciamento della loro gestione); nel caso in cui invece lo pneumatico appaia ricostruibile (sia dunque uno «pneumatico usato»), il gommista può conferirlo come merce ad un ricostruttore.
In quest'ultimo caso, sottolinea la Cassazione, il procedimento di ricostruzione va qualificato come una operazione di «trattamento di risanamento di un bene» e non come una operazione di recupero di rifiuto, per cui non soggiace agli adempimenti previsti dal Codice ambientale per quest'ultimo (articolo ItaliaOggi Sette del 06.08.2012).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAL'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è un atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare.
Il gravame r.g. 1282/2001 è inammissibile per mancata impugnazione dell’atto di annullamento della concessione edilizia, il quale si pone come “fonte” dell’abusività delle opere e come presupposto unico e diretto dell’ordine di demolizione.
Quest’ultimo peraltro, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è un atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare (cfr. Consiglio di Stato, sez. V – 11/01/2011 n. 79): dunque in linea generale l’abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente per l'adozione della misura repressiva in argomento (cfr. TAR Umbria – 07/12/2010 n. 522) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 10.08.2012 n. 1447 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAlle nuove edificazioni e agli altri interventi –comunque soggetti a titolo abilitativo– corrisponde il pagamento di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione, nonché al costo di costruzione. La natura giuridica del predetto contributo è quella di prestazione patrimoniale imposta, anche indipendentemente dall’utilità specifica del singolo concessionario, comunque tenuto a concorrere alla spesa pubblica per le infrastrutture che debbono accompagnare ogni nuovo insediamento edificatorio.
Il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae.
Dalla natura di prestazione obbligatoriamente dovuta discende che il privato non può esimersi dal pagamento del contributo, e che l’amministrazione può riesaminare la pratica anche dopo il rilascio del titolo che abilita l’intervento edilizio: le vicende che coinvolgono il permesso di costruire si sviluppano in autonomia, senza interferire con le questioni che incidono su “an” e “quantum” dell’obbligazione pecuniaria. Per tale ragione l’amministrazione ha legittimamente fatto ricorso “ex post” al potere di autotutela, pochi mesi dopo l’emissione del titolo autorizzatorio e con largo anticipo rispetto al compimento del termine prescrizionale (di 10 anni).

Sia nell’attuale normativa che in quella pregressa (art. 16 del D.P.R. 380/2001 e artt. 3, 5, 6 della L. 10/1977) alle nuove edificazioni e agli altri interventi –comunque soggetti a titolo abilitativo– corrisponde il pagamento di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione, nonché al costo di costruzione. La natura giuridica del predetto contributo è quella di prestazione patrimoniale imposta, anche indipendentemente dall’utilità specifica del singolo concessionario, comunque tenuto a concorrere alla spesa pubblica per le infrastrutture che debbono accompagnare ogni nuovo insediamento edificatorio (Consiglio di Stato, sez. VI – 25/08/2009 n. 5059).
Il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae (cfr. per tutti TAR Puglia Bari, sez. III – 10/02/2011 n. 243).
Dalla natura di prestazione obbligatoriamente dovuta discende che il privato non può esimersi dal pagamento del contributo, e che l’amministrazione può riesaminare la pratica anche dopo il rilascio del titolo che abilita l’intervento edilizio: le vicende che coinvolgono il permesso di costruire si sviluppano in autonomia, senza interferire con le questioni che incidono su “an” e “quantum” dell’obbligazione pecuniaria. Per tale ragione l’amministrazione ha legittimamente fatto ricorso “ex post” al potere di autotutela, pochi mesi dopo l’emissione del titolo autorizzatorio e con largo anticipo rispetto al compimento del termine prescrizionale (di 10 anni) (TAR Marche – 31/01/2007 n. 8) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 10.08.2012 n. 1446 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 9 della L. 10/1977 rubricato “Cessione gratuita” statuisce al comma 1 che il contributo di cui al precedente articolo 3 non è dovuto tra l’altro “per gli interventi di restauro, di risanamento conservativo, di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20 per cento, di edifici unifamiliari” (lett. d).
Come appare evidente, l'esenzione dal pagamento dei contributi di cui si discute ha la funzione di agevolare i proprietari di alloggi unifamiliari, presumendo il legislatore che gli interventi sugli stessi non abbiano carattere di lucro, ma la sola funzione di migliorare le condizioni di abitabilità degli edifici medesimi, indipendentemente dalla loro dimensione.
La disposizione è diretta dunque a promuovere le opere di adeguamento dei manufatti alle necessità abitative del singolo nucleo familiare, circoscrivendone l’operatività agli interventi che non mutino sostanzialmente l’entità strutturale e la dimensione spaziale dell’immobile e non ne elevino (in modo apprezzabile) il valore economico.
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L’esenzione dal contributo di costruzione per il caso di interventi di ristrutturazione di edifici unifamiliari entro il limite di ampliamento del 20%, costituisce oggetto di una previsione di carattere eccezionale (applicabile in un ambito di stretta interpretazione ancorato ai parametri predefiniti dal legislatore): la ratio è di natura sociale ed è diretta sostanzialmente ad apprestare uno strumento di tutela e di salvaguardia alla piccola proprietà immobiliare per gli interventi funzionali all’adeguamento dell’immobile alle necessità abitative del nucleo familiare.
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Per edifici "unifamiliari" in mancanza di ulteriori specificazioni, sono da intendere quelli strutturalmente destinati all'uso "abitativo" di un "solo" nucleo familiare, indipendentemente dalle dimensioni dell’edificio stesso.

Con il motivo principale i ricorrenti si dolgono della violazione dell’art. 9, lett. f), della L. 10/1977, che esonera dal versamento del contributo gli interventi di ristrutturazione ed ampliamento degli edifici unifamiliari nella misura del 20%; a loro avviso infatti:
• la norma invocata, nell’indicare la percentuale di ampliamento, non fa riferimento né al volume né alle superfici;
• la relazione tecnica dell’Arch. Comencini dà conto dell’incremento volumetrico di 151,01 mc., inferiore al 20% dell’esistente;
• anche se si utilizza come parametro la superficie utile di calpestio ex art. 2 del DM 801/1977 l’intervento provoca un ampliamento del 19,1%;
• è stato inopinatamente creato un nuovo criterio ibrido che non trova alcun supporto normativo, facendosi riferimento alla superficie dei vani principali (con esclusione degli accessori) esistenti e di risultanza;
• non si registra alcuna variazione di destinazione d’uso all’interno di una stessa categoria.
La doglianza è priva di pregio.
L’art. 9 della L. 10/1977 rubricato “Cessione gratuita” statuisce al comma 1 che il contributo di cui al precedente articolo 3 non è dovuto tra l’altro “per gli interventi di restauro, di risanamento conservativo, di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20 per cento, di edifici unifamiliari” (lett. d). Come appare evidente, l'esenzione dal pagamento dei contributi di cui si discute ha la funzione di agevolare i proprietari di alloggi unifamiliari, presumendo il legislatore che gli interventi sugli stessi non abbiano carattere di lucro, ma la sola funzione di migliorare le condizioni di abitabilità degli edifici medesimi, indipendentemente dalla loro dimensione (Consiglio di Stato, sez. IV – 11/10/2006 n. 6065). La disposizione è diretta dunque a promuovere le opere di adeguamento dei manufatti alle necessità abitative del singolo nucleo familiare, circoscrivendone l’operatività agli interventi che non mutino sostanzialmente l’entità strutturale e la dimensione spaziale dell’immobile e non ne elevino (in modo apprezzabile) il valore economico.
In linea generale, come già accennato al par. 1.2, la partecipazione del privato al costo delle opere di urbanizzazione è dovuta allorquando l’intervento determini un incremento del peso insediativo con un’oggettiva rivalutazione dell’immobile, sicché l'onerosità del permesso di costruire è funzionale a sopportare il carico socio economico che la realizzazione comporta sotto il profilo urbanistico. Alla luce di tale considerazione la giurisprudenza (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VIII – 09/05/2012 n. 2136) ha statuito che l’esenzione dal contributo di costruzione per il caso di interventi di ristrutturazione di edifici unifamiliari entro il limite di ampliamento del 20%, costituisce oggetto di una previsione di carattere eccezionale (applicabile in un ambito di stretta interpretazione ancorato ai parametri predefiniti dal legislatore): la ratio è di natura sociale ed è diretta sostanzialmente ad apprestare uno strumento di tutela e di salvaguardia alla piccola proprietà immobiliare per gli interventi funzionali all’adeguamento dell’immobile alle necessità abitative del nucleo familiare.
I delineati presupposti non risultano sussistere nella fattispecie all’esame del Collegio. Dal raffronto tra stato di fatto e di progetto (cfr. doc. 6 Comune) emerge come la porzione di fabbricato effettivamente abitata sia interessata da un significativo incremento di volume (da 468,60 mc. a 747,90) e di superficie (da 111,69 mq. a 206,87), con l’intera soffitta che viene recuperata in piano abitabile con accesso autonomo dotato di 4 locali (2 camere da letto, 1 bagno e 1 guardaroba). Non è condivisibile l’impostazione dei ricorrenti laddove (per dimostrare la conformità al parametro normativo) prendono in esame il volume e la superficie dell’intero edificio, poiché lo spirito della norma (già descritto) è quello di incentivare i modesti interventi posti in essere dai nuclei unifamiliari: il carattere “unifamiliare” deve essere quindi mantenuto dopo l’ampliamento/ristrutturazione, mentre nella fattispecie è stata creata (come si evince anche dalla previsione di un accesso ad hoc) un’ulteriore autonoma unità abitativa, con conseguente mutamento della realtà strutturale e della fruibilità urbanistica dell’organismo edilizio oggetto di trasformazione.
In definitiva la disposizione invocata opera soltanto per gli edifici "unifamiliari" e, in mancanza di ulteriori specificazioni, tali sono quelli strutturalmente destinati all'uso "abitativo" di un "solo" nucleo familiare, indipendentemente dalle dimensioni dell’edificio stesso (TAR Marche – 31/01/2007 n. 8) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 10.08.2012 n. 1446 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa verifica di anomalia dell’offerta costituisce un sub-procedimento formalmente distinto (ancorché collegato) rispetto al procedimento di evidenza pubblica di individuazione della proposta migliore, e si esprime in un’indagine di contenuto tecnico-economico secondo una precisa ratio di fondo che è quella di evitare l’aggiudicazione a prezzi tali da non garantire la qualità del lavoro, fornitura o servizio oggetto di affidamento.
Il giudizio di verifica della congruità di un’offerta anomala ha natura globale e sintetica sulla serietà o meno dell’offerta nel suo insieme e costituisce espressione di un potere tecnico-discrezionale dell’amministrazione di per sé insindacabile in sede di legittimità, salva l’ipotesi in cui le valutazioni siano manifestamente illogiche o fondate su insufficiente motivazione o affette da errori di fatto.
Al contempo occorre rilevare che la verifica di anomalia non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando, invece, ad accertare se l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile o inattendibile, e dunque se dia o meno serio affidamento circa la corretta esecuzione dell’appalto.

Osserva preliminarmente il Collegio che la verifica di anomalia dell’offerta costituisce un sub-procedimento formalmente distinto (ancorché collegato) rispetto al procedimento di evidenza pubblica di individuazione della proposta migliore, e si esprime in un’indagine di contenuto tecnico-economico secondo una precisa ratio di fondo che è quella di evitare l’aggiudicazione a prezzi tali da non garantire la qualità del lavoro, fornitura o servizio oggetto di affidamento.
La giurisprudenza prevalente ha ripetutamente osservato che il giudizio di verifica della congruità di un’offerta anomala ha natura globale e sintetica sulla serietà o meno dell’offerta nel suo insieme (Consiglio di Stato, sez. V – 08/09/2010 n. 6495) e costituisce espressione di un potere tecnico-discrezionale dell’amministrazione di per sé insindacabile in sede di legittimità, salva l’ipotesi in cui le valutazioni siano manifestamente illogiche o fondate su insufficiente motivazione o affette da errori di fatto (TAR Lazio Roma, sez. I-ter – 14/10/2011 n. 7957; Consiglio di Stato, sez. V – 11/03/2010 n. 1414; sez. IV – 20/5/2008 n. 2348).
Al contempo occorre rilevare che la verifica di anomalia non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando, invece, ad accertare se l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile o inattendibile, e dunque se dia o meno serio affidamento circa la corretta esecuzione dell’appalto (Consiglio di Stato, sez. VI – 21/05/2009 n. 3146; sentenza Sezione 08/02/2012 n. 195)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 10.08.2012 n. 1445 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIAnche le offerte che si discostano dalle tabelle sul costo del lavoro non sono “ex se” anomale: il parametro certo cui riferire la valutazione di attendibilità non autorizza l’esclusione automatica delle offerte che racchiudono valori inferiori a quelli minimi, ove siano salvaguardate le retribuzioni dei lavoratori, per cui un costo del servizio che si discosti dalle tabelle non è di per sé incongruo.
I dati risultanti dalle tabelle costituiscono in altri termini indici non assoluti ed inderogabili, ma suscettibili di scostamento in relazione a valutazioni statistiche ed analisi aziendali svolte dall’offerente che –evidenziando una particolare organizzazione imprenditoriale– rimettono alla stazione appaltante ogni valutazione tecnico-discrezionale di congruità.
Conseguentemente è da reputarsi ammissibile l’offerta che si discosti dai dati numerici delle tabelle, purché il divario non sia eccessivo e vengano salvaguardate le retribuzioni dei lavoratori, così come stabilito in sede di contrattazione collettiva.

La giurisprudenza ha ritenuto che anche le offerte che si discostano dalle tabelle sul costo del lavoro non sono “ex se” anomale: il parametro certo cui riferire la valutazione di attendibilità non autorizza l’esclusione automatica delle offerte che racchiudono valori inferiori a quelli minimi, ove siano salvaguardate le retribuzioni dei lavoratori, per cui un costo del servizio che si discosti dalle tabelle non è di per sé incongruo (TAR Sicilia Catania, sez. III – 01/03/2011 n. 524).
I dati risultanti dalle tabelle costituiscono in altri termini indici non assoluti ed inderogabili, ma suscettibili di scostamento in relazione a valutazioni statistiche ed analisi aziendali svolte dall’offerente che –evidenziando una particolare organizzazione imprenditoriale– rimettono alla stazione appaltante ogni valutazione tecnico-discrezionale di congruità (TAR Campania Napoli, sez. VIII – 02/07/2010 n. 16568). Conseguentemente è da reputarsi ammissibile l’offerta che si discosti dai dati numerici delle tabelle, purché il divario non sia eccessivo e vengano salvaguardate le retribuzioni dei lavoratori, così come stabilito in sede di contrattazione collettiva
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 10.08.2012 n. 1445 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa sanzione pecuniaria prevista dall’art. 10, comma 1, della legge 47/1985 (il doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile conseguente alla realizzazione delle opere abusive) si deve intendere nel senso che la base di calcolo è costituita dall’incremento di valore acquisito dall’immobile per effetto delle innovazioni introdotte.
Quando la modifica consiste nell’adattamento dei locali a una nuova destinazione d’uso l’incremento è dato dalla differenza tra il valore della nuova utilizzazione e quello dell’uso precedente. Poiché si guarda al risultato e non ai mezzi, non ha particolare rilievo il costo dei materiali impiegati.
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In materia edilizia vi sono abusi maggiori (v. art. 31-32-33 del DPR 380/2001) e abusi minori (v. art. 37 del DPR 380/2001), e all’interno di ciascuna categoria si possono individuare abusi sostanziali, così definiti perché normalmente non sanabili con il rilascio successivo del titolo edilizio, e abusi formali, che sono tali in quanto ammettono il rilascio di un titolo edilizio a posteriori.
Gli abusi maggiori (ad esempio, una nuova costruzione senza titolo edilizio) possono essere sanati se esiste la conformità urbanistica (v. art. 36 del DPR 380/2001), gli abusi minori seguono la stessa regola (v. art. 37, comma 4, del DPR 380/2001) ma possono, a certe condizioni, essere sanati anche se non vi è la conformità urbanistica. In quest’ultima ipotesi la somma di denaro pagata non è soltanto una sanzione per la mancata tempestiva richiesta del titolo edilizio ma costituisce principalmente il corrispettivo (o, dal punto di vista dell’amministrazione, il risarcimento) per il fatto che sono mantenuti fermi i risultati dell’intervento edilizio nonostante il contrasto con la disciplina urbanistica;
Per questa ragione la sanatoria degli abusi minori privi di conformità urbanistica è correlata all’aumento del valore venale dell’immobile (v. art. 37, comma 1, del DPR 380/2001, art. 53, comma 2, della LR 12/2005). Quando sussiste la conformità urbanistica la sanzione è invece calcolata in altro modo (v. art. 37, comma 4, del DPR 380/2001).
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Con riferimento al cambio di destinazione d’uso occorre fare un’ulteriore precisazione. Questa fattispecie è inserita da tempo tra gli interventi edilizi minori sottoposti a DIA (v. art. 4, commi 7 e 13, del DL 05.10.1993 n. 398), ma se il cambio implica un incremento dello standard urbanistico si realizza una variazione essenziale da inquadrare tra gli abusi maggiori (v. art. 8, comma 1-a, della legge 47/1985, art. 32, comma 1-a, del DPR 380/2001, art. 54, comma 1-a, della LR 12/2005). Dunque esiste una graduazione all’interno di questa tipologia di abuso che, in mancanza di conformità urbanistica, può condurre all’applicazione di tre diverse discipline sanzionatorie:
(1) abuso maggiore con obbligo di remissione in pristino nel caso di insufficienza dello standard urbanistico;
(2) abuso minore con obbligo di pagamento di una somma pari al doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile se sono state effettuate opere edilizie (v. art. 37, comma 1, del DPR 380/2001);
(3) abuso minore con obbligo di pagamento di una somma pari all'aumento del valore venale dell'immobile se non sono state realizzate opere edilizie (v. art. 53, comma 2, della LR 12/2005).

... per l'annullamento del provvedimento del dirigente dell’Area Servizi al Territorio prot. n. 5904 del 12.03.2001, con il quale, in relazione al cambio di destinazione d’uso dell’immobile situato in via Malogno (mappale n. 31), è stata inflitta una sanzione pecuniaria pari a € 79.017,91 ai sensi dell’art. 3 comma 2 della LR 15.01.2001 n. 1; ...
...
Sulle questioni proposte dalle parti si possono svolgere le seguenti considerazioni:
(a) in primo luogo, non sembra che la ricorrente abbia un particolare interesse ad affermare l’inapplicabilità della LR 1/2001. All’epoca del cambio di destinazione d’uso non esisteva una disciplina regionale specifica per questo tipo di infrazioni, e pertanto doveva essere applicato, in quanto norma generale sugli abusi edilizi minori, l’art. 10, comma 1, della legge 47/1985 (v. ora l’art. 37, comma 1, del DPR 06.06.2001 n. 380). Tale norma, letta in collegamento con l’art. 26 della legge 47/1985, è riferibile anche ai lavori di adattamento interni comportanti modiche alla destinazione d’uso, come nel caso in esame;
(b) la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 10, comma 1, della legge 47/1985 (il doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile conseguente alla realizzazione delle opere abusive) si deve intendere nel senso che la base di calcolo è costituita dall’incremento di valore acquisito dall’immobile per effetto delle innovazioni introdotte. Quando la modifica consiste nell’adattamento dei locali a una nuova destinazione d’uso l’incremento è dato dalla differenza tra il valore della nuova utilizzazione e quello dell’uso precedente. Poiché si guarda al risultato e non ai mezzi, non ha particolare rilievo il costo dei materiali impiegati;
(c) dunque la sanzione dell’art. 10, comma 1, della legge 47/1985 è confrontabile con quella dell’art. 3, comma 2, della LR 1/2001 (v. ora l’art. 53, comma 2, della LR 11.03.2005 n. 12), e dal confronto si desume che la ricorrente trae un vantaggio dall’applicazione di quest’ultima, in quanto l’onere economico è dimezzato;
(d) in proposito si osserva che questo risultato (ossia una sanzione pari all'aumento del valore venale e non al doppio di tale aumento) è stato raggiunto perché il Comune ha ritenuto che la modifica della destinazione d’uso sia stata conseguita senza opere edilizie (appunto la fattispecie che l’art. 3, comma 2, della LR 1/2001 ha staccato dalla previsione generale dell’art. 10, comma 1, della legge 47/1985). Se invece il Comune avesse qualificato come opere edilizie i lavori eseguiti dalla ricorrente si sarebbe applicata la sanzione corrispondente alla tipologia delle innovazioni in concreto poste in essere (v. art. 3, comma 1, della LR 1/2001, art. 53, comma 1, della LR 12/2005), ossia nel caso specifico proprio la sanzione ex art. 10, comma 1, della legge 47/1985;
(e) cadono quindi le censure della ricorrente contro il presunto fraintendimento degli interventi eseguiti al primo piano dell’edificio in questione. In realtà il Comune ha giudicato irrilevanti le partizioni in cartongesso e si è (correttamente) concentrato sul cambio di destinazione d’uso. Della presenza di un cambio di destinazione d’uso non si può dubitare se si mettono a confronto da un lato la zonizzazione e il certificato di agibilità (incentrati sull’uso industriale-artigianale) e dall’altro l’attività svolta in concreto (poliambulatorio);
(f) non possono essere condivise neppure le censure che tendono a porre in risalto il comportamento contraddittorio degli uffici comunali. Una certa mancanza di coordinamento è evidente, perché quando il Comune ha imposto la sanzione pecuniaria per il cambio di destinazione d’uso stava già riscuotendo da oltre due anni l’imposta sulla pubblicità relativa all’attività di poliambulatorio e di fisioterapia. Tuttavia non esiste alcuna contraddizione tra questi provvedimenti: la sanzione pecuniaria è infatti il prezzo che il privato è tenuto a pagare per consolidare un cambio di destinazione d’uso senza opere in contrasto con le norme urbanistiche, precisamente la fattispecie disciplinata dall’art. 3, comma 2, della LR 1/2001;
(g) per chiarire meglio questo punto occorre posizionare la vicenda in questione nel quadro generale: in materia edilizia vi sono abusi maggiori (v. art. 31-32-33 del DPR 380/2001) e abusi minori (v. art. 37 del DPR 380/2001), e all’interno di ciascuna categoria si possono individuare abusi sostanziali, così definiti perché normalmente non sanabili con il rilascio successivo del titolo edilizio, e abusi formali, che sono tali in quanto ammettono il rilascio di un titolo edilizio a posteriori.
Gli abusi maggiori (ad esempio, una nuova costruzione senza titolo edilizio) possono essere sanati se esiste la conformità urbanistica (v. art. 36 del DPR 380/2001), gli abusi minori seguono la stessa regola (v. art. 37, comma 4, del DPR 380/2001) ma possono, a certe condizioni, essere sanati anche se non vi è la conformità urbanistica. In quest’ultima ipotesi la somma di denaro pagata non è soltanto una sanzione per la mancata tempestiva richiesta del titolo edilizio ma costituisce principalmente il corrispettivo (o, dal punto di vista dell’amministrazione, il risarcimento) per il fatto che sono mantenuti fermi i risultati dell’intervento edilizio nonostante il contrasto con la disciplina urbanistica;
(h) per questa ragione la sanatoria degli abusi minori privi di conformità urbanistica è correlata all’aumento del valore venale dell’immobile (v. art. 37, comma 1, del DPR 380/2001, art. 53, comma 2, della LR 12/2005). Quando sussiste la conformità urbanistica la sanzione è invece calcolata in altro modo (v. art. 37, comma 4, del DPR 380/2001);
(i) con riferimento al cambio di destinazione d’uso occorre fare un’ulteriore precisazione. Questa fattispecie è inserita da tempo tra gli interventi edilizi minori sottoposti a DIA (v. art. 4, commi 7 e 13, del DL 05.10.1993 n. 398), ma se il cambio implica un incremento dello standard urbanistico si realizza una variazione essenziale da inquadrare tra gli abusi maggiori (v. art. 8, comma 1-a, della legge 47/1985, art. 32, comma 1-a, del DPR 380/2001, art. 54, comma 1-a, della LR 12/2005). Dunque esiste una graduazione all’interno di questa tipologia di abuso che, in mancanza di conformità urbanistica, può condurre all’applicazione di tre diverse discipline sanzionatorie:
   (1) abuso maggiore con obbligo di remissione in pristino nel caso di insufficienza dello standard urbanistico;
   (2) abuso minore con obbligo di pagamento di una somma pari al doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile se sono state effettuate opere edilizie (v. art. 37, comma 1, del DPR 380/2001);
   (3) abuso minore con obbligo di pagamento di una somma pari all'aumento del valore venale dell'immobile se non sono state realizzate opere edilizie (v. art. 53, comma 2, della LR 12/2005);
(j) il Comune ha deciso di collocare il comportamento della ricorrente nella terza categoria, nonostante le osservazioni contenute nella relazione del 14.04.2000 sulla diversa quantificazione delle aree a standard per gli insediamenti produttivi e per quelli direzionali;
(k) questa decisione è in effetti più vantaggiosa per la ricorrente, in quanto permette di conservare la nuova destinazione d’uso pagando una sanzione pecuniaria (e, tra le sanzioni ipotizzabili, quella minore), ma è irragionevole e sproporzionata nella parte in cui non consente alla ricorrente di liberarsi dalla sanzione rinunciando al cambio di destinazione d’uso.
Il Comune avrebbe invece dovuto porre alla ricorrente un’alternativa: pagare la somma richiesta e proseguire nell’utilizzazione dell’immobile come poliambulatorio (eventualmente adeguando le aree a standard, ma su questo i provvedimenti impugnati non si soffermano) oppure rimettere in pristino i locali abbandonando ogni utilizzazione diversa da quella industriale-artigianale.
Non spetta infatti all’amministrazione la scelta sul modo migliore di soddisfare l’interesse dei privati quando vi sono due opzioni ugualmente idonee a tutelare l’interesse pubblico (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 09.08.2012 n. 1443 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia che ha ad oggetto la progressione economica dei dipendenti, in applicazione delle disposizioni al riguardo contenute nei contratti collettivi di lavoro di settore, implicando il semplice passaggio di livello economico, senza variazione di area o di categoria ossia senza novazione oggettiva del rapporto di lavoro.
- Visto il disposto di cui all’art. 63, cc. 1 e 4, d.lgs. 165/2011 ai sensi del quale: “1. Sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, ad eccezione di quelle relative ai rapporti di lavoro di cui al comma 4, … 4. Restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni. …”;
- Visto il costante orientamento della giurisprudenza civile e amministrativa secondo cui, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia che ha ad oggetto la progressione economica dei dipendenti, in applicazione delle disposizioni al riguardo contenute nei contratti collettivi di lavoro di settore, implicando il semplice passaggio di livello economico, senza variazione di area o di categoria ossia senza novazione oggettiva del rapporto di lavoro (cfr., ex multis, Cass. s.u., 09.01.2007, n. 220; 20.05.2005, n. 10605; Cons. Stato, IV Sez., 15.12.2009, n. 7993; Tar Torino–Piemonte, sez. II, 16.03.2009, n. 770; Tar Lazio-Roma, sez. III, 15.01.2010, n. 278; Tar Lazio-Roma, sez. II, 06.05.2009, n. 4733; Tar Liguria, sez. II, 17.03.2006, n. 239; Tar Umbria 17.03.2005, n. 94) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 02.08.2012 n. 1754 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANel caso delle istanze dolosamente infedeli (v. art. 40, c. 1, l. n. 47/1985) non opera il meccanismo del silenzio-assenso e tale deve considerarsi quella in cui viene indicata una data di commissione dell’abuso anteriore a quella effettiva (a sua volta successiva al termine ultimo previsto dalla legge per la sanabilità dell’abuso).
D’altra parte, la prova della data della realizzazione delle opere abusive grava su colui che richiede la sanatoria, che può avvalersi, solo se non c’è contestazione, della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, ma a fronte di elementi di prova a disposizione dell’Amministrazione che attestino il contrario, quali il rilievo aerofotogrammetrico, il responsabile dell'abuso è gravato dall'onere di provare, attraverso elementi certi, quali fotografie aeree, fatture, sopralluoghi e così via, l'effettiva realizzazione dei lavori entro il termine previsto dalla legge per poter usufruire del beneficio, non potendo limitarsi a contestare i dati in possesso dell'Amministrazione senza fornire alcun elemento di prova a corredo della propria tesi.
Pertanto, l'Amministrazione, in assenza di elementi di prova contrari, non può che respingere la domanda di sanatoria.

Invero, nel caso delle istanze dolosamente infedeli (v. art. 40, c. 1, l. n. 47/1985) non opera il meccanismo del silenzio-assenso e tale deve considerarsi quella in cui viene indicata una data di commissione dell’abuso anteriore a quella effettiva (a sua volta successiva al termine ultimo previsto dalla legge per la sanabilità dell’abuso).
D’altra parte, la prova della data della realizzazione delle opere abusive grava su colui che richiede la sanatoria, che può avvalersi, solo se non c’è contestazione, della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, ma a fronte di elementi di prova a disposizione dell’Amministrazione che attestino il contrario, quali il rilievo aerofotogrammetrico, il responsabile dell'abuso è gravato dall'onere di provare, attraverso elementi certi, quali fotografie aeree, fatture, sopralluoghi e così via, l'effettiva realizzazione dei lavori entro il termine previsto dalla legge per poter usufruire del beneficio, non potendo limitarsi a contestare i dati in possesso dell'Amministrazione senza fornire alcun elemento di prova a corredo della propria tesi.
Pertanto, l'Amministrazione, in assenza di elementi di prova contrari, non può che respingere la domanda di sanatoria (v. Tar Lazio, sez. II, 06.12.2010, n. 354040) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 02.08.2012 n. 1749 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTII) Anche per le gare d’appalto indette in epoca anteriore all’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, il termine per l’impugnazione dell’aggiudicazione definitiva da parte dei concorrenti non aggiudicatari inizia a decorrere dal momento in cui essi hanno ricevuto la comunicazione di cui all’art. 79, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 163 del 2006, e non dal momento, eventualmente successivo, in cui la stazione appaltante abbia concluso con esito positivo la verifica del possesso dei requisiti di gara in capo all’aggiudicatario, ai sensi dell’art. 11, comma 8, dello stesso decreto.
II) I principi di pubblicità e trasparenza che governano la disciplina comunitaria e nazionale in materia di appalti pubblici comportano che, qualora all’aggiudicazione debba procedersi col criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, l’apertura delle buste contenenti le offerte e la verifica dei documenti in esse contenuti vadano effettuate in seduta pubblica anche laddove si tratti di procedure negoziate, con o senza previa predisposizione di bando di gara, e di affidamenti in economia nella forma del cottimo fiduciario, in relazione sia ai settori ordinari che ai settori speciali di rilevanza comunitaria.

In conclusione, l’adunanza plenaria ritiene di dover enunciare i seguenti principi di diritto:
I) Anche per le gare d’appalto indette in epoca anteriore all’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, il termine per l’impugnazione dell’aggiudicazione definitiva da parte dei concorrenti non aggiudicatari inizia a decorrere dal momento in cui essi hanno ricevuto la comunicazione di cui all’art. 79, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 163 del 2006, e non dal momento, eventualmente successivo, in cui la stazione appaltante abbia concluso con esito positivo la verifica del possesso dei requisiti di gara in capo all’aggiudicatario, ai sensi dell’art. 11, comma 8, dello stesso decreto.
II) I principi di pubblicità e trasparenza che governano la disciplina comunitaria e nazionale in materia di appalti pubblici comportano che, qualora all’aggiudicazione debba procedersi col criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, l’apertura delle buste contenenti le offerte e la verifica dei documenti in esse contenuti vadano effettuate in seduta pubblica anche laddove si tratti di procedure negoziate, con o senza previa predisposizione di bando di gara, e di affidamenti in economia nella forma del cottimo fiduciario, in relazione sia ai settori ordinari che ai settori speciali di rilevanza comunitaria (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 31.07.2012 n. 31 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini del rilascio della concessione edilizia è necessaria una relazione qualificata a contenuto reale dell'istante con il bene, e cioè la qualità di proprietario, superficiario, affittuario di fondi rustici, usufruttuario dello stesso, anche se in formazione, non essendo sufficiente il solo rapporto obbligatorio, in quanto il diritto a costruire è una proiezione del diritto di proprietà o di altro diritto reale di godimento che autorizzi a disporre un intervento costruttivo.
All'usufruttuario è comunque riconosciuta la legittimazione al rilascio del permesso di costruire dal momento che l'art. 11, d.P.R. n. 380 del 2001 individua tra i soggetti legittimati oltre al proprietario anche coloro che “abbiano titolo per richiederlo”, sicché non vi è dubbio che tra gli aventi titolo rientri anche l'usufruttuario del bene, che, quale titolare di un diritto reale di godimento, gode di una relazione qualificata con il bene medesimo.

Tali considerazioni vanno coniugate con le affermazioni che la costante giurisprudenza amministrativa ha reso in passato, in punto di legittimazione a richiedere la concessione edilizia, ad avversare quella rilasciata ad altro soggetto, e di individuazione del momento di percezione della lesione che coincide con il dies a quo per la proposizione del ricorso.
Quanto ai primi due profili, si è detto, in passato muovendo dal tenore letterale dell’art. 11 del dPR n. 380/2001 che:
- ”ai fini del rilascio della concessione edilizia è necessaria una relazione qualificata a contenuto reale dell'istante con il bene, e cioè la qualità di proprietario, superficiario, affittuario di fondi rustici, usufruttuario dello stesso, anche se in formazione, non essendo sufficiente il solo rapporto obbligatorio, in quanto il diritto a costruire è una proiezione del diritto di proprietà o di altro diritto reale di godimento che autorizzi a disporre un intervento costruttivo” -Consiglio Stato, sez. IV, 08.06.2007, n. 3027-;”
- all'usufruttuario è comunque riconosciuta la legittimazione al rilascio del permesso di costruire dal momento che l'art. 11, d.P.R. n. 380 del 2001 individua tra i soggetti legittimati oltre al proprietario anche coloro che “abbiano titolo per richiederlo”, sicché non vi è dubbio che tra gli aventi titolo rientri anche l'usufruttuario del bene, che, quale titolare di un diritto reale di godimento, gode di una relazione qualificata con il bene medesimo -TAR Campania Napoli, sez. VIII, 07.03.2011, n. 1318-
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.07.2012 n. 4287 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANel ricorso proposto avverso il permesso di costruire rilasciato al vicino la vicinitas è condizione necessaria, ma non sufficiente a radicare, ferma la legittimazione, l'interesse al ricorso, il quale richiede anche la dimostrazione del pregiudizio concreto alle facoltà dominicali del ricorrente.
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La decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi dell'edificazione si ha, per i soggetti diversi da quelli cui l'atto è rilasciato (ovvero che in esso sono comunque indicati) dalla data in cui si renda palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita protetto, la qual cosa si verifica quando sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica. In materia di impugnazione del permesso di costruire, è sufficiente la cd. "vicinitas", quale elemento che distingue la posizione giuridica del ricorrente da quella della generalità dei consociati, di talché è corretto riconoscere a chi si trovi in tale situazione un interesse tutelato a che il provvedimento dell'Amministrazione sia procedimentalmente e sostanzialmente ossequioso delle norme vigenti in materia.

Costituisce altresì principio fondante in materia quello per cui “nel ricorso proposto avverso il permesso di costruire rilasciato al vicino la vicinitas è condizione necessaria, ma non sufficiente a radicare, ferma la legittimazione, l'interesse al ricorso, il quale richiede anche la dimostrazione del pregiudizio concreto alle facoltà dominicali del ricorrente” (Consiglio Stato, sez. IV, 24.01.2011, n. 485).
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Osserva il Collegio che consolidata e condivisibile giurisprudenza ha con continuità affermato che “la decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi dell'edificazione si ha, per i soggetti diversi da quelli cui l'atto è rilasciato (ovvero che in esso sono comunque indicati) dalla data in cui si renda palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita protetto, la qual cosa si verifica quando sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica. In materia di impugnazione del permesso di costruire, è sufficiente la cd. "vicinitas", quale elemento che distingue la posizione giuridica del ricorrente da quella della generalità dei consociati, di talché è corretto riconoscere a chi si trovi in tale situazione un interesse tutelato a che il provvedimento dell'Amministrazione sia procedimentalmente e sostanzialmente ossequioso delle norme vigenti in materia" (Consiglio Stato, sez. IV, 05.01.2011, n. 18) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.07.2012 n. 4287 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINella gara per l’affidamento di contratti pubblici l’interesse fatto valere dal ricorrente che impugna la sua esclusione è volto a concorrere per l’aggiudicazione nella stessa gara; pertanto, anche nel caso dell’offerta economicamente più vantaggiosa, in presenza del giudicato di annullamento dell’esclusione stessa sopravvenuto alla formazione della graduatoria, il rinnovo degli atti deve consistere nella sola valutazione dell’offerta illegittimamente pretermessa, da effettuarsi ad opera della medesima commissione preposta alla procedura.
In conclusione, in base alle esposte considerazioni, l’adunanza plenaria afferma il seguente principio di diritto: “Nella gara per l’affidamento di contratti pubblici l’interesse fatto valere dal ricorrente che impugna la sua esclusione è volto a concorrere per l’aggiudicazione nella stessa gara; pertanto, anche nel caso dell’offerta economicamente più vantaggiosa, in presenza del giudicato di annullamento dell’esclusione stessa sopravvenuto alla formazione della graduatoria, il rinnovo degli atti deve consistere nella sola valutazione dell’offerta illegittimamente pretermessa, da effettuarsi ad opera della medesima commissione preposta alla procedura” (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 26.07.2012 n. 30 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opere edilizie autorizzate, l'uso diverso legittima la demolizione.
E' legittima l'ordinanza di demolizione di opere la cui destinazione, sebbene cristallizzata nel provvedimento abilitativo, è mutata nel corso del tempo a cagione di un diverso utilizzo da parte degli interessati.

Il deducente, proprietario di due posti auto ubicati nel piano interrato di un immobile situato nel centro cittadino, ha gravato l’ordinanza con cui il Comune aveva ingiunto, ai sensi dell’art. 9, comma 1, della L.R. (Emilia Romagna) n. 23/2004, la demolizione di alcuni interventi realizzati per la chiusura dei “…box auto destinati al solo utilizzo privato …”, nonché il ripristino della destinazione degli stessi a “… spazi per sosta e parcheggi pubblici in interrato”.
In particolare, ha contestato l’erroneità del presupposto secondo cui tutti i posti auto di quell’edificio avrebbero costituito, sebbene privati, parcheggi funzionali alle attività terziarie e direzionali insediate negli edifici del comparto realizzato con precedente piano particolareggiato e che, quindi, avrebbero rappresentato “spazi per sosta e parcheggi pubblici in interrato”, ovvero spazi destinati a operare come strutture aperte non suddivise in box.
Invero, ha addotto che la concessione edilizia rilasciata riguardava l’esecuzione di lavori di “interrato sottopiazza a uso parcheggi di pertinenza” e che le convenzioni urbanistiche a suo tempo stipulate tra il Comune e il soggetto attuatore del piano particolareggiato non contemplavano il diritto di uso pubblico dei posti-auto.
Il Collegio di Bologna ha dichiarato l’infondatezza del gravame.
In argomento ha dapprima rammentato che, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, la destinazione d’uso di un immobile non si identifica con l’impiego che in concreto ne fa il soggetto che lo utilizza, ma con la destinazione impressa dal titolo abilitativo, e ciò in quanto: “… la nozione di <<uso>> urbanisticamente rilevante è ancorata alla tipologia strutturale dell’immobile – quale individuata nel titolo edilizio – senza che essa possa essere influenzata da utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori” (ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 09.02.2001, n. 583; TAR Liguria, Sez. I, 25.01.2005, n. 85; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 07.05.1992, n. 219).
D’altra parte, ha osservato come il menzionato principio sia stato codificato anche nella legislazione della regione Emilia Romagna, laddove, all’art. 26, comma 3, L.R. n. 31/2002, è previsto che: “… la destinazione d’uso in atto dell’immobile o dell’unità immobiliare è quella stabilita dal titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o l’ultimo intervento e recupero o, in assenza o indeterminatezza del titolo, dalla classificazione catastale attribuita in sede di primo accatastamento ovvero da altri documenti probanti”.
Sicché, con riferimento alla vicenda, il giudicante ha sottolineato che, al momento di richiesta del rilascio della concessione edilizia per i lavori di «interrato sottopiazza ad uso parcheggi di pertinenza», l’amministrazione comunale aveva istruito la pratica e acquisito l’avviso positivo del Settore gestione controlli trasformazioni urbanistiche, nonché il parere favorevole della Commissione edilizia.
Tali atti istruttori avevano evidentemente rappresentato gli elementi costitutivi della volontà della civica P.A. di assentire i predetti interventi, con la conseguenza che mediante il rilascio del relativo titolo abilitativo si fosse inteso destinare quei posti-auto al soddisfacimento delle necessità di parcheggio degli utenti della attività direzionali insediate nel comparto, indipendentemente dall’uso che poi in concreto fosse stato fatto da parte degli interessati.
Pertanto, la circostanza per cui, a distanza di un considerevole arco di tempo, le caratteristiche strutturali di quelle aree erano state modificate in termini tali (trasformazione in veri e propri “box auto” chiusi) da renderle oggettivamente inidonee all’uso a suo tempo autorizzato, a opinione dell’adito Tribunale aveva giustificato l’intervento repressivo dell’amministrazione ex art. 9, comma 1, L.R. n. 23/2004; quest’ultima diposizione, non a caso, prevede espressamente che: ”… lo Sportello unico per l’edilizia, quando accerti l’inizio o l’esecuzione di opere, realizzate senza titolo o in difformità dallo stesso, su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti, a vincolo di inedificabilità o destinate a opere e spazi pubblici … ordina l’immediata sospensione dei lavori e ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso di provvedere entro novanta giorni alla demolizione delle opere e al ripristino dello stato dei luoghi …”.
Né a differenti conclusioni s’è giunti con riferimento alla doglianza formulata dall’interessato secondo cui l’omessa trascrizione del vincolo (pubblico) nei registri immobiliari avrebbe determinato l’inopponibilità dello stesso ai terzi acquirenti del bene.
In realtà il Collegio ha precisato che, essendo il vincolo di destinazione d’uso il risultato dell’efficacia costitutiva del rilascio della concessione edilizia, le limitazioni connesse a tale destinazione si sarebbero risolte in una qualità obiettiva del suolo che, proprio perché formata da un provvedimento amministrativo, sarebbe stata opponibile anche ai terzi acquirenti, fatti salvi i rimedi giurisdizionali e amministrativi azionabili nei confronti del titolo abilitativo eventualmente illegittimo.
D’altro canto, ha rilevato che la tutela dei terzi sarebbe stata comunque assicurata con la pacifica accessibilità agli atti urbanistico/edilizi del Comune e con la conseguente possibilità di conoscenza della destinazione d’uso impressa a ogni singolo immobile oggetto di interesse dei consociati, secondo modalità che garantiscono un’adeguata pubblicità e quindi una sufficiente circolazione delle informazioni.
In virtù di quanto illustrato, il G.A. di Bologna ha respinto il ricorso, contestualmente dichiarando la legittimità della gravata ordinanza di demolizione (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 24.07.2012 n. 520 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa tutela urbanistica e quella paesaggistica sono autonome ed hanno pari dignità, il che sta a significare che in un’area paesaggisticamente vincolata l’assegnazione di una certa volumetria nello strumento di piano da parte dell’ente locale è solo condizione necessaria, ma non sufficiente, perché possano poi essere rilasciati i titoli abilitativi per costruirla.
In un’area paesaggisticamente vincolata l’assegnazione di una certa volumetria nello strumento di piano da parte dell’ente locale non dà alcuna garanzia in ordine alla futura edificazione, perché l’esercizio della funzione di tutela paesaggistica può rivedere completamente le volumetrie assegnate in sede urbanistica ed arrivare anche a negare del tutto di edificare anche un solo metro cubo, perché nelle valutazioni di pertinenza dell’autorità preposta alla tutela del paesaggio deve essere obbligatoriamente presa in considerazione anche la stessa possibilità di cui dispone l’autorità preposta alla tutela urbanistica, e cioè la opzione zero, cioè la possibilità di non realizzare nulla.
Se così non fosse, non vi sarebbe quell’autonomia tra tutela urbanistica e tutela paesaggistica su cui è fondato il nostro sistema giuridico, e la tutela paesaggistica verrebbe ad essere meramente sussidiaria a quella urbanistica.
E ciò sarebbe addirittura contraddittorio, considerato che in realtà è solo la tutela paesaggistica a godere di copertura costituzionale, attraverso il richiamo dell’art. 9 Cost., ed essa finirebbe invece con l’essere subordinata alle valutazioni urbanistiche che non godono della stessa copertura.
D’altronde, la tutela paesaggistica è stata introdotta proprio perché la tutela urbanistica si rivela da sola inadeguata ad assicurare nelle aree protette quel principio di protezione sostenibile di cui ha parlato Cons. Stato, sez. VI, 16.11.2004, n. 7472, secondo cui “il problema del punto di equilibrio tra realizzazione di infrastrutture e tutela dell'ambiente e del paesaggio e, dunque, del concreto atteggiarsi del principio dello sviluppo sostenibile (ora codificato dall'art. 3-quater, d.lgs. 152/2006), meglio si chiarisce anche in relazione alla valutazione dell'utilizzazione economica delle aree protette; per cui non dovrebbe parlarsi di sviluppo sostenibile ossia di sfruttamento economico dell'ecosistema compatibile con esigenza di protezione, ma, con prospettiva rovesciata, di protezione sostenibile, intendendosi con tale terminologia evocare i vantaggi economici che la protezione in sé assicura senza compromissione di equilibri economici essenziali per la collettività. Si deve ammettere l'alterazione dei valori ambientali solo in quanto non vi siano alternative possibili”.

Con ricorso principale la ricorrente impugna il provvedimento del 21.11.011 con cui la Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Brescia ha espresso parere negativo all’intervento edilizio di realizzazione di un nuovo residence, ed il consequenziale provvedimento del 21.11.2011 della Comunità montana Alto Garda.
...
Nel secondo motivo si sostiene che il provvedimento sarebbe illegittimo per violazione dell’art. 146 d.lgs. 42/2004, perché la Soprintendenza avrebbe travalicato le proprie competenze istituzionali sulla tutela paesaggistica negando del tutto la possibilità edificatoria all’area in esame, potere che esulerebbe dall’impianto del codice dei beni culturali ed ambientali.
Anche questo motivo è infondato.
A prescindere dal contenuto in concreto del provvedimento (che non nega affatto del tutto le potenzialità edificatorie, limitandosi a conformarle), non può essere proprio accettata l’impostazione su cui è basato questo motivo di ricorso.
In esso il ricorrente scrive che il corretto esercizio del potere di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica deve partire dal presupposto della edificabilità dei suoli, dato di fatto immutabile dal Ministero, e che i parametri di costruzione dovrebbero essere ricavati soltanto dagli strumenti urbanistici decisi dagli enti locali, mentre il compito della Soprintendenza sarebbe solo la verifica delle modalità costruttive scelte.
Questa costruzione non è giuridicamente accettabile. Essa, infatti, svilisce il ruolo della tutela paesaggistica, trasformandola in un mero potere di dettaglio rispetto alla disciplina urbanistica, che rimarrebbe unica e sola a dettare la disciplina di principio.
Mutatis mutandis, si trasformerebbe, infatti, il rapporto tra tutela urbanistica e tutela paesaggistica in qualcosa di simile al rapporto che esiste negli ambiti di legislazione concorrente tra disciplina di principio dettata dallo Stato e disciplina di dettaglio dettata dalle Regioni. Secondo l’impostazione del ricorrente, infatti, alla tutela urbanistica dovrebbe essere riservato il potere di dettare la disciplina di principio degli interventi edilizi (volumetrie, altezze, distanze tra i fabbricati), mentre alla tutela paesaggistica resterebbe soltanto il potere di muoversi in questa cornice (dettando forma degli edifici, colori, tipologie di mitigazione degli interventi), talché se l’ente locale ha deciso una certa volumetria la Soprintendenza non potrebbe impedire di realizzarla perché ormai questa volumetria è data.
In realtà, non è questo il rapporto tra tutela urbanistica e tutela paesaggistica nel nostro ordinamento. La tutela urbanistica e quella paesaggistica, infatti, sono autonome ed hanno pari dignità, il che sta a significare che in un’area paesaggisticamente vincolata l’assegnazione di una certa volumetria nello strumento di piano da parte dell’ente locale è solo condizione necessaria, ma non sufficiente, perché possano poi essere rilasciati i titoli abilitativi per costruirla.
In un’area paesaggisticamente vincolata l’assegnazione di una certa volumetria nello strumento di piano da parte dell’ente locale non dà alcuna garanzia in ordine alla futura edificazione, perché l’esercizio della funzione di tutela paesaggistica può rivedere completamente le volumetrie assegnate in sede urbanistica ed arrivare anche a negare del tutto di edificare anche un solo metro cubo, perché nelle valutazioni di pertinenza dell’autorità preposta alla tutela del paesaggio deve essere obbligatoriamente presa in considerazione anche la stessa possibilità di cui dispone l’autorità preposta alla tutela urbanistica, e cioè la opzione zero, cioè la possibilità di non realizzare nulla (sull’opzione zero, v. Consiglio Stato, sez. IV, 05.07.2010, n. 4246).
Se così non fosse, non vi sarebbe quell’autonomia tra tutela urbanistica e tutela paesaggistica su cui è fondato il nostro sistema giuridico, e la tutela paesaggistica verrebbe ad essere meramente sussidiaria a quella urbanistica.
E ciò sarebbe addirittura contraddittorio, considerato che in realtà è solo la tutela paesaggistica a godere di copertura costituzionale, attraverso il richiamo dell’art. 9 Cost., ed essa finirebbe invece con l’essere subordinata alle valutazioni urbanistiche che non godono della stessa copertura.
D’altronde, la tutela paesaggistica è stata introdotta proprio perché la tutela urbanistica si rivela da sola inadeguata ad assicurare nelle aree protette quel principio di protezione sostenibile di cui ha parlato Cons. Stato, sez. VI, 16.11.2004, n. 7472, secondo cui “il problema del punto di equilibrio tra realizzazione di infrastrutture e tutela dell'ambiente e del paesaggio e, dunque, del concreto atteggiarsi del principio dello sviluppo sostenibile (ora codificato dall'art. 3-quater, d.lgs. 152/2006), meglio si chiarisce anche in relazione alla valutazione dell'utilizzazione economica delle aree protette; per cui non dovrebbe parlarsi di sviluppo sostenibile ossia di sfruttamento economico dell'ecosistema compatibile con esigenza di protezione, ma, con prospettiva rovesciata, di protezione sostenibile, intendendosi con tale terminologia evocare i vantaggi economici che la protezione in sé assicura senza compromissione di equilibri economici essenziali per la collettività. Si deve ammettere l'alterazione dei valori ambientali solo in quanto non vi siano alternative possibili” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 13.07.2012 n. 1341 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALISussiste il carattere eccezionale della legittimazione ad agire dei consiglieri contro gli atti del Consiglio, legittimazione circoscritta ai casi di effettiva lesione, in via diretta ed immediata, dei diritti del singolo consigliere, dovendosi in ogni caso escludere che qualsiasi vizio formale o sostanziale di una deliberazione consiliare consenta l’impugnazione ai consiglieri dissenzienti.
Non ritiene il Collegio che nel caso di specie si configuri una concreta ed effettiva lesione delle prerogative (c.d. “munus”), dei consiglieri di minoranza, tenuto anche conto del carattere eccezionale della legittimazione ad agire dei consiglieri contro gli atti del Consiglio, legittimazione circoscritta ai casi di effettiva lesione, in via diretta ed immediata, dei diritti del singolo consigliere, dovendosi in ogni caso escludere che qualsiasi vizio formale o sostanziale di una deliberazione consiliare consenta l’impugnazione ai consiglieri dissenzienti (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 29.04.2010, n. 2457 e TAR Piemonte, sez. I, 12.08.2009, n. 2231) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.07.2012 n. 1954 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATALa nozione di "bosco" deve essere riferita non soltanto ai terreni completamente coperti da boschi o foreste di alto fusto, ma anche (per identità di ratio) a tutte le aree parzialmente boscate, a condizione che siano concretamente inserite in un contesto con la preponderanza di vegetazione, anche di tipo arbustivo. Pertanto, a prescindere dalla presenza o meno di alberi di alto fusto, non vi sono dubbi sulla sussistenza di un vincolo boschivo anche qualora l'area fosse coperta solo da vegetazione qualificabile come "macchia".
Il motivo non merita accoglimento, essendo fondato sull’errato presupposto che la nozione, in questa sede rilevante, di “bosco”, debba tenere in considerazione i confini di proprietà dei singoli mappali.
Il tenore letterale dell’art. 42, c. 3, L.R. n. 31/2008 è invece inequivoco sul punto, affermandosi che “i confini amministrativi, i confini di proprietà o catastali, le classificazioni urbanistiche e catastali, la viabilità agro-silvo-pastorale e i corsi d'acqua minori non influiscono sulla determinazione dell'estensione e delle dimensioni minime delle superfici considerate bosco”.
Parimenti, in giurisprudenza si è affermato che la nozione di "bosco" deve essere riferita non soltanto ai terreni completamente coperti da boschi o foreste di alto fusto, ma anche (per identità di ratio) a tutte le aree parzialmente boscate, a condizione che siano concretamente inserite in un contesto con la preponderanza di vegetazione, anche di tipo arbustivo. Pertanto, a prescindere dalla presenza o meno di alberi di alto fusto, non vi sono dubbi sulla sussistenza di un vincolo boschivo anche qualora l'area fosse coperta solo da vegetazione qualificabile come "macchia" (C.S. Sez. IV 10.10.2011 n. 5500).
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Il corretto esercizio dei poteri comunali in materia urbanistica ed edilizia presuppone, in taluni casi, l’intervento di altre autorità pubbliche preposte alla tutela di altri valori costituzionalmente protetti, come accade nella materia di che trattasi, in cui gli interessi pubblici tutelati dalla legislazione in materia di boschi e da quella urbanistica, sono nettamente distinti ed autonomi rispetto a quelli privatistici, assentiti nei provvedimenti comunali (TAR Puglia, Lecce, Sez. III 08.04.2005 n. 1981) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 11.07.2012 n. 1941 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: L’individuazione e la localizzazione di un’opera pubblica costituiscono manifestazione di ampia discrezionalità amministrativa, censurabile solo in caso di manifesta illogicità o irrazionalità, senza contare che costituisce “opera pubblica” quella la cui destinazione è conforme alle finalità di tutela degli interessi collettivi, propria dell’ente pubblico; inoltre la nozione di “opera pubblica” tende ormai ad allargarsi per arrivare a comprendere anche ogni <<intervento del pubblico potere diretto ad ottenere, nell'interesse della collettività, una modificazione durevole del mondo fisico>>.
La giurisprudenza amministrativa ammette del resto che l’individuazione e la localizzazione di un’opera pubblica costituiscono manifestazione di ampia discrezionalità amministrativa, censurabile solo in caso di manifesta illogicità o irrazionalità (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 09.12.2011, n. 6468; sez. V, 25.07.2011, n. 4454 e TAR Friuli Venezia Giulia, 10.08.2011, n. 365), senza contare che costituisce “opera pubblica” quella la cui destinazione è conforme alle finalità di tutela degli interessi collettivi, propria dell’ente pubblico (cfr. TAR Campania, Salerno, sez. I, 05.10.2011, n. 1608); inoltre la nozione di “opera pubblica” tende ormai ad allargarsi per arrivare a comprendere anche ogni <<intervento del pubblico potere diretto ad ottenere, nell'interesse della collettività, una modificazione durevole del mondo fisico>> (così Consiglio di Stato, sez. II, 12.11.2008, n. 3303) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.07.2012 n. 1896 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - EDILIZIA PRIVATATrattandosi di provvedimento intervenuto prima del mese di gennaio del 1998, la competenza all'emanazione di sanzioni demolitorie deve reputarsi appartenente al Sindaco e non all'organo dirigenziale.
Soltanto con l'art. 2, l. 16.06.1998 n. 191 si è avuta l'estensione della responsabilità gestionale anche in capo ai responsabili dei servizi (non dirigenti) nominati dal sindaco, nonché l'attribuzione in capo ai medesimi (ed alla stessa dirigenza) della competenza specifica ad adottare i provvedimenti di sospensione dei lavori, abbattimento e riduzione in pristino di competenza comunale, nonché i poteri di vigilanza edilizia e di irrogazione delle sanzioni amministrative previsti dalla vigente legislazione statale e regionale in materia di prevenzione e repressione dell'abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale; è pertanto viziata da incompetenza l'ordinanza di demolizione emessa dal responsabile del servizio urbanistica prima dell'entrata in vigore della l. n. 191, citata, e ciò anche ove tale potere fosse contemplato dal regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi del comune, non potendo detta fonte secondaria ritenersi idonea ad innovare il regime delle competenze ancor prima che fosse modificato l'art. 6, l. 15.05.1997 n. 127 ad opera dell'art. 2 comma 13, l. n. 191, citato.
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I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi e l'ordine di demolizione sono atti a contenuto vincolato, tali da non richiedere alcun avviso di inizio del procedimento.
L'ordine di demolizione è atto dal contenuto dovuto, che non richiede previo avviso di inizio del procedimento, né motivazione che ecceda la descrizione dell'abuso.

Il Collegio rileva, in conformità all'indirizzo giurisprudenziale consolidato, che, nel caso di specie, trattandosi di provvedimento intervenuto prima del mese di gennaio del 1998, la competenza all'emanazione di sanzioni demolitorie deve reputarsi appartenente al Sindaco e non all'organo dirigenziale ("Sotto la vigenza degli art. 51 l. 08.06.1990 n. 142, e 6 l. 15.05.1997 n. 127, legittimamente il provvedimento che dispone la demolizione d'ufficio di un manufatto abusivo è adottato dal sindaco e non dal dirigente, essendo stata la detta competenza trasferita ai dirigenti solo ai sensi dell'art. 2, comma 12, l. 16.06.1998 n. 191" cfr., ex plurimis, TAR Napoli Campania sez. VI, 30.04.2008, n. 3072, TAR Lazio Latina, 24.08.1998 , n. 664).
Del resto, soltanto con l'art. 2, l. 16.06.1998 n. 191 si è avuta l'estensione della responsabilità gestionale anche in capo ai responsabili dei servizi (non dirigenti) nominati dal sindaco, nonché l'attribuzione in capo ai medesimi (ed alla stessa dirigenza) della competenza specifica ad adottare i provvedimenti di sospensione dei lavori, abbattimento e riduzione in pristino di competenza comunale, nonché i poteri di vigilanza edilizia e di irrogazione delle sanzioni amministrative previsti dalla vigente legislazione statale e regionale in materia di prevenzione e repressione dell'abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale; è pertanto viziata da incompetenza l'ordinanza di demolizione emessa dal responsabile del servizio urbanistica prima dell'entrata in vigore della l. n. 191, citata, e ciò anche ove tale potere fosse contemplato dal regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi del comune, non potendo detta fonte secondaria ritenersi idonea ad innovare il regime delle competenze ancor prima che fosse modificato l'art. 6, l. 15.05.1997 n. 127 ad opera dell'art. 2 comma 13, l. n. 191, citato (cfr., TAR Latina Lazio sez. I, 05.06.2007, n. 412).
Ne deriva, pertanto, che il provvedimento impugnato è stato legittimamente adottato dal Sindaco del Comune di Robbiate.
In relazione alle altre doglianze dedotte dal ricorrente e, in particolare, al mancato invio da parte del Comune dell’avviso di avvio del procedimento, il Collegio ritiene di aderire all’orientamento consolidato della giurisprudenza amministrativa, secondo cui i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi e, nel caso di specie, l'ordine di demolizione sono atti a contenuto vincolato, tali da non richiedere alcun avviso di inizio del procedimento (cfr., TAR Roma Lazio sez. I, 10.04.2012, n. 3264).
L'ordine di demolizione è atto dal contenuto dovuto, che non richiede previo avviso di inizio del procedimento, né motivazione che ecceda la descrizione dell'abuso (da ultimo, TAR Roma Lazio sez. I, 10.04.2012, n. 3265 e Cons. Stato, sez. IV, n. 4764 del 2011)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 03.07.2012 n. 1885 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa costruzione, l'allargamento o la modificazione di una strada, anche laddove questi interventi vengano realizzati su una precedente pista o strada, richiedono il permesso di costruire, consistendo in una trasformazione edilizia del territorio.
La realizzazione di strutture in muratura, anche parzialmente fuori terra con copertura, per il suo carattere di stabilità e permanenza costituisce una vera e propria "costruzione" in senso tecnico del termine e deve essere ricondotto alla categoria degli "interventi di nuova costruzione", ai sensi dell'art. 3 lett. e), t.u. 21.06.2001 n. 38.

Il Collegio ritiene che la costruzione, l'allargamento o la modificazione di una strada, anche laddove questi interventi vengano realizzati su una precedente pista o strada, richiedono il permesso di costruire, consistendo in una trasformazione edilizia del territorio (cfr., Cassazione penale sez. III, 26.01.2011, n. 19568).
L’amministrazione ha, altresì, dimostrato che il ricorrente ha realizzato opere in muratura e n. 3 scale, meglio descritte nell’informativa di reato del 12.04.1997, corredando l’accertamento effettuato dai tecnici comunali di chiari rilievi fotografici.
Sul punto, la giurisprudenza, cui questo Collegio intende dare continuità, ha precisato che la realizzazione di strutture in muratura, anche parzialmente fuori terra con copertura, per il suo carattere di stabilità e permanenza costituisce una vera e propria "costruzione" in senso tecnico del termine e deve essere ricondotto alla categoria degli "interventi di nuova costruzione", ai sensi dell'art. 3 lett. e), t.u. 21.06.2001 n. 38 (cfr., Consiglio di Stato sez. IV, 16.04.2012, n. 2185)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 03.07.2012 n. 1885 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICIAnche in seguito all’entrata in vigore dell’art. 22-bis, d.P.R. 08.06.2001 n. 327 l’ordinanza di occupazione d’urgenza riguarda una fase puramente attuativa di quella riguardante la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dei lavori, con la conseguenza che è sufficiente la motivazione dell’ordinanza di occupazione che si limiti a richiamare espressamente tale dichiarazione, costituente l’unico presupposto della stessa, e che consenta di rilevare l’urgenza della realizzazione delle opere previste nella dichiarazione di pubblica utilità.
A sua volta, la dichiarazione di pubblica utilità, conseguendo ex lege alla approvazione del progetto definitivo (cfr. art. 12 DPR n. 327/2001), non abbisogna di una particolare motivazione.

In prima battuta, occorre ribadire l’orientamento giurisprudenziale, alla cui stregua, anche in seguito all’entrata in vigore dell’art. 22-bis, d.P.R. 08.06.2001 n. 327 l’ordinanza di occupazione d’urgenza riguarda una fase puramente attuativa di quella riguardante la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dei lavori, con la conseguenza che è sufficiente la motivazione dell’ordinanza di occupazione che si limiti a richiamare espressamente tale dichiarazione, costituente l’unico presupposto della stessa, e che consenta di rilevare l’urgenza della realizzazione delle opere previste nella dichiarazione di pubblica utilità (Consiglio di Stato, sez. IV, 09.12.2011 n. 6468; TAR Ancona Marche sez. I, 28.10.2011 n. 807; Consiglio di Stato sez. IV 07.09.2011 n. 5029; Consiglio di Stato, sez. VI, 12.01.2011 n. 114).
A sua volta, la dichiarazione di pubblica utilità, conseguendo ex lege alla approvazione del progetto definitivo (cfr. art. 12 DPR n. 327/2001), non abbisogna di una particolare motivazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 02.07.2012 n. 1874 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARIRosso al semaforo, telefonino out. Il conducente rischierebbe di rallentare le reazioni di guida. Una sentenza del tribunale di Torino interpreta in modo rigoroso il Codice della strada.
Il divieto per l'automobilista di utilizzare il telefonino sussiste anche quando è fermo con semaforo rosso.
Lo ha affermato il TRIBUNALE di Torino, Sez. III, con la sentenza 07.06.2012 n. 3904.
Il Tribunale piemontese ha esordito evidenziando che l'art. 173 del Codice della strada («È vietato al conducente di far uso durante la marcia di apparecchi radiotelefonici ovvero di usare cuffie sonore_») è una delle specificazioni dell'art. 140 del medesimo Codice («Gli utenti della strada devono comportarsi in modo da non costituire pericolo o intralcio per la circolazione ed in modo che sia in ogni caso salvaguardata la sicurezza stradale») la cui ratio è quella di prevenire comportamenti tali da determinare in generale la distrazione dalla guida ed in particolare l'impegno delle mani del guidatore in operazioni diverse da quelle strettamente inerenti alla guida stessa.
«L'impegno di una delle mani sul telefonino», prosegue la sentenza, «a prescindere dalla maggiore o minor durata della conversazione, incide sulla sicurezza nella circolazione del veicolo, implicando comunque un disturbo e una maggiore e minore deviazione della concentrazione alla guida del conducente –non importa se più o meno lunga– e comunque potendo implicare una situazione di possibile pericolo, ad esempio un ritardo nell'azionare i sistemi di guida al momento in cui scatta il verde laddove la conduzione del veicolo richiede tempi psicotecnici di reazione immediati; il divieto di utilizzo di cellulari durante la marcia e il concetto di marcia vanno intesi alla luce di tale ratio della norma».
«Si pensi appunto», ha aggiunto la sentenza, «alle possibili conseguenze nel ritardo della partenza laddove scatti il verde semaforico e il veicolo rimanga ancora in posizione arresto e/o non riprenda tempestivamente la marcia, con accentuazione del pericolo di impatto/collisione o urto con veicolo sopravveniente».
«Il veicolo al semaforo», ha concluso il Tribunale, «non è né fermo né in sosta e quindi in una situazione di momentaneo arresto che alla luce della sopra evidenziata ratio della norma rientra però sempre nel concetto di marcia, tenuto conto che l'arresto dura un tempo solitamente breve e il tempo necessario per lo scattare del verde non giustifica una operazione del tutto improvvida e inopportuna e pericolosa quale il rispondere per dire che si è alla guida o per dire altro; il conducente ha la piena possibilità di fermarsi in luogo apposito e consentito alla prima occasione utile e richiamare senza rispondere mentre attende che scatti il verde» (articolo ItaliaOggi del 10.08.2012).

PUBBLICO IMPIEGO: La cancellatura sul compito non comporta annullamento.
Non sono segni di riconoscimento che comportano l'annullamento della prova scritta di un concorso l'apposizione di cancellature nell'elaborato.

Lo ha affermato il Consiglio di stato, Sez. V, con la sentenza 26.03.2012 n. 1740.
I giudici di palazzo Spada hanno preliminarmente richiamato le regole che in materia di pubblici concorsi sono finalizzate a garantire l'anonimato delle prove a salvaguardia della par condicio tra i candidati. «Ciò che rileva», sottolineano, «non è tanto l'identificabilità dell'autore dell'elaborato attraverso un segno a lui personalmente riferibile, quanto piuttosto l'astratta idoneità del segno a fungere da elemento di identificazione». «Ciò ricorre», prosegue il Collegio, «quando la particolarità riscontrata assuma un carattere oggettivamente ed incontestabilmente anomalo rispetto alle ordinarie modalità di estrinsecazione del pensiero e di elaborazione dello stesso in forma scritta, in tal caso a nulla rilevando che in concreto la Commissione o singoli componenti di essa siano stati, o meno, in condizione da riconoscere effettivamente l'autore dell'elaborato scritto».
«Ritiene il Collegio», conclude la sentenza, «che l'apposizione di cancellatura (peraltro non isolata, ma in un certo numero) a penna nell'elaborato è fatto riconducibile ad una incertezza usuale nei candidati, rilevabile nella maggior parte degli elaborati di una selezione concorsuale e non connotata da un carattere di anomalia tale da poter mettere la Commissione o un suo componente in condizione di riconoscerne l'autore: per questo, essa non è configurabile come segno di riconoscimento», sentenza, «alle possibili conseguenze nel ritardo della partenza laddove scatti il verde semaforico e il veicolo rimanga ancora in posizione arresto e/o non riprenda tempestivamente la marcia, con accentuazione del pericolo di impatto/collisione o urto con veicolo sopravveniente».
«Il veicolo al semaforo», ha concluso il Tribunale, «non è né fermo né in sosta e quindi in una situazione di momentaneo arresto che alla luce della sopra evidenziata ratio della norma rientra però sempre nel concetto di marcia, tenuto conto che l'arresto dura un tempo solitamente breve e il tempo necessario per lo scattare del verde non giustifica una operazione del tutto improvvida e inopportuna e pericolosa quale il rispondere per dire che si è alla guida o per dire altro; il conducente ha la piena possibilità di fermarsi in luogo apposito e consentito alla prima occasione utile e richiamare senza rispondere mentre attende che scatti il verde» (articolo ItaliaOggi del 10.08.2012).

APPALTIStretta sui requisiti di moralità. Fuori dalla gara pubblica il partecipante che dice il falso. Secondo il Consiglio di stato è irrilevante che l'omissione non alteri il corso dell'appalto.
Il partecipante di una gara pubblica chiamato a dichiarare i propri requisiti di moralità professionale deve essere immediatamente escluso se nella dichiarazione omette informazioni o dice il falso. Inoltre, non si può addurre a propria scusa il fatto che il falso sia innocuo, cioè non sia tale da alterare il corso della gara.
Lo ha stabilito la sentenza 16.03.2012 n. 1471, emessa dalla Sez. III del Consiglio di Stato.
Nel caso concreto una società è stata esclusa da una gara indetta da una Asl piemontese per l'affidamento dei servizi di pulizia ed accessori.
Secondo l'amministrazione, infatti, la gareggiante avrebbe omesso alcune informazioni previste dall'art. 38 del codice dei contratti pubblici (decreto legislativo n. 163 del 2006), motivo per il quale la gara, per la candidata, è finita prima del tempo.
L'esclusa ha quindi deciso di rivolgersi al Tribunale amministrativo per la regione Piemonte, il quale, tuttavia, alla luce delle indicazioni mancanti nella domanda di partecipazione alla gara, ha confermato la decisione assunta dalla Asl.
Sulla vicenda si è pronunciato anche il Consiglio di stato. La società si è rivolta a Palazzo Spada affermando l'erroneità della sentenza nella parte in cui non ha ritenuto che i dati mancanti nella domanda di partecipazione non avrebbero inciso sull'andamento della gara, data la loro irrilevanza. In parole semplici, la ricorrente sostiene che si sarebbe trattato di un «falso innocuo», una terminologia questa ben conosciuta in ambito penalistico.
I giudici romani non hanno condiviso la tesi avanzata dalla società, dimostrando di aderire alla diversa tesi per la quale nell'ambito delle procedure a evidenza pubblica il «falso innocuo» non può trovare applicazione. Nella sentenza viene sottolineato come il falso possa dirsi tale solo qualora non sia in grado di incidere, neppure minimamente, sugli interessi tutelati dall'ordinamento. Ciò non può accadere nelle procedure ad evidenza pubblica, dove la completezza delle dichiarazioni rappresenta, già per sé medesima, un «valore da perseguire». Conseguentemente l'amministrazione, al fine di evitare inutili perdite di tempo, deve poter scegliere immediatamente se un soggetto può partecipare alla gara oppure no.
L'effetto della sentenza è quello di rendere più facile l'esclusione dei partecipanti alle gare indette dalle stazioni appaltanti. L'automatismo dell'esclusione è giustificato dall'importanza dei requisiti di moralità professionale, il cui ruolo è quello di far emergere aspetti negativi della vita professionale dei gareggianti (articolo ItaliaOggi del 09.08.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTILe misure sanzionatorie della comunicazione all’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici e l’escussione della cauzione disposta dal comune per violazione dell’art. 48 del codice approvato con il d.l.vo n. 163/2006 sono applicabili con riguardo al mancato possesso sia dei requisiti generali che di quelli speciali.
Le sanzioni di cui all’art. 48 del codice dei contratti pubblici sono comunque applicabili nel caso di inosservanza del termine assegnato indipendentemente dalla tipologia dei requisiti non dimostrati come affermato dalla giurisprudenza secondo la quale “in caso di mancata prova del possesso dei requisiti prescritti per la partecipazione alla gara, conseguono automaticamente, una volta scaduto il termine, non solo l’esclusione dalla gara, ma anche l’incameramento della cauzione e la segnalazione all’Autorità di vigilanza, senza distinguere tra inadempimento formale (errore od altro) o inadempimento sostanziale (mancanza dei requisiti per partecipare alla gara)".

Con il primo motivo di gravame la ricorrente afferma di non aver ricevuto il fax del 21.07.2009 e contesta l’indirizzo giurisprudenziale in base al quale l’onere della prova negativa della ricezione grava sul destinatario, ritenendolo non conforme ai principi di giustizia ed equità.
Con la seconda censura la Vetrucci s.r.l. contesta il computo del termine perentorio di 10 giorni assegnato dal Comune per la presentazione della documentazione attestante i requisiti richiamando il principio secondo il quale nel calcolo dei termini a giorni il “dies a quo non computatur”; il termine, nel caso di specie, scadeva pertanto il 31 luglio e non il 30 luglio, come affermato dal Comune; da tutto ciò fa discendere i vizi di violazione degli artt. 155 del c.p.c. e 2963 c.c. nonché di eccesso di potere.
Con il terzo motivo di impugnativa la ricorrente contesta la legittimità della comunicazione all’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici e l’escussione della cauzione disposta dal comune per violazione dell’art. 48 del codice approvato con il d.l.vo n. 163/2006, il quale ammette l’adozione di tali misure solo nel caso in cui non venga comprovato il possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa.
Nel caso in esame, sostiene l’interessata, il Comune resistente con la nota del 21.07.2009 aveva chiesto di comprovare il possesso di requisiti di carattere generale e non anche dei predetti requisiti speciali sopra indicati, cosicché non risulterebbero giustificate le misure sanzionatorie adottate; pertanto, ove le norme del bando dovessero interpretarsi in maniera opposta alla previsione del citato art. 48, sarebbero da considerare a loro volta illegittime e, conseguentemente, viziati anche gli atti adottati in esecuzione di tali norme.
Con il quarto ed ultimo motivo di ricorso la società Vetrucci s.r.l. ribadisce di aver prodotto in data 04.08.2007 la documentazione attestante il possesso dei requisiti generali richiesti, afferma che il termine per la presentazione della documentazione non viene definito come perentorio dal più volte menzionato art. 48 e che, sotto quest’ultimo profilo, la lex specialis del bando deve essere comunque considerata illegittima dal momento che prevede, in contrasto con lo stesso art. 48, la produzione di una documentazione diversa da quella indicata da detta norma.
Il Comune di Zibido San Giacomo ha prodotto, con la nota n. 1792 del 04.02.2010 di trasmissione dei documenti relativi al ricorso, anche una memoria controdeduttiva redatta dall’avv. Marco Locali con la quale contesta punto per punto le censure avanzate dalla ricorrente sostenendo:
a) quanto alla prima censura, che è in possesso della ricevuta del telefax attestante la ricezione da parte della ricorrente e che dopo la data del 21.07.2009 ha pubblicato sul sito web del Comune l’elenco delle 8 imprese sottoposte a verifica ai sensi dell’art. 48 del d.l.vo n. 163/2006, tra le quali è compresa anche la ricorrente;
b) quanto alla seconda doglianza, ritiene comunque infondati i rilievi esposti osservando come, in ogni caso, la ricorrente abbia prodotto la documentazione solo in data 04.08.2009 (e quindi in ogni caso dopo la scadenza del termine di 10 giorni assegnati) e ciò anche a voler considerare il mero errore materiale relativo alla indicazione della data del 30 luglio nella lettera del 21.07.2009 inviata alla società ricorrente. Lo stesso Comune ribadisce il carattere perentorio del termine anche con richiamo alla giurisprudenza del Consiglio di Stato (ex multis Consiglio di Stato, Sez. V, n. 328/2007 e Sezione VI n. 7294/2004);
c) con riferimento al terzo motivo di impugnativa il Comune di Zibido San Giacomo sottolinea l’insussistenza della censura dedotta facendo presente che le misure sanzionatorie in questione sarebbero applicabili con riguardo al mancato possesso sia dei requisiti generali che di quelli speciali.
Conferma che le sanzioni di cui all’art. 48 del codice dei contratti pubblici sono comunque applicabili nel caso di inosservanza del termine assegnato indipendentemente dalla tipologia dei requisiti non dimostrati come affermato dalla giurisprudenza secondo la quale “in caso di mancata prova del possesso dei requisiti prescritti per la partecipazione alla gara, conseguono automaticamente, una volta scaduto il termine, non solo l’esclusione dalla gara, ma anche l’incameramento della cauzione e la segnalazione all’Autorità di vigilanza, senza distinguere tra inadempimento formale (errore od altro) o inadempimento sostanziale (mancanza dei requisiti per partecipare alla gara" (v. Consiglio di Stato, Sez. VI, 11.11.2004, n. 7294);
d) da ultimo, in ordine al quarto motivo di gravame, il Comune resistente ribadisce le argomentazioni svolte al riguardo e chiede che il ricorso sia rigettato, in quanto inammissibile e infondato (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 03.03.2012 n. 1052 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOÈ abuso assumere la figlia.
Il dirigente comunale deve astenersi dall'adottare l'atto amministrativo con il quale si procede all'assunzione -per chiamata diretta- dei suoi prossimi congiunti. In mancanza commette il reato di abuso d'ufficio.

Lo ha stabilito la sentenza 20.02.2012 n. 6705 emessa dalla Corte di Cassazione.
Nel caso di specie il dirigente comunale, responsabile del servizio affari generali e personale, al fine di coprire un posto da vigile urbano per il periodo estivo, ha adottato una determinazione con la quale ha assunto per chiamata diretta la propria figlia. Al contempo ha escluso un'altra candidata, nonostante questa avesse già maturato una breve esperienza come vigile urbano.
Sia il tribunale di primo grado che la Corte d'appello hanno condannato il dirigente a quattro mesi di reclusione per il reato di abuso d'ufficio, previsto all'articolo 323 del codice penale. Il comportamento dell'imputato, secondo i giudici di merito, oltre a violare l'obbligo di astensione per il conflitto di interesse, ha determinato un ingiusto vantaggio per la figlia, che si è vista balzata al primo posto della graduatoria nonostante il suo punteggio fosse in grado di collocarla solo al quarto posto.
Il dirigente ha cercato di difendersi dicendo che l'assunzione non aveva danneggiato il Comune dato che era pur sempre necessario coprire un posto da vigile per il periodo estivo. Inoltre, sempre secondo la difesa dell'imputato, la sua decisione era stata confermata dagli organo politici, il che valeva a ritenerla legittima.
La Corte di cassazione, adita in un ultima istanza, ha confermato la sentenza della corte d'appello. Per i giudici romani, infatti, la condotta del dirigente ha integrato tutti gli elementi previsti dalla legge per il reato di abuso d'ufficio. Viene spiegato che l'articolo 323 del codice penale è stato introdotto per impedire che il funzionario pubblico, nello svolgimento della propria funzione o servizio violi il dovere di curare gli interessi dell'amministrazione pubblica e favorisca se stesso o i suoi prossimi congiunti ovvero arrechi danno ad altri.
Nel caso di specie il dirigente non si è astenuto dal conflitto di interessi che lo vedeva coinvolto e, anzi, ha intenzionalmente deciso di avvantaggiare la figlia (articolo ItaliaOggi del 09.08.2012).

ATTI AMMINISTRATIVINel procedimento amministrativo, è necessario che il contenuto del provvedimento conclusivo di diniego si inscriva nello schema delineato dal preavviso di rigetto, il quale deve contenere la motivazione della decisione in nuce dell’Amministrazione, dovendosi ritenere precluso all'Amministrazione fondare il diniego definitivo su ragioni del tutto nuove, non enucleabili dalla motivazione dell’atto endoprocedimentale, frustrando così irrimediabilmente la funzione partecipativa e di dialogo che la legge assegna all’atto di preavviso.
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L’istituto del preavviso di rigetto, previsto dall’art. 10-bis, l. 07.08.1990 n. 241, introdotto dalla l. 11.02.2005 n. 15, ha portata generale e trova quindi applicazione in tutti i procedimenti a istanza di parte.
Tuttavia la sua omissione non determina comunque l’annullabilità del provvedimento qualora trovi applicazione il disposto dell’art. 21-octies l. 07.08.1990 n. 241, per il quale non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente adottato.

Nel procedimento amministrativo, è necessario che il contenuto del provvedimento conclusivo di diniego si inscriva nello schema delineato dal preavviso di rigetto, il quale deve contenere la motivazione della decisione in nuce dell’Amministrazione, dovendosi ritenere precluso all'Amministrazione fondare il diniego definitivo su ragioni del tutto nuove, non enucleabili dalla motivazione dell’atto endoprocedimentale, frustrando così irrimediabilmente la funzione partecipativa e di dialogo che la legge assegna all’atto di preavviso” (TAR Lazio Roma, sez. II, 27.11.2009, n. 11946).
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Del resto, se è vero che all’affermazione secondo cui: “L’istituto del preavviso di rigetto, previsto dall’art. 10-bis, l. 07.08.1990 n. 241, introdotto dalla l. 11.02.2005 n. 15, ha portata generale e trova quindi applicazione in tutti i procedimenti a istanza di parte” si fa seguire, in giurisprudenza, la precisazione per la quale: “Tuttavia la sua omissione non determina comunque l’annullabilità del provvedimento qualora trovi applicazione il disposto dell’art. 21-octies l. 07.08.1990 n. 241, per il quale non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente adottato” (TAR Piemonte Torino, sez. I, 14.01.2011, n. 16), tuttavia nella specie tale principio non soccorre, posto che non può discorrersi di una natura vincolata, bensì senz’altro discrezionale, del provvedimento finale in questione (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 26.01.2012 n. 146 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Per distinte sentenze servono distinti appelli. L'appellante non può con un unico ricorso impugnare distinte sentenze del Giudice amministrativo.
Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la sentenza 18.11.2011 n. 6102.
«È del tutto pacifico in giurisprudenza», hanno sostenuto i giudici di Palazzo Spada, «come non sia valutabile processualmente l'appello, cumulativamente prodotto avverso più sentenze, in quanto è solo al giudice amministrativo di secondo grado che spetta il potere di riunire appelli contro più sentenze in funzione sia dell'economicità e della speditezza dei giudizi, come pure per prevenire la possibilità di contrasto tra giudicati».
«Ne deriva», ha concluso il Collegio, «che l'iniziativa dell'appellante, intesa a riunire cause diverse mediante unico appello contro più sentenze si scontra con l'attribuzione positiva di tale potere al giudice, al quale verrebbe così sottratto il governo dei giudizi, venendo a porre le premesse per la creazione di situazioni processuali confuse o inestricabili (così, da ultimo, Consiglio di stato, sez. IV, 21.05.2010, n. 3232)» (articolo ItaliaOggi del 10.08.2012).

ATTI AMMINISTRATIVIÈ eliminabile in corso di giudizio il vizio nel provvedimento della p.a.. La Pubblica amministrazione anche in pendenza di giudizio può eliminare il vizio di cui è inficiato il provvedimento. Il Consiglio di stato dissipa ogni dubbio sull'applicazione della legge 249 del 1968.
Lo ha affermato il Consiglio di stato con la sentenza 14.10.2011 n. 5538, dissipando ogni dubbio derivante dal disposto dell'art. 6 della legge 18.03.1968 n. 249 che prevede «alla convalida degli atti viziati di incompetenza può provvedersi anche in pendenza di gravame in sede amministrativa e giurisdizionale».
Sulla base di questa disposizione infatti la giurisprudenza anteriore all'introduzione nel nostro ordinamento dell'art. 21-nonies della legge 241/1990 («È fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole») riconosceva la possibilità di convalida in corso di giudizio solo quando il provvedimento era viziato da incompetenza (Cons. di stato, sez. IV 12.10.2000 n. 5322, IV sez. 14.12.2004 n. 4941).
Dopo questa introduzione sussistevano ancora perplessità in dottrina e giurisprudenza, perplessità adesso fugate dal pronunciamento dei giudici di Palazzo Spada.
«La convalida», esordisce il Collegio, «sotto un profilo spiccatamente dottrinario, è figura del sistema amministrativo facente parte del più ampio fenomeno dell'autotutela, potere in virtù del quale la p.a. ha la facoltà di sanare i propri atti da vizi di legittimità, in applicazione, come evidenziato dalla giurisprudenza (Consiglio di stato, sez. IV 09/07/2010 n. 4460), del principio di economia dei mezzi giuridici e di conservazione degli atti».
«Essa consiste», prosegue la sentenza, «in una manifestazione di volontà della pubblica amministrazione rivolta ad eliminare il vizio dell'atto (originariamente) invalido, in genere per vizi formali o di procedura o per incompetenza».
«L'ammissibilità della convalida di un atto nelle more del giudizio», puntualizzano i giudici di Palazzo Spada, «è da ritenersi ormai fuor di dubbio alla luce della novella recata dall'art. 21-nonies della legge n. 241/1990, norma che ha previsto la possibilità, in generale, di convalida dell'atto per ragioni di pubblico interesse ed entro un ragionevole lasso temporale senza che il legislatore abbia previsto come causa preclusiva la pendenza di un giudizio».
«Nella specie, allora», conclude il Collegio, «si è in presenza di un provvedimento nuovo, ma che si collega all'atto convalidato al fine di mantenerne fermi gli effetti fin dal momento in cui questo venne emanato (efficacia ex tunc), con il preciso scopo di operare una sanatoria dell'atto viziato nel momento storico di avvenuta instaurazione della controversia giudiziaria, senza che in ciò possa rinvenirsi una qualsiasi volontà di riesercizio di un'attività discrezionale e/o di amministrazione attiva esercitata per la prima volta» (articolo ItaliaOggi del 10.08.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALILa p.a. rispetti la parola. Anche la p.a. deve rispettare la parola data.
L'impegno assunto per la vendita di un terreno da parte della pubblica amministrazione deve essere rispettato. Tale regola vale anche nel caso in cui il valore del terreno subisca un'impennata per effetto di una modifica del piano regolatore generale della regione.
Lo ha stabilito il TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, con la sentenza 19.09.2011 n. 1234.
La controversia vede protagonisti due cittadini del comune di Trebisacce contro la filiale calabrese dell'Agenzia del demanio. Nel 1999 l'Agenzia bandisce la vendita di un territorio appartenente al patrimonio disponibile dello stato. Il prezzo è stracciato. Si parla di 60 mila delle vecchie lire, l'equivalente di 31 mila euro. I due cittadini vincono la gara e l'amministrazione emana il provvedimento di aggiudicazione. Pronti a stipulare il contratto di vendita, contattano più volte l'Agenzia per sapere come concludere l'affare.
Nel mentre, però, capita un evento inaspettato. Una variante al piano regolatore generale della regione muta la destinazione urbanistica del terreno appena aggiudicato. Il valore sale vertiginosamente e l'amministrazione inizia a riflettere se le convenga ancora vendere il suo terreno. Decide, quindi, di chiedere un consiglio alla Direzione gestione patrimonio dell'Agenzia del demanio di Roma la quale sconsiglia la vendita.
Conseguentemente l'Agenzia calabrese annulla l'aggiudicazione mediante un provvedimento di revoca in autotutela. Le trattative vengono bloccate e nessun contratto viene firmato. I due cittadini non accettano il comportamento dell'amministrazione e decidono di rivolgersi al Tar. L'amministrazione cerca di difendersi affermando che i motivi che l'avevano spinta a cambiare idea risiedevano nel mancato ritrovamento della relazione di stima negli atti del procedimento e al rinvenimento, successivamente all'aggiudicazione, di un manufatto abusivo proprio sul terreno bandito.
Queste difese, tuttavia, non trovano approvazione e il Tar, consapevole della vera ed unica ragione che ha portato l'amministrazione a cambiare idea, annulla il provvedimento di revoca e ordina alla stessa di rispettare la parola data. Per il giudice la p.a. non può tirarsi indietro per il semplice fatto che il valore del terreno abbia subito un aumento di valore in attesa della stipulazione del contratto di vendita. E il prezzo stabilito al momento dell'aggiudicazione deve essere il medesimo del successivo contratto (articolo ItaliaOggi del 09.08.2012).

PUBBLICO IMPIEGOScudo da infortunio. Il lavoratore non si può licenziare. Il Consiglio di stato in una controversia alle Poste.
Il lavoratore assunto che si infortuna durante il periodo di prova non può essere licenziato in tronco dall' amministrazione.

È quanto stabilito dal Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 05.09.2011 n. 4988 chiamato a risolvere una controversia tra un lavoratore neo assunto e Poste Italiane spa.
Il lavoratore, entrato regolarmente in servizio (ma ancora in prova), dopo pochi giorni si infortuna gravemente. La menomazione che ne deriva è permanente e comporta l'inidoneità fisica a ricoprire la qualifica di operatore di esercizio (nello specifico, categoria IV, portalettere). In un primo momento l'amministrazione decide di collocare il lavoratore in aspettativa per motivi di salute proponendogli di declassarlo alla categoria immediatamente inferiore su richiesta esplicita del lavoratore (III categoria, usciere capo). Quest'ultimo accetta e chiede di essere declassato per poter continuare a lavorare nonostante la forzata convivenza con il suo nuovo handicap. Tuttavia l'amministrazione cambia improvvisamente idea e decide di risolvere il contratto di lavoro sul presupposto che fosse venuta meno l'idoneità fisica a svolgere il ruolo per il quale il lavoratore era stato originariamente assunto e sottoposto a prova.
A questo punto il lavoratore presenta un'istanza per essere riassunto ai sensi dell'art. 132 del dpr n. 3 del 1957 ma questa viene rigettata. Sarà il Tribunale amministrativo della Regione Puglia, con una motivazione ripresa dal Consiglio di stato, a dare ragione al lavoratore. Vengono, infatti, annullati sia il provvedimento di risoluzione unilaterale del contratto di lavoro sia il successivo provvedimento con cui è stata negata la riassunzione del lavoratore.
Poste Italiane spa non ci sta e la lite finisce davanti al Consiglio di stato. Confermando la sentenza di primo grado, i giudici di Palazzo Spada ricordano i limiti del giudizio durante il periodo di prova. Durante questa fase del rapporto di lavoro l'amministrazione deve limitarsi a valutare solo le capacità professionali e i requisiti morali del lavoratore. Non il suo stato di idoneità fisica. Quest'ultimo, infatti, viene valutato solo al momento della scadenza della domanda di partecipazione al concorso e nella fase immediatamente precedente alla messa in servizio. In pratica il lavoratore che non avesse l'idoneità fisica non potrebbe nemmeno superare il concorso pubblico.
Quanto al destino del lavoratore che si infortuna durante il periodo di prova, aggiungono i giudici, la legge prevede un'apposita procedura tesa a riconoscere alcune garanzie allo stesso (disciplinata nel dpr n. 3 del 1957). La procedura deve attivarsi solo qualora vi sia l'impossibilità di ricollocare il lavoratore in servizio nella medesima categoria o in quella immediatamente inferiore e ha la finalità di pervenire ad una specifica dispensa per motivi di salute e non già a un licenziamento in tronco (articolo ItaliaOggi del 09.08.2012 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 11 del DPR n. 380/2001 stabilisce espressamente che il PdC non comporta limitazione dei diritti di terzi e che il rilascio del permesso è fatto non solo al proprietario, ma anche a “chi abbia titolo per richiederlo”, ovvero per tutte le posizioni civilisticamente utili per esercitare un’attività costruttiva (cd. disponibilità giuridica ad aedificandum), che è possibile individuare anche in soggetti che vantano altra qualificata relazione legittimante il titolo edilizio, diversa dalla proprietà esclusiva, quali i contitolari del diritto dominicale, l’enfiteuta, l’usufruttuario, il titolare del diritto di superficie, d’uso e d’abitazione, fino al promissorio acquirente in possesso del godimento dell’immobile.
Sulla base di questa considerazione, il comproprietario condominiale ha il diritto ad utilizzare il suo titolo reale parziario, al pari di tutti gli altri condomini, né l’Amministrazione è tenuta a fare alcuna disamina puntuale dei rapporti tra gli stessi condomini, essendo sufficiente la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi fa l’istanza ed il bene oggetto dell’edificazione.

L’Amministrazione dà atto, nel provvedimento impugnato, della concessione edilizia del 1980 (n. 831) e della proprietà esclusiva del sottotetto, invocando per la copertura comune l’art. 1117 c.c., stante la realizzazione di aperture sul tetto, e, quindi, anche il consenso del e/o dei comproprietari, ai sensi dell’art. 11 del DPR. n. 380/2001.
L’art. 1117 c.c. indica in modo esemplificativo le parti comuni di un condominio, tra le quali i “tetti”; trattasi di una norma generale, ma non assoluta, superabile dalle situazioni obiettive e strutturali che dimostrino l’uso e/o l’esclusivo godimento di tale parte dell’immobile, che possono far venir meno le situazioni di contitolarità necessaria, potendo la particolarità della destinazione, vincere la stessa attribuzione legale (Cass. Civ. II, n. 14885/06.07.2011).
Tale aspetto non è stato considerato dal Comune, pur avendo parte ricorrente evidenziato che l’unico accesso per il tetto è dalla loro abitazione, prospettando un’usucapione ventennale del tetto rifatto nel 1980, a spese esclusive del loro dante causa.
Non è compito dell’Amministrazione accertare l’avvenuta usucapione, ma non lo è neppure quello di tutelare i diritti di terzi-condomini, che si ritengono lesi nella loro proprietà o godimento.
L’art. 11 del DPR n. 380/2001, infatti, stabilisce espressamente che il PdC non comporta limitazione dei diritti di terzi e che il rilascio del permesso è fatto non solo al proprietario, ma anche a “chi abbia titolo per richiederlo”, ovvero per tutte le posizioni civilisticamente utili per esercitare un’attività costruttiva (cd. disponibilità giuridica ad aedificandum), che è possibile individuare anche in soggetti che vantano altra qualificata relazione legittimante il titolo edilizio, diversa dalla proprietà esclusiva, quali i contitolari del diritto dominicale, l’enfiteuta, l’usufruttuario, il titolare del diritto di superficie, d’uso e d’abitazione, fino al promissorio acquirente in possesso del godimento dell’immobile.
Sulla base di questa considerazione, il comproprietario condominiale ha il diritto ad utilizzare il suo titolo reale parziario, al pari di tutti gli altri condomini, né l’Amministrazione è tenuta a fare alcuna disamina puntuale dei rapporti tra gli stessi condomini (C.S., IV, n. 2546/2010), essendo sufficiente la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi fa l’istanza ed il bene oggetto dell’edificazione (C.S., IV, n. 3505/08.06.2011).
Nel PdC n. 184/2007 (recupero abitativo del sottotetto, ai sensi dell’art. 85 LRA n. 15/2004) il Comune ha accertato che il fabbricato è in comproprietà, per la metà, dei due fratelli Totano Nicola e Domenico; ciò stante la motivazione dell’annullamento in autotutela risulta essere in palese contraddizione con il citato PdC (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 01.09.2011 n. 504 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl titolare di un diritto di comodato è legittimato alla richiesta di titoli edilizi compatibili con l'effettiva disponibilità del bene e con l'entità della trasformazione oggetto della richiesta.
Il titolare di un diritto di comodato è legittimato alla richiesta di titoli edilizi compatibili con l'effettiva disponibilità del bene e con l'entità della trasformazione oggetto della richiesta (cfr. C.d.S., sez. V, 19.09.2008 , n. 4518; TAR Campania, Salerno, sez. II, n. 4254 del 2009)  (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.07.2011 n. 4370 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOVa risarcito il danno da tardiva assunzione.
Il vincitore di un concorso pubblico che non viene immediatamente assunto dall'amministrazione ha diritto al risarcimento del danno per l'inutile attesa affrontata.

Lo ha stabilito la sentenza 30.06.2011 n. 3934 emessa dalla Sez. V del Consiglio di Stato chiamato a risolvere una lite sorta tra una neo vincitrice di un concorso pubblico per l'assunzione di cinquanta vigili urbani e il Comune di Pozzuoli.
Tutta in salita, infatti, è la strada percorsa dalla vincitrice del concorso per vedersi finalmente inserita nel ruolo di vigile urbano. In un primo momento l'amministrazione decide di escluderla dalla procedura, ma il Tribunale amministrativo per la Campania annulla il provvedimento di esclusione è ordina alla p.a. di assumere la nuova dipendente. La decisione viene confermata anche in appello dal Consiglio di stato. Ma il Comune di Pozzuoli non ne vuole proprio sapere è continua a prendere tempo. Viene allora azionato un giudizio di ottemperanza che porterà, per giunta, alla nomina di un commissario ad acta. Finalmente l'assunzione avviene. Ora però è il momento di chiedere il risarcimento dei danni per il tempo impiegato nell'attesa ingiustificata.
Così la neo assunta decide di rivolgersi per la seconda volta al Tribunale amministrativo per la Regione Campania. Quest'ultimo, tuttavia, dichiara il ricorso inammissibile per questioni procedurali. Scatta il ricorso in appello al Consiglio di stato che viene dichiarato, questa volta, ammissibile e fondato. I giudici amministrativi riconoscono in pieno il danno patito dalla ricorrente e la responsabilità dell'amministrazione. Non è ammissibile, dice Palazzo Spada, che per ottenere la meritata assunzione si debbano affrontare ben tre giudizi e la nomina di un commissario ad acta. Facendo i calcoli l'assunzione è avvenuta dopo oltre sei anni dalla prima sentenza del Tar Campania; dopo oltre due anni dalla sentenza del Consiglio di stato che ha confermato la decisione del giudice di primo grado e dopo otto mesi dalla sentenza di ottemperanza che ha ordinato al Comune di procedere in tal senso.
Il danno quantificato in via equitativa viene stabilito in una somma pari all'80% delle retribuzioni che sarebbero state corrisposte nel periodo decorrente tra la data della mancata assunzione a quella dell'effettivo collocamento in servizio. Viene anche ordinata la regolarizzazione della posizione contributiva e previdenziale di quel periodo, la rivalutazione monetaria e gli interessi compensativi al tasso legale. Nessun risarcimento viene, tuttavia, riconosciuto per il danno esistenziale.
La frustrazione derivante dall'impossibilità di cercare un altro impiego nell'attesa di iniziare quello sicuro non può, secondo il Consiglio di stato, essere direttamente ricondotta al ritardo della p.a. ma, piuttosto, alle difficoltà che affliggono il mercato del lavoro (articolo ItaliaOggi del 09.08.2012).

EDILIZIA PRIVATANel procedimento di rilascio dei titoli edilizi, l'Amministrazione ha il potere ed il dovere di verificare l'esistenza in capo al richiedente di un idoneo titolo di godimento sull'immobile interessato dal progetto di trasformazione urbanistica, per cui, in caso di opere che vadano ad incidere sul diritto di altri comproprietari (quali le opere edilizie interessanti porzioni condominiali comuni), è legittimo esigere il consenso degli stessi o pretendere la produzione della dichiarazione di assenso dell'amministrazione condominiale anche nelle ipotesi di autorizzazioni in sanatoria, in quanto il contitolare del bene può essere estraneo all'abuso ed avere un interesse contrario alla sanatoria di opere che potrebbero risolversi in suo danno.
Non è seriamente contestabile che nel procedimento di rilascio dei titoli edilizi l'Amministrazione abbia il potere ed il dovere di verificare l'esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull'immobile, interessato dal progetto di trasformazione urbanistica, trattandosi di una attività istruttoria che non è diretta, in via principale, a risolvere i conflitti di interesse tra le parti private in ordine all'assetto proprietario degli immobili interessati, ma che risulta finalizzata, più semplicemente, ad accertare il requisito della legittimazione del richiedente.
Pertanto, la funzione autorizzatoria dell'Amministrazione richiede un livello minimo di istruttoria che comprende anche l'acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l'istanza e il bene giuridico oggetto dell'autorizzazione, senza che l'esame del titolo di godimento operato dalla Pubblica Amministrazione costituisca un'illegittima intrusione in ambito privatistico; per cui, in definitiva, legittimamente l'Amministrazione, ove accerti che l'intervento edilizio interessi parti comuni dell'edificio, ben può subordinare il rilascio del titolo edilizio alla previa assunzione del consenso dei comproprietari per la parte di intervento che interessa tali parti comuni.
Si è infatti anche di recente precisato che in base all'art. 11 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, il permesso di costruire "è rilasciato al proprietario o a chi ne abbia titolo".
Ora, interpretando tale normativa (che ricalca quella precedentemente vigente), la giurisprudenza amministrativa ha costantemente chiarito che nel procedimento di rilascio dei titoli edilizi, l'Amministrazione ha il potere ed il dovere di verificare l'esistenza in capo al richiedente di un idoneo titolo di godimento sull'immobile interessato dal progetto di trasformazione urbanistica, per cui, in caso di opere che vadano ad incidere sul diritto di altri comproprietari (quali le opere edilizie interessanti porzioni condominiali comuni), è legittimo esigere il consenso degli stessi o pretendere la produzione della dichiarazione di assenso dell'amministrazione condominiale anche nelle ipotesi di autorizzazioni in sanatoria, in quanto il contitolare del bene può essere estraneo all'abuso ed avere un interesse contrario alla sanatoria di opere che potrebbero risolversi in suo danno (Cons. St., sez. V, 21.10.2003, n. 6529).
In effetti, sul punto la giurisprudenza, che in passato era prevalentemente orientata nel senso che il parametro valutativo dell'attività amministrativa in materia edilizia era esclusivamente quello dell'accertamento della conformità dell'opera alla disciplina pubblicistica che ne regola la realizzazione, salvi i diritti dei terzi e senza che la mancata considerazione di tali diritti potesse in qualche modo incidere sulla legittimità dell'atto, ha oggi avuto occasione di precisare che la necessaria distinzione tra gli aspetti civilistici e quelli pubblicistici dell'attività edificatoria non impedisce di rilevare la presenza di significativi punti di contatto tra i due diversi profili.
In proposito ha, pertanto, chiarito che non è seriamente contestabile che nel procedimento di rilascio dei titoli edilizi l'Amministrazione abbia il potere ed il dovere di verificare l'esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull'immobile, interessato dal progetto di trasformazione urbanistica, trattandosi di una attività istruttoria che non è diretta, in via principale, a risolvere i conflitti di interesse tra le parti private in ordine all'assetto proprietario degli immobili interessati, ma che risulta finalizzata, più semplicemente, ad accertare il requisito della legittimazione del richiedente (cfr. TAR Trentino Alto Adige, sez. Bolzano, 27.02.2006, n. 81, TAR Lombardia, sede Milano, sez. II, 11.02.2005, n. 357, TAR Puglia Lecce, sez. III, 18.12.2007, n. 4286).
Pertanto, la funzione autorizzatoria dell'Amministrazione richiede un livello minimo di istruttoria che comprende anche l'acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l'istanza e il bene giuridico oggetto dell'autorizzazione, senza che l'esame del titolo di godimento operato dalla Pubblica Amministrazione costituisca un'illegittima intrusione in ambito privatistico; per cui, in definitiva, legittimamente l'Amministrazione, ove accerti che l'intervento edilizio interessi parti comuni dell'edificio, ben può subordinare il rilascio del titolo edilizio alla previa assunzione del consenso dei comproprietari per la parte di intervento che interessa tali parti comuni (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 18.04.2011 n. 364 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: All’usufruttuario è comunque riconosciuta la legittimazione al rilascio del permesso di costruire dal momento che l’art. 11, D.P.R. n. 380 del 2001 individua tra i soggetti legittimati oltre al proprietario anche coloro che ‘‘abbiano titolo per richiederlo’’, sicché non vi è dubbio che tra gli aventi titolo rientri anche l’usufruttuario del bene, che, quale titolare di un diritto reale di godimento, gode di una relazione qualificata con il bene medesimo.
Innanzitutto è da evidenziare che il ricorrente Di Grazia Giuseppe ha agito nel presente giudizio quale diretto destinatario del diniego gravato, avendo egli personalmente richiesto il rilascio del permesso di costruire denegatogli dal Comune di Aversa, nella dichiarata veste di usufruttuario del bene, e detta circostanza era ben nota al Comune intimato che nella medesima qualità gli aveva in precedenza rilasciato per lo stesso immobile il condono ex lege 326/2003 con atto n. 158 del 29.04.2009.
Peraltro, l’eccepito difetto di legittimazione dell’istante non è stato posto dall’amministrazione quale ragione ostativa all’accoglimento della istanza di mutamento di destinazione inoltrata dal ricorrente, fondandosi il diniego impugnato esclusivamente su ragioni di natura urbanistica.
A ciò si aggiunga che, per giurisprudenza pacifica, all’usufruttuario è comunque riconosciuta la legittimazione al rilascio del permesso di costruire, dal momento che l’art. 11 del d.p.r. n. 380/2001 individua tra i soggetti legittimati oltre al proprietario anche coloro che “abbiano titolo per richiederlo”, sicché non vi è dubbio che tra gli aventi titolo rientri anche l’usufruttuario del bene, che, quale titolare di un diritto reale di godimento, gode di una relazione qualificata con il bene medesimo (C.d.s. sez. IV n. 3027/2007) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 07.03.2011 n. 1318 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAMentre l’art. 36 dpr 380/2001 delinea un procedimento dal vincolato esito accertativo (o meno) della cd. doppia conformità, il rilascio del permesso di costruire in deroga esprime un procedimento contrassegnato da una lata discrezionalità di cui è indice significativo l’esigenza che intervenga anche l’organo “politico” dell'ente locale, al fine di coinvolgere non solo il livello burocratico, ma anche quello elettivo nella (impegnativa e gravosa) determinazione di contraddire quanto stabilito in sede pianificatoria.
La sottolineatura della ampia discrezionalità della amministrazione, unitamente al carattere derogatorio del rilascio del permesso che “spezza” l’uniformità giuridica delle norme di pianificazione normativamente applicate, dequota, quindi, sensibilmente l’onere motivazionale della p.a., atteso che la affermazione della non derogabilità costituisce la regola, mentre l’onere motivazionale, per converso, si accentua ove l’amministrazione comunale (nel suo complesso) voglia deliberatamente contraddire le norme vigenti.
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Proprio perché la deroga “esorbita dall’ordinario regime dei titoli costruttivi poiché spezza l’uniformità giuridica delle regole normalmente applicate”, richiede un procedimento ad hoc che il legislatore vuole partecipato da tutti gli “interessati” (cfr. art. 14, c. 2, DPR 380 cit.), in assenza del quale, l’opera è senz’altro abusiva e sottoposta, da subito, ai rigori demolitori, tranne il limitato ambito della richiesta verifica ex art. 36 DPR cit. in ordine alla cd. “doppia conformità”: verifica vincolata a fronte della lata discrezionalità –secondo quanto sopra enunciato– caratterizzante la deroga invocata.

Riservandosi in prosieguo di soffermarsi sulla incompatibilità giuridica fra i due istituti, è certo che mentre l’art. 36 dpr 380/2001 delinea un procedimento dal vincolato esito accertativo (o meno) della cd. doppia conformità, il rilascio del permesso di costruire in deroga esprime un procedimento contrassegnato da una lata discrezionalità di cui è indice significativo l’esigenza che intervenga anche l’organo “politico” dell'ente locale, al fine di coinvolgere non solo il livello burocratico, ma anche quello elettivo nella (impegnativa e gravosa) determinazione di contraddire quanto stabilito in sede pianificatoria.
La sottolineatura della ampia discrezionalità della amministrazione, unitamente al carattere derogatorio del rilascio del permesso che “spezza” l’uniformità giuridica delle norme di pianificazione normativamente applicate, dequota, quindi, sensibilmente l’onere motivazionale della p.a., atteso che la affermazione della non derogabilità costituisce la regola, mentre l’onere motivazionale, per converso, si accentua ove l’amministrazione comunale (nel suo complesso) voglia deliberatamente contraddire le norme vigenti.
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Vi è, infatti, una prima ragione di ordine sistematico costituita dal fatto che l’attuale art. 14 DPR 380/2001 è stato inscritto nel corpus generale del T.U. in materia edilizia ove è da relazionare all’art. 36 dello stesso, in cui si disciplina la possibilità di ottenere, tramite l’accertamento di conformità, un titolo sanante l’abuso realizzato.
Le due norme sono distinte, ma fra esse relazionate, nel senso che, dall’intero complesso normativo, si desume che il titolo edilizio è previamente rilasciato o con la legittima procedura di richiesta o in deroga, ovvero ancora ex post per il tramite della cd sanatoria ex art. 36.
La circostanza che le due norme –nello stesso ambito testuale– non si richiamino, lascia quindi chiaramente intendere che dispongono di ambiti diversi che non possono dunque cumularsi. D’altra parte, come per tutte le norme derogatorie vale il primario criterio interpretativo letterale, sicché ove il legislatore non ha inteso riferisi alla sanatoria (che, ripetesi, ha ben tenuto presente nello stesso corpo normativo) deve concludersi che non abbia inteso estendere la possibilità derogatoria anche ad un abuso già perpetrato.
Sono poi univoche e chiare le ragioni sostanziali che militano per la non applicabilità del procedimento sanante all’art. 14 T.U. citato.
Proprio perché la deroga “esorbita dall’ordinario regime dei titoli costruttivi poiché –come sopra accennato– spezza l’uniformità giuridica delle regole normalmente applicate”, richiede un procedimento ad hoc che il legislatore vuole partecipato da tutti gli “interessati” (cfr. art. 14, c. 2, DPR 380 cit.), in assenza del quale, l’opera è senz’altro abusiva e sottoposta, da subito, ai rigori demolitori, tranne il limitato ambito della richiesta verifica ex art. 36 DPR cit. in ordine alla cd. “doppia conformità”: verifica vincolata a fronte della lata discrezionalità –secondo quanto sopra enunciato– caratterizzante la deroga invocata
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 21.01.2011 n. 404 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’atto di decadenza della concessione edilizia, per il decorso infruttuoso del termine triennale fissato per la conclusione dei lavori, ha natura meramente ricognitiva.
In ogni caso la predetta decadenza rappresenta un approdo ineludibile in ipotesi di mancato completamento delle opere nel termine di legge.

Invero è necessario evidenziare:
-  che l’atto di decadenza della concessione edilizia, per il decorso infruttuoso del termine triennale fissato per la conclusione dei lavori, ha natura meramente ricognitiva (cfr. Cons. Stato, IV, n. 511 del 1992);
- che lo stesso è desumibile per implicito dall’ordinanza di demolizione impugnata del 09.02.2002 ed in particolare dalle sue premesse (cfr. TAR Lazio, I, n. 264 del 2009);
- che in ogni caso la predetta decadenza rappresenta un approdo ineludibile in ipotesi di mancato completamento delle opere nel termine di legge;
- che, quindi, nella specie trova applicazione il disposto normativo contenuto nell’art. 21-octies, comma 2, della Legge n. 241 del 1990, anche per l’ordinanza impugnata, che ne rappresenta la conseguenza necessitata;
- che l’ordinanza di sospensione dei lavori produce effetti per soli 45 giorni (cfr. art. 4 Legge n.47 del 1985);
- che non risulta richiesta, né tantomeno accordata, la proroga dei termini per l’ultimazione dei lavori (cfr. art. 4 Legge n. 10 del 1977);
- che del pari è a dirsi per il titolo in variante dell’11.05.1995, risultando le opere in ogni caso non eseguite e i lavori fermi al 22.12.1992 (cfr. verbale del sopralluogo, all. 3 al ricorso e documentazione fotografica, all. 1 agli atti del Comune), a fronte di titoli edilizi non annullati (cfr. anche Corte Cass., III, n. 111 del 1996, all. 3 agli atti del Comune);
- che quindi assumeva rilevanza anche la sopravvenuta entrata in vigore di nuove norme urbanistiche, preclusive dell’edificazione, non ultimata tempestivamente (cfr. art. 31, comma 11, Legge n. 1150 del 1942 in relazione al Piano dell’Arenile, art. 7.3, all. 4 agli atti del Comune) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 14.09.2010 n. 5944 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn merito all'ammissibilità del rilascio di concessioni o permessi di costruire in deroga, la giurisprudenza amministrativa aveva inizialmente interpretato l'espressione «impianti di interesse pubblico», di cui all'art. 41-quater della l. 17.08.1942 n. 1150 (trasfuso nell'attuale art. 14, T.U. sull'edilizia, approvato con d.P.R. 06.06.2001 n. 380), facendovi rientrare solo gli interventi corrispondenti a compiti assunti direttamente dalla pubblica Amministrazione. Attualmente, peraltro, si ritiene applicabile la stessa norma anche alle (ipotesi) in cui sia offerto un servizio alla collettività, caratterizzato da una pubblica fruibilità.
È stato considerato, infatti, che l'art. 16, l. 06.08.1967 n. 765 prevede la possibilità di esercizio di un potere di deroga alle prescrizioni degli strumenti urbanistici per manufatti sia pubblici (cioè gestiti da enti pubblici) che di interesse pubblico (ossia gestiti da soggetti indifferentemente pubblici o privati, aventi peraltro l'identica missione di soddisfare esigenze della collettività di tipo economico, bancario-assicurativo, culturale, industriale, igienico, religioso o turistico-alberghiero).
In questo nuovo indirizzo vanno ricomprese … anche le strutture gestite da privati in regime di impresa, se rivestono un interesse lato sensu pubblico, quali gli edifici e le opere destinati ad attività economiche di interesse generale, tra cui i «complessi artigianali con processo lavorativo di tipo industriale ed un consistente numero di dipendenti o comunque aventi rilevanza per la realtà economica locale», le quali dunque possono usufruire della deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici generali.

In merito all'ammissibilità del rilascio di concessioni o permessi di costruire in deroga, la giurisprudenza amministrativa aveva inizialmente interpretato l'espressione «impianti di interesse pubblico», di cui all'art. 41-quater della l. 17.08.1942 n. 1150 (trasfuso nell'attuale art. 14, T.U. sull'edilizia, approvato con d.P.R. 06.06.2001 n. 380), facendovi rientrare solo gli interventi corrispondenti a compiti assunti direttamente dalla pubblica Amministrazione. Attualmente, peraltro, si ritiene applicabile la stessa norma anche alle (ipotesi) in cui sia offerto un servizio alla collettività, caratterizzato da una pubblica fruibilità.
È stato considerato, infatti, che l'art. 16, l. 06.08.1967 n. 765 prevede la possibilità di esercizio di un potere di deroga alle prescrizioni degli strumenti urbanistici per manufatti sia pubblici (cioè gestiti da enti pubblici) che di interesse pubblico (ossia gestiti da soggetti indifferentemente pubblici o privati, aventi peraltro l'identica missione di soddisfare esigenze della collettività di tipo economico, bancario-assicurativo, culturale, industriale, igienico, religioso o turistico-alberghiero).
In questo nuovo indirizzo vanno ricomprese … anche le strutture gestite da privati in regime di impresa, se rivestono un interesse lato sensu pubblico, quali gli edifici e le opere destinati ad attività economiche di interesse generale, tra cui i «complessi artigianali con processo lavorativo di tipo industriale ed un consistente numero di dipendenti o comunque aventi rilevanza per la realtà economica locale», le quali dunque possono usufruire della deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici generali
” (TAR Trentino Alto Adige Trento, sez. I, 18.06.2009, n. 194) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 22.07.2010 n. 1821 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’art. 54 del T.U.E.L. (ex art. 38, comma 2, della l. n. 142/1990) attribuisce al Sindaco il potere di emanare ordinanze contingibili ed urgenti in materia di sanità ed igiene sempreché sussistano i presupposti della straordinarietà e dell’urgenza della situazione.
Il potere del Sindaco di emanare ordinanze contingibili ed urgenti presuppone, oltre all’esistenza ed indicazione, nel provvedimento gravato, di una situazione di pericolo, quale ragionevole probabilità che accada un evento dannoso ove la P.A. non intervenga prontamente, anche, o meglio soprattutto, la necessità di provvedere con immediatezza in riferimento a situazioni di carattere eccezionale ed imprevedibile, cui sia impossibile fare fronte con gli strumenti ordinari apprestati dall’ordinamento (dell’impossibilità di fronteggiare la situazione con i rimedi ordinari non si rinviene, nell’ordinanza impugnata, alcuna allegazione, né tantomeno la dimostrazione).
Pertanto, ai sensi degli artt. 50 e 54 T.U.E.L., per giustificare il ricorso allo strumento dell’ordinanza, il collegamento con le esigenze di protezione dell’igiene e della salute pubblica costituisce presupposto necessario ma non sufficiente, qualora non sussistano gli ulteriori particolari requisiti di urgenza.

Questo Tribunale ha già avuto modo di osservare che l’art. 54 del T.U.E.L. (ex art. 38, comma 2, della l. n. 142/1990) attribuisce al Sindaco il potere di emanare ordinanze contingibili ed urgenti in materia di sanità ed igiene sempreché sussistano i presupposti della straordinarietà e dell’urgenza della situazione (TAR Toscana, Sez. II, ord. 06.05.2009, n. 355/2009; cfr. anche TAR Lazio, Roma, Sez. II, 29.03.2004, n. 2922).
Nella vicenda in esame, invece, il riferimento all’urgenza e straordinarietà della situazione è espresso in termini ambigui e contraddittori, da cui si deduce che si tratta di una mera clausola di stile. Sul punto, va rilevato infatti che l’ordinanza gravata:
a) si esprime con formulazione tutt’altro che perspicua in merito agli effetti prodotti dall’intervento posto in essere dalla società ricorrente, in particolare, dalla (re)installazione dell’elettropompa, che “non ha garantito il verificarsi di ulteriori disagi e sversamenti a danno delle proprietà adiacenti”; al riguardo si osserva che, oltre alle improprietà lessicali, l’ordinanza non specifica se, dopo il secondo montaggio dell’elettropompa, si siano ancora verificati degli sversamenti, né quali siano stati questi ulteriori sversamenti;
b) non indica le ragioni di imprevedibilità ed eccezionalità del pericolo, tali da giustificare il ricorso allo strumento ex art. 54 T.U.E.L. (TAR Piemonte, Sez. II, 16.01.2006, n. 88): come questo Tribunale ha già avuto modo di evidenziare (cfr. TAR Toscana, Sez. II, 09.04.2004, n. 1006), il potere del Sindaco di emanare ordinanze contingibili ed urgenti presuppone, oltre all’esistenza ed indicazione, nel provvedimento gravato, di una situazione di pericolo, quale ragionevole probabilità che accada un evento dannoso ove la P.A. non intervenga prontamente, anche, o meglio soprattutto, la necessità di provvedere con immediatezza in riferimento a situazioni di carattere eccezionale ed imprevedibile, cui sia impossibile fare fronte con gli strumenti ordinari apprestati dall’ordinamento (dell’impossibilità di fronteggiare la situazione con i rimedi ordinari non si rinviene, nell’ordinanza impugnata, alcuna allegazione, né tantomeno la dimostrazione).
Pertanto, ai sensi degli artt. 50 e 54 T.U.E.L., per giustificare il ricorso allo strumento dell’ordinanza, il collegamento con le esigenze di protezione dell’igiene e della salute pubblica costituisce presupposto necessario ma non sufficiente, qualora non sussistano gli ulteriori particolari requisiti di urgenza;
c) fa riferimento ad una situazione di potenziale danneggiamento, priva di qualsivoglia carattere di novità, e non ad un nuovo pericolo, o ad un danneggiamento già in atto (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 05.01.2010 n. 4 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’amministrazione non è tenuta a svolgere indagini particolari in presenza della richiesta edificatoria prodotta da un comproprietario.
Al contrario, qualora uno o più comproprietari si attivino per denunciare il proprio dissenso rispetto al rilascio del titolo edificatorio, il Comune deve verificare se, dietro l’istanza di concessione, sia riconoscibile l’effettiva sussistenza della disponibilità del bene oggetto dell’intervento edificatorio e se, più in generale, la situazione di fatto consenta di supporre l’esistenza di un pactum fiduciae intercorrente tra i comproprietari.

È noto, del resto, che, se normalmente l’Amministrazione non è tenuta a svolgere indagini particolari in presenza della richiesta edificatoria prodotta da un comproprietario, al contrario, qualora uno o più comproprietari si attivino per denunciare il proprio dissenso rispetto al rilascio del titolo edificatorio (o quando, comunque, l’esistenza di un titolo di proprietà in comune emerga dagli atti), il Comune deve verificare se, dietro l'istanza di concessione, sia riconoscibile l'effettiva sussistenza della disponibilità del bene oggetto dell'intervento edificatorio (TAR Salerno, sez. II, 05.10.2007, n. 2080) e se, più in generale, la situazione di fatto consenta (come necessario: Cons. Stato, sez. V, 24.09.2003, n. 5445) di supporre l’esistenza di un “pactum fiduciae” intercorrente tra i comproprietari (o, semmai di escludere, all’esito di un effettivo accertamento sul punto, la ventilata esistenza di un dominio in comune). Al qual fine, in definitiva, ciò che non è dato comunque omettere è il coinvolgimento dei soggetti “prima facie” coinvolti dal progettato intervento edificatorio (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 16.12.2009 n. 7921 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non sussiste alcun obbligo per il Comune di dare comunicazione ai proprietari frontisti o vicini dell'avvio del procedimento diretto al rilascio di concessione edilizia, in quanto gli interessi coinvolti dal provvedimento con cui si consente la trasformazione edilizia del territorio sono di tale varietà ed ampiezza da rendere difficilmente individuabili tutti i soggetti che dall'emanazione dell'atto potrebbero ricevere nocumento.
Diversa soluzione deve darsi nei casi in cui l’interesse a contraddire (e, prima ancora, la concreta individuazione di una fondamentale esigenza partecipativa) sia correlata ad una (sia pure non immediatamente acclarabile) situazione di comproprietà, nel qual caso quell’interesse (ed il correlato obbligo di coinvolgimento nel procedimento) risulta, come deve ritenersi nella specie, “in re ipsa”

Con più lungo discorso, se può, in termini generali, condividersi l’assunto per cui “non sussiste alcun obbligo per il Comune di dare comunicazione ai proprietari frontisti o vicini dell'avvio del procedimento diretto al rilascio di concessione edilizia, in quanto gli interessi coinvolti dal provvedimento con cui si consente la trasformazione edilizia del territorio sono di tale varietà ed ampiezza da rendere difficilmente individuabili tutti i soggetti che dall'emanazione dell'atto potrebbero ricevere nocumento” (da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 31.07.2009, n. 4847), diversa soluzione deve darsi nei casi in cui l’interesse a contraddire (e, prima ancora, la concreta individuazione di una fondamentale esigenza partecipativa) sia correlata ad una (sia pure non immediatamente acclarabile) situazione di comproprietà, nel qual caso quell’interesse (ed il correlato obbligo di coinvolgimento nel procedimento) risulta, come deve ritenersi nella specie, “in re ipsa” (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 16.12.2009 n. 7921 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le norme che disciplinano la possibilità di rilasciare concessioni edilizie in deroga ai piani regolatori ed alle norme di regolamento edilizio non possono travolgere le esigenze di ordine urbanistico a suo tempo recepite nel piano, con la conseguenza che non possono essere oggetto di deroga le destinazioni di zona che attengono all’impostazione stessa del piano regolatore generale e ne costituiscono le norme direttrici.
Invero, anzitutto gli artt. 41-quater L. n. 1150/1942 e 3 L. n. 1357/1957, che disciplinano la possibilità di rilasciare concessioni edilizie in deroga ai piani regolatori ed alle norme di regolamento edilizio, vanno interpretati restrittivamente, nel senso che tali deroghe non possono travolgere le esigenze di ordine urbanistico a suo tempo recepite nel piano, con la conseguenza che non possono essere oggetto di deroga le destinazioni di zona che attengono all’impostazione stessa del piano regolatore generale e ne costituiscono le norme direttrici (cfr. Cons. Stato, IV Sez. 02.04.1996 n. 439; 01.10.1007 n. 1057) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.11.2009 n. 5847 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACirca l’efficacia temporale e decadenza del permesso di costruire (art. 15 T.U. n. 380 del 2001) è stato affermato in giurisprudenza che la perdita di efficacia della concessione di costruzione edilizia per mancato inizio od ultimazione dei lavori nei termini prescritti deve essere accertata e dichiarata con formale pronuncia di decadenza da parte dell’amministrazione, anche ai fini del necessario contraddittorio col privato in ordine all’esistenza dei presupposti di fatto e di diritto che possano giustificare la pronuncia stessa.
Essa, invero, costituisce atto che presuppone il mero decorso del tempo, eccettuati i casi di sospensione o proroga connessi a factum principis, forza maggiore o cause espressamente contemplate dalla legge, che deve intervenire per il solo fatto del verificarsi del presupposto di legge, nel caso in cui manchi un espresso atto sindacale di proroga del termine stesso, non potendosi configurare un atto tacito di proroga del termine stesso, pur in presenza delle condizioni di legge per farvi luogo.
E’ stato, altresì, affermato che l’atto di decadenza della concessione di costruzione, per mancato inizio dei lavori nel termine stabilito, non ha carattere dichiarativo, ma costitutivo, comportando esercizio del potere di discrezionalità tecnica, in funzione di un interesse pubblico.

Il Collegio ritiene che la censura svolta al riguardo dall’appellante sia fondata. Invero, circa l’efficacia temporale e decadenza del permesso di costruire (art. 15 T.U. n. 380 del 2001) è stato affermato in giurisprudenza che la perdita di efficacia della concessione di costruzione edilizia per mancato inizio od ultimazione dei lavori nei termini prescritti deve essere accertata e dichiarata con formale pronuncia di decadenza da parte dell’amministrazione, anche ai fini del necessario contraddittorio col privato in ordine all’esistenza dei presupposti di fatto e di diritto che possano giustificare la pronuncia stessa (Cons. Stato, VI Sez., n. 671/2006; V Sez. n. 4954/2006).
Essa, invero, costituisce atto che presuppone il mero decorso del tempo, eccettuati i casi di sospensione o proroga connessi a factum principis, forza maggiore o cause espressamente contemplate dalla legge, che deve intervenire per il solo fatto del verificarsi del presupposto di legge, nel caso in cui manchi un espresso atto sindacale di proroga del termine stesso, non potendosi configurare un atto tacito di proroga del termine stesso, pur in presenza delle condizioni di legge per farvi luogo (Cons. Stato, IV Sez., n. 3196/2006; V Sez. n. 597/2000).
E’ stato, altresì, affermato che l’atto di decadenza della concessione di costruzione, per mancato inizio dei lavori nel termine stabilito, non ha carattere dichiarativo, ma costitutivo, comportando esercizio del potere di discrezionalità tecnica, in funzione di un interesse pubblico (C.G.A. n. 743/2006)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.10.2009 n. 6545 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 31 L. n. 47/1985, legittimato a richiedere la sanatoria è, in via generale, colui che ha titolo a richiedere la concessione o autorizzazione edilizia e, per giurisprudenza consolidata, al fine di richiedere la concessione edilizia, e per contestarne l’eventuale diniego, è sufficiente l’esistenza di un contratto preliminare relativo all’acquisto del terreno, avuto riguardo all’esperibilità della tutela in forma specifica (ai sensi dell’art. 2932 cod. civ.) in caso di inadempimento della controparte.
In via preliminare, va anzitutto chiarito, andando in contrario avviso rispetto a quanto ritenuto dal Tribunale amministrativo, che, ad avviso del Collegio, sussisteva la legittimazione del sig. Maggiolo, all’epoca della presentazione della domanda non ancora proprietario del terreno, a richiedere il titolo edilizio in sanatoria, in quanto, ai sensi dell’art. 31 L. n. 47/1985, legittimato a richiedere la sanatoria è, in via generale, colui che ha titolo a richiedere la concessione o autorizzazione edilizia e, per giurisprudenza consolidata, al fine di richiedere la concessione edilizia, e per contestarne l’eventuale diniego, è sufficiente l’esistenza di un contratto preliminare relativo all’acquisto del terreno, avuto riguardo all’esperibilità della tutela in forma specifica (ai sensi dell’art. 2932 cod. civ.) in caso di inadempimento della controparte (cfr. Cons. Stato, VI Sez., n. 7847/2004).
Nella fattispecie, non è contestato quanto affermato dall’appellante che fra lo stesso e il proprietario del terreno su cui insisteva il manufatto fosse stato stipulato un contratto preliminare e che il terreno fosse da decenni utilizzato dal Maggiolo e che ancora lo fosse al momento della richiesta di condono (30/12/1986); vi aveva fatto seguito nel 2001 il definitivo contratto di acquisto. Il provvedimento di concessione in sanatoria n. 318 del 18/08/2001 risulta, quindi, legittimo in quanto destinatario finale dello stesso è il proprietario del terreno su cui è stato realizzato il manufatto oggetto di sanatoria
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.10.2009 n. 6545 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAQuanto alla problematica della individuazione del soggetto cui il permesso di costruire può essere rilasciato ed, in particolare, la corretta interpretazione dell’articolo 11 del dpr n. 380/2001, la giurisprudenza ha in generale chiarito che la disposizione normativa va intesa nel senso che il soggetto abilitato alla richiesta è non solo il proprietario dell’area , ma anche il titolare di un diritto (avente o meno natura reale) che lo legittimi nei confronti del proprietario medesimo.
Con specifico riferimento, poi, alla posizione del comodatario, essa ha affermato che il titolare di un diritto di comodato è legittimato alla richiesta di titoli edilizi compatibili con l’effettiva disponibilità del bene e con l’entità della trasformazione oggetto della richiesta.
Occorre, dunque, guardare ai contenuti del contratto stipulato dalle parti ed alle facoltà in esso conferite al comodatario, comparando le stesse con il tipo di intervento edilizio che si è richiesto per l’immobile oggetto del rapporto obbligatorio.

La prima ragione di diniego afferma che “il richiedente non risulta titolato poiché dal contratto di comodato d’uso, allegato al progetto, non si evince la possibilità, da parte del comodatario (richiedente), di poter intervenire con opere di così radicale trasformazione”.
La disamina di essa involge la problematica della individuazione del soggetto cui il permesso di costruire può essere rilasciato ed, in particolare, la corretta interpretazione dell’articolo 11 del dpr n. 380/2001, il quale prevede, al primo comma, che “il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo”.
Orbene, con riferimento al fabbricato ubicato in località “Vallone Caprerie”, non si pone alcun problema, considerato che lo stesso è di proprietà della ricorrente, onde sussiste certamente la qualità soggettiva di “proprietario” richiesta dalla norma.
Quanto al fabbricato sito in località “Taverna Bosco”, va, invece evidenziato che la sig.ra Falcone ne è comodataria, giusta scrittura privata del 10-09-1999, registrata il 07-04-2000.
La giurisprudenza ha in generale chiarito che la disposizione normativa va intesa nel senso che il soggetto abilitato alla richiesta è non solo il proprietario dell’area , ma anche il titolare di un diritto (avente o meno natura reale) che lo legittimi nei confronti del proprietario medesimo.
Con specifico riferimento, poi, alla posizione del comodatario, essa ha affermato che il titolare di un diritto di comodato è legittimato alla richiesta di titoli edilizi compatibili con l’effettiva disponibilità del bene e con l’entità della trasformazione oggetto della richiesta (cfr. Cons. Stato, V, 19-09-2008, n. 4518).
Occorre, dunque, guardare ai contenuti del contratto stipulato dalle parti ed alle facoltà in esso conferite al comodatario, comparando le stesse con il tipo di intervento edilizio che si è richiesto per l’immobile oggetto del rapporto obbligatorio.
Rileva il Tribunale che il citato contratto di comodato ha ad oggetto il fabbricato rurale con annessa corte e terreno agricolo (in catasto alla partita 1406, foglio 5, particelle 14, 16 e 17) e prevede, all’articolo 2, che la proprietaria “autorizza il comodatario a effettuare tutte quelle opere che esso ritenesse necessario per l’esercizio di un’azienda agricola, ivi comprese la possibilità di richiedere agevolazioni e finanziamenti a norma delle vigenti leggi”.
La lettura dell’atto evidenzia, dunque, che è data la facoltà al comodatario di effettuare “opere” che siano dallo stesso ritenute necessarie “per l’esercizio di un’azienda agricola”.
Orbene, nel concetto di “opere”, attesa la generalità e la onnicomprensività della previsione (“tutte quelle opere"), rientrano certamente quelle di carattere edilizio ed inoltre gli interventi che sono previsti per il fabbricato Taverna del Bosco risultano certamente collegati e funzionali all’esercizio dell’azienda agricola, atteso che l’esame degli atti progettuali ad esso relativi evidenzia (v. pure la relazione giurata di parte in atti) che in tale fabbricato non sono previsti incrementi dei volumi residenziali esistenti ma unicamente degli annessi agricoli, con conseguente sussistenza del nesso funzionale dell’”esercizio dell’azienda agricola”.
Da quanto sopra, dunque, emerge che il primo motivo di diniego è certamente illegittimo, non risultando, in capo alla sig.ra Falcone, la carenza di titolo ritenuta dal Comune e riveniente dai contenuti del contratto di comodato (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 07.08.2009 n. 4254 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento di concessione edilizia in deroga alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, essendo espressione di un potere di natura eccezionale, necessita di una congrua e adeguata motivazione.
Ai sensi della vigente normativa in materia urbanistica della provincia di Trento il rilascio della concessione edilizia in deroga è comunque limitato ai casi eccezionali di edifici e impianti pubblici o di interesse pubblico previsti dall’art. 16 legge 06.08.1967 n. 765, fermo restando ovviamente l’onere di una congrua e specifica motivazione sulla sussistenza e la prevalenza di tale interesse.
Il rilascio di una concessione edilizia in deroga alle previsioni dello strumento urbanistico costituisce per sua stessa natura un provvedimento eccezionale e di contenuto singolare, cioè assunto per soddisfare specifici interessi pubblici sulla base di valutazioni contingenti e dotate di un carattere di eccezionalità, che giustificano, solo nella situazione concreta, la inosservanza consentita delle prescrizioni dettate dagli atti di programmazione.
In linea di principio quindi il potere derogatorio non è utilizzabile per soddisfare esigenze strutturali miranti a nuovi assetti urbanistici, che male si prestano a interventi episodici e saltuari e che giustificherebbero invece la adozione di specifiche varianti allo strumento urbanistico, le sole rispondenti alla definizione di strumenti di governo del territorio e che assicurano grazie al loro carattere di generalità tipico degli atti pianificatori, la razionalità e la imparzialità delle scelte rispetto all’insieme degli interessi, pubblici e privati, coinvolti in un tale disegno innovativo.
La concessione edilizia in deroga può essere legittimamente emanata se sussiste un concreto e specifico interesse pubblico, di natura e qualità prevalenti rispetto agli interessi che hanno trovato considerazione e riconoscimento negli atti di pianificazione territoriale, ossia conducendo una adeguata valutazione comparativa fra le eccezionali ragioni che impongono la deroga e la situazione di fatto e di diritto sulla quale il relativo provvedimento verrebbe a incidere, anche a tutela del legittimo affidamento riposto dai privati sull’assetto urbanistico derivante dalle prescrizioni cui essi stessi hanno prestato osservanza e che nel caso concreto verrebbero invece disapplicate.
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Con riguardo alla delimitazione della concessione in deroga tale potere eccezionale sussiste con riguardo alle strutture alberghiere, da ritenersi di interesse pubblico per la sua destinazione all’interesse tipico perseguito dalla pubblica amministrazione, perché si tratta di impianti posti al servizio della collettività o comunque di opere che, soprattutto se poste in località di spiccata vocazione turistica, risultano di pubblica utilità.
Gli interessi coinvolti nella gestione del servizio alberghiero in genere, sebbene sia esercitata da soggetti privati, hanno carattere pubblicistico in ragione della generalizzata fruibilità collettiva e della connessione di detto servizio con gli interessi della sicurezza e della salute pubblica, nonché dello sviluppo turistico; pertanto è legittimo il nulla osta al rilascio di concessione edilizia in deroga al piano regolatore per l’ampliamento di una struttura alberghiera.
A convincere della legittimità della concessione in deroga e del suo utilizzo legittimo in concreto vale anche la considerazione della natura peculiare di tale strumento.
Alla concessione in deroga, che condivide con la normale concessione edilizia la funzione di controllo e di mera attuazione a mezzo di verifica di conformità, non è estranea anche una funzione di tipo conformativo, tipica degli strumenti di pianificazione.
La concessione in deroga, infatti, si differenzia radicalmente, sia dal punto di vista procedimentale che da quello sostanziale, rispetto alla normale concessione edilizia, in quanto con essa si consente alla amministrazione di esercitare un potere ampiamente discrezionale al fine di perseguire un interesse pubblico ritenuto preminente, potere che si concretizza nella disapplicazione di una norma a una fattispecie concreta, che pure presenta tutti gli elementi per essere assoggettata alla disciplina da essa dettata e che si concreta in una vera decisione urbanistica.
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Il rilascio della deroga non avviene solo a mezzo di atto del sindaco o delle strutture comunali (ché si limiterebbe a una verifica di conformità), ma richiede, diversamente dalle altre concessioni, la deliberazione del Consiglio comunale (cioè la medesima autorità o organo competente alla adozione del p.r.g.) e della Regione (nella specie Provincia Autonoma) che valuta la compatibilità dell’intervento edilizio con l’area circostante e gli interessi con riguardo ad essa emersi in sede di pianificazione (similmente quindi ad un procedimento di piano), conferendo una potenzialità edificatoria, sia pure non definitiva ma solo provvisoria.
La concessione in deroga si caratterizza quindi come una vera decisione (di micro-pianificazione) relativa a una specifica area, di solito non particolarmente estesa e che, diversamente dalle varianti speciali, non ha carattere definitivo. Proprio perché in deroga, ossia disposizione di carattere speciale rispetto alla normativa generale, venuta meno l’opera per la quale è stata rilasciata la concessione (similmente alla proprietà separata superficiaria, che si estingue al venire meno dell’opera mentre ciò non avviene in caso di diritto di superficie), riemerge la norma generale e con essa le originarie prescrizioni previste dal prg, salva eventuale altra concessione in deroga.
La concessione in deroga è quindi istituto che, unitamente alle varianti ma in senso parzialmente diverso da esse, consente di adottare decisioni urbanistiche, superando la eccessiva staticità del sistema pianificatorio che si porrebbe quasi in modo atemporale, suscettibile di attuazioni e integrazioni, ma non di modifiche se non in casi eccezionali.
Certo, la derogabilità è possibile rispetto a quel gruppo di norme e previsioni degli strumenti urbanistici che attengono alla disciplina urbanistica indifferenziata, concernenti ad esempio gli indici di fabbricabilità, le altezze, la tipologia edilizia; altre norme, come quelle relative alle ubicazioni specifiche di edifici, impianti e servizi pubblici, allineamenti stradali, di destinazione, di vincoli a verde pubblico e privato, dovrebbero essere derogate soltanto a mezzo di apposite varianti al piano regolatore generale.

Questo Consesso, con precedenti riferiti proprio a vicende relative al medesimo comune di Pinzolo, ha precisato come il provvedimento di concessione edilizia in deroga alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, essendo espressione di un potere di natura eccezionale, necessiti di una congrua e adeguata motivazione (C. Stato, IV, 03.02.1981, n. 128).
Ai sensi della vigente normativa in materia urbanistica della provincia di Trento il rilascio della concessione edilizia in deroga è comunque limitato ai casi eccezionali di edifici e impianti pubblici o di interesse pubblico previsti dall’art. 16 legge 06.08.1967 n. 765, fermo restando ovviamente l’onere di una congrua e specifica motivazione sulla sussistenza e la prevalenza di tale interesse (in tal senso anche Cons. Stato, IV, 06.10.1983, n. 700).
Proprio in considerazione della eccezionalità dell’esercizio del potere di deroga la prima sentenza di primo grado aveva ritenuto insufficiente la motivazione della eccezionalità, in quanto il rilascio di una concessione edilizia in deroga alle previsioni dello strumento urbanistico costituisce per sua stessa natura un provvedimento eccezionale e di contenuto singolare, cioè assunto per soddisfare specifici interessi pubblici sulla base di valutazioni contingenti e dotate di un carattere di eccezionalità, che giustificano, solo nella situazione concreta, la inosservanza consentita delle prescrizioni dettate dagli atti di programmazione.
In linea di principio quindi il potere derogatorio non è utilizzabile per soddisfare esigenze strutturali miranti a nuovi assetti urbanistici, che male si prestano a interventi episodici e saltuari e che giustificherebbero invece la adozione di specifiche varianti allo strumento urbanistico, le sole rispondenti alla definizione di strumenti di governo del territorio e che assicurano grazie al loro carattere di generalità tipico degli atti pianificatori, la razionalità e la imparzialità delle scelte rispetto all’insieme degli interessi, pubblici e privati, coinvolti in un tale disegno innovativo (in tal senso, Consiglio di Stato, V, 03.02.1997, n. 132, sempre con riferimento a vicenda riguardante il comune di Pinzolo).
Nella specie, come rilevato anche dal primo giudice nella sentenza n. 148 del 2004, l’amministrazione ha successivamente meglio dato conto delle sue esigenze, con dati di fatto più puntuali, calati nella realtà territoriale, specificando anche la impossibilità a dare corso alla concreta deroga in regime ordinario a mezzo di varianti pianificatorie.
Resta pertanto pienamente rispettato il principio secondo il quale la concessione edilizia in deroga può essere legittimamente emanata se sussiste un concreto e specifico interesse pubblico, di natura e qualità prevalenti rispetto agli interessi che hanno trovato considerazione e riconoscimento negli atti di pianificazione territoriale, ossia conducendo una adeguata valutazione comparativa fra le eccezionali ragioni che impongono la deroga e la situazione di fatto e di diritto sulla quale il relativo provvedimento verrebbe a incidere, anche a tutela del legittimo affidamento riposto dai privati sull’assetto urbanistico derivante dalle prescrizioni cui essi stessi hanno prestato osservanza e che nel caso concreto verrebbero invece disapplicate.
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Con riguardo alla delimitazione della concessione in deroga tale potere eccezionale sussiste con riguardo alle strutture alberghiere, da ritenersi di interesse pubblico per la sua destinazione all’interesse tipico perseguito dalla pubblica amministrazione, perché si tratta di impianti posti al servizio della collettività o comunque di opere che, soprattutto se poste in località di spiccata vocazione turistica, risultano di pubblica utilità.
Gli interessi coinvolti nella gestione del servizio alberghiero in genere, sebbene sia esercitata da soggetti privati, hanno carattere pubblicistico in ragione della generalizzata fruibilità collettiva e della connessione di detto servizio con gli interessi della sicurezza e della salute pubblica, nonché dello sviluppo turistico; pertanto è legittimo il nulla osta al rilascio di concessione edilizia in deroga al piano regolatore per l’ampliamento di una struttura alberghiera (in tal senso Cons. Stato, IV, 29.10.2002, n. 5913).
A convincere della legittimità della concessione in deroga e del suo utilizzo legittimo in concreto vale anche la considerazione della natura peculiare di tale strumento.
Alla concessione in deroga, che condivide con la normale concessione edilizia la funzione di controllo e di mera attuazione a mezzo di verifica di conformità, non è estranea anche una funzione di tipo conformativo, tipica degli strumenti di pianificazione.
La concessione in deroga, infatti, si differenzia radicalmente, sia dal punto di vista procedimentale che da quello sostanziale, rispetto alla normale concessione edilizia, in quanto con essa si consente alla amministrazione di esercitare un potere ampiamente discrezionale al fine di perseguire un interesse pubblico ritenuto preminente, potere che si concretizza nella disapplicazione di una norma a una fattispecie concreta, che pure presenta tutti gli elementi per essere assoggettata alla disciplina da essa dettata e che si concreta in una vera decisione urbanistica.
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Il rilascio della deroga non avviene solo a mezzo di atto del sindaco o delle strutture comunali (ché si limiterebbe a una verifica di conformità), ma richiede, diversamente dalle altre concessioni, la deliberazione del Consiglio comunale (cioè la medesima autorità o organo competente alla adozione del p.r.g.) e della Regione (nella specie Provincia Autonoma) che valuta la compatibilità dell’intervento edilizio con l’area circostante e gli interessi con riguardo ad essa emersi in sede di pianificazione (similmente quindi ad un procedimento di piano), conferendo una potenzialità edificatoria, sia pure non definitiva ma solo provvisoria.
La concessione in deroga si caratterizza quindi come una vera decisione (di micro-pianificazione) relativa a una specifica area, di solito non particolarmente estesa e che, diversamente dalle varianti speciali, non ha carattere definitivo. Proprio perché in deroga, ossia disposizione di carattere speciale rispetto alla normativa generale, venuta meno l’opera per la quale è stata rilasciata la concessione (similmente alla proprietà separata superficiaria, che si estingue al venire meno dell’opera mentre ciò non avviene in caso di diritto di superficie), riemerge la norma generale e con essa le originarie prescrizioni previste dal prg, salva eventuale altra concessione in deroga.
La concessione in deroga è quindi istituto che, unitamente alle varianti ma in senso parzialmente diverso da esse, consente di adottare decisioni urbanistiche, superando la eccessiva staticità del sistema pianificatorio che si porrebbe quasi in modo atemporale, suscettibile di attuazioni e integrazioni, ma non di modifiche se non in casi eccezionali.
Certo, la derogabilità è possibile rispetto a quel gruppo di norme e previsioni degli strumenti urbanistici che attengono alla disciplina urbanistica indifferenziata, concernenti ad esempio gli indici di fabbricabilità, le altezze, la tipologia edilizia; altre norme, come quelle relative alle ubicazioni specifiche di edifici, impianti e servizi pubblici, allineamenti stradali, di destinazione, di vincoli a verde pubblico e privato, dovrebbero essere derogate soltanto a mezzo di apposite varianti al piano regolatore generale
(Consiglio di Stato, Sezione IV, sentenza 23.07.2009 n. 4664 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa disposizione comunale che riserva al Sindaco la “facoltà di rilasciare concessioni per costruzioni difformi dalla presente norma quando si presentino motivi di utilità pubblica, di interesse pubblico o di salvaguardia paesaggistica” sostanzia che il pianificatore comunale ha attribuito alla concessione edilizia in deroga una latitudine di significato più ampia rispetto a quanto imposto dalla normativa sovraordinata .
Il riferimento ai motivi di interesse pubblico, di pubblica utilità, di salvaguardia paesaggistica amplia, almeno potenzialmente, la gamma dei possibili interventi edilizi in deroga rispetto alla opzione effettuata dal legislatore ordinario e da quello regionale.
La legislazione primaria, coerentemente alla natura eccezionale della deroga ha, invece, previsto una tipizzazione oggettiva delle costruzioni da assentire in deroga.
Ciò significa che l’area di operatività della concessione edilizia in deroga, così come ricostruita alla stregua delle norme tecniche di attuazione dello strumento urbanistico in discorso, amplia eccessivamente lo spazio di manovra dell’autorità urbanistica.

L’art 41-quater della Legge Urbanistica stabilisce che “i poteri di deroga previsti da norme di piano regolatore e di regolamento edilizio possono essere esercitati limitatamente ai casi di edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico e sempre con l’osservanza dell’art. 3 della legge 21.12.1955, n. 1537”.
A sua volta, l’art. 30 della legge regionale Puglia 31.05.1980, n. 56 replica pedissequamente il contenuto della disposizione statale sopra citata legittimando il ricorso alla deroga nei soli casi di edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico.
L’art. 16 delle norme tecniche di attuazione del piano di fabbricazione vigente in Castrignano del Capo elencato gli interventi edilizi ordinari consentiti nella zona B3 prescelta per la localizzazione del complesso edilizio di cui si discute.
La stessa disposizione riserva al Sindaco la “facoltà di rilasciare concessioni per costruzioni difformi dalla presente norma quando si presentino motivi di utilità pubblica, di interesse pubblico o di salvaguardia paesaggistica”.
Il Collegio osserva che, alla luce di questo assetto normativo, il pianificatore comunale ha attribuito alla concessione edilizia in deroga una latitudine di significato più ampia rispetto a quanto imposto dalla normativa sovraordinata .
Il riferimento ai motivi di interesse pubblico, di pubblica utilità, di salvaguardia paesaggistica amplia, almeno potenzialmente, la gamma dei possibili interventi edilizi in deroga rispetto alla opzione effettuata dal legislatore ordinario e da quello regionale.
La legislazione primaria, coerentemente alla natura eccezionale della deroga ha, invece, previsto una tipizzazione oggettiva delle costruzioni da assentire in deroga.
Ciò significa che l’area di operatività della concessione edilizia in deroga, così come ricostruita alla stregua delle norme tecniche di attuazione dello strumento urbanistico in discorso, amplia eccessivamente lo spazio di manovra dell’autorità urbanistica.
Né può condividersi la tesi proposta dalla difesa della amministrazione civica resistente secondo la quale la deroga di cui si parla ha una sua autonoma valenza nel sistema e non ha punti di contatto con la normativa sovraordinata.
La tesi collide con il chiaro dettato della normativa primaria citata, e segnatamente con la lettera dell’art. 41-quater Legge 1150/1942 che delimita proprio lo spazio applicativo dei “poteri di deroga previsti da norme di piano regolatore”.
Da tanto deriva l’esigenza di ricostruire sistematicamente la deroga utilizzando una esegesi restrittiva della casistica di interventi costruttivi suscettibili di approvazione.
Invero, la sostanziale modifica dell’assetto urbanistico che deriva dalla approvazione di un intervento edilizio difforme da quanto si ritiene assentibile di norma nella zona esige la piena riconducibilità del progetto da approvare all’area applicativa della deroga, in considerazione del carattere eccezionale dell’istituto.
Nel caso sottoposto all’esame del Collegio, la concessione ad edificare richiama, sotto il profilo descrittivo, il progetto edilizio presentato dalla controinteressata, precedentemente approvato dal Consiglio Comunale al dichiarato fine di realizzare la “riqualificazione di Piazza Savoia a suffragio del conseguimento di un pubblico interesse quale contropartita per l’ammissione della deroga” .
Il Collegio esprime, a tal riguardo, l’avviso che l’obiettivo della riqualificazione della piazza cittadina, (ritenuta tradizionale polo commerciale della Marina di Leuca) perseguito attraverso la realizzazione di cinque locali commerciali per porre rimedio al degrado urbanistico di edifici esistenti possa essere raggiunto, non già attraverso il rilascio di una concessione in deroga , quanto in regime di recupero dell’esistente, ai sensi dello stesso art. 16 nta.
Quest’ultima disposizione stabilisce, infatti, che in zona B3 sono consentite, tra l’altro, “eventuali demolizioni e ricostruzioni di edifici esistenti attraverso la redazione di un progetto plano volumetrico di zona che indichi i modi e i tempi dell’intervento di ristrutturazione”.
La riqualificazione urbanistica di un sito costituisce, del resto, obiettivo ordinario di governo del territorio comunale che non giustifica l’uso di uno strumento derogatorio quale quello evocato dalla difesa comunale e della contro interessata.
A tanto deve aggiungersi che il complesso edilizio approvato con la delibera consiliare impugnata include anche la realizzazione di civili abitazioni al primo piano .
Un programma edificatorio di questa natura, che appare connotato dal perseguimento di un preponderante interesse di marca privatistica insito nella realizzazione di immobili ad uso privato risulta incompatibile con la finalità pubblicistica da soddisfare, secondo la normativa tecnica esaminata, per il rilascio di una concessione in deroga .
Ne è prova la anomala compensazione che si è ritenuto di poter effettuare, in sede di rilascio dell’assenso edilizio, tra l’importo degli oneri concessori e quello delle “opere pubbliche“ che il privato si è impegnato ad eseguire, in violazione del principio di onerosità del titolo concessorio, consacrato dall’art. 3 della legge Bucalossi 10/1977.
La concessione edilizia impugnata risente, pertanto, delle violazioni che inficiano la presupposta delibera di Consiglio Comunale e va annullata anche per vizio proprio, per quanto su ricordato (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 09.07.2009 n. 1806 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe indicazioni grafiche contenute nelle planimetrie di uno strumento urbanistico hanno carattere precettivo e rappresentano un modo di per sé valido ed efficace di imporre vincoli e destinazioni di zona in sede di pianificazione urbanistica; esse, normalmente, vanno lette alla luce e nei limiti delle norme contenute nello stesso strumento, con la conseguenza che un problema di prevalenza delle norme rispetto alle predette indicazioni grafiche può porsi solo in presenza di un contrasto insanabile.
Costituisce del resto principio consolidato, secondo la giurisprudenza, che le indicazioni grafiche contenute nelle planimetrie di uno strumento urbanistico hanno carattere precettivo e rappresentano un modo di per sé valido ed efficace di imporre vincoli e destinazioni di zona in sede di pianificazione urbanistica; esse, normalmente, vanno lette alla luce e nei limiti delle norme contenute nello stesso strumento, con la conseguenza che un problema di prevalenza delle norme rispetto alle predette indicazioni grafiche può porsi solo in presenza di un contrasto insanabile (così, tra molte, Cons. Stato, sez. IV, 05.06.1998 n. 917; Id., sez. IV, 12.06.2007 n. 3081; Id., 03.04.2009 n. 2110)
(TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 08.07.2009 n. 1792 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa decisione di ridurre l’altezza massima degli edifici, a fronte di un consistete aumento della cubatura realizzabile, costituisce espressione della discrezionalità che deve senza dubbio riconoscersi al Consiglio comunale, in sede di approvazione delle concessioni edilizie per la realizzazione di opere di interesse pubblico, in deroga allo strumento urbanistico, rispetto alla quale non può invocarsi l’estensione del sindacato giurisdizionale oltre i limiti della manifesta irragionevolezza o contraddittorietà, che nella specie non sussiste.
La decisione di ridurre l’altezza massima degli edifici, a fronte di un consistete aumento della cubatura realizzabile, è stata infatti congruamente motivata nel corso della discussione (cfr. l’intervento del Sindaco, riportato a pag. 21 del verbale della seduta del 10.11.1999) e costituisce espressione della discrezionalità che deve senza dubbio riconoscersi al Consiglio comunale, in sede di approvazione delle concessioni edilizie per la realizzazione di opere di interesse pubblico, in deroga allo strumento urbanistico, rispetto alla quale non può invocarsi l’estensione del sindacato giurisdizionale oltre i limiti della manifesta irragionevolezza o contraddittorietà, che nella specie non sussiste (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 08.07.2009 n. 1792 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’iter previsto dall’art. 41-quater della l. n. 1150/1942 (ora art. 14 DPR 380/2001) prevede, come atto terminale del procedimento azionato dall’istante, la concessione edilizia (ora permesso di costruire) in deroga, che è accordata o negata previa deliberazione del Consiglio Comunale. Quest’ultima si configura, quindi, come atto interno del procedimento, non immediatamente lesivo ed impugnabile solo congiuntamente all’atto finale, una volta che questo sia stato emanato.
Tale deliberazione preliminare costituisce, quindi, un elemento necessario del procedimento amministrativo destinato a sfociare nel rilascio o diniego della concessione in deroga, con la conseguenza che la sua assenza vizia il procedimento stesso .
La necessità della pronuncia del Consiglio Comunale, sostenuta dalla giurisprudenza, pone in rilievo il dato che la determinazione negativa del Consiglio sulla deroga precluda il prosieguo del procedimento di concessione edilizia in ordine alla deroga stessa, specificando che, a norma dell’art. 41-quater cit., è illegittimo il rilascio di una concessione edilizia in deroga quando la deroga non consegua a deliberazione del Consiglio Comunale.
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A differenza degli altri titoli edilizi, l’assenso in deroga presenta profili marcatamente discrezionali in ordine all’opportunità del rilascio, talché l’esatta individuazione della specifica finalità avuta di mira con la deroga è un elemento aggiuntivo, ma decisamente essenziale, del relativo provvedimento, tanto da risultare talora finanche consacrato in atti convenzionali ad hoc, accessivi al provvedimento autorizzativo, conclusi tra il richiedente e l’Amministrazione procedente.
Il permesso di costruire in deroga consiste, invero, al pari dell’omologa “vecchia” concessione edilizia, in una disciplina dell’uso del territorio che, sebbene puntuale (ossia limitata al singolo intervento), esorbita dall’ordinario regime dei titoli costruttivi poiché spezza l’uniformità giuridica delle regole normalmente applicate nella zona urbanistica di riferimento. L’esercizio del relativo potere può quindi giustificarsi soltanto in vista della soddisfazione di esigenze straordinarie rispetto agli interessi primari tutelati dalla disciplina urbanistica generale. Si comprende allora perché l’esatta perimetrazione dell’ambito della deroga rappresenti, ancor oggi come in passato, l’aspetto di maggiore problematicità.
Al riguardo il Ministero dei lavori pubblici ha offerto ai comuni, in più occasioni ed in tempi diversi, alcuni criteri interpretativi ai fini del corretto esercizio del potere in questione, al duplice scopo di dare lumi alle Amministrazioni locali e di impedirne le prevedibili distonie applicative.
E’ stata dapprima emanata la circolare dell'01.03.1963, n. 518, recante «Istruzioni per l’applicazione dell’art. 3 delle legge 21.12.1955 n. 1357. Esercizio dei poteri comunali di deroga alle norme di regolamento edilizio e di attuazione dei piani regolatori», che, al punto 2, dopo aver sottolineato, nell’impossibilità di esporre una precisa casistica, l’esigenza di verificare, caso per caso, l’esistenza delle condizioni di fatto per l’assenso alla deroga, puntualizzava che gli edifici di interesse pubblico fossero tutti quelli che, pur non costruiti da enti pubblici, presentassero comunque un «chiaro e diretto interesse pubblico».
Venne in seguito diramata la circolare Min. LL.PP., Direzione Generale dell’Urbanistica del 28.10.1967, n. 3210, contenente le istruzioni per l’applicazione della legge-ponte che, al capo 12, dilatò il concetto di “interesse pubblico”. Nell’opinione ministeriale dovevano intendersi come edifici ed impianti pubblici, quelli per i quali ricorressero le due condizioni dell’appartenenza ad enti pubblici (requisito soggettivo) e della destinazione a finalità di carattere pubblico (requisito oggettivo); mentre erano considerati edifici ed impianti di interesse pubblico, quelli oggettivamente destinati a finalità di carattere generale (di natura economica, culturale, industriale, igienica, religiosa, ecc.), a nulla rilevando il profilo soggettivo della relativa titolarità giuridica e, quindi, «indipendentemente dalla qualità dei soggetti che li realizzano».
Alla stregua di siffatta distinzione vennero esemplificativamente classificate come pubbliche le sedi degli uffici pubblici, le scuole, le caserme; e di interesse pubblico molti altri beni immobili, di proprietà pubblica o privata, quali i conventi, i poliambulatori, gli alberghi, gli impianti turistici, le biblioteche, i teatri ed i silos portuali.
Infine merita menzione la successiva circolare 25.02.1970, n. 25/M che, al punto 3, rifacendosi espressamente ad un parere reso dal Consiglio di Stato, ebbe a valorizzare ampiamente il concetto di interesse pubblico, evidenziando che l’individuazione di esso «…non può essere effettuata in base a criteri generali ed astratti né è suscettibile di essere precisata in ipotesi tassative, ma può emergere esclusivamente dall’esame concreto delle singole fattispecie … (L’interesse pubblico) … va inteso nella sua accezione tecnico-giuridica di interesse tipico, il cui soddisfacimento e la cui tutela sono assunti dalla P.A.; quindi non nel senso lato di interesse collettivo o generale, bensì in quello specifico di interesse qualificato dalla sua rispondenza a fini perseguiti dall’Amministrazione stessa».
Si è così affermato, in numerose decisioni, che per l’individuazione dei fabbricati suscettibili di derogare alle disposizioni edilizie non fosse tanto rilevante la qualità pubblica o privata dei soggetti esecutori, ma che occorresse valutare, sotto il profilo obiettivo, l’effettiva ricorrenza di un nesso tra la destinazione dell’edificio ed un interesse tipico perseguito dalla Pubblica Amministrazione, con specifico riferimento alla situazione del singolo immobile.
Si è prodotto così l’effetto di un ampliamento del campo di applicazione, esteso fino al punto di comprendere i tralicci per gli impianti televisivi «… in ragione del carattere di preminente interesse generale della diffusione di programmi radiofonici o televisivi … riconosciuto dall’art. 1 della legge n. 223 del 1990…» o, ancora, gli edifici destinati all’ampliamento di una sede consolare di uno Stato estero e, perfino, un impianto per il tiro a volo,o le grandi strutture commerciali di vendita.
Il nuovo testo della norma, come recepito nell’art. 14 DPR 380/2001, non richiede più che i poteri di deroga siano espressamente «previsti da norme di piano regolatore e di regolamento edilizio».
L’eliminazione di tale presupposto comporta un’apprezzabile attenuazione della tassatività dei casi in cui è consentito ricorrere all’istituto. Per il resto la norma, al pari della disciplina abrogata, limita la possibilità di rilasciare titoli edilizi in deroga per la sola realizzazione di edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico.
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Un’altra questione controversa concerne l’esatta portata dell’istituto circa l’individuazione delle norme suscettibili di deroga.
Con riguardo alla normativa statale, si sono manifestati due differenti orientamenti: da un lato, vi era chi riteneva derogabile qualunque previsione di piano, ivi comprese le destinazioni urbanistiche di zona; dall’altro, la giurisprudenza amministrativa assolutamente prevalente negava siffatta possibilità ed, anzi, tendeva ad escludere che attraverso la concessione in deroga si potesse consentire la realizzazione di volumi maggiori di quelli autorizzabili o l’inosservanza degli standard di altezza, distanza e densità edilizia fissati dal d.m. 02.04.1968, n. 444; questi ultimi, in particolare, in quanto ritenuti funzionali alla superiore salvaguardia di esigenze di carattere igienico sanitarie collegate al diritto alla buona qualità della vita di tutti i cittadini, erano considerati come un limite inderogabile anche per l’autonomia regolamentare degli enti locali.
Si opinava inoltre che l’insuperabilità delle norme fissate dal d.m. cit. discendesse dal principio dell’inderogabilità delle norme primarie: muovendo dal presupposto che il d.m. n. 1444/1968 era stato emanato in attuazione dell’art. 41-quinquies l. urb., si pensava che una deroga al primo si concretasse anche in un’inammissibile deroga al secondo.
In tal senso, del resto, si era espresso in epoca risalente il medesimo Ministero dei lavori pubblici che, con la circolare del 28.02.1956, n. 847, aveva suggerito ai Comuni (capo III, punto 2), per evitare che l’esercizio dei poteri derogatori aggravasse la densità fabbricativa di una zona o ingenerasse inconvenienti di natura igienica o di traffico, l’adozione del criterio del c.d. “compenso dei volumi” nel caso di licenza rilasciata in deroga alle altezze o ai distacchi o a qualsiasi altra misura prevista dalla locale normativa urbanistico- edilizia. In altre parole, per evitare lo sviluppo di un volume edilizio complessivamente maggiore di quello astrattamente risultante dalla corrente applicazione delle norme edilizie della zona di insistenza, le Amministrazioni avrebbero dovuto far luogo a congrue e contemporanee riduzioni di altri elementi costruttivi quali la superficie occupata o i ritiri di fronte.
La giurisprudenza ha sempre sostenuto, coerentemente con un’esegesi restrittiva dell’art. 41-quater l.urb., che le deroghe previste nelle singole concessioni non potessero mai travolgere le direttive di ordine urbanistico stabilite nel P.R.G., non potendo configurare una variante puntuale alla pianificazione, e che, pertanto, non fossero derogabili le destinazioni di zona ivi previste.
Con il nuovo testo dell’art. 14 DPR 380/2001, commi 1 e 3, si sono fissati dei “paletti” invalicabili al possibile oggetto della deroga. In particolare, il permesso di costruire non può essere rilasciato in violazione:
- delle disposizioni contenute nel d.lg. 29.10.1999, n. 490, recante il testo unico delle disposizioni in materia di beni culturali ed ambientali; (ora d.lg. 22.01.2004, n. 41);
- delle altre «normative di settore» aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia;
- delle norme igieniche, sanitarie e di sicurezza, se non limitatamente agli standard di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati di cui alle norme di attuazione degli strumenti urbanistici generali ed esecutivi;
- delle disposizioni di cui agli artt. 7, 8 e 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444.
Dall’insieme delle esclusioni alla deroga emerge il quadro di un complessivo ridimensionamento rispetto al passato della “eccezionalità” dell’istituto.
Il Legislatore si è premurato di indicare, in particolare, quali siano le norme degli strumenti urbanistici (ivi compresi quelli esecutivi) derogabili: a questo novero non appartengono quelle che abbiano natura igienica, sanitaria o di sicurezza, ma esclusivamente le norme di attuazione che fissino limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza fra i fabbricati. Tuttavia il successivo capoverso chiarisce che la deroga non può comunque riguardare gli artt. 7, 8 e 9 del d.m. n. 1444/1968.
Pertanto, ancorché l’aspetto de quo non investa l’esame del Tribunale che nella specie deve scrutinare la legittimità della revoca alla stregua delle motivazioni per le quali la stessa è stata disposta, non appare superfluo rilevare che in sede di emissione del titolo in deroga, dovrà compiersi da parte dell’amministrazione una attenta valutazione della compatibilità della deroga richiesta con le esclusioni indicate nella disposizione normativa.
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Infine, e per quanto qui interessa, si è posto anche il problema della ammissibilità di una deroga in sanatoria, risolvendolo positivamente. L’emersione del principio si ebbe in occasione delle note vicende del «Palatrussardi» di Milano. La realizzazione dell’edificio, destinata a sopperire all’inagibilità del Palazzo dello Sport di Milano danneggiato dagli agenti atmosferici, fu originariamente assentita con due autorizzazioni provvisorie per strutture mobili. Tali autorizzazioni vennero però successivamente annullate dal TAR Lombardia in considerazione della loro ritenuta inadeguatezza giuridica, trattandosi di una tensostruttura di dimensioni notevoli, costruita in metallo e cemento armato.
Per legittimare l’esistente fu così concessa una deroga “in sanatoria”, previo nulla osta regionale. In relazione al rilascio di quest’ultimo atto il contenzioso è stato definito dalla decisione del Consiglio di Stato, sez. IV, 01.10.1997, n. 1057; con tale pronuncia si è stabilito che la costruzione in oggetto si inseriva nell’esercizio delle funzioni amministrative comunali di promozione di attività ricreative e sportive ex art. 60, lett. a), D.P.R. n. 616/1977 e che, pertanto, rientrava nel novero degli edifici per i quali poteva considerasi ammesso il rilascio di concessioni in deroga.
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La valutazione del Consiglio Comunale in ordine alla possibilità di derogare ai parametri dello strumento urbanistico, ha carattere di valutazione discrezionale, e l’amministrazione, nel porla in essere, ha l’obbligo di dare puntuale motivazione della scelta compiuta.

... per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia, della delibera n. 39 del 24.07.1998 di C.C. con cui è stata revocata la delibera consiliare n. 30 del 30.06.1998 che aveva espresso parere favorevole al rilascio di concessione edilizia in deroga.
...
Va premesso che la procedura per la concessione edilizia in deroga è disciplinata dall’art. 14 TU 380/2001, intitolato “Permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici" (legge 17.08.1942, n. 1150, art. 41-quater, introdotto dall'art. 16 della legge 06.08.1967, n. 765; decreto legislativo n. 267 del 2000, art. 42, comma 2, lettera b); legge 21.12.1955, n. 1357, art. 3), il quale dispone: "1. Il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali è rilasciato esclusivamente per edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico, previa deliberazione del consiglio comunale, nel rispetto comunque delle disposizioni contenute nel decreto legislativo 29.10.1999, n. 490 e delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia.
2. Dell'avvio del procedimento viene data comunicazione agli interessati ai sensi dell'articolo 7 della legge 07.08.1990, n. 241.
3. La deroga, nel rispetto delle norme igieniche, sanitarie e di sicurezza, può riguardare esclusivamente i limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati di cui alle norme di attuazione degli strumenti urbanistici generali ed esecutivi, fermo restando in ogni caso il rispetto delle disposizioni di cui agli articoli 7, 8 e 9 del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444
.".
Sotto un profilo strettamente procedimentale, rilevante ai fini dell’esame della ammissibilità del presente ricorso, va premesso che l’iter previsto dall’art. 41-quater della l. n. 1150/1942 (ora art. 14 DPR 380/2001) prevede, come atto terminale del procedimento azionato dall’istante, la concessione edilizia (ora permesso di costruire) in deroga, che è accordata o negata previa deliberazione del Consiglio Comunale. Quest’ultima si configura, quindi, come atto interno del procedimento, non immediatamente lesivo ed impugnabile solo congiuntamente all’atto finale, una volta che questo sia stato emanato (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 09.04.1998, n. 728).
Tale deliberazione preliminare costituisce, quindi, un elemento necessario del procedimento amministrativo destinato a sfociare nel rilascio o diniego della concessione in deroga, con la conseguenza che la sua assenza vizia il procedimento stesso .
La necessità della pronuncia del Consiglio Comunale, sostenuta dalla giurisprudenza, pone in rilievo il dato che la determinazione negativa del Consiglio sulla deroga precluda il prosieguo del procedimento di concessione edilizia in ordine alla deroga stessa (C.d.S., Sez. V, 01.03.1993, n. 302), specificando che, a norma dell’art. 41-quater cit., è illegittimo il rilascio di una concessione edilizia in deroga quando la deroga non consegua a deliberazione del Consiglio Comunale (C.d.S., Sez. V, 28.06.2004, n. 4759).
L’atto di revoca del nulla osta positivo nella specie determina quindi un arresto procedimentale lesivo ed immediatamente impugnabile.
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Tanto premesso in punto di fatto, va osservato quanto segue in punto di diritto.
Come sopra premesso, la revoca del nulla osta positivo è motivata sulla scorta dell’accertata effettuazione della modifica di destinazione di uso prima della emissione del provvedimento positivo, e quindi sulla scorta della falsità dei presupposti per far luogo alla deroga ritenendosi incompatibili deroga e sanatoria. Ben vero, nel corso della discussione consiliare, è emerso anche un ulteriore aspetto, ossia la incompatibilità del mutamento di uso con la destinazione di zona, sì che la deroga investirebbe lo strumento urbanistico e non singoli parametri di legge. Tuttavia la determinazione messa ai voti investe la impossibilità di sanare una attività già in essere, sì che il provvedimento di secondo grado si è formato con riferimento alla suindicata motivazione.
Pur investendo quindi l’esame del Collegio tale stretto profilo di diritto, stante i limiti del giudizio impugnatorio, si ritiene di premettere una breve ricostruzione normativa ed interpretativa dell’istituto del permesso di costruire in deroga, ai fini di un miglior inquadramento della fattispecie, e dell’effetto conformativo-prescrittivo della presente sentenza, sulla successiva attività della P.A., al di là del mero effetto tipico caducatorio del giudizio su atti.
A differenza degli altri titoli edilizi, l’assenso in deroga presenta profili marcatamente discrezionali in ordine all’opportunità del rilascio, talché l’esatta individuazione della specifica finalità avuta di mira con la deroga è un elemento aggiuntivo, ma decisamente essenziale, del relativo provvedimento, tanto da risultare talora finanche consacrato in atti convenzionali ad hoc, accessivi al provvedimento autorizzativo, conclusi tra il richiedente e l’Amministrazione procedente.
Il permesso di costruire in deroga consiste, invero, al pari dell’omologa “vecchia” concessione edilizia, in una disciplina dell’uso del territorio che, sebbene puntuale (ossia limitata al singolo intervento), esorbita dall’ordinario regime dei titoli costruttivi poiché spezza l’uniformità giuridica delle regole normalmente applicate nella zona urbanistica di riferimento. L’esercizio del relativo potere può quindi giustificarsi soltanto in vista della soddisfazione di esigenze straordinarie rispetto agli interessi primari tutelati dalla disciplina urbanistica generale. Si comprende allora perché l’esatta perimetrazione dell’ambito della deroga rappresenti, ancor oggi come in passato, l’aspetto di maggiore problematicità.
Al riguardo il Ministero dei lavori pubblici ha offerto ai comuni, in più occasioni ed in tempi diversi, alcuni criteri interpretativi ai fini del corretto esercizio del potere in questione, al duplice scopo di dare lumi alle Amministrazioni locali e di impedirne le prevedibili distonie applicative.
E’ stata dapprima emanata la circolare dell'01.03.1963, n. 518, recante «Istruzioni per l’applicazione dell’art. 3 delle legge 21.12.1955 n. 1357. Esercizio dei poteri comunali di deroga alle norme di regolamento edilizio e di attuazione dei piani regolatori», che, al punto 2, dopo aver sottolineato, nell’impossibilità di esporre una precisa casistica, l’esigenza di verificare, caso per caso, l’esistenza delle condizioni di fatto per l’assenso alla deroga, puntualizzava che gli edifici di interesse pubblico fossero tutti quelli che, pur non costruiti da enti pubblici, presentassero comunque un «chiaro e diretto interesse pubblico».
Venne in seguito diramata la circolare Min. LL.PP., Direzione Generale dell’Urbanistica del 28.10.1967, n. 3210, contenente le istruzioni per l’applicazione della legge-ponte che, al capo 12, dilatò il concetto di “interesse pubblico”. Nell’opinione ministeriale dovevano intendersi come edifici ed impianti pubblici, quelli per i quali ricorressero le due condizioni dell’appartenenza ad enti pubblici (requisito soggettivo) e della destinazione a finalità di carattere pubblico (requisito oggettivo); mentre erano considerati edifici ed impianti di interesse pubblico, quelli oggettivamente destinati a finalità di carattere generale (di natura economica, culturale, industriale, igienica, religiosa, ecc.), a nulla rilevando il profilo soggettivo della relativa titolarità giuridica e, quindi, «indipendentemente dalla qualità dei soggetti che li realizzano».
Alla stregua di siffatta distinzione vennero esemplificativamente classificate come pubbliche le sedi degli uffici pubblici, le scuole, le caserme; e di interesse pubblico molti altri beni immobili, di proprietà pubblica o privata, quali i conventi, i poliambulatori, gli alberghi, gli impianti turistici, le biblioteche, i teatri ed i silos portuali.
Infine merita menzione la successiva circolare 25.02.1970, n. 25/M che, al punto 3, rifacendosi espressamente ad un parere reso dal Consiglio di Stato, ebbe a valorizzare ampiamente il concetto di interesse pubblico, evidenziando che l’individuazione di esso «…non può essere effettuata in base a criteri generali ed astratti né è suscettibile di essere precisata in ipotesi tassative, ma può emergere esclusivamente dall’esame concreto delle singole fattispecie … (L’interesse pubblico) … va inteso nella sua accezione tecnico-giuridica di interesse tipico, il cui soddisfacimento e la cui tutela sono assunti dalla P.A.; quindi non nel senso lato di interesse collettivo o generale, bensì in quello specifico di interesse qualificato dalla sua rispondenza a fini perseguiti dall’Amministrazione stessa».
Si è così affermato, in numerose decisioni, che per l’individuazione dei fabbricati suscettibili di derogare alle disposizioni edilizie non fosse tanto rilevante la qualità pubblica o privata dei soggetti esecutori, ma che occorresse valutare, sotto il profilo obiettivo, l’effettiva ricorrenza di un nesso tra la destinazione dell’edificio ed un interesse tipico perseguito dalla Pubblica Amministrazione, con specifico riferimento alla situazione del singolo immobile.
Si è prodotto così l’effetto di un ampliamento del campo di applicazione, esteso fino al punto di comprendere i tralicci per gli impianti televisivi «… in ragione del carattere di preminente interesse generale della diffusione di programmi radiofonici o televisivi … riconosciuto dall’art. 1 della legge n. 223 del 1990…» o, ancora, gli edifici destinati all’ampliamento di una sede consolare di uno Stato estero e, perfino, un impianto per il tiro a volo,o le grandi strutture commerciali di vendita.
Il nuovo testo della norma, come recepito nell’art. 14 DPR 380/2001, non richiede più che i poteri di deroga siano espressamente «previsti da norme di piano regolatore e di regolamento edilizio».
L’eliminazione di tale presupposto comporta un’apprezzabile attenuazione della tassatività dei casi in cui è consentito ricorrere all’istituto. Per il resto la norma, al pari della disciplina abrogata, limita la possibilità di rilasciare titoli edilizi in deroga per la sola realizzazione di edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico.
Un’altra questione controversa concerne l’esatta portata dell’istituto circa l’individuazione delle norme suscettibili di deroga.
Con riguardo alla normativa statale, si sono manifestati due differenti orientamenti: da un lato, vi era chi riteneva derogabile qualunque previsione di piano, ivi comprese le destinazioni urbanistiche di zona; dall’altro, la giurisprudenza amministrativa assolutamente prevalente negava siffatta possibilità ed, anzi, tendeva ad escludere che attraverso la concessione in deroga si potesse consentire la realizzazione di volumi maggiori di quelli autorizzabili o l’inosservanza degli standard di altezza, distanza e densità edilizia fissati dal d.m. 02.04.1968, n. 444; questi ultimi, in particolare, in quanto ritenuti funzionali alla superiore salvaguardia di esigenze di carattere igienico sanitarie collegate al diritto alla buona qualità della vita di tutti i cittadini, erano considerati come un limite inderogabile anche per l’autonomia regolamentare degli enti locali.
Si opinava inoltre che l’insuperabilità delle norme fissate dal d.m. cit. discendesse dal principio dell’inderogabilità delle norme primarie: muovendo dal presupposto che il d.m. n. 1444/1968 era stato emanato in attuazione dell’art. 41-quinquies l. urb., si pensava che una deroga al primo si concretasse anche in un’inammissibile deroga al secondo.
In tal senso, del resto, si era espresso in epoca risalente il medesimo Ministero dei lavori pubblici che, con la circolare del 28.02.1956, n. 847, aveva suggerito ai Comuni (capo III, punto 2), per evitare che l’esercizio dei poteri derogatori aggravasse la densità fabbricativa di una zona o ingenerasse inconvenienti di natura igienica o di traffico, l’adozione del criterio del c.d. “compenso dei volumi” nel caso di licenza rilasciata in deroga alle altezze o ai distacchi o a qualsiasi altra misura prevista dalla locale normativa urbanistico- edilizia. In altre parole, per evitare lo sviluppo di un volume edilizio complessivamente maggiore di quello astrattamente risultante dalla corrente applicazione delle norme edilizie della zona di insistenza, le Amministrazioni avrebbero dovuto far luogo a congrue e contemporanee riduzioni di altri elementi costruttivi quali la superficie occupata o i ritiri di fronte.
La giurisprudenza ha sempre sostenuto, coerentemente con un’esegesi restrittiva dell’art. 41-quater l.urb., che le deroghe previste nelle singole concessioni non potessero mai travolgere le direttive di ordine urbanistico stabilite nel P.R.G., non potendo configurare una variante puntuale alla pianificazione, e che, pertanto, non fossero derogabili le destinazioni di zona ivi previste (cfr. TRGA-Trento 10.04.2008 n. 913, CdS sez. V 05.11.1999, n. 1841).
Con il nuovo testo dell’art. 14 DPR 380/2001, commi 1 e 3, si sono fissati dei “paletti” invalicabili al possibile oggetto della deroga. In particolare, il permesso di costruire non può essere rilasciato in violazione:
- delle disposizioni contenute nel d.lg. 29.10.1999, n. 490, recante il testo unico delle disposizioni in materia di beni culturali ed ambientali; (ora d.lg. 22.01.2004, n. 41);
- delle altre «normative di settore» aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia;
- delle norme igieniche, sanitarie e di sicurezza, se non limitatamente agli standard di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati di cui alle norme di attuazione degli strumenti urbanistici generali ed esecutivi;
- delle disposizioni di cui agli artt. 7, 8 e 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444.
Dall’insieme delle esclusioni alla deroga emerge il quadro di un complessivo ridimensionamento rispetto al passato della “eccezionalità” dell’istituto.
Il Legislatore si è premurato di indicare, in particolare, quali siano le norme degli strumenti urbanistici (ivi compresi quelli esecutivi) derogabili: a questo novero non appartengono quelle che abbiano natura igienica, sanitaria o di sicurezza, ma esclusivamente le norme di attuazione che fissino limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza fra i fabbricati. Tuttavia il successivo capoverso chiarisce che la deroga non può comunque riguardare gli artt. 7, 8 e 9 del d.m. n. 1444/1968 (cfr. anche CdS sez. V, sentenza n. 46 dell'11.01.2006 secondo cui il rilascio del permesso di costruire in deroga è possibile solo qualora lo stesso non pregiudichi in termini significativi gli standard urbanistici dell'area interessata).
Pertanto, ancorché l’aspetto de quo non investa l’esame del Tribunale che nella specie deve scrutinare la legittimità della revoca alla stregua delle motivazioni per le quali la stessa è stata disposta, non appare superfluo rilevare che in sede di emissione del titolo in deroga, dovrà compiersi da parte dell’amministrazione una attenta valutazione della compatibilità della deroga richiesta con le esclusioni indicate nella disposizione normativa.
Infine, e per quanto qui interessa, si è posto anche il problema della ammissibilità di una deroga in sanatoria, risolvendolo positivamente. L’emersione del principio si ebbe in occasione delle note vicende del «Palatrussardi» di Milano. La realizzazione dell’edificio, destinata a sopperire all’inagibilità del Palazzo dello Sport di Milano danneggiato dagli agenti atmosferici, fu originariamente assentita con due autorizzazioni provvisorie per strutture mobili. Tali autorizzazioni vennero però successivamente annullate dal TAR Lombardia in considerazione della loro ritenuta inadeguatezza giuridica, trattandosi di una tensostruttura di dimensioni notevoli, costruita in metallo e cemento armato.
Per legittimare l’esistente fu così concessa una deroga “in sanatoria”, previo nulla osta regionale. In relazione al rilascio di quest’ultimo atto il contenzioso è stato definito dalla decisione del Consiglio di Stato, sez. IV, 01.10.1997, n. 1057; con tale pronuncia si è stabilito che la costruzione in oggetto si inseriva nell’esercizio delle funzioni amministrative comunali di promozione di attività ricreative e sportive ex art. 60, lett. a), D.P.R. n. 616/1977 e che, pertanto, rientrava nel novero degli edifici per i quali poteva considerasi ammesso il rilascio di concessioni in deroga.
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Giusta quanto sopra più diffusamente esposto, la valutazione del Consiglio Comunale in ordine alla possibilità di derogare ai parametri dello strumento urbanistico, ha carattere di valutazione discrezionale, e l’amministrazione, nel porla in essere, ha l’obbligo di dare puntuale motivazione della scelta compiuta (C.d.S., Sez. V, n. 4759/2004 cit.).
Per contro, anche il provvedimento di annullamento di ufficio di una concessione edilizia deve essere adeguatamente motivato in ordine all’esistenza dell’interesse pubblico, specifico e concreto, che giustifica il ricorso all’autotutela anche in ordine alla prevalenza del predetto interesse pubblico su quello antagonista del privato (cfr. ex multis, Tar Sicilia, Catania, sez. I, 03.10.2005, n.1529; Tar Basilicata, 10.05.2005, n. 299; Tar Calabria, Catanzaro, sez. II, 24.04.2006, n. 422; Tar Trentino Alto Adige, Trento, 02.01.2007, n. 4; Cons. Stato, sez. V, 01.03.2003, n. 1150; idem, sez. V, 12.10.2004, n. 6554).
Detto orientamento ha trovato, tra l’altro, conferma nelle recenti disposizioni della Legge n. 15 del 2005, che ha introdotto l’art. 21-nonies alla Legge n. 241 del 1990, sotto la rubrica annullamento di ufficio: ogni procedimento deve essere espressione di una congrua valutazione comparativa degli interessi in conflitto, di cui si deve dare atto nel proprio corredo motivazionale (cfr. Tar Campania, Napoli, sez. II, 12.02.2007, n. 1003; Tar Marche, sez. I, 14.02.2007, n. 34; Cons. Stato, sez. IV, 31.10.2006, n. 6465)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 13.02.2009 n. 799 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento di annullamento di ufficio di una concessione edilizia deve essere adeguatamente motivato in ordine all’esistenza dell’interesse pubblico, specifico e concreto, che giustifica il ricorso all’autotutela anche in ordine alla prevalenza del predetto interesse pubblico su quello antagonista del privato.
Detto orientamento ha trovato, tra l’altro, conferma nelle recenti disposizioni della Legge n. 15 del 2005, che ha introdotto l’art. 21-nonies alla Legge n. 241 del 1990, sotto la rubrica annullamento di ufficio: ogni procedimento deve essere espressione di una congrua valutazione comparativa degli interessi in conflitto, di cui si deve dare atto nel proprio corredo motivazionale.

Per contro, anche il provvedimento di annullamento di ufficio di una concessione edilizia deve essere adeguatamente motivato in ordine all’esistenza dell’interesse pubblico, specifico e concreto, che giustifica il ricorso all’autotutela anche in ordine alla prevalenza del predetto interesse pubblico su quello antagonista del privato (cfr. ex multis, Tar Sicilia, Catania, sez. I, 03.10.2005, n.1529; Tar Basilicata, 10.05.2005, n. 299; Tar Calabria, Catanzaro, sez. II, 24.04.2006, n. 422; Tar Trentino Alto Adige, Trento, 02.01.2007, n. 4; Cons. Stato, sez. V, 01.03.2003, n. 1150; idem, sez. V, 12.10.2004, n. 6554).
Detto orientamento ha trovato, tra l’altro, conferma nelle recenti disposizioni della Legge n. 15 del 2005, che ha introdotto l’art. 21-nonies alla Legge n. 241 del 1990, sotto la rubrica annullamento di ufficio: ogni procedimento deve essere espressione di una congrua valutazione comparativa degli interessi in conflitto, di cui si deve dare atto nel proprio corredo motivazionale (cfr. Tar Campania, Napoli, sez. II, 12.02.2007, n. 1003; Tar Marche, sez. I, 14.02.2007, n. 34; Cons. Stato, sez. IV, 31.10.2006, n. 6465)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 13.02.2009 n. 799 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn linea generale, la comminatoria della decadenza del titolo edilizio in contrasto col nuovo piano regolatore trova la sua “ratio” nell'esigenza che le sopravvenute previsioni urbanistiche devono trovare indefettibile applicazione (salva la possibilità per l'interessato di impugnarle), in quanto volte -per definizione- ad un più razionale assetto del territorio, per soddisfare gli interessi pubblici e privati coinvolti.
Infatti, quando un nuovo piano determina le aree destinate all'edificazione e soddisfa gli “standards”, eliminando la natura edificatoria di alcune aree determinate nel piano precedente, l’edificazione delle aree indicate nel piano precedente, ma destinate a servizi in quello successivo, determinerebbe un'alterazione delle previsioni urbanistiche ed un irrazionale assetto del territorio, con violazione della normativa sugli standards.
Per contemperare i contrapposti interessi pubblici e privati coinvolti in queste situazioni, l'art. 15, comma 4, del testo unico n. 380 del 2001 (così come il precedente art. 31 della legge n. 1150 del 1942) ha previsto una eccezione alla regola generale, secondo cui i lavori precedentemente assentiti -pur contrastando col piano sopravvenuto in vigore- possano continuare ad essere realizzati se già cominciati nel vigore del piano precedente (e se siano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio).
In assenza del dato obiettivo dell'inizio dei lavori nel vigore del piano in base al quale è stato emesso il titolo edilizio, la legge dispone che va dichiarata la sua decadenza, con un atto dovuto di natura ricognitiva, avente effetti “ex tunc”.
Per l'art. 15, comma 2, del testo unico n. 380 del 2001 (riproduttivo di un principio desumibile già dall'art. 31 della legge n. 1150 del 1942), il termine per l'inizio e quello di compimento dei lavori "possono essere prorogati, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso".
Per il legislatore, tali "fatti sopravvenuti" (che possono consistere nel “factum principis” o in altri casi di “forza maggiore”) non hanno un rilievo automatico, ma possono costituire oggetto di valutazione in sede amministrativa quando l'interessato proponga una domanda di proroga, il cui accoglimento è indefettibile purché non vi sia la pronuncia di decadenza.
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Sussiste la violazione dell’art. 7 della legge 07.08.1990 n. 241 per omessa comunicazione dell’avvio del procedimento inteso alla declaratoria di decadenza della concessione edilizia n. 577 del 17.05.1995, per mancato completamento dei lavori entro il termine, di cui all'art. 4 della legge n. 10/1977.
L’istituto è fondato sull'oggettivo decorso del tempo previsto, con possibilità di sospensione solo per cause espressamente previste dalla legge o per ragioni di forza maggiore, fra cui il cosiddetto "factum principis", ovvero il provvedimento dell'Autorità, non imputabile al titolare della concessione e oggettivamente ostativo dei lavori.
La declaratoria di decadenza non può prescindere da un momento accertativo e -ove detti presupposti sussistano- deve tradursi in un provvedimento, a contenuto vincolato ma con carattere autoritativo, non sottratto all'obbligo generale di motivazione, di cui all'art. 3 della legge 07.08.1990 n. 241 né alla comunicazione di avvio del procedimento.

La soluzione della questione non può che muovere dalla rassegna dei riferimenti normativi che presiedono agli effetti della successione nel tempo degli strumenti urbanistici, con particolare riguardo all'adozione dei piani e delle relative varianti.
L'art. 31, comma 11, della legge 17.08.1942 n. 150, stabilisce: "L'entrata in vigore di nuove previsioni urbanistiche comporta la decadenza delle licenze in contrasto con le previsioni stesse, salvo che i relativi lavori siano stati iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio".
Tale disposizione è stata trasfusa nell'art. 15, comma 4, del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (vigente alla data di emanazione dell'impugnato atto di diniego della concessione demaniale), il quale precisa: "il permesso decade con l'entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio".
In linea generale, la comminatoria della decadenza del titolo edilizio in contrasto col nuovo piano regolatore trova la sua “ratio” nell'esigenza che le sopravvenute previsioni urbanistiche devono trovare indefettibile applicazione (salva la possibilità per l'interessato di impugnarle), in quanto volte -per definizione- ad un più razionale assetto del territorio, per soddisfare gli interessi pubblici e privati coinvolti.
Infatti, quando un nuovo piano determina le aree destinate all'edificazione e soddisfa gli “standards”, eliminando la natura edificatoria di alcune aree determinate nel piano precedente, l’edificazione delle aree indicate nel piano precedente, ma destinate a servizi in quello successivo, determinerebbe un'alterazione delle previsioni urbanistiche ed un irrazionale assetto del territorio, con violazione della normativa sugli standards.
Per contemperare i contrapposti interessi pubblici e privati coinvolti in queste situazioni, l'art. 15, comma 4, del testo unico n. 380 del 2001 (così come il precedente art. 31 della legge n. 1150 del 1942) ha previsto una eccezione alla regola generale, secondo cui i lavori precedentemente assentiti -pur contrastando col piano sopravvenuto in vigore- possano continuare ad essere realizzati se già cominciati nel vigore del piano precedente (e se siano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio).
In assenza del dato obiettivo dell'inizio dei lavori nel vigore del piano in base al quale è stato emesso il titolo edilizio, la legge dispone che va dichiarata la sua decadenza, con un atto dovuto di natura ricognitiva, avente effetti “ex tunc” (ex plurimis: Cons. Stato, Sez. V, 09.09.1985, n. 288).
Per l'art. 15, comma 2, del testo unico n. 380 del 2001 (riproduttivo di un principio desumibile già dall'art. 31 della legge n. 1150 del 1942), il termine per l'inizio e quello di compimento dei lavori "possono essere prorogati, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso".
Per il legislatore, tali "fatti sopravvenuti" (che possono consistere nel “factum principis” o in altri casi di “forza maggiore”) non hanno un rilievo automatico, ma possono costituire oggetto di valutazione in sede amministrativa quando l'interessato proponga una domanda di proroga, il cui accoglimento è indefettibile purché non vi sia la pronuncia di decadenza.
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Con il primo dei motivi aggiunti, la ricorrente deduce violazione dell’art. 7 della legge 07.08.1990 n. 241 per omessa comunicazione dell’avvio del procedimento inteso alla declaratoria di decadenza della concessione edilizia n. 577 del 17.05.1995, per mancato completamento dei lavori entro il termine, di cui all'art. 4 della legge n. 10/1977.
L’istituto è fondato sull'oggettivo decorso del tempo previsto, con possibilità di sospensione solo per cause espressamente previste dalla legge o per ragioni di forza maggiore, fra cui il cosiddetto "factum principis", ovvero il provvedimento dell'Autorità, non imputabile al titolare della concessione e oggettivamente ostativo dei lavori (ex plurimis: Cons. Stato, Sez. V: 30.07.1986 n. 374; 12.03.1996 n. 256 e 23.11.1996 n. 1414; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 07.04.1993. n. 424; TAR Lazio, Latina, 24.01.1989, n. 35; TAR Sicilia, Palermo 13.10.1997 n. 1589).
Proprio in considerazione dei presupposti sopra indicati, la declaratoria di decadenza non può prescindere da un momento accertativo e -ove detti presupposti sussistano- deve tradursi in un provvedimento, a contenuto vincolato ma con carattere autoritativo, non sottratto all'obbligo generale di motivazione, di cui all'art. 3 della legge 07.08.1990 n. 241 né alla comunicazione di avvio del procedimento (ex plurimis: TAR Toscana, 07.11.2000, n. 2216).
In conformità ai principi sopra enunciati, una giurisprudenza largamente prevalente ritiene superato l'indirizzo, secondo cui gli effetti della decadenza opererebbero automaticamente, senza necessità di un provvedimento formale (per quest'ultimo indirizzo cfr. Cons. St. Sez. V, 27.06.1983, n. 283 e 18.02.1991, n. 139; TAR Lombardia, Brescia, 04.09.1995, n. 880; TAR Lombardia, Milano, 05.02.2002, n. 434; contra -ovvero a favore della tesi, qui accolta, dell'esigenza di esplicita pronuncia- TAR Lazio Roma, sez. I, 02.01.2008 n. 1; TAR Veneto Venezia Sez. II 15.06.2007 n. 1940; Cons. St., Sez. V: 24.10.1980, n. 886; 09.05.1983 n. 141; 15.06.1998 n. 834 e 26.06.2000 n. 3612; TAR Lazio, Latina: 04.02.1986 n. 18 e 24.01.1989, n. 35; TAR Marche, Ancona, 14.05.1999, n. 562; TAR Valle d'Aosta, 16.12.1998 n. 156; TAR Campania, Salerno, 12.05.1998 n. 238; TAR Umbria 09.06.1994 n. 366; TAR Abruzzo, L'Aquila 04.04.1984 n. 177 e 05.10.2000 n. 803; TAR Abruzzo, Pescara 28.06.2002 n. 595; TAR Lazio, Sez. II 08.03.1984 n. 386; TAR Lombardia, Milano 31.12.1983, n. 1615; TAR Calabria, Catanzaro 26.10.1983 n. 242).
Né nella specie può trovare applicazione l’art. 21–octies, comma 2, primo periodo, della legge n. 241 del 1990, secondo cui “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”, poiché la ricorrente ha comprovato l’utilità che sarebbe derivata all’Amministrazione dal proprio contributo partecipativo mediante l’indicazione delle argomentazioni svolte con le censure proposte in questo giudizio, e, in particolare, con quelle già positivamente delibate in sede di disamina del quarto e del quinto profilo di gravame del ricorso principale.
Pertanto, la censura merita accoglimento
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 24.11.2008 n. 1500 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAnche i titolari di diritti personali di godimento sono legittimati alla richiesta di titoli edilizi, compatibili con l’effettiva disponibilità del bene e con l’entità della trasformazione oggetto della richiesta autorizzatoria.
Infatti, la richiesta del condominio è stata presentata al comune nella sua veste di comodatario dell’area. Si tratta di stabilire, allora, se la titolarità di tale diritto di godimento sia sufficiente per radicare la legittimazione alla richiesta del titolo autorizzatorio e se il rilascio del provvedimento edilizio sia impedito dall’indicato atto di asservimento.
...
Il condominio appellante basa la propria legittimazione alla richiesta autorizzazione edilizia facendo riferimento a un contratto di comodato con il proprietario.
...
Del resto, la giurisprudenza di questa Sezione ha più volte chiarito che anche i titolari di diritti personali di godimento sono legittimati alla richiesta di titoli edilizi, compatibili con l’effettiva disponibilità del bene e con l’entità della trasformazione oggetto della richiesta autorizzatoria (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.09.2008 n. 4518 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon è necessario essere proprietari del suolo per domandare un titolo edilizio, in quanto è sufficiente, in alternativa alla proprietà, una situazione di diritto privato a ciò abilitante, vale a dire –per usare le espressioni testuali della legge– l’avere un “titolo per richiederlo” (cfr. art. 4 l. 28.01.1977, n. 10, ora art. 11 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, secondo cui “il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo”).
Oltre questo, vale comunque il limite formale, posto dalle medesime disposizioni, ed intrinseco al provvedimento, della salvezza dei diritti dei terzi: perché il titolo edilizio non incide sulla proprietà e gli altri diritti reali, ma solo sulla abilitazione a costruire.

Ma anche ad esaminare la fattispecie da un punto di vista più formale, non sfugge che siffatti elementi convergono nel dare piena concretezza all’applicazione del principio di legge per cui non è necessario essere proprietari del suolo per domandare un titolo edilizio, in quanto è sufficiente, in alternativa alla proprietà, una situazione di diritto privato a ciò abilitante, vale a dire –per usare le espressioni testuali della legge– l’avere un “titolo per richiederlo” (cfr. art. 4 l. 28.01.1977, n. 10, ora art. 11 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, secondo cui “il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo”).
Oltre questo, vale comunque il limite formale, posto dalle medesime disposizioni, ed intrinseco al provvedimento, della salvezza dei diritti dei terzi: perché il titolo edilizio non incide sulla proprietà e gli altri diritti reali, ma solo sulla abilitazione a costruire. Sicché –ove mai qui la appellante si fosse dimostrata davvero titolare di un diritto reale sul suolo ostativo alla realizzazione dell’impianto– questo diritto non sarebbe stato intaccato dal provvedimento in questione.
Sicché non ha rilevanza il fatto che chi ha chiesto la concessione edilizia (la SE.GE.CO. s.a.s.) non corrisponda ai proprietari del suolo (Forti e Paolucci) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.06.2008 n. 2642 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Circa l’ammissibilità del rilascio di licenze, concessioni o permessi di costruire in deroga, inizialmente la giurisprudenza amministrativa interpretava l’espressione “impianti di interesse pubblico”, di cui all’art. 41-quater della L. 17.8.1942, n. 1150 (trasfuso nell’attuale art. 14 del t.u. sull’edilizia, approvato con d.p.r. 06.06.2001, n. 380), facendovi rientrare solo interventi corrispondenti a compiti assunti direttamente dalla pubblica amministrazione ed escludendo così gli alberghi.
Successivamente, però, il diritto vivente è andato evolvendosi, offrendo un’interpretazione della norma nel senso che anche le strutture alberghiere rientrino fra gli impianti di interesse pubblico, per i quali è consentito il rilascio di concessione edilizia in deroga. Questo interesse pubblico, in particolare, è stato individuato nello sviluppo del turismo e della cultura.
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La concessione edilizia in deroga allo strumento urbanistico generale è legittima a condizione che essa contravvenga soltanto alle norme del regolamento edilizio o alle norme d'attuazione del piano regolatore, e non ad altre disposizioni.

Nell’ordinamento statale, circa l’ammissibilità del rilascio di licenze, concessioni o permessi di costruire in deroga, inizialmente la giurisprudenza amministrativa interpretava l’espressione “impianti di interesse pubblico”, di cui all’art. 41-quater della L. 17.8.1942, n. 1150 (trasfuso nell’attuale art. 14 del t.u. sull’edilizia, approvato con d.p.r. 06.06.2001, n. 380), facendovi rientrare solo interventi corrispondenti a compiti assunti direttamente dalla pubblica amministrazione ed escludendo così gli alberghi (cfr. Cons. Stato, V, 11.12.1992, n. 1428; IV, 25.11.1988, n. 774).
Successivamente, però, il diritto vivente è andato evolvendosi, offrendo un’interpretazione della norma nel senso che anche le strutture alberghiere rientrino fra gli impianti di interesse pubblico, per i quali è consentito il rilascio di concessione edilizia in deroga (cfr. Cons. St., V, 11.1.2006, n. 46; IV, 12.1.2005, n. 7031; IV, 29.10.2002, n. 5913; IV, 28.10.1999, n. 1641; V, 15.7.1998, n. 1044). Questo interesse pubblico, in particolare, è stato individuato nello sviluppo del turismo e della cultura.
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La concessione edilizia in deroga allo strumento urbanistico generale è legittima a condizione che essa contravvenga soltanto alle norme del regolamento edilizio o alle norme d'attuazione del piano regolatore, e non ad altre disposizioni (cfr.: Cons. Stato, V, 05.11.1999, n. 1841) (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 10.04.2008 n. 91 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Concessione edilizia in deroga solo per opere di interesse generale.
L’intervento in deroga può ritenersi ammissibile solo se ed in quanto le opere autorizzate sono risultate per certo destinate a finalità di interesse pubblico (nella specie, all’uso alberghiero e, più precisamente, a casa albergo); solo in tal caso, infatti, l’ordinamento consente –in presenza della previsione di tale specifico potere in seno allo strumento di pianificazione comunale– di derogare alla ordinaria disciplina pianificatoria.
Poiché spettava, nella specie, alla Regione l’individuazione del carattere di interesse pubblico presentato dall’edificio per il quale era richiesto il nulla osta al rilascio della concessione in deroga, ne consegue che la regione stessa ben poteva e doveva sindacare se effettivamente sussistessero i presupposti giuridico-fattuali attestanti, al di là di ogni ragionevole dubbio, che effettivamente le opere da realizzare fossero finalizzate alla soddisfazione di un siffatto interesse pubblico.

Confermando la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Molise (cfr. sentenza 12.11.1999, n. 478), la Sezione V del Consiglio di Stato ha acclarato la legittimità di un diniego di concessione edilizia, richiesta in deroga agli strumenti urbanistici locali: nella fattispecie, si trattava di un’istanza di privati volta ad ottenere una concessione facendo eccezione alle previsioni urbanistiche ed edilizie locali per l’aumento di volumetria di un immobile sito nel centro storico cittadino (come ricorda il Collegio, si trattava dell’elevazione, per tre piani, di un edificio, comportante un aumento di volumetria di quasi 5.600 mc., destinati alla realizzazione di diciassette unità abitative).
A ciò si aggiunga che la realizzazione di questa “casa albergo” presentava non poche anomalie (mancanza di locali adibiti a lavanderia, di servizio bar etc. gestiti dalla stessa società alberghiera; assenza della previsione che gli acquirenti delle singole unità abitative destinassero le stesse alla società alberghiera), per cui la Regione ha ben ritenuto che tale sistemazione non avrebbe assicurato, di fatto, «l’effettiva utilizzazione ricettiva analoga a quella alberghiera che, in ipotesi, avrebbe potuto giustificare l’intervento in questione in quanto intervento di interesse pubblico; inoltre, la trasformazione edilizia avrebbe comportato il mancato rispetto degli standards urbanistici per ciò che atteneva alla dotazione minima dei parcheggi», da ultimo determinando il diniego di nulla-osta per l’evidente e concreta mancanza di interesse pubblico e di ogni pubblica utilità (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.01.2006 n. 46 - link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 4 della legge n. 10 del 28.01.1977 “la concessione è data dal sindaco al proprietario dell’area o a chi abbia titolo per richiederla”; ma deve trattarsi di un titolo fondato su un diritto reale, anche di servitù, o almeno su un diritto obbligatorio (es., locazione), che accordi al richiedente disponibilità del bene immobile e la potestà edificatoria, mentre una semplice relazione di fatto, ancorché tutelata, quale quella legata al possesso nella specie riconosciuto, non appare tale da conferire il diritto a vedersi rilasciato il titolo concessorio o, come nella specie, quello autorizzatorio; tanto più che nella specie le potestà che si riconnettono al rilascio del contestato titolo edificatorio si scontrano con la volontà del legittimo proprietario dei beni di cui si tratta, pure richiedente il rilascio di analogo titolo.
La tutela possessoria accordata dal Pretore con la sentenza n. 63/1986 atteneva, invero, essenzialmente all’uso del bene, specie in taluni periodi dell’anno, per finalità religiose, ma non accordava al possessore alcun diritto reale o obbligatorio rispetto al bene di cui si discute; con la conseguenza che nei confronti di detto possessore non era configurabile una posizione legittimante la richiesta del titolo edificatorio ai sensi dell’art. 4 della legge n. 10 del 28.01.1977.
Tale norma prevede, infatti, che “la concessione è data dal sindaco al proprietario dell’area o a chi abbia titolo per richiederla”; ma deve trattarsi di un titolo fondato su un diritto reale, anche di servitù, o almeno su un diritto obbligatorio (es., locazione), che accordi al richiedente disponibilità del bene immobile e la potestà edificatoria, mentre una semplice relazione di fatto, ancorché tutelata, quale quella legata al possesso nella specie riconosciuto, non appare tale da conferire il diritto a vedersi rilasciato il titolo concessorio o, come nella specie, quello autorizzatorio; tanto più che nella specie le potestà che si riconnettono al rilascio del contestato titolo edificatorio si scontrano con la volontà del legittimo proprietario dei beni di cui si tratta, pure richiedente il rilascio di analogo titolo.
Donde l’illegittimità dell’autorizzazione rilasciata dal Comune a favore della Parrocchia appellata e del conseguenziale ordine di sospensione lavori avviati dall’originario ricorrente (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.05.2001 n. 2882 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl promissario acquirente di un terreno edificabile, che ne abbia il possesso incontestato e pacifico in forza di un’apposita clausola di un contratto preliminare di compravendita, è legittimato ad ottenere il rilascio della concessione edilizia per un intervento costruttivo da realizzare su quel determinato terreno, giacché la norma dell’art. 4, L. n. 10/1977 privilegia la disponibilità titolata dell’area, anche di natura non dominicale (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 18.06.1996, n. 718).

AGGIORNAMENTO AL 06.08.2012

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SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: TFS-TFR trattenuta del 2,5%.
I DUBBI SULLA LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE DELLA TRATTENUTA SOLLEVATI DAL TRIBUNALE DEL LAVORO DI ROMA.
Il punto della situazione sull'iniziativa della UIL PA per l'abolizione della trattenuta.

La nostra iniziativa che da alcuni mesi stiamo portando avanti attraverso le diffide individuali e con azioni giudiziarie mirate, con cause pilota su alcune città, comincia a dare i primi segnali che qualcosa si muove.
Sono stati presentati ricorsi ai Tribunali del Lavoro di Milano (presentato 15.06.2012 - fissata udienza il 02.10.2012), Roma (presentato il 27.06.2012), Foggia (presentato il 27.06.2012).
E’ in fase avanzata la predisposizione degli atti per la presentazione del ricorso ai Tribunali del lavoro di Venezia e Torino.
Intanto su questa materia, per un ricorso già presentato da personale della scuola, il TRIBUNALE di Roma, Sez. lavoro, accogliendo parzialmente le argomentazioni dei ricorrenti, con ordinanza 09.05.2012 ha investito la Corte Costituzionale perché sia valutata la legittimità della persistenza della trattenuta del 2,5%, dopo l’entrata in vigore dell’art. 12, comma 10, del D.L. 78/2010, con riferimento agli artt. 3 (principio di uguaglianza) e 36 (giusta retribuzione) della Costituzione (link a www.http://www.uilpa.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Modifiche alla legge regionale sull’amianto (ANCE Bergamo, circolare 03.08.2012 n. 208).

PUBBLICO IMPIEGO: Permessi legge 104/1992.
Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali con l'interpello 01.08.2012 n. 24/2012 si pronuncia sul riproporzionamento dei giorni di permesso ex art. 33, comma 3, legge n. 104/1992. Lo esclude nei casi in cui il dipendente, nel corso del mese, fruisca di altri permessi/assenze giustificate riconosciute per legge come diritti spettanti al lavoratore (ad esempio, in caso di: permesso sindacale, maternità, malattia, ecc...).
Diversamente, nell'ipotesi in cui il dipendente presenti istanza ex lege 104/1992 per la prima volta nel corso del mese, ritiene possibile operare un riproporzionamento del numero di giorni mensili di permesso spettanti (vedasi circolare INPS n. 128/2003) (tratto da www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATA :         (link a www.giustizia-amministrativa.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI: G.U. 03.08.2012 n. 180 "Testo del decreto-legge 06.06.2012, n. 74, coordinato con la legge di conversione 01.08.2012, n. 122, recante: «Interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici che hanno interessato il territorio delle province di Bologna, Modena, Ferrara, Mantova, Reggio Emilia e Rovigo, il 20 e il 29.05.2012»".

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 31 del 03.08.2012, "Modifiche e integrazioni alla legge regionale 29.04.2003, n. 17 (Norme per il risanamento dell’ambiente, bonifica e smaltimento dell’amianto)" (L.R. 31.07.2012 n. 14).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 31 del 03.08.2012, "Determinazione della procedura di valutazione ambientale di piani e programmi - VAS (art. 4, l.r. n. 12/2005; d.c.r. n. 351/2007) - Approvazione allegato 1u - Modello metodologico procedurale e organizzativo della valutazione ambientale di piani e programmi (VAS) – Variante al piano dei servizi e piano delle regole" (deliberazione G.R. 25.07.2012 n. 3836).

AMBIENTE-ECOLOGIA - LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 31 del 02.08.2012:
● "Schede dell’iniziativa FRISL 2012/2013 AB) “Interventi strutturali negli oratori lombardi” e dell’iniziativa FRISL 2012-2014 G) “Centri di raccolta comunali o intercomunali dei rifiuti urbani e assimilati (d.m. 08.04.2008 e s.m.i.)” (deliberazione G.R. 25.07.2012 n. 3846);
● "Direzione centrale Programmazione integrata - Modalità per l’accesso ai contributi FRISL 2012/2013 iniziativa AB) “Interventi strutturali negli oratori lombardi” e FRISL 2012/2014 iniziativa G) “Centri di raccolta comunali e intercomunali dei rifiuti urbani e assimilati (d.m. 08.04.2008 e s.m.i)” (Fondo ricostituzione infrastrutture sociali lombardia) (l.r. 33/91)" (circolare regionale 26.07.2012 n. 6).

LAVORI PUBBLICI: G.U. 30.07.2012 n. 176 "Testo del decreto-legge 06.06.2012 , n. 73, coordinato con la legge di conversione 23.07.2012, n. 119, recante: «Disposizioni urgenti in materia di qualificazione delle imprese e di garanzia globale di esecuzione»".

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.U.E. 24.07.2012 n. L/197 "DIRETTIVA 2012/19/UE DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 04.07.2012 sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE) (rifusione)" (link a http://eur-lex.europa.eu).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

PUBBLICO IMPIEGO: A. Migliozzi, Dall’etica del dovere al diritto delle responsabilità (link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: N. Durante, I doveri di fedeltà alla Repubblica, disciplina ed onore (link a www.giustizia-amminiostrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L. Bitto, Le aree «non idonee» all’installazione di impianti a fonti rinnovabili sono aree vietate? (link a www.ipsoa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: F. Vanetti, In attesa del D.M. su terre e rocce da scavo... (link a www.lexambiente.it).

URBANISTICA: A. Roccella, Governo del territorio e tutela del paesaggio tra Cedu, legislazione statale e legislazione regionale (link a www.lexambiente.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Gli incarichi ex art. 110 TUEL fuori dai vincoli sul lavoro flessibile.
La Corte dei Conti, Sez. Autonomie, con deliberazione 11.07.2012 n. 12/2012 ha emanato alcuni principi di diritto in riferimento alla disposizione di cui al riscritto comma 6-quater dell'articolo 19 del d.lgs 165/2001, relativa al conferimento degli incarichi dirigenziali con contratto a tempo determinato ex art. 110, comma 1, del TUEL.

La disposizione di cui al riscritto comma 6-quater dell’articolo 19 del d.lgs 165/2001, relativa al conferimento degli incarichi dirigenziali con contratto a tempo determinato ex art. 110, comma 1 del TUEL, è norma assunzionale speciale e parzialmente derogatoria rispetto al regime vigente.
Da ciò consegue che:
1. gli incarichi conferibili (contingente) con contratto a tempo determinato in applicazione delle percentuali individuate dal riscritto comma 6-quater dell’articolo 19, del d.lgs 165/2001, riguardano solo ed esclusivamente le funzioni dirigenziali;
2. a detti incarichi non si applica la disciplina assunzionale vincolistica prevista dall’articolo 9, comma 28 del d. l. 78/2010;
3. gli enti che intendono conferire detti incarichi (la cui spesa va considerata ai sensi dell’art.1 comma 557 e 562 della L. 296/2006), oltre ad osservare gli obblighi assunzionali (generali) previsti per tutte le pubbliche amministrazioni (richiamati nella presente deliberazione), devono essere in linea con i vincoli di spesa ed assunzionali per gli stessi previsti dalla normativa in vigore e di seguito richiamati:
   ● rispetto del patto di stabilità interno, se tenuti;
   ● riduzione della spesa del personale rispetto a quella sostenuta nell’anno precedente (art. 1, comma 557, Legge 296/2006 per gli enti soggetti al patto di stabilità) o contenimento della stessa entro il valore di quella relativa all’anno 2008 (art. 1, comma 562, primo periodo, Legge 296/2006, per gli enti minori);
   ● contenimento nella percentuale normativamente prevista del rapporto tra spesa del personale e spesa corrente (attualmente 50% articolo 76, comma 7, primo periodo, prima parte, d.l. 112/2008);
4. gli incarichi conferibili in applicazione della disposizione derogatoria di cui al terzo periodo del richiamato comma 6–quater relativa all’utilizzo dell’ulteriore percentuale (3%) prevista e quelli rinnovabili per una sola volta entro l’anno 2012 in applicazione delle previsioni del quinto periodo del medesimo comma, non sono soggetti al vincolo finanziario di cui all’articolo 9, comma 28, del d.l. 78/2010 ma, restano comunque soggetti al vincolo assunzionale di cui all’articolo 76, comma 7, primo periodo, seconda parte, del d.l. 112/2008) (entro il limite del 40% della spesa per cessazioni dell’anno precedente) (Corte dei Conti, Sez. autonomie, deliberazione 11.07.2012 n. 12).

NEWS

EDILIZIA PRIVATASemplificato il percorso per i permessi edilizi. Niente copie di documenti già in possesso dell'amministrazione.
Le novità introdotte dal decreto sviluppo incidono profondamente sull'attività edilizia, liberalizzando le procedure soprattutto se i lavori si svolgono all'interno delle unità produttive. Vediamole in sintesi.
Sportello unico
Lo sportello unico per l'edilizia diventa il punto di riferimento obbligato per tutti gli atti «riguardanti il titolo abitativo e l'intervento edilizio oggetto dello stesso». Lo sportello fornisce una risposta tempestiva in luogo di tutte le Pa comunque coinvolte.
Tutti gli atti dovranno essere gestiti da questa struttura, e altri uffici comunali o altre amministrazioni coinvolte dal procedimento non potranno trasmettere autonomamente «ai richiedenti» atti autorizzatori, pareri, nulla osta o consensi.
Dia e Scia
Viene stabilito che, nei casi in cui per la Dia è prevista l'acquisizione di atti o pareri di organi o enti, essi sono sempre sostituiti dalle autocertificazioni o dalle asseverazioni di tecnici abilitati che potranno essere prodotte insieme alla denuncia. Con alcune eccezioni, come i casi di vincoli ambientali o di limiti dovuti alla sismicità. Le amministrazioni avranno la possibilità di effettuare le loro verifiche in un secondo momento.
Permesso di costruire
Per il rilascio del permesso di costruire, rientra nelle competenze dello sportello unico l'acquisizione, diretta o tramite conferenza di servizi, di pareri di amministrazioni finora escluse. Tra queste, Regione, Difesa e autorità sui vincoli idrogeologici.
Il responsabile dello sportello unico ha l'obbligo di indire la conferenza di servizi se entro sessanta giorni dalla domanda manca ancora qualche nulla osta o c'è il dissenso di qualche amministrazione.
Documenti inutili
Scatta un taglio consistente della documentazione richiesta per tutti gli interventi, compresi quelli minori fatti in casa, grazie all'acquisizione d'ufficio dei documenti già in possesso degli uffici pubblici, come documenti catastali o variazioni di mappa.
In base alle nuove disposizioni contenute nella versione definitiva del Dl Sviluppo le amministrazioni «non possono richiedere attestazioni, comunque denominate, o perizie, sulla veridicità e l'autenticità di tali documenti, informazioni e dati».
Lavori nelle imprese
Novità importanti nei fabbricati adibiti a esercizio d'impresa, nei quali possono essere realizzate modifiche interne di carattere edilizio o mutamenti di destinazione d'uso senza alcun titolo abilitativo. Lo consente l'articolo 13-bis del Dl Sviluppo.
Dal giugno 2012 tutti gli interventi edilizi interni sono sottratti al passaggio burocratico del Comune, perché sono equiparati alle opere libere, che non esigono titoli edilizi. Prima erano esclusi solo manutenzione straordinaria, pannelli solari e aree ludiche.
Cambi di destinazione d'uso
Vengono regolati anche i mutamenti di destinazione d'uso dei locali adibiti a esercizio di impresa: all'interno di un immobile d'impresa i singoli locali (uffici, magazzini, depositi, servizi) possono trasmigrare da una destinazione all'altra.
Le nuove libertà riguardano non solo le aree produttive, ma in generale tutte le destinazioni a esercizio di impresa, quindi anche qualsiasi intervento di tipo produttivo purché interno all'attività (articolo Il Sole 24 Ore del 04.08.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

LAVORI PUBBLICIEdilizia. Uno scatto procedurale nel nuovo accordo Abi-Ance. Sconto dei crediti Pa: basta il certificato lavori.
Le imprese appaltatrici di lavori pubblici non avranno bisogno di seguire la complessa procedura di certificazione dei crediti con la Pa prevista dalla legge per attivare presso gli sportelli bancari gli strumenti di smobilizzo o di anticipazione finanziaria previsti dai protocolli Abi del 28 febbraio e del 22.05.2012: sarà sufficiente presentare invece il certificato lavori emesso dall'amministrazione debitrice.
È quanto afferma l'addendum firmato ieri fra Abi (associazione bancaria italiana) e Ance (associazione nazionale costruttori edili) per recepire le specificità del settore edilizio nell'ambito degli accordi sottoscritti nel corso dell'anno fra l'associazione bancaria e il mondo imprenditoriale. Di fatto, la procedura di certificazione si azzera per le imprese edili perché il certificato lavori è un documento ordinario all'interno delle procedure di appalto.
Le uniche integrazioni che le imprese di costruzioni dovranno presentare sono un «estratto conto elenco documenti di Equitalia relativo alla presenza di inadempienze all'obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento», le fatture quietanzate per i subappalti, la dichiarazione del l'amministrazione debitrice in caso di anticipazione con cessione del credito.
L'addendum Abi-Ance contiene una seconda disposizione che prevede la possibilità per l'impresa di ricevere dalla banca un'anticipazione pari almeno al 70% del credito certificato «al netto di eventuali debiti verso la Pa». La condizione è ovviamente che il fondo di garanzia per le Pmi rilasci la propria copertura con garanzia o controgaranzia, secondo quanto previsto dall'accordo generale.
«L'addendum con l'Abi -commenta il presidente del l'Ance, Paolo Buzzetti- è un importante passo avanti ottenuto grazie al forte appoggio dell'associazione bancaria. Questa intesa non soltanto evita procedure di certificazione che sarebbero state molto lunghe e pesanti, ma consente, per la stessa ragione, di anticipare l'applicazione degli accordi, rendendola di fatto quasi immediata».
Anche questo passaggio, tuttavia, non basta affatto rispetto a un problema generale che per il 30-40% colpisce proprio le imprese di costruzioni. «Anche questa intesa –dice Buzzetti– non risolve il problema del pagamento dei crediti che per il settore è diventato drammatico» e l'Ance stima in 19 miliardi.
Per l'associazione dei costruttori «non è con le anticipazioni bancarie che il problema può essere risolto perché l'unica vera soluzione è che lo Stato cominci a pagare i suoi debiti. Il Governo non può sfuggire questo passaggio obbligatorio». Questo non soltanto perché «l'anticipazione costa, andando quindi a ridurre i margini dell'impresa sull'appalto, e perché l'anticipazione andrà comunque restituita. Ma anche perché –aggiunge il presidente dell'Ance– l'anticipazione, così come i decreti ingiuntivi che pure noi abbiamo promosso, rischiano di risolversi in altri palliativi in cui ci avvitiamo, se poi lo Stato non paga».
Buzzetti lancia quindi un segnale chiaro al Governo. «Sono state fatte cose importanti –dice– con il decreto sviluppo e noi lo abbiamo riconosciuto. Ma tutti devono capire che senza una forte iniezione di liquidità il settore non si rimette in moto. Se lo Stato non paga i suoi debiti, anche le misure positive del decreto sviluppo saranno vanificate» (articolo Il Sole 24 Ore del 04.08.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCorte conti: no a limiti di spesa sui dirigenti a termine.
Negli enti locali da oggi meno paletti sugli incarichi dirigenziali con contratto a tempo determinato.
La disposizione contenuta nei primi due periodi dell'articolo 19, comma 6-quater, del dlgs 165/2001, secondo cui negli enti locali il limite massimo degli incarichi è conferito in base alla dimensione demografica dell'ente, è norma assunzionale speciale e parzialmente derogatoria al regime oggi vigente. ... (articolo ItaliaOggi del 03.08.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOP.a., niente soldi dalle ferie residue. I giorni di riposo non goduti non possono essere monetizzati.
Dallo scorso 7 luglio le ferie non fruite da parte dei dirigenti e dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche non possono essere monetizzate. Tale divieto sembra applicarsi anche alle specifiche istanze avanzate prima di tale data e che non hanno avuto una risposta positiva. Si raccomanda ai dirigenti e ai responsabili di prestare particolare attenzione al rispetto di questa disposizione. La sua violazione determina infatti sia il maturare di responsabilità disciplinare ed amministrativa sia l'obbligo di restituzione da parte del dipendente.
Sono queste le principali indicazioni contenute nel comma 8 dell'articolo 5 del dl n. 95/2012, la cosiddetta spending review, per come licenziato dal senato. Da sottolineare che sul punto non si sono avute variazioni di rilievo nel corso dell'esame parlamentare.
Questa misura si inserisce nel quadro delle iniziative per conseguire risparmi di spesa nel pubblico impiego. Essa vuole inoltre sanare una condizione di anomalia presente in molte amministrazioni pubbliche in cui i dipendenti e/o i dirigenti non godono dei periodi di ferie fissati dai contratti collettivi nazionali di lavoro. Ricordiamo che le ferie sono un diritto «non disponibile», che deve quindi essere goduto da parte dei dipendenti perché servono a garantirgli il recupero delle energie psicofisiche: in questo senso vanno i principi dettati nella nostra Costituzione.
In applicazione di questi principi, i dirigenti in quanto dotati dei poteri e delle capacità del privato datore di lavoro possono o, per molti aspetti, devono collocare d'autorità in quiescenza i dipendenti che non chiedono le ferie. La normativa contrattuale, in particolare quella del personale ... (articolo ItaliaOggi del 03.08.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI SERVIZIServizi pubblici punto e a capo. La Corte costituzionale ha spazzato via la stretta sull'in house. La decisione porta a riflettere sull'opportunità di continuare a osteggiare gli affidamenti.
Merita un approfondimento particolare lo scenario dei servizi pubblici a esito dell'ennesimo accadimento che ha riguardato la materia, ovvero la sentenza della Corte costituzionale n. 199/2012. Il termine non è utilizzato per errore, poiché di reali accadimenti occorre ormai parlare in relazione a una materia, quella dei servizi pubblici locali, oggetto da ormai più di un decennio, a più livelli e a più riprese, di tentativi di riforme organiche, di correttivi in grado di modificare il precedente assetto, di una cospicua evoluzione delle discipline settoriali e regionali e, come nell'ipotesi di specie, di interventi della stessa Corte costituzionale.
Ciò che deriva è un quadro desolante. Certamente non sono in dubbio i moduli gestionali dei servizi. Infatti, al di là del tentativo del nostro legislatore di limitare il ricorso alle forme dell'in house providing, non si può disconoscere che tale modello gestionale, unitamente a quelli della concessione a terzi con gara e al partenariato pubblico-privato, rappresentino tutti dei modelli la cui validità e vigenza è un dato ormai acquisito. Ciò che, tuttavia, appare dubbio è il problematico contorno ... (articolo ItaliaOggi del 03.08.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - EDILIZIA PRIVATA: La pubblicità sulle gru si paga se eccede i limiti. Un decreto del Mef fissa i paletti.
L'imposta sulla pubblicità non è dovuta per il marchio di fabbrica apposto sulle gru mobili, sulle gru a torre adoperate nei cantieri edili e sulle macchine da cantiere, purché la superficie complessiva non ecceda i limiti disposti da un recente decreto dal ministero dell'economia e delle finanze.
Il provvedimento datato 26.07.2012, in corso di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e anticipato ... (articolo ItaliaOggi del 02.08.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Illegittimità provata allegando l'atto. Agevolato il percorso del cittadino contro la p.a..
Per dimostrare la colpa dell'amministrazione, il privato, danneggiato da un provvedimento illegittimo, può anche limitarsi ad allegare la sola illegittimità dell'atto: è quanto si evince nella sentenza 12.06.2012 n. 3444 della V Sez. del Consiglio di Stato. ... (articolo ItaliaOggi del 02.08.2012 - tratto da www.ecostampa.it).
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Osserva la Sezione che la pronuncia in scrutinio correla il sorgere della responsabilità dell’Amministrazione direttamente all’illegittimità provvedimentale emersa, senza svolgere particolari argomentazioni circa l’elemento della colpa.
Una simile impostazione, peraltro, si inserisce nell’alveo di un preciso ordine concettuale più volte condiviso anche da questa Sezione, la quale ha avuto modo di osservare che ai fini della configurazione del diritto al risarcimento del danno derivante dalla lesione di interessi legittimi l'illegittimità dell'atto amministrativo costituisce un indice presuntivo della colpa della P.A., sulla quale semmai incombe l'onere di provare la sussistenza di un proprio errore scusabile (C.d.S., V, 31.10.2008, n. 5453).
Più ampiamente, la giurisprudenza ha sottolineato (cfr. ad es. C.d.S., VI, 09.03.2007 n. 1114 e 09.06.2008 n. 2751) che al privato danneggiato da un provvedimento illegittimo non è richiesto un particolare impegno probatorio per dimostrare la colpa dell’Amministrazione. Il privato può limitarsi ad allegare l'illegittimità dell'atto, potendosi ben fare applicazione, al fine della prova dell'elemento soggettivo, delle regole di comune esperienza e della presunzione semplice di cui all'art. 2727 del codice civile. E spetta a quel punto all'Amministrazione dimostrare, se del caso, che si è verificato un errore scusabile, il quale è configurabile, ad esempio, in caso di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, o di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata (cfr., tra le tante, C.d.S., IV, 12.02.2010, n. 785; V, 20.07. 2009, n. 4527).
Nel caso di specie, però, nessuno dei predetti fattori giustificativi è stato fatto riscontrare, non avendo la parte onerata addotto alcuna precisa e significativa incertezza interpretativa che potesse giustificare il suo operato dannoso.
Senza dire che la Corte di Giustizia dell’U.E. ha recentemente chiarito che la direttiva 89/665 deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale la quale subordini il diritto ad ottenere un risarcimento a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici, da parte di un'Amministrazione aggiudicatrice, al carattere colpevole di tale violazione. E questo anche nel caso in cui l'applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all'Amministrazione suddetta, nonché sull'impossibilità per quest'ultima di far valere la mancanza di proprie capacità individuali e, dunque, un ipotetico difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata (Corte giustizia CE, sez. III, 30.09.2010, proc. C-314/09) (link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAP.a., i tagli non bloccano i concorsi. Assunzioni ok anche negli enti oggetto di riorganizzazione. Il maxiemendamento al dl 9.5 consente l'immissione in servizio dei vincitori rimasti al palo.
Nonostante i tagli agli organici, la p.a. non smetterà di assumere là dove necessario. Il maxiemendamento alla spending review (dl 95/2012) introduce nell'articolo 14 un comma 4-bis, che consente alle amministrazioni interessate ai processi di riorganizzazione previsti dall'articolo 2 del medesimo decreto di attivare l'immissione in servizio dei vincitori di concorso rimasti al palo, a causa dei vari blocchi e tetti delle assunzioni, anche avvalendosi delle graduatorie di altre amministrazioni, utilizzando quanto prevede l'articolo 3, comma 61, della legge 350/2003, previo accordo tra le amministrazioni.
L'emendamento sblocca le assunzioni dei vincitori di concorso per rispondere «all'esigenza di ottimizzare l'allocazione del personale presso le amministrazioni soggette agli interventi di riduzione organizzativa» nonché «al fine di consentire ai vincitori di concorso una più rapida immissione in servizio» e consente le assunzioni per il triennio 2012-2014.
Dette assunzioni potranno essere effettuate ... (articolo ItaliaOggi dell'01.08.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: SPENDING REVIEW VERSO IL TRAGUARDO/ Sanità, statali, enti locali: tutti i tagli. Estensione del modello Consip, tasse universitarie, limiti ai compensi dei manager.
Tasse universitarie, prescrizioni dei farmaci e tagli alle Spa pubbliche sono le novità che hanno contrassegnato il rush finale dell'esame a Palazzo Madama. Ma particolarmente intenso è stato tutto il lavoro svolto nelle ultime due settimane in Commissione Bilancio, dove sono stati numerosi gli interventi di modifica al testo del Governo.
A partire dall'aumento dell'addizionale regionale Irpef nelle otto Regioni in disavanzo sanitario, fino al tetto per gli stipendi dei manager delle società non quotate partecipate dallo Stato. O come la mancata deroga al taglio delle province e il salvataggio di Covip, del Centro sperimentale di cinematografia e della Cineteca nazionale. Modifiche che, come ha sottolineato ieri il ministro della Cooperazione e l'Integrazione, Andrea Riccardi, «non mettono in discussione l'architettura fondamentale del provvedimento».
Il decreto, che entra ora nella sua complessa fase attuativa era nato con l'obiettivo primario di scongiurare l'aumento delle due aliquote principali dell'Iva del 10 e del 21% garantendo minori spese per 3,7 miliardi quest'anno, 10,23 l'anno venturo e 11,17 miliardi nel 2014. A questo obiettivo s'è aggiunto l'intervento per la salvaguardia di una seconda platea di esodati (55mila con una maggiore spesa prevista nei prossimi sette anni di 4,1 miliardi) e gli stanziamenti per la ricostruzione nelle zone colpite dal terremoto in Emilia.
Norme non previste nel primo disegno del decreto alle quali, come detto, si sono poi aggiunti gli interventi di riordino delle province, che verranno dimezzate, il decreto dismissioni (con il trasferimento alla Cassa depositi e prestiti di Sace, Simest e Fintecna), il riordino delle Agenzie fiscali e, altro provvedimento aggiunto, l'intervento straordinario del ministero dell'Economia per il rafforzamento patrimoniale del Monte del Paschi di Siena (3,9 miliardi). ... (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.08.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALISpa pubbliche, colpito solo l'in house. Salta l'estensione della riduzione di cda e personale a tutte le società controllate dalla Pa.
LIMITI AL METODO CONSIP/ Gli acquisti della Pa non saranno vincolati alle regole se i contratti saranno stati conclusi con uno sconto del 20%.

Arriverà soltanto nella mattinata di oggi il primo via libera dell'Aula del Senato al decreto sulla spending review. Dopo una giornata iniziata con la mancanza del numero legale e proseguita in attesa che il Governo mettesse a punto il maxiemendamento, soltanto nella serata è giunta la richiesta di fiducia da parte del ministro Piero Giarda. Il che ha spinto la conferenza dei capigruppo a far slittare a oggi il via libera al provvedimento d'urgenza.
Nel maxiemendamento depositato ieri sono state recepite le modifiche apportate dalla commissione Bilancio del Senato e soprattutto è stato "imbarcato" il cosiddetto decreto legge sulle dismissioni con l'accorpamento delle agenzie fiscali nel testo licenziato dalle commissioni Finanze e Bilancio sempre di Palazzo Madama. Operazione che ha obbligato il Governo a ritornare in commissione Bilancio per un veloce esame e far iniziare
soltanto dopo le 20 di ieri la discussione sulla fiducia. Soltanto alle 9,00 di questa mattina si partirà con le dichiarazioni di voto e dopo le 10,20 avranno inizio le votazioni.
Il testo, ricomposto in forma di maxi-emendamento, conferma innanzitutto il via libera al contributo via convenzione con Abi per l'attivazione di un plafond di 6 miliardi per la ricostruzione nella zone colpite dal terremoto in Emilia. Avrà la forma del credito d'imposta con un costo di 450 milioni l'anno per l'Erario; minori entrate che, dal 2015, troveranno compensazione con i tagli di spesa ai ministeri. Sul fronte sanitario, confermati gli sconti a carico delle farmacie e delle aziende farmaceutiche, arriva la norma composta con la mediazione del sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri, Antonio Catricalà, che impone ai medici di indicare nella ricetta del Servizio sanitario nazionale la sola denominazione del principio attivo contenuto nel farmaco. Il Tesoro ha sottolineato che «non c'è alcun passo indietro» visto che permane «l'obbligatorietà» per il medico di indicare il principio attivo. Mentre è una «facoltà» quella di prescrivere il «medicinale specifico».
Per una delle misure più importanti del decreto, vale a dire il ricorso al metodo Consip per gli acquisti di beni e servizi di tutte le amministrazioni, fa discutere la scelta di lasciare libertà dal vincolo in caso di contratti sottoscritti direttamente con i fornitori a sconto rispetto ai valori Consip. «La riduzione dei costi della Amministrazione Pubblica –ha segnalato ieri in una nota il presidente di Confindustria digitale, Stefano Parisi– non si ottiene con il “massimo ribasso”, ma procedendo alla digitalizzazione “end to end” dei servizi, alla razionalizzazione e interoperabilità delle banche dati fino all'erogazione dei servizi al cittadino e alle imprese via web». Confermate le misure sul pubblico impiego (si veda articolo in pagina) con due novità: l'estensione dell'esame congiunto con i sindacati dei processi di mobilità che si apriranno con i tagli sulle dotazioni organiche e il rilancio dei piani di valutazione delle performance di dirigenti e dipendenti, cui legare la distribuzione selettiva dei trattamenti accessori in vista dei rinnovi dei contratti collettivi (2015).
Passo indietro, invece, sul l'estensione dei tagli alle società pubbliche controllate (riduzione dei Cda e interventi sul personale). Il Governo ha infatti stralciato dal maxiemendamento, con disappunto dei relatori e dei senatori della Commissione Bilancio, la norma che estendeva l'intervento inizialmente previsto per le sole società che nel 2011 avevano fatturato oltre il 90% con prestazione e servizi offerti alle sole pubbliche amministrazioni.
Novità dell'ultima ora anche per gli studenti universitari con redditi familiari ridotti. Per i prossimi tre anni accademici a decorrere dall'anno accademico 2013/2014, l'aumento della contribuzione per gli studenti in regola con i rispettivi corsi di studio di primo e secondo livello, il cui Isee familiare non sia superiore a 40mila euro, non potrà essere superiore all'indice dei prezzi al consumo dell'intera collettività. Scatterà invece il forte incremento per tutti i fuori corso: più 25% per i ragazzi con un Isee familiare fino a 90.000 Euro; più 50% per chi ha un Isee familiare tra i 90.000 e i 150.000 euro; addirittura il 100% per i redditi oltre i 150.000.
Nel testo coordinato entra, come detto, l'articolato del decreto legge sulle dismissioni e l'accorpamento delle agenzie fiscali. Si prevede il passaggio di Sace, Simest e Fintecna sotto il controllo della Cassa depositi e prestiti. Un'operazione che verrà perfezionata entro l'autunno e che determinerà maggiori entrate per il bilanci dello Stato dell'ordine di 9-10 miliardi di euro, secondo le ultime stime della Relazione tecnica. Confermata infine la decorrenza della soppressione dell'Agenzia del Territorio e dei Monopoli di Stato a partire dall'01.12.2012, come indicato dalla Commissione Finanze. Inoltre con il maxi-emendamento viene confermata la possibilità di attivare 380 nuove posizioni non dirigenziali all'interno delle Agenzie per garantirne la piena funzionalità dopo il riordino (articolo Il Sole 24 Ore del 31.07.2012 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGODirigenti messi al bando nella p.a.. I manager pubblici tagliati saranno rimpiazzati da quadri. Gli emendamenti approvati al senato riducono l'autonomia organizzativa in materia di personale.
Stretta agli incarichi dirigenziali nelle amministrazioni dello stato e nelle agenzie. Gli emendamenti dei relatori all'articolo 2 della spending review (dl 95/2012), approvati venerdì scorso in commissione al senato, irrigidiscono ulteriormente la possibilità delle amministrazioni di assumere e incaricare i dirigenti.
Per le amministrazioni dello stato, anche a ordinamento autonomo, delle agenzie, degli enti pubblici non economici, degli enti di ricerca, nonché degli enti pubblici di cui all'articolo 70, comma 4, del dLgs 165/2001, si emenda l'articolo 2, nel quale si inserisce un comma 10-bis, finalizzato a sottrarre alle varie amministrazioni una forte parte dell'autonomia organizzativa e normativa.
Infatti, dette amministrazioni non potranno più incrementare il numero degli uffici di livello dirigenziale generale e non generale con i regolamenti di organizzazione, perché occorrerà, invece, una -disposizione legislativa di rango primario-. Il legislatore mostra poca fiducia sull'autonomia organizzativa delle amministrazioni anche con il nuovo comma 10-ter dell'articolo 2. Esso, allo scopo di semplificare ed accelerare il riordino organizzativo disposto dal comma 10, prevede che i regolamenti di organizzazione dei ministeri siano adottati con decreto del presidente del consiglio dei ministri, su proposta del ministro competente, di concerto con il ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione e con il ministro dell'economia e delle finanze.
E sui dpcm si impone il controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti. Una volta vigenti i decreti del presidente del consiglio, si disapplicheranno i regolamenti di organizzazione vigenti. Per quanto ... (articolo ItaliaOggi del 31.07.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: Gestione delle attività. La disciplina dei casi in cui non si può ricorrere al mercato.
Società strumentali in salvo con l'ok dell'Authority.
I CRITERI/ Le norme sullo scioglimento non riguardano realtà che svolgono servizi pubblici o che gestiscono banche dati strategiche.

Le amministrazioni pubbliche possono mantenere le società per la gestione di servizi strumentali, se particolari condizioni non consentono il ricorso al mercato, ma devono acquisire il parere vincolante dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm).
Il maxiemendamento alla legge di conversione del Dl 95/2012 (spending review) introduce importanti innovazioni e integrazioni alle regole per lo scioglimento delle società che realizzano, a favore delle amministrazioni socie, almeno il 90% del proprio fatturato, contenute nell'articolo 4 dello stesso decreto sulla revisione della spesa.
La completa riformulazione del comma 3 precisa le esclusioni dall'ambito applicativo della disposizione.
Le norme sullo scioglimento non riguardano anzitutto le società che svolgono servizi di interesse generale (quindi servizi pubblici) sia con rilevanza economica che privi di tale caratteristica. L'esclusione riguarda anche le società che svolgono prevalentemente attività di centrali di committenza, la Consip e la Sogei, le società finanziarie delle Regioni, nonché quelle che gestiscono banche dati strategiche per il conseguimento di obiettivi economico-finanziari (e questa formulazione dovrebbe finalmente determinare la non sottoposizione alle norme di scioglimento per le società di gestione delle attività di accertamento e di riscossione dei tributi).
Nel novero delle società strumentali escluse sono destinate a rientrare anche molte realtà che saranno individuate con un apposito decreto interministeriale, sulla base della necessità di mantenimento determinata dalla gestione (da parte delle stesse) di dati riservati.
Il profilo di maggiore innovazione è dato dalla possibilità, per le amministrazioni pubbliche, di sottrarre le società che gestiscono per esse servizi strumentali quando particolari caratteristiche del contesto territoriale e socioeconomico di riferimento non rendano possibile un efficace e utile ricorso al mercato.
Tuttavia, queste situazioni dovranno essere dimostrate mediante un'analisi del mercato, che dovrà essere trasmessa all'Agcm per l'acquisizione di un parere, da parte della stessa autorità, definito come vincolante. Una volta reso, il parere sarà trasmesso alla presidenza del Consiglio dei ministri. La stessa disposizione precisa, però, che anche alle società escluse dalla disciplina sullo scioglimento, al pari di tutte le società a totale partecipazione pubblica (indipendentemente dall'attività esercitata e dai servizi gestititi) si applicano le norme che regolano la composizione dei consigli di amministrazione (contenute nel comma 5).
Il maxiemendamento introduce novità importanti anche in ordine al procedimento alternativo allo scioglimento delle società, che prevede (comma 1, lettera b dell'articolo 4) l'alienazione delle partecipazioni del l'amministrazione nel l'organismo gestore dei servizi strumentali. Le nuove disposizioni integrano il quadro esistente, specificando che l'alienazione deve riguardare l'intera partecipazione del soggetto pubblico controllante: pertanto, un ente locale che decida di vendere le proprie quote o azioni (anche il 100%) della società strumentale dovrà porle tutte sul mercato, non potendo conservare nemmeno una partecipazione simbolica.
Nella gara per l'alienazione il bando considera, tra gli elementi di valutazione dell'offerta, quello costituito dal l'adozione di strumenti di tutela dell'occupazione da parte del soggetto privato acquirente. Il conseguente affidamento del servizio alla società così "privatizzata" viene mantenuto nel termine di cinque anni, ma nella norma viene a essere espressamente prevista l'esclusione del rinnovo alla scadenza del quinquennio.
In relazione al comma 6 dell'articolo 4 del decreto spending review, il maxiemendamento alla legge di conversione precisa che i limiti nei rapporti con organismi non societari non si applicano alle relazioni con le aziende speciali e le istituzioni che gestiscono servizi sociali e culturali oppure farmacie, nonché a un'ampia serie di soggetti appartenenti all'area non profit (vale a dire associazioni di promozione sociale, cooperative sociali, associazioni sportive dilettantistiche, associazioni rappresentative degli enti locali, come Anci e Upi) (articolo Il Sole 24 Ore del 30.07.2012 - tratto da www.corteconti.it).

SEGRETARI COMUNALI: Interrogazioni. Tra Unioni e municipi.
Niente segreteria in convenzione
IL DIVIETO/ Il ministro Giarda ha motivato la sua risposta in base al Tuel, auspicando però un ripensamento.

Non possono essere stipulate convenzioni di segreteria tra i Comuni e le Unioni: è quanto ha chiarito il ministro per i Rapporti con il parlamento, Piero Giarda, in risposta a una interrogazione che era stata presentata dall'onorevole Daniela Melchiorre.
Per il ministro è necessario ripensare tale divieto per arrivare a risultati di «razionalizzazione delle risorse e di ottimizzazione dell'esercizio delle funzioni degli enti locali». Questa esigenza è ulteriormente rafforzata dall'accelerazione impressa dal legislatore alla gestione associata tra i piccoli Comuni e dalla progressiva riduzione del numero dei segretari in servizio. Tanto più che quasi dappertutto, ai vertici delle Unioni, vi sono proprio segretari dei Comuni aderenti, sulla base di disposizioni dettate dagli statuti e della possibilità offerta dalla ex Agenzia di ricevere questo come un incarico aggiuntivo.
Il ministro ha detto "no" alla stipula di convenzioni di segreteria tra Unioni e Comuni perché «il segretario comunale e provinciale, come figura professionale, esercita le proprie attribuzioni, in conformità con quanto previsto dal proprio ordinamento e dal testo unico degli enti locali, solo presso i Comuni e le Province, o presso le convenzioni di segreteria, le quali tuttavia non riguardano né le Unioni di Comuni né le Comunità montane. Queste ultime, infatti, hanno facoltà di avvalersi per i servizi di segreteria di personale non iscritto all'apposito albo. Il quadro normativo di riferimento non contempla dunque la possibilità di stipulare una convenzione con l'Unione per il servizio di segreteria».
Giarda ha citato, a sostegno della propria tesi, la deliberazione della soppressa Agenzia nazionale dei segretari comunali e provinciali del 02.05.2001. Implicitamente ha confermato che queste disposizioni continuano ad applicarsi anche dopo che –con il Dl 95/2012, la cosiddetta spending review– è stato previsto che i Comuni possano stipulare in generale convenzioni con le Unioni.
Ma il blocco alle convenzioni per la segreteria non ha impedito che i segretari, previa autorizzazione dei sindaci, possano svolgere l'incarico di segretari dell'Unione. Tale incarico è da considerare (secondo la deliberazione 200/2001 della disciolta Agenzia) come extra-istituzionale, quindi disciplinato dall'articolo 53 del Dlgs 165/2001, e remunerato come tale.
Con la gestione associata tra i piccoli Comuni si viene a modificare in modo significativo il ruolo dei segretari nei piccoli centri, stimolando ulteriormente l'utilizzazione dello strumento convenzioni. Nella stessa direzione va anche la tendenza, consacrata da ultimo dal Dl 95/2012 con il tetto alle nuove assunzioni, alla progressiva riduzione dei segretari in servizio. Tutte queste ragioni spingono verso l'utilizzazione delle convenzioni di segreteria tra Comuni e Unioni.
Peraltro, sulla base della riscrittura delle funzioni fondamentali dei Comuni contenuta in tale provvedimento, non è più necessario che esse siano inserite nelle forme associate scelte dall'ente, potendo continuare a mantenere la loro specificità, anche per la individuazione dei Comuni (articolo Il Sole 24 Ore del 30.07.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale. Intervento sul trattamento accessorio. Si ripresentano le fasce di merito.
Rispuntano le fasce di merito nel decreto sulla spending review. In realtà, si tratta di ben poca cosa rispetto all'idea originaria, ma la filosofia è la stessa: programmazione degli obiettivi, sistema di misurazione e valutazione della performance e sistema premiale selettivo e meritocratico. Gli ingredienti di questa ricetta, che potrà essere utilizzata fino alla prossima tornata contrattuale, sono due: il sistema di valutazione e la differenziazione. Su questi due aspetti si concentra il decreto 95/2012 (forse dimenticando che manca l'ingrediente principe: le risorse).
Per quanto attiene ai sistemi di misurazione e valutazione della performance, vengono ridefinite le direttrici per il riconoscimento del relativo trattamento accessorio. Per i dirigenti andranno considerati due elementi: da una parte il grado di raggiungimento degli obiettivi individuali e dell'unità organizzativa di diretta responsabilità nonché il contributo alla performance complessiva, e dall'altra il comportamento organizzativo e la capacità di differenziare la valutazione dei propri collaboratori. Per il restante personale si considereranno, oltre al comportamento organizzativo, il raggiungimento degli obiettivi individuali, di gruppo e il contributo alla performance dell'unità organizzativa.
Nella sostanza, cambia poco o nulla. Il quadro complessivo continua a basarsi su tre fattori: obiettivi, comportamento e capacità di valutare. Rimane confermato che non sono considerati i periodi di congedo di maternità, di paternità e parentale. L'elemento, forse, più interessante sono le nuove fasce di merito. Ai dipendenti classificati ai vertici della graduatoria della performance individuale dovrà essere garantito un trattamento accessorio più elevato di una percentuale tra il 10 e il 30% del trattamento accessorio medio riconosciuto ai colleghi di pari categoria. La percentuale dei dipendenti virtuosi che attingeranno a questo "superpremio" non potrà essere inferiore al 10% del totale dei dipendenti oggetto di valutazione.
Quali risorse verranno destinate a questo meccanismo? Si sta parlando di quelle previste dall'articolo 6, comma 1, del Dl 141/2011, che richiama l'articolo 16, comma 5, del Dl 98/2011, ovvero dei «piani triennali di razionalizzazione e riqualificazione della spesa», i cui risparmi devono essere destinati per almeno il 50% a questo nuovo meccanismo premiale. Norma che, secondo la Corte dei conti Lombardia (deliberazione 299/2012/Par), non troverebbe applicazione agli enti locali (articolo Il Sole 24 Ore del 30.07.2012 - tratto da www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVIIl dies a quo per impugnare una delibera comunale, per i soggetti terzi interessati, decorre dal giorno in cui è scaduto il termine di pubblicazione dell’atto nell’albo pretorio, specificando che il termine decorre dalla notificazione o dalla piena conoscenza solo per i soggetti che sono direttamente contemplati nell'atto o che siano immediatamente incisi dagli effetti dello stesso anche se non contemplati.
Pertanto, per i terzi interessati la pubblicazione all'albo pretorio per quindici giorni consecutivi di una deliberazione comunale implica presunzione di conoscenza, con la conseguenza che è dall'ultimo giorno di pubblicazione che decorre il termine decadenziale di sessanta giorni per proporre impugnazione avverso detto atto.
La tardività del ricorso –per avvenuta decorrenza del termine– deve essere rilevata d’ufficio -quindi anche in carenza di specifica eccezione delle controparti, che nel caso non si sono costituite- in quanto la perentorietà del termine d’impugnazione (disposta dall’art. 21 della L. 06.12.1971 n. 1074 ed ora dagli artt. 29/41 c.p.a.) risponde a ragioni di ordine pubblico, sicché l’effetto decadenziale è indisponibile per le parti.

Va previamente disaminata -alla stregua del preavviso ex art. art. 73, 2° comma c.p.a. dato dal Collegio alla pubblica udienza dell'08.02.2012- la tempestività del proposto ricorso nei riguardi delle delibere consiliari comunale n. 32 del 21.11.2010 e n. 38 del 23.12.2010, in quanto proposto ben oltre il termine decadenziale decorrente dall’avvenuta pubblicazione delle stesse all’albo pretorio.
E’ noto che le regole del processo amministrativo (dapprima l’art. 21 della L. 06.12.1971 n. 1074, ora l’art. 41 c.p.a.) prevedono che il dies a quo per impugnare una delibera comunale per i soggetti terzi interessati, decorra dal giorno in cui è scaduto il termine di pubblicazione dell’atto nell’albo pretorio (cfr. ex multis: Cons. St., Sez. VI, 06.04.2010, n. 1918; Sez. V, 21.12.2010, n. 9314), specificando che il termine decorre dalla notificazione o dalla piena conoscenza solo per i soggetti che sono direttamente contemplati nell'atto o che siano immediatamente incisi dagli effetti dello stesso anche se non contemplati (cfr. Cons. St., Sez. VI 03.10.2007 n. 5105, Sez. VI 13.07.2010 n. 4501)
Pertanto, per i terzi interessati la pubblicazione all'albo pretorio per quindici giorni consecutivi di una deliberazione comunale implica presunzione di conoscenza, con la conseguenza che è dall'ultimo giorno di pubblicazione che decorre il termine decadenziale di sessanta giorni per proporre impugnazione avverso detto atto.
Va innanzitutto osservato che la tardività del ricorso –per avvenuta decorrenza del termine– deve essere rilevata d’ufficio -quindi anche in carenza di specifica eccezione delle controparti, che nel caso non si sono costituite- in quanto la perentorietà del termine d’impugnazione (disposta dall’art. 21 della L. 06.12.1971 n. 1074 ed ora dagli artt. 29/41 c.p.a.) risponde a ragioni di ordine pubblico, sicché l’effetto decadenziale è indisponibile per le parti (cfr. TAR Reggio Calabria n. 64/1978; C.G.A., 28.09.2007 n. 872) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 03.08.2012 n. 1417 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIl Comune rimane libero di dare una diversa destinazione urbanistica alle aree acquisite in sede di convenzioni urbanistiche al fine della realizzazione di opere di urbanizzazione.
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I terreni destinati a verde pubblico dal piano regolatore acquistano la condizione di beni del patrimonio indisponibile dell'ente pubblico (e, quindi, di beni strumentali al perseguimento dei fini istituzionali dell’ente stesso) solo dal momento in cui, essendo stati acquistati da questo in proprietà, sono trasformati ed in concreto utilizzati secondo la propria destinazione, non essendo all'uopo sufficiente né il piano regolatore generale, che ha solo funzione programmatoria e l'effetto di attribuire alla zona, o anche ai terreni in esso eventualmente indicati, una vocazione da realizzare attraverso gli strumenti urbanistici di secondo livello o ad essi equiparati, e la successiva attività di esecuzione di questi strumenti, né il provvedimento di approvazione del piano di lottizzazione, che individua solo il terreno specificamente interessato dal progetto di destinazione pubblica, né la convenzione di lottizzazione, che si inserisce nella fase organizzativa del processo di realizzazione del programma urbanistico e non nella fase della sua materiale esecuzione.

Va comunque incidentalmente osservato che:
- la giurisprudenza ha avuto più volte occasione di affermare che il Comune rimane libero di dare una diversa destinazione urbanistica alle aree acquisite in sede di convenzioni urbanistiche al fine della realizzazione di opere di urbanizzazione (cfr. Cassazione civile, sez. II, 14.08.2007, n. 17698; Cassazione civile, sez. II, 28.08.2000, n. 11208; Cassazione civile, sez. II, 09.03.1990 n. 1917; Cassazione civile, sez. II, 25.07.1980 n. 4833; TAR Abruzzo L'Aquila, 16.07.2004, n. 835);
- i terreni destinati a verde pubblico dal piano regolatore acquistano la condizione di beni del patrimonio indisponibile dell'ente pubblico (e, quindi, di beni strumentali al perseguimento dei fini istituzionali dell’ente stesso) solo dal momento in cui, essendo stati acquistati da questo in proprietà, sono trasformati ed in concreto utilizzati secondo la propria destinazione, non essendo all'uopo sufficiente né il piano regolatore generale, che ha solo funzione programmatoria e l'effetto di attribuire alla zona, o anche ai terreni in esso eventualmente indicati, una vocazione da realizzare attraverso gli strumenti urbanistici di secondo livello o ad essi equiparati, e la successiva attività di esecuzione di questi strumenti, né il provvedimento di approvazione del piano di lottizzazione, che individua solo il terreno specificamente interessato dal progetto di destinazione pubblica, né la convenzione di lottizzazione, che si inserisce nella fase organizzativa del processo di realizzazione del programma urbanistico e non nella fase della sua materiale esecuzione (cfr. Cassazione civile, sez. II, 09.09.1997, n. 8743)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 03.08.2012 n. 1417 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa procedura di messa in vendita (diretta) di aree a standard, acquisite gratuitamente dall'attuazione di un piano attuativo, escludendo uno o più proprietari dei lotti facenti parte il piano medesimo è illegittima poiché la mancata partecipazione di un soggetto che avrebbe avuto titolo ad essere notiziato dell’offerta di vendita determina il travolgimento, a cascata, degli atti successivi della procedura suddetta sino all’aggiudicazione.
Il ricorrente afferma che la vendita sarebbe stata riservata agli ex lottizzanti e comprova di rivestire tale qualifica mediante produzione (cfr. doc. n. 4 del ric.) di copia della convenzione di lottizzazione “PL Giardino” in data 12.01.1984 n. 16340-10262 di rep. Notaio Aldo Franco Rossi, ove –alla pag. 3– è indicato come uno dei lottizzanti: Crippa Eugenio nato a ... il ....
Va precisato che –come si evince dal provvedimento n. 134 del 29.11.2010- destinatari della lettera d’invita erano i (“proprietari di immobili in via Moroni ex p.l. Giardino”).
In ogni caso il Crippa ha affermato di rivestire anche tale (parzialmente differente) qualifica producendo (cfr. il doc. 9/9-bis) il rogito notaio Giuseppe Mangili atto di acquisto in data 09.01.1995 di appezzamento di terreno ricompreso nel PL giardino di cui all’atto Notaio Aldo Franco Rossi e (doc. n. 8) l’atto di permuta di strisce di terreno nell’ambito del P.L. in questione.
In assenza di contestazioni al riguardo da parte dell’Amministrazione deve dunque ritenersi comprovato il possesso della qualifica di proprietario di immobili in via Moroni ex P.L. Giardino, sicché il predetto aveva titolo ad essere destinatario dell’invito.
La mancata partecipazione di un soggetto che avrebbe avuto titolo ad essere notiziato dell’offerta di vendita determina il travolgimento, a cascata, degli atti successivi della procedura suddetta sino all’aggiudicazione di cui alla determinazione n. 4 del 2011 (terzo atto qui impugnato)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 03.08.2012 n. 1417 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa decadenza dei vincoli urbanistici preordinati all'espropriazione o che comportino l'inedificabilità assoluta del suolo o che privino il diritto di proprietà del suo valore economico, determinata dall'inutile decorso del termine quinquennale decorrente dall'approvazione del P.R.G., obbliga il Comune a procedere alla nuova pianificazione dell'area rimasta non normata.
Né l’amministrazione può sottrarsi a tale obbligo adducendo l’avvio del procedimento di predisposizione del piano di governo del territorio ed i limiti previsti, per l’approvazione di varianti agli strumenti urbanistici vigenti, dagli articoli 25 e 26, l. Regione Lombardia n. 12/2005.
La p.a. ha, difatti, un obbligo immediato di provvedere alla rideterminazione urbanistica dell’area e non può quindi soprassedere ad esso ove, come accade nel caso di specie, non vi sia la certezza che l’approvazione del nuovo strumento urbanistico generale avverrà in tempi ravvicinati.
Nessun ostacolo, infine, può essere ravvisato nelle citate previsioni della l.reg. n. 12/2005; ciò in quanto il potere-dovere dell’amministrazione di conferire una disciplina urbanistica all’area del ricorrente trova la propria fonte nelle previsioni di cui all'art. 9 t.u. per l'edilizia ed all'art. 9 t.u. sugli espropri.

La censura con cui viene affermata l’illegittimità del provvedimento impugnato, per violazione dell’obbligo di dare alle aree in questione una nuova destinazione urbanistica, è fondata.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, la decadenza dei vincoli urbanistici preordinati all'espropriazione o che comportino l'inedificabilità assoluta del suolo o che privino il diritto di proprietà del suo valore economico, determinata dall'inutile decorso del termine quinquennale decorrente dall'approvazione del P.R.G., obbliga il Comune a procedere alla nuova pianificazione dell'area rimasta non normata (cfr., fra le tante, Consiglio Stato, sez. II, 28.04.2010, n. 1405).
Né l’amministrazione può sottrarsi a tale obbligo adducendo l’avvio del procedimento di predisposizione del piano di governo del territorio ed i limiti previsti, per l’approvazione di varianti agli strumenti urbanistici vigenti, dagli articoli 25 e 26, l. Regione Lombardia n. 12/2005.
La p.a. ha, difatti, un obbligo immediato di provvedere alla rideterminazione urbanistica dell’area e non può quindi soprassedere ad esso ove, come accade nel caso di specie, non vi sia la certezza che l’approvazione del nuovo strumento urbanistico generale avverrà in tempi ravvicinati.
Nessun ostacolo, infine, può essere ravvisato nelle citate previsioni della l.reg. n. 12/2005; ciò in quanto il potere-dovere dell’amministrazione di conferire una disciplina urbanistica all’area del ricorrente trova la propria fonte nelle previsioni di cui all'art. 9 t.u. per l'edilizia ed all'art. 9 t.u. sugli espropri (cfr. anche Tar Lombardia, Milano, n. 2044 del 20.07.2012).
Il Collegio -vista l’istanza del ricorrente, formulata con la memoria depositata in data 11.06.2012- ritiene di poter fissare, ai sensi dell’art. 34, cod.proc.amm. c. 1, lett. e), il termine di 60 giorni dalla notificazione o comunicazione in via amministrativa della presente sentenza, entro il quale l’amministrazione dovrà provvedere (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.08.2012 n. 2171 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mobilità volontaria e scorrimento graduatoria di concorso.
Il Consiglio di Stato riforma la sentenza di primo grado e conferma che in presenza di graduatoria di concorso valida non è legittimo determinarsi al reclutamento di personale avviando, ex novo, procedura di mobilità volontaria ex art. 30 d.lgs. 165/2001.
Le motivazioni, sinteticamente, sono le seguenti:
- è principio generale che le graduatorie di concorso rimangono efficaci per il termine indicato nel bando, eventualmente prorogato dalla legge, per eventuali coperture di posti successivamente resisi disponibili;
- l'unico limite allo scorrimento della graduatoria è che non si tratti di posti di nuova istituzione o trasformazione;
- la prevalenza della mobilità esterna (ex art. 30 d.lgs. 165/2001) è prevista dal legislatore solo rispetto a nuove procedure concorsuali;
- lo scorrimento della graduatoria è soluzione più razionale ed economica rispetto all'espletamento di una nuova ed ulteriore procedura (avviso e selezione per mobilità volontaria);
- procedere diversamente significherebbe duplicare l'applicazione dell'istituto della mobilità, dal momento che l'obbligo di legge (preferenza per la mobilità) è già stato soddisfatto prima di bandire il concorso;
- quindi, la modalità di assunzione per scorrimento della graduatoria di concorso già espletata è estranea alla fattispecie delineata dal comma 2-bis dell'art. 30 del d.lgs. 165/2001;
- in conformità ai principi enunciati dall'Adunanza plenaria (sentenza n. 14 del 2011), lo scorrimento della graduatoria è prioritario anche rispetto all'indizione di nuovo concorso che necessita, eventualmente, di puntuale motivazione (commento tratto da www.publika.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 31.07.2012 n. 4329 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa possibilità che ad un’aggiudicazione provvisoria non segua quella definitiva del contratto di appalto è un evento del tutto fisiologico, disciplinato dagli artt. 11, comma 11, 12 e 48, comma 2, del d.lgs. 163/2006, inidoneo di per sé a ingenerare qualunque affidamento tutelabile con conseguente obbligo risarcitorio, qualora non sussista nessuna illegittimità nell’operato della p.a..
Inoltre, in tal caso, non spetta nemmeno l’indennizzo di cui all’art. 21-quinquies della legge 241/1990 poiché si è di fronte al mero ritiro di un’aggiudicazione provvisoria (atto avente per sua natura efficacia interinale e non idonea a creare affidamenti) e non ad una revoca di un atto amministrativo ad effetti durevoli come previsto dalla predetta norma per l’indennizzabilità della revoca.

Sovente, infatti, la giurisprudenza amministrativa ha affrontato il problema giuridico se spetti una qualsiasi forma di risarcimento o di indennizzo per un’aggiudicazione provvisoria, successivamente annullata con provvedimento ritenuto legittimo.
Al quesito viene data risposta negativa (Cons. St., sez. VI, 27.07.2010, n. 4902; Cons. St., VI, 17.03.2010, n. 1554; Consiglio Stato, sez. V, 15.02.2010, n. 808).
Alla vicenda che si esamina possono estendersi i principi elaborati in tema di contratti pubblici, in relazione ai quali si è sottolineato che la possibilità che ad un’aggiudicazione provvisoria non segua quella definitiva del contratto di appalto è un evento del tutto fisiologico, disciplinato dagli artt. 11, comma 11, 12 e 48, comma 2, del d.lgs. 163/2006, inidoneo di per sé a ingenerare qualunque affidamento tutelabile con conseguente obbligo risarcitorio, qualora non sussista nessuna illegittimità nell’operato della p.a..
Inoltre, in tal caso, non spetta nemmeno l’indennizzo di cui all’art. 21-quinquies della legge 241/1990 poiché si è di fronte al mero ritiro di un’aggiudicazione provvisoria (atto avente per sua natura efficacia interinale e non idonea a creare affidamenti) e non ad una revoca di un atto amministrativo ad effetti durevoli come previsto dalla predetta norma per l’indennizzabilità della revoca ( C.d.s., sez. VI, 19.01.2012 n. 195) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 31.07.2012 n. 2158 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL'obbligo di esame, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. b), l. n. 241 del 1990, delle memorie procedimentali presentate dal privato non impone un'analitica confutazione in merito ad ogni argomento utilizzato dalle parti stesse, essendo sufficiente un iter motivazionale che renda nella sostanza percepibile la ragione del mancato adeguamento dell'azione amministrativa alle deduzioni difensive del privato stesso.
La giurisprudenza è costante nell’affermare che l'obbligo di esame, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. b), l. n. 241 del 1990, delle memorie procedimentali presentate dal privato non impone un'analitica confutazione in merito ad ogni argomento utilizzato dalle parti stesse, essendo sufficiente un iter motivazionale che renda nella sostanza percepibile la ragione del mancato adeguamento dell'azione amministrativa alle deduzioni difensive del privato stesso (Consiglio di Stato, sez. VI, 11.03.2010, n. 1439).
Nel caso di specie l’amministrazione ha adeguatamente motivato le ragioni poste a fondamento della decisione di negare il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria, qualificando l’abuso e specificando le ragioni per le quali ha ritenuto insussistente il presupposto della doppia conformità, richiesto dall'art. 13, l. n. 47/1985.
A fronte di un potere vincolato, qual’è quello esercitato nel caso di specie, alcun altro onere incombeva in capo alla p.a. (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 31.07.2012 n. 2157 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa decadenza del vincolo espropriativo per decorso del quinquennio di efficacia comporta la qualificazione dell’area come “zona bianca” e l’assoggettamento alle previsioni di cui all'art. 4 comma ultimo l. n. 10 del 1977 (ora art. 9 t.u. n. 380 del 2001), sino all'adozione, da parte del Comune, di nuove, specifiche prescrizioni.
È, invece, escluso che a seguito della caducazione dei vincoli possa rivivere la situazione anteriore all'imposizione degli stessi ovvero che i vuoti di disciplina possano essere colmati con l'espansione delle destinazioni impresse alle aree limitrofe.
In conseguenza del decadere del vincolo espropriativo, l'area in questione risulta, perciò, sprovvista di una regolamentazione urbanistica -essendo abrogata quella preesistente al vincolo stesso ed essendo divenuta inefficace quella recata da quest'ultimo- onde essa resta soggetta alla disciplina di cui all'art. 4 comma ultimo l. 28.01.1977 n. 10, prevista per i comuni sprovvisti di piano regolatore generale.
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Ove si configurino piani regolatori che abbiano in parte perduto la loro efficacia, tale situazione va considerata equivalente a quella di piani che in origine presentino "zone bianche", piuttosto che a quella di piani regolatori inesistenti. In forza di tale principio è applicabile la previsione di cui alla lett. a) anziché quella di cui alla lett. d) dell'art. 49, comma 1, della L.R. n. 51/1975.
L’art. 49, c. 1, lett. a), L.R. n. 51/1975 detta una disciplina di maggior rigore rispetto a quanto previsto alla lett. d) e dall’art. 4, comma 8, della legge n. 10 del 1977, ammettendo esclusivamente costruzioni per la conduzione agricola e non con destinazione residenziale o produttiva.

Il provvedimento non è affatto contraddittorio laddove afferma il contrasto con la normativa che regola le zone bianche, applicabile alle aree in questione in conseguenza della decadenza del vincolo espropriativo.
La decadenza del vincolo espropriativo per decorso del quinquennio di efficacia comporta, invero, per unanime giurisprudenza, la qualificazione dell’area come “zona bianca” e l’assoggettamento alle previsioni di cui all'art. 4 comma ultimo l. n. 10 del 1977 (ora art. 9 t.u. n. 380 del 2001), sino all'adozione, da parte del Comune, di nuove, specifiche prescrizioni.
È, invece, escluso che a seguito della caducazione dei vincoli possa rivivere la situazione anteriore all'imposizione degli stessi ovvero che i vuoti di disciplina possano essere colmati con l'espansione delle destinazioni impresse alle aree limitrofe (fra le tante Consiglio di Stato, sez. IV, 27.01.2011, n. 615; Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 09.12.2010, n. 27130; Tar Campania, Napoli, sez. VII, 07.05.2010, n. 3082; Tar Puglia, Lecce, sez. I, 12.02.2010, n. 564; Cons. Stato, sez. IV, 26.09.2008, n. 4661; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 05.11.2004, n. 5597).
Non può quindi condividersi quanto affermato dal ricorrente circa l’applicabilità della disciplina delle aree agricole circostanti: né è stato, difatti, provato che il p.r.g. prevedesse, per l’area in questione, una duplice disciplina e, in particolare, l’assoggettamento alla destinazione “E2”, una volta decaduto il vincolo espropriativo.
In conseguenza del decadere del vincolo espropriativo, l'area in questione risulta, perciò, sprovvista di una regolamentazione urbanistica -essendo abrogata quella preesistente al vincolo stesso ed essendo divenuta inefficace quella recata da quest'ultimo- onde essa resta soggetta alla disciplina di cui all'art. 4 comma ultimo l. 28.01.1977 n. 10, prevista per i comuni sprovvisti di piano regolatore generale (Consiglio di Stato, sez. V, 17.03.2001, n. 1596).
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Il Collegio condivide, invero, l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, ove si configurino piani regolatori che abbiano in parte perduto la loro efficacia, tale situazione va considerata equivalente a quella di piani che in origine presentino "zone bianche", piuttosto che a quella di piani regolatori inesistenti. In forza di tale principio è applicabile la previsione di cui alla lett. a) anziché quella di cui alla lett. d) dell'art. 49, comma 1, della L.R. n. 51/1975 (cfr Tar Lombardia, Milano, 30.01.2007, n. 111; Cons. St., sez. V, n. 720/ 2001 e n. 4275/ 2000).
L’art. 49, c. 1, lett. a), L.R. n. 51/1975 detta una disciplina di maggior rigore rispetto a quanto previsto alla lett. d) e dall’art. 4, comma 8, della legge n. 10 del 1977, ammettendo esclusivamente costruzioni per la conduzione agricola e non con destinazione residenziale o produttiva
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 31.07.2012 n. 2157 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIn presenza di un provvedimento sostenuto da più motivi, ciascuno autonomamente idoneo a darne giustificazione, la giurisprudenza è, difatti, concorde nel ritenere sufficiente che sia verificata la legittimità di uno di essi, per escludere che l’atto possa essere annullato in sede giurisdizionale.
In presenza di un provvedimento sostenuto da più motivi, ciascuno autonomamente idoneo a darne giustificazione, la giurisprudenza è, difatti, concorde nel ritenere sufficiente che sia verificata la legittimità di uno di essi, per escludere che l’atto possa essere annullato in sede giurisdizionale (Cons. Stato, sez. V, 29.05.2006, n. 3259) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 31.07.2012 n. 2157 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 36, d.P.R. n. 380/2001 prevede, quale presupposto per il rilascio del titolo in sanatoria, la conformità dell’opera alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente, sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda.
Nel concetto di “disciplina urbanistica ed edilizia vigente” è da ritenersi indubbiamente ricompresa anche la disciplina urbanistica solo adottata, le cui disposizioni sono vigenti ai sensi dell’art. 12, d.P.R. n. 380/2001.

L’art. 36, d.P.R. n. 380/2001 prevede, quale presupposto per il rilascio del titolo in sanatoria, la conformità dell’opera alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente, sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda.
Nel concetto di “disciplina urbanistica ed edilizia vigente” è da ritenersi indubbiamente ricompresa anche la disciplina urbanistica solo adottata, le cui disposizioni sono vigenti ai sensi dell’art. 12, d.P.R. n. 380/2001
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 31.07.2012 n. 2157 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI L’art. 46, comma 1-bis, del D.L.vo 12.04.2006, n. 163, aggiunto dall’art. 4, 2 comma, n. 2, lett. d) del D.L. n. 70 del 2011, convertito con modificazioni nella L. 12.07.2011, n. 106, ha introdotto il principio della tassatività delle cause di esclusione dei soggetti partecipanti agli esperimenti indetti dalla P.A, prevedendo la possibilità di comminare l’esclusione solo “nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l’offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte”, che “i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione” e che “dette prescrizioni sono comunque nulle”.
In base a tale norma, è oggi possibile comminare l’esclusione da una gara solo in caso di violazione di una specifica disposizione normativa e solo ove vi sia incertezza in ordine alla provenienza della domanda, al suo contenuto o alla sigillazione dei plichi e che ogni altra ragione di non partecipazione agli incanti non può essere prevista, a pena di nullità della disposizione del bando o della lettera d’invito.
Tale nuova disciplina restringe la possibilità di comminare l’esclusione da tali procedure alle ipotesi di mancato adempimento a specifiche prescrizioni di legge previste dal codice degli appalti, dal regolamento attuativo (D.P.R. n. 207 del 2010) e da altre disposizioni legislative vigenti, e solo ove ci sia incertezza relativamente alla provenienza della domanda, al suo contenuto o alla sigillazione dei plichi, sanzionando con la nullità ogni altra previsione di impedimento alla partecipazione.
In particolare, è già chiarito che, pur in presenza di una specifica previsione contenuta nel bando di gara, è illegittima l’esclusione da una gara, ad esempio, per la mancata presentazione delle referenze bancarie, di una fotocopia del documento d’identità del sottoscrittore, di una cauzione provvisoria di importo inferiore a quello richiesto dal bando di gara o di irregolarità della polizza fideiussoria.

Va, invero, al riguardo, ricordato che l’art. 46, comma 1-bis, del D.L.vo 12.04.2006, n. 163, aggiunto dall’art. 4, 2 comma, n. 2, lett. d) del D.L. n. 70 del 2011, convertito con modificazioni nella L. 12.07.2011, n. 106, ha introdotto il principio della tassatività delle cause di esclusione dei soggetti partecipanti agli esperimenti indetti dalla P.A, prevedendo la possibilità di comminare l’esclusione solo “nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l’offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte”, che “i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione” e che “dette prescrizioni sono comunque nulle”.
In base a tale norma, in definitiva -applicabile alla gara in questione, in quanto il relativo bando è stato pubblicato dopo l’entrata in vigore del predetto decreto legge (TAR Puglia, sede Bari, Sez. I, 11.01.2012)- è oggi possibile comminare l’esclusione da una gara solo in caso di violazione di una specifica disposizione normativa e solo ove vi sia incertezza in ordine alla provenienza della domanda, al suo contenuto o alla sigillazione dei plichi e che ogni altra ragione di non partecipazione agli incanti non può essere prevista, a pena di nullità della disposizione del bando o della lettera d’invito.
Ora, interpretando tale normativa, la giurisprudenza (cfr. da ultimo TAR Sicilia, sez. Catania, sez. IV, 09.02.2012, n. 348, TAR Valle d’Aosta, 23.01.2012, n. 6, TAR Liguria, sez. II, 22.09.2011, n. 1396, e TAR Veneto, sez. I, 13.09.2011, n. 1376) ha già avuto modo di chiarire che tale nuova disciplina restringe la possibilità di comminare l’esclusione da tali procedure alle ipotesi di mancato adempimento a specifiche prescrizioni di legge previste dal codice degli appalti, dal regolamento attuativo (D.P.R. n. 207 del 2010) e da altre disposizioni legislative vigenti, e solo ove ci sia incertezza relativamente alla provenienza della domanda, al suo contenuto o alla sigillazione dei plichi, sanzionando con la nullità ogni altra previsione di impedimento alla partecipazione.
In particolare, è già chiarito, che, pur in presenza di una specifica previsione contenuta nel bando di gara, è illegittima l’esclusione da una gara, ad esempio, per la mancata presentazione delle referenze bancarie (TAR Abruzzo, sede Pescara, 09.11.2011, n. 632), di una fotocopia del documento d’identità del sottoscrittore (TAR Lombardia, sede Milano, sez. III, 23.05.2012, n. 1397), di una cauzione provvisoria di importo inferiore a quello richiesto dal bando di gara (Cons. St., sez. III, 01.02.2012, n. 493, e TAR Lombardia, sede Milano, sez. I, 14.06.2012, n. 1658) o di irregolarità della polizza fideiussoria (TAR Lazio, sede Roma, Sez. I-bis 15.12.2011, n. 9791).
Ciò posto, ritiene il Collegio che la Stazione appaltante non avrebbe potuto inserire, in violazione del predetto principio di tassatività, una clausola di esclusione (cioè la mancata presentazione di una copia del capitolato speciale di appalto firmato in ogni pagina), che non è prevista da alcuna previsione normativa e che non crea alcuna incertezza “assoluta” sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta. Va, invero, in merito osservato che l’interesse della Stazione appaltante ad acquisire l’impegno delle partecipanti alla gara al pieno rispetto del capitolato speciale era già pienamente soddisfatto con l’acquisizione delle dichiarazioni (puntualmente effettuate nel caso di specie) delle partecipanti alla gara di aver preso visione del capitolato speciale e di accettarne “completamente ed incondizionatamente” tutte le prescrizioni in esso contenute; per cui non avrebbe potuto imporsi alle partecipanti alla gara anche di allegare all’offerta, a pena di esclusione, una copia del capitolato speciale di appalto firmato in ogni pagina, in quanto tale previsione era contrastante sia con il principio di tassatività delle cause di esclusione, che con il principio di proporzionalità, dato che l’interesse della stazione appaltante era già adeguatamente tutelato con la dichiarazione di accettazione delle clausole contenute nel capitolato speciale (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 31.07.2012 n. 366 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il rilascio della concessione edilizia si configura come fatto costitutivo dell’obbligo giuridico del concessionario di corrispondere il relativo contributo per oneri di urbanizzazione, ossia per gli oneri affrontati dall’ente locale per le opere indispensabili affinché l’area acquisti attitudine al recepimento dell’insediamento del tipo assentito e per le quali l’area acquista un beneficio economicamente rilevante, da calcolarsi secondo i parametri vigenti a tale momento; il contributo per oneri di urbanizzazione è quindi dovuto per il solo rilascio della concessione, senza che neanche rilevi, ad esclusione dell’obbligo, la già intervenuta realizzazione di opere di urbanizzazione.
Il contributo per il rilascio del permesso di costruire ha natura di prestazione patrimoniale imposta, di carattere non tributario, ed ha carattere generale, prescindendo totalmente o meno delle singole opere di urbanizzazione, venendo altresì determinato indipendentemente sia dall’utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio, sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare dette opere.
Ne discende che, attesa la natura non sinallagmatica e il regime interamente pubblicistico che connota il contributo de quo, la sua disciplina vincola anche il giudice, al quale è impedito di configurare autonomamente ipotesi di non debenza della specifica prestazione patrimoniale diverse da quelle autoritativamente individuate dal legislatore.

Ed invero, ai sensi dell’art. 1 della legge 28.01.1977, nr. 10 (e, oggi, dell’art. 16 del d.P.R. 06.06.2001, nr. 380), il rilascio della concessione edilizia si configura come fatto costitutivo dell’obbligo giuridico del concessionario di corrispondere il relativo contributo per oneri di urbanizzazione, ossia per gli oneri affrontati dall’ente locale per le opere indispensabili affinché l’area acquisti attitudine al recepimento dell’insediamento del tipo assentito e per le quali l’area acquista un beneficio economicamente rilevante, da calcolarsi secondo i parametri vigenti a tale momento; il contributo per oneri di urbanizzazione è quindi dovuto per il solo rilascio della concessione, senza che neanche rilevi, ad esclusione dell’obbligo, la già intervenuta realizzazione di opere di urbanizzazione (cfr. Cons. Stato, sez. V, 22.02.2011, nr. 1108; Cons. Stato, sez. IV, 24.12.2009, nr. 8757).
Per altrettanto pacifica giurisprudenza, il contributo per il rilascio del permesso di costruire ha natura di prestazione patrimoniale imposta, di carattere non tributario, ed ha carattere generale, prescindendo totalmente o meno delle singole opere di urbanizzazione, venendo altresì determinato indipendentemente sia dall’utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio, sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare dette opere (cfr. Cons. Stato, sez. V, 15.12.2005, nr. 7140; id., 06.05.1997, nr. 462).
Ne discende che, attesa la natura non sinallagmatica e il regime interamente pubblicistico che connota il contributo de quo, la sua disciplina vincola anche il giudice, al quale è impedito di configurare autonomamente ipotesi di non debenza della specifica prestazione patrimoniale diverse da quelle autoritativamente individuate dal legislatore (cfr. Cons. Stato, sez. V, 20.04.2009, nr. 2359) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.07.2012 n. 4320 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il termine per l’impugnazione del piano di zona per l’edilizia economica e popolare decorre, nei confronti dei proprietari di aree inserite nel piano medesimo, dalla data di notificazione dell’avviso dell’avvenuta sua approvazione, di cui all’art. 8, comma 5, della legge 18.04.1962, nr. 167, indipendentemente dalla circostanza che detti privati siano venuti a conoscenza del precedente atto di adozione.
Ed invero, come più volte affermato dalla Sezione, il termine per l’impugnazione del piano di zona per l’edilizia economica e popolare decorre, nei confronti dei proprietari di aree inserite nel piano medesimo, dalla data di notificazione dell’avviso dell’avvenuta sua approvazione, di cui all’art. 8, comma 5, della legge 18.04.1962, nr. 167, indipendentemente dalla circostanza che detti privati siano venuti a conoscenza del precedente atto di adozione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 01.04.1999, nr. 493; id., 18.03.1999, nr. 308) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.07.2012 n. 4313 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il procedimento per il rilascio del permesso di costruire e quello per il nulla-osta di compatibilità paesaggistica dell’intervento, ancorché connessi, restano due procedimenti ontologicamente e logicamente distinti, avendo a oggetto la tutela di beni diversi ed essendo articolati sulla base di competenze diverse.
Ne consegue che il richiamato art. 5 del d.P.R. nr. 380 del 2001, nell’assegnare allo Sportello unico per l’edilizia l’acquisizione di tutti gli “atti di assenso, comunque denominati, necessari ai fini della realizzazione dell’intervento edilizio”, si riferisce certamente a tutti i pareri e nulla-osta endoprocedimentali intesi al rilascio del permesso di costruire, ma non può estendersi anche a un’autorizzazione diversa ed esterna rispetto a tale procedimento, quale è l’autorizzazione paesaggistica eventualmente richiesta per l’esecuzione dell’intervento.

In estrema sintesi, assumono le appellanti che illegittimamente il Comune avrebbe ritenuto carente la pratica di sanatoria a causa della mancata acquisizione del nulla-osta della Soprintendenza, in quanto tale acquisizione sarebbe stata a loro dire a carico della stessa Amministrazione comunale: ciò in forza del disposto dell’art. 5 del d.P.R. nr. 380 del 2001, il quale pone a carico dello Sportello unico per l’edilizia “gli incombenti necessari ai fini dell’acquisizione, anche mediante Conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater della legge 07.08.1990, n. 241, degli atti di assenso, comunque denominati, necessari ai fini della realizzazione dell’intervento edilizio”.
Il primo giudice, condividendo sul punto le difese dell’Amministrazione comunale, ha ritenuto che quest’ultima disposizione si applichi soltanto agli interventi di nuova edificazione, e non anche a quelli a sanatoria, con interpretazione che le odierne appellanti contestano vivacemente.
Al riguardo, la Sezione reputa che le conclusioni del TAR siano esatte, ancorché sulla base di un diverso –e, forse, assorbente– ordine di considerazioni.
Ed invero, nella specie l’autorizzazione paesaggistica necessaria per le opere realizzate sull’immobile per cui è causa deve essere rilasciata ex post, e pertanto trova applicazione l’art. 167 del decreto legislativo 22.01.2004, nr. 42 (“Codice dei beni culturali e del paesaggio”), norma entrata in vigore in epoca successiva al d.P.R. nr. 380 del 2001, la quale manifestamente s’incentra sull’onere dell’interessato di richiedere l’autorizzazione alla competente Soprintendenza.
Tale previsione, peraltro, conferma il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui il procedimento per il rilascio del permesso di costruire e quello per il nulla-osta di compatibilità paesaggistica dell’intervento, ancorché connessi, restano due procedimenti ontologicamente e logicamente distinti, avendo a oggetto la tutela di beni diversi ed essendo articolati sulla base di competenze diverse (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. VI, 28.12.2011, nr. 6878).
Ne consegue che il richiamato art. 5 del d.P.R. nr. 380 del 2001, nell’assegnare allo Sportello unico per l’edilizia l’acquisizione di tutti gli “atti di assenso, comunque denominati, necessari ai fini della realizzazione dell’intervento edilizio”, si riferisce certamente a tutti i pareri e nulla-osta endoprocedimentali intesi al rilascio del permesso di costruire, ma non può estendersi anche a un’autorizzazione diversa ed esterna rispetto a tale procedimento, quale è l’autorizzazione paesaggistica eventualmente richiesta per l’esecuzione dell’intervento (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.07.2012 n. 4312 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il TAR Milano, che in un primo momento (con ordinanza 11.05.2012 n. 664) aveva dichiarato che "non appare irrilevante né manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1°, della l.r. n. 7/2012", ci ripensa e non invia gli atti alla Consulta.
Nel caso in cui il Comune rilasci il titolo edilizio in applicazione di norme solo successivamente dichiarate incostituzionali, è da escludere che la declaratoria di incostituzionalità di una norma di legge renda di per sé nulli i provvedimenti amministrativi adottati in base ad essa.
Ai fini dell’esatta comprensione e decisione del primo mezzo di ricorso, occorre prendere le mosse dalla sentenza della Corte Costituzionale 23.11.2011, n. 309 (cfr. doc. 8 dei ricorrenti), con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di taluni articoli della legge della Regione Lombardia n. 12/2005 sul governo del territorio e segnatamente degli articoli 27, comma 1, lettera d), ultimo periodo e dell’art. 103, oltre che dell’art. 22 della legge regionale 7/2010, laddove gli stessi annoveravano nel concetto di “ristrutturazione edilizia”, gli interventi di demolizione e ricostruzione degli edifici, senza rispetto del limite della sagoma.
In altri termini, le norme dichiarate incostituzionali consentivano, almeno in Lombardia, di qualificare come “ristrutturazione edilizia” anche le ipotesi di demolizione e ricostruzione di edifici, senza rispettare la sagoma dello stabile preesistente poi demolito.
La Corte ha ritenuto che le definizioni delle categorie degli interventi edilizi, contenute nella legge statale ed in particolare nell’art. 3 del DPR 380/2001 (Testo Unico sull’edilizia), costituiscono principi fondamentali della legislazione statale in materia di “governo del territorio” (materia riservata dall’art. 117, comma 3°, della Costituzione, alla potestà legislativa concorrente Stato-Regioni), che devono pertanto essere rispettati da parte delle Regioni nell’esercizio della loro funzione legislativa.
La sentenza della Corte Costituzionale n. 309/2011 ha immediatamente posto il problema della sua applicazione ai rapporti giuridici pendenti al momento della sua pubblicazione (23.11.2011), posto che, per espressa disposizione dell’art. 136 della Costituzione, le norme dichiarate incostituzionali cessano <<di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione>>.
Con riguardo agli effetti delle sentenze della Corte Costituzionale sui titoli edilizi o –meglio– sui rapporti giuridici nascenti dai titoli stessi (permesso di costruire, oppure DIA o SCIA, anche se questi ultimi non costituiscono provvedimenti amministrativi), è opinione diffusa, anche in dottrina, che le sentenze come quella di cui è causa possano esplicare effetti anche su titoli già rilasciati, purché l’attività edilizia sia ancora in corso e non siano ultimati i lavori assentiti, trattandosi di rapporti giuridici pendenti e non ancora esauriti o definiti (giacché solo in tale ultima ipotesi le sentenze del Giudice delle leggi non potrebbero trovare applicazione).
In Lombardia, il legislatore regionale ha ritenuto di dettare una specifica disciplina sulla sorte dei titoli edilizi, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 309/2011, attraverso l’art. 17 della legge regionale 18.04.2012, n. 7 (sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia 20.04.2012).
Ai sensi del comma 1° del citato art. 17, <<In relazione agli interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della sentenza della Corte Costituzionale del 21.11.2011, n. 309, al fine di tutelare il legittimo affidamento dei soggetti interessati, i permessi di costruire rilasciati alla data del 30.11.2011 nonché le denunce di inizio attività esecutive alla medesima data devono considerarsi titoli validi ed efficaci fino al momento della dichiarazione di fine lavori, a condizione che la comunicazione di inizio lavori risulti protocollata entro il 30.04.2012>>.
Nella presente fattispecie, la domanda di permesso di costruire indica espressamente che l’intervento è di ristrutturazione avverrà con modifica della sagoma (cfr. doc. 4 dei ricorrenti), ed il titolo edilizio è stato rilasciato il 21.11.2011, vale a dire due giorni prima del deposito della sentenza n. 309/2011.
Ciò premesso, si rimarca come nel primo mezzo di gravame si denuncia l’illegittimità del titolo edilizio, in quanto con lo stesso viene consentita una ristrutturazione senza limite di sagoma, in contrasto con la citata sentenza della Corte Costituzionale.
La difesa del controinteressato, dal canto suo, ha invocato a proprio favore l’art. 17, comma 1°, della legge regionale 7/2012, ritenuto applicabile al caso di specie, visto che il permesso di cui è causa è stato rilasciato prima del 30.11.2011.
Gli esponenti, di conseguenza, sia nella discussione orale all’udienza in camera di consiglio sia nelle successive memorie difensive, hanno chiesto al Tribunale di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 17 succitato, per violazione dell’art. 136 della Costituzione, avendo la norma regionale del 2012 di fatto prorogato gli effetti di una serie di norme dichiarate invece incostituzionali.
Il Collegio, nella propria ordinanza cautelare n. 664/2012, aveva ritenuto, seppure al termine di una cognizione sommaria, che la questione di costituzionalità dell’art. 17, comma 1°, fosse sia rilevante sia non manifestamente infondata, pur riservandosi un necessario approfondimento in sede di merito.
Orbene, tale approfondimento, assolutamente indispensabile vista la complessità della questione, induce ora il Tribunale alla conclusione che la questione di costituzionalità sia però priva, nel caso di specie, del necessario requisito della rilevanza (si ricordi che, ai sensi dell’art. 23 della legge 11.03.1953, n. 87, la questione è rilevante <<qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale>>).
Infatti, il permesso di costruire di cui è causa (cfr. doc. 1 dei ricorrenti), è stato rilasciato il 21.11.2011, prima (anche se di due soli giorni, ma ciò non rileva), del deposito della sentenza della Corte Costituzionale n. 309 del 23.11.2011, quindi in vigenza della disciplina regionale poi dichiarata incostituzionale.
Il Comune di Sondrio, in altri termini, non ha dato certamente applicazione all’art. 17, comma 1°, né al momento del rilascio del titolo edilizio (non essendo allora ancora intervenuta la pronuncia della Corte), né successivamente, non risultando che l’Amministrazione, d’ufficio o su istanza di soggetti terzi, abbia mai adottato provvedimenti di esecuzione del citato art. 17 (come sarebbe avvenuto, ad esempio, se il Comune, a fronte di una diffida di soggetti interessati, si fosse rifiutato di inibire l’intervento edilizio richiamando la norma dell’art. 17).
La questione di costituzionalità, pertanto, seppure appare al Collegio non manifestamente infondata (non essendo possibile per il legislatore ordinario assicurare una sorta di ulteriore vigenza di norme dichiarate incostituzionali; cfr. fra le tante, Corte Costituzionale, sentenze n. 350/2010 e n. 223/1983), non può però reputarsi rilevante, visto che la valutazione della legittimità di un permesso di costruire rilasciato prima della sentenza della Corte, può –almeno nel caso di specie– prescindere dalla norma dell’art. 17 della LR 7/2012.
In conclusione, il primo mezzo di ricorso deve respingersi, avendo il Comune rilasciato il titolo in applicazione di norme solo successivamente dichiarate incostituzionali e dovendosi escludere che la declaratoria di incostituzionalità di una norma di legge renda di per sé nulli i provvedimenti amministrativi adottati in base ad essa (così la giurisprudenza amministrativa, a partire dalla nota decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 08.04.1963, n. 8), potendo semmai essere esercitato il potere di autotutela amministrativa da parte del Comune di Sondrio sul permesso di costruire di cui è causa (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.07.2012 n. 2147 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl mutamento di destinazione d’uso, anche senza opere edilizie, non può costituire una operazione edilizia o urbanistica per così dire “neutra”, da definirsi esclusivamente attraverso il pagamento di una sanzione pecuniaria, dovendo l’Amministrazione verificare se il cambio d’uso non abbia inciso anche sul carico urbanistico della zona.
In questo senso appare orientata anche la giurisprudenza amministrativa, per la quale il mutamento di destinazione d’uso è rilevante se avviene fra <<categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico>>, dovendosi in tal caso verificare la variazione del carico urbanistico; parimenti è stato affermato che, indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere, rileva il passaggio dell’immobile ad una categoria funzionalmente autonoma dal punto di vista urbanistico, con conseguente aumento del carico; in altri termini si configura una “trasformazione edilizia” quando la stessa sia produttiva di vantaggi economici connessi all’utilizzazione, anche senza opere.

La specifica disciplina regionale sul mutamento di destinazione d’uso deve essere letta ed interpretata alla luce dei principi fondamentali e delle disposizioni più generali risultanti dalla legislazione statale (DPR 380/2001) ed anche dalla stessa legge regionale 12/2005.
Quest’ultima, in particolare, all’art. 51, comma 1°, se da una parte ammette in via di principio il passaggio da una destinazione all’altra, fa espressamente salve le esclusioni previste dallo strumento urbanistico generale (<<…salvo quelle eventualmente escluse dal PGT>>).
L’art. 52, comma 2°, del resto, prevede per i mutamenti d’uso senza opere edilizie un obbligo di semplice comunicazione all’Amministrazione, purché i suddetti mutamenti siano <<…conformi alle previsioni urbanistiche comunali ed alla normativa igienico-sanitaria>>.
Quanto alla normativa statale, l’art. 32, comma 1°, del DPR 380/2001, qualifica come “variazione essenziale” –sanzionata ai sensi del precedente art. 31 del DPR 380/2001 con l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino– il mutamento di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche senza opere edilizie), che implichi una variazione degli standard previsti dal DM 02.04.1968, n. 1444.
Appare quindi evidente che il mutamento di destinazione d’uso, anche senza opere edilizie, non può costituire una operazione edilizia o urbanistica per così dire “neutra”, da definirsi esclusivamente attraverso il pagamento di una sanzione pecuniaria, dovendo l’Amministrazione verificare se il cambio d’uso non abbia inciso anche sul carico urbanistico della zona.
In questo senso appare orientata anche la giurisprudenza amministrativa, per la quale il mutamento di destinazione d’uso è rilevante se avviene fra <<categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico>>, dovendosi in tal caso verificare la variazione del carico urbanistico (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 13.07.2010, n. 4546, con la giurisprudenza ivi richiamata); parimenti è stato affermato che, indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere, rileva il passaggio dell’immobile ad una categoria funzionalmente autonoma dal punto di vista urbanistico, con conseguente aumento del carico; in altri termini si configura una “trasformazione edilizia” quando la stessa sia produttiva di vantaggi economici connessi all’utilizzazione, anche senza opere (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 14.10.2011, n. 5539, con le pronunce in essa richiamate ed anche TAR Lombardia, Milano, sez. II, 11.02.2011, n. 468).
Nel caso di specie, la disciplina urbanistica del PRG di Lissone esclude che nella zona B3 di cui è causa sia possibile la destinazione residenziale: in tal senso si vedano l’art. 16.5.4 delle NTA che individua le destinazioni compatibili con quella principale produttiva, l’art. 20 delle NTA, che attribuisce alla zona B3 una caratteristica essenzialmente produttiva industriale e artigianale e l’art. 22 delle NTA, che per la zona B3 ammette attività compatibili e complementari con quella primaria produttiva (cfr. doc. 3 del resistente nel ricorso 1930/2011).
Dal combinato disposto delle norme tecniche citate, è agevole concludere che la destinazione residenziale non è possibile nella zona B3, se non per la sola ipotesi della residenza del custode in misura massima del 16.67% della s.l.p. (superficie lorda di pavimento).
Appare poi evidente che il passaggio dalla destinazione produttiva a quella residenziale implica il passaggio ad una autonoma categoria funzionale, con incremento del carico urbanistico dovuto alla presenza di persone stabilmente residenti nell’immobile.
Deve quindi riconoscersi in capo alle Amministrazioni locali il potere, in caso di mutamento d’uso senza opere edilizie in contrasto con le previsioni urbanistiche, di ordinare la rimessione in pristino, per evitare un illecito ed irreversibile cambio di destinazione urbanistica non accompagnato da adeguate misure per fare fronte all’aumentato carico urbanistico.
Alla luce di quanto sopra esposto, devono respingersi le censure contenute nel ricorso RG 1930/2011 contro la nota comunale dell’11.4.2011, nella quale, pur dandosi avviso dell’avvio del procedimento sanzionatorio per gli abusi edilizi riscontrati (interventi eseguiti in difformità dalle DIA del 2007 e del 2010), viene sostanzialmente negato il cambio di destinazione d’uso dei locali, richiesto dall’esponente con istanza del 28.03.2011 (cfr. doc. 6 della ricorrente).
In ordine all’accertamento dell’abuso, si richiama il verbale di sopralluogo del 06.04.2011 con l’allegata documentazione fotografica (cfr. doc. 15 del resistente nel ricorso 1930/2011), dal quale risulta in maniera inequivocabile che all’interno delle unità immobiliari di cui è causa sono stati realizzati bagni completi di sanitari e la predisposizione per le cucine; si tratta di interventi che rivelano con sufficiente chiarezza il cambio d’uso intervenuto negli ambienti, destinati senza dubbio alla permanenza continua di persone ed alla residenza e non certo all’attività produttiva (sull’accertamento del cambio di destinazione d’uso, che può essere desunto anche da elementi indiziari, purché univoci, si vedano: Cassazione penale, sez. III, 26.01.2011, n. 9282 e TAR Lombardia, Milano, 29.04.2011, n. 1105).
L’istruttoria svolta appare quindi adeguata, così come non si ravvisa alcuna violazione dell’obbligo di motivazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.07.2012 n. 2146 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' legittimo il diniego del certificato di agibilità, ai sensi degli articoli 24 e 25 del DPR 380/2001, in caso di violazioni della normativa urbanistica ed edilizia.
Parimenti infondate sono le doglianze contro la nota comunale del 21.04.2011 di diniego dell’agibilità, sia alla luce di quanto sin d’ora esposto, sia tenendo conto dell’indirizzo giurisprudenziale, al quale si ritiene di aderire, per il quale è legittimo il diniego del certificato di agibilità, ai sensi degli articoli 24 e 25 del DPR 380/2001, in caso di violazioni della normativa urbanistica ed edilizia (cfr. TAR Friuli Venezia Giulia, 30.04.2012, n. 146, che richiama in motivazione, TAR Lombardia, Milano, sez. II, n. 332 del 10.02.2010) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.07.2012 n. 2146 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza amministrativa, anteriore all’entrata in vigore del codice delle comunicazioni, risultava propensa a ritenere necessaria l’acquisizione di un titolo autorizzatorio edilizio, di regola la concessione edilizia (o, in subordine, altro atto di assenso previsto dalla legislazione regionale o dai regolamenti comunali), nel caso di impianti di telefonìa che effettivamente comportassero una trasformazione edilizia, evincibile, quest’ultima, dalle dimensioni delle opere realizzate, dai relativi ingombri, e dalla visibilità dei manufatti dai luoghi circostanti.
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 214 del 13.09.2001, con cui il responsabile del settore edilizia del Comune di Bollate ha ingiunto la demolizione di un impianto realizzato in Via Magenta n. 27, intimando altresì la rimessione in pristino dei luoghi, nonché del provvedimento di archiviazione del 05.09.2001, relativo al procedimento edilizio avviato dalla stessa società ricorrente in data 23.03.2000.
...
Ai fini di una più agevole esposizione il Collegio ritiene opportuno premettere che:
A) la società ricorrente ha proposto una domanda di concessione edilizia in data 23.03.2000, anteriormente, cioè, all’entrata in vigore della legge regionale n. 11/2001, che ha regolato la materia dell’elettrosmog sul territorio lombardo, ma il provvedimento impugnato, emesso in data 13.09.2001, e lo stesso vale per l’archiviazione del procedimento edilizio, disposta in data 05.09.2001, sono entrambi successivi a tale normativa;
B) la giurisprudenza amministrativa anteriore all’entrata in vigore del codice delle comunicazioni –riferibile, quindi, a fattispecie analoghe a quella oggetto del presente giudizio– risultava propensa a ritenere necessaria l’acquisizione di un titolo autorizzatorio edilizio, di regola la concessione edilizia (o, in subordine, altro atto di assenso previsto dalla legislazione regionale o dai regolamenti comunali), nel caso di impianti di telefonìa che effettivamente comportassero una trasformazione edilizia, evincibile, quest’ultima, dalle dimensioni delle opere realizzate, dai relativi ingombri, e dalla visibilità dei manufatti dai luoghi circostanti (cfr., tra le prime pronunce, Consiglio di Stato, sez. V, 06.04.1998, n. 415; TAR Lombardia–Milano, sez. II, 07.04.1997, n. 430; TAR Puglia-Bari, sez. II, 17.03.2000, n. 1041; TAR Emilia Romagna–Parma, 20.04.2001, n. 226).
Tanto precisato, il Collegio ritiene dirimenti le seguenti osservazioni:
1) è pregiudiziale stabilire quale sia l’effettiva struttura oggetto dell’ordine di demolizione. Ciò in quanto:
- dalla relazione di servizio della Polizia municipale del 27.02.2001, atto di accertamento costituente presupposto del provvedimento impugnato, “risulta in opera una installazione che si configura come un traliccio portante, avente altezza di ca. mt. 4,50. Alla sommità di tale manufatto sono installate n° 3 antenne ricetrasmittenti aventi a loro volta altezza di mt. 1,30 cadauna”;
- in sede di delibazione cautelare, questo Tribunale ha accertato trattarsi, invece, di un “piccolo palo di altezza di circa 4 mt., recante antenna”.
Ora, pur non potendosi direttamente applicare, alla fattispecie, il D.P.R. 06.06.2001, n. 380, “testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”, in quanto entrato in vigore il 30.06.2003, quindi successivamente all’adozione del provvedimento impugnato, nondimeno è opportuno considerare, come utile indice di riferimento, che l’art. 3, comma 1 lett. e) di tale normativa –che comunque ha riprodotto, implicitamente abrogandola, la disposizione di cui all’art. 31 della legge 05.08.1978, n. 457– ha qualificato come “interventi di nuova costruzione” l’installazione di “torri e tralicci per impianti radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di telecomunicazione” (cfr. in particolare, la lett. e.4, anche questa implicitamente abrogata dal codice delle comunicazioni di cui al d.lgs. 259/2003);
2) nel corso di giudizio non sono emersi elementi tali da smentire quanto rilevato da questo Tribunale in riferimento alle modeste dimensioni del palo collocato sul lastrico di Via Magenta n. 27, che dunque confermerebbero l’assenza di una trasformazione edilizia: pertanto, anche in sede di merito il Collegio non ravvisa alcuna ragione per discostarsi dalla valutazione di non necessità del previo conseguimento di una concessione edilizia, espressa nell’ordinanza cautelare n. 168/2002;
3) né a diversa conclusione può pervenirsi in ragione di quanto l’Amministrazione ha opposto nei propri scritti difensivi, affermando che “è la stessa società che implicitamente ammette l’incidenza di tale opera sul territorio; con la richiesta di rilascio della concessione edilizia, l’intervento veniva definito come “nuova edificazione”” (cfr. pag. 4 della memoria dell’08.06.2012).
Nulla, infatti, avrebbe potuto impedire all’Amministrazione comunale –in esito ad un’approfondita e puntuale verifica (ben oltre i riferimenti, meramente letterali, contenuti nella relazione di servizio della polizia municipale) sull’effettiva consistenza delle opere realizzate, esulanti dall’ipotesi di una trasformazione edilizia– di assentire l’installazione dell’impianto sulla scorta del regime amministrativo semplificato, quello fondato su mera denuncia di inizio di attività, già previsto, al tempo, sia dalla legge 24.12.1993, n. 537 sia, ancor più organicamente, dalla legge 23.12.1996, n. 662;
4) è pacifico che nel provvedimento impugnato l’Amministrazione resistente non ha contestato la violazione dell’altezza massima degli edifici, indirettamente confermandosi le contenute dimensioni dell’impianto realizzato dalla società ricorrente; né tantomeno ha specificamente contestato –limitandosi, piuttosto, ad un generico richiamo nel preambolo del provvedimento impugnato– la violazione delle disposizioni del regolamento comunale, quest’ultimo comunque approvato in epoca notevolmente successiva (27.07.2001) all’accertamento dello stato dei luoghi (27.02.2001), e quindi inidoneo a costituire disciplina utilmente applicabile;
5) risulta, altresì, pacificamente ai sensi dell’art. 64, comma 4, del codice del processo amministrativo, che la potenza dell’impianto di che trattasi non fosse superiore ai 7 watt: circostanza, questa, oggetto di una disposizione della legge regionale n. 11/2001 (segnatamente, l’art. 6, comma 1, lett. a) efficace al momento dell’adozione dell’ordinanza di demolizione, ma nondimeno ignorata nelle valutazioni istruttorie esperite dall’Amministrazione comunale;
6) è invece infondato il terzo motivo di ricorso, con cui è stata dedotta la mancata comunicazione del provvedimento di archiviazione della pratica edilizia, risultando in atti prova documentale della trasmissione di tale provvedimento con nota fax del 05.09.2001.
In conclusione il ricorso è fondato e va, pertanto, accolto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 27.07.2012 n. 2118 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAUn Comune non può adottare, mediante il formale utilizzo di strumenti di carattere edilizio o urbanistico, misure sostanzialmente derogatorie dei limiti di esposizione ai campi elettromagnetici, quali il divieto generalizzato di installare stazioni radio-base per telefonia cellulare “su tutto il territorio comunale”.
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Il potere comunale di stabilire, mediante gli strumenti urbanistici, la specifica destinazione d’uso in cui è consentita l'installazione degli impianti di telefonia è rinvenibile nella legge urbanistica fondamentale (n. 1150/1942), in cui è previsto che il piano regolatore generale deve indicare, oltre alle localizzazioni (art. 7, comma 2, n. 1), la “divisione in zone del territorio comunale con la precisazione delle zone destinate all’espansione dell’aggregato urbano e la determinazione dei vincoli e dei caratteri da osservare in ciascuna zona”, nonché “le aree da riservare ad edifici pubblici o di uso pubblico nonché ad opere ed impianti di interesse collettivo o sociale” (art. 7, comma 2, n. 4).
Si tratta, con tutta evidenza, di disposizioni pienamente applicabili alla disciplina amministrativa sull’elettrosmog, essendone stata, invece, dichiarata l’illegittimità costituzionale solo in riferimento alla reiterazione dei vincoli preordinati all’esproprio.
Pertanto, il Comune è pienamente legittimato, ai sensi dell'art. 8, comma 6, della legge 36/2001, ad adottare delle previsioni regolamentari volte ad assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici, in sintonìa con la pianificazione urbanistica.

... per l'annullamento del provvedimento del 19.07.2001, con cui il Comune di San Giuliano Milanese ha negato l’autorizzazione all’installazione di una stazione radio base in Via Milano 14, nonché ogni atto presupposto, connesso e consequenziale, con particolare riguardo al regolamento comunale per la localizzazione degli impianti di telefonìa, approvato con deliberazione del Consiglio comunale n. 16 del 21.02.2001.
...
Ritiene il Collegio che i motivi siano fondati, e ciò sulla scorta dell’analisi del fondamento e dei limiti di esercizio del potere regolamentare attribuito alle Amministrazioni comunali dall’art. 8, comma 6, della legge 22.02.2001, n. 36, finalizzato a garantire “il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici”.
Sul punto, risulta da tempo consolidato, in giurisprudenza, l’orientamento che considera legittime soltanto le previsioni regolamentari che non dissimulino intenti differenti da quelli indicati dalla citata disposizione.
Si è, in particolare, ritenuto che un Comune non possa adottare, mediante il formale utilizzo di strumenti di carattere edilizio o urbanistico, misure sostanzialmente derogatorie dei limiti di esposizione ai campi elettromagnetici (la disciplina di questi ultimi, come fondatamente dedotto da parte ricorrente, è ascritta alle prerogative legislative dello Stato), quali –come nel caso della previsione di cui all’art. 2, comma 1 del regolamento del Comune di San Giuliano Milanese– il divieto generalizzato di installare stazioni radio-base per telefonia cellulare “su tutto il territorio comunale” (non potendosi ritenere che tale previsione possa ritenersi legittima per effetto dell’individuazione, operata al comma 2 del medesimo art. 2, dell’area programmata per la futura realizzazione di un impianto di compostaggio), ovvero l’introduzione di distanze fisse da osservare (una fascia di duecento metri dalla vista area) (cfr., tra le tante, Consiglio di Stato, sez. VI, 15.06.2006, n. 3534; TAR Abruzzo–Pescara, 03.04.2007, n. 376).
Ad avviso del Collegio, la disposizione di cui all’art. 2 del regolamento comunale (erroneamente indicata nell’art. 4 da parte della Commissione edilizia) va quindi ritenuta esulante dai profili urbanistici riconducibili alla competenza dell’ente locale, palesandosi in essa uno sviamento dell’attività amministrativa dalla funzione regolatoria insita nella previsione di cui al citato art. 8 della legge n. 36/2001.
Con riferimento al perseguimento dell’obiettivo di minimizzazione del rischio, rileva inoltre il Collegio:
A) un evidente contrasto tra la regolamentazione comunale e la disciplina di cui al comma 8 dell’art. 4 della legge regionale n. 11/2001. Tale disposizione (la cui formulazione applicabile ratione temporis, poi riformata dall’art. 3 della legge regionale n. 4/2002, è stata successivamente ripristinata per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 331/2003) prevedeva, allora come oggi, che “è comunque vietata l'installazione di impianti per le telecomunicazioni e per la radiotelevisione in corrispondenza di asili, edifici scolastici nonché strutture di accoglienza socio-assistenziali, ospedali, carceri, oratori, parco giochi, orfanotrofi e strutture similari, e relative pertinenze, che ospitano soggetti minorenni”.
Sull’apparente rigore di tale disposizione ha fatto chiarezza la circolare regionale n. 58/2001, nella quale si è precisato che “la prescrizione è da ritenersi soddisfatta quando gli impianti per le telecomunicazioni e la radiodiffusione siano installati in punti che non ricadano in pianta entro il perimetro degli edifici e strutture di cui al suddetto comma e delle loro pertinenze” (cfr. punto n. 5, lett. b).
Di conseguenza, va ritenuta illegittima qualsiasi disposizione che imponga, come si ravvisa nell’art. 2 del regolamento comunale, un divieto generalizzato su tutto il territorio;
B) che sulla legittimità dei divieti di installazione risulta dirimente un passaggio della motivazione con cui la Corte costituzionale ha dichiarato, con sentenza 27.10.2003, n. 331, l’illegittimità costituzionale di una disposizione legislativa, approvata dalla Regione Lombardia, che aveva reintrodotto il criterio della distanza dai recettori sensibili come rimedio volto a conseguire la minimizzazione del rischio, statuendosi che alle prerogative regionali in materia di criteri localizzativi “non possono infatti ricondursi divieti (…) che, in particolari condizioni di concentrazione urbanistica di luoghi specialmente protetti, potrebbe addirittura rendere impossibile la realizzazione di una rete completa di infrastrutture per le telecomunicazioni, trasformandosi così da «criteri di localizzazione» in «limitazioni alla localizzazione», dunque in prescrizioni aventi natura diversa da quella consentita dalla citata norma della legge n. 36. Questa interpretazione, d'altra parte, non è senza una ragione di ordine generale, corrispondendo a impegni di origine europea e all'evidente nesso di strumentalità tra impianti di ripetizione e diritti costituzionali di comunicazione, attivi e passivi”.
Alla luce di quanto rilevato, è da ritenersi illegittimo, e va quindi annullato, il regolamento comunale oggetto di impugnazione e, in via derivata, il diniego opposto dall’Amministrazione comunale.
Con il secondo motivo di ricorso la società ricorrente ha, invece, dedotto che “il regolamento impugnato non costituisce variante del vigente p.r.g.” (cfr. pag. 11 del ricorso).
Trattasi però, ad avviso del Collegio, di censura infondata, in quanto il potere comunale di stabilire, mediante gli strumenti urbanistici, la specifica destinazione d’uso in cui è consentita l'installazione degli impianti di telefonia è rinvenibile nella legge urbanistica fondamentale (n. 1150/1942), in cui è previsto che il piano regolatore generale deve indicare, oltre alle localizzazioni (art. 7, comma 2, n. 1), la “divisione in zone del territorio comunale con la precisazione delle zone destinate all’espansione dell’aggregato urbano e la determinazione dei vincoli e dei caratteri da osservare in ciascuna zona”, nonché “le aree da riservare ad edifici pubblici o di uso pubblico nonché ad opere ed impianti di interesse collettivo o sociale” (art. 7, comma 2, n. 4).
Si tratta, con tutta evidenza, di disposizioni pienamente applicabili alla disciplina amministrativa sull’elettrosmog, essendone stata, invece, dichiarata l’illegittimità costituzionale solo in riferimento alla reiterazione dei vincoli preordinati all’esproprio (cfr. Corte cost., 20.05.1999, n. 179): profilo estraneo all’odierna materia del contendere.
Pertanto, il Comune è pienamente legittimato, ai sensi dell'art. 8, comma 6, della legge 36/2001, ad adottare delle previsioni regolamentari volte ad assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici, in sintonìa con la pianificazione urbanistica.
In conclusione il ricorso è fondato e va, pertanto, accolto, nei termini espressi in motivazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 27.07.2012 n. 2117 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Volumetria e sagoma, nei centri storici, si pongono come limiti sia per gli interventi di ristrutturazione che non comportino demolizioni, sia nei casi di ristrutturazioni attuate attraverso le demolizioni: per mutare tali parametri non basta la denuncia di inizio attività, ma occorre il permesso di costruire.
In presenza di una specifica normativa delle NTA che disciplinano -in senso più restrittivo rispetto al legislatore statale- le possibilità di intervento sugli edifici preesistenti, le finalità di salvaguardia dei centro storici territoriale di una zona devono ritenersi prevalenti perché dirette ad assicurare un regime di maggiore tutela dell’area interessata.

In linea generale si deve ricordare che, ai sensi dell'art. 22, t.u. 06.06.2001 n. 380 gli interventi sull’esistente realizzabili con la d.i.a. –in sostituzione del permesso di costruire- di cui alla lett. c) dell’art. 10 del cit. D.P.R, sono gli interventi di ristrutturazione edilizia che portano ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportano aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, e se sono realizzate su immobili compresi nelle zone omogenee A, comportano mutamenti della destinazione d'uso.
Come specificato dal secondo comma, la denuncia di inizio attività nei centri storici concerne interventi che:
- non devono incidere sui parametri urbanistici e sulle volumetrie;
- non devono modificare la destinazione d'uso e la categoria edilizia;
- non devono alterare la sagoma dell'edificio;
- non devono comunque violare le eventuali prescrizioni contenute nell’originario permesso di costruire.
Il permesso è invece sempre necessario in caso di sostanziali variazioni di sagoma, volumetria e destinazione d'uso (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 21.05.2010, n. 3231).
L’applicazione dell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001 -con cui era stata estesa la nozione di "ristrutturazione edilizia" sì da ricomprendervi pure gli interventi ricostruttivi consistenti nella demolizione– resta condizionata al fatto in tali ipotesi che "volumetria" e "sagoma" debbano rimanere assolutamente identiche.
In altri termini, volumetria e sagoma, nei centri storici, si pongono come limiti sia per gli interventi di ristrutturazione che non comportino demolizioni, sia nei casi di ristrutturazioni attuate attraverso le demolizioni: per mutare tali parametri non basta la denuncia di inizio attività, ma occorre il permesso di costruire (cfr. Cassazione penale, sez. III, 17.02.2010, n. 16393).
Ciò premesso, danno poi logico fondamento alla conclusione per cui si trattava di un organismo edilizio differente la realizzazione di:
- un tramezzo al livello primo di solo m.0,12 al posto del precedente muro trasversale portante di 0,50 sulla cui corrispondenza al piano superiore si è posto un tramezzo di 0,34 cm;
- un nuovo servizio igienico con nuove divisioni interne;
- un vano chiuso al terzo livello coperto con tetto a falda ad uso cucina;
- una terrazza praticabile al terzo livello;
- una camera da letto con il servizio igienico;
- una terrazza praticabile in luogo dell’originaria copertura a falde;
- una scala in conglomerato cementizio armato per l’accesso al nuovo lastrico ed ad un nuovo vano chiuso al terzo livello coperto con tetto a falda con probabile destinazione a cucina non risultando l’indicazione di altri vani a ciò destinati.
Alla luce delle allegazioni ed anche della documentazione fotografica versate in atti, devono perciò integralmente condividersi le conclusioni del primo giudice per cui nella fattispecie la molteplicità e l’entità delle trasformazioni dell’unità immobiliare originaria, non solo sono state realizzate in difformità rispetto agli elaborati in DIA ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, ma hanno finito per modificare radicalmente non solo la destinazione di diversi vani e le superficie pertinenziali, ma soprattutto i volumi edilizi totali e la sagoma dell’edificio che è rimastra stravolta dall’elevazione di mt. 2,44 rilevata dal piano di terrazza alla seconda gronda del nuovo volume costruito per un totale portato da ml. 9,26 a mt. 11,72 .
L’altezza totale non solo non è stata ridotta, ma è stata addirittura portata ben oltre i limiti di mt. 7,5 previsti dalla normativa antisismica per le zone sismiche di prima categoria (S=12).
Non ricorre quindi quel “processo alle intenzioni” di cui parla l’appellante, essendo al contrario evidente il suo tentativo di confondere la situazione di fatto. Contrariamente a quanto afferma il ricorrente, l’alterazione della sagoma ha comportato la conseguenza di creare nuovi metri cubi ad un terzo piano, di non precisata destinazione, che non potevano esser considerati come meri “volumi tecnici”.
Esattamente il primo giudice, condividendo la CTU, ha affermato che il complesso degli interventi realizzati comportava che l’opera non potesse essere ricondotta agli interventi c.d. “di ristrutturazione leggera” che cioè non modificano il carico urbanistico, ma finiva per configurarsi come una c.d. “ristrutturazione pesante”, assimilabile ad una nuova costruzione, e quindi, come tale, non assentibile nell’ambito del centro storico.
Inoltre del tutto inconferente è il richiamo all’art. 49 della legge regionale Calabria n. 19 del 16.04.2002 in quanto qui non vi è stato alcun recupero del sottotetto perché la copertura a falde è stata parzialmente demolita.
Sotto altro profilo, nella fattispecie in esame, non era poi applicabile il secondo comma dell’art. 9 del d.p.r. n. 380/2001, il cui precetto riguarda esclusivamente le “aree bianche”, cioè quelle nelle quali il rinvio ad un piano esecutivo è accompagnato dalla mancanza di una qualsiasi disciplina urbanistica; mentre nell'ambito del Comune vi è una specifica disciplina –valida ed efficace- concernente le opere eseguibili nel centro storico.
Anche in considerazione della prevalenza del ruolo dei Comuni in materia urbanistico-edilizia, le prescrizioni del Regolamento edilizio che contengono specifiche disposizioni destinate al mantenimento degli equilibri urbanistici e territoriali devono essere considerate prevalenti rispetto alla disposizione dell’art. 9 del d.p.r. n. 380/2001, in quanto destinate ad evitare che le modifiche dell’esistente finiscano per pregiudicare definitivamente proprio gli obiettivi generali di tutela cui invece è giustamente finalizzata la normativa urbanistica.
In presenza di una specifica normativa delle NTA che disciplinano -in senso più restrittivo rispetto al legislatore statale- le possibilità di intervento sugli edifici preesistenti, le finalità di salvaguardia dei centro storici territoriale di una zona devono ritenersi prevalenti perché dirette ad assicurare un regime di maggiore tutela dell’area interessata (cfr. Consiglio Stato. Sez. IV 10.05.2012 n. 2707).
Al riguardo è dunque decisivo che, nel caso, le opere eseguite sono state realizzate in violazione delle norme edilizie e della disciplina urbanistica vigente di cui all’art. 10 del Regolamento Edilizio Comunale (REC) adottato con Delibera n. 15 del 19/07/1989 ed approvato con Decreto della Regione n.635 del 25/5/1992. del Comune di S. Giovanni di Gerace in base al quale, nella Zona A sono vietati gli aumenti di volumetria e le demolizioni non sono ammessi interventi edilizi di nuova costruzione, a tutela del tessuto storico del centro.
Di qui l’illegittimità del complessivo intervento così come realizzato (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.07.2012 n. 4258 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Deve escludersi che eventuali deroghe all’osservanza delle norme tecniche antisismiche previste per i centri storici possano essere automaticamente messi in atto ad opera del privato.
La normativa per le costruzioni nelle zone sismiche concerne tutti gli interventi edilizi da realizzarsi sul territorio comunale edificato e di nuovo impianto. Come le numerose disgrazie intervenute negli ultimi anni hanno dimostrato, sono proprio gli interventi con tecniche moderne su edificazioni a struttura tradizionale che danno luogo a costruzioni di particolare pericolosità a cagione dei diversi comportamenti torsionali dei differenti materiali e dell’incremento dei carichi strutturali sul preesistente.

Inoltre del tutto erroneamente gli appellanti assumono la non applicabilità della normativa antisismica di cui al D.M. lavori pubblici 16.01.1996.
Deve infatti escludersi che eventuali deroghe all’osservanza delle norme tecniche antisismiche previste per i centri storici possano essere automaticamente messi in atto ad opera del privato (cfr. Consiglio Stato, sez. IV 12.06.2009 n. 3706).
La normativa per le costruzioni nelle zone sismiche concerne tutti gli interventi edilizi da realizzarsi sul territorio comunale edificato e di nuovo impianto. Come le numerose disgrazie intervenute negli ultimi anni hanno dimostrato, sono proprio gli interventi con tecniche moderne su edificazioni a struttura tradizionale che danno luogo a costruzioni di particolare pericolosità a cagione dei diversi comportamenti torsionali dei differenti materiali e dell’incremento dei carichi strutturali sul preesistente.
Solo se non fosse stata toccata l’altezza preesistente si sarebbe dovuto fare riferimento all’allegato n. 3 della predetta circolare del Ministerro LL.PP., ma nel momento in cui si è andato a realizzare un edificio strutturalmente differente doveva essere rispettata la predetta normativa antisismica ed operata una diagnosi del possibile comportamento della struttura risultante all’evento sismico in termini di deformazione, resistenza, punti di fragilità delle strutture.
Infine si deve osservare che la presenza di uno strettissimo vicolo di soli mt. 1,5 soggetto al passaggio pubblico non fa venir meno la generale disciplina sulle luci e le vedute.
Di qui l’assoluta illegittimità dell’intervento realizzato in violazione dei limiti dell’altezza totale, della realizzazione di una scala in c.a. su una struttura in pietrisco e dell’indebolimento delle originarie strutture portanti interne al primo piano (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.07.2012 n. 4258 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il concetto di “piena conoscenza” dell’atto lesivo non deve essere inteso quale “conoscenza piena ed integrale” dei provvedimenti che si intendono impugnare, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via derivata, il provvedimento finale.
Ciò che è invece sufficiente ad integrare il concetto di “piena conoscenza” -il verificarsi della quale determina il dies a quo per il computo del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale- è la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso.
Occorre aggiungere che la verifica della “piena conoscenza” dell’atto lesivo da parte del ricorrente, ai fini di individuare la decorrenza del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale, deve essere estremamente cauta e rigorosa, non potendo basarsi su mere supposizioni ovvero su deduzioni, pur sorrette da apprezzabili argomentazioni logiche. Essa deve risultare incontrovertibilmente da elementi oggettivi, ai quali il giudice deve riferirsi, nell’esercizio del suo potere di verifica di ufficio della eventuale irricevibilità del ricorso, o che devono essere rigorosamente indicati dalla parte che, in giudizio, eccepisca l’irricevibilità del ricorso instaurativo del giudizio.

Come questo Consiglio di Stato ha avuto più volte modo di osservare (da ultimo, le sentenze di questa Sezione –medio tempore pubblicate- 02.04.2012 nn. 1957 e 1958, dalle cui conclusioni non vi è ragione di discostarsi), il concetto di “piena conoscenza” dell’atto lesivo non deve essere inteso quale “conoscenza piena ed integrale” dei provvedimenti che si intendono impugnare, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via derivata, il provvedimento finale.
Ciò che è invece sufficiente ad integrare il concetto di “piena conoscenza” -il verificarsi della quale determina il dies a quo per il computo del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale- è la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso.
Quanto sin qui esposto costituisce un dato acquisito della giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (ex plurimis, sez. III, 19.09.2011 n. 5268; sez. VI, 28.04.2010 n. 2439; sez. IV, 19.07.2007 n. 4072 e 29.07.2008 n. 3750).
Occorre aggiungere che la verifica della “piena conoscenza” dell’atto lesivo da parte del ricorrente, ai fini di individuare la decorrenza del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale, deve essere estremamente cauta e rigorosa, non potendo basarsi su mere supposizioni ovvero su deduzioni, pur sorrette da apprezzabili argomentazioni logiche. Essa deve risultare incontrovertibilmente da elementi oggettivi, ai quali il giudice deve riferirsi, nell’esercizio del suo potere di verifica di ufficio della eventuale irricevibilità del ricorso, o che devono essere rigorosamente indicati dalla parte che, in giudizio, eccepisca l’irricevibilità del ricorso instaurativo del giudizio (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.07.2012 n. 4255 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nessun dubbio può sussistere in ordine alla impugnabilità della “DIA”.
Nessun dubbio può sussistere in ordine alla impugnabilità della “DIA”, nei sensi precisati dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (Cons. Stato, Ad. Plen., 29.07.2011 n. 15; sez. IV, 15.12.2011 n. 6614).
Come è noto, l’Adunanza Plenaria ha, per un verso, escluso che il privato che ritiene di essere pregiudicato dai lavori effettuati sulla base di DIA debba necessariamente attivare il procedimento per la formazione del silenzio-rifiuto sulla istanza volta all’adozione di provvedimenti repressivi da parte dell’amministrazione; per altro verso, ha individuato nella fattispecie, quale oggetto specifico dell’impugnazione, il silenzio (avente valore di provvedimento negativo implicito) in ordine all’esercizio di poteri inibitori sulla dichiarazione di inizio di attività.
Come precisa l’Adunanza Plenaria, nel caso di specie, ricorre l’ipotesi “di un provvedimento per silentium con cui la p.a., esercitando in senso negativo il potere inibitorio, riscontra che l’attività è stata dichiarata in presenza dei presupposti di legge e, quindi, decide di non impedire l’inizio o la protrazione dell’attività dichiarata”. In questo caso, “venendo in rilievo un provvedimento per silentium, la tutela del terzo sarà affidata primariamente all’esperimento di un’azione impugnatoria”.
La ricostruzione operata dalla giurisprudenza (e dalla quale il Collegio non ha ragione di discostarsi) si attaglia al caso di specie, non potendosi configurare, per le ragioni esposte, la necessità –come invece sostenuto dall’appellante Comune di Venezia– di “mettere in mora l’amministrazione ad adottare atti di inibizione all’esercizio dell’attività prefigurata, ritenuta illegittima”; dal che discende la reiezione del motivo di appello sub b) dell’esposizione in fatto
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.07.2012 n. 4255 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: In sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio sussiste l'obbligo per il comune di verificare il rispetto da parte dell'istante dei limiti privatistici, a condizione che tali limiti siano effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili e/o non contestati, di modo che il controllo da parte dell'ente locale si traduca in una semplice presa d'atto dei limiti medesimi senza necessità di procedere ad un'accurata ed approfondita disanima dei rapporti tra i condomini.
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Dove i lavori consistono nel’apertura di una porta sulla scala condominiale, con ciò modificando l’uso della cosa comune da parte dei condomini, il Comune deve verificare l’esistenza del consenso del condominio all’utilizzo della scala da parte di uno dei condomini, in modo tale da alterare stabilmente il normale ed originario uso della cosa comune (escludendosi, dunque, l’applicabilità dell’art. 1102 cod. civ., in ordine alla ricorrenza del quale, peraltro, non sussiste idonea valutazione e motivazione da parte dell’amministrazione comunale).
In altre parole, il Comune deve conseguire, per il tramite della verifica resa necessaria dalla evidente mancanza di proprietà esclusiva della res, la prova dell’esistenza del titolo a disporre del bene e quindi a presentare la dichiarazione di inizio attività.

Il Collegio condivide la considerazione, formulata nella sentenza appellata, in ordine alla necessità di accertamento, da parte dell’amministrazione, della sussistenza in capo al richiedente il permesso di costruire (ovvero in capo al presentatore della DIA), di un titolo idoneo in relazione all’immobile sul quale deve essere svolta l’attività edilizia.
L’art. 11, co. 1, DPR 06.06.2001 n. 380, prevede che “il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo”; il successivo art. 23, allo stesso modo, si riferisce al “proprietario dell’immobile o chi abbia titolo per presentare la denuncia di inizio attività”.
Orbene, come questo Consiglio di Stato (sez. IV, 04.05.2010 n. 2546; 10.12.2007 n. 6332), ha già avuto modo di affermare, “in sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio sussiste l'obbligo per il comune di verificare il rispetto da parte dell'istante dei limiti privatistici, a condizione che tali limiti siano effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili e/o non contestati, di modo che il controllo da parte dell'ente locale si traduca in una semplice presa d'atto dei limiti medesimi senza necessità di procedere ad un'accurata ed approfondita disanima dei rapporti tra i condomini”.
Orbene, nel caso di specie, dove i lavori consistono nel’apertura di una porta sulla scala condominiale, con ciò modificando l’uso della cosa comune da parte dei condomini, il Comune avrebbe dovuto verificare l’esistenza del consenso del condominio all’utilizzo della scala da parte di uno dei condomini, in modo tale da alterare stabilmente il normale ed originario uso della cosa comune (escludendosi, dunque, l’applicabilità dell’art. 1102 cod. civ., in ordine alla ricorrenza del quale, peraltro, non sussiste idonea valutazione e motivazione da parte dell’amministrazione comunale).
In altre parole, il Comune avrebbe dovuto conseguire, per il tramite della verifica resa necessaria dalla evidente mancanza di proprietà esclusiva della res, la prova dell’esistenza del titolo a disporre del bene e quindi a presentare la dichiarazione di inizio attività.
Quanto alla già citata applicazione dell’art. 1102 cod. civ., occorre osservare che ogni valutazione in ordine alla idoneità del principio espresso dal medesimo a sorreggere l’esistenza di un titolo legittimante a richiedere il permesso di costruire o a presentare la DIA, non compete ex post al giudice, quanto ex ante all’amministrazione comunale, la quale –proprio perché ha l’obbligo di verificare l’esistenza di tale titolo legittimante– ove ritenga che questo discenda (ancorché non sia questo il caso di specie) dall’art. 1102 cod. civ., ha l’onere di valutare motivatamente in ordine a tale aspetto.
Compete, successivamente, al giudice, nell’esercizio dell’ordinario sindacato di legittimità, verificare la correttezza e congruità delle valutazioni effettuate dall’amministrazione e l’esito provvedimentale di queste
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.07.2012 n. 4255 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’istituto dell’asservimento si è formato dopo l’entrata in vigore del d.m. 02.04.1968, che ha fissato gli standards di edificabilità delle aree e ha introdotto una organica regolamentazione della densità edilizia (territoriale e fondiaria).
La nozione di densità costituisce il parametro di riferimento per stabilire se possa farsi luogo ad asservimento; la densità territoriale, in particolare, è riferita a ciascuna zona omogenea e definisce il complessivo carico di edificazione che può gravare sulla stessa, con la conseguenza che il relativo indice è rapportato sia all’intera superficie sottoposta alla medesima vocazione urbanistica sia alla concreta insistenza di costruzioni.
Né può dubitarsi che qualsiasi costruzione, anche se eretta senza il prescritto titolo, concorra al computo complessivo della densità territoriale.
L'asservimento di particelle contigue a quella sulla quale viene posizionato il progetto per la realizzazione di un intervento edilizio nasce da una pratica assai diffusa, che ha da sempre avuto l'avallo della dottrina e della giurisprudenza che vi hanno ravvisato uno strumento legittimo per consentire lo sfruttamento di tutta la potenzialità edificatoria delle aree a disposizione di chi intende realizzare tale intervento, con il quale, di solito, si pone rimedio all'infelice esposizione ovvero alla ridotta dimensione, dell'area di progetto.
Con l'asservimento le aree asservite perdono, in tutto o in parte, ma definitivamente, la loro attitudine edificatoria in favore della particella di progetto, e a tale effetto è richiesto, normalmente, che il proprietario del compendio interessato, debba sottoscrivere un atto d'obbligo ovvero una dichiarazione formale, con il quale, nei riguardi del Comune, s'impegna per sé e per i propri aventi causa a non utilizzare, in seguito, a fini edificatori, le particelle asservite di cui ha, insieme alla particella di progetto, la proprietà o comunque la disponibilità giuridica.
Tuttavia, ad onta della diffusione della suddetta pratica edilizia, rimangono tutt’ora incerti i profili che caratterizzano l’atto costitutivo di tale vincolo, il che sovente rende problematica la sua effettiva individuazione.
In proposito, la giurisprudenza della Corte di cassazione, seguendo un indirizzo dottrinario, ha segnalato ripetutamente che "la cessione di cubatura da parte del proprietario del fondo confinante, onde consentire il rilascio della concessione a costruire nel rispetto del rapporto area-volume, non necessita di atto negoziale ad effetti obbligatori o reali, essendo sufficiente l'adesione del cedente, che può esser manifestata o sottoscrivendo l'istanza e/o il progetto del cessionario; o rinunciando alla propria cubatura a favore di questi o notificando al comune tale sua volontà, mentre il c.d. vincolo di asservimento rispettivamente a carico e a favore del fondo si costituisce, sia per le parti che per i terzi, per effetto del rilascio della concessione edilizia, che legittima lo ius aedificandi del cessionario sul suolo attiguo, sì che nessun risarcimento è dovuto al cedente”.
La ricostruzione più attendibile della fattispecie, dunque, è quella di un contratto atipico ad effetti obbligatori avente natura di atto preparatorio, finalizzato al trasferimento di volumetria, che si realizza soltanto con il provvedimento amministrativo.
Anche la giurisprudenza amministrativa è propensa a ritenere il c.d. contratto di asservimento ben può costituire il presupposto del rilascio di una concessione edilizia che tenga conto del trasferimento di volumetria e che per il trasferimento della volumetria non sono necessarie forme particolari.

... per l'annullamento:
● quanto al ricorso principale, dell’ordinanza ingiunzione del 29.06.2010, prot. 23766, di demolizione e messa in pristino delle opere edilizie eseguite con variazioni essenziali dai titoli edilizi e di ogni atto conseguente e connesso;
● quanto ai motivi aggiunti, della nota del 18.02.2011, prot. 6315 di diniego all’istanza di riesame dell’ordine di demolizione del 29.06.2010.
...
Il ricorso è fondato.
Infatti, l’ordinanza impugnata appare viziata da eccesso di potere per difetto di istruttoria.
Si consideri, preliminarmente che, l’istituto dell’asservimento si è formato dopo l’entrata in vigore del decreto ministeriale 02.04.1968, che ha fissato gli standards di edificabilità delle aree e ha introdotto una organica regolamentazione della densità edilizia (territoriale e fondiaria).
La nozione di densità costituisce il parametro di riferimento per stabilire se possa farsi luogo ad asservimento; la densità territoriale, in particolare, è riferita a ciascuna zona omogenea e definisce il complessivo carico di edificazione che può gravare sulla stessa, con la conseguenza che il relativo indice è rapportato sia all’intera superficie sottoposta alla medesima vocazione urbanistica sia alla concreta insistenza di costruzioni (C.D.S. Ad. Pl. n. 3 del 23.04.2009).
Né può dubitarsi che qualsiasi costruzione, anche se eretta senza il prescritto titolo, concorra al computo complessivo della densità territoriale (C.d.S., IV, 26.09.2008, n. 4647; IV, 29.07.2008, n. 3766; IV, 12.05.2008, n. 2177; IV, 11.12.2007, n. 6346; V, 27.06.2006, n. 4117; V, 12.07.2005, n. 3777: V, 12.07.2004, n. 5039; IV, 06.09.1999, n. 1402).
Ora è utile osservare in termini generali che l'asservimento di particelle contigue a quella sulla quale viene posizionato il progetto per la realizzazione di un intervento edilizio nasce da una pratica assai diffusa, che ha da sempre avuto l'avallo della dottrina e della giurisprudenza (v. Corte Cass, Sez. II, n. 9081 del 12.09.1998) che vi hanno ravvisato uno strumento legittimo per consentire lo sfruttamento di tutta la potenzialità edificatoria delle aree a disposizione di chi intende realizzare tale intervento, con il quale, di solito, si pone rimedio all'infelice esposizione ovvero alla ridotta dimensione, dell'area di progetto.
Con l'asservimento le aree asservite perdono, in tutto o in parte, ma definitivamente, la loro attitudine edificatoria in favore della particella di progetto, e a tale effetto è richiesto, normalmente, che il proprietario del compendio interessato, debba sottoscrivere un atto d'obbligo ovvero una dichiarazione formale, con il quale, nei riguardi del Comune, s'impegna per sé e per i propri aventi causa a non utilizzare, in seguito, a fini edificatori, le particelle asservite di cui ha, insieme alla particella di progetto, la proprietà o comunque la disponibilità giuridica.
Tuttavia, ad onta della diffusione della suddetta pratica edilizia, rimangono tutt’ora incerti i profili che caratterizzano l’atto costitutivo di tale vincolo, il che sovente rende problematica la sua effettiva individuazione.
In proposito, la giurisprudenza della Corte di cassazione, seguendo un indirizzo dottrinario, ha segnalato ripetutamente che "la cessione di cubatura da parte del proprietario del fondo confinante, onde consentire il rilascio della concessione a costruire nel rispetto del rapporto area-volume, non necessita di atto negoziale ad effetti obbligatori o reali, essendo sufficiente l'adesione del cedente, che può esser manifestata o sottoscrivendo l'istanza e/o il progetto del cessionario; o rinunciando alla propria cubatura a favore di questi o notificando al comune tale sua volontà, mentre il c.d. vincolo di asservimento rispettivamente a carico e a favore del fondo si costituisce, sia per le parti che per i terzi, per effetto del rilascio della concessione edilizia, che legittima lo ius aedificandi del cessionario sul suolo attiguo, sì che nessun risarcimento è dovuto al cedente” (Cass., 12.09.1998, n. 9081; in senso conforme, 22.02.1996, n. 1352; 29.06.1981, n. 4245).
La ricostruzione più attendibile della fattispecie, dunque, è quella di un contratto atipico ad effetti obbligatori avente natura di atto preparatorio, finalizzato al trasferimento di volumetria, che si realizza soltanto con il provvedimento amministrativo.
Anche la giurisprudenza amministrativa è propensa a ritenere il c.d. contratto di asservimento ben può costituire il presupposto del rilascio di una concessione edilizia che tenga conto del trasferimento di volumetria e che per il trasferimento della volumetria non sono necessarie forme particolari (C.D.S., sez. V, 26.11.1994, n. 1382; C.D.S., sez. V, 04.01.1993, n. 26) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.07.2012 n. 2097 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONENella materia dei procedimenti di espropriazione per pubblica utilità, ad eccezione delle ipotesi in cui l’Amministrazione espropriante abbia agito nell’assoluto difetto di una potestà ablativa come mancanza di qualunque facultas agendi vincolata o discrezionale di elidere o comprimere detto diritto –devolute come tali alla giurisdizione ordinaria- sono devolute alla giurisdizione amministrativa esclusiva le controversie nelle quali si faccia questione -anche ai fini complementari della tutela risarcitoria- di attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti ad una dichiarazione di pubblica utilità e con essa congruenti, anche se il procedimento all'interno del quale sono state espletate non sia sfociato in un tempestivo e formale atto traslativo della proprietà ovvero sia caratterizzato dalla presenza di atti poi dichiarati illegittimi, purché vi sia un collegamento all’esercizio della pubblica funzione.
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Già a partire nella legge fondamentale sulle espropriazioni n. 2359 del 1865, così come nella successiva legislazione in materia di lavori pubblici, si rinviene il principio cardine secondo cui l’attività espropriativa deve articolarsi in una pluralità di fasi, le quali devono garantire la partecipazione degli interessati ed il contraddittorio con i soggetti coinvolti dall’azione amministrativa.
Detti principi, di pubblicità e partecipazione, -diretti non solo a scopo difensivo, bensì in stretta correlazione con i canoni di rango costituzionale dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa– sono stati cristallizzati dalla legge n. 241 del 1990 per tutti i procedimenti amministrativi; essi peraltro giocano un ruolo particolarmente significativo nei procedimenti espropriativi, essendo questi ultimi, per definizione, quelli più gravemente invasivi della sfera dei privati.
Questa premessa fa da sfondo all’affermazione dell’indirizzo secondo cui la dichiarazione di pubblica utilità, anche ove implicita nell’approvazione di un progetto di opera pubblica deve essere preceduta da comunicazione di avvio del procedimento rivolta ai soggetti interessati.

In punto di giurisdizione, la Sezione ritiene di non aver motivo per discostarsi, nella circostanza, dall’ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo il quale, nella materia dei procedimenti di espropriazione per pubblica utilità, ad eccezione delle ipotesi in cui l’Amministrazione espropriante abbia agito nell’assoluto difetto di una potestà ablativa come mancanza di qualunque facultas agendi vincolata o discrezionale di elidere o comprimere detto diritto –devolute come tali alla giurisdizione ordinaria- sono devolute alla giurisdizione amministrativa esclusiva le controversie nelle quali si faccia questione -anche ai fini complementari della tutela risarcitoria- di attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti ad una dichiarazione di pubblica utilità e con essa congruenti, anche se il procedimento all'interno del quale sono state espletate non sia sfociato in un tempestivo e formale atto traslativo della proprietà ovvero sia caratterizzato dalla presenza di atti poi dichiarati illegittimi, purché vi sia un collegamento all’esercizio della pubblica funzione (C.D.S., sez. IV, del 04.04.2011, n.2113; C.D.S., Ad.Pl. del 30.07.2007, n. 9 e 22.10.2007, n. 12; Tar Lombardia, Brescia, sez. I, del 18.12.2008, n.1796; 01.06.2007, n. 466; Tar Basilicata, 22.02.2007, n. 75; Tar. Puglia, Bari, sez. III, del 09.02.2007, n. 404; Tar Lombardia, Milano, sez. II, del 18.12.2007, n. 6676; Tar Lazio, Roma, sez. II, del 03.07.2007, n. 5985; Tar Toscana, I, del 14.09.2006, n. 3976; Cass., SS.UU., 20.12.2006, nn. 27190, 27191 e 27193).
Inoltre, mentre le domande risarcitorie e restitutorie relative a fattispecie di occupazione usurpativa rientrano nella giurisdizione ordinaria, viceversa sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in caso di danni conseguenti all’annullamento della dichiarazione di pubblica utilità e, in generale, di un provvedimento amministrativo in tema di espropriazione per pubblica utilità.
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Nel merito, occorre evidenziare come, già a partire nella legge fondamentale sulle espropriazioni n. 2359 del 1865, così come nella successiva legislazione in materia di lavori pubblici, si rinviene il principio cardine secondo cui l’attività espropriativa deve articolarsi in una pluralità di fasi, le quali devono garantire la partecipazione degli interessati ed il contraddittorio con i soggetti coinvolti dall’azione amministrativa.
Detti principi, di pubblicità e partecipazione, -diretti non solo a scopo difensivo, bensì in stretta correlazione con i canoni di rango costituzionale dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa– sono stati cristallizzati dalla legge n. 241 del 1990 per tutti i procedimenti amministrativi; essi peraltro giocano un ruolo particolarmente significativo nei procedimenti espropriativi, essendo questi ultimi, per definizione, quelli più gravemente invasivi della sfera dei privati.
Questa premessa fa da sfondo all’affermazione dell’indirizzo secondo cui la dichiarazione di pubblica utilità, anche ove implicita nell’approvazione di un progetto di opera pubblica deve essere preceduta da comunicazione di avvio del procedimento rivolta ai soggetti interessati (C.D.S., Ad.Pl. 14/1999; C.D.S., sez. IV, n. 1668/2007; C.D.S. n. 8259/2006; C.D.S. n. 5352/2005; C.D.S., sez. VI, n. 736/2003)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.07.2012 n. 2096 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'attività di spargimento di ghiaia, su di un'area che ne era precedentemente priva, è da qualificarsi quale nuova costruzione ed è pertanto soggetta a concessione edilizia, allorché sia preordinata, come è avvenuto nel caso di specie, alla modifica della precedente destinazione d'uso.
Questi principi giurisprudenziali sono stati recepiti dal testo unico in materia edilizia, il D.P.R. n. 380/2001, il quale all’art. 3 ascrive al genus delle nuove costruzioni ed assoggetta a permesso di costruire, "la realizzazione di infrastrutture e di impianti, anche per pubblici servizi, che comporti la trasformazione in via permanente di suolo inedificato" (lett. e. 3) e "la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato" (e. 7).
Le opere di spargimento di ghiaia non possono, quindi, in alcun modo, essere qualificate quale intervento di manutenzione ordinaria, straordinaria, consolidamento statico o restauro conservativo.

Una parte degli abusi in questione è stata realizzata su un’area vincolata ai sensi dell’art. 142, c. 1, lett. c, d.lgs. n. 42/2004 -essendo ricompresa nella fascia di 150 metri da un corso d’acqua– ed in assenza del parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo.
Tali opere non sono condonabili, ai sensi dell’art. 33, l. n. 47/1985 e dell’art. 32, c. 27, lett. d), d.lgs. n. 269/2003, norme che non prevedono alcuna possibilità di sanatoria ex post, mediante l'accertamento sulla compatibilità dell'intervento rispetto al vincolo (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 19.03.2009, n. 1646).
Né il Collegio condivide la tesi della ricorrente secondo cui l’intervento di spargimento di ghiaia rientrerebbe nell’ambito di applicazione dell’art. 1, c. 8, d.l. n. 312/1985, conv. dalla l. n. 431/2985.
Tale norma -oltre a non essere più vigente in quanto abrogata dall'articolo 166, comma 1, del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490– non trova applicazione nel caso di specie.
L’opera in questione non è difatti qualificabile quale manutenzione ordinaria, straordinaria, consolidamento statico o restauro conservativo bensì quale nuova costruzione.
Il Collegio non ritiene difatti di doversi discostare dal condivisibile e risalente indirizzo giurisprudenziale secondo cui l'attività di spargimento di ghiaia, su di un'area che ne era precedentemente priva, è da qualificarsi quale nuova costruzione ed è pertanto soggetta a concessione edilizia, allorché sia preordinata, come è avvenuto nel caso di specie, alla modifica della precedente destinazione d'uso (cfr. Cass. pen., 09/06/1982; Cons. Stato, sez. II, 15/02/1989, n. 18/89; C.d.S., sez. V, 22 dicembre 2005, n. 7343; 11.11.2004, n. 7324; Consiglio di Stato sez. V, 27.04.2012, n. 2450).
Questi principi giurisprudenziali sono stati recepiti dal testo unico in materia edilizia, il D.P.R. n. 380/2001, il quale all’art. 3 ascrive al genus delle nuove costruzioni ed assoggetta a permesso di costruire, "la realizzazione di infrastrutture e di impianti, anche per pubblici servizi, che comporti la trasformazione in via permanente di suolo inedificato" (lett. e. 3) e "la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato" (e. 7).
Le opere di spargimento di ghiaia non possono, quindi, in alcun modo, essere qualificate quale intervento di manutenzione ordinaria, straordinaria, consolidamento statico o restauro conservativo (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 25.07.2012 n. 2086 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'attività di spargimento di ghiaia, su di un'area che ne era precedentemente priva, allorché appaia preordinata, alla modifica della precedente destinazione d'uso, è da qualificarsi quale nuova costruzione e rientra pertanto nell’ambito di applicazione del d.l. n. 269/2003.
Essa va, quindi, ricondotta nella tipologia 1 di cui all’allegato 2 al d.l. n. 269/2003 (ove non sussista la conformità alle norme urbanistiche) ma non, come vorrebbe la ricorrente, nella tipologia 6, cioè opere non valutabili in termini di superficie e volume.

Con il terzo motivo viene contesta l’illegittimità del provvedimento nella parte in cui afferma che lo spargimento di ghiaia non rientra nell'ambito applicativo dell'art. 32, d.l. n. 269/2003 -non ricadendo in nessuna delle tipologie di abuso ivi previste- e dell'art. 2, l. reg. Lombardia n. 31/2004, per violazione dell'art. 32, d.l. n. 269/2003.
La ricorrente sostiene, invece, la condonabilità di tali opere in quanto rientranti nella tipologia n. 6 di cui all’allegato 1, d.l. n. 269/2003 “opere o modalità di esecuzione non valutabili in termini di superficie o di volume”.
Il Collegio, pur non ritenendo corretta la qualificazione operata dall’amministrazione comunale sulle opere in questione, non condivide la tesi del ricorrente.
Come si è già affermato l'attività di spargimento di ghiaia, su di un'area che ne era precedentemente priva, allorché appaia preordinata, alla modifica della precedente destinazione d'uso, è da qualificarsi quale nuova costruzione e rientra pertanto nell’ambito di applicazione del d.l. n. 269/2003.
Essa va, quindi, ricondotta nella tipologia 1 di cui all’allegato 2 al d.l. n. 269/2003 (ove non sussista la conformità alle norme urbanistiche) ma non, come vorrebbe la ricorrente, nella tipologia 6, cioè opere non valutabili in termini di superficie e volume.
L’erroneità della qualificazione operata dalla p.a. non inficia però la legittimità del provvedimento, non potendo condividersi la tesi della ricorrente secondo cui andrebbero applicate le previsioni della l. reg. Lombardia n. 31/2004 relative alla tipologia di illecito numero 6 di cui all'allegato 1 al d.l. 269/2003, convertito dalla 1. 326/2003.
Per le ragioni esposte il ricorso è, dunque, in questa parte, infondato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 25.07.2012 n. 2086 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIl decorso di 5 anni comporta la decadenza del vincolo F1 “zone per servizi, attrezzature pubbliche e di interesse generale”, esistente su una parte dell’area in questione.
Il Collegio condivide quanto affermato dalla ricorrente in merito alla natura espropriativa del vincolo ed alla conseguente decadenza dello stesso.
Non trova, difatti applicazione, nel caso di specie, il principio giurisprudenziale invocato dalla difesa dell’amministrazione resistente secondo cui esulano dalla categoria espropriativa i vincoli implicanti una destinazione, anche specifica, realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, ovvero non richiedenti l'esclusivo intervento pubblico e quindi attuabili dal soggetto privato senza necessità della previa ablazione del bene.
Il piano regolatore del Comune prevede, invero, per le aree F1 –ad eccezione di quelle destinate ad attrezzature religiose- l'acquisizione delle aree al patrimonio comunale.
Il vincolo è dunque da qualificarsi come espropriativo.
Conseguenza della intervenuta decadenza del vincolo è l’applicazione all’area in questione della disciplina prevista all'art. 9, c. 1, d.P.R. n. 380/2001 e non, come afferma la ricorrente, la previgente normativa dettata all'art. 4, l. n. 10/1977.

Si esamina ora il primo motivo di ricorso.
Con esso viene contestata la mancata applicazione della disciplina prevista per le zone bianche dall'art. 4, l. n. 10/1977, in conseguenza della decadenza del vincolo F1 “zone per servizi, attrezzature pubbliche e di interesse generale”, esistente su una parte dell’area in questione.
Il Collegio condivide quanto affermato dalla ricorrente in merito alla natura espropriativa del vincolo ed alla conseguente decadenza dello stesso.
Non trova, difatti applicazione, nel caso di specie, il principio giurisprudenziale invocato dalla difesa dell’amministrazione resistente secondo cui esulano dalla categoria espropriativa i vincoli implicanti una destinazione, anche specifica, realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, ovvero non richiedenti l'esclusivo intervento pubblico e quindi attuabili dal soggetto privato senza necessità della previa ablazione del bene.
Il piano regolatore del Comune di Molteno prevede, invero, per le aree F1 –ad eccezione di quelle destinate ad attrezzature religiose- l'acquisizione delle aree al patrimonio comunale.
Il vincolo è dunque da qualificarsi come espropriativo.
Conseguenza della intervenuta decadenza del vincolo è l’applicazione all’area in questione della disciplina prevista all'art. 9, c. 1, d.P.R. n. 380/2001 e non, come afferma la ricorrente, la previgente normativa dettata all'art. 4, l. n. 10/1977.
In forza del generale principio tempus regit actum, invero, l’amministrazione deve applicare la normativa vigente al momento dell'adozione del provvedimento (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 25.07.2012 n. 2086 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl nuovo testo dell’art. 20 del Testo Unico dell’edilizia, laddove prevede il silenzio-assenso sulla domanda di permesso di costruire, rappresenta un principio fondamentale della legislazione statale nella materia del governo del territorio; di conseguenza esso prevale sulle norme regionali di dettaglio, tenendo conto sia dell’art. 2, commi 1° e 3°, del DPR 380/2001 sia dell’art. 10 della legge n. 62 del 10.02.1953, per il quale le norme statali di principio sopravvenute prevalgono sulle vigenti norme regionali di dettaglio, che devono reputarsi abrogate.
L’esponente sostiene che sulla domanda di permesso di costruire in variante, presentata il 12.08.2011 (cfr. doc. 2 del ricorrente), si sarebbe formato silenzio-assenso per decorso del termine complessivo di novanta giorni, previsto dall’art. 20 del DPR 380/2001 (Testo Unico dell’edilizia), nel testo introdotto dall’art. 5 del decreto legge n. 70 del 13.05.2011, convertito con legge n. 106 del 12.07.2011 (legge pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 160 del 12.07.2011 ed in vigore dal giorno successivo).
Il provvedimento di rigetto dell’istanza di permesso di costruire è stato adottato dal Comune il 16.11.2011 e trasmesso al ricorrente il 17.11.2011 (cfr. doc. 1 del ricorrente), mentre il termine di legge di 90 giorni, decorrente dal 12.08.2011, era ormai scaduto il 10.11.2011, per cui –si continua nel gravame– il diniego sarebbe tardivo, essendo intervenuto dopo la formazione tacita del titolo abilitativo, essendo già in vigore il nuovo testo dell’art. 20 del Testo Unico dell’edilizia.
L’Amministrazione resistente si oppone a tali argomenti, sostenendo che le novità legislative del DL 70/2011 non sarebbero state immediatamente applicabili nella Regione Lombardia, nella quale la legge regionale n. 12/2005, all’art. 38, escludeva –perlomeno al momento di presentazione della domanda dell’esponente– la formazione tacita del permesso di costruire.
Il problema posto all’attenzione del Collegio riguarda quindi il rapporto fra la legislazione statale –e segnatamente l’art. 20 del DPR 380/2001, come modificato dalla legge 106/2011- e la legislazione regionale, nel caso di specie l’art. 38 della LR 12/2005, nel testo vigente nell’anno 2011, che escludeva il rilascio del permesso di costruire attraverso il meccanismo procedimentale del silenzio assenso.
Sul punto, preme ricordare come la disciplina dell’edilizia e dell’urbanistica rientra nella materia del “governo del territorio”, che l’art. 117, comma 3°, della Costituzione attribuisce alla potestà legislativa concorrente dello Stato e della Regione.
Quest’ultima, di conseguenza, può dettare in materia norme legislative di dettaglio, nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale (cfr. art. 117, comma 3°, ultimo periodo, della Costituzione).
La Corte Costituzionale, con la fondamentale pronuncia n. 303 del 01.10.2003, dopo avere confermato che la disciplina dell’edilizia rientra nella materia del “governo del territorio”, ha stabilito che la disciplina dei titoli abilitativi ad edificare –fra cui si annovera il permesso di costruire– costituisce principio fondamentale della legislazione statale (cfr. il punto 11 della narrativa in “diritto” della citata sentenza della Corte).
Inoltre, attraverso la riforma dell’art. 20 del DPR 380/2001, il nuovo procedimento di rilascio del permesso di costruire rientra senza dubbio fra i procedimenti di formazione tacita degli atti autorizzativi, come previsti e disciplinati in via generale dall’art. 20 della legge 241/1990 (rubricato “Silenzio-assenso”).
Orbene, l’art. 29, comma 2-ter della legge 241/1990, stabilisce che le disposizioni delle legge stessa concernenti, fra l’altro, il silenzio-assenso, attengono ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, quindi addirittura ad una materia oggetto di potestà legislativa esclusiva dello Stato.
Lo stesso decreto legge 70/2011 (cfr. l’epigrafe del medesimo), è stato emanato per favorire lo sviluppo e la ripresa dell’economia, da realizzarsi anche attraverso la semplificazione dei procedimenti in materia edilizia, sicché l’intervento normativo di riforma dell’art. 20 del DPR 380/2001 appare obbedire a finalità che trascendono gli ambiti di intervento delle singole Regioni.
Ciò premesso, il nuovo testo dell’art. 20 del Testo Unico dell’edilizia, laddove prevede il silenzio-assenso sulla domanda di permesso di costruire, rappresenta un principio fondamentale della legislazione statale nella materia del governo del territorio; di conseguenza esso prevale sulle norme regionali di dettaglio, tenendo conto sia dell’art. 2, commi 1° e 3°, del DPR 380/2001 sia dell’art. 10 della legge n. 62 del 10.02.1953, per il quale le norme statali di principio sopravvenute prevalgono sulle vigenti norme regionali di dettaglio, che devono reputarsi abrogate (sulla perdurante vigenza del citato art. 10, si vedano: TAR Veneto, sez. III, 28.11.2011, n. 1786; TAR Liguria, sez. I, 12.06.2010, n. 4666 e Cassazione, sez. lavoro, 05.05.2010, n. 10829).
Sulla domanda di permesso di costruire, presentata dall’esponente il 12.08.2011, si è pertanto formato il titolo edilizio per effetto del silenzio-assenso, per cui il diniego ivi impugnato deve reputarsi illegittimo, essendo sopravvenuto all’intervenuta formazione del titolo tacito.
Neppure l’atto impugnato potrebbe qualificarsi come un valido atto di autotutela amministrativa (sempre possibile anche in caso di intervenuto silenzio assenso, stante l’espressa previsione dell’art. 20, comma 3° della legge 241/1990), in quanto esso risulta adottato al di fuori dei presupposti di legge (articoli 21-quinquies e 21-nonies della legge 241/1990), per l’esercizio del potere di autotutela, mancando nel provvedimento qualsivoglia comparazione degli interessi pubblici e privati coinvolti (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 25.07.2012 n. 2083 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 17, co. 3, lett. b), del d.P.R. 380/2001 stabilisce che il contributo di costruzione non è dovuto "per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”.
La norma in questione non stabilisce le caratteristiche dell’edificio unifamiliare, per cui la giurisprudenza è unanime nell'affermare che la ratio di tale disposizione è quella di favorire l'edificio unifamiliare in quanto tale ossia come immobile destinato ad un solo nucleo familiare, situazione ritenuta dal legislatore meritevole, per gli interventi di ristrutturazione, di un trattamento economico differenziato rispetto alle altre tipologie edilizie.
Pertanto, per fruire dell'esenzione, stando alla lettera della norma l'immobile deve essere in toto destinato ad esclusiva residenza abitativa di un unico nucleo familiare.
La giurisprudenza ha anche precisato che, ai fini dell'esonero dall'obbligo contributivo, la destinazione ad esclusiva residenza abitativa di un solo nucleo familiare deve preesistere rispetto all'intervento di ristrutturazione, e deve permanere anche dopo tale intervento: il manufatto oggetto dell'intervento deve essere, inoltre, ante opera, unifamiliare.
La circostanza che l’immobile sia stato reso unifamiliare pressoché coevamente alla richiesta di ampliamento e ristrutturazione, e che il Comune ritiene operazione in frode alla legge, non è tale per il Collegio, in quanto ciò che rileva ai fini dell’applicazione della norma in questione non è, come ritiene il Comune intimato, che l’immobile sia nato come edificio unifamiliare quanto che lo sia al momento in cui viene richiesto il beneficio previsto dalla norma che esenta dal pagamento degli oneri concessori.

Il ricorso, come chiarito in fatto, verte sull’applicazione dell’art. 17, co. 3, lett. b), del d.P.R. 380/2001, norma che stabilisce che il contributo di costruzione non è dovuto "per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”.
La ricorrente, che si è assoggetta al pagamento degli oneri con riserva di ripetizione, assume, infatti, di trovarsi nella condizione di fatto e di diritto per beneficiare di detta norma, mentre l’amministrazione nega tale diritto ritenendo che nella specie difetterebbe il requisito /presupposto della unifamiliarità dell’edificio, posto che per tali devono intendersi gli edifici non solo funzionalmente ma anche strutturalmente unifamiliari, ossia tali ab origine e non per effetto dell’intervento programmato.
Intervento nella specie identificabile con l’operazione complessa costituita, secondo l’amministrazione, dall’artificiosa scissione di un unico titolo in due distinti e pressoché contestuali titoli edilizi.
L’edificio in questione, infatti, in origine composto da due unità abitative è stato reso dapprima unifamiliare e poi, senza soluzione di continuità, ampliato e ristrutturato, al fine di eludere la norma che regola l’onerosità del titolo edilizio.
Il Collegio non ritiene tuttavia che la tesi del Comune meriti di essere condivisa, per le ragioni che seguono.
La norma in questione, innanzitutto, non stabilisce le caratteristiche dell’edificio unifamiliare, per cui la giurisprudenza è unanime nell'affermare che la ratio di tale disposizione è quella di favorire l'edificio unifamiliare in quanto tale ossia come immobile destinato ad un solo nucleo familiare, situazione ritenuta dal legislatore meritevole, per gli interventi di ristrutturazione, di un trattamento economico differenziato rispetto alle altre tipologie edilizie (Tar Lombardia, sez. II, 10.10.1996 n. 1480).
Pertanto, per fruire dell'esenzione, stando alla lettera della norma l'immobile deve essere in toto destinato ad esclusiva residenza abitativa di un unico nucleo familiare (Tar Lombardia, Brescia, 27.08.2004 n. 939).
La giurisprudenza ha anche precisato che, ai fini dell'esonero dall'obbligo contributivo, la destinazione ad esclusiva residenza abitativa di un solo nucleo familiare deve preesistere rispetto all'intervento di ristrutturazione, e deve permanere anche dopo tale intervento: il manufatto oggetto dell'intervento deve essere, inoltre, ante opera, unifamiliare (Tar Marche, 12.02.1998 n. 250).
Ebbene, nel caso di specie tali presupposti ricorrevano tutti in favore della richiedente, poiché prima dell’intervento di ampliamento e ristrutturazione l’immobile era stato reso unifamiliare in forza della d.i.a. del 22.01.2008, con cui era stata attuata l’aggregazione delle due preesistenti unità immobiliari e creato l’edificio unifamiliare destinato alla residenza della ricorrente, che all’uopo ha provveduto alle necessarie variazioni catastali e, come sopra rilevato, al contestuale trasferimento della propria residenza.
L’assunto del Comune, che tale intervento, in quanto realizzato attraverso l’artificio della scissione, pressoché contestuale, dell’unica autorizzazione edilizia in due distinti titoli edilizi, deve ritenersi elusivo della legge (nella specie dell’art. 17, comma 3, lett. b), del d.P.R. 380/2001) e quindi inidoneo ad avvalersi del relativo beneficio è destituito di giuridico fondamento.
La tesi del comune di Casciago sarebbe, infatti condivisibile se il legislatore avesse dato una definizione di edificio unifamiliare basata su elementi oggettivi (limite di superficie o di volume o di vani o di quant’altro possa definire oggettivamente il concetto di piccola proprietà, escludendo tipologie di lusso o comunque immobili di grandi dimensioni) e tale non fosse, perché eccedente detti limiti, l’immobile della ricorrente, posto che altrimenti per unifamiliare deve intendersi l’immobile catastalmente allibrato come unica unità immobiliare destinata alla residenza di un solo nucleo familiare.
Ogni altra distinzione, compresa quella della destinazione “strutturale” che il Comune intimato pretende di applicare alla fattispecie, senza spiegare quali concreti elementi l’immobile debba possedere per appartenere a tale categoria, è, infatti, non solo arbitraria ma, proprio perché indefinita nei suoi elementi costitutivi, inapplicabile a fattispecie concrete.
La circostanza che l’immobile sia stato reso unifamiliare pressoché coevamente alla richiesta di ampliamento e ristrutturazione, e che il Comune ritiene operazione in frode alla legge, non è tale per il Collegio, in quanto ciò che rileva ai fini dell’applicazione della norma in questione non è, come ritiene il Comune intimato, che l’immobile sia nato come edificio unifamiliare quanto che lo sia al momento in cui viene richiesto il beneficio previsto dalla norma che esenta dal pagamento degli oneri concessori.
E questa situazione di fatto e di diritto sussisteva, nella specie, proprio sulla base di un intervento non solo edilizio ma anche catastale e di modifica della residenza che la ricorrente aveva posto in essere prima di avviare l’intervento di cui alla d.i.a. del 22.01.2008 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.07.2012 n. 2070 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa mancata indicazione nel provvedimento impugnato dei termini e dell'autorità cui ricorrere (a cui si appella la difesa ricorrente per ottenere la suddetta rimessione in termini), comporti la mera possibilità (e non l'obbligo) della rimessione medesima, per errore scusabile del ricorrente.
Ciò in quanto, secondo l'orientamento prevalente, la mancanza delle indicazioni de quibus può integrare l’errore scusabile non automaticamente, ma solo in relazione alle circostanze concrete, da esaminarsi caso per caso, laddove tali circostanze rivelino la sussistenza di una giustificata incertezza sugli strumenti di tutela utilizzabili da parte del destinatario.
Altrimenti opinando, infatti, l'inadempimento da parte dell'amministrazione si tradurrebbe, in maniera del tutto illogica, in una sottrazione indiscriminata e generalizzata dall'onere di ottemperare alle prescrizioni vincolanti che disciplinano l’impugnazione dei provvedimenti amministrativi.
A favore di tale soluzione, è bene notare come si siano pronunciate anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, con la sentenza 21.01.2010, n. 969, hanno distinto il caso della radicale mancanza dell' indicazione del termine e dell' autorità cui ricorrere, da quello dell'indicazione erronea (indicazione di un termine inesatto e/o di un giudice privo di giurisdizione), specificando che, nel primo caso, la remissione in termini deve essere valutata caso per caso e non, appunto, concessa automaticamente.

Occorre rilevare, al riguardo, come la mancata indicazione nel provvedimento impugnato dei termini e dell'autorità cui ricorrere (a cui si appella la difesa ricorrente per ottenere la suddetta rimessione in termini), comporti la mera possibilità (e non l'obbligo) della rimessione medesima, per errore scusabile del ricorrente (cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, sez. VI, 16.04.2012, n. 2139).
Ciò, in quanto secondo l'orientamento prevalente (cfr., ancora, tra le tante, Cons. Stato, VI, 30.07.2010, n. 5055; 16.05.2006, n. 2673), da cui il Collegio non ha motivo di discostarsi in relazione al caso che qui ci occupa, la mancanza delle indicazioni de quibus può integrare l’errore scusabile non automaticamente, ma solo in relazione alle circostanze concrete, da esaminarsi caso per caso, laddove tali circostanze rivelino la sussistenza di una giustificata incertezza sugli strumenti di tutela utilizzabili da parte del destinatario.
Altrimenti opinando, infatti, l'inadempimento da parte dell'amministrazione si tradurrebbe, in maniera del tutto illogica, in una sottrazione indiscriminata e generalizzata dall'onere di ottemperare alle prescrizioni vincolanti che disciplinano l’impugnazione dei provvedimenti amministrativi (cfr. così, ancora, Cons. Stato n. 2139/2012 cit.).
A favore di tale soluzione, è bene notare come si siano pronunciate anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, con la sentenza 21.01.2010, n. 969, hanno distinto il caso della radicale mancanza dell' indicazione del termine e dell' autorità cui ricorrere, da quello dell'indicazione erronea (indicazione di un termine inesatto e/o di un giudice privo di giurisdizione), specificando che, nel primo caso, la remissione in termini deve essere valutata caso per caso e non, appunto, concessa automaticamente (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.07.2012 n. 2060 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASussiste la necessità di procedere ad una valutazione dell'abuso edilizio mediante “una visione complessiva e non atomistica dell'intervento giacché il pregiudizio recato al regolare assetto del territorio deriva non dal singolo intervento ma dall'insieme delle opere realizzate nel loro contestuale impatto edilizio.
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In ogni caso, la precarietà di un manufatto non dipende dal suo sistema di ancoraggio al terreno, ma dalla sua inidoneità a determinare una stabile trasformazione del territorio, con la conseguente necessità del titolo edilizio allorquando, come nel caso di specie, la struttura, ancorché rimuovibile, sia destinata a dare un'utilità prolungata nel tempo e non meramente occasionale.

Più in generale, giova osservare come correttamente l’amministrazione abbia proceduto ad una puntuale rilevazione e indicazione delle difformità riscontrate rispetto al progetto assentito (in conformità alla richiamata sentenza n. 6897 di questo TAR), onde ricavare da essa la corretta qualificazione dell'intervento realizzato e la conseguente identificazione del titolo edilizio che sarebbe stato necessario (cfr. proprio sulla necessità di procedere ad una valutazione dell'abuso edilizio mediante “una visione complessiva e non atomistica dell'intervento giacché il pregiudizio recato al regolare assetto del territorio deriva non dal singolo intervento ma dall'insieme delle opere realizzate nel loro contestuale impatto edilizio”: Consiglio di Stato, VI, 06.06.2012 n. 3330).
In tal senso, non rileva la circostanza che il manufatto sia stabilmente ancorato al suolo mediante imbullonatura, come tale rimuovibile, dovendosi rammentare che, in ogni caso, la precarietà di un manufatto non dipende dal suo sistema di ancoraggio al terreno, ma dalla sua inidoneità a determinare una stabile trasformazione del territorio, con la conseguente necessità del titolo edilizio allorquando, come nel caso di specie, la struttura, ancorché rimuovibile, sia destinata a dare un'utilità prolungata nel tempo e non meramente occasionale (cfr. Consiglio di Stato, V, 27.04.2012, n. 2450; id. 15.06.2000, n. 3321; id. 03.04.1990, n. 317).
Anche la pavimentazione a secco dell’antistante giardino (mediante lastre di pietra) non può essere considerata in modo avulso dal contesto di riferimento, concorrendo la stessa, che pure non risulta riportata in progetto, alla valutazione complessiva dell’intervento in questione, ai fini della sua riconducibilità fra quelli necessitanti un idoneo titolo edilizio (cfr., in ogni caso, sulla necessità di siffatto titolo edilizio per ogni intervento che determini una perdurante modifica dello stato dei luoghi con materiale posto sul suolo, pur in assenza di opera in muratura, ancora Cons. Stato 2450/2012, a proposito dello spargimento di ghiaia, nonché, Cons. Stato, sez. V, 21.10.2003, n. 6519) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.07.2012 n. 2058 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALo spargimento di ghiaia su un'area che ne era in precedenza priva richiede la concessione edilizia allorché appaia preordinata alla modifica della precedente destinazione d'uso.
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Quanto al box ad uso ufficio, non è determinante la circostanza che lo stesso sia soltanto materialmente appoggiato al suolo e non infisso ad esso, giacché il carattere di provvisorietà di una costruzione edilizia, ai fini dell'esenzione dal titolo autorizzatorio, dipende dall'uso realmente precario e temporaneo per fini specifici e cronologicamente delimitati.

Quanto alla stesura della ghiaia, si osserva che, secondo la prevalente giurisprudenza –che il collegio condivide– lo spargimento di ghiaia su un'area che ne era in precedenza priva richiede la concessione edilizia allorché appaia preordinata alla modifica della precedente destinazione d'uso (Cons. di St., V, 22.12.2005, n. 7343; id., 11.11.2004, n. 7325; Cass. Pen., III, 09.06.1982).
Nel caso di specie, lo spargimento di ghiaia è funzionale all’utilizzo del terreno per il parcheggio e la sosta di container ed altri materiali (così l’istanza in data 19.11.1986, doc. 1 delle produzioni 30.06.1987 di parte ricorrente), onde necessitava di concessione edilizia ex art. 1 L. n. 10/1977.
Quanto al box ad uso ufficio, non è determinante la circostanza che lo stesso sia soltanto materialmente appoggiato al suolo e non infisso ad esso, giacché il carattere di provvisorietà di una costruzione edilizia, ai fini dell'esenzione dal titolo autorizzatorio, dipende dall'uso realmente precario e temporaneo per fini specifici e cronologicamente delimitati (Cons. di St., V, 24.02.2003, n. 986).
Nel caso di specie, l’utilizzo del box in funzione dell’attività commerciale svolta dal ricorrente ne fa invece presumere una utilizzazione perdurante nel tempo, rafforzata dalla mancanza di allegazioni di segno contrario (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 24.07.2012 n. 1076 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' inammissibile il ricorso proposto avverso il provvedimento di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e di acquisizione al patrimonio comunale della costruzione abusiva e dell’area di sedime nel caso di mancata impugnazione dell’ingiunzione a demolire, a meno che non si facciano valere vizi propri degli atti in questione.
Giova premettere che, per costante giurisprudenza, è inammissibile il ricorso proposto avverso il provvedimento di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e di acquisizione al patrimonio comunale della costruzione abusiva e dell’area di sedime nel caso di mancata impugnazione dell’ingiunzione a demolire, a meno che non si facciano valere vizi propri degli atti in questione (Cons. di St., V, 24.03.2011, n. 1793; id., IV, 08.11.2010, n. 7914; TAR Liguria, I, 18.05.2012, n. 706) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 24.07.2012 n. 1075 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAGli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento.
Analogamente -e per lo stesso motivo- l’ordine di demolizione di opere abusive non richiede una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art. 3, l. n. 241 del 1990; il presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione è costituito, infatti, esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in assenza del titolo abilitativo, con la conseguenza che il provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione.

Per costante giurisprudenza, in ragione del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento (TAR Liguria, I, 22.04.2011, n. 666).
Analogamente -e per lo stesso motivo- l’ordine di demolizione di opere abusive non richiede una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art. 3, l. n. 241 del 1990; il presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione è costituito, infatti, esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in assenza del titolo abilitativo, con la conseguenza che il provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione (TAR Campania-Salerno, II, 13.04.2011, n. 702) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 24.07.2012 n. 1073 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAA tutela del bene di interesse storico-artistico, qualora sussista l’esigenza che lo stesso sia valorizzato nella sua complessiva prospettiva e cornice ambientale, la legge prevede l’imposizione del “vincolo indiretto” disciplinato dall’art. 45 del D.lgs. n. 42 del 2004, onde possono essere interessati dai relativi divieti e limitazioni anche immobili non adiacenti a quello tutelato purché allo stesso accomunati dall’appartenenza ad un unitario e inscindibile contesto territoriale.
Il “vincolo indiretto”, inoltre, non ha contenuto prescrittivo tipico, essendo rimessa all’autonomo apprezzamento dell’Amministrazione la determinazione delle disposizioni utili all’ottimale protezione del bene –fino alla inedificabilità assoluta–, se e nei limiti in cui tanto sia richiesto dalla necessità di scongiurare un vulnus ai valori oggetto di salvaguardia (integrità dei beni protetti, difesa della prospettiva e della luce degli stessi, cura delle relative condizioni di ambiente e decoro), in un ambito territoriale che si estende fino a ricomprendere ogni immobile, anche non contiguo, la cui manomissione si valuti capace di alterare il complesso delle condizioni e caratteristiche fisiche e culturali che connotano lo spazio circostante.

A tutela del bene di interesse storico-artistico, qualora sussista l’esigenza che lo stesso sia valorizzato nella sua complessiva prospettiva e cornice ambientale, la legge prevede l’imposizione del “vincolo indiretto” disciplinato dall’art. 45 del D.lgs. n. 42 del 2004, onde possono essere interessati dai relativi divieti e limitazioni anche immobili non adiacenti a quello tutelato purché allo stesso accomunati dall’appartenenza ad un unitario e inscindibile contesto territoriale.
Il “vincolo indiretto”, inoltre, non ha contenuto prescrittivo tipico, essendo rimessa all’autonomo apprezzamento dell’Amministrazione la determinazione delle disposizioni utili all’ottimale protezione del bene –fino alla inedificabilità assoluta–, se e nei limiti in cui tanto sia richiesto dalla necessità di scongiurare un vulnus ai valori oggetto di salvaguardia (integrità dei beni protetti, difesa della prospettiva e della luce degli stessi, cura delle relative condizioni di ambiente e decoro), in un ambito territoriale che si estende fino a ricomprendere ogni immobile, anche non contiguo, la cui manomissione si valuti capace di alterare il complesso delle condizioni e caratteristiche fisiche e culturali che connotano lo spazio circostante (TAR Emilia Romagna, Parma, sent. 20 del 14.01.2010).
Solo in presenza di un vincolo di tal fatta, che insiste sulle aree adiacenti il bene storico artistico primario, può ritenersi che l’impatto visivo di un’antenna del tipo di quella oggetto del presente giudizio debba essere valutata esclusivamente dall’immobile principale, con la conseguenza che in mancanza del vincolo prospettico il proprietario dell’immobile non può piegare il vincolo paesistico che grava sul centro storico di Vigevano a svolgere la funzione di vincolo indiretto a tutela del chiostro di sua proprietà, in quanto il primo ha per oggetto una bellezza d’insieme, mentre il secondo ha per oggetto una bellezza individua (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 23.07.2012 n. 2052 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa disciplina statale e regionale volta ad agevolare il perseguimento del risparmio energetico negli interventi edilizi (cfr. art. 11 d.lgs. n. 115/2008; legge regionale n. 26/1995 e relativa circolare regionale di cui al d.dirett. reg. 07.08.2008 n. 8935), non si presta ad essere interpretata alla stregua di una disciplina di sanatoria di interventi edilizi già realizzati.
In essa, infatti, è chiaramente richiesto agli interessati di allegare al progetto originario apposita relazione tecnica, corredata da calcoli e grafici dimostrativi della riduzione del fabbisogno energetico e della trasmittanza termica, che costituisce parte integrante del progetto medesimo (cfr. circolare regionale cit.).
Per la deroga alle distanze minime e alle altezze massime di cui all’art. 11 cit., quindi, è necessario che l’amministrazione si esprima sulla base del progetto e dei dati tecnici richiesti ai sensi della ridetta normativa, prima che l’intervento medesimo abbia luogo.
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Il permesso in sanatoria postula imprescindibilmente una sostanziale conformità dell'opera abusiva alla vigente disciplina urbanistica, sia al momento della perpetrazione di detto abuso che al tempo della presentazione della pertinente istanza di sanatoria, “nella prospettiva di una più solida salvaguardia degli interessi pubblici connessi alla tutela delle esigenze urbanistiche”.

Come già evidenziato in sede cautelare, gli accertamenti effettuati dal Comune non lasciano dubbi sull’entità delle modifiche apportate dagli istanti, che, anche soltanto per ciò che attiene all’incremento delle altezze di colmo e di gronda, sono ricavabili anche dalla Tavola 3 (già cit. e agli atti) allegata alla dia in variante e che risultano idonee a decretare una modifica extra-sagoma dell’intervento, non assentibile con dia in variante ex art. 22, co. II T.U. (per cui sono realizzabili mediante denuncia di inizio attività “le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio e non violano le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di costruire”).
Con il terzo motivo, si afferma che le ridette modifiche non rivestirebbero i caratteri della variazione essenziale rilevante ex art. 31 TU, tenendo conto dell’ult. co. dell’art. 54 L.R. cit. per cui: Non sono comunque da considerarsi variazioni essenziali quelle che incidono sull'entità delle cubature dei volumi tecnici ed impianti tecnologici, sulla distribuzione interna delle singole unità abitative e produttive, per l'adeguamento alle norme di risparmio energetico, per l'adeguamento alle norme per la rimozione delle barriere architettoniche, nonché le modifiche che variano il numero delle unità immobiliari.
Sul punto, il Comune nega l’applicabilità ex post, in sede di variante (e/o di sanatoria), della disciplina sul contenimento del consumo energetico di cui al d.lgs. n. 115/2008.
Il motivo è infondato.
Ritiene il Collegio che l’impostazione comunale debba essere condivisa, nel senso che, la disciplina statale e regionale volta ad agevolare il perseguimento del risparmio energetico negli interventi edilizi (cfr. art. 11 d.lgs. n. 115/2008; legge regionale n. 26/1995 e relativa circolare regionale di cui al d.dirett. reg. 07.08.2008 n. 8935), non si presta ad essere interpretata alla stregua di una disciplina di sanatoria di interventi edilizi già realizzati.
In essa, infatti, è chiaramente richiesto agli interessati di allegare al progetto originario apposita relazione tecnica, corredata da calcoli e grafici dimostrativi della riduzione del fabbisogno energetico e della trasmittanza termica, che costituisce parte integrante del progetto medesimo (cfr. circolare regionale cit.).
Per la deroga alle distanze minime e alle altezze massime di cui all’art. 11 cit., quindi, è necessario che l’amministrazione si esprima sulla base del progetto e dei dati tecnici richiesti ai sensi della ridetta normativa, prima che l’intervento medesimo abbia luogo.
Nel caso di specie, al contrario, nel progetto originario di cui alla dia D33/2008 non v’era alcuna traccia della volontà delle parti di avvalersi della disciplina sul contenimento energetico, essendo stato, il ricorso a detta disciplina, prospettato dalla difesa ricorrente soltanto dopo la realizzazione delle difformità e l’intervento sanzionatorio comunale.
In siffatte evenienze, deve essere, quindi, ribadita la legittimità dell’operato comunale, che ha ritenuto inammissibile la dia in variante a fronte delle riscontrate difformità rispetto al progetto originario, non superabili neppure con l’applicazione postuma della cit. disciplina sul risparmio energetico.
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Come chiarito dalla resistente amministrazione, la normativa di cui agli artt. 11 d.lgs. 115/2008 e 1 e ss. legge reg. n. 26/1995 e ss. m. e i., non si applica al permesso di costruire in sanatoria, postulando la stessa una valutazione ex ante da parte dell’amministrazione, da esprimersi prima della realizzazione dell’intervento e previa presentazione di apposita relazione di certificazione del contenimento del consumo energetico conseguito con l’intervento medesimo.
Nel caso di specie, giova ribadire, i ricorrenti hanno dapprima presentato una D.I.A. per ristrutturazione, senza prevedere le misure di contenimento energetico, anzi impegnandosi al rispetto della sagoma e delle altezze preesistenti; indi, hanno posto in essere delle rilevanti variazioni, pretendendo di sminuirne l’essenzialità mediante l’applicazione in sanatoria della normativa sul risparmio energetico.
In siffatte evenienze, il Collegio deve ribadire quanto già evidenziato sub n. 4.3.3., dovendosi condividere l’impostazione comunale che, valorizzando la vera ratio della disciplina statale e regionale di cui agli artt. 11 d.lgs. n. 115/2008; 1 e ss. legge regionale n. 26/1995 e s.m. e i. (e relativa circolare di cui al d.dirett. reg. 07.08.2008 n. 8935) tesa ad agevolare il perseguimento del risparmio energetico negli interventi edilizi, ne esclude un’applicazione ex post, alla stregua di una disciplina di sanatoria di interventi edilizi già realizzati. Si richiamano, per il resto, le valutazioni già espresse in precedenza, richiamandosi alle relative conclusioni.
A corroborare quanto sin qui evidenziato, si può solo accennare alla circostanza che, in sede di permesso di costruire in sanatoria, un ulteriore ostacolo all’applicazione della normativa da ultimo cit. è rappresentato dalla mancanza della cd. doppia conformità.
Il permesso in sanatoria, infatti, postula imprescindibilmente una sostanziale conformità dell'opera abusiva alla vigente disciplina urbanistica, sia al momento della perpetrazione di detto abuso che al tempo della presentazione della pertinente istanza di sanatoria, “nella prospettiva di una più solida salvaguardia degli interessi pubblici connessi alla tutela delle esigenze urbanistiche” (così Consiglio Stato, sez. V, 08.09.2011, n. 5056; TAR Milano, sez. II, 08.09.2011, n. 2195).
Qui, per vero, al momento della realizzazione dell’abuso, e, quindi, al momento della presentazione del progetto originario, l’intervento non era conforme alla disciplina urbanistica esistente (mentre nessuna deroga era stata richiesta ai fini dell’attuazione delle misure di contenimento energetico), sicché l’eventuale conformità all’attuale disciplina urbanistica dell’intervento in questione non sarebbe comunque sufficiente a decretarne la sanatoria ex art. 36 TU
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.07.2012 n. 2046 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIl Comune ha l’obbligo di assegnare una destinazione urbanistica alle c.d. zone bianche, dopo la scadenza dei vincoli espropriativi.
Ai fini della definizione del presente gravame, appare ormai provato che sul terreno di cui è causa era stato apposto un vincolo di carattere espropriativo, per cui, avendo quest’ultimo perso efficacia, l’area deve essere considerata quale “zona bianca”, soggetta alla disciplina dell’art. 9 del DPR 380/2001 (cfr. l’art. 9, comma 3°, del DPR 327/2001, recante espressa previsione in tal senso).
La giurisprudenza amministrativa è concorde nell’affermare che il Comune ha l’obbligo di assegnare una destinazione urbanistica alle c.d. zone bianche, dopo la scadenza dei vincoli espropriativi (cfr., fra le tante, TAR Abruzzo, L’Aquila, 14.02.2012, n. 93; Consiglio di Stato, sez. IV, 05.12.2006, n. 7131 e 21.02.2005, n. 585).
Ciò premesso, deve ritenersi sussistente l’obbligo del Comune di Buccinasco di provvedere all’attribuzione di una destinazione urbanistica all’area dei ricorrenti, attraverso un provvedimento ad hoc relativo all’area stessa, non ostando a tale soluzione la disciplina regionale sulle varianti urbanistiche invocata dal resistente (art. 26 LR 12/2005), non trattandosi –infatti– di adottare un provvedimento di variante allo strumento urbanistico vigente (l’area degli esponenti è infatti “zona bianca”, quindi priva di disciplina comunale di piano), quanto piuttosto di ottemperare all’obbligo di assegnazione di una specifica destinazione urbanistica ad un fondo, ora soggetto all’art. 9 del DPR 380/2001 (cfr. per analoga fattispecie, TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 18.06.2012, n. 1245).
L’Amministrazione dovrà provvedere entro 60 (sessanta) giorni dalla notificazione o dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.07.2012 n. 2044 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa fideiussione prestata per il pagamento degli oneri di urbanizzazione conseguenti al rilascio della concessione edilizia non si estende, ai sensi dell'art. 1942 c.c., al pagamento della sanzione amministrativa posta dall'art. 3 l. 28.02.1985 n. 47, direttamente a carico del concessionario in caso di ritardato od omesso versamento del contributo afferente alla concessione, stante il difetto di accessorietà della seconda rispetto ai primi.
A conferma di ciò, giova osservare come la stessa decisione della Corte di Cassazione civile, sez. I, 12.06.2001, n. 7885, richiamata nel ricorso (per cui: <<La fideiussione prestata per il pagamento degli oneri di urbanizzazione conseguenti al rilascio della concessione edilizia non si estende, ai sensi dell'art. 1942 c.c., al pagamento della sanzione amministrativa posta dall'art. 3 l. 28.02.1985 n. 47, direttamente a carico del concessionario in caso di ritardato od omesso versamento del contributo afferente alla concessione, stante il difetto di accessorietà della seconda rispetto ai primi>>), è stata resa proprio nell’ambito dello stesso giudizio civile intercorso fra il Comune di Porto San Giorgio e la Zurich International Italia SpA nel quale è intervenuta la pronuncia delle S.U. sulla giurisdizione sopra citata (ovvero, avverso la sentenza n. 41-98 della Corte d'Appello di Ancona, di riforma della sentenza del Tribunale di Fermo del 19.11.1996), e non in un giudizio amministrativo.
E, del resto, ad ulteriore riprova di quanto assunto, giova osservare come proprio in sede civile, nella causa che ha avuto il suo epilogo nella sentenza versata in atti da parte ricorrente (Tribunale di Milano 03.09.2005 n. 9824), è stato accertato il carattere “autonomo” della garanzia prestata dalla Zurigo a favore del Comune di Limbiate (polizza n.109E7619 del 9.3.1994), destinata a coprire soltanto l’adempimento delle obbligazioni assunte dalla Coop. in dipendenza della c.e. datata 16.02.1994 per il pagamento degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria (con conseguente estraneità all’oggetto di tale polizza della somma, pretesa dal Comune con l’ingiunzione in epigrafe specificata, a titolo di sanzione ex art. 3 L.n. 47/1985 e interessi per ritardato pagamento della II^ rata degli oneri di urbanizzazione) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.07.2012 n. 2043 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL’art. 25 della legge 241/1990 esige che la domanda di accesso agli atti sia “motivata”, visto che l’accesso ai documenti non è riconosciuto al quisque de populo ma soltanto a chi vanta un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata con i documenti dei quali è domandata l’ostensione, non potendosi ammettere una sorta di controllo generalizzato sull’attività dell’Amministrazione.
L’art. 25 della legge 241/1990 esige che la domanda di accesso agli atti sia “motivata”, visto che l’accesso ai documenti non è riconosciuto al quisque de populo ma soltanto a chi vanta un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata con i documenti dei quali è domandata l’ostensione, non potendosi ammettere una sorta di controllo generalizzato sull’attività dell’Amministrazione (cfr. l’art. 22, comma 1, lett. b, della legge 241/1990 e, in giurisprudenza, TAR Puglia, Bari, sez. II, 16.05.2102, n. 935).
Nel caso di specie l’esponente si qualifica semplicemente come <<proprietaria del mappale 1064>>, oltre a far riferimento ad una nota trasmessa da un –non meglio identificato– <<studio legale dei signori sopraindicati>>, nota peraltro non allegata alla richiesta di accesso, la quale ultima non menziona nessun nominativo di persone (cfr. doc. 1 della ricorrente).
Si aggiunga ancora che, dall’esame della planimetria versata in giudizio dalla ricorrente (cfr. il doc. 2 di quest’ultima), il mappale n. 1064 (colorato in giallo), non confina neppure con i mappali di cui ai permessi di costruire (colorati in azzurro), per cui anche sotto tale profilo la richiesta di accesso appare generica e non supportata da idonea motivazione.
Tale genericità non può essere neppure “sanata” dagli argomenti difensivi contenuti in ricorso, potendo semmai l’esponente presentare una ulteriore ed argomentata domanda di accesso (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.07.2012 n. 2041 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe opere edilizie abusive oggetto della istanza di sanatoria respinta con il provvedimento impugnato (cambio di destinazione d’uso con realizzazione di opere interne –segnatamente: bagno e angolo cottura, impianto elettrico ed idraulico, pavimentazione, tinteggiature– e installazione di due serramenti di chiusura del locale esistente), essendo specificamente volte a trasformare l’organismo edilizio preesistente da magazzino-autorimessa ad abitazione, piuttosto che a conservarlo assicurandone la funzionalità, integrano propriamente un intervento di ristrutturazione (nel senso che gli interventi di cambio di destinazione strutturale o con opere sono di regola sussumibili nel genere della ristrutturazione).
In realtà, le opere edilizie abusive oggetto della istanza di sanatoria respinta con il provvedimento impugnato (cambio di destinazione d’uso con realizzazione di opere interne –segnatamente: bagno e angolo cottura, impianto elettrico ed idraulico, pavimentazione, tinteggiature– e installazione di due serramenti di chiusura del locale esistente), essendo specificamente volte a trasformare l’organismo edilizio preesistente da magazzino-autorimessa ad abitazione, piuttosto che a conservarlo assicurandone la funzionalità, integrano propriamente un intervento di ristrutturazione (nel senso che gli interventi di cambio di destinazione strutturale o con opere sono di regola sussumibili nel genere della ristrutturazione, cfr. TAR Liguria, I, 29.11.2007, n. 1988; TAR Lombardia, II, 14.05.2007, n. 3070) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 20.07.2012 n. 1045 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI - VARILa distribuzione di volantini a mano lungo le strade e in generale nei luoghi pubblici, anche in prossimità degli edifici (ove sono collocate le bussole che ospitano la posta ed il materiale pubblicitario) è un’attività essenzialmente libera, e l’amministrazione non vanta poteri regolatori suscettibili di incidere direttamente nel rapporto tra gli operatori commerciali e i potenziali clienti.
Rispetto alle esigenze di salvaguardia dell’ambiente e di tutela del decoro cittadino, va osservato che contro taluni comportamenti gravi e deprecabili (che producono sporcizia) già esiste il presidio di specifiche norme incriminatrici (le quali descrivono figure di reato) ovvero sono contemplate conseguenze sul piano amministrativo (ad es. art. 639 del c.p. sull’imbrattamento e deturpamento di cose altrui; sanzioni amministrative comminate dal Codice della Strada nel caso di intralcio alla circolazione; art. 660 del c.p. sulle molestie e il disturbo alle persone).

 Rilevato:
- che il gravame è fondato e il Collegio richiama in proposito la recente sentenza di questa Sezione 17/04/2012 n. 641, dalla quale non ha motivo per discostarsi;
- che in tale pronuncia si è statuito che la distribuzione di volantini a mano lungo le strade e in generale nei luoghi pubblici, anche in prossimità degli edifici (ove sono collocate le bussole che ospitano la posta ed il materiale pubblicitario) è un’attività essenzialmente libera, e l’amministrazione non vanta poteri regolatori suscettibili di incidere direttamente nel rapporto tra gli operatori commerciali e i potenziali clienti (cfr. anche punto 8.8 sentenza Sezione 25/06/2012 n. 1184);
- che rispetto alle esigenze di salvaguardia dell’ambiente e di tutela del decoro cittadino, va osservato che contro taluni comportamenti gravi e deprecabili (che producono sporcizia) già esiste il presidio di specifiche norme incriminatrici (le quali descrivono figure di reato) ovvero sono contemplate conseguenze sul piano amministrativo (ad es. art. 639 del c.p. sull’imbrattamento e deturpamento di cose altrui; sanzioni amministrative comminate dal Codice della Strada nel caso di intralcio alla circolazione; art. 660 del c.p. sulle molestie e il disturbo alle persone);
Atteso:
- che anche nel caso di specie non vi sono elementi che permettano di affermare con certezza (o elevata probabilità) che l’ambiente ed il decoro cittadino ricevano pregiudizio dall’attività posta in essere dagli esercenti la pubblicità a domicilio, piuttosto che dall’incuria o dalla disattenzione dei privati cittadini o dall’influenza di eventi esterni (ad es. gli agenti atmosferici, che possono favorire la caduta a terra di depliants inseriti solo in parte nella bussola);
- che in materia va altresì richiamato il precedente del TAR Puglia Lecce, sez. I – 05/10/2011 n. 1730 nonché la recentissima sentenza breve della Sezione 21/06/2012 n. 1133 (punti 8.8 e 8.9);
- che la “preferenza” nei fatti accordata alla normale distribuzione postale interferisce con il libero esercizio della concorrenza nel settore pubblicitario;
- che la scelta del miglior sistema di organizzazione dell’attività economica di cui si discorre rientra nel libero apprezzamento delle imprese –inerendo espressamente alla strategia aziendale– sul quale l’autorità pubblica non può incidere con regole (anticipata comunicazione dell’itinerario e del personale incaricato) che privilegiano una determinata opzione (la consegna per posta) soltanto perché ritenuta meno invasiva per i privati cittadini;
Tenuto conto:
- che, quanto alla prima e alla seconda censura, non risulta comprovata né l’esistenza del pericolo di un danno grave alla salute dell’uomo, né il sopravvenire di una situazione eccezionale ed imprevedibile tale da incidere in modo straordinario sulla sicurezza pubblica, ossia delle sole condizioni che giustificano l’intervento –di natura contingibile ed urgente– del Sindaco (cfr. propria sentenza breve 20/01/2012 n. 87; TAR Sicilia Palermo, sez. III – 15/02/2011 n. 2177; si veda anche Consiglio di Stato, sez. VI – 13/06/2012 n. 3490);
- che sussiste altresì la lesione del principio di proporzionalità, in base al quale il sacrificio imposto al privato non deve eccedere le esigenze di tutela che si devono garantire nell’immediatezza, dato che il rimedio “extra ordinem” adottato assume efficacia “sine die”;
- che in conclusione il gravame è fondato e deve essere accolto (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 19.07.2012 n. 1375 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Consiglio di Stato: le sanzioni dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici.
Il Consiglio di Stato fa luce, nella pronuncia in commento, sul potere sanzionatorio dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e fornitura ex art. 48, c. 2, del d.lgs. n. 163 del 2006, in sede di controlli sul possesso dei requisiti di partecipazione. L'art. 48, c. 2, del d.lgs. n. 163 del 2006, spiegano i giudici di Palazzo Spada, prevede che le stazioni appaltanti richiedano, tra gli altri, all'aggiudicatario e al concorrente che segue in graduatoria di comprovare il possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico organizzativa eventualmente richiesti nel bando di gara, presentando la documentazione indicata in detto bando o nella lettera di invito.
Qualora tale prova non sia fornita ovvero non confermi le dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o nell'offerta l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e fornitura può adottare determinati provvedimenti sanzionatori. In particolare, può disporre la sospensione dell'impresa, per un periodo da uno a dodici mesi, dalla partecipazione alle procedure di affidamento, nonché irrogare una sanzione amministrativa fino ad euro 25.822,00 ovvero, in presenza di informazioni o documenti falsi, fino ad euro 51.545,00.
La suddetta normativa non impone all'Autorità, concludono gli stessi giudici, di svolgere accertamenti ulteriori, rispetto alla falsità della dichiarazione, volti a verificare la sussistenza del requisito oggettivo della gravità della violazione e a prendere in esame la "situazione soggettiva del dichiarante", ma può soltanto accertare se la notizia comunicata dalla stazione appaltante sia inconferente ovvero se la falsità sia innocua o se la stessa abbia ad oggetto fatti e circostanze irrilevanti ai fini della aggiudicazione della gara (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.07.2012 n. 4160 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Può rinvenirsi anche nel settore dei servizi pubblici la regola consolidata dell’obbligo di gara.
L’apertura delle commesse pubbliche alla concorrenza mediante l’espletamento di procedure di aggiudicazione è per la verità assai risalente. Al riguardo la giurisprudenza interna è da tempo uniforme nel ritenere illegittima la scelta di procedere a trattativa privata per l’individuazione del concessionario di un servizio, per contrasto con le norme ed i principi desumibili dall’ordinamento comunitario, ed in particolare con i principi di non discriminazione territoriale e di libera prestazione dei servizi sanciti dal Trattato CEE, aventi diretta applicabilità nel territorio nazionale.
Anche per i contratti esclusi dal raggio di applicazione delle direttive sugli appalti pubblici, gli Enti aggiudicatori che li stipulano sono comunque tenuti a rispettare i principi fondamentali del Trattato in generale, ed il principio di non discriminazione in base alla nazionalità in particolare: si è da tempo affermato cioè il principio per cui in tema di affidamento, mediante concessione, di servizi pubblici, le regole fondamentali dell’ordinamento comunitario ed i principi generali che governano la materia dei contratti impongono all’amministrazione procedente di dare adeguata pubblicità agli affidamenti e di evitare la discriminazione delle imprese, attivando procedure competitive selettive.
In buona sostanza, i canoni guida in materia di affidamento delle commesse pubbliche esigono, a fini di trasparenza e di salvaguardia della concorrenza, la diffusione delle informazioni relative ai contratti da stipulare per consentire sia l’eguale possibilità di accesso delle imprese alle gare sia l’obiettiva ed imparziale selezione dei candidati.
In ossequio ai principi comunitari, con l’art. 23 della L. 23/2005 è stata eliminata la possibilità –dapprima espressamente contemplata– di provvedere al rinnovo dei contratti di appalto scaduti: alla scelta legislativa è stata riconosciuta una valenza generale ed una portata preclusiva di opzioni ermeneutiche di altre disposizioni dell’ordinamento che si potrebbero risolvere, di fatto, nell’elusione del predetto divieto.
Per assicurare l’effettiva conformazione dell’ordinamento interno a quello comunitario, dunque, l’intervento normativo di cui sopra “dev’essere letto ed applicato in modo da escludere ed impedire, in via generale ed incondizionata, la rinnovazione di contratti di appalto scaduti, ma anche l’esegesi di altre disposizioni dell’ordinamento che consentirebbero –in deroga alle procedure ordinarie di affidamento degli appalti pubblici– l’affidamento senza gara degli stessi servizi per ulteriori periodi, dev’essere condotta alla stregua del vincolante criterio che vieta (con valenza imperativa ed inderogabile) il rinnovo dei contratti”.

L’apertura delle commesse pubbliche alla concorrenza mediante l’espletamento di procedure di aggiudicazione è per la verità assai risalente. Al riguardo la giurisprudenza interna è da tempo uniforme nel ritenere illegittima la scelta di procedere a trattativa privata per l’individuazione del concessionario di un servizio, per contrasto con le norme ed i principi desumibili dall’ordinamento comunitario, ed in particolare con i principi di non discriminazione territoriale e di libera prestazione dei servizi sanciti dal Trattato CEE, aventi diretta applicabilità nel territorio nazionale (TAR Sicilia Palermo, sez. III – 21/06/2007 n. 1683; TAR Molise – 02/07/2008 n. 677).
Anche per i contratti esclusi dal raggio di applicazione delle direttive sugli appalti pubblici, gli Enti aggiudicatori che li stipulano sono comunque tenuti a rispettare i principi fondamentali del Trattato in generale, ed il principio di non discriminazione in base alla nazionalità in particolare (Corte di Giustizia – 07/12/2000, causa C-324/98): si è da tempo affermato cioè il principio per cui in tema di affidamento, mediante concessione, di servizi pubblici, le regole fondamentali dell’ordinamento comunitario ed i principi generali che governano la materia dei contratti impongono all’amministrazione procedente di dare adeguata pubblicità agli affidamenti e di evitare la discriminazione delle imprese, attivando procedure competitive selettive (cfr. Consiglio di Stato, sez. V – 21/09/2010 n. 7024).
In buona sostanza, i canoni guida in materia di affidamento delle commesse pubbliche esigono, a fini di trasparenza e di salvaguardia della concorrenza, la diffusione delle informazioni relative ai contratti da stipulare per consentire sia l’eguale possibilità di accesso delle imprese alle gare sia l’obiettiva ed imparziale selezione dei candidati (TAR Sardegna, sez. I – 23/02/2007 n. 109; Consiglio di Stato, sez. VI – 30/01/2007 n. 362).
Sempre sull’argomento rileva il Collegio che, in ossequio ai principi comunitari, con l’art. 23 della L. 23/2005 è stata eliminata la possibilità –dapprima espressamente contemplata– di provvedere al rinnovo dei contratti di appalto scaduti: alla scelta legislativa è stata riconosciuta una valenza generale ed una portata preclusiva di opzioni ermeneutiche di altre disposizioni dell’ordinamento che si potrebbero risolvere, di fatto, nell’elusione del predetto divieto.
Per assicurare l’effettiva conformazione dell’ordinamento interno a quello comunitario, dunque, l’intervento normativo di cui sopra “dev’essere letto ed applicato in modo da escludere ed impedire, in via generale ed incondizionata, la rinnovazione di contratti di appalto scaduti, ma anche l’esegesi di altre disposizioni dell’ordinamento che consentirebbero –in deroga alle procedure ordinarie di affidamento degli appalti pubblici– l’affidamento senza gara degli stessi servizi per ulteriori periodi, dev’essere condotta alla stregua del vincolante criterio che vieta (con valenza imperativa ed inderogabile) il rinnovo dei contratti” (Consiglio di Stato, sez. IV – 31/10/2006 n. 6462; TAR Sicilia Catania, sez. III – 22/06/2007 n. 1086; Sentenza sezione 11/03/2011 n. 419).
In definitiva può rinvenirsi anche nel settore dei servizi pubblici la regola consolidata dell’obbligo di gara (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 16.07.2012 n. 1353 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn caso di dubbio circa la collocazione temporale (ndr: di un fabbricato) in periodo anteriore alla legge 765/1967 si dovrebbe normalmente propendere per la tesi più favorevole al privato.
Sia l'amministrazione sia il privato sono tenuti a fornire elementi a sostegno delle rispettive affermazioni circa l'inesistenza o al contrario la presenza del manufatto prima della data di riferimento (entrata in vigore della c.d. legge-ponte: 01.09.1967), in quanto non sarebbe ragionevole imporre ai privati un onere di prova esclusivo, subordinando la difesa della proprietà a una dimostrazione di fatto impossibile vista la difficoltà di reperire documentazione utile a così grande distanza di tempo. Nelle situazioni dubbie, quando il privato abbia offerto un principio di prova, la sua posizione può quindi essere tutelata se l'amministrazione non abbia offerto argomenti contrari di maggiore spessore o verosimiglianza.

Il Collegio rileva che i precedenti resi in subiecta materia da questo TAR inducono ad un positivo scrutinio della tesi fondamentale svolta dal ricorrente, e cioè: insussistenza del carattere abusivo delle opere, stante la loro realizzazione in epoca (ante adozione PdF e ante legge 765/1967) in cui non era richiesta la licenza edilizia, essendo le stesse ubicate in zona agricola.
Invero e in ordine cronologico:
i) con la sentenza richiamata nella memoria conclusiva del ricorrente (n. 363/2006), questo TAR ha ritenuto –in una fattispecie identica alla presente, pure relativa al Comune di Provaglio d’Iseo– che il riscontro del manufatto nel rilievo aerofotogrammetrico comunale del 1973 costituisce idoneo principio di prova dell’esistenza dello stesso in epoca anteriore all’entrata in vigore della suddetta “legge-ponte”;
ii) con sentenza 22.11.2010 n. 4664, la Sez. I di questo TAR ha, poi, affermato (par. 13) che -in caso di dubbio circa la collocazione temporale in periodo anteriore alla legge 765/1967- si dovrebbe normalmente propendere per la tesi più favorevole al privato;
iii) infine, nella decisione del ricorso n. 210/2002, introitato all’udienza pubblica del 09.02.2012, la Sez. II ha affermato -richiamandosi espressamente al citato precedente di cui a Sez. I n. 4664/2010- il principio per cui <<sia l'amministrazione sia il privato sono tenuti a fornire elementi a sostegno delle rispettive affermazioni circa l'inesistenza o al contrario la presenza del manufatto prima della data di riferimento (entrata in vigore della c.d. legge-ponte: 01.09.1967), in quanto non sarebbe ragionevole imporre ai privati un onere di prova esclusivo, subordinando la difesa della proprietà a una dimostrazione di fatto impossibile vista la difficoltà di reperire documentazione utile a così grande distanza di tempo. Nelle situazioni dubbie, quando il privato abbia offerto un principio di prova, la sua posizione può quindi essere tutelata se l'amministrazione non abbia offerto argomenti contrari di maggiore spessore o verosimiglianza>> (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 16.07.2012 n. 1349 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa motivazione sull’interesse ad ottenere il rilascio di documentazione amministrativa deve essere espressa nella domanda di accesso ai fini della dimostrazione della legittimazione da parte del richiedente. Essa, in sostanza, serve a chiarire, all’ufficio destinatario della richiesta, che il richiedente ha un concreto interesse meritevole di tutela e che, quindi, l’istanza non è volta ad perseguire improprie finalità di controllo generalizzato sulla legittimità degli atti della P.A.
La motivazione non occorre però ove non ci sia nulla da chiarire ed in particolare nelle ipotesi in cui la documentazione richiesta riguardi un procedimento amministrativo definito con un provvedimento che ha come destinatario il richiedente l’accesso o nelle ipotesi in cui l’interesse emerga chiaramente dai rapporti intercorsi o intercorrenti tra amministrazione e richiedente.

La motivazione sull’interesse ad ottenere il rilascio di documentazione amministrativa deve essere espressa nella domanda di accesso ai fini della dimostrazione della legittimazione da parte del richiedente. Essa, in sostanza, serve a chiarire, all’ufficio destinatario della richiesta, che il richiedente ha un concreto interesse meritevole di tutela e che, quindi, l’istanza non è volta ad perseguire improprie finalità di controllo generalizzato sulla legittimità degli atti della P.A.
La motivazione non occorre però ove non ci sia nulla da chiarire ed in particolare nelle ipotesi in cui, come nella specie, la documentazione richiesta riguardi un procedimento amministrativo definito con un provvedimento che ha come destinatario il richiedente l’accesso o nelle ipotesi in cui l’interesse emerga chiaramente dai rapporti intercorsi o intercorrenti tra amministrazione e richiedente.
Con l’impugnato diniego è stato rifiutato l’accesso nonostante l’atto richiesto contenesse la motivazione, per relationem, del citato provvedimento del 13.02.2012 e che, peraltro, l’Amministrazione avrebbe dovuto spontaneamente consegnare al Comune in osservanza dell’articolo 3 della legge 07.08.1990 n. 241 che, al comma 3 così dispone: “Se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell'amministrazione richiamato dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest'ultima deve essere indicato e reso disponibile, a norma della presente legge, anche l'atto cui essa si richiama.”
Il diniego opposto, oltre a non essere in alcun modo giustificabile per l’evidenza dell’interesse vantato dal Comune, rappresenta nella sostanza una reiterazione della violazione della riportata disposizione, che impone all’Amministrazione di rendere disponibile al destinatario del provvedimento gli atti che contengono la motivazione posta a suo fondamento (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 16.07.2012 n. 703 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl potere del Sindaco di adottare provvedimenti extra ordinem presuppone l’urgente necessità di reagire con efficacia ed immediatezza ad uno stato di grave pericolo, attuale o imminente, per l’incolumità pubblica, non fronteggiabile con gli ordinari strumenti messi a disposizione dall’ordinamento.
Pertanto, le ordinanze di tal fatta presentano il carattere della provvisorietà, intesa nel duplice senso di imposizione di misure non definitive e ad efficacia temporalmente limitata, con la conseguenza che le stesse non possono essere emanate per regolare stabilmente una situazione od assetto di interessi permanente.
Alla luce dei principi sopra esposti l’impugnata ordinanza risulta illegittima atteso che è stata adottata:
1) in parte per prevenire intralci alla circolazione stradale e non per tutelare “l’incolumità dei cittadini”;
2) senza evidenziare uno stato di grave pericolo attuale o imminente da fronteggiare;
3) con l’intento di regolare stabilmente l’accesso ad una strada privata.

Considerato:
a) che con l’impugnata ordinanza 06/08/2003 n. 58, emessa ai sensi dell'art. 54, comma 2, del D.Lgs. 18/08/2000 n. 267, il Sindaco di Olbia ha ordinato all’amministratore del ricorrente condomino di rimuovere, a propria cura e spese, una sbarra metallica installata all'ingresso del medesimo condominio;
b) che l’ordinanza risulta motivata con riguardo:
   1) alla necessità di evitare che in caso di sbarra chiusa, le autovetture in attesa dell’apertura della stessa, in sosta nella strada principale, creino intralcio e pericolo alla circolazione stradale;
   2) all’esigenza di evitare pericoli per la pubblica incolumità derivanti dall’impossibilità, per i mezzi di soccorso e le forze dell’ordine, di accedere con immediatezza ai luoghi laddove se ne verificasse la necessità;
c) che avverso la citata ordinanza è stato proposto l’odierno ricorso notificato anche al Ministero dell’Interno;
d) che, in accoglimento dell’eccezione proposta dalla difesa erariale, va dichiarato il difetto di legittimazione passiva del suddetto Ministero, atteso che, per consolidata giurisprudenza, nelle controversie concernenti l’impugnazione di ordinanze contingibili e urgenti, emesse dal Sindaco quale ufficiale di Governo, la legittimazione a contraddire spetta solo all’autorità comunale (cfr. TAR Sardegna, I Sez., 19/2/2010 n. 204; TAR Lombardia – Milano, III Sez., 01/08/2011 n. 2064; Cons. Stato, V Sez., 13/08/2007 n. 4448);
e) che ai sensi dell’art. 54, comma 2, del D.Lgs. 18/08/2000 n. 67, nel testo vigente all’epoca dell’adozione dell’avversata ordinanza, il sindaco, quale ufficiale del Governo, poteva adottare, “con atto motivato e nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento giuridico, provvedimenti contingibili e urgenti al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità dei cittadini …”;
f) che per consolidata giurisprudenza il potere del Sindaco di adottare provvedimenti extra ordinem presuppone l’urgente necessità di reagire con efficacia ed immediatezza ad uno stato di grave pericolo, attuale o imminente, per l’incolumità pubblica, non fronteggiabile con gli ordinari strumenti messi a disposizione dall’ordinamento (Cons. Stato, V Sez., 16/02/2010 n. 868);
g) che, pertanto, le ordinanze di tal fatta presentano il carattere della provvisorietà, intesa nel duplice senso di imposizione di misure non definitive e ad efficacia temporalmente limitata, con la conseguenza che le stesse non possono essere emanate per regolare stabilmente una situazione od assetto di interessi permanente (cfr. TAR Campania–Napoli, V Sez., 29/12/2010 n. 28169; Cons. Stato, VI Sez., 24/12/2009 n. 8681);
h) che alla luce dei principi sopra esposti l’impugnata ordinanza risulta illegittima atteso che è stata adottata:
   1) in parte per prevenire intralci alla circolazione stradale e non per tutelare “l’incolumità dei cittadini”;
   2) senza evidenziare uno stato di grave pericolo attuale o imminente da fronteggiare;
   3) con l’intento di regolare stabilmente l’accesso ad una strada privata;
i) che in definitiva il ricorso va accolto (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 16.07.2012 n. 701 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALIIl potere di adozione di un'ordinanza contingibile ed urgente di cui all'art. 54, d.lg. n. 267 del 2000 presuppone la necessità di provvedere in via d'urgenza con strumenti extra ordinem per far fronte a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile di pericolo attuale ed imminente per l'incolumità pubblica, cui non si può provvedere con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento.
Nel caso di specie l’ostacolo alla circolazione di una strada di limitato utilizzo, come emerge dalla documentazione attestante lo stato dei luoghi, senza indicazione di alcun pericolo concreto per l’incolumità pubblica, appare difficilmente qualificabile nei termini predetti, anche in considerazione della pacifica esistenza nell’ordinamento di mezzi ordinari in materia.
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E' incompetente il sindaco ad emettere ordinanze in tema di limitazioni della circolazione, essendo la materia attratta nella competenza propria del dirigente di settore, in quanto si tratta di funzioni di gestione ordinaria.
Né, peraltro, nel caso di specie l’amministrazione ha fatto alcun riferimento al distinto potere sindacale di autotutela possessoria delle strade; in proposito, va ribadito che il potere sindacale di ordinanza contingibile urgente ex art. 54 cit. e quello attribuito allo stesso Sindaco dall'art. 15, d.l.lgt. 01.09.1918 n. 1446 differiscono profondamente per le funzioni e il contenuto atteso che, mentre il primo è atipico, il secondo, nel consentire al Sindaco di ordinare che siano rimossi gli impedimenti all'uso delle strade, mira ad assicurare la fluidità della circolazione, è espressione di autotutela possessoria delle stesse ed ha natura ripristinatoria.

Come noto, il potere di adozione di un'ordinanza contingibile ed urgente di cui all'art. 54, d.lg. n. 267 del 2000 presuppone la necessità di provvedere in via d'urgenza con strumenti extra ordinem per far fronte a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile di pericolo attuale ed imminente per l'incolumità pubblica, cui non si può provvedere con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento.
Nel caso di specie l’ostacolo alla circolazione di una strada di limitato utilizzo, come emerge dalla documentazione attestante lo stato dei luoghi, senza indicazione di alcun pericolo concreto per l’incolumità pubblica, appare difficilmente qualificabile nei termini predetti, anche in considerazione della pacifica esistenza nell’ordinamento di mezzi ordinari in materia (come peraltro ammesso dalla stessa attenta difesa comunale in sede di memoria conclusiva).
A quest’ultimo proposito, e parallelamente, costituisce principio parimenti consolidato quello per cui è incompetente il sindaco ad emettere ordinanze in tema di limitazioni della circolazione, essendo la materia attratta nella competenza propria del dirigente di settore, in quanto si tratta di funzioni di gestione ordinaria.
Né, peraltro, nel caso di specie l’amministrazione ha fatto alcun riferimento al distinto potere sindacale di autotutela possessoria delle strade; in proposito, va ribadito che il potere sindacale di ordinanza contingibile urgente ex art. 54 cit. e quello attribuito allo stesso Sindaco dall'art. 15, d.l.lgt. 01.09.1918 n. 1446 differiscono profondamente per le funzioni e il contenuto atteso che, mentre il primo è atipico, il secondo, nel consentire al Sindaco di ordinare che siano rimossi gli impedimenti all'uso delle strade, mira ad assicurare la fluidità della circolazione, è espressione di autotutela possessoria delle stesse ed ha natura ripristinatoria (cfr. ad es. Tar Piemonte n. 376/2011) (TAR Liguria, Sez. II, sentenza 13.07.2012 n. 1016 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Appalti: la comunicazione via fax è idonea alla decorrenza dei termini.
La comunicazione via fax rappresenta una modalità tipica di comunicazione di notizie e informazioni ai partecipanti alle gare d'appalto ed è uno strumento idoneo ai fini della decorrenza del termine di decadenza. La comunicazione via fax è espressamente contemplata dall'art. 77 del d.lgs. n. 163/2006 quale modalità tipica di comunicazione di notizie e informazioni ai partecipanti alle gare d'appalto e rappresenta uno dei modi in cui può concretamente svolgersi la cooperazione tra i soggetti, in quanto essa viene attuata mediante l'utilizzo di un sistema basato su linee di trasmissione di dati ed apparecchiature che consentono di poter documentare sia la partenza del messaggio dall'apparato trasmittente che, attraverso il cosiddetto rapporto di trasmissione, la ricezione del medesimo in quello ricevente.
Tali modalità, garantite da protocolli universalmente accettati, indubbiamente ne fanno uno strumento idoneo a garantire l'effettività della comunicazione. Posto, quindi, che gli accorgimenti tecnici che caratterizzano il sistema garantiscono, in via generale, una sufficiente certezza circa la ricezione del messaggio, ne consegue non solo l'idoneità del mezzo a far decorrere termini perentori, ma anche che un fax deve presumersi giunto al destinatario quando il rapporto di trasmissione indica che questa è avvenuta regolarmente, senza che colui che ha inviato il messaggio debba fornire alcuna ulteriore prova. Semmai la prova contraria può solo concernere la funzionalità dell'apparecchio ricevente; ma questa non può che essere fornita da chi afferma la mancata ricezione del messaggio (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 11.07.2012 n. 4116 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe scelte sottese alla pianificazione urbanistica costituiscono la risultante di apprezzamenti tendenzialmente di merito, sindacabili in sede giurisdizionale nei soli casi di arbitrarietà, irrazionalità o irragionevolezza, ovvero di palese travisamento dei fatti quali l’incoerenza con l'impostazione di fondo del nuovo intervento pianificatorio o la manifesta incompatibilità con le caratteristiche oggettive del territorio, ed ancora, per gravi carenze nell’istruttoria e nelle conclusioni del procedimento.
Se nelle singole scelte urbanistiche -che inevitabilmente valorizzano alcune aree mortificando le prospettive di utilizzazione e il valore di scambio di altre- non sono ravvisabili contrasti con l'impostazione tecnica dello strumento generale, o non si evidenzino patenti vizi logici, è da escludere che le stesse possano ritenersi viziate: esse sottostanno, infatti, solo al superiore criterio di razionalità nella definizione delle linee dell'assetto territoriale, nell'interesse pubblico alla sicurezza delle persone e dell'ambiente, ma non anche a criteri di proporzionalità distributiva degli oneri e dei vincoli.
In capo ai privati interessati dalle nuove previsioni urbanistiche non è mai configurabile un’aspettativa qualificata alla destinazione edificatoria prevista da precedenti determinazioni dell'Amministrazione, ma soltanto un’aspettativa generica sia al mantenimento della destinazione urbanistica "gradita" sia ad una "reformatio in melius", analogamente a quanto si aspetta ogni altro proprietario di aree che comunque aspira a utilizzare più proficuamente i propri immobili. Il generico affidamento alla "non reformatio in pejus" della precedente destinazione richiede solo che una motivazione possa agevolmente evincersi dai criteri di ordine tecnico-urbanistico seguiti per la redazione del nuovo strumento pianificatorio, in modo che siano chiari ed esplicitati le finalità e gli obiettivi che hanno indotto il pianificatore comunale a disattendere precedenti scelte.
In definitiva, le nuove scelte urbanistiche non richiedono argomentazioni particolari e dettagliate bensì una motivazione evincibile dai criteri e dai principi generali che ispirano il novello strumento urbanistico. Deroghe a tale regola sono previste solo in presenza di specifiche situazioni di affidamento qualificato del privato ad una specifica destinazione (derivanti, ad esempio, da convenzioni di lottizzazione, da accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree; da aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie). All’opposto, costituisce affidamento generico quello relativo alla non reformatio in pejus di precedenti pre
visioni urbanistiche con nuove previsioni che permettono una meno proficua utilizzazione dell'area.
In linea generale, il Collegio deve innanzitutto rammentare che, per nota e consolidata giurisprudenza amministrativa, le scelte sottese alla pianificazione urbanistica costituiscono la risultante di apprezzamenti tendenzialmente di merito, sindacabili in sede giurisdizionale nei soli casi di arbitrarietà, irrazionalità o irragionevolezza, ovvero di palese travisamento dei fatti quali l’incoerenza con l'impostazione di fondo del nuovo intervento pianificatorio o la manifesta incompatibilità con le caratteristiche oggettive del territorio, ed ancora, per gravi carenze nell’istruttoria e nelle conclusioni del procedimento (cfr., C.d.S., sez. IV, 24.02.2011, n. 1222 e 13.02.2009, n. 811).
Va poi ulteriormente ricordato che se nelle singole scelte urbanistiche -che inevitabilmente valorizzano alcune aree mortificando le prospettive di utilizzazione e il valore di scambio di altre- non sono ravvisabili contrasti con l'impostazione tecnica dello strumento generale, o non si evidenzino patenti vizi logici, è da escludere che le stesse possano ritenersi viziate: esse sottostanno, infatti, solo al superiore criterio di razionalità nella definizione delle linee dell'assetto territoriale, nell'interesse pubblico alla sicurezza delle persone e dell'ambiente, ma non anche a criteri di proporzionalità distributiva degli oneri e dei vincoli (cfr., in termini, da ultimo C.d.S., sez, IV, 16.01.2012, n. 119; 07.07.2008, n. 3358 e 09.06.2008, n. 2837).
È stato anche chiarito che in capo ai privati interessati dalle nuove previsioni urbanistiche non è mai configurabile un’aspettativa qualificata alla destinazione edificatoria prevista da precedenti determinazioni dell'Amministrazione, ma soltanto un’aspettativa generica sia al mantenimento della destinazione urbanistica "gradita" sia ad una "reformatio in melius", analogamente a quanto si aspetta ogni altro proprietario di aree che comunque aspira a utilizzare più proficuamente i propri immobili (cfr., da ultimo, C.d.S., sez. IV, 12.05.2010, n. 2843). Il generico affidamento alla "non reformatio in pejus" della precedente destinazione richiede solo che una motivazione possa agevolmente evincersi dai criteri di ordine tecnico-urbanistico seguiti per la redazione del nuovo strumento pianificatorio, in modo che siano chiari ed esplicitati le finalità e gli obiettivi che hanno indotto il pianificatore comunale a disattendere precedenti scelte.
In definitiva, le nuove scelte urbanistiche non richiedono argomentazioni particolari e dettagliate bensì una motivazione evincibile dai criteri e dai principi generali che ispirano il novello strumento urbanistico. Deroghe a tale regola sono previste solo in presenza di specifiche situazioni di affidamento qualificato del privato ad una specifica destinazione (derivanti, ad esempio, da convenzioni di lottizzazione, da accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree; da aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie) (cfr., C.d.S., sez. IV, 16.11.2011, n. 6049 e 09.12.2010, n. 8682). All’opposto, costituisce affidamento generico quello relativo alla non reformatio in pejus di precedenti previsioni urbanistiche con nuove previsioni che permettono una meno proficua utilizzazione dell'area (cfr., C.d.S., sez. IV, 15.07.2008, n. 3552) (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 11.07.2012 n. 219 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel rendere il giudizio di valutazione d’impatto ambientale e nell’effettuare la verifica preliminare, l’Amministrazione esercita un’amplissima discrezionalità tecnica, censurabile solo in presenza di macroscopici vizi logici o di travisamento dei presupposti.
Ed in ogni caso, la valutazione d’impatto ambientale non costituisce un mero giudizio tecnico, suscettibile in quanto tale di verificazione sulla base di oggettivi criteri di misurazione, ma presenta al contempo profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa, sul piano dell’apprezzamento degli interessi pubblici in rilievo e della loro ponderazione rispetto all’interesse all’esecuzione dell’opera, apprezzamento che è sindacabile dal giudice amministrativo soltanto in ipotesi di manifesta illogicità o travisamento dei fatti, nel caso in cui l’istruttoria sia mancata, o sia stata svolta in modo inadeguato, e sia perciò evidente lo sconfinamento del potere discrezionale riconosciuto all’Amministrazione.

La giurisprudenza ha ripetutamente chiarito che, nel rendere il giudizio di valutazione d’impatto ambientale e nell’effettuare la verifica preliminare, l’Amministrazione esercita un’amplissima discrezionalità tecnica, censurabile solo in presenza di macroscopici vizi logici o di travisamento dei presupposti (cfr. Trib. Sup. acque pubbliche, 11.03.2009, n. 35; Cons. Stato, Sez. VI, 19.02.2008 n. 561; Id., Sez. IV, 05.07.2010 n. 4246).
Ed in ogni caso, la valutazione d’impatto ambientale non costituisce un mero giudizio tecnico, suscettibile in quanto tale di verificazione sulla base di oggettivi criteri di misurazione, ma presenta al contempo profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa, sul piano dell’apprezzamento degli interessi pubblici in rilievo e della loro ponderazione rispetto all’interesse all’esecuzione dell’opera, apprezzamento che è sindacabile dal giudice amministrativo soltanto in ipotesi di manifesta illogicità o travisamento dei fatti, nel caso in cui l’istruttoria sia mancata, o sia stata svolta in modo inadeguato, e sia perciò evidente lo sconfinamento del potere discrezionale riconosciuto all’Amministrazione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 22.06.2009 n. 4206; Id., Sez. V, 21.11.2007 n. 5910; Id., Sez. VI, 17.05.2006 n. 2851; Id., Sez. IV, 22.07.2005 n. 3917; cfr. da ultimo TAR Puglia, Bari, Sez. I, 14.05.2010, n. 1897) (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 10.07.2012 n. 1395 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADevono essere demoliti, se abusivi, container, roulotte e camper non effettivamente destinati alla circolazione, prefabbricati in qualsiasi materiale, verande ecc. a meno che non abbiano dimensioni sostanzialmente insignificanti.
Con il provvedimento impugnato viene ordinata la demolizione di una veranda in ferro e in legno, coperta da una tenda retrattile, tamponata con teli avvolgibili trasparenti e corredata da una fioriera lungo un lato della struttura.
Questa, fissata all'edificio cui aderisce e appoggiata su piastre di ferro non ancorate al terreno, è stata ritenuta una costruzione soggetta a titolo abilitativo.
Nel ricorso si formulano articolate censure di violazione di legge ed eccesso di potere di seguito riassunte ed esaminate.
Il Collegio, in limine, ritiene, in base agli atti del processo e segnatamente alla documentazione fotografica, che il manufatto costituisca, alla luce della comune esperienza, un volume edilizio rilevante sia per dimensioni (m. 6,90 x 4,48 con altezza max. m. 3,81 ca.), sia per caratteristiche intrinseche, fra le quali il fatto che poggi su di una pavimentazione in legno costruita appositamente (pag. 1, 4° cpv. relazione tecnica del geometra Possati, depositato agli atti del processo).
Difatti, ancorché realizzato con materiali smontabili, retrattili ed avvolgibili, il manufatto incide apprezzabilmente sul contesto ed è destinato alla permanenza del punto di vista funzionale, atteggiandosi come un locale aggiuntivo rispetto al bar-pasticceria cui inerisce.
Inoltre, si rammenta che il differente grado di stabilità non determina, in sé, la riconducibilità o meno dei manufatti fra quelli di libera realizzazione.
Sia sufficiente ricordare che da anni la giurisprudenza si è consolidata nel senso che debbano essere demoliti, ad esempio, anche container, roulotte e camper non effettivamente destinati alla circolazione, prefabbricati in qualsiasi materiale, verande ecc. a meno che non abbiano dimensioni sostanzialmente insignificanti il che, all’evidenza, qui non accade (fra le tante: Cons. Stato Sez. V, n. 415/1998; TT.AA.RR. Emilia Romagna, Bologna, Sez. II n. 1922/2009; Parma Sez. I n. 18/2009; Umbria n. 812/2009) (TAR Umbria, sentenza 10.07.2012 n. 271 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAOve la strumentazione urbanistica vieti in radice l'edificazione, il rigetto dell'istanza di sanatoria ed i conseguenti provvedimenti demolitori hanno natura vincolata.
Ne consegue che non occorre né l’avviso d’avvio del procedimento né, segnatamente, il parere della Commissione Edilizia.

Difatti, ove la strumentazione urbanistica vieti in radice l'edificazione, come qui accade (art. 6 N.T.A.), il rigetto dell'istanza di sanatoria ed i conseguenti provvedimenti demolitori hanno natura vincolata.
Ne consegue che non occorre né l’avviso d’avvio del procedimento né, segnatamente, il parere della Commissione Edilizia (fra le tante, arg. da: Cons. Stato Sez. IV, 10.08.2011 n. 4764; id. Sez. IV, 24.09.2010 n. 7129; id. 10.04.2009 n. 227; TAR Umbria 28.10.2010 n. 499) (TAR Umbria, sentenza 10.07.2012 n. 270 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'attività repressiva dell'abuso edilizio è sostanzialmente vincolata dal che discende che:
- non occorre l’avviso d’avvio del procedimento né il parere della Commissione Edilizia;
- non necessita una particolare motivazione;
- soccorre comunque l’art. 21-octies L. n. 241/1990.
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L'installazione di container, roulotte e camper non effettivamente destinati alla circolazione, prefabbricati in qualsiasi materiale ecc., costituisce modificazione rilevante dell'assetto territoriale, a meno che detti manufatti non abbiano dimensioni effettivamente insignificanti.

L'attività repressiva dell'abuso edilizio è sostanzialmente vincolata (giurisprudenza pacifica) dal che discende che:
- non occorre l’avviso d’avvio del procedimento né il parere della Commissione Edilizia (fra le tante: Cons. Stato Sez. IV, 10.08.2011 n. 4764; 24.09.2010 n. 7129; id. 10.04.2009 n. 227; TAR Umbria 28.10.2010 n. 499);
- non necessita una particolare motivazione (ex pluribus: Cons. Stato, Sez. V, 27.04.2011 n. 2497; id. 11.01.2011 n. 79; Sez. IV, 12.04.2011 n. 2266);
- soccorre comunque l’art. 21-octies L. n. 241/1990 (ex multis: Cons. Stato, Sez. VI 03.12.2009 n. 7575; Sez. IV, 20.07.2009 n. 4567; id. 15.05.2009 n. 3029; id. 10.04.2009 n. 2227).
Orbene, il container è collocato sotto una tettoia a suo tempo autorizzata per uso agricolo.
E’ dunque evidente, ove si legga il testo del provvedimento prescindendo da sterili cavilli, che vengono sanzionate sia la posa in opera del manufatto, sia la difformità dell'uso della tettoia giacché impiegata per il ricovero di attrezzature e materiali edili anziché agricoli.
E’ poi giurisprudenza consolidata, cui si aderisce, quella per la quale l'installazione di container, roulotte e camper non effettivamente destinati alla circolazione, prefabbricati in qualsiasi materiale ecc. costituisce modificazione rilevante dell'assetto territoriale, a meno che detti manufatti non abbiano dimensioni effettivamente insignificanti il che non accade in questo caso (fra le tante: Cons. Stato Sez. V, n. 415/1998; TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. II n. 1922/2009; Parma Sez. I n. 18/2009; TAR Umbria n. 812/2009) (TAR Umbria, sentenza 10.07.2012 n. 269 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le scelte effettuate dall'Amministrazione all'atto dell'approvazione del P.R.G. costituiscono apprezzamenti di merito e sono sottratte al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che siano inficiate da errori di fatto, da grave illogicità o da contraddittorietà; tali scelte -è stato anche chiarito- non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che possa evincersi dai criteri generali di ordine tecnico discrezionale seguiti per l'impostazione del piano stesso.
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Le osservazioni dei privati, in sede d'adozione e di approvazione del P.R.G., hanno un carattere meramente collaborativo per la formazione di tale strumento urbanistico, sicché esse non fondano peculiari aspettative ed il loro rigetto non richiede una motivazione analitica; la motivazione, sebbene sintetica o espressa per relationem, deve comunque risultare congrua rispetto agli elementi di fatto e di diritto posti alla base delle osservazioni stesse.

Secondo il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, le scelte effettuate dall'Amministrazione all'atto dell'approvazione del P.R.G. costituiscono apprezzamenti di merito e sono sottratte al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che siano inficiate da errori di fatto, da grave illogicità o da contraddittorietà; tali scelte -è stato anche chiarito- non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che possa evincersi dai criteri generali di ordine tecnico discrezionale seguiti per l'impostazione del piano stesso (ex multis: Cons. St., IV, 26.04.2006, n. 2297 e 2315).
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Secondo giurisprudenza consolidata, le osservazioni dei privati, in sede d'adozione e di approvazione del P.R.G., hanno un carattere meramente collaborativo per la formazione di tale strumento urbanistico, sicché esse non fondano peculiari aspettative ed il loro rigetto non richiede una motivazione analitica (TAR Lazio Roma, II, 09.06.2008, n. 5662); la motivazione, sebbene sintetica o espressa per relationem, deve comunque risultare congrua rispetto agli elementi di fatto e di diritto posti alla base delle osservazioni stesse (cfr. Cons. Stato, IV, 07.06.2004, n. 3559 e TAR Catania, I, 06.09.2007, n. 1395) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 09.07.2012 n. 1774 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa specialità del procedimento di condono edilizio rispetto all'ordinario procedimento di rilascio della concessione ad edificare e l'assenza di una specifica previsione in ordine alla sua necessità rendono, per il rilascio della concessione in sanatoria c.d. straordinaria (o condono), il parere della Commissione edilizia non obbligatorio, ma, tutt'al più, facoltativo, in quelle specifiche ipotesi in cui l'amministrazione ritenga discrezionalmente di acquisire eventuali informazioni e valutazioni con riguardo a particolari e sporadici casi incerti e complessi.
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L'art. 32, comma 25, del d.l. 269/2003 (nel testo risultante dalla legge di conversione n. 326/2003) -detto 3° condono edilizio- individua soltanto due tipologie di abusi condonabili:
a) ampliamenti di edifici, senza differenza tra destinazione residenziale o non residenziale, ma con il limite del 30% della volumetria delle costruzioni originaria o, in alternativa, del limite massimo di 750 metri cubi);
b) nuove costruzioni a uso residenziale (a condizione che la costruzione nel complesso non superi i 3.000 metri cubi e che le singole richieste di sanatoria non superino i 750 metri cubi).
Il semplice tenore letterale della disposizione esclude la possibilità di configurare la sanabilità di nuove costruzioni a uso non residenziale, e l'interpretazione rigorosa delle norme sulla sanatoria è sempre stata affermata dalla Corte Costituzionale, in ragione del carattere eccezionale di tali disposizioni.
La predetta rigorosa interpretazione della norma in questione è stata, inoltre, costantemente affermata dalla giurisprudenza penale che ha espressamente escluso la possibilità di ammettere il condono degli immobili non aventi destinazione residenziale, poiché "per le nuove costruzioni il beneficio è limitato alle sole costruzioni non residenziali".

Con un quarto motivo di ricorso –rubricato “violazione e falsa applicazione, sotto altro profilo, dell’art. 35 L. 47/1985”– il Marsalone lamenta che il diniego non è stato preceduto dal parere della Commissione edilizia.
La censura non può essere condivisa dal momento che “la specialità del procedimento di condono edilizio rispetto all'ordinario procedimento di rilascio della concessione ad edificare e l'assenza di una specifica previsione in ordine alla sua necessità rendono, per il rilascio della concessione in sanatoria c.d. straordinaria (o condono), il parere della Commissione edilizia non obbligatorio, ma, tutt'al più, facoltativo, in quelle specifiche ipotesi in cui l'amministrazione ritenga discrezionalmente di acquisire eventuali informazioni e valutazioni con riguardo a particolari e sporadici casi incerti e complessi” (TAR Torino Piemonte, Sez. II, 11.04.2012, n. 438; TAR Bari Puglia, Sez. II, 02.04.201, n. 636; TAR Napoli Campania, Sez. VII, 01.09.2011, n. 4259; TAR Napoli Campania, Sez. VIII, 10.09.2010, n. 17398; Consiglio Stato, Sez. IV, 02.11.2009, n. 6784).
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Con un unico motivo di censura –rubricato “violazione e falsa applicazione dell’art. 32, comma 25, D. Lg.vo 269/2003, convertito con modificazioni in L. 24.11.2003 n. 326; eccesso di potere per violazione di circolare”- il ricorrente lamenta l’illegittimità dell’ultimo diniego di sanatoria impugnato, sostenendo che la normativa sul condono edilizio di cui al D.Lg.vo 269/2003 ed alla L.R. 15/2004 si applicherebbe anche agli immobili non residenziali, come si ricaverebbe anche dalla circolare del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti del 7 dicembre 2005.
L’assunto non può essere condiviso.
L'art. 32, comma 25, del d.l. 269/2003 (nel testo risultante dalla legge di conversione n. 326/2003) dispone che "le disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28.02.1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni, come ulteriormente modificate dall'art. 39 della legge 23.12.2004, n. 724, e successive modificazioni e integrazioni, nonché dal presente articolo si applicano alle opere abusive che risultino ultimate entro il 31.03.2003 e che non abbiano comportato ampliamento del manufatto superiore al 30 per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento superiore a 750 metri cubi. Le suddette disposizioni trovano, altresì, applicazione alle opere abusive realizzate nei termini di cui sopra relative a nuove costruzioni residenziali non superiori a 750 metri cubi per singola richiesta di titolo abilitativo edilizio in sanatoria, a condizione che la nuova costruzione non superi complessivamente i 3.000 metri cubi".
La norma, quindi, individua soltanto due tipologie di abusi condonabili:
a) ampliamenti di edifici, senza differenza tra destinazione residenziale o non residenziale, ma con il limite del 30% della volumetria delle costruzioni originaria o, in alternativa, del limite massimo di 750 metri cubi);
b) nuove costruzioni a uso residenziale (a condizione che la costruzione nel complesso non superi i 3.000 metri cubi e che le singole richieste di sanatoria non superino i 750 metri cubi).
Il semplice tenore letterale della disposizione esclude la possibilità di configurare la sanabilità di nuove costruzioni a uso non residenziale, e l'interpretazione rigorosa delle norme sulla sanatoria è sempre stata affermata dalla Corte Costituzionale, in ragione del carattere eccezionale di tali disposizioni (sentenze n. 427/1995 e 416/1995; ordinanze n. 174/2002, e n. 45/2001). La predetta rigorosa interpretazione della norma in questione è stata, inoltre, costantemente affermata dalla giurisprudenza penale che ha espressamente escluso la possibilità di ammettere il condono degli immobili non aventi destinazione residenziale, poiché "per le nuove costruzioni il beneficio è limitato alle sole costruzioni non residenziali" (cfr. Cassazione, III Sezione Penale, n. 25197 del 20.06.2008; 19.01.2007, n. 8067; 06.09.2006, n. 29764).
Ancora, la questione della possibile condonabilità delle nuove costruzioni a uso non residenziale è stata esaminata dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 4/2009. Tale decisione -sebbene concernente la diversa ipotesi della non condonabilità delle nuove costruzioni non residenziali realizzate sulla base di regolari concessioni edilizie, poi, annullate in sede giurisdizionale a costruzione già ultimata- contiene tuttavia una serie di principi di carattere generale in base ai quali non è possibile l'individuazione di ulteriori ipotesi di sanatoria al di fuori di quelle espressamente e tassativamente previste dal legislatore "...atteso che lo stesso legislatore qualifica le ipotesi elencate nell'allegato come "tipologie di illecito" e che, quindi, data la loro natura di illecito amministrativo a rilevanza penale, vanno tassativamente individuate, sia al fine di farle diventare oggetto di ipotesi di illecito amministrativo o di reato e sia, all'opposto fine, di escluderne la punibilità e la conseguente possibilità di sanatoria, che costituiscono gli effetti fondamentali dell'eccezionale provvedimento di condono ...".
Quindi, la mancanza di una disposizione espressa da una parte e il carattere assolutamente eccezionale delle norme in tema di condono dall'altra, non possono consentire ulteriori e non previste ipotesi di sanatoria (come ingiustificatamente fatto con la circolare 2699/2005, citata da parte ricorrente che oltre a non poter derogare alla legge, in ogni caso è stato oggetto di atto di sindacato ispettivo contenendo un'interpretazione contra legem dell'articolo 32 del decreto-legge, nel quale la sanabilità di immobili nuovi non residenziali non è contemplata).” (TAR Catania, 14.04.2011, n. 932)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 09.07.2012 n. 1443 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ordinanza di sospensione dei lavori è un provvedimento eccezionale, con efficacia strettamente limitata nel tempo ed avente il solo scopo (cautelare) di impedire il procedere della costruzione, in modo da consentire alla P.A. di potersi determinare con una misura sanzionatoria, con la conseguenza che, a seguito dello spirare del termine di 45 giorni, ove l’Amministrazione non abbia emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo, l’ordine in questione perde ogni efficacia. Tale ordinanza di sospensione dei lavori, proprio per il suo carattere temporaneo e provvisorio, si fonda, pertanto, su di un’istruttoria sommaria.
Quanto, invero, all’impugnativa dell’ordinanza di sospensione dei lavori, va ricordato che, in base all’art. 27, comma 3, del T.U. dell’edilizia, l’Amministrazione, quando accerti “l’inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità” costruttive, “ordina l’immediata sospensione dei lavori, che ha effetto fino all’adozione dei provvedimenti definitivi di cui ai successivi articoli, da adottare e notificare entro quarantacinque giorni dall’ordine di sospensione dei lavori”.
Ora, interpretando tale normativa, la giurisprudenza amministrativa ha già precisato che l’ordinanza di sospensione dei lavori è un provvedimento eccezionale, con efficacia strettamente limitata nel tempo ed avente il solo scopo (cautelare) di impedire il procedere della costruzione, in modo da consentire alla P.A. di potersi determinare con una misura sanzionatoria, con la conseguenza che, a seguito dello spirare del termine di 45 giorni, ove l’Amministrazione non abbia emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo, l’ordine in questione perde ogni efficacia. Tale ordinanza di sospensione dei lavori, proprio per il suo carattere temporaneo e provvisorio, si fonda, pertanto, su di un’istruttoria sommaria (Cons. St., sez. IV, 24.12.2008, n. 6550) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 09.07.2012 n. 342 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAL'art. 17, della L. 17.08.1942 n. 1150, prevede, nel caso di scadenza per decorso del termine, la sola decadenza dei vincoli e degli speciali poteri che la legge urbanistica attribuisce all'Amministrazione per consentire la realizzazione del programma urbanistico, mentre rimangono "ultrattive" quelle disposizioni del piano scaduto, disciplinanti l'edificazione ed, in particolare, delle prescrizioni di zona e di quelle relative agli allineamenti, stante l'esigenza di evitare che, a fronte di un programma urbanistico in parte già realizzato, i nuovi interventi edilizi non si coordinino con il disegno urbanistico sino ad allora seguito, così alterandolo.
A tale riguardo, in sostanza, il citato art. 17, legge 17.08.1942 n. 1150, nel dettare che il piano particolareggiato «diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l'obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso», comporta una scissione tra le prescrizioni ulteriormente vigenti, che hanno carattere meramente conformativo, e quelle che vanno invece incluse nella nozione di attuazione, che hanno un contenuto pregnante più forte, tanto da comprendere non solo possibilità espropriative, ma anche veri e propri obblighi di fare in capo ai soggetti destinatari.
Mentre le prime, quelle di carattere conformativo, sono ultrattive rispetto alla decadenza del termine di validità, le seconde, quelle di carattere maggiormente cogente, vengono invece travolte dallo spirare del termine massimo.

Quanto alla seconda questione -l’esistenza di un piano particolareggiato con riferimento alla previsione dell’inapplicabilità dell’art. 44 ai “piani attuativi in corso di validità”- il Collegio osserva quanto segue.
La possibilità di effettuare la ristrutturazione era effettivamente stata prevista nel piano particolareggiato di cui alla delibera n. 112 del 05.08.1994, che ne disciplinava le specifiche modalità.
Al momento dell’entrata in vigore della legge regionale 11.08.1999, n. 23 non erano decorsi i termini di validità del medesimo piano.
Il piano, però, in conformità all’art. 16, legge n. 1150 del 1942 e in mancanza di diverse previsioni, aveva validità decennale e, pertanto, risultava essere già scaduto alla data di richiesta del permesso di costruire e alle condizioni esistenti a tale data deve essere riferita la valutazione di legittimità di quest’ultimo.
Ora, con lo cadere del termine di validità del piano particolareggiato è automaticamente venuta meno la causa di esclusione delle limitazioni dell’edificabilità delle aree previste dall’art. 44 della legge regionale per la presenza di piani attuativi.
Ciò per un duplice ordine di ragioni.
La prima ragione è di carattere testuale, in quanto la norma in questione esclude espressamente le limitazioni in questione solo in presenza di “piani attuativi in corso di validità”, negando quindi esplicitamente la sua applicabilità ai piani attuativi scaduti come quello in questione.
Tale motivo di carattere letterale è però sostenuto anche da una ragione di carattere sostanziale, da ravvisare nella ratio dell’esenzione prevista dalla norma di salvaguardia ovverosia quella di limitare l’operatività delle prescrizioni limitative solo a specifici interventi, in vista della loro concreta esecuzione (come i permessi di costruire già rilasciati e appunto i piani attuativi validi).
Ora, ben conosce il Collegio che l'art. 17, della L. 17.08.1942 n. 1150, prevede, nel caso di scadenza per decorso del termine, la sola decadenza dei vincoli e degli speciali poteri che la legge urbanistica attribuisce all'Amministrazione per consentire la realizzazione del programma urbanistico, mentre rimangono "ultrattive" quelle disposizioni del piano scaduto, disciplinanti l'edificazione ed, in particolare, delle prescrizioni di zona e di quelle relative agli allineamenti, stante l'esigenza di evitare che, a fronte di un programma urbanistico in parte già realizzato, i nuovi interventi edilizi non si coordinino con il disegno urbanistico sino ad allora seguito, così alterandolo (cfr. TAR Lazio Latina, 10.06.2006, n. 367).
A tale riguardo, in sostanza, il citato art. 17, legge 17.08.1942 n. 1150, nel dettare che il piano particolareggiato «diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l'obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso», comporta una scissione tra le prescrizioni ulteriormente vigenti, che hanno carattere meramente conformativo, e quelle che vanno invece incluse nella nozione di attuazione, che hanno un contenuto pregnante più forte, tanto da comprendere non solo possibilità espropriative, ma anche veri e propri obblighi di fare in capo ai soggetti destinatari.
Mentre le prime, quelle di carattere conformativo, sono ultrattive rispetto alla decadenza del termine di validità, le seconde, quelle di carattere maggiormente cogente, vengono invece travolte dallo spirare del termine massimo (TAR Campania Napoli, sez. VIII, 11.01.2008, n. 158) (TAR Basilicata, sentenza 06.07.2012 n. 330 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Natura pertinenziale di un manufatto.
La natura pertinenziale di un manufatto non può essere astrattamente desunta esclusivamente dalla destinazione (peraltro, nella fattispecie, soltanto dichiarata e pure incerta: «lavanderia o legnaia») o dalle caratteristiche costruttive, ma deve risultare dalla oggettiva compresenza dei requisiti richiesti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.07.2012 n. 25669 - tratto da www.lexambiente.it).

URBANISTICAE' legittima l’adozione di un piano regolatore o di una sua variante operata mediante delibere separate -relative a singole zone del territorio comunale- per l’assunzione delle quali si sono astenuti quei consiglieri che risultano incompatibili ai sensi dell’art. 78 del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267, purché alle suddette votazioni frazionate di singoli segmenti della nuova disciplina urbanistica segua poi un’analisi complessiva ed un’approvazione finale del suo inscindibile contenuto globale.
Tale votazione separata e frazionata su singole componenti del piano è anche ragionevole e realistica, tenuto conto della situazione dei piccoli comuni, nei quali gran parte dei consiglieri e dei loro parenti e affini sono proprietari di terreni incisi dalle previsioni urbanistiche.
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Il Consiglio comunale ben può raggruppare e decidere congiuntamente con un’unica votazione, per ragioni di economia procedimentale, più osservazioni formulate avverso un piano urbanistico.
Tale esame congiunto può, invero, pacificamente e normalmente riguardare osservazioni “omogenee”, cioè per quelle a contenuto sostanzialmente identico o quanto meno similare, attinenti ad una stessa previsione urbanistica, tutte le volte in cui il Consiglio comunale ritenga di dover respingerle o accoglierle “in blocco” con una stessa motivazione all’evidente scopo di evitare una disparità di trattamento; tuttavia, è stato anche evidenziato che la votazione in blocco con “accoglimento” di alcune e, nel contempo, di “rigetto” di altre, ove assunta dalla “sola” maggioranza consigliare e non all’unanimità, può costituire in astratto una indebita limitazione del diritto di ogni singolo consigliere di poter esprimere il proprio voto su ciascuna di esse in modo eventualmente diverso rispetto a quello già rispettivamente “predefinito” nella proposta agli atti del Consiglio.

Va ricordato che nei confronti della deliberazione di adozione del piano (ndr: regolatore) il ricorrente con il primo motivo di ricorso si è lamentato del fatto che il Consiglio aveva proceduto alle votazioni frazionate (128) di ogni singola scheda del piano con l’astensione dei singoli consiglieri interessati, ma che a tali votazioni non era poi seguita un’approvazione finale ed unitaria del piano.
Va sul punto ricordato che la giurisprudenza amministrativa ha già ritenuta legittima l’adozione di un piano regolatore o di una sua variante operata mediante delibere separate -relative a singole zone del territorio comunale- per l’assunzione delle quali si erano astenuti quei consiglieri che risultavano incompatibili ai sensi dell’art. 78 del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267, purché alle suddette votazioni frazionate di singoli segmenti della nuova disciplina urbanistica fosse poi seguita da un’analisi complessiva ed un’approvazione finale del suo inscindibile contenuto globale.
Tale votazione separata e frazionata su singole componenti del piano -si è, inoltre, affermato- è anche ragionevole e realistica, tenuto conto della situazione dei piccoli comuni, nei quali gran parte dei consiglieri e dei loro parenti e affini sono proprietari di terreni incisi dalle previsioni urbanistiche (Cons. St., sez. IV, 22.06.2004, n. 4429, e TAR Veneto, sez. I, 06.08.2003, n. 4159).
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Quanto alla prima va evidenziato che il Consiglio comunale ben può raggruppare e decidere congiuntamente con un’unica votazione, per ragioni di economia procedimentale, più osservazioni formulate avverso un piano urbanistico.
Tale esame congiunto può, invero, pacificamente e normalmente riguardare osservazioni “omogenee”, cioè per quelle a contenuto sostanzialmente identico o quanto meno similare, attinenti ad una stessa previsione urbanistica, tutte le volte in cui il Consiglio comunale ritenga di dover respingerle o accoglierle “in blocco” con una stessa motivazione all’evidente scopo di evitare una disparità di trattamento (Cons. St., Sez. IV, 06.06.2008, n. 2681); tuttavia, è stato anche evidenziato che la votazione in blocco con “accoglimento” di alcune e, nel contempo, di “rigetto” di altre, ove assunta dalla “sola” maggioranza consigliare e non all’unanimità, può costituire in astratto una indebita limitazione del diritto di ogni singolo consigliere di poter esprimere il proprio voto su ciascuna di esse in modo eventualmente diverso rispetto a quello già rispettivamente “predefinito” nella proposta agli atti del Consiglio
(TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 03.07.2012 n. 333 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa deliberazione comunale di esame delle controdeduzioni del privato alla delibera di adozione di variante di piano regolatore non è autonomamente impugnabile, in quanto, trattandosi di atto endoprocedimentale, tale deliberazione è insuscettibile ex se di determinare una lesione di interessi, riconducibile solo all’adozione e/o all’approvazione dello strumento urbanistico.
Come è noto, infatti, la deliberazione comunale di esame delle controdeduzioni del privato alla delibera di adozione di variante di piano regolatore non è autonomamente impugnabile, in quanto, trattandosi di atto endoprocedimentale, tale deliberazione è insuscettibile ex se di determinare una lesione di interessi, riconducibile solo all’adozione e/o all’approvazione dello strumento urbanistico (Cons. St., sez. IV, 21.08.2009, n. 5002, TAR Lombardia, sede Milano, sez. II, 15.12.2009, n. 5336, e TAR Umbria, 31.08.2010, n. 440) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 03.07.2012 n. 331 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl d.m. 02.04.1968 n. 1444, che fissa i limiti “inderogabili” di distanza fra i fabbricati, prevede all’art. 9 che tra i fabbricati debba rispettata “in tutti i casi” la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, con possibilità di ammettere distanze inferiori, solo relativamente alle ipotesi di ristrutturazione in zone A e “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni plano volumetriche”.
La ratio di tale normativa, come sembra evidente, è quella non di tutela del diritto alla riservatezza, bensì di salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie: trattasi cioè di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario. Tali distanze tra costruzioni sono, cioè, predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell’applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi.

Va, invero, rilevato che il decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968 n. 1444, che fissa i limiti “inderogabili” di distanza fra i fabbricati, prevede all’art. 9 che tra i fabbricati debba rispettata “in tutti i casi” la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, con possibilità di ammettere distanze inferiori, solo relativamente alle ipotesi di ristrutturazione in zone A e “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni plano volumetriche”.
La ratio di tale normativa, come sembra evidente, è quella non di tutela del diritto alla riservatezza, bensì di salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie: trattasi cioè di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario. Tali distanze tra costruzioni sono, cioè, predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell’applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi (Cons. St., sez. IV, 12.06.2007, n. 3094, e 05.12.2005, n. 6909) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 03.07.2012 n. 328 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Pneumatici usati e fuori uso.
Gli pneumatici «usati», intendendosi come tali quelli ricostruibili o utilizzabili direttamente e rispetto ai quali non risulti l'obiettiva volontà di disfarsene da parte del detentore, non rientrano nel novero dei rifiuti a differenza degli pneumatici «fuori uso», che invece il legislatore espressamente individua come tali e che, per degrado o altre condizioni , abbiano perso la loro funzione originaria (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.06.2012 n. 25358 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATASull'esatta portata dell'art. 21, co. 5, l.r. lombarda n. 26/2003, il quale riconosce:
a) che gli interventi di bonifica o di messa in sicurezza permanente costituiscono opere di urbanizzazione secondaria;
b) che tali opere “esclusivamente se insistenti nei siti di interesse nazionale”, se eseguite da particolari soggetti, “sono da considerare a scomputo degli oneri di urbanizzazione secondaria per l’importo corrispondente al 50 per cento del relativo ammontare”.

In linea generale, occorre osservare che l’art. 16 DPR 06.06.2001 n. 380 prevede che “il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione..." (comma 1).
Il successivo comma 2 prevede che “a scomputo totale o parziale della quota dovuta, il titolare del permesso di costruire può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione” nel rispetto dell’art. 2, co. 5, l. n. 109/1994 (ora art. 32 d. lgs. n. 163/2006).
Dal pur rapido richiamo delle disposizioni suddette, si evince che, nel nostro ordinamento, il principio generale è l’onerosità del permesso di costruire, costituendo sia l’esenzione dal contributo, sia la realizzazione di opere a scomputo degli oneri di urbanizzazione una eccezione, nei modi e termini indicati dal legislatore.
E’ in tale quadro normativo che si iscrive l’art. 21, co. 5, l. reg. lombarda 26/2003, il quale riconosce:
a) che gli interventi di bonifica o di messa in sicurezza permanente costituiscono opere di urbanizzazione secondaria;
b) che tali opere “esclusivamente se insistenti nei siti di interesse nazionale”, se eseguite da particolari soggetti, “sono da considerare a scomputo degli oneri di urbanizzazione secondaria per l’importo corrispondente al 50 per cento del relativo ammontare”;
c) che i comuni hanno facoltà di aumentare la misura dello scomputo, in considerazione della rilevanza della bonifica.
Come è evidente, ricorre, nel caso di specie, una norma eccezionale, la quale, in primo luogo, introduce una deroga alla norma generale sulla onerosità del permesso di costruire; in secondo luogo qualifica determinati interventi di bonifica e di messa in sicurezza come opere di urbanizzazione secondaria, così precisando quanto indicato nell’art. 16, co. 8, DPR n. 380/2001, il quale include, tra dette opere, quelle destinate “alla bonifica di aree inquinate”.
Peraltro, l’effetto agevolativo introdotto dalla norma regionale concerne, oltre alla chiara individuazione delle opere come rientranti nella categoria di quelle “di urbanizzazione secondaria”, anche nella “doverosità” dello scomputo di quanto sostenuto per la loro realizzazione dagli oneri di urbanizzazione (non residuando in capo al Comune alcun margine di discrezionalità, se non –in talune ipotesi– in melius nell’applicazione dell’aliquota-base), e la misura dello scomputo.
Tale effetto agevolativo è, per quel che qui interessa, limitato agli interventi nei “siti di interesse nazionale”.
Il successivo comma 7 dell’art. 21 rende applicabili, tra le altre, le agevolazioni di cui al comma 5, ora descritte, “integralmente”, in favore di soggetti che acquisiscono la proprietà delle aree nell’ambito di procedure concorsuali.
Orbene, occorre innanzi tutto escludere (unica interpretazione “letterale” dell’avverbio “integralmente” non offerta in causa), che tale avverbio intenda disporre una applicazione appunto “integrale”, “totale” del comma richiamato, poiché il significato rafforzativo non avrebbe senso, bastando a tali fini meramente disporre l’applicazione della norma richiamata.
L’avverbio è stato dunque interpretato (innanzi tutto dal Comune di Milano), come riferito alla “misura” dell’agevolazione, di modo che il limite di scomputo, indicato nel 50% degli oneri di urbanizzazione, deve intendersi riferito al 100% (cioè nella sua misura integrale), qualora il sito inquinato è acquisito nell’ambito di procedure concorsuali.
Il legislatore, dunque, procede “per addizione” di condizioni: semplificando, mentre la agevolazione dello scomputo pari al 50% riguarda i “siti di interesse nazionale”, la agevolazione “maggiorata” (cioè nella misura integrale, pari al 100%), riguarda quei medesimi sirti di interesse nazionale acquisiti nell’ambito delle ora citate procedure, e non certo “tutti” i siti, purché acquistati nell’ambito di procedure concorsuali,
Dunque, sia per effetto del rinvio effettuato al comma 5 (che non può che riguardare la fattispecie agevolata, e non solo la misura dell’agevolazione), sia perché una “maggiorazione” della misura dell’agevolazione non può che presupporre una agevolazione–base (e complessivamente intesa) da maggiorare, appare evidente come già l’interpretazione letterale conduca a condividere l’interpretazione offerta dalla sentenza appellata.
A ciò occorre aggiungere (condividendo una argomentazione del Comune di Milano: v. pag. 9 memoria 06.02.2012), che, trattandosi, nel caso di specie, di norme eccezionali, in quanto derogatorie all’art. 16 DPR n. 380/2001, esse sono di “stretta interpretazione”, di modo che –di fronte a due possibili interpretazioni ambedue astrattamente plausibili– occorre prescegliere quella che realizza il minor ampliamento dell’ambito di applicazione della norma derogatoria, e quindi evitando correlativamente più ampie “compressioni” della norma generale.
D’altra parte, come evidenziato dalla sentenza appellata, la stessa ratio della disciplina di cui all’art. 21 l. reg. n. 26/2003 conduce alla plausibilità dell’interpretazione ora offerta,
Infatti, sono i “siti di interesse nazionale” ad essere “caratterizzati da fenomeni di inquinamento di particolare gravità e di rilevante allarme per la salute pubblica”, di modo che ben si giustifica la previsione di particolari e più incisive agevolazioni per gli interventi in essi realizzati.
Tale previsione –lungi dal costituire “disparità di trattamento”, come lamentato dall’appellante– si giustifica proprio in ragione delle differenti (e più gravi) condizioni entro le quali si pone l’intervento.
Allo steso modo, si giustifica anche l’ulteriore agevolazione per quei siti (di interesse nazionale) acquisiti nell’ambito di procedure concorsuali, intendendo il legislatore invogliare –come sostenuto dal I giudice– “gli operatori economici a comprare immobili e compendi inseriti nelle suddette procedure”.
D’altra parte, a voler ritenere che il rinvio operato dal comma 7 al comma 5, si riferisca solo alla misura dell’agevolazione e non anche alle condizioni per l’applicazione della medesima, si perverrebbe (anche qui concordando con la sentenza appellata) al paradossale risultato che gli interventi effettuati in siti inquinati di qualsiasi livello, purché acquisiti nell’ambito di procedure concorsuali, sarebbero meglio considerati, sul piano delle agevolazioni, rispetto agli interventi effettuati in siti di massima compromissione, quali sono i siti di interesse nazionale.
Proprio seguendo l’interpretazione dell’appellante, dunque, si perverrebbe ad una irragionevolezza della norma, tale da far dubitare della sua legittimità costituzionale (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza IV, sentenza 15.05.2012 n. 2754 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: (i) in base alla norma sulla competenza professionale, i geometri devono astenersi dalla progettazione e dalla direzione lavori che riguardino opere in cemento armato, con la sola eccezione delle piccole costruzioni accessorie in ambito agricolo. Dunque le costruzioni civili che comportano l’uso di cemento armato fuoriescono dalla competenza dei geometri, anche se si mantengono nei limiti delle “modeste costruzioni”.
(ii) la severità della norma è attenuata dalla prassi di suddividere la progettazione e la direzione lavori in due parti, una riferita alle opere in cemento armato e una incentrata sugli aspetti architettonici. Questa soluzione si muove lungo un confine incerto, e potrebbe facilmente prestarsi a comportamenti elusivi della norma. Sono considerati comportamenti elusivi la controfirma o il visto del progetto da parte di un ingegnere o architetto e l’affidamento a questi ultimi dei calcoli relativi al cemento armato.
(iii) tuttavia, se la separazione delle attività di progettazione e direzione lavori è effettiva e non simulata, e a ciascun professionista è riservata nel suo ambito piena responsabilità, questa appare una via praticabile per coordinare le due parti che qui interessano dell’art. 16 del RD 274/1929, quella che esclude il cemento armato dalla competenza professionale dei geometri in relazione alle costruzioni civili (lett. l) e quella che estende ai geometri la progettazione e la direzione lavori con riferimento alle costruzioni civili di modesta importanza (lett. m).
Poiché anche le costruzioni civili di modesta importanza possono richiedere l’impiego di cemento armato, non sarebbe corretto interdire in questi casi ai geometri una porzione rilevante della loro competenza professionale, quando sia invece possibile scorporare in modo chiaro ed effettivo dalla progettazione e dalla direzione lavori tutta l’attività riferibile al cemento armato. Lo scorporo appare la soluzione preferibile alla luce del principio di proporzionalità (non devono essere inflitte alla competenza professionale dei geometri limitazioni maggiori di quelle strettamente necessarie a garantire la sicurezza delle persone).
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(iv) gli ordini e i collegi professionali hanno interesse e legittimazione a tutelare le prerogative delle rispettive categorie di professionisti, tanto in sede giurisdizionale quanto davanti all’autorità amministrativa. Non vi sono però norme puntuali che consentano agli ordini e ai collegi professionali di agire direttamente in autotutela contro i professionisti della categoria concorrente che effettuano un’invasione di campo, né un simile potere è desumibile in via generale dalle funzioni di interesse pubblico svolte da questi organismi.
(v) nello specifico, quindi, l’Ordine degli Architetti non è legittimato a bloccare la procedura di collaudo statico rifiutandosi di designare la terna di nomi per la scelta del collaudatore. In questo modo infatti verrebbe interrotto l’iter che porta al rilascio del certificato di agibilità (v. art. 25, comma 3, e art. 67, comma 8, del DPR 380/2001) e vi sarebbe un’intromissione nei poteri di controllo dell’amministrazione comunale, la quale è l’unico soggetto titolato a decidere delle condizioni di utilizzabilità di un edificio.
(vi) l’Ordine degli Architetti può invece intervenire a difesa della categoria con altri strumenti: (1) all’inizio del percorso di edificazione, impugnando il titolo edilizio che approva il progetto redatto dal professionista non competente, o invitando l’amministrazione comunale a effettuare un annullamento in autotutela; (2) alla fine, segnalando all’amministrazione comunale che dal collaudo emerge il mancato rispetto della riserva sul cemento armato, o impugnando il certificato di agibilità che non tenga conto della violazione della suddetta riserva. Questi profili sono però, come è evidente, estranei al presente giudizio.

Il presente ricorso, promosso dal Collegio dei Geometri e dei Geometri Laureati di Bergamo, riguarda il rifiuto dell’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Bergamo di designare la terna di nomi per la scelta del collaudatore ai fini del collaudo statico delle opere in cemento armato (v. art. 67, comma 4, del DPR 06.06.2001 n. 380) quando alla realizzazione abbiano prestato la loro attività professionale dei geometri. Nei casi portati all’attenzione del TAR le prestazioni professionali consistono nella progettazione architettonica e nella direzione lavori per il progetto architettonico.
La vicenda è stata marginalmente esaminata da questo TAR nella sentenza non definitiva n. 635 del 17.04.2012 in relazione a un’istanza di accesso.
La tesi dell’Ordine degli Architetti si può così riassumere:
(a) la competenza professionale dei geometri (v. art. 16 del RD 11.02.1929 n. 274) consiste in “progetto, direzione, sorveglianza e liquidazione di costruzioni rurali e di edifici per uso d'industrie agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria, comprese piccole costruzioni accessorie in cemento armato, che non richiedono particolari operazioni di calcolo e per la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone” (lett. l), nonché in “progetto, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili” (lett. m);
(b) non sono ricomprese in tali elenchi le attività di progettazione e direzione lavori riguardanti le costruzioni civili in cemento armato, che restano pertanto affidate in via esclusiva a ingegneri e architetti;
(c) la necessità del rispetto delle competenze professionali è ribadita, rispettivamente per la progettazione e la direzione lavori relative a opere in cemento armato, dall’art. 64, commi 2 e 3, del DPR 380/2001;
(d) di conseguenza non è possibile per gli architetti partecipare al collaudo di opere in cemento armato in relazione alle quali i geometri, non attenendosi alle proprie competenze professionali, abbiano svolto attività di progettazione architettonica e di direzione lavori per il progetto architettonico (sarebbe come chiedere di avallare un abuso edilizio).
Sulla vicenda così sintetizzata si possono svolgere le seguenti considerazioni:
(i) in base alla norma sulla competenza professionale, i geometri devono astenersi dalla progettazione e dalla direzione lavori che riguardino opere in cemento armato, con la sola eccezione delle piccole costruzioni accessorie in ambito agricolo. Dunque le costruzioni civili che comportano l’uso di cemento armato fuoriescono dalla competenza dei geometri, anche se si mantengono nei limiti delle “modeste costruzioni” (v. Cass. civ. Sez. II 14.02.2012 n. 2153);
(ii) la severità della norma è attenuata dalla prassi di suddividere la progettazione e la direzione lavori in due parti, una riferita alle opere in cemento armato e una incentrata sugli aspetti architettonici. Questa soluzione si muove lungo un confine incerto, e potrebbe facilmente prestarsi a comportamenti elusivi della norma. Sono considerati comportamenti elusivi la controfirma o il visto del progetto da parte di un ingegnere o architetto e l’affidamento a questi ultimi dei calcoli relativi al cemento armato (v. Cass. civ. Sez. II 02.09.2011 n. 18038);
(iii) tuttavia, se la separazione delle attività di progettazione e direzione lavori è effettiva e non simulata, e a ciascun professionista è riservata nel suo ambito piena responsabilità, questa appare una via praticabile per coordinare le due parti che qui interessano dell’art. 16 del RD 274/1929, quella che esclude il cemento armato dalla competenza professionale dei geometri in relazione alle costruzioni civili (lett. l) e quella che estende ai geometri la progettazione e la direzione lavori con riferimento alle costruzioni civili di modesta importanza (lett. m).
Poiché anche le costruzioni civili di modesta importanza possono richiedere l’impiego di cemento armato, non sarebbe corretto interdire in questi casi ai geometri una porzione rilevante della loro competenza professionale, quando sia invece possibile scorporare in modo chiaro ed effettivo dalla progettazione e dalla direzione lavori tutta l’attività riferibile al cemento armato. Lo scorporo appare la soluzione preferibile alla luce del principio di proporzionalità (non devono essere inflitte alla competenza professionale dei geometri limitazioni maggiori di quelle strettamente necessarie a garantire la sicurezza delle persone);
(iv) gli ordini e i collegi professionali hanno interesse e legittimazione a tutelare le prerogative delle rispettive categorie di professionisti, tanto in sede giurisdizionale quanto davanti all’autorità amministrativa. Non vi sono però norme puntuali che consentano agli ordini e ai collegi professionali di agire direttamente in autotutela contro i professionisti della categoria concorrente che effettuano un’invasione di campo, né un simile potere è desumibile in via generale dalle funzioni di interesse pubblico svolte da questi organismi;
(v) nello specifico quindi l’Ordine degli Architetti non è legittimato a bloccare la procedura di collaudo statico rifiutandosi di designare la terna di nomi per la scelta del collaudatore. In questo modo infatti verrebbe interrotto l’iter che porta al rilascio del certificato di agibilità (v. art. 25, comma 3, e art. 67, comma 8, del DPR 380/2001) e vi sarebbe un’intromissione nei poteri di controllo dell’amministrazione comunale, la quale è l’unico soggetto titolato a decidere delle condizioni di utilizzabilità di un edificio;
(vi) l’Ordine degli Architetti può invece intervenire a difesa della categoria con altri strumenti: (1) all’inizio del percorso di edificazione, impugnando il titolo edilizio che approva il progetto redatto dal professionista non competente, o invitando l’amministrazione comunale a effettuare un annullamento in autotutela; (2) alla fine, segnalando all’amministrazione comunale che dal collaudo emerge il mancato rispetto della riserva sul cemento armato, o impugnando il certificato di agibilità che non tenga conto della violazione della suddetta riserva. Questi profili sono però, come è evidente, estranei al presente giudizio.
Sussistono pertanto i presupposti per l’accoglimento della domanda cautelare. L’Ordine degli Architetti è tenuto a procedere, nel termine di 30 giorni dal deposito della presente ordinanza, alla designazione delle terne per la scelta dei collaudatori in risposta alle richieste già pervenute, e a effettuare sollecitamente le designazioni con riguardo alle richieste che arriveranno in futuro (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, ordinanza 10.05.2012 n. 207 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'impugnazione dei titoli edilizi è consentita in capo a chiunque si trovi in una situazione di stabile collegamento con la zona interessata dalla costruzione assentita, a prescindere da ogni indagine sulla sussistenza di un ulteriore specifico interesse, essendo sufficiente la cd. vicinitas, quale elemento che distingue la posizione giuridica del ricorrente da quella della generalità dei consociati, di talché è corretto riconoscere, a chi si trovi in tale situazione, un interesse tutelato a ché il provvedimento dell'Amministrazione sia procedimentalmente e sostanzialmente ossequioso delle norme vigenti in materia.
Deve essere infatti riconosciuta la posizione di interesse che consente l'impugnativa a chi si trovi in una situazione di stabile collegamento con la zona, senza che sia necessaria la prova di un danno specifico, essendo questo insito nella violazione edilizia. Consegue che la stessa posizione della società ricorrente di confinaria con l’area oggetto degli interventi contestati ne qualifica l’interesse sostanziale dedotto in giudizio, senza che in proposito siano necessari ulteriori verifiche dei possibili vantaggi correlati alla declaratoria giudiziale d’illegittimità degli eventi lesivi.
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Il soggetto legittimato all’impugnativa incorre nella decadenza solo se abbia avuto la possibilità di rendersi conto della concreta lesività del provvedimento, tenuto conto che in materia edilizia ai fini dell’inizio della decorrenza del termine per impugnare i titoli legittimanti non basta la semplice notizia del rilascio dell’atto o la vaga cognizione del suo contenuto.
Di per sé la pubblicità di fatto, attuata mediante cartello di cantiere, non è rilevante per provocare la piena conoscenza, anche se indica gli estremi del provvedimento, così come il mero inizio o lo svolgimento dei lavori di costruzione, o la pubblicazione del progetto all’albo pretorio.
Viceversa la giurisprudenza si è consolidata nel ritenere che possono trarsi decisivi elementi presuntivi qualora le opere rivelino, in modo certo e univoco, le loro caratteristiche e, quindi, l'entità delle violazioni urbanistiche e della lesione eventualmente derivante dal provvedimento, poiché solo in tale momento possono essere apprezzate le dimensioni e le caratteristiche delle opere realizzate, spettando comunque al resistente la prova certa della piena conoscenza da parte del ricorrente del contenuto del progetto approvato.
Invero, se quanto convenuto dalla giurisprudenza in tema di impugnazione dei titoli edificatori corrisponde alla necessità di temperare i rigidi principi letterali normativi con la logica, sottesa alla disciplina della decadenza processuale nel giudizio amministrativo, di correlare l’azione alla conoscenza effettiva della lesività riveniente da irregolarità nel rilascio dei provvedimenti, non va trascurata la corrispondente necessità di garantire la certezza delle situazioni ai titolari dei permessi di costruire, già concessioni edificatorie, onde evitare che permanga in perpetuo incertezza sulla sorte dei titoli stessi e degli impegni e obblighi assunti sul presupposto della loro validità; resta pertanto in capo a coloro che vedono le proprie posizioni soggettive coinvolte dai titoli che ritengano illegittimi l’onere di adoprarsi con la massima diligenza per tutelare senza indugio i propri interessi.

Sul tema dell’ammissibilità del ricorso in ragione dell’interesse azionato la giurisprudenza è attestata nel riconoscere che l'impugnazione dei titoli edilizi è consentita in capo a chiunque si trovi in una situazione di stabile collegamento con la zona interessata dalla costruzione assentita, a prescindere da ogni indagine sulla sussistenza di un ulteriore specifico interesse, essendo sufficiente la cd. vicinitas, quale elemento che distingue la posizione giuridica del ricorrente da quella della generalità dei consociati, di talché è corretto riconoscere, a chi si trovi in tale situazione, un interesse tutelato a ché il provvedimento dell'Amministrazione sia procedimentalmente e sostanzialmente ossequioso delle norme vigenti in materia (Cons. St., IV, 23.01.2012 n. 284; TAR Campania, Napoli, VI, 02.02.2012 n. 526).
Deve essere infatti riconosciuta la posizione di interesse che consente l'impugnativa a chi si trovi in una situazione di stabile collegamento con la zona, senza che sia necessaria la prova di un danno specifico, essendo questo insito nella violazione edilizia. Consegue che la stessa posizione della società ricorrente di confinaria con l’area oggetto degli interventi contestati ne qualifica l’interesse sostanziale dedotto in giudizio, senza che in proposito siano necessari ulteriori verifiche dei possibili vantaggi correlati alla declaratoria giudiziale d’illegittimità degli eventi lesivi.
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Per quanto riguarda la corretta proposizione del ricorso nei tempi utili a evitarne la decadenza va richiamata la giurisprudenza costante del Giudice Amministrativo, secondo la quale il soggetto legittimato all’impugnativa incorre nella decadenza solo se abbia avuto la possibilità di rendersi conto della concreta lesività del provvedimento, tenuto conto che in materia edilizia ai fini dell’inizio della decorrenza del termine per impugnare i titoli legittimanti non basta la semplice notizia del rilascio dell’atto o la vaga cognizione del suo contenuto (Cons. St., IV, 18.06.2009 n. 4015).
Di per sé la pubblicità di fatto, attuata mediante cartello di cantiere, non è rilevante per provocare la piena conoscenza, anche se indica gli estremi del provvedimento, così come il mero inizio o lo svolgimento dei lavori di costruzione, o la pubblicazione del progetto all’albo pretorio (Cons. St., IV, n. 4015/2009 cit.; id., V, 19.05.1998 n. 616)
Viceversa la giurisprudenza si è consolidata nel ritenere che possono trarsi decisivi elementi presuntivi qualora le opere rivelino, in modo certo e univoco, le loro caratteristiche e, quindi, l'entità delle violazioni urbanistiche e della lesione eventualmente derivante dal provvedimento (TAR Lazio, II, 11.04.2011 n. 3193), poiché solo in tale momento possono essere apprezzate le dimensioni e le caratteristiche delle opere realizzate, spettando comunque al resistente la prova certa della piena conoscenza da parte del ricorrente del contenuto del progetto approvato.
Invero, se quanto convenuto dalla giurisprudenza in tema di impugnazione dei titoli edificatori corrisponde alla necessità di temperare i rigidi principi letterali normativi con la logica, sottesa alla disciplina della decadenza processuale nel giudizio amministrativo, di correlare l’azione alla conoscenza effettiva della lesività riveniente da irregolarità nel rilascio dei provvedimenti, non va trascurata la corrispondente necessità di garantire la certezza delle situazioni ai titolari dei permessi di costruire, già concessioni edificatorie, onde evitare che permanga in perpetuo incertezza sulla sorte dei titoli stessi e degli impegni e obblighi assunti sul presupposto della loro validità; resta pertanto in capo a coloro che vedono le proprie posizioni soggettive coinvolte dai titoli che ritengano illegittimi l’onere di adoprarsi con la massima diligenza per tutelare senza indugio i propri interessi (Cons.St., IV, 13.06.2011 n. 3583)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 04.05.2012 n. 4007 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso di ricorsi proposti avverso d.i.a. e s.c.i.a. anteriormente all'esercizio del potere inibitorio da parte dell’amministrazione, in virtù del principio di economia processuale, l'azione di accertamento, una volta maturato il termine per la definizione del procedimento amministrativo, si converte automaticamente in domanda di impugnazione del provvedimento sopravvenuto in ragione del fatto che la portata sostanziale del ricorso iniziale finisce per investire sia sul piano del petitum che della causa petendi la decisione della p.a. di non adottare il provvedimento inibitorio.
Dunque, è riconosciuta la possibilità di un’azione giurisdizionale di accertamento della illegittimità di d.i.a. e s.c.i.a. presentate dai privati, prima dell’esercizio da parte dell’amministrazione competente dell’azione inibitoria di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa nel caso in cui accerti la mancanza dei requisiti e dei presupposti per la validità delle dichiarazioni e delle segnalazioni sostitutive. Questo nella logica della garanzia di tutela giurisdizionale, che verrebbe meno laddove non fosse possibile riconoscere agli interessati la tutela in giudizio a fronte di dichiarazioni di privati sostitutive di titoli abilitanti all’esercizio di attività, nel caso di inerzia o rifiuto delle amministrazioni competenti a inibirne gli effetti a fronte della carenza dei presupposti di legittimità.

Per quanto riguarda la contestabilità in giudizio della s.c.i.a., va preliminarmente ricordato come l’istituto sia nuovo nel nostro ordinamento. Introdotte con modifica all’art. 19 della L. 07.08.1990 n. 241 dalla L. 30.07.2010 n. 122, le s.c.i.a. (segnalazioni certificate d’inizio attività edilizia) insieme alle d.i.a. s’inseriscono tra le modalità di semplificazione dell’azione amministrativa con effetto sostitutivo, a mezzo dichiarazione, di provvedimenti pubblici di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominati, comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli richieste per l'esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale il cui rilascio dipenda esclusivamente dall'accertamento dei requisiti e presupposti di legge o di atti amministrativi a contenuto generale (art. 19, comma 1, della L. n. 241/1990).
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con decisione 29.7.2011 n. 15, ha statuito che nel caso di ricorsi proposti avverso d.i.a. e s.c.i.a. anteriormente all'esercizio del potere inibitorio da parte dell’amministrazione, in virtù del principio di economia processuale, l'azione di accertamento, una volta maturato il termine per la definizione del procedimento amministrativo, si converte automaticamente in domanda di impugnazione del provvedimento sopravvenuto in ragione del fatto che la portata sostanziale del ricorso iniziale finisce per investire sia sul piano del petitum che della causa petendi la decisione della p.a. di non adottare il provvedimento inibitorio.
La pronuncia, dunque, riconosce la possibilità di un’azione giurisdizionale di accertamento della illegittimità di d.i.a. e s.c.i.a. presentate dai privati, prima dell’esercizio da parte dell’amministrazione competente dell’azione inibitoria di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa nel caso in cui accerti la mancanza dei requisiti e dei presupposti per la validità delle dichiarazioni e delle segnalazioni sostitutive. Questo nella logica della garanzia di tutela giurisdizionale, che verrebbe meno laddove non fosse possibile riconoscere agli interessati la tutela in giudizio a fronte di dichiarazioni di privati sostitutive di titoli abilitanti all’esercizio di attività, nel caso di inerzia o rifiuto delle amministrazioni competenti a inibirne gli effetti a fronte della carenza dei presupposti di legittimità
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 04.05.2012 n. 4007 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per le attività di costruzione in aree interessate da vincoli archeologici l’autorizzazione paesaggistica è d’obbligo e deve precedere il rilascio del permesso di costruire e degli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio, ai sensi dell’art. 146, commi 2 e 4, del codice dei beni culturali e del paesaggio, approvato con D.Lgs. 22.1.2004 n. 42; così come, ai sensi del comma 5 dell’art. 146 cit., è necessario il preliminare parere della soprintendenza.
L’autorizzazione paesaggistica è richiesta, ai sensi dell’art. 142 lett. m) e dell’art. 146 del codice, indipendentemente dal tipo di costruzione e dall’incidenza dell’attività costruttiva sui reperti, dato che la tutela prevista è di carattere generale, occorrendo perciò valutare l’impatto ambientale della costruzione nella fruibilità e nella godibilità del bene protetto. Il citato art. 142, lett. m), include infatti le zone d’interesse archeologico tra i territori d’interesse paesaggistico, e ciò nel territorio laziale è confermato dal p.t.p.r. del 2007.
La mancanza dei nulla osta paesistici rende perciò illegittimi i titoli edificatori in questa sede contestati.

Per le attività di costruzione in aree interessate da vincoli archeologici l’autorizzazione paesaggistica è dunque d’obbligo e deve precedere il rilascio del permesso di costruire e degli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio, ai sensi dell’art. 146, commi 2 e 4, del codice dei beni culturali e del paesaggio, approvato con D.Lgs. 22.1.2004 n. 42; così come, ai sensi del comma 5 dell’art. 146 cit., è necessario il preliminare parere della soprintendenza.
L’autorizzazione paesaggistica è richiesta, ai sensi dell’art. 142 lett. m) e dell’art. 146 del codice, indipendentemente dal tipo di costruzione e dall’incidenza dell’attività costruttiva sui reperti, dato che la tutela prevista è di carattere generale, occorrendo perciò valutare l’impatto ambientale della costruzione nella fruibilità e nella godibilità del bene protetto. Il citato art. 142, lett. m), include infatti le zone d’interesse archeologico tra i territori d’interesse paesaggistico, e ciò nel territorio laziale è confermato dal p.t.p.r. del 2007.
La mancanza dei nulla osta paesistici rende perciò illegittimi i titoli edificatori in questa sede contestati
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 04.05.2012 n. 4007 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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