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AGGIORNAMENTO AL 27.08.2012 |
ã |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturazioni e risparmio energetico -
Tutti i chiarimenti di prassi da ricordare
per ottimizzare il beneficio fiscale (articolo
ItaliaOggi Sette del 20.08.2012). |
QUESITI &
PARERI |
EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: Procedimento di autorizzazione paesaggistica
art. 146 D.Lgs. 42/2204 - Conferenza di servizi - Parere
(Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Ufficio
Legislativo,
nota 16.02.2012 n. 2807
di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: D.P.C.M. 12.12.2005 - relazioni paesaggistiche
redatte da dottori agronomi o dottori forestali - richiesta
parere (Ministero per i Beni e le Attività Culturali,
Ufficio Legislativo,
nota 15.02.2012
n. 2588 di prot.). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: Decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e s.m.i.,
recante "Codice dei beni culturali e del paesaggio ai sensi
dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137", articolo
143, comma 1, lett. c): ricognizione delle aree tutelate per
legge ai sensi dell'art. 142, comma 1, lett. c). Quesito
della Direzione Regionale per i beni culturali e
paesaggistici della Puglia (Ministero per i Beni e le
Attività Culturali, Direzione Generale per il paesaggio, le
belle arti, l'architettura e l'arte contemporanee,
circolare 04.04.2012 n. 10).
---------------
La
Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici
della Puglia ha sottoposto a questa Direzione generale la
questione della mancata ricognizione ai sensi dell'art. 143,
comma 1, lettera c), di un corso d'acqua in sede di
copianificazione paesaggistica. L'analisi del quesito ha
assunto per questa Direzione generale una particolare
importanza, da cui l'opportunità di approfondire quanto già
reso pubblico sul tema con la circolare DG PBAAC n. 12/2011,
rendendo partecipi gli uffici in indirizzo degli
approfondimenti in merito.
ALLEGATI:
•
All_5_UCBAAAAS_Circolare_8_del_31_08_1985
•
All_4_AvvGenStato_04_02_2000_art_142_lettera_C
•
All_3_MATTM_27308_del_27_10_2010_DR_BCP_Toscana
•
All_2_Consiglio_di_Stato_Sentenza_657_del_04_02_2012
•
All_1_Quesito_DR_BCP_della_Puglia |
EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: D.lgs. 29.12.2003 n. 387, art. 12, cc. 3 e 4 -
Autorizzazione unica per la costruzione e l'esercizio degli
impianti di produzione di energia elettrica da fonti
rinnovabili - Parere della Soprintendenza BAP in Conferenza
di servizi (Ministero per i Beni e le Attività
Culturali, Direzione Generale per il paesaggio, le belle
arti, l'architettura e l'arte contemporanee,
circolare 01.03.2012 n. 5).
---------------
ALLEGATO:
•
Circ_5_2012_ALL_A |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e s.m.i.,
recante "Codice dei beni culturali e del
paesaggio ai sensi dell'articolo 10 della
legge 06.07.2002, n. 137", articolo 143,
comma 1, lett. b): determinazione
delle specifiche prescrizioni
d'uso per gli immobili e le aree dichiarati di
notevole interesse pubblico ai sensi degli artt. 136 e
157 - "Scheda metodologica": proposta
(Ministero per i Beni e le Attività
Culturali, Direzione Generale per il
paesaggio, le belle arti, l'architettura e
l'arte contemporanee,
circolare 21.12.2011 n.
30).
---------------
Allegato:
•
Scheda_metodologica_DM |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: D.Lgs. 42/2004 - art. 142, comma 1,
lett. m), del Codice dei Beni Culturali e
del paesaggio (Ministero per i Beni e le
Attività Culturali, Direzione Generale per
il paesaggio, le belle arti, l'architettura
e l'arte contemporanee,
circolare 15.12.2011 n. 28).
---------------
A fine di chiarire tre fondamentali
questioni interpretative in relazione alle
"zone di interesse archeologico", di cui
all'art. 142, comma 1, lett. m), del Codice
dei beni culturali e del paesaggio, si
forniscono opportuni chiarimenti sulla
scorta dei pareri resi dall'Ufficio
legislativo.
ALLEGATI:
●
Parere leg. n. 12974 del
05.07.2011
●
Parere leg. n. 8562 del
06.05.2011
●
Parere leg. n. 18056 del 05.10.2011 -
Chiarimenti Appia Antica |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: D.L. n. 70 del 2011 - modifiche
al procedimento di autorizzazione
paesaggistica - circolare esplicativa
(Ministero per i Beni e le Attività
Culturali, Direzione Generale per il
paesaggio, le belle arti, l'architettura e
l'arte contemporanee,
circolare 08.11.2011 n.
24).
---------------
In riferimento alle modifiche apportate
all'art. 146 del Codice dei beni culturali e
del paesaggio dal decreto legge indicato in
oggetto, convertito in legge n. 106 del
12/07/2011, si emanano indicazioni operative
al fine di fornire un supporto alle attività
degli Uffici periferici.
Allegato:
•
Allegato MATTM_DG Protezione natura
mare_articolo 146_nuova disciplina_16791_05
08 2011 |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Nella p.a.
promozioni senza soldi.
Fino al 2013 le progressioni produrranno effetti solo
giuridici. Corte conti Liguria
conferma le tesi del Mef e della Rgs.
Risorse in economia al bilancio dell'ente.
Le progressioni economiche dei dipendenti pubblici nel
triennio 2011/2013 producono effetti solo giuridici, senza
determinare alcun miglioramento dello stipendio, ma le
risorse necessarie per il loro finanziamento devono essere
tratte comunque dal fondo per la contrattazione decentrata,
senza alcuna possibilità di destinarle ad altre finalità.
In altri termini, si può dire «il danno e la beffa»: il
danno perché per questo periodo i dipendenti destinatari di
progressioni orizzontali non ricevono concretamente nulla, e
la beffa perché queste risorse vanno in economia al bilancio
dell'ente e non possono essere destinate al finanziamento di
altre forme di salario accessorio.
Sono queste le indicazioni che il ministro dell'economia ha
dettato nella circolare n. 12/2011, che la Ragioneria
generale dello stato ha ribadito nella circolare n. 16/2012
e che la sezione regionale di controllo della Corte dei
conti della Liguria ha precisato nel
parere
01.08.2012 n. 89.
Qualche spiraglio di dubbio sussiste
ancora per la Corte dei conti della Campania che, con la
deliberazione n. 170/2012, ha rimesso la questione all'esame
delle sezioni riunite per chiarire se il vincolo legislativo
si estende anche alle progressioni economiche.
È evidente che il consolidamento di questo orientamento
determinerà il sostanziale blocco delle progressioni
economiche, per evitare effetti di depauperamento del fondo.
La materia è disciplinata dal comma 9 dell'articolo 9 del dl
n. 78/2010 che sancisce che le progressioni producano nel
triennio 2011/2013 effetti esclusivamente giuridici.
Vi sono dei dubbi sugli effetti di questa formulazione,
tanto più dopo che l'Inpdap ha chiarito che anche ai fini
pensionistici la decorrenza si realizza dal momento
dell'effettiva corresponsione del beneficio economico.
Sostanzialmente, siamo dinanzi a nulla più che ad una sorta
di prenotazione. Si ricorda che, sulla base delle previsioni
dettate dal dl n. 78/2011, il governo può estendere tale
limitazione anche all'anno 2014.
Il primo dubbio che ci si è posti è se questo vincolo si
applica esclusivamente alle progressioni di carriera o si
estende anche a quelle economiche o orizzontali.
La sezione di controllo della Corte dei conti della Liguria,
anche sulla scorta delle indicazioni della Ragioneria
generale dello stato, «confermando l'indirizzo
giurisprudenziale affermatosi nelle altre sezioni di
controllo, ritiene applicabile il comma 21 citato anche alle
progressioni c.d. orizzontali optando per un'applicazione
che prescinda dalla nozione in concreto individuata per la
progressione di carriera, comunque denominata, nel senso che
ogni variazione d'inquadramento del dipendente produrrà
effetti soltanto sullo status giuridico, ma non sul
trattamento economico dell'impiegato».
Ed aggiunge che, anche ove tale disposizione non fosse
applicabile, comunque gli effetti sarebbero gli stessi in
virtù del tetto al trattamento economico individuale fissato
per lo stesso triennio dal comma 1 dello stesso articolo 9
del dl n. 78/2010.
Le somme destinate nel triennio 2011/2013 al finanziamento
delle progressioni orizzontali non possono essere destinate
ad altri istituti di salario accessorio, per la Corte dei
conti della Liguria, «secondo un ragionamento di ordine
sistematico, per un generale divieto in merito ad un
utilizzo alternativo delle risorse così accantonate.
Diversamente, qualora si ammettesse tale utilizzo
alternativo delle somme risparmiate ai sensi del comma 21
dell'art. 9 più volte citato, si vanificherebbe l'obiettivo
del contenimento della spesa di personale (particolarmente
incidente sul totale della spesa corrente delle pubbliche
amministrazioni) indicato quale fine primario di tale
intervento normativo».
In questo senso va anche la circolare 16/2012 della Rgs per
la quale le somme non utilizzate del fondo dell'anno
precedente vanno riportate nel fondo dell'anno successivo,
ma esse devono essere «depurate dalle poste che per
previsione contrattuale o normativa non possono essere
riportate al nuovo Fondo, come i risparmi per progressioni
orizzontali giuridiche o altri disposti dell'art. 9 dl n.
78/2010 convertito nella legge n. 122/2010».
In precedenza la circolare 12/2011 del ministro
dell'economia aveva chiarito che «qualora le
amministrazioni intendano programmare, sia pure solo ai fini
giuridici, progressioni economiche all'interno delle aree
professionali, le stesse dovranno quantificare i relativi
oneri finanziari rendendo indisponibili le necessarie
risorse certe e stabili fino a tutto il 2013. Soltanto a
decorrere dall'01.01.2014 le progressioni potranno produrre
anche gli effetti economici, beninteso senza il beneficio
della retroattività»
(articolo ItaliaOggi del 24.08.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
23.08.2012 n. 196 "Regolamento recante
modifiche ed integrazioni al decreto del
Ministro dell’ambiente e della tutela del
territorio e del mare 18.02.2011, n. 52,
avente ad oggetto «Regolamento recante
istituzione del sistema di controllo della
tracciabilità dei rifiuti, ai sensi
dell’articolo 189, del decreto legislativo
03.04.2006, n. 152, e successive modifiche e
integrazioni, e dell’articolo 14 -bis del
decreto-legge 01.07.2009, n. 78, convertito,
con modificazioni, dalla legge 03.08.2009,
n. 102»" (Ministero dell'Ambiente e
della Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 25.05.2012 n. 141).
---------------
In Gazzetta un decreto del ministro
dell'ambiente Corrado Clini. Contingentati i dispositivi
Usb.
Il Sistri va pagato entro novembre. Iscrizione obbligatoria
per i centri raccolta dei comuni campani
Il pagamento a carico delle imprese del contributo Sistri,
per l'anno 2012, dovrà essere effettuato entro il 30
novembre prossimo.
Lo stabilisce un decreto del ministro dell'ambiente (n. 141
del 25 maggio scorso, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale
196 del 23.08.2012). Il provvedimento modifica la normativa
in vigore sul sistema di controllo della tracciabilità dei
rifiuti, estendendo vincoli e raggio d'azione. In
particolare, l'iscrizione al Sistri diventa obbligatoria per
i centri di raccolta comunali o intercomunali campani,
disciplinati da un decreto del ministro dell'ambiente
dell'08.04.2008.
Non solo. Il decreto firmato dal ministro Corrado Clini
dispone anche che gli enti titolari di autorizzazione al
trattamento di rifiuti possano «in attesa della voltura
dell'autorizzazione», delegare iscrizione e procedure
Sistri a soggetti terzi in possesso dei requisiti soggettivi
richiesti dalla legge per la gestione in conto terzi degli
impianti. Il tutto dandone preventiva comunicazione al
Sistri stesso. In queste ipotesi, spiega il decreto, «l'iscrizione
al Sistri dovrà essere effettuata a nome del gestore».
Il decreto Clini modifica poi alcune delle tempistiche
previste attualmente per l'iscrizione al Sistema e la
movimentazione dei rifiuti. E aggiunge alcune specifiche
nella gestione degli stessi scarti. In particolare, si
prevede testualmente che l'inserimento nel sistema
(informatico) delle informazioni (richieste) non è
obbligatorio per le movimentazioni fatte mentre si attende
il recapito dei dispositivi di tracciabilità «in fase di
prima iscrizione e nei sette giorni successivi alla consegna
dei dispositivi (telematici) stessi».
In questa fase, però, gli interessati dovranno conservare
copia cartacea delle cosiddette schede Sistri-Area
Movimentazione, previste dal sistema a indicazione dell'iter
seguito dai rifiuti. Gli stessi soggetti entranti nel Sistri
dovranno invece compilare, per i soli rifiuti ancora in
carico, la scheda prevista denominata Sistri-Area Registro
Cronologico. Compilazione che andrà fatta entro e non oltre
15 giorni dalla consegna dei dispositivi. Sempre in fatto di
dispositivi telematici da adottare, dopo aver dettato una
raffica di istruzioni ai soggetti incaricati della
compilazione delle schede su modalità e tempistica delle
compilazioni, il decreto prevede che gli interessati possano
anche richiedere un numero di dispositivi Usb aggiuntivi
rispetto a quelli assegnati, ma entro certi limiti.
Una simile richiesta deve però essere giustificata e sarà
accettata nei limiti della disponibilità tecnologica. Il
decreto Clini prevede che l'entità del contributo, per ogni
dispositivo Usb aggiuntivo richiesto, è fissato in 100 euro,
da versare in una soluzione all'atto della richiesta. Il
decreto prevede una griglia di possibilità previste per
aggiudicare i dispositivi aggiuntivi a imprese ed enti.
Questa verrà decisa in base agli addetti per unità locale.
Ecco i limiti:
- le imprese fino a 20 addetti per unità locale avranno al
massimo due dispositivi;
- le attività da 21 a 50 addetti al massimo quattro;
- le aziende da 51 a 250 addetti al massimo sei;
- le imprese da 251 a 500 addetti al massimo otto;
- le attività oltre 500 addetti per unità locale al massimo
dieci.
Per quanto riguarda enti e comuni della regione Campania:
- quelli inferiori a 20 mila abitanti avranno al massimo due
dispositivi;
- quelli tra 20 mila e 50 mila abitanti al massimo quattro;
- i comuni tra 50 mila e 100 mila abitanti al massimo sei
dispositivi;
- infine, i comuni superiori a 100 mila abitanti potranno
avere un numero massimo dispositivi aggiuntivi Sistri pari a
dieci (articolo ItaliaOggi del 25.08.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 34 del 22.08.2012, "Approvazione
di modifiche ed integrazioni al d.d.u.o. n. 1556 del
21.02.2011 e s.m.i. sulle modalità di accesso e di
funzionamento della procedura informatizzata per il taglio
di boschi, in attuazione dell’art. 11, comma 2, del r.r.
5/2007 (Norme forestali regionali)" (decreto
D.U.O. 10.08.2012 n. 7301). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
G.U. 22.08.2012 n. 195 "Regolamento recante la
determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di
un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni
regolarmente vigilate dal Ministero della giustizia, ai
sensi dell’articolo 9 del decreto-legge 24.01.2012, n. 1,
convertito, con modificazioni, dalla legge 24.03.2012, n. 27"
(Ministero della Giustizia,
decreto 20.07.2012 n. 140).
---------------
PROFESSIONI/ Un compenso per fasi di
giudizio. Per gli avvocati non si fa più riferimento a
singole attività. In Gazzetta il regolamento sui compensi.
Che è operativo fin da oggi.
Compenso agli avvocati per fasi del giudizio e non più per
singole attività. Il prontuario per i giudici per la
liquidazione dei compensi ai professionisti (regolamento n.
140 del 20.07.2012) approda in G.U. (n. 195 del 22.08.2012)
e si applica fin da oggi ogni volta che il magistrato deve
quantificare quanto è dovuto al professionista (non solo
avvocato, ma anche dottore commercialista ed esperto
contabile, notaio o professionista tecnico o altro
professionista).
Il regolamento (si veda ItaliaOggi del 18 agosto) si
caratterizza per il fatto di costituire un indirizzo di
massima, non vincolante né per il giudice né tanto meno nel
rapporto tra cliente e professionista.
La liquidazione da parte del giudice, per gli avvocati,
avviene all'esito della causa o al momento in cui si
rilascia un decreto ingiuntivo o in altro provvedimento che
per legge preveda la liquidazione delle spese. Per l'ambito
forense va sottolineato che vengono riportati parametri
anche per il caso in cui l'avvocato si autoliquida i
compensi nell'atto di precetto, che da l'avvio
all'esecuzione forzata.
Il prontuario si caratterizza per il fatto di costituire una
griglia, non obbligatoria per il magistrato e tanto meno nel
rapporto tra cliente e proprio avvocato.
Il prontuario non è vincolante per il magistrato, in quanto
costituisce una linea di indirizzo per la determinazione del
corrispettivo sia in sentenza sia negli altri provvedimenti
nei quali la legge attribuisce al giudice di liquidare le
spese.
Il giudice è svincolato dall'applicazione cogente delle
cifre, ma è soggetto ai principi generali relativi alla
determinazione del compenso in relazione alla quantità e
alla qualità della prestazione effettuata.
È vero che per le singole voci del prontuario si indicano
livelli minimi e livelli massimi, ma non si tratta di
importi cogenti e vincolanti. D'altra parte l'abbandono del
sistema delle tariffe, stabilite con decreto ministeriale,
non poteva essere frustrato dalla individuazione di
parametri minimi e massimi altrettanto obbligatori.
Il prontuario non è, poi, vincolante nei rapporti tra
cliente e professionista singolo, associato o società
professionale.
Nei rapporti interni sarà il contratto di prestazione di
opera intellettuale a determinare i compensi spettanti al
professionista, senza alcun obbligo di riferimento ai
parametri ministeriali.
Peraltro questo non significa che non vi sia alcuna regola
per la determinazione dei compensi in sede contrattuale. Si
pensi per la categoria degli avvocati, per i quali rimane
vigente la regola del codice deontologico forense, che
impone di non stabilire compensi eccessivi o sproporzionati.
La nuova situazione (abolizione delle tariffe obbligatorie e
individuazione di parametri per la liquidazione giudiziale),
unita al valore del preventivo e del contratto di
conferimento di incarico, potrà spingere i professionisti
singoli o associati e le società professionali a costruire
un proprio prezziario, da riversare nelle scritture
contrattuali, e da utilizzare anche nella pubblicità
informativa consentita dalle norme deontologiche. Il
prontuario si caratterizza per tutte le categorie
professionali per una spiccata semplificazione e
onnicomprensività. Per gli avvocati si abbandona un sistema
articolato in diritti e onorari rapportati alle autorità
giudiziarie procedenti e al valore della causa, in cui sia i
diritti che gli onorari elencavano ogni singola prestazione:
dalla formazione del fascicolo alla corrispondenza con parti
e controparti, dalla stesura degli atti di causa alla
notificazione della sentenza, e così via.
I parametri individuano alcune fasi: di studio della
controversia; di introduzione del procedimento; istruttoria;
decisoria; esecutiva. In relazione a ciascuna fase il
parametro è onnicomprensivo, anche se suscettibile di
aumenti e diminuzioni. La semplificazione riguarda anche il
procedimento di ingiunzione e il precetto. In quest'ultimo
caso è l'avvocato che redige l'atto, che avvia l'esecuzione
forzata: i parametri ministeriali individuano quattro
scaglioni con relativo compenso onnicomprensivo. I parametri
per gli avvocati mandano, dunque, in soffitta sia i diritti
che gli onorari e individuano una unica voce di compenso.
L'importo conteggiato dal giudice sarà comunque
onnicomprensivo per la prestazione professionale, incluse le
attività accessorie alla stessa.
Nei compensi, determinati dal regolamento, non sono comprese
le spese da rimborsare secondo qualsiasi modalità: le parti
possono anche mettersi d'accordo per il rimborso in modo
forfettario. Non sono compresi oneri e contributi dovuti a
qualsiasi titolo. Mentre sono compresi i costi degli
ausiliari incaricati dal professionista.
Quando l'incarico professionale è conferito a una società
tra professionisti, si applica il compenso spettante a uno
solo di essi anche per la stessa prestazione eseguita da più
soci.
Una importante novità, che vale per tutti i professionisti,
riguarda il preventivo. L'assenza di prova del preventivo di
massima (articolo 9, comma 4, terzo periodo, del decreto
legge 1/2012) costituisce elemento di valutazione negativa
da parte dell'organo giurisdizionale per la liquidazione del
compenso (articolo ItaliaOggi del
23.08.2012). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
VARI: Patente
valida fino al compleanno. Il termine allineato con la carta
d'identità per i titoli nuovi o rinnovati.
IL DIVERBIO/ La Motorizzazione si era espressa contro la
regola ma è stata contraddetta dalla Funzione pubblica.
Scadenza che coincide con il giorno del compleanno e rinnovo
semplificato per gli ultraottantenni. Sono le ultime novità
sulle patenti di guida, in attesa della raffica di ulteriori
modifiche attese per il 19.01.2013, quando entrerà in vigore
il Dlgs 59/2011, che recepisce le ultime due direttive
europee sulla materia (la 2006/126 e la 2009/113)
introducendo fra l'altro una vera e propria patente (la AM)
anche per ciclomotori e quadricicli leggeri (si veda la
scheda a destra).
Come ha stabilito l'articolo 7 del decreto semplificazioni
(Dl 5/12), la scadenza dei documenti d'identità e
riconoscimento emessi o rinnovati dal l'entrata in vigore
della norma (10.02.2012) non coincide più con la data del
rilascio, ma slitta a quella del compleanno successivo.
Visto che la patente è anche un documento che attesta
l'idoneità alla guida, il 5 marzo (circolare 6193) la
Motorizzazione ha chiarito che non riteneva si dovessero
applicarvi queste nuove regole e che quindi avrebbe adeguato
la propria prassi.
Dunque, anche le patenti rinnovate o rilasciate sinora
riportano una scadenza determinata secondo il Codice della
strada: per esempio, una licenza B di una persona sotto i 50
anni vale dieci anni (dalla data di rilascio se è nuova,
dalla data della visita medica di convalida se è rinnovata).
Ora occorre fare i conti con l'interpretazione diversa
fornita dal ministro della Funzione pubblica, Filippo
Patroni Griffi, con la
circolare 20.07.2012 n. 7/2012,
pubblicata pochi giorni fa (si veda Il Sole 24 Ore del 21
agosto), che estende alla patente la "regola del
compleanno". Nei prossimi giorni dovrebbero arrivare
chiarimenti della Motorizzazione per capire da quale data le
licenze rilasciate o rinnovate avranno la scadenza
determinata in base al nuovo criterio. Si dovrà anche vedere
come risolvere il problema dei documenti emessi dal 10
febbraio, che hanno scadenza allineata al giorno del
rilascio o del rinnovo.
Nel frattempo, si può dire che: ...
(articolo Il
Sole 24 Ore del 24.08.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
VARI:
La patente scade al compleanno. Ma fanno
eccezione i documenti per gli autisti e i malati. Circolare
della presidenza del consiglio smentisce l'interpretazione
restrittiva dei Trasporti.
Anche la patente di guida (come la carta
d'identità) scadrà il giorno del compleanno ma questa novità
non si applicherà alle patenti superiori (per camion,
corriere ecc.) e a quelle con durata limitata (per esempio
per motivi medici). In ogni caso l'allineamento non sarà
automatico e richiederà l'aggiornamento della licenza di
guida.
In altre parole, il documento inizialmente scadrà alla data
naturale e sarà poi rinnovato con scadenza il giorno del
compleanno.
Lo ha affermato la presidenza del consiglio dei ministri con
la
circolare 20.07.2012 n. 7/2012, appena divulgata,
che ribalta le indicazioni di segno opposto fornite dal
ministero dei trasporti.
L'art. 7 del dl 5/2012 dispone che i documenti di identità e
di riconoscimento di cui all'art. 1, comma 1, lett. c), d)
ed e), del dpr n. 445 del 28.12.2000 sono rilasciati o
rinnovati con validità fino alla data del compleanno del
titolare immediatamente successiva alla scadenza che sarebbe
altrimenti prevista per il documento stesso. Si tratta dei
documenti di riconoscimento e d'identità rilasciati o
rinnovati dopo il 10.02.2012, data di entrata in vigore del
decreto legge. Da subito erano stati avanzati dubbi sulla
possibilità di ricomprendere le patenti fra i documenti
soggetti alla semplificazione imposta dalla novella (si veda
ItaliaOggi del 21/02/2012).
E il ministero delle infrastrutture e dei trasporti, con la
circolare n. 6193 del 05.03.2012 aveva precisato a chiare
lettere che alla patente di guida non si applica
l'allineamento della scadenza al compleanno dell'interessato
(si veda ItaliaOggi del 07/03/2012). Infatti occorre
considerare che in materia di durata di validità delle
patenti di guida le norme del decreto legislativo n.
285/1992 sono speciali rispetto alle norme del decreto legge
n. 5/2012. Inoltre, la materia è disciplinata
dettagliatamente dalla normativa comunitaria, di volta in
volta recepita dall'ordinamento interno.
Precisamente, l'iniziale facoltà d'imporre liberamente le
disposizioni nazionali in materia di durata di validità,
originariamente consentita dalla direttiva 91/439/Cee del
29.07.1991 del consiglio, è stata poi superata dalla
direttiva 2006/126/Ce del 20.12.2006 del Parlamento europeo
e del consiglio, che ha fissato limiti precisi per la durata
della licenza di guida, derogabili solo previa consultazione
della commissione. Tali vincoli temporali sono stati
definiti concretamente dal decreto legislativo di attuazione
n. 59 del 18.04.2011, che, fra l'altro, introduce modifiche
dell'art. 126 del codice della strada con disposizioni
applicabili dal 19.01.2013. Ora, però, con la circolare n. 7
del 20.07.2012 la presidenza del consiglio di ministri
interpreta in senso estensivo la portata dell'art. 7 del dl
5/2012, affermando che la nuova regola che fissa la scadenza
dei documenti in coincidenza con la data del compleanno si
applica anche alle patenti di guida.
A parere della presidenza del consiglio dei ministri il
legislatore comunitario non impone alcuna corrispondenza tra
il giorno e il mese indicati nel riquadro relativo alla data
di rilascio e quelli indicati nel riquadro relativo alla
data di scadenza. Secondo quanto affermato nella circolare
n. 7/2012, la coincidenza della data di scadenza della
patente con quella di nascita del titolare non si pone in
contrasto con l'ordinamento comunitario, in quanto la
direttiva fissa unicamente il limite massimo (pari a
quindici anni) del periodo di validità amministrativa delle
patenti, senza imporre una coincidenza tra la data di
rilascio e quella di scadenza.
Peraltro, prosegue la nota, la disposizione di cui all'art.
7 del dl 5/2012 non si applica alle patenti rilasciate per
le categorie superiori C e D, a quelle la cui durata è
fissata in misura ridotta, rispetto alla durata ordinaria,
dalla commissione medica legale, e alla carta di
qualificazione del conducente.
Dunque, secondo la presidenza, l'allungamento della scadenza
della patente fino alla data del compleanno si applica alle
patenti di categoria AM, A1, A, B1, B e BE che hanno una
durata ordinaria, comunque solo in sede di primo rilascio o
rinnovo del documento (articolo
ItaliaOggi del 21.08.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
VARI:
Burocrazia. In una circolare della
Funzione pubblica l'equiparazione agli altri documenti
d'identità.
La patente scade al compleanno
I LIMITI/ Il termine vale per i nuovi documenti o quelli da
portare a rinnovo ma non per le licenze di guida dei mezzi
pesanti.
Contrordine: anche la patente scadrà il giorno del
compleanno. È l'indicazione più importante tra quelle date
dalla
circolare 20.07.2012 n. 7/2012
firmata dal ministro della Funzione pubblica, Filippo
Patroni Griffi, per chiarire come va applicato
l'allineamento (previsto lo scorso febbraio dal decreto
semplificazioni, Dl 5/12) della scadenza dei documenti di
identità e riconoscimento alla data di nascita del titolare.
La circolare –emanata il 20 luglio col numero di protocollo
Dfp 0029981P e resa nota sul sito web della Funzione
pubblica solo ora– chiarisce anche che tra questi documenti
rientrano pure le tessere di riconoscimento rilasciate dalle
amministrazioni dello Stato, che l'allineamento al
compleanno non vale per le patenti superiori (C e D) e che
il calcolo della nuova scadenza va effettuato prolungandola
fino al giorno del compleanno salvo che nei casi di rinnovo
tardivo dei documenti.
Era già evidente nel testo dell'articolo 7 della norma, ma
la circolare ribadisce che le novità si applicano solo sui
documenti rilasciati ex novo o rinnovati a partire dalla
data di entrata in vigore del decreto semplificazioni (il 10
febbraio scorso).
L'indicazione più importante è quella sulla validità della
patente, perché finora la Motorizzazione ha continuato ad
applicare alla licenza di guida le regole consuete: una
prima scadenza che arriva il giorno corrispondente a quello
del primo rilascio e quelle successive che coincidono con la
data di effettuazione della visita di rinnovo. Una prassi
giustificata dal fatto che la patente non è solo un
documento di riconoscimento, ma anche di abilitazione alla
guida e sotto quest'ultimo profilo si era ritenuto che tutto
restasse invariato (si veda anche «Il Sole 24 Ore»
del 21 febbraio).
Ora la Funzione pubblica argomenta che l'articolo 7 del
decreto non confligge con la normativa in materia di
patenti, che il Codice della strada è allineato alla
direttiva europea 2006/126, la cui entrata in vigore in
Italia è fissata per il 19.01.2013 (come ha stabilito il
Dlgs 59/2011 di recepimento, che ha inserito le nuove norme
nel Codice). La direttiva –si osserva nella circolare– si
limita a stabilire che la durata di validità delle patenti
fino alla BE non può superare i 15 anni e «non impone
alcuna corrispondenza tra il giorno e il mese indicati nel
riquadro (della patente, ndr) relativo alla data di rilascio
e quelli indicati nel riquadro relativo alla data di
scadenza».
Resta il problema del rapporto tra il decreto
semplificazioni e il Codice della strada. Si può infatti
ritenere che il decreto sia una norma generale e il Codice
una speciale che, per principio, deroga a quella generale.
La Funzione pubblica ritiene invece che il problema non si
ponga, perché il decreto è a sua volta una norma speciale.
Questa interpretazione si basa sul fatto che il decreto vale
solo per i primi rilasci e i rinnovi successivi alla sua
entrata in vigore.
Per la Motorizzazione si apre quindi il problema di
adeguarsi a questa nuova interpretazione. Da valutare anche
il regime da applicare a chi ha ottenuto o rinnovato la
patente dal 10 febbraio ad oggi e non ha una scadenza
allineata al compleanno.
Va comunque precisato che questi problemi non si pongono per
le patenti soggette a regole particolari, come quelle
superiori (C, CE, D, DE) e quelle con durata ridotta
rispetto a quella ordinaria per le licenze dello stesso tipo
(accade quando si ha un problema fisico tale da imporre il
passaggio in Commissione medica legale).
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Le altre novità
01 | RINNOVO RITARDATO
Normalmente, l'allineamento al compleanno va calcolato in
modo favorevole al cittadino: si determina la nuova scadenza
del documento in base alle regole consuete e si aggiungono i
giorni che restano fino alla data di nascita. Ma non per chi
rinnova in ritardo: in questo caso, invece di aggiungere, si
sottrae. Consideriamo l'esempio di un documento con validità
decennale di una persona che compie gli anni il 20.10.2012 e
lo rinnova il 15.01.2013: la nuova scadenza non sarà al
20.10.2023 ma al 20.10.2022
02 | PATENTI INFERIORI
L'allineamento al compleanno vale solo per le patenti che
non sono soggette a regole particolari. La circolare della
Funzione pubblica le elenca una per una: AM (quella per
ciclomotori e quadricicli leggeri, che sostituirà il
certificato d'idoneità alla guida per i nuovi rilasci dal 19
gennaio 2013), A1, A, B1 (per quadricicli sotto i 400 chili
e i 15 kiloWatt di potenza, anch'essa partirà il 19 gennaio
e servirà) e BE
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Vera semplificazione. L'alternativa
percorribile: l'avviso a casa.
L'intenzione è lodevole: evitare che si guidi con la patente
scaduta, visto che da quando è stato abolito il bollo
annuale su questo documento (1998) la gente non ha più
occasione di controllare la scadenza e bisogna essere
davvero scrupolosi per ricordarsene. Lo dimostra la rivolta
che si scatenò nel 2000, quando fu introdotto il fermo
amministrativo del veicolo per chi guidava con patente
scaduta; tanto che questa sanzione fu abolita nel giro di
pochi mesi.
Detto questo, la soluzione di allineare la scadenza al
compleanno è sensata, ma apre alcune questioni giuridiche,
che ora si spera non diano problemi. E resta il dubbio che
non ci fossero altre soluzioni più semplici e pure più
comode. Come mandare un avviso a casa del cittadino, quando
ci si avvicina alla scadenza. Lo si è anche valutato, ma
costava circa un euro per volta e non c'erano i fondi. Molti
cittadini sarebbero anche disposti a pagare in più, ma per
le contorte regole della contabilità pubblica non è facile
aumentare la tariffa. Così non resta che affidarsi a
internet: ci sono siti –pubblici e privati– in cui si
registrano i propri dati e si viene avvisati automaticamente
(articolo
Il Sole 24 Ore del 21.08.2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Congedi
biennali, fatta chiarezza. Definiti i requisiti, soggetti
legittimati e possibili cumuli.
Nella circolare del ministro Patroni Griffi tutte le
specifiche per la fruizione del trattamento.
La fruizione del congedo straordinario retribuito, per un
periodo massimo di due anni nell'arco della vita lavorativa,
finalizzato all' assistenza di un parente disabile in
situazione di gravità, di cui ai commi 5 e 5-quinquies
dell'art. 42 del decreto legislativo n. 151/2001, non
presenta più zone d'ombra.
La
circolare 03.02.2012 n. 1 del Dipartimento della Funzione
Pubblica, firmata dal ministro per la pubblica
amministrazione e la semplificazione, Filippo Patroni
Griffi, ed elaborata a seguito di un lavoro istruttorio di
confronto con il ministero del lavoro, l'Inps/Inpdap
fornisce, infatti, una serie di precisi chiarimenti circa i
soggetti legittimati alla fruizione del congedo, le modalità
di fruizione, la durata del congedo e il trattamento
economico spettante.
I chiarimenti non potranno che favorire in tutte le
istituzioni scolastiche una corretta e omogenea applicazione
dell'istituto e prevenire ulteriori conflitti tra personale
e dirigenti scolastici.
Soggetti legittimati
Sono legittimati alla fruizione del congedo e in ordine di
priorità:coniuge convivente della persona in situazione di
handicap grave; padre o madre, anche adottivi o affidatari,
della persona in situazione di handicap grave, in caso di
mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti del
coniuge convivente; uno dei figli conviventi della persona
in situazione di handicap grave, nel caso in cui il coniuge
convivente ed entrambi i genitori del disabile siano
mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti; uno
dei fratelli o sorelle conviventi nel caso in cui il coniuge
convivente, entrambi i genitori ed i figli conviventi della
persona in situazione di handicap grave siano mancanti,
deceduti o affetti da patologie invalidanti.
Poiché l'ordine dei soggetti possibili beneficiari è stato
indicato direttamente ed espressamente dalla legge, tale
ordine, si legge nella circolare, non è da ritenere
derogabile.
Ne consegue che non è possibile accogliere dichiarazioni di
rinuncia alla fruizione al fine di fare scattare la
legittimazione al soggetto successivo. Tranne che per i
genitori, il diritto al congedo è subordinato alla
sussistenza della convivenza.
La convivenza
Importante anche il chiarimento in tema del requisito della
convivenza. Ribadito che, tranne che per i genitori, il
diritto al congedo è subordinato alla sussistenza della
convivenza, la circolare precisa che la convivenza deve
essere provata mediante la produzione di dichiarazioni
sostitutive dalle quali risulti la concomitanza della
residenza anagrafica e della convivenza, ossia della
coabitazione. Al fine di venire incontro all'esigenza di
tutela delle persone disabili, il requisito della convivenza
si può intendere soddisfatto anche nel caso in cui la dimora
abituale del dipendente e della personale in situazione di
handicap grave siano nello stesso stabile( appartamenti
distinti nell'ambito dello stesso numero civico) ma non
nello stesso interno. Potrà inoltre ritenersi soddisfatto
anche nei casi in cui sia attestata, mediante la
dichiarazione sostitutiva, la dimora temporanea, ossia
l'iscrizione nello schedario della popolazione temporanea di
cui all'art. 32 del decreto 223/1989, pur risultando diversa
la dimora abituale (residenza) del dipendente o del
disabile.
La fruizione
Nella circolare viene preliminarmente ribadito che il
congedo potrà essere fruito anche in modo frazionato, ma che
tale frazionamento potrà riguardare solo giorni interi e non
ore. Di rilevante interesse anche in tema di computo nel
periodo di congedo dei giorni festivi, delle domeniche e dei
sabati nel caso in cui l'articolazione dell'orario di
servizio è su cinque giorni, come avviene per la maggioranza
delle istituzioni scolastiche. Affinché tali giorni non
vengano computati nel periodo di congedo, è necessario che
si verifichi l'effettiva ripresa del lavoro al termine del
periodo di congedo richiesto. Tali giornate, si sottolinea
nella circolare, non saranno comunque conteggiate nel caso
in cui la domanda di congedo sia stata presentata dal lunedì
al venerdì, se il lunedì successivo si verifica la ripresa
dell'attività di servizio, ovvero una assenza per malattia
del dipendente o della persona che si assiste.
Identico trattamento si applica nel caso in cui il
dipendente fruisca di un rapporto di lavoro a part-time. Se
il part-time è verticale, il conteggio delle giornate dovrà
essere effettuato sottraendo i periodi in cui non è prevista
l'attività lavorativa, considerato che in tale ipotesi la
prestazione e la retribuzione del dipendente sono entrambe
proporzionate alla percentuale di part-time.
La durata
Di interesse altrettanto rilevante è la precisazione sulla
possibilità di cumulare il congedo retribuito per
l'assistenza ai disabili di cui trattasi con altri periodi
di congedo fruiti per gravi e documentati motivi familiari.
A prescindere dalla causa specifica per cui il congedo è
fruito, il periodo massimo nell'arco dell'attività
lavorativa del dipendente non potrà superare il limite dei
due anni.
Il trattamento
I periodi di congedo straordinario continuano a non essere
computati ai fini della determinazione di ferie, tredicesime
e trattamento di fine servizio o di fine rapporto. Sono
validi, invece, ai fini del calcolo dell'anzianità
pensionistica.
Durante il congedo il dipendente della scuola ha diritto a
percepire un'indennità lorda corrispondente all'ultima
retribuzione, ma con riferimento esclusivamente alle voci
fisse e continuative. Per il 2012 l'indennità lorda massima
è fissata in 45.472,00 (articolo
ItaliaOggi del 21.08.2012). |
NEWS |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nell'agenda di Palazzo Chigi.
Previsto anche il rafforzamento della
valutazione.
Statali, arriva la nuova stretta con riforma
Fornero e mobilità
SINDACATI IN ALLARME/ Le organizzazioni
chiedono al Governo di chiarire se
nell'agenda per la crescita c'è un altro
giro di vite sul pubblico impiego.
Mobilità, rafforzamento dei sistemi di
valutazione delle performance. E,
soprattutto, armonizzazione della riforma
Fornero sul lavoro con quella del pubblico
impiego entro la fine del'anno. Su queste
coordinate, in parte tracciate dalla prima
fase di spending review, dovrà essere
orientata la partita sul pubblico impiego.
Che è già considerata una delle più delicate
d'autunno. Anche se il ministro della
Pubblica amministrazione, Filippo Patroni
Griffi, continua a garantire che non sarà
alcun intervento invasivo. Ma la
riorganizzazione degli statali resta un
punto fermo anche nell'agenda del governo,
che è stata stilata venerdì dal premier
Mario Monti, alla fine di un lungo Consiglio
dei ministri. E i sindacati sono in allarme.
«Nell'agenda sulla crescita c'è
un'ulteriore stretta sugli statali che non
comprendiamo bene», afferma il leader
della Cisl, Raffaele Bonanni. Che aggiunge:
l'armonizzazione della riforma del mercato
del lavoro privato con quella del lavoro
pubblico, ribadita dal Consiglio dei
ministri di venerdì, «va chiarita fino in
fondo nel confronto tra governo e sindacati».
La tensione, insomma, sale. Fp-Cgil, Uil-Fpl,
Uil-Pa e Ugl hanno già indetto per il 28
settembre lo sciopero generale nel pubblico
impiego (al quale non aderisce la Cisl)
contro le misure contenute nella prima
spending review. Che, tra l'altro,
prevedono la riduzione degli organici (-20%
per i dirigenti e -10% per gli altri
dipendenti) con la creazione, secondo le
stime del governo, di 24mila esuberi.
Ma secondo la Cgil il numero degli esuberi
sarà sensibilmente superiore ... (articolo
Il Sole 24 Ore del 26.08.2012 -
tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI - ATTI
AMMINISTRATIVI:
P.a., trasparenza solo a cose fatte. Per
contributi sopra i 1.000 dati online a contratto siglato.
L'obbligo non sembra potersi
applicare prima che il provvedimento amministrativo sia
formato.
Le pubbliche amministrazioni che erogano
somme superiori a 1.000 euro a titolo di contratti o
contributi di qualunque tipo, devono far precedere queste
erogazioni dalla pubblicazione sul proprio sito internet di
una serie di informazioni tra le quali il nome del
beneficiario e i suoi dati fiscali; la norma o il titolo a
base dell'attribuzione; l'ufficio e il funzionario o
dirigente responsabile del relativo procedimento
amministrativo.
Se non vengono rispettate queste regole, le erogazioni sono
illegittime e ne va di mezzo, a titolo di responsabilità
patrimoniale, il funzionario che non le ha fatte rispettare.
Le nuove regole previste dal decreto sviluppo scatteranno
dall'01.01.2013. Ma le amministrazioni ancora non sanno se
la pubblicazione va effettuata prima ancora di formare il
provvedimento amministrativo alla base dell'erogazione del
contributo o subito dopo.
A partire dall'01.01.2013, la norma sulla cosiddetta «amministrazione
aperta» introdotta dal dl 83/2012, convertito in legge
134/2012 introduce un nuovo adempimento burocratico
(nonostante sia qualificata come norma di semplificazione)
di fondamentale importanza per la legittimità dei
procedimenti amministrativi. Il primo periodo del comma 5
dell'articolo 18 del «decreto sviluppo» stabilisce
infatti che «a decorrere dall'01.01.2013, per le
concessioni di vantaggi economici successivi all'entrata in
vigore del presente decreto-legge, la pubblicazione ai sensi
del presente articolo costituisce condizione legale di
efficacia del titolo legittimante delle concessioni e
attribuzioni di importo complessivo superiore a 1.000 euro
nel corso dell'anno solare previste dal comma 1, e la sua
eventuale omissione o incompletezza è rilevata d'ufficio
dagli organi dirigenziali e di controllo, sotto la propria
diretta responsabilità amministrativa, patrimoniale e
contabile per l'indebita concessione o attribuzione del
beneficio economico».
Quanto stabilisce la norma apparentemente è chiaro. Ma si
pone, invece, il problema di stabilire quando, in realtà, la
pubblicazione vada effettuata, se cioè prima ancora di
formare il provvedimento amministrativo alla base della
stipulazione del contratto o dell'erogazione del contributo
o dopo.
Non è una questione di poco conto, perché i dati da inserire
nel portale delle amministrazioni, ai sensi del comma 2
dell'articolo 18 sono parecchi: a) il nome dell'impresa o
altro soggetto beneficiario e i suoi dati fiscali; b)
l'importo; c) la norma o il titolo a base dell'attribuzione;
d) l'ufficio e il funzionario o dirigente responsabile del
relativo procedimento amministrativo; e) la modalità seguita
per l'individuazione del beneficiario; f) il link al
progetto selezionato, al curriculum del soggetto incaricato,
nonché al contratto e capitolato della prestazione,
fornitura o servizio.
Molti degli elementi richiesti sono ricavabili dal
provvedimento a contrattare o finalizzato alla concessione
del contributo, ma ovviamente il contratto sarà disponibile
solo una volta conclusa la fase di individuazione del
contraente.
Letteralmente, la disposizione prevede che la pubblicazione
prevista sia condizione legale di efficacia del titolo
legittimante. Si deve intendere per titolo legittimante
appunto il contratto o l'atto di regolazione del contributo
concesso.
Pare necessario, allora, concludere che l'amministrazione
possa legittimamente andare avanti con la procedura di gara
o di selezione del destinatario del contributo senza
pubblicare alcun dato fino alla stipulazione del contratto o
dell'atto convenzionale che legittima l'erogazione (si
ricorda che i provvedimenti a contrattare o che acconsentano
all'erogazione costituiscono meri atti interni e non sono
titoli validi per far suscitare il rapporto obbligatorio col
destinatario).
L'adempimento della pubblicazione, dunque, appare potersi e
doversi effettuare subito dopo la stipulazione del contratto
o la formazione di altro titolo per l'erogazione
(convenzione che disciplini l'erogazione di contributi, ad
esempio). Solo una volta formatosi il «titolo»,
infatti, la sua efficacia può risultare «condizionata».
Poiché la pubblicazione prevista dall'articolo 18 del
decreto sviluppo è una condizione di efficacia, il dirigente
o il responsabile del procedimento materialmente non potrà,
nel caso di contratti ad esempio, ordinare l'avvio della
prestazione, se non si sia provveduto alla pubblicazione.
Si comprende, dunque, che l'onere burocratico ricadrà
prevalentemente, a seconda di come sono organizzati gli
enti, o sugli uffici che gestiscono in modo accentrato
l'attività contrattuale; oppure su ciascun responsabile del
procedimento, se la scelta organizzativa è quella di
decentrare la gestione (articolo
ItaliaOggi del 25.08.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Stretta Ue sulla raccolta dei rifiuti
elettrici.
Aumentato l'obiettivo di raccolta dei
Rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee):
entro l'anno 2016 bisognerà raccogliere 45 tonnellate di
Raee per ogni 100 di nuovi apparecchi elettronici immessi
sul mercato. Dal 2019, l'obiettivo verrà ulteriormente
innalzato a 65 tonnellate su 100.
Questo è quanto prevede, la
DIRETTIVA 2012/19/UE DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO
del 04.07.2012 pubblicata, sulla Gazzetta Ufficiale
dell'Unione europea L 197/38 del 24.07.2012. Il
provvedimento è entrato in vigore dal 13 agosto. Le nuove
regole europee hanno presentato un nuovo modo di calcolare i
tassi di raccolta, non più basati sui classici chilogrammi
per abitante.
È invece valida la quantità di rifiuti raccolti considerando
la media delle apparecchiature nei tre anni precedenti.
Altra novità introdotta dalla direttiva comunitaria, il
cosiddetto ritiro «uno contro zero» per i rifiuti
elettronici di piccole dimensioni. I vari distributori
devono in sostanza provvedere al ritiro gratuito degli
apparecchi anche in assenza di un prodotto nuovo equivalente
(ritiro «uno contro uno»).
Gli stati membri avranno 16 mesi di tempo per adeguarsi alle
novità, che dovranno essere recepite entro il 14.02.2014
allorquando scatterà l'abrogazione della direttiva
2002/96/CE del 27.01.2003, recepita in Italia
-congiuntamente alla direttiva 2002/95/CE sulla riduzione
dell'uso di sostanze pericolose nelle apparecchiature
elettriche ed elettroniche- attraverso il dlgs 25.07.2005,
n. 151 (articolo ItaliaOggi del 25.08.2012). |
CONDOMINIO:
I condomini fotovoltaici? Come i
commercianti.
I condomini che realizzano negli spazi condominiali un
impianto fotovoltaico di potenza superiore a 20 kw o che
cedono, a fini commerciali, tutta l'energia prodotta con
impianti fino a 20 kw, si configurano dal punto di vista
fiscale come società di fatto e come tali realizzano un
reddito d'impresa.
Più precisamente, poiché la realizzazione dell'impianto
fotovoltaico per fini commerciali rientra tra le
«Innovazioni» che i condomini possono disporre ai sensi
dell'art. 1120 del codice civile «(_) dirette al
miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento
delle cose comuni» sono considerati soci della società di
fatto i condomini che hanno deliberato con la maggioranza
richiesta dall'art. 1136 del codice civile, la realizzazione
dell'investimento. Restano esclusi dalla società di fatto i
condomini che non hanno approvato la decisione e che non
intendono trarre vantaggio dall'investimento.
In questo caso gli stessi, sulla base di quanto disposto
dall'art. 1121, primo comma, ultima parte, del codice civile
«sono esonerati da qualsiasi contributo di spesa». La
società di fatto tra condomini che gestisce un impianto
fotovoltaico è commerciale e deve emettere fattura nei
confronti del Gse, in relazione all'energia che immette in
rete. Il Gse che eroga la tariffa incentivante deve operare
nei confronti della società di fatto la ritenuta del 4%
(art. 28 del dpr n. 600 del 1973) sulla tariffa relativa
alla parte di energia immessa in rete. Ai fini delle imposte
dirette e dell'Iva, la società di fatto tra condomini
diventa, dunque, soggetto d'imposta autonomo e quindi è
tenuto a redigere un'autonoma dichiarazione dei redditi e
un'autonoma dichiarazione Iva.
Sono questi i principali chiarimenti forniti dai tecnici
delle Entrate con la
risoluzione
10.08.2012 n. 84/E.
Si ha una società di fatto in presenza di una intesa verbale
oppure quando si ha un comportamento concludente idoneo a
dimostrare l'intento collettivo delle parti di stipulare un
accordo per l'esercizio di un'attività imprenditoriale. La
sussistenza di un elemento oggettivo, rappresentato dal
conferimento di beni o servizi finalizzato alla formazione
di un fondo comune, e di un elemento soggettivo, costituito
dalla comune intenzione dei contraenti di vincolarsi e di
collaborare allo scopo di conseguire risultati patrimoniali
comuni, identifica, infatti, un contratto sociale.
Pertanto, a prescindere dalla modalità con cui si perfeziona
il contratto sociale, che può anche risultare esclusivamente
da manifestazioni esteriori dell'attività di gruppo, la
presenza della contemporanea sussistenza dei suddetti
presupposti oggettivo e soggettivo presuppone l'esistenza di
una qualunque società.
Nella fattispecie in esame sottolineano i tecnici delle
Entrate, si è in presenza di un accordo che interviene tra i
condomini caratterizzato da un elemento oggettivo,
rappresentato dal conferimento di beni e servizi, vale a
dire dall'impianto fotovoltaico e dagli spazi comuni, e da
un elemento soggettivo, dato dalla comune intenzione di
voler conseguire dei proventi (articolo ItaliaOggi del
25.08.2012). |
CONDOMINIO:
Cassazione. Quando le auto rendono
difficoltoso il passaggio. Vietato il parcheggio nel viale
del condominio.
La sosta nella stradina condominiale è vietata: anche se lo
spazio la consentirebbe senza impedire il transito. Il
parcheggio da parte di alcuni abitanti del palazzo ha
l'effetto di rendere meno agevole la manovra per entrare e
uscire dalle autorimesse per i condomini più ligi che usano
la stradina solo per entrare o uscire dai box.
La Corte di cassazione, con la sentenza 14633, torna a
censurare le abitudini e le consuetudini che hanno come
effetto quello di limitare «il
pari diritto di godimento del bene comune da parte degli
altri condomini».
La Suprema corte si schiera dalla parte dei condomini più
disciplinati e respinge le proteste di quelli più
permissivi, secondo i quali «il vialetto veniva da anni
pacificamente utilizzato sia per la sosta che per il
transito delle vetture, in quanto la sua larghezza
consentiva entrambi gli usi». Per gli appartenenti alla
"fazione" della sosta libera non si trattava di
un'occupazione stabile degli spazi comuni ma solo di un uso
«eventuale e temporaneo».
Ma la Corte di cassazione dirime la lite di condominio in
punta di codice affermando che, in base all'articolo 1102
del codice civile, «il singolo condomino può servirsi
della cosa comune a patto che non ne alteri la destinazione
e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti
uso secondo il loro diritto».
Una limitazione che per la Suprema corte è provata sulla
base di un sopralluogo sul luogo del "crimine",
disposto dal Tribunale nel corso del primo grado di
giudizio. Con l'indagine in loco si era, infatti, appurato
che la manovra per entrare e uscire dal garage era meno
agevole, ed era inoltre indispensabile mettere le macchine "a
filo" per evitare i problemi che potevano sorgere in
caso di affiancamento di due vetture.
Per i giudici solo la restituzione del bene alla sua
destinazione naturale (il passaggio), consente il pari
godimento a tutti gli abitanti (articolo
Il Sole 24 Ore del 25.08.2012). |
ENTI LOCALI
- VARI:
Piano «bis» anti-burocrazia. Controlli
semplificati sulle imprese, taglio degli oneri del 30-40%.
VIA I VISTI «LOCALI» - Regioni e Comuni dovranno ridurre le
autorizzazioni per le attività produttive sotto la
sorveglianza diretta di Palazzo Chigi.
STRETTA SUGLI STATALI - Si punta all'armonizzazione della
riforma Fornero con quella del pubblico impiego. Maggiore
spinta alla mobilità per i dipendenti in esubero.
Un nuovo sistema semplificato di controlli sulle imprese,
fondato sulla "proporzionalità". Completamento anche
a livello regionale, comunale e provinciale del processo di
liberalizzazione delle attività produttive, con la
soppressione di visti, nulla-osta e autorizzazioni, su cui
vigilerà direttamente la presidenza del Consiglio.
Rivisitazione della Scia e riduzione dei costi per la
costituzione di Srl. Taglio degli oneri burocratici e di
almeno il 30-40% degli adempimenti a carico di cittadini e,
soprattutto, imprese. Ulteriore accelerazione della fase
attuativa del decreto Semplifica-Italia e varo in tempi
rapidi del regolamento sull'autorizzazione ambientale unica
per le Pmi. Sono questi gli assi portanti della fase 2 delle
semplificazioni amministrative, che dovrà contribuire a dare
una significativa spinta alla crescita.
Il pacchetto è stato messo a punto dal ministro della
Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi, in
collaborazione con i titolari di altri dicasteri, a
cominciare dal ministro dello Sviluppo economico, Corrado
Passera. L'obiettivo è velocizzare il più possibile la
macchina burocratica, fissando tempi certi per le procedure,
e diminuire gli adempimenti e gli oneri a carico degli
utenti, a partire dalle imprese. ... (articolo
Il Sole 24 Ore del 25.08.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI -
VARI:
Anagrafi via pec, in tribunale per le false dichiarazioni.
Dal 9 maggio scorso è più facile effettuare una pratica
anagrafica anche per via telematica con pec e firma
digitale. Ma è anche possibile finire in tribunale per false
dichiarazioni se l'interessato dichiara situazioni
dolosamente artificiali per eludere i controlli del comune
in materia di iscrizioni anagrafiche.
Lo ha ribadito la
polizia municipale di Torino con la circolare 12.07.2012 n. 83.
La sbandierata semplificazione in materia di
iscrizione anagrafica interferisce anche con i compiti della
polizia municipale, da sempre tradizionalmente dedicata ad
approfondire la conoscenza dei nuovi residenti con
sopralluoghi dedicati al reperimento sul campo delle
informazioni necessarie. Con il dl 5/2012, convertito nella
legge 35/2012, a decorrere dal 9 maggio si sono però
invertiti i termini dell'intervento dei vigili. Non più
sopralluoghi preventivi per verificare la reale
compatibilità della richiesta con lo stato dei fatti ma
successivi. L'ufficiale d'anagrafe ha infatti a disposizione
45 giorni per procedere alle verifiche del caso da
effettuarsi, d'ora in poi, successivamente alla
registrazione anagrafica.
In buona sostanza mentre prima
l'anagrafe attendeva il resoconto degli informatori per
procedere con la registrazione anagrafica dal 9 maggio la
procedura è stata invertita. Per meglio dettagliare le
incombenze della polizia locale il comando torinese ha
quindi diramato una circolare ad hoc. I cittadini possono
inoltrare la richiesta anche a mezzo fax o per via
telematica mediante l'utilizzo della posta elettronica
certificata e della firma digitale.
L'ufficiale d'anagrafe
entro due giorni lavorativi registra le dichiarazioni e
richiede alla polizia municipale gli opportuni accertamenti.
All'esito di queste verifiche potranno però nascere delle
brutte sorprese per i furbi. Specifica infatti la nota
torinese che in caso di dichiarazioni mendaci scatterà la
denuncia dell'interessato alla procura della repubblica per
i reati previsti dall'art. 76 del dpr 445/2000 ovvero falsa
attestazione a pubblico ufficiale ex art. 495 cp.
Attenzione a farsi trovare in casa dai vigili per evitare il
rigetto delle richieste. Spiega infatti la circolare che
dopo tre passaggi negativi della polizia urbana la pratica
sarà rigettata. Ma prima sarà inviato all'interessato un
preavviso di rigetto (articolo ItaliaOggi del 24.08.2012). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Esuberi indolore negli
enti locali.
Polillo: puntare sui prepensionamenti. Bilanci locali oscuri.
Il sottosegretario al Mef mette in
guardia: molti comuni stanno diventando la Grecia d'Italia.
Esuberi senza «macelleria sociale» negli enti locali. I 13
mila dipendenti di troppo che andranno sfoltiti dagli
organici di regioni, comuni e province saranno per gran
parte («oltre la metà») individuati tra coloro che stanno
per maturare i requisiti per il prepensionamento.
I conti comunque si faranno a fine anno, quando il governo
con dpcm individuerà il «giusto» livello medio delle
dotazioni organiche degli enti territoriali e chiederà alle
amministrazioni che si pongono al di sopra di questa
asticella di virtuosità di non assumere più personale (se lo
sforamento supera il 20%) o dare corso ai tagli (se lo
sforamento supera il 40%). In attesa di conoscere come
verranno spalmati i 24 mila esuberi preventivati
dall'esecutivo per tutto il pubblico impiego, il consiglio
ai comuni è di «limitare il più possibile le assunzioni,
soprattutto quelle fatte in modo surrettizio attraverso le
partecipate».
La reale tenuta dei bilanci locali preoccupa,
e non poco, il sottosegretario all'economia, Gianfranco Polillo, secondo cui la ricetta per accendere i riflettori
su alcune «gestioni allegre al limite del default» è solo
una: istituire un organismo indipendente di certificazione
dei bilanci. Perché l'idea, lanciata in un'intervista a ItaliaOggi (il 13 luglio scorso) dal presidente della Corte
dei conti, Luigi Giampaolino, di ripristinare i controlli
preventivi di legittimità, pur essendo «sacrosanta»,
è di difficile attuazione «in quanto richiederebbe una
modifica costituzionale». Mentre un freno va posto
subito visto che «molti enti locali sono diventati la
Grecia d'Italia» ...
(articolo ItaliaOggi del 24.08.2012). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Dividendi di efficienza
congelati.
Impossibile investire le risorse nei fondi per la
produttività. La legge 135 tenta di
rilanciare i premi individuali. Ma per gli enti non ci sono
molti margini.
La spending review rende sostanzialmente impossibile
investire nei fondi contrattuali per la produttività le
risorse ottenute da misure di risparmio adottate dalle
pubbliche amministra ai sensi dell'articolo 16, comma 5, del
dl 98/2011.
La disposizione prevede che per effetto di piani triennali
di riorganizzazione e riqualificazione della spesa
«eventuali economie aggiuntive effettivamente realizzate
rispetto a quelle già previste dalla normativa vigente»,
possano utilizzarsi annualmente, per non oltre il 50%
destinandole alla contrattazione integrativa, a condizione
che per almeno il 50% siano destinate ai premi di
produttività, secondo le fasce regolate dall'articolo 19 del dlgs 150/2009. Aggiunge l'articolo 16, comma 5 che, tali
risorse «sono utilizzabili solo se a consuntivo è accertato,
con riferimento a ciascun esercizio, dalle amministrazioni
interessate, il raggiungimento degli obiettivi fissati per
ciascuna delle singole voci di spesa previste nei piani di
cui al comma 4 e i conseguenti risparmi. I risparmi sono
certificati, ai sensi della normativa vigente, dai
competenti organi di controllo».
Il dl 95/2012, convertito in legge 135/2012 tenta di
rilanciare la possibilità di incrementare le risorse del
bilancio destinandole a premi individuali, all'articolo 5,
comma 11-quinquies, che costituisce una sorta di
sperimentazione per ripristinare la mai attuata valutazione
per fasce.
Il problema, tuttavia, consiste nel fatto che non vi sono
sostanzialmente margini per dare corso ai piani di
riorganizzazione e riqualificazione della spesa, in modo da
ricavare economie da riversare in parte alla contrattazione.
Non deve sfuggire che tali economie debbono essere
«aggiuntive» rispetto a quelle fissate dalla legislazione
vigente. Per fare solo due esempi, ciò significa che il
piano dovrebbe prevedere una riduzione della spesa per il
parco macchine superiore al 50% rispetto al 2011, oppure una
riduzione dei buoni pasto a una cifra inferiore ai 7 euro,
due tra le misure di recente introdotte dalla spending
review.
Fin qui, l'applicazione dell'articolo 16, comma 5, del
dl98/2011 non pare abbia avuto molta fortuna, sia perché
richiede l'attivazione delle fasce di valutazione (invise ai
sindacati), sia perché l'operazione di recupero di risparmi
ulteriori a quelli già imposti dalla legge è molto
complicata. Ma, la spending review rende i piani di
riqualificazione della spesa ancora più complessi. Infatti,
al di là di puntuali interventi, come nell'esempio dei buoni
pasto, la legge 135/2012 prevede per gli enti locali tagli
rilevantissimi ai servizi intermedi. Per le province, per
esempio, si parla di 1,5 miliardi di tagli tra il 2012 e il
2013, una media di 10 milioni di taglio a provincia,
mediamente il 15% del totale dei loro bilanci.
Si comprende che tra i tagli puntuali a singole voci di
spesa previsti dalla legge e ancor maggiori limitazioni alle
spese per servizi intermedi dovute ai fortissimi tagli ai
trasferimenti ai fondi statali, margini per ulteriori
risparmi di spesa da riversare alla contrattazione
sostanzialmente non ve ne sono o sarebbero soltanto
simbolici.
Insomma, la differenziazione delle retribuzioni di risultato
di dirigenti e dipendenti privi di qualifica dirigenziale
che il legislatore vorrebbe attivare con l'articolo 5, comma
11-quinquies, del dl 95/2012, convertito in legge 135/2012
pare da subito un'arma spuntata, destinata a restare solo
enunciazione di principio (articolo ItaliaOggi del 24.08.2012). |
ENTI LOCALI:
Superbiciclette per i comuni.
Pronto uno stock di 1.000 esemplari a pedalata assistita. Un bando del ministero dell'ambiente punta a incentivare la
mobilità sostenibile negli enti.
Parte la sperimentazione del prototipo di bicicletta a
pedalata assistita ad alto rendimento e a emissioni zero,
denominato «e-bike zero» e sviluppato da Ducati Energia.
L'avviso del ministero dell'ambiente consente ai comuni di
beneficiare di uno stock di 1.000 prototipi di bicicletta e
di fondi per sperimentarne l'utilizzo.
Obiettivo del bando è rafforzare e integrare le azioni di
mobilità sostenibile già adottate dai comuni per ridurre
l'inquinamento atmosferico e la congestione derivante dal
traffico veicolare, diffondere la cultura della mobilità
sostenibile e l'utilizzo di mezzi di trasporto a impatto
ambientale nullo per gli spostamenti quotidiani dei
cittadini nonché aggiornare gli strumenti di pianificazione
della mobilità nelle città. I comuni dovranno manifestare il
proprio interesse alla sperimentazione entro il 30.09.2012
Fino a 100 bici per ciascun comune. Per attuare la
sperimentazione, il ministero mette a disposizione dei
comuni un totale di 1.000 biciclette a pedalata assistita,
le quali saranno assegnate in lotti da dieci unità. Il
numero minimo di biciclette assegnabili a ciascun comune è
pari a 10, mentre il numero massimo è pari a 100.
Fondi per 1,2 milioni di euro a sostegno della
sperimentazione. Oltre ad assegnare i prototipi di
bicicletta, il ministero stanzia fondi per 1,2 milioni di
euro destinati a cofinanziare i costi direttamente legati
alle attività di sperimentazione e sviluppo di servizi che
utilizzano il prototipo di bicicletta a pedalata assistita.
I fondi saranno assegnati nella misura di 1.200 euro per
ciascuna bicicletta assegnata.
Il contributo servirà a
coprire i costi per la realizzazione degli info points,
costi del personale dei comuni impiegato nella
sperimentazione, costi delle attrezzature, dei materiali,
delle strumentazioni anche tecnologiche utilizzate per la
realizzazione a livello locale della sperimentazione.
Inoltre potrà coprire i costi di comunicazione e
disseminazione anche via web, costi del personale per le
attività amministrative e di supporto tecnico, costi del
personale per le attività di analisi, ricerca e monitoraggio
delle azioni per tutta la fase di sperimentazione. Infine
finanzierà i costi del personale per le attività di
formazione tecnica specialistica e i costi di assicurazione
dei prototipi.
Beneficiari i comuni sopra 30 mila abitanti. Possono
presentare manifestazione di interesse i comuni con una
popolazione pari o superiore a 30 mila abitanti che siano
riconosciuti come comuni capoluogo di aree metropolitane ai
sensi dell'art. 22 del dlgs 18.08.2000, n. 267 oppure
non siano riconosciuti come comuni capoluogo di aree
metropolitane ai sensi dell'art. 22 del dlgs 18.08.2000,
n. 267 ma siano comunque individuati dalle regioni e dalle
province autonome nelle liste di zona e di agglomerati nelle
quali il livello di uno o più inquinanti eccedano il valore
limite aumentato del margine di tolleranza.
Inoltre, i
comuni devono aver già partecipato ai progetti predisposti
dal ministero e da Anci per il monitoraggio degli interventi
di tipo ambientale e in favore della mobilità sostenibile
sul territorio nazionale. La manifestazione di interesse
deve essere corredata dalla delibera di giunta comunale con
la quale il comune delibera l'interesse a partecipare alla
sperimentazione.
Possibile destinare le bici al personale comunale o a
servizi di bike sharing. Nella manifestazione di interesse i
comuni dovranno indicare i servizi, i soggetti o le figure
professionali cui saranno assegnate le biciclette. Si potrà
scegliere tra area politico-istituzionale quali sindaci,
assessori, agenti di polizia municipale, dipendenti
comunali; area socio-culturale quali rappresentanti delle
associazioni, fondazioni, organizzazioni; area professionale
quali manager, direttori di banca, rappresentanti delle
associazioni di categoria; area istruzione quali direttori,
presidi, rettori, professori; area servizi inteso come
servizio di bike sharing; altro (articolo ItaliaOggi del 24.08.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Paletti ai gruppi unipersonali.
Ammessi solo se il consigliere è l'unico eletto di una lista.
La materia è regolata dal
Tuel che però lascia spazio all'autonomia organizzativa
degli enti.
Quali norme regolano la costituzione dei gruppi consiliari?
La materia dei gruppi consiliari è regolata dalle apposite
norme statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti
locali nell'ambito dell'autonomia organizzativa dei
consigli, riconosciuta espressamente agli stessi dall'art.
38, comma 3, del Tuel n. 267/2000. In linea di principio
sono ammissibili i mutamenti che possono sopravvenire
all'interno delle forze politiche presenti in consiglio
comunale, per effetto di dissociazioni dall'originario
gruppo di appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi
gruppi consiliari, ovvero l'adesione a diversi gruppi
esistenti.
Tuttavia, sono i singoli enti locali, nell'ambito della
propria potestà di organizzazione, i titolari della
competenza a dettare norme, statutarie e regolamentari,
nella materia e le relative problematiche dovrebbero trovare
adeguata soluzione nella specifica disciplina di cui l'ente
stesso si è dotato.
Nel caso di specie, la questione riguarda la possibilità di
un consigliere di tornare ad appartenere ad un gruppo i cui
tre componenti, compreso lo stesso, dopo averlo regolarmente
costituito ai sensi delle norme statutarie, «entro dieci
giorni dalla data di convalida degli eletti», si sono
determinati a costituire un gruppo diverso. Sembrerebbe,
pertanto, venuto a cessare, all'interno del consiglio
comunale, il gruppo originale in quanto tutti i componenti
hanno costituito il nuovo gruppo consiliare.
Peraltro, nella fattispecie, lo statuto del comune prevede
che, successivamente al termine su indicato, sia possibile
esclusivamente «la costituzione di nuovi gruppi quando non
meno di tre consiglieri si dissociano dal o dai gruppi cui
avevano originariamente aderito e dichiarino di voler
costituire il nuovo gruppo». Secondo le norme statutarie e
regolamentari richiamate, invece, i gruppi unipersonali, per
quanto riguarda l'ipotesi del consigliere che solo si è
distaccato dal gruppo ultimo costituito, sarebbero ammessi
solo se coincidenti con l'unico consigliere eletto in una
lista, mentre non potrebbe costituire un gruppo l'unico
consigliere che rappresenti la lista dopo il distacco degli
altri componenti.
Non è, invece, consentita, nel corso della consiliatura,
come nel caso di specie, la costituzione di un gruppo
formato da una sola persona, qualora lo statuto preveda che
«è consentita la costituzione di un gruppo misto, se a
comporlo siano almeno tre consiglieri».
In tal caso «il singolo consigliere che fuoriesca dal gruppo
di appartenenza ha una sola alternativa: confluire in altro
gruppo costituito, ma non può autonomamente formare un nuovo
gruppo consiliare» (Tar Sicilia–Palermo sentenza n. 1462
del 2003).
Peraltro, in relazione alla mancata previsione di costituire
gruppi c.d. unipersonali, la giurisprudenza ha ritenuto
legittima la norma regolamentare che prevede un numero
minimo di componenti per la formazione di un gruppo
nell'ambito del consiglio comunale, rientrando dunque, nella
scelta discrezionale dello stesso consiglio stabilire il
minimum necessario per la costituzione del gruppo (Tar
Sicilia ult.cit.).
Solo il consiglio comunale, nella sua autonomia e in quanto
titolare della competenza a dettare le norme cui conformarsi
in tale materia, è abilitato a fornire un'interpretazione
autentica delle proprie norme statutarie e regolamentari (articolo ItaliaOggi del 24.08.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
VARI:
Grupponi in bici solo in sicurezza. I
Trasporti: servono le luci e i campanelli.
Sono fuori legge i gruppi di ciclisti in tenuta sportiva che
circolano affiancati sulle strade carrabili con biciclette
da corsa e mountain bike senza dispositivi di segnalazione
visiva e campanelli. Una deroga particolare è infatti
prevista dal codice stradale solo in caso di competizioni
agonistiche ma non certo per le passeggiate domenicali
turistiche.
Lo ha chiarito il Mintrasporti con il
parere 01.08.2012 n. 4447 di prot..
È una doccia fredda per gli appassionati delle due ruote a
pedali che specialmente nei fine settimana scorazzano in
lungo e in largo su tutte le strade della Penisola non
sempre con comportamenti molto corretti. L'associazione
nazionale camperisti di Firenze ha infatti richiesto
chiarimenti circa la legittimità di queste pedalate e in
particolare sulle dotazioni minime che devono essere
applicate alle biciclette e alle regole di comportamento da
osservare.
Ai sensi dell'art. 68 del codice stradale, specifica
innanzitutto il ministero, i velocipedi devono essere muniti
anteriormente e posteriormente di luci. Ma anche di
catadiottri posteriori, laterali e sui pedali anch'essi
debitamente omologati ai sensi dell'art. 224 del regolamento
stradale. Solo quando i velocipedi sono utilizzati durante
competizioni sportive non trova applicazione questa
disposizione, prosegue la nota. E con strade chiuse al
traffico ben vengano pure i gruppi dei ciclisti in fuga
verso il traguardo.
Attenzione però al corretto comportamento sulle strade
aperte al traffico. L'art. 182 del codice specifica che i
ciclisti in questo caso devono procedere su unica fila in
tutti i casi in cui le condizioni della circolazione lo
richiedano e comunque mai affiancati in numero superiore a
due. Quando circolano fuori dai centri abitati i ciclisti
devono sempre procedere su unica fila, prosegue la nota, «salvo
che uno di essi sia minore di anni dieci e proceda sulla
destra dell'altro».
In ogni caso i ciclisti quando circolano in promiscuo con
altri veicoli sono tenuti a rispettare le norme di
comportamento previste dal titolo V del codice, in quanto
applicabili. Ovvero fermarsi ai semafori, agli incroci e
dare la precedenza dove previsto. Per cambiare direzione o
corsia, conclude la nota ministeriale, anche i ciclisti
devono assicurarsi di non creare pericolo segnalando in
anticipo le proprie intenzioni (articolo
ItaliaOggi del 22.08.2012). |
ENTI LOCALI:
Lucro sulle sanzioni stradali. Porta
chiusa per i privati.
L'importo che può essere erogato dai comuni per il noleggio
di sistemi autovelox non può mai essere collegato al numero
delle sanzioni accertate e neppure a quello delle multe
riscosse.
Lo ha ribadito il ministero dei trasporti con il parere
25.06.2012 n. 3639 di prot..
La questione dell'ingerenza dei privati nella gestione dei
proventi sanzionatori è ancora molto dibattuta a causa delle
frequenti irregolarità riscontrate sul campo con contratti
capestro a percentuale decisamente vietati dalla legge.
Nonostante le sonore e ripetute bocciature di questa pratica
ci sono ancora dubbi tra gli operatori di settore e per
questo il ministero dei trasporti ha divulgato ulteriori
istruzioni. Con la direttiva del Viminale del 14.08.2009
la questione delle modalità di intervento dei privati nelle
pratiche autovelox è già stata chiaramente trattata.
L'esercizio dell'attività di controllo spetta esclusivamente
alla polizia stradale che deve avere la gestione e la
disponibilità anche dei sistemi elettronici per il controllo
del traffico.
Al paragrafo 5.3 della nota 14.08.2009, viene inoltre
specificamente trattata anche la questione del corrispettivo
da erogare in caso di locazione degli strumenti. Questo
importo deve essere sempre commisurato al costo delle
operazioni effettuate o in funzione del tempo di utilizzo
delle apparecchiature e non alle sanzioni eventualmente
riscosse.
Del resto la stessa legge 120/2010, in vigore
definitivamente dal 13.08.2010, specifica all'art. 61 che
agli enti locali è consentita l'attività di accertamento
strumentale delle violazioni al decreto legislativo n. 285
del 1992 soltanto mediante strumenti di loro proprietà o da
essi acquisiti con contratto di locazione finanziaria o di
noleggio a canone fisso, da utilizzare ai fini
dell'accertamento delle violazioni esclusivamente con
l'impiego del personale dei corpi e dei servizi di polizia
locale.
Da quanto sopra, conclude la nota in commento, «appare
evidente come il legislatore, nel richiamare il noleggio a
canone fisso quale modalità di acquisizione degli strumenti
da utilizzare ai fini degli accertamenti delle violazioni al
codice della strada, abbia volutamente escluso la
possibilità di utilizzare il sistema a percentuale applicata
ai proventi sanzionatori, a fronte del corrispettivo da
elargire per il noleggio dei medesimi strumenti» (articolo
ItaliaOggi del 21.08.2012). |
APPALTI:
L'impresa bara? Un sito lo scopre. Le
p.a. verificano le autocertificazioni. Con un sito internet.
Il portale, realizzato da
InfoCamere, consente l'accesso diretto ai dati del Registro
Imprese.
Il servizio
per la verifica delle autocertificazioni delle imprese da
parte delle pubbliche amministrazioni è attivo. Le
amministrazioni pubbliche hanno a disposizione un nuovo
portale
https://verifichepa.infocamere.it, che consente loro di
controllare la veridicità delle dichiarazioni sostitutive
ricevute dalle imprese e dalle persone, relativamente ai
dati contenuti nel registro delle imprese.
Le p.a. che necessitano di verificare, a campione o
sistematicamente, le autocertificazioni prodotte dalle
imprese e dai cittadini, possono trovare immediata risposta
tramite questo servizio telematico anziché rivolgersi alla
Camera di commercio competente. Il sito VerifichePA è stato
realizzato da InfoCamere per conto delle Cciaa per
rispondere a quanto stabilito dall'art. 15 della legge n.
183/2011 (legge di Stabilità 2012), che ha sancito il
principio della «decertificazione».
Questa norma ha previsto che dall'01.01.2012 i certificati
rilasciati dalla pubbliche amministrazioni, relativi a
stati, qualità personali e fatti siano validi ed
utilizzabili solo nei rapporti tra privati e, pertanto, le
stesse p.a. devono acquisire d'ufficio tutti i dati in
possesso delle altre amministrazioni pubbliche, senza
chiederle direttamente all'interessato.
Il servizio, oltre a fornire documenti che attestano la
veridicità delle dichiarazioni sostitutive fornisce elenchi
di caselle Pec delle società di persone e di capitale,
secondo quanto previsto dall'art. 6, comma 1-bis, del dlgs
n. 82/2005 (Codice dell'amministrazione digitale). In
particolare, il sito «verifichepa.infocamere.it»
consente agli utenti abilitati, di ottenere due tipologie di
informazioni:
- documento di verifica autocertificazione;
- elenchi di Pec.
Tra i documenti disponibili non è compreso quello antimafia.
Per accedere al sito occorre registrarsi fornendo gli
estremi della propria p.a. (il codice Ipa e posta
elettronica certificata, Pec). Le p.a. che vorranno accedere
ai dati delle Camere di commercio in cooperazione
applicativa, in base a quanto previsto dal Cad, dovranno
sottoscrivere con InfoCamere una diversa Convenzione.
Per usufruire del servizio, completamente gratuito, bisogna:
- essere iscritti all'Indice delle pubbliche amministrazioni
(Ipa);
- inserire, tramite le pagine del sito, i dati anagrafici
del soggetto incaricato, l'ente di riferimento e l'indirizzo
Pec depositato all'Ipa;
- trasmettere al Call Center, via fax, il modulo cartaceo
scaricato dal sito, compilato e sottoscritto, accompagnato
dalla copia di un documento di identità valido dopo aver
ricevuto, alla propria casella Pec, le credenziali per
l'accesso, accettare via web le condizioni di utilizzo
specifiche del servizio (articolo
ItaliaOggi del 21.08.2012). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Pubblico impiego. Per invertire la rotta
si punta sulla flessibilità dei meccanismi di valutazione
prevista dalla spending review.
Produttività e premi, sfida d'autunno per la Pa.
ADDETTI IN CALO/ La Corte dei conti certifica la diminuzione
di 124.700 unità tra il 2007 e il 2010 A ottobre via al
confronto sui 24mila esuberi in agenda.
Il Governo sarà probabilmente celebrato per tanti obiettivi
che verranno raggiunti con il primo ciclo di spending
review ma non passerà alla storia per i nuovi interventi
sul pubblico impiego. Semplicemente perché, in questo campo,
i "risultati storici" sarebbero già stati acquisiti
anche senza l'ultimo decreto. Parlano i numeri messi in fila
dalla Corte dei conti in maggio: tra il 2007 e il 2010 i
dipendenti pubblici sono calati di 124.700 unità (-3,4%). In
quei quattro anni in Germania sono aumentati del 3% e in
Spagna dell'11%, mentre in Francia e Regno Unito la
flessione dello 0,5% è arrivata dopo anni di incrementi
consistenti.
Se si allunga lo sguardo al decennio 2001-2010, con
l'ausilio delle statistiche Ocse si scopre che solo in
Italia e Portogallo il numero dei dipendenti pubblici si è
ridotto (da noi del 4,4%, da 3,67 milioni a 3,51). Mentre in
Irlanda, Grecia e Spagna la crescita è stata attorno al 30%,
del 10% nel Regno Unito e in Belgio, del 5,1% in Francia e
del 2,5% in Germania. Che cosa succederà entro fine
legislatura? Nell'ultima Relazione annuale al Parlamento
sullo stato della Pa dello scorso novembre, Renato Brunetta
ha indicato un calo di addetti di oltre 300mila unità tra il
2008 e il 2013 (-8,4%). Si vedrà.
Tavolo d'autunno
Il tavolo che si aprirà in autunno per la gestione dei tagli
alle dotazioni organiche è naturalmente molto importante. E
la partita che su quel tavolo dovrà giocare il ministro
Filippo Patroni Griffi sarà cruciale. Secondo i calcoli
-prudenziali per i sindacati- della relazione tecnica alla
spending review, in ballo ci sarebbero 24mila addetti
(11mila delle Pa centrali e 13 mila degli enti territoriali)
da avviare al pensionamento anticipato oppure alla mobilità
collettiva in vista di un possibile trasferimento ad
amministrazioni in penuria di personale.
Ma la stessa relazione non stima i risparmi conseguibili,
preferendo rinviare la verifica a cosa fatte, vale a dire al
2014-2015. Anche qui, però, non c'è da aspettarsi più di un
miglioramento al margine. Perché gli obiettivi più grandi
sono già stati colti. È sempre la Corte dei conti a
rilevarlo: nel 2011 la spesa per redditi da lavoro
dipendente è scesa dell'1,2% (-0,8% in termini di cassa) a
170,05 miliardi, facendo segnare la prima inversione di
tendenza dal 1998.
Contratti e turn over
La spesa per stipendi è passata dall'11,1 al 10,8% del Pil.
Il perché è noto: il blocco del turn over e della
contrattazione, i limiti alla crescita dei trattamenti
individuali e la stretta sui fondi unici di amministrazione
che hanno di fatto azzerato lo slittamento salariale. Questi
motori, a legislazione invariata, continueranno a funzionare
fino al 2014 –anno del sostanziale allineamento tra la
dinamica delle retribuzioni pubbliche con quelle private–
con cali di spesa dello 0,6% quest'anno, dello 0,5% nel 2013
e dello 0,1% l'anno dopo. Se i contratti verranno sbloccati
si prevede un rialzo dello 0,5% nel 2015, anno in cui la
massa salariale dell'intera Pa scenderebbe però sotto il 10%
del Pil.
Dobbiamo credere in queste previsioni, contenute nel
Documento di economia e finanza firmato da Mario Monti lo
scorso aprile? L'Istat dice di sì, visto che negli ultimi
dieci anni lo scostamento tra le previsioni del governo con
i suoi dati a consuntivo ha avuto oscillazioni comprese tra
gli 8 e i 2 milioni, su un aggregato di 170 miliardi di
euro. E come siamo messi nelle classifiche europee sulla
spesa per i dipendenti pubblici? Ai primi posti, con un
incidenza pari al 23,2% del totale della spesa corrente del
2010, solo la Germania e i Paesi Bassi hanno fatto meglio
nell'Ue a 27, con un 17,8% e un 21,6 per cento.
La produttività perduta
Il gap che resta da colmare con gli altri Paesi riguarda la
produttività. Calcolata in termini di costo del lavoro per
unità di prodotto (clup), è in costante calo dal 2003,
passata dal 4 all'1,5% sul Pil, e dopo la ripresina del 2009
(4,1%) è precipitata sotto il 2 per cento. Una Pa efficiente
ovviamente eleva la produttività totale dei fattori e il Pil
potenziale. Su questo terreno le classifiche internazionali
(Ocse, Eurostat, Banca mondiale) si sprecano.
Tutte fotografano il ritardo italiano e la convergenza è
unanime nelle indicazioni di policy: serve una premialità
selettiva basata su merito e performance e serve più
formazione. Anche qui siamo indietro: l'ultimo Rapporto
sulla formazione fatto dalla Scuola superiore della Pa –ha
ricordato recentemente Luciano Hinna, ex membro della
Commissione indipendente per la valutazione e la trasparenza
(Civit)– dice che nel 2009, per le sole Pa centrali, sono
stati investiti 141 milioni (lo 0,65% della massa
salariale), in Francia si investe circa il 6% e in Germania
il 4,4.
In questo contesto non bisogna abbassare la guarda sul
fronte della valutazione delle performance degli uffici,
obiettivo che la spending review ha rilanciato: «Noi
in giugno avevamo allertato il governo che in troppe
amministrazioni centrali non erano state effettuate le
valutazioni individuali previste dalla riforma Brunetta»,
spiega Romilda Rizzo, presidente della Civit. Lo stop, oltre
alla mancanza di risorse da redistribuire, era legato alla
rigidità della vecchia norma, che prevedeva una premialità
su tre fasce, con l'ultima di fatto costretta a rinunciare a
risorse accessorie.
«Ora la previsione normativa è che non meno del 10% del
personale, dirigente e non, se supera gli obiettivi di
performance potrà contare su un trattamento accessorio
maggiorato del 10-30% –ricorda Rizzo–. C'è maggiore
flessibilità e semplicità per la misurazione degli
obiettivi, che devono essere specifici, ripetibili,
ragionevolmente realizzabili e collegati a scadenze
temporali. Ora vediamo come andrà ma mi sembra la strada
giusta» (articolo
Il Sole 24 Ore del 21.08.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO - VARI:
La Suprema corte sulla giusta causa.
Licenziato l'impiegato maleducato di carattere.
Rischia il licenziamento il dipendente che con il suo
comportamento danneggia l'immagine dell'azienda presso i
clienti esterni.
La Corte di Cassazione, con la sentenza 14575, si allinea ai
giudici di merito che avevano considerato legittima la
massima punizione nei confronti dell'impiegata di una
società che forniva servizi in materia di proprietà
intellettuale per l'Ufficio italiano brevetti e marchi di
Roma.
A far scattare il licenziamento erano state in primo luogo
le "dimenticanze" della ricorrente che,
sistematicamente, ometteva di riferire al suo datore di
lavoro le segnalazioni che l'Ufficio brevetti faceva sulle
imprecisioni riscontrate nelle pratiche eseguite dalla Spa.
Non paga della sua "reticenza" la dipendente aveva un
comportamento «scorretto e imbarazzante, offensivo nei
confronti di dirigenti e impiegati»: un pessimo
carattere che la portava a non fare discriminazioni e a
essere maleducata sia con i colleghi sia con i clienti.
Inevitabile il licenziamento, disposto soprattutto per il
danno all'immagine provocato alla società dalle inadempeinze
e dalle intemperanze dell'impiegata, accusata anche di
essere poco collaborativa con i colleghi, tanto da
deteriorare il clima lavorativo.
La sezione lavoro avalla il licenziamento ampliando così la
casistica di quello che si può o non si può fare all'interno
del posto di lavoro.
Con la sentenza 10426, del luglio scorso, gli stessi giudici
della Suprema corte erano stati più clementi verso un
lavoratore a cui era sfuggito un "vaffa" al capo,
liquidato come «mera intemperanza verbale, non seguita da
altri comportamenti scorretti e inidonea a dimostrare una
volontà di insubordinazione o di aperta insofferenza nei
confronti del potere disciplinare e organizzativo del datore
di lavoro».
Nel marzo 2011 (sentenza 6500) la sezione lavoro aveva
deciso di farla passare liscia anche a due colleghi che si
erano azzuffati. Troppo severa la misura del licenziamento
per «un diverbio litigioso che, seppur acceso, non aveva
degenerato né aveva dato luogo ad un blocco della produzione»
(articolo
Il Sole 24 Ore del 21.08.2012). |
ENTI LOCALI -
VARI:
Semafori laser ancora in stand by.
Mancano le norme attuative alla
legge 120/2010. Ferme le tabelle countdown e i pannelli
velocità.
Regolarizzazione dei semafori laser,
delle tabelle countdown e dei pannelli luminosi installati a
lato della strada per indicare la velocità dei veicoli.
Accertamenti relativi alla guida con droghe.
Sono questi gli aspetti più rilevanti della riforma del
codice stradale persi nel cammino ovvero che a distanza di
due anni dall'entrata in vigore della legge n. 120 del
29.07.2010 attendono disposizioni di attuazione per
diventare concretamente operativi.
Semafori laser e tabelle countdown.
Doveva essere
adottato entro il 12.10.2010 ma non è ancora stato emanato
il decreto ministeriale per definire le caratteristiche per
l'omologazione e l'installazione degli impianti di
regolazione della velocità, degli impianti che si attivano
al rilevamento della velocità dei veicoli in arrivo e dei
dispositivi finalizzati a visualizzare il tempo residuo di
accensione delle luci dei nuovi impianti semaforici.
Quindi, per la regolarizzazione si dovrà attendere quanto
meno il 2013, considerato che le disposizioni di cui
all'art. 60 della legge n. 120/2010 si applicheranno decorsi
sei mesi dalla data di adozione del decreto ministeriale.
Recentemente, il Ministero delle infrastrutture e dei
trasporti, con il parere 04.07.2012 n. 3925 di prot.,
ha ribadito che, in assenza del decreto attuativo, tutte le
postazioni attive e troppo creative non sono conformi alla
normativa stradale e pertanto vanno spente.
Pannelli luminosi della velocità.
Anche se l'art. 7 della legge n. 120/2010 ha ammesso la
regolamentazione dei pannelli luminosi che segnalano
all'utenza la velocità dei veicoli in transito, questi
strumenti restano tuttora fuori legge. Infatti, in assenza
delle regole tecniche necessarie all'omologazione dei
modelli, queste installazioni risultano essere al momento
ancora non conformi al codice della strada. Ciò è stato
ribadito più volte nel corso degli ultimi mesi dal ministero
delle infrastrutture e dei trasporti. E non è detto che gli
impianti esistenti possano poi essere regolarizzati. Gli
enti che impiegano i tabelloni possono incorrere in
responsabilità amministrative e civili e ingenerare inutili
contenziosi con l'utenza stradale.
Guida con droghe.
La riforma stradale introdotta dalle legge n. 120 del
29.07.2010 ha voluto potenziare l'utilizzo dei precursori,
ovvero strumenti portatili non invasivi facilmente
manovrabili, per l'accertamento della guida con droghe. Le
disposizioni dell'art. 187 del codice della strada, come
modificato dalla legge n. 120/2010, prevedono che se
l'accertamento preliminare ha dato esito positivo ovvero la
polizia ha comunque ragionevole motivo di ritenere che il
conducente è alterato dalla droga, il personale medico può
procedere ad accertamenti clinico-tossicologici ovvero a
prelievo di campioni di mucosa del cavo orale.
Però manca ancora all'appello il decreto ministeriale che
deve definire le modalità di effettuazione degli
accertamenti e le caratteristiche degli strumenti da
impiegare. Lo stesso decreto potrà prevedere e disciplinare
gli accertamenti sulla guida drogata anche su campioni di
fluido del cavo orale, anziché su campioni di mucosa.
Il ministero dell'interno con la circolare 16.03.2012 n.
300/A/1959/12/109/56, ha confermato che il prelievo veloce
in strada della saliva all'automobilista sospettato di guida
alterata dalla droga non è ancora stato approvato dal
ministero e pertanto non ha pieno valore legale. Ma ora
tutte le procedure di accertamento potrebbero essere rimesse
in discussione dai disegni di legge C 4662 e C 5361
all'esame della camera.
Multe a rate.
Per quanto riguarda il pagamento rateizzato delle sanzioni
per le multe stradali, pur non essendo stato ancora emanato
il decreto ministeriale di attuazione, il ministero
dell'interno con la circolare n. 6535 del 22.04.2011 ha
precisato che l'art. 202-bis è già direttamente applicabile.
Pertanto, per le sanzioni di importo superiore a 200 euro
l'interessato può chiedere, entro 30 giorni, la ripartizione
del pagamento in rate mensili, qualora si trovi in
condizioni economiche disagiate.
La presentazione dell'istanza preclude la facoltà di
ricorrere al prefetto o al giudice di pace. Entro novanta
giorni l'autorità deve adottare un provvedimento di
accoglimento o di rigetto. In caso di accoglimento della
richiesta il pagamento può essere ripartito fino a 60 rate,
con l'applicazione di interessi. L'ammontare di ciascuna
rata comunque non può essere inferiore a 100 euro.
Il beneficio decade in caso di mancato pagamento della prima
rata o successivamente di due rate.
Contrassegno invalidi.
Grazie alla riforma stradale del 2010, si erano poste le
basi per adottare il contrassegno uniforme europeo per la
sosta dei disabili. Infatti, l'art. 58 della legge n. 120
del 29.07.2010 aveva modificato l'art. 74 del decreto
legislativo n. 196 del 30.06.2003 (codice in materia di
protezione dei dati personali), sopprimendo il divieto di
usare diciture o simboli, dai quali si possa desumere la
speciale natura dell'autorizzazione per effetto della sola
visione del contrassegno.
Queste nuove disposizioni, in vigore dal 13.08.2010, avevano
eliminato gli ostacoli normativi all'adozione in Italia del
contrassegno europeo per invalidi. Finalmente, a distanza di
due anni, è stato recentissimamente firmato il decreto del
presidente della repubblica che introduce nell'ordinamento
interno il contrassegno invalidi comunitario, apportando
modifiche all'art. 381 del regolamento di esecuzione e
attuazione del codice della strada. Il nuovo «contrassegno
di parcheggio per disabili» sarà conforme al modello
previsto dalla raccomandazione del consiglio dell'Unione
europea del 04.06.1998.
Sul modello di colore azzurro chiaro, con il simbolo bianco
della sedia a rotelle su fondo azzurro scuro, saranno
trascritti e apposti la data di scadenza, il numero di serie
e il nome e il timbro dell'autorità nazionale che rilascia
il contrassegno e nella parte retrostante, non visibile, il
nominativo e la fotografia del soggetto autorizzato.
Entro tre anni dall'entrata in vigore del dpr i vecchi
modelli di contrassegno invalidi dovranno essere sostituiti
dal nuovo contrassegno salvo che i comuni stabiliscano un
periodo inferiore a tre anni. Durante il periodo transitorio
i permessi invalidi già rilasciati resteranno validi. Si
attende ora solo la pubblicazione del dpr sulla Gazzetta
Ufficiale.
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Dal 2013 proventi autovelox da
ripartire.
Scatterà dal 2013 l'obbligo dell'attesa ripartizione dei
proventi autovelox con tutta la filiera burocratica
connessa. Il comma 16 dell'art. 4-ter del decreto legge n.
16/2012, inserito in sede di conversione dalla legge n.
44/2012, in vigore dal 29.04.2012, ha introdotto un
automatismo specificando che anche in mancanza dell'atteso
decreto necessario per avviare la ripartizione e la
rendicontazione dei proventi (frutto della riforma stradale
di agosto 2010) il meccanismo antiabusi entrerà ugualmente
in vigore.
La ripartizione dei proventi autovelox riguarderà gli
accertamenti alle violazioni dei limiti di velocità rilevati
dagli organi di polizia stradale sulle strade appartenenti a
enti diversi da quelli dai quali dipendono gli organi
accertatori.
Le somme derivanti dalla ripartizione dei proventi delle
sanzioni dovranno essere destinate alla realizzazione di
interventi mirati, preventivamente individuati dalla legge.
Inoltre, sarà necessario relazionare annualmente al
ministero, entro il 31 maggio, tutte le infrazioni stradali
accertate nel corso dell'anno precedente, con particolare
attenzione all'autovelox. Una criticità dell'impianto
normativo riguarda la data esatta dalla quale decorrono
questi nuovi obblighi.
L'Anci, con una nota interpretativa, ha affermato che il
dies a quo per il calcolo dei novanta giorni che daranno
il via all'automatismo si calcola dal 29.04.2012, data di
entrata in vigore della legge n. 44/2012. In tal caso,
dunque, l'obbligo di ripartizione dei proventi e tutta la
burocrazia connessa decorrono dal 29.07.2012. O meglio a
partire dall'esercizio finanziario immediatamente
successivo, cioè dall'01.01.2013. Infatti, secondo l'Anci la
novella non ha abrogato il comma 3° dell'art. 25 della legge
120/2010.
Questa disposizione consente di rinviare all'esercizio
finanziario dell'anno 2012 tutte le novità in materia di
autovelox con conseguente obbligo di relazione annuale
procrastinato al 31.05.2014 (articolo
ItaliaOggi Sette del 20.08.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Decreto sviluppo. L'obiettivo delle
nuove norme è creare un'interfaccia «globale» che dialoghi
con cittadini e professionisti.
Front-office unico per l'edilizia. Lo sportello comunale
dovrà ottenere tutti gli assensi dalle altre Pa coinvolte.
LE CRITICITÀ/ L'allargamento delle competenze pone una sfida
organizzativa non trascurabile a molte realtà locali.
Varie sono le novità, formali e sostanziali, che l'articolo
13 della legge 134/2012, di conversione del decreto sviluppo
83/2012, ha apportato alla disciplina dello sportello unico
per l'edilizia (Sue), del quale sono ridefinite e rafforzate
le funzioni, sia nei confronti del cittadino, che delle
altre amministrazioni. Il fatto che lo sportello debba
acquisire direttamente gli atti di assenso dalle altre
amministrazioni, comunque, porrà anche una sfida
organizzativa di non poco conto per molti uffici, chiamati
ad attrezzarsi per affrontare le nuove incombenze, senza
però poter contare su maggiori risorse.
All'articolo 5 del Dpr 380/2001 viene innanzitutto aggiunto
il comma 1-bis, in forza del quale il Sue costituisce da
oggi il solo front-office per il privato, essendo «l'unico
punto di accesso» al quale il soggetto interessato da
una pratica dovrà rivolgersi «in relazione a tutte le
vicende amministrative riguardanti il titolo abilitativo e
l'intervento edilizio oggetto dello stesso».
A rimarcare la peculiarità della funzione svolta dal Sue, lo
stesso comma stabilisce inoltre che sia questo l'ufficio
tenuto a fornire al cittadino una «tempestiva risposta»
alle sue istanze «in luogo di tutte le pubbliche
amministrazioni», che possono essere a vario titolo
coinvolte nel procedimento. A questo fine, ricalcando le
previsioni relative al responsabile del procedimento
(articolo 6, legge 241/1990), la norma dispone che il Sue,
anche attraverso l'indizione di conferenza di servizi, debba
acquisire gli atti di assenso eventualmente necessari e che
debbano essere rilasciati dalle Pa preposte alla tutela
ambientale, paesaggistico-territoriale e storico-artistica o
alla tutela della salute e della pubblica incolumità.
Il comma lascia comunque espressamente inalterate le
competenze dello sportello unico per le attività produttive,
così come definite dal regolamento approvato col Dpr
160/2010.
Viene aggiunto anche il comma 1-ter, che ribadisce l'unicità
delle attribuzioni del Sue, che diviene l'unico ufficio
competente a intrattenere rapporti col soggetto interessato
e a trasmettergli qualunque comunicazione.
Ogni altro ufficio comunale o Pa interessata dal
procedimento dovrà inoltrare «immediatamente» al Sue
eventuali atti autorizzatori, nulla osta, pareri o atti di
consenso, anche a contenuto negativo, comunque denominati,
senza avere rapporti diretti col cittadino, al quale dovrà
in ogni caso comunicare di avere trasmesso allo sportello la
documentazione che lo interessa.
Ulteriori modifiche riguardano l'abrogazione del comma 4, i
cui contenuti vengono in parte trasfusi nel nuovo comma 3,
che ridefinisce l'attività istruttoria dell'ufficio e tende
a escludere qualunque obbligo di produzione di certificati
da parte del cittadino, in coerenza con le disposizioni in
tema di decertificazione; finalità rimarcata anche dalle
modifiche introdotte all'articolo 20, comma 3, ove non si
prevede più che il richiedente possa autonomamente allegare
alla domanda per il rilascio del permesso di costruire
pareri o altri atti di assenso.
Spetta dunque unicamente allo sportello l'acquisizione
–diretta o tramite conferenza di servizi– degli atti di
assenso, comunque denominati, necessari alla realizzazione
dell'intervento edilizio.
Tra questi, oltre ai pareri della Asl e dei Vigili del
fuoco, già previsti dalle lettere a) e b) dell'originario
comma 3, vengono ricompresi quelli delle nuove lettere da c)
a m), che ricalcano le previsioni contenute nelle lettere da
a) a i) del soppresso quarto comma.
In particolare, sarà compito del Sue acquisire: dagli uffici
tecnici regionali le autorizzazioni relative alle
costruzioni in zone sismiche di cui agli articoli 61, 62 e
94 del Testo unico e dall'amministrazione militare quelle
relative alle costruzioni nelle zone di salvaguardia
contigue a opere di difesa dello Stato o a stabilimenti
militari, nei Comuni militarmente importanti, ai sensi
dell'articolo 333 del Dlgs 66/2010.
Le ulteriori autorizzazioni che il Sue, ove necessario, è
tenuto ad acquisire sono quelle del direttore della
circoscrizione doganale, nei casi di costruzione,
spostamento o modifica di edifici posti nelle zone di
salvaguardia in prossimità della linea doganale e del mare
territoriale (articolo 19, Dlgs 374/1990), nonché quelle
dell'autorità competente per le costruzioni su terreni
confinanti con il demanio marittimo (articolo 55, Codice
della navigazione).
Lo sportello unico dovrà inoltre acquisire gli atti di
assenso necessari per l'esecuzione di interventi edilizi su
immobili assoggettati a vincoli da parte del Codice dei beni
culturali e del paesaggio –fermo restando che, in caso di
dissenso manifestato dall'amministrazione preposta alla
tutela dei beni culturali, si procede ai sensi del medesimo
Codice (articolo 25, Dlgs 42/2004)– nonché il parere
vincolante della Commissione per la salvaguardia di Venezia,
ai sensi dell'articolo 6, legge 171/1973.
Di competenza dello sportello è infine l'acquisizione di:
- parere dell'autorità competente in materia di assetti e
vincoli idrogeologici;
- assensi in materia di servitù viarie, ferroviarie,
portuali e aeroportuali;
- nulla osta dell'autorità competente in materia di aree
naturali protette, ai sensi dell'articolo 13 della legge
quadro 394/1991 ... (articolo
Il Sole 24 Ore del 20.08.2012). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI: Dal
compendio delle norme enucleabili dall’art.
37 del D.Lgs.
163/2006 si desume che, quale che sia il
settore dell’appalto (lavori, servizi,
forniture), l’A.T.I. offerente deve indicare
sia le quote di partecipazione di ciascun
componente, sia le quote di esecuzione
dell’appalto, e vi deve essere
corrispondenza tra quota di partecipazione e
quota di esecuzione: tale obbligo di duplice
indicazione è espressione di un principio
generale che prescinde dall’assoggettamento
della gara alla disciplina comunitaria e non
consente distinzioni legate alla morfologia
del raggruppamento (verticale o
orizzontale), o alla tipologia delle
prestazioni, principali o secondarie,
scorporabili o unitarie.
Si richiede altresì che la singola impresa
componente dell’A.T.I. abbia la qualifica,
ovvero i requisiti di ammissione, in misura
corrispondente alla quota di partecipazione,
il tutto a garanzia della stazione
appaltante e del buon esito del programma
contrattuale nella fase di esecuzione:
l’inosservanza di detta regola comporta
l’inammissibilità dell’offerta contrattuale,
perché implica l’esecuzione della
prestazione da parte di un’impresa priva
(almeno in parte) di qualificazione in una
misura simmetrica alla quota di prestazione
ad essa devoluta dall’accordo associativo
ovvero dall’impegno delle parti a concludere
l’accordo stesso.
In particolare l’art. 37, comma 13, del
D.Lgs 163/2006 –con disposizione valida
anche per gli appalti di servizi e
forniture– stabilisce che i concorrenti
riuniti in ATI devono eseguire le
prestazioni nella percentuale corrispondente
alla quota di partecipazione al
raggruppamento, per cui è evidente che deve
sussistere una perfetta corrispondenza tra
quota di lavori (o, nel caso di forniture o
servizi, di parti di esse) eseguita dal
singolo operatore economico e quota di
effettiva partecipazione al raggruppamento,
e che vi è la necessità che sia l’una che
l’altra siano specificate dai componenti del
raggruppamento all’atto della partecipazione
alla gara.
Il Consiglio di Stato ha puntualizzato che:
• a fini di garanzia di effettività della
disposizione lo stesso art. 37, al comma 4,
statuisce che nel caso di forniture o
servizi (alle quali ultime si riferisce
appunto la gara all’esame) devono essere
specificate le parti della fornitura o del
servizio che saranno eseguite dai singoli
operatori economici riuniti o consorziati;
• l’indicazione delle stesse si rivela
dunque requisito di ammissione alla gara e
deve quindi provvedersi a tale incombente
nella domanda di partecipazione alla gara
(valendo anche per le A.T.I. costituende,
che sono tenute a fornire l’indicazione già
nella fase di ammissione alla gara, e dunque
prima dell’aggiudicazione) e non in sede di
esecuzione del contratto;
• l’obbligo di specificazione in esame trova
la sua ratio nella necessità di assicurare
alle amministrazioni aggiudicatrici la
conoscenza preventiva del soggetto che in
concreto eseguirà la fornitura, non solo per
consentire una maggiore speditezza nella
fase di esecuzione del contratto, ma anche
per rendere edotta l’amministrazione
procedente dell’impresa che eseguirà le
varie parti dell’appalto e dei requisiti per
realizzarle a regola d’arte, così da
permettere la previa verifica sulla
competenza tecnica dell’esecutore ed evitare
che le imprese si avvalgano del
raggruppamento non per unire le rispettive
disponibilità tecniche e finanziarie, ma per
aggirare le norme d’ammissione alle gare;
• trattandosi di norma di rilievo
pubblicistico di chiara natura imperativa,
che è volta a porre la stazione appaltante
nelle migliori condizioni per verificare i
requisiti di tutti i soggetti partecipanti
alle procedure di evidenza pubblica, la sua
cogenza è piena a prescindere da un
necessario richiamo negli atti di gara e
dall’esistenza di una sanzione espressa di
esclusione posta a presidio del rispetto
della norma.
La chiara disposizione dettata, per gli
appalti di servizi, dal comma 4 dello stesso
articolo 37 –secondo cui “nel caso di
forniture o servizi nell'offerta devono
essere specificate le parti del servizio o
della fornitura che saranno eseguite dai
singoli operatori economici riuniti o
consorziati”– non può determinare la non
applicazione anche del successivo comma 13
dello stesso articolo: le due disposizioni
non sono infatti incompatibili e quella
dettata dal comma 4 costituisce (anche) una
garanzia di effettività della disposizione
di cui al comma 13.
Con riguardo all’ultima contestazione, la Sezione si è recentemente
pronunciata sull’argomento (cfr. sentenza
23/01/2012 n. 99, che risulta appellata),
sottolineando come secondo il giudice
d’appello dal compendio delle norme
enucleabili dall’art. 37 del D.Lgs.
163/2006 si desume che, quale che sia il
settore dell’appalto (lavori, servizi,
forniture), l’A.T.I. offerente deve indicare
sia le quote di partecipazione di ciascun
componente, sia le quote di esecuzione
dell’appalto, e vi deve essere
corrispondenza tra quota di partecipazione e
quota di esecuzione (Consiglio di Stato,
sez. IV – 27/11/2010 n. 8253): tale obbligo
di duplice indicazione è espressione di un
principio generale che prescinde
dall’assoggettamento della gara alla
disciplina comunitaria e non consente
distinzioni legate alla morfologia del
raggruppamento (verticale o orizzontale), o
alla tipologia delle prestazioni, principali
o secondarie, scorporabili o unitarie
(Consiglio di Stato, sez. III – 15/07/2011 n.
4323; sez. V – 08/11/2011 n. 5892, che ha
dato conto del consolidarsi dell’indirizzo
giurisprudenziale ed ha disatteso la
richiesta di rimessione dell’affare
all’adunanza plenaria; si veda anche TAR
Sardegna, sez. I – 19/04/2012 n. 385).
Si
richiede altresì che la singola impresa
componente dell’A.T.I. abbia la qualifica,
ovvero i requisiti di ammissione, in misura
corrispondente alla quota di partecipazione,
il tutto a garanzia della stazione
appaltante e del buon esito del programma
contrattuale nella fase di esecuzione:
l’inosservanza di detta regola comporta
l’inammissibilità dell’offerta contrattuale,
perché implica l’esecuzione della
prestazione da parte di un’impresa priva
(almeno in parte) di qualificazione in una
misura simmetrica alla quota di prestazione
ad essa devoluta dall’accordo associativo
ovvero dall’impegno delle parti a concludere
l’accordo stesso (Consiglio di Stato, sez. III – 16/2/2012 n. 793).
In particolare l’art. 37, comma 13, del D.Lgs 163/2006 –con disposizione valida anche
per gli appalti di servizi e forniture–
stabilisce che i concorrenti riuniti in ATI
devono eseguire le prestazioni nella
percentuale corrispondente alla quota di
partecipazione al raggruppamento, per cui è
evidente che deve sussistere una perfetta
corrispondenza tra quota di lavori (o, nel
caso di forniture o servizi, di parti di
esse) eseguita dal singolo operatore
economico e quota di effettiva
partecipazione al raggruppamento, e che vi è
la necessità che sia l’una che l’altra siano
specificate dai componenti del
raggruppamento all’atto della partecipazione
alla gara (cfr. TAR Lazio Roma, sez. II –
30/04/2012 n. 3891).
Il Consiglio di Stato,
sez. III – 11/05/2011 n. 2804, ha
puntualizzato che:
• a fini di garanzia di effettività della
disposizione lo stesso art. 37, al comma 4,
statuisce che nel caso di forniture o
servizi (alle quali ultime si riferisce
appunto la gara all’esame) devono essere
specificate le parti della fornitura o del
servizio che saranno eseguite dai singoli
operatori economici riuniti o consorziati;
• l’indicazione delle stesse si rivela
dunque requisito di ammissione alla gara e
deve quindi provvedersi a tale incombente
nella domanda di partecipazione alla gara
(valendo anche per le A.T.I. costituende,
che sono tenute a fornire l’indicazione già
nella fase di ammissione alla gara, e dunque
prima dell’aggiudicazione) e non in sede di
esecuzione del contratto;
• l’obbligo di specificazione in esame trova
la sua ratio nella necessità di assicurare
alle amministrazioni aggiudicatrici la
conoscenza preventiva del soggetto che in
concreto eseguirà la fornitura, non solo per
consentire una maggiore speditezza nella
fase di esecuzione del contratto, ma anche
per rendere edotta l’amministrazione
procedente dell’impresa che eseguirà le
varie parti dell’appalto e dei requisiti per
realizzarle a regola d’arte (cfr. Consiglio
di Stato, sez. V – 08/09/2010 n. 6490), così
da permettere la previa verifica sulla
competenza tecnica dell’esecutore ed evitare
che le imprese si avvalgano del
raggruppamento non per unire le rispettive
disponibilità tecniche e finanziarie, ma per
aggirare le norme d’ammissione alle gare;
• trattandosi di norma di rilievo
pubblicistico di chiara natura imperativa,
che è volta a porre la stazione appaltante
nelle migliori condizioni per verificare i
requisiti di tutti i soggetti partecipanti
alle procedure di evidenza pubblica, la sua
cogenza è piena a prescindere da un
necessario richiamo negli atti di gara e
dall’esistenza di una sanzione espressa di
esclusione posta a presidio del rispetto
della norma; peraltro nella fattispecie
l’art. 2.2 h.1 del disciplinare (doc. 14
Cogeme) esigeva per i raggruppamenti
temporanei non ancora costituiti, tra la
documentazione di carattere amministrativo,
l’indicazione dei servizi o della quota dei
servizi affidata a ciascun componente ai
sensi dell’art. 37 del D.Lgs. 163/2006,
mentre l’art. 2.6 lett. b) –recante le
cause di esclusione– prevedeva detta
sanzione per il concorrente, da costituirsi
in forma di raggruppamento temporaneo che
“non abbia dichiarato i servizi o le parti
di lavoro a eseguirsi da parte di ciascun
operatore economico raggruppato o
consorziato, …”.
La chiara disposizione dettata, per gli
appalti di servizi, dal comma 4 dello stesso
articolo 37 –secondo cui “nel caso di
forniture o servizi nell'offerta devono
essere specificate le parti del servizio o
della fornitura che saranno eseguite dai
singoli operatori economici riuniti o
consorziati”– non può determinare la non
applicazione anche del successivo comma 13
dello stesso articolo: le due disposizioni
non sono infatti incompatibili e quella
dettata dal comma 4 costituisce (anche) una
garanzia di effettività della disposizione
di cui al comma 13 (Consiglio di Stato, sez. III
– 15/07/2011 n. 4323)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 24.08.2012 n. 1468 - link a www.giustizia-amministrativa.it) |
EDILIZIA PRIVATA: E'
indubbio che la disposizione invocata (art.
9 L. 10/1977) deve ritenersi di stretta
interpretazione, in quanto introduce talune
ipotesi di deroga alla previsione generale
la quale assoggetta a contributo tutte le
opere che comportino trasformazione del
territorio.
Lo speciale regime
di gratuità di cui alla lett. f) richiede
peraltro il concorso di due requisiti, il
primo dei quali di carattere soggettivo che
si risolve nell'esecuzione delle opere da
parte degli Enti istituzionalmente
competenti: in effetti,
secondo l’indirizzo più rigoroso l'opera,
per conseguire il beneficio, deve essere
necessariamente realizzata da un Ente
pubblico, non spettando lo stesso per le
opere eseguite da soggetti privati, quale
che sia la rilevanza sociale dell'attività
esercitata nella o con l'opera edilizia alla
quale la concessione si riferisce; in ogni caso ammettendo
l’iniziativa di un privato, questo deve
agire per conto di un Ente pubblico, come
nell’istituto della concessione di opera
pubblica o in altre analoghe figure organizzatorie
ove l’intervento è realizzato da soggetti
non animati dallo scopo di lucro o che
accompagnano tale obiettivo con un legame
istituzionale con l’azione
dell’amministrazione per la cura degli
interessi della collettività.
---------------
Il quadro normativo … prevede un’ipotesi di
esenzione totale dal contributo di
costruzione [art. 17, comma 3, lett. c), del
DPR 380/2001] e un’ipotesi di scomputo della
quota del contributo di costruzione relativa
agli oneri di urbanizzazione (art. 16, comma
2, del DPR 380/2001; art. 45 della LR
12/2005).
Nell’ipotesi relativa all’esenzione totale
il privato realizza un’opera espressamente
qualificata di interesse pubblico nello
strumento urbanistico generale o nei piani
attuativi. Essendovi una tale previsione
urbanistica l’utilità per l’amministrazione
deriva direttamente dalla realizzazione
dell’opera e pertanto l’esenzione è
automatica. Non ricorre tuttavia questa
fattispecie quando lo strumento urbanistico
si limita ad autorizzare una destinazione
d’uso implicante la realizzazione di opere
astrattamente qualificabili come
urbanizzazioni.
L’ammissibilità di queste opere in una certa
zona del territorio non equivale al
riconoscimento del loro interesse pubblico
ma è soltanto una regola che disciplina
l’interesse economico dei privati. Il
passaggio da opera di pertinenza privata a
opera di urbanizzazione richiede
l’inclusione tra gli standard urbanistici
che definiscono la dotazione di servizi del
territorio. Tale inclusione non deriva dalla
semplice esistenza dell’opera ma presuppone
che sulla stessa vi possa essere un
controllo pubblico.
In proposito le direttive regionali sul
piano dei servizi (DGR n. 7/7586 del
21.12.2001, parte III punto 2-e) specificano
che i privati possono integrare gli standard
urbanistici garantiti dall’ente pubblico
purché l’attività dei privati sia regolata
da un atto di asservimento o da un
regolamento d'uso che assicurino lo
svolgimento e il controllo delle funzioni di
interesse generale.
Secondo la giurisprudenza è indubbio che la disposizione invocata (art. 9
L. 10/1977) deve ritenersi di stretta
interpretazione, in quanto introduce talune
ipotesi di deroga alla previsione generale
la quale assoggetta a contributo tutte le
opere che comportino trasformazione del
territorio (cfr. TAR Puglia Bari, sez. III – 11/06/2010 n. 2420).
Lo speciale regime
di gratuità di cui alla lett. f) richiede
peraltro il concorso di due requisiti, il
primo dei quali di carattere soggettivo che
si risolve nell'esecuzione delle opere da
parte degli Enti istituzionalmente
competenti: in effetti, come precisato dal
TAR Veneto, sez. II – 16/06/2011 n. 1047,
secondo l’indirizzo più rigoroso l'opera,
per conseguire il beneficio, deve essere
necessariamente realizzata da un Ente
pubblico, non spettando lo stesso per le
opere eseguite da soggetti privati, quale
che sia la rilevanza sociale dell'attività
esercitata nella o con l'opera edilizia alla
quale la concessione si riferisce (Consiglio
di Stato, sez. V – 15/12/2005 n. 7140;
TAR Lombardia Milano, sez. II – 17/09/2009
n. 4672); in ogni caso ammettendo
l’iniziativa di un privato, questo deve
agire per conto di un Ente pubblico, come
nell’istituto della concessione di opera
pubblica o in altre analoghe figure organizzatorie ove l’intervento è realizzato
da soggetti non animati dallo scopo di lucro
o che accompagnano tale obiettivo con un
legame istituzionale con l’azione
dell’amministrazione per la cura degli
interessi della collettività (Consiglio di
Stato, sez. IV – 10/05/2005 n. 2226).
La
Fondazione ricorrente è priva della qualità
di Ente istituzionalmente competente, poiché
è legata agli Istituti scolastici
(proprietari) da un semplice rapporto di
locazione, ed è dunque assente il titolo concessorio.
Sulla profilata natura di “opera di
urbanizzazione” della scuola il Collegio
richiama il proprio precedente (TAR
Brescia – 27/11/2008 n. 1704) ai sensi del
quale “il quadro normativo … prevede, per
quanto interessa il presente giudizio,
un’ipotesi di esenzione totale dal
contributo di costruzione [art. 17, comma 3,
lett. c), del DPR 380/2001] e un’ipotesi di
scomputo della quota del contributo di
costruzione relativa agli oneri di
urbanizzazione (art. 16, comma 2, del DPR
380/2001; art. 45 della LR 12/2005). …
Nell’ipotesi relativa all’esenzione totale
il privato realizza un’opera espressamente
qualificata di interesse pubblico nello
strumento urbanistico generale o nei piani
attuativi. Essendovi una tale previsione
urbanistica l’utilità per l’amministrazione
deriva direttamente dalla realizzazione
dell’opera e pertanto l’esenzione è
automatica. Non ricorre tuttavia questa
fattispecie quando lo strumento urbanistico
si limita ad autorizzare una destinazione
d’uso implicante la realizzazione di opere
astrattamente qualificabili come
urbanizzazioni. L’ammissibilità di queste
opere in una certa zona del territorio non
equivale al riconoscimento del loro
interesse pubblico ma è soltanto una regola
che disciplina l’interesse economico dei
privati. Il passaggio da opera di pertinenza
privata a opera di urbanizzazione richiede
l’inclusione tra gli standard urbanistici
che definiscono la dotazione di servizi del
territorio. Tale inclusione non deriva dalla
semplice esistenza dell’opera ma presuppone
che sulla stessa vi possa essere un
controllo pubblico. In proposito le
direttive regionali sul piano dei servizi (DGR
n. 7/7586 del 21.12.2001, parte III
punto 2-e) specificano che i privati possono
integrare gli standard urbanistici garantiti
dall’ente pubblico purché l’attività dei
privati sia regolata da un atto di
asservimento o da un regolamento d'uso che
assicurino lo svolgimento e il controllo
delle funzioni di interesse generale”.
Nel
caso in esame non è rinvenibile nessuno dei
suddetti presupposti, in quanto da un lato
la scuola non risulta direttamente prevista
nello strumento urbanistico come opera di
interesse pubblico (sul punto non è stata
fornita indicazione alcuna) e dall’altro la
gestione di tale struttura non è oggetto di
convenzionamento con il Comune ma
costituisce un’iniziativa economica di
esclusivo interesse privato.
Neppure è possibile giovarsi delle
disposizioni sullo scomputo parziale o
totale degli oneri di urbanizzazione,
afferenti ad opere che una volta realizzate
non rimangono nella disponibilità dei
privati ma vengono acquisite al patrimonio
indisponibile del Comune: nel caso in esame
questa circostanza non si verifica
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 24.08.2012 n. 1467 - link a www.giustizia-amministrativa.it) |
EDILIZIA PRIVATA: Sia
nella precedente che nell’attuale normativa
in effetti (articoli 3, 5, 6 della L.
10/1977 e 16 del D.P.R. 380/2001) alle nuove
edificazioni e agli altri interventi
–comunque soggetti a titolo abilitativo–
corrisponde il pagamento di un contributo
commisurato all’incidenza degli oneri di
urbanizzazione, nonché al costo di
costruzione. La natura giuridica del
predetto contributo è quella di prestazione
patrimoniale imposta, anche
indipendentemente dall'utilità specifica del
singolo concessionario, comunque tenuto a
concorrere alla spesa pubblica per le
infrastrutture che debbono accompagnare ogni
nuovo insediamento edificatorio.
In particolare il contributo per oneri di
urbanizzazione è un corrispettivo di diritto
pubblico, di natura non tributaria, posto a
carico del costruttore a titolo di
partecipazione ai costi delle opere di
urbanizzazione in proporzione all’insieme
dei benefici che la nuova costruzione ne
ritrae. Il presupposto imponibile per il
pagamento dei contributi di urbanizzazione
va ravvisato nella domanda di una maggiore
dotazione di servizi (rete viaria,
fognature, ecc.) nell’area di riferimento,
che sia indotta dalla destinazione d’uso
concretamente impressa all’alloggio, in
quanto una diversa utilizzazione rispetto a
quella stabilita nell’originario titolo
abilitativo può determinare una variazione
quantitativa e qualitativa del carico
urbanistico.
In termini generali, il fondamento del
contributo di urbanizzazione –da versare al
momento del rilascio di una concessione
edilizia– non consiste nell'atto
amministrativo in sé bensì nella necessità
di ridistribuire i costi sociali delle opere
di urbanizzazione, facendoli gravare sugli
interessati che beneficiano delle utilità
derivanti dalla presenza delle medesime,
secondo modalità eque per la comunità.
L'entità degli oneri di urbanizzazione è in
buona sostanza correlata alla variazione del
carico urbanistico, sicché è ben possibile
che un intervento di ristrutturazione e
mutamento di destinazione d'uso possa non
comportare aggravi di carico urbanistico e
quindi l'obbligo della relativa
corresponsione degli oneri; al contrario è
altrettanto possibile che in caso di
mutamento di destinazione di uso nell'ambito
della stessa categoria urbanistica, faccia
seguito un maggior carico urbanistico
indotto dalla realizzazione di quanto
assentito e correlativamente siano dovuti
gli oneri concessori.
---------------
In presenza di un insediamento già capace di
rispondere a bisogni collettivi (come la
struttura preesistente adibita ad
orfanatrofio) l’amministrazione –per poter
legittimamente esigere il contributo per gli
oneri di urbanizzazione– deve dare contezza
degli indici o, comunque, delle condizioni
da cui si evince il maggior carico
urbanistico addebitabile al richiesto
mutamento di destinazione.
---------------
Pacifica è la diversa natura degli oneri di
urbanizzazione rispetto ai costi di
costruzione, i quali rappresentano una
compartecipazione comunale all’incremento di
valore della proprietà immobiliare del
costruttore a seguito della nuova
edificazione.
Mentre il contributo per gli oneri di
urbanizzazione ha funzione recuperatoria
delle spese sostenute dalla collettività
comunale in relazione alla trasformazione
del territorio assentita al singolo, il
contributo per costo di costruzione, che è
rapportato alle caratteristiche ed alla
tipologia delle costruzioni e non è
alternativo ad altro valore di genere
diverso, afferisce alla mera attività
costruttiva in sé valutata: l’obbligazione
contributiva per costo di costruzione,
dunque, è a-causale ed appare soffermarsi
sulla produzione di ricchezza connessa
all’utilizzazione edificatoria del
territorio ed alle potenzialità economiche
che ne derivano e, pertanto, ha natura
essenzialmente paratributaria. Il contributo
afferente al costo di costruzione, a norma
dell’art. 6 della L. 10/1977, è determinato
in rapporto alle caratteristiche, alle
tipologie delle costruzioni e delle loro
destinazioni ed ubicazioni (oggi occorre
fare riferimento all’art. 16 del D.P.R.
380/2001).
Ne deriva, quindi, che nell’ipotesi di
variazione di destinazione d’uso di un
immobile accompagnata dalla realizzazione di
opere, sussiste il presupposto per il
pagamento della parte di contributo
afferente al costo di costruzione, da
riferire al dato oggettivo della
risistemazione dell’edificio.
Passando all’esame della prospettazione
principale, parte ricorrente sostiene che la
trasformazione di un orfanatrofio in scuola
dell’obbligo non determina un mutamento di
destinazione d’uso rilevante ai fini
urbanistici edilizi, dato che si tratta di
servizi assimilabili, collocati all’interno
della stessa categoria funzionale; aggiunge
che le opere realizzate non determinano uno
stravolgimento dell’organismo edilizio
esistente, bensì il consolidamento,
ripristino e rinnovo di alcuni elementi
costitutivi (pavimenti e solai) e
l’inserimento di accessori (ascensore, servo
scala, servizi igienici, etc.): l’intervento
è ascrivibile nella categoria del restauro e
risanamento conservativo, non soggetto al
pagamento di contributi.
La tesi è parzialmente fondata.
Deve essere vagliata preliminarmente la
deduzione di parte ricorrente tesa a mettere
in luce l’assenza di un maggiore carico
urbanistico a seguito della realizzazione
della nuova struttura.
Sia nella precedente che nell’attuale
normativa in effetti (articoli 3, 5, 6 della
L. 10/1977 e 16 del D.P.R. 380/2001) alle
nuove edificazioni e agli altri interventi –comunque soggetti a titolo abilitativo–
corrisponde il pagamento di un contributo
commisurato all’incidenza degli oneri di
urbanizzazione, nonché al costo di
costruzione. La natura giuridica del
predetto contributo è quella di prestazione
patrimoniale imposta, anche
indipendentemente dall'utilità specifica del
singolo concessionario, comunque tenuto a
concorrere alla spesa pubblica per le
infrastrutture che debbono accompagnare ogni
nuovo insediamento edificatorio (Consiglio
di Stato, sez. VI – 25/08/2009 n. 5059).
In particolare il contributo per oneri
di urbanizzazione è un corrispettivo di
diritto pubblico, di natura non tributaria,
posto a carico del costruttore a titolo di
partecipazione ai costi delle opere di
urbanizzazione in proporzione all’insieme
dei benefici che la nuova costruzione ne
ritrae (cfr. per tutti TAR Puglia Bari,
sez. III – 10/02/2011 n. 243). Il presupposto
imponibile per il pagamento dei contributi
di urbanizzazione va ravvisato nella domanda
di una maggiore dotazione di servizi (rete
viaria, fognature, ecc.) nell’area di
riferimento, che sia indotta dalla
destinazione d’uso concretamente impressa
all’alloggio, in quanto una diversa
utilizzazione rispetto a quella stabilita
nell’originario titolo abilitativo può
determinare una variazione quantitativa e
qualitativa del carico urbanistico (Sentenza
Sezione 11/06/2004 n. 646; TAR Lombardia
Milano, sez. II – 02/10/2003 n. 4502;
Consiglio Stato, sez. V – 25/05/1995 n. 822).
In termini generali, il fondamento del
contributo di urbanizzazione –da versare al
momento del rilascio di una concessione
edilizia– non consiste nell'atto
amministrativo in sé bensì nella necessità
di ridistribuire i costi sociali delle opere
di urbanizzazione, facendoli gravare sugli
interessati che beneficiano delle utilità
derivanti dalla presenza delle medesime,
secondo modalità eque per la comunità.
L'entità degli oneri di urbanizzazione è in
buona sostanza correlata alla variazione del
carico urbanistico, sicché è ben possibile
che un intervento di ristrutturazione e
mutamento di destinazione d'uso possa non
comportare aggravi di carico urbanistico e
quindi l'obbligo della relativa
corresponsione degli oneri; al contrario è
altrettanto possibile che in caso di
mutamento di destinazione di uso nell'ambito
della stessa categoria urbanistica, faccia
seguito un maggior carico urbanistico
indotto dalla realizzazione di quanto
assentito e correlativamente siano dovuti
gli oneri concessori (TAR Lazio Roma,
sez. II – 14/11/2007 n. 11213).
Nella fattispecie non affiorano elementi
utili a comprovare che il mutamento di
destinazione d'uso sia stato accompagnato da
un’alterazione del carico urbanistico. Al
contrario la stessa amministrazione comunale
afferma di aver concesso una riduzione
dell’80% rispetto a quanto dovuto in
applicazione della tabella C.3 allegata alla
L.r. 60-61/1977 (seppur motivato dalla natura
di interesse generale dell’opera).
In ogni
caso, come sostenuto di recente (cfr.
sentenza Sezione 02/03/2012 n. 355) in
presenza di un insediamento già capace di
rispondere a bisogni collettivi (come la
struttura preesistente adibita ad
orfanatrofio) l’amministrazione –per poter
legittimamente esigere il contributo per gli
oneri di urbanizzazione– avrebbe dovuto
dare contezza degli indici o, comunque,
delle condizioni da cui si evinceva il
maggior carico urbanistico addebitabile al
richiesto mutamento di destinazione (cfr.
TAR Lombardia Milano, sez. IV – 04/05/2009
n. 3604).
Non avendo evidenziato la
ricorrenza, nel caso concreto (mediante
raffronto tra la destinazione originaria e
quella attuale) del presupposto del
pagamento richiesto –ossia della variazione
in aumento della domanda di servizi– deve
ritenersi indebitamente preteso l’importo di
€ 39.280,38, da restituire alla parte
ricorrente.
Pacifica è la diversa natura degli oneri
di urbanizzazione rispetto ai costi di
costruzione, i quali rappresentano una
compartecipazione comunale all’incremento di
valore della proprietà immobiliare del
costruttore a seguito della nuova
edificazione (cfr. TAR Abruzzo Pescara –
18/10/2010 n. 1142).
Mentre il contributo per gli oneri di
urbanizzazione ha funzione recuperatoria
delle spese sostenute dalla collettività
comunale in relazione alla trasformazione
del territorio assentita al singolo, il
contributo per costo di costruzione, che è
rapportato alle caratteristiche ed alla
tipologia delle costruzioni e non è
alternativo ad altro valore di genere
diverso, afferisce alla mera attività
costruttiva in sé valutata: l’obbligazione
contributiva per costo di costruzione,
dunque, è a-causale ed appare soffermarsi
sulla produzione di ricchezza connessa
all’utilizzazione edificatoria del
territorio ed alle potenzialità economiche
che ne derivano e, pertanto, ha natura
essenzialmente paratributaria (TAR
Campania Salerno, sez. II – 11/06/2002 n.
459). Il contributo afferente al costo di
costruzione, a norma dell’art. 6 della L.
10/1977, è determinato in rapporto alle
caratteristiche, alle tipologie delle
costruzioni e delle loro destinazioni ed
ubicazioni (oggi occorre fare riferimento
all’art. 16 del D.P.R. 380/2001).
Ne deriva, quindi, che nell’ipotesi di
variazione di destinazione d’uso di un
immobile accompagnata dalla realizzazione di
opere, sussiste il presupposto per il
pagamento della parte di contributo
afferente al costo di costruzione, da
riferire al dato oggettivo della
risistemazione dell’edificio. Deve dunque
essere assoggettato ad imposizione il
complessivo valore aggiunto del fabbricato
destinato a nuova struttura ricettiva, e la
base di calcolo è stata correttamente
individuata in € 49.280,30 €.
In conclusione il ricorso è parzialmente
fondato e deve essere accolto nella parte in
cui il Comune ha erroneamente preteso la
quota di oneri di urbanizzazione (€
39.280,38), che devono essere restituiti.
Sulla somma vanno calcolati gli interessi i
quali decorrono –trattandosi di azione di
ripetizione di indebito– dalla data di
proposizione della domanda giudiziale,
dovendosi presumere la buona fede
dell’amministrazione resistente in assenza
di dimostrazione contraria, mentre non
spetta la rivalutazione monetaria
trattandosi di indebito oggettivo il quale
genera solo l’obbligazione di restituzione
degli interessi a norma dell’art. 2033 del
c.c. (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II –
05/05/2004 n. 1620; TAR Lazio Roma, sez. I –
19/01/1999 n. 99; Consiglio di Stato, sez. V
– 30/10/1997 n. 1207)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 24.08.2012 n. 1467 - link a www.giustizia-amministrativa.it) |
EDILIZIA PRIVATA: La
zonizzazione elettromagnetica è legittima se
rimane entro i confini della funzione
urbanistica senza interferire con interessi
di altra natura e in particolare con la
tutela della salute.
L’adozione di criteri localizzativi da parte
degli enti locali non deve pregiudicare
l'interesse nazionale alla realizzazione
delle reti di telecomunicazione: di
conseguenza non possono considerarsi
legittime previsioni generiche o
eccessivamente discrezionali.
In definitiva attraverso i suddetti criteri
possono essere imposte localizzazioni
alternative purché siano garantiti lo
sviluppo delle reti e la copertura del
territorio.
Proprio per questo la zonizzazione è
normalmente preceduta da accordi con i
gestori delle reti di telefonia, che sono
tenuti a prospettare tutti i punti
equivalenti sotto il profilo della copertura
ottimale delle varie aree del territorio per
consentire poi ai comuni di effettuare le
proprie valutazioni urbanistiche.
La zonizzazione elettromagnetica è legittima
se rimane entro i confini della funzione
urbanistica senza interferire con interessi
di altra natura e in particolare con la
tutela della salute (v. art. 4, comma 11,
della LR 11.05.2001 n. 11).
La giurisprudenza costituzionale ha
precisato che l’adozione di criteri
localizzativi da parte degli enti locali non
deve pregiudicare l'interesse nazionale alla
realizzazione delle reti di
telecomunicazione: di conseguenza non
possono considerarsi legittime previsioni
generiche o eccessivamente discrezionali (v.
C.Cost. 07.10.2003 n. 307 punti 7 e 21;
C.Cost. 07.11.2003 n. 331 punto 6; C.Cost.
27.07.2005 n. 336 punto 9.1; C.Cost.
28.03.2006 n. 129 punto 7.3).
In definitiva attraverso i suddetti criteri
possono essere imposte localizzazioni
alternative purché siano garantiti lo
sviluppo delle reti e la copertura del
territorio.
Proprio per questo la zonizzazione è
normalmente preceduta da accordi con i
gestori delle reti di telefonia, che sono
tenuti a prospettare tutti i punti
equivalenti sotto il profilo della copertura
ottimale delle varie aree del territorio per
consentire poi ai comuni di effettuare le
proprie valutazioni urbanistiche
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 24.08.2012 n. 1461 - link a www.giustizia-amministrativa.it) |
ENTI LOCALI -
VARI:
Pericolo autocertificazioni. Il carcere a
chi dichiara un reddito più basso.
La Cassazione: è reato di falsità ideologica. E la buona
fede non serve.
Rischia di finire in carcere chi autocertifica un reddito
più basso. Il reato è falsità ideologica punibile con il
carcere fino a due anni.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con
sentenza 23.08.2012 n. 33218.
La V sez. penale ha respinto
il ricorso di una donna che aveva dichiarato di avere
redditi zero in una dichiarazione sostitutiva di
certificazione. Per questo erano scattate le accuse per
falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico.
Lei si era difesa sostenendo che l'autocertificazione non è
un atto pubblico. Ma Tribunale e Corte d'appello l'avevano
condannata. La tesi non ha fatto breccia neppure in
Cassazione.
La quinta sezione penale ha infatti reso
definitiva la condanna spiegando che l'art. 483 cp ha natura
di norma in bianco e, quindi, richiede, per la definizione
del suo contenuto precettivo, il collegamento con una
diversa norma, eventualmente di carattere extrapenale, che
conferisca attitudine probatoria all'atto in cui confluisce
la dichiarazione non veritiera, così dando luogo all'obbligo
per il dichiarante di attenersi alla verità.
Insomma, l'autocertificazione, prevista dal dpr 28.12.2000,
n. 445 svolge, proprio la funzione di norma integratrice del
precetto penale attribuendo efficacia probatoria ai fini
amministrativi alla dichiarazione del privato di provare i
fatti attestati, evitando l'onere di provarli con la
produzione nella specie, della dichiarazione dei redditi e
così collegando l'efficacia probatoria dell'atto ai dovere
dell'istante di dichiarare il vero.
Nulla da fare neppure sull'altro grimaldello usato dalla
difesa per far annullare la doppia condanna di merito e cioè
la buona fede della signora. Infatti secondo i Supremi
giudici la donna non poteva non conoscere che il suo reddito
non era pari a zero.
Quindi non era neppure necessario che l'accusa provasse il
dolo dell'imputata connaturato all'operazione stessa.
Infatti nel delitto di falso il dolo viene escluso tutte le
volte in cui tale falsità risulti essere semplicemente
dovuta a una leggerezza o negligenza, dal momento che il
nostro codice penale non prevede la figura del falso
documentale colposo
(articolo ItaliaOggi del 24.08.2012). |
EDILIZIA PRIVATA: La
legge 122/1989 ha introdotto per quanto
riguarda i parcheggi pertinenziali
tre importanti innovazioni:
(1) l’art. 2,
comma 2, ha incrementato la misura minima
obbligatoria di parcheggi pertinenziali nei
nuovi edifici (il rapporto di 1mq/20mc
stabilito inizialmente dall’art. 41-sexies,
comma 1, della legge 17.08.1942 n. 1150
nel testo aggiunto dall'art. 18 della legge
06.08.1967 n. 765 è stato portato a
1mq/10mc);
(2) l’art. 9, comma 1, ha stabilito
il principio secondo cui i parcheggi pertinenziali possono essere realizzati
anche in deroga agli strumenti urbanistici e
ai regolamenti edilizi vigenti;
(3) l’art.
11, comma 1, ha esteso ai parcheggi pertinenziali il regime di gratuità proprio
delle opere di urbanizzazione ex art. 9,
comma 1-f, della legge 10/1977.
---------------
Un primo problema è se la gratuità
vada collegata soltanto ai parcheggi
pertinenziali realizzati negli edifici
esistenti o se debba essere estesa anche ai
nuovi edifici, dove la dotazione minima è
comunque obbligatoria.
La soluzione preferibile appare quella
dell’applicabilità del beneficio a tutte le
costruzioni, esistenti e di nuova
realizzazione, in quanto la presenza di una
superficie minima destinata a parcheggio
soddisfa allo stesso modo l’interesse
pubblico grazie a spese di investimento
sostenute dai privati: riscuotendo anche gli
oneri concessori i comuni otterrebbero un
arricchimento non giustificato.
Un secondo problema, strettamente
connesso, è se la gratuità riguardi anche i
parcheggi pertinenziali che eccedono la
misura minima di legge.
In questo caso la risposta preferibile è
quella negativa: essendo già assicurato
l’obiettivo posto dal legislatore non vi
sono ragioni per imporre ai comuni di
rinunciare ai corrispettivi collegati
all’edificazione. Sotto questo profilo la
qualificazione dei parcheggi come opere di
urbanizzazione ex art. 11, comma 1, della
legge 122/1989 rimane circoscritta, in
mancanza di una specifica norma espansiva,
entro i confini della pertinenzialità
tracciati dall’art. 41-sexies, comma 1,
della legge 1150/1942;
Questa soluzione trova conferma in ambito
locale nell’art. 4, comma 4, della LR
05.12.1977 n. 60, secondo il quale nel
calcolo degli oneri di urbanizzazione degli
edifici residenziali “i volumi e gli spazi
destinati al ricovero di autovetture non
sono computati, salvo che per la quota
eccedente quella richiesta obbligatoriamente
per parcheggio”. Tale norma (ora abrogata
dalla più ampia disciplina della LR 12/2005)
conteneva un rinvio implicito all’art.
41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942 e
distingueva con chiarezza tra i parcheggi
obbligatori e quelli facoltativi,
evidentemente attribuendo ai secondi una
funzione speculativa (ossia la finalità di
incrementare il valore dell’immobile di cui
costituiscono pertinenze) incompatibile con
la gratuità del titolo edilizio.
--------------
Quando non sono coinvolte questioni di
finanza pubblica il favore per l’incremento
dei parcheggi pertinenziali manifestato
dall’art. 9, comma 1, della legge 122/1989
può esplicarsi liberamente. Pertanto la
deroga alle norme urbanistiche può essere
utilizzata anche per costruire parcheggi
pertinenziali in misura superiore a quella
minima.
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Un vero cambio di regime si è verificato
invece con l’entrata in vigore della LR
12/2005, che tramite l’art. 69 ha introdotto
il principio della gratuità dei titoli
edilizi relativi ai parcheggi collegando
l’utilità di queste opere direttamente agli
interessi della viabilità senza la
mediazione di uno specifico edificio (di qui
l’abbandono del requisito della
pertinenzialità) e senza la
predeterminazione di limiti quantitativi (di
qui il superamento della misura minima di
legge). La nuova disciplina, che non può
avere effetti per il passato, costituisce
dunque lo spartiacque in materia di titoli
edilizi riferiti ai parcheggi.
Solo con l’art. 69 della LR 12/2005 si può
ritenere che le opere accessorie ai
parcheggi (rampe, corselli, spazi di
manovra) siano sottoposte al regime di piena
gratuità. Nel periodo anteriore si applicava
lo stesso trattamento dei parcheggi: l’art.
2 del DM Lavori Pubblici 10.05.1977 n. 801,
pur non elencando espressamente queste
opere, parla comprensivamente di servizi e
accessori. Pertanto, se le opere accessorie
servono senza alcuna distinzione materiale
sia i parcheggi rientranti nel minimo di
legge sia quelli eccedenti, devono essere
aggregate pro quota all’una o all’altra di
queste categorie applicando il rapporto tra
le superfici dei parcheggi (ad esempio, se
il 50% dei parcheggi ricade nel minimo di
legge e il 50% eccede tale minimo, gli spazi
accessori dovranno essere ripartiti nella
stessa proporzione).
Parimenti è solo con l’art. 69, comma 2,
della LR 12/2005 che le superfici destinate
a parcheggio non concorrono alla definizione
della classe dell'edificio ai fini del
calcolo del costo di costruzione. Per il
periodo precedente si deve invece tenere
conto delle superfici relative ai parcheggi
eccedenti la dotazione minima di legge.
Sulle questioni formulate dalle parti si possono svolgere le seguenti
considerazioni:
(a) la vicenda in esame si colloca nella
fascia temporale compresa tra la LR 19.11.1999 n. 22 e la LR 11.03.2005 n.
12;
(b) l’art. 2, comma 2, della LR 22/1999
qualifica i parcheggi come opere di
urbanizzazione ai sensi dell'art. 9, comma
1-f, della legge 28.01.1977 n. 10
stabilendo in questo modo la gratuità del
relativo titolo edilizio. L’art. 2, comma 1,
della LR 22/1999 richiama la disciplina di
favore prevista per i parcheggi pertinenziali dall’art. 9 della legge 24.03.1989 n. 122. Per ricostruire il quadro
normativo anteriore alla LR 12/2005 occorre
partire proprio dalla normativa statale sui
parcheggi pertinenziali;
(c) la legge 122/1989 ha introdotto per
quanto riguarda i parcheggi pertinenziali
tre importanti innovazioni:
(1) l’art. 2,
comma 2, ha incrementato la misura minima
obbligatoria di parcheggi pertinenziali nei
nuovi edifici (il rapporto di 1mq/20mc
stabilito inizialmente dall’art. 41-sexies,
comma 1, della legge 17.08.1942 n. 1150
nel testo aggiunto dall'art. 18 della legge
06.08.1967 n. 765 è stato portato a
1mq/10mc);
(2) l’art. 9, comma 1, ha stabilito
il principio secondo cui i parcheggi pertinenziali possono essere realizzati
anche in deroga agli strumenti urbanistici e
ai regolamenti edilizi vigenti;
(3) l’art.
11, comma 1, ha esteso ai parcheggi pertinenziali il regime di gratuità proprio
delle opere di urbanizzazione ex art. 9,
comma 1-f, della legge 10/1977;
(d) la suddetta normativa statale prevede un
obiettivo di interesse pubblico (parcheggi
pertinenziali nella misura minima di
1mq/10mc), uno strumento giuridico
(possibilità di deroga alla disciplina
urbanistica) e un incentivo (gratuità del
titolo edilizio). La deroga alla disciplina
urbanistica permette di superare gli
ostacoli presenti nella zonizzazione e nelle
norme comunali sulle distanze, e in astratto
è riferibile a qualsiasi nuovo parcheggio
pertinenziale. L’incentivo della gratuità è
invece diretto principalmente ai proprietari
di edifici esistenti (di per sé esclusi
dall’obbligo di dotarsi di parcheggi
pertinenziali nella misura minima di legge);
(e) un primo problema è quindi se la
gratuità vada collegata soltanto ai
parcheggi pertinenziali realizzati negli
edifici esistenti o se debba essere estesa
anche ai nuovi edifici, dove la dotazione
minima è comunque obbligatoria. La soluzione
preferibile appare quella dell’applicabilità
del beneficio a tutte le costruzioni,
esistenti e di nuova realizzazione, in
quanto la presenza di una superficie minima
destinata a parcheggio soddisfa allo stesso
modo l’interesse pubblico grazie a spese di
investimento sostenute dai privati:
riscuotendo anche gli oneri concessori i
comuni otterrebbero un arricchimento non
giustificato;
(f) un secondo problema, strettamente
connesso, è se la gratuità riguardi anche i
parcheggi pertinenziali che eccedono la
misura minima di legge. In questo caso la
risposta preferibile è quella negativa:
essendo già assicurato l’obiettivo posto dal
legislatore non vi sono ragioni per imporre
ai comuni di rinunciare ai corrispettivi
collegati all’edificazione. Sotto questo
profilo la qualificazione dei parcheggi come
opere di urbanizzazione ex art. 11, comma 1,
della legge 122/1989 rimane circoscritta, in
mancanza di una specifica norma espansiva,
entro i confini della pertinenzialità
tracciati dall’art. 41-sexies, comma 1, della
legge 1150/1942;
(g) questa soluzione trova conferma in
ambito locale nell’art. 4, comma 4, della LR
05.12.1977 n. 60, secondo il quale nel
calcolo degli oneri di urbanizzazione degli
edifici residenziali “i volumi e gli spazi
destinati al ricovero di autovetture non
sono computati, salvo che per la quota
eccedente quella richiesta obbligatoriamente
per parcheggio”. Tale norma (ora abrogata
dalla più ampia disciplina della LR 12/2005)
conteneva un rinvio implicito all’art.
41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942 e
distingueva con chiarezza tra i parcheggi
obbligatori e quelli facoltativi,
evidentemente attribuendo ai secondi una
funzione speculativa (ossia la finalità di
incrementare il valore dell’immobile di cui
costituiscono pertinenze) incompatibile con
la gratuità del titolo edilizio;
(h) quando invece non sono coinvolte
questioni di finanza pubblica il favore per
l’incremento dei parcheggi pertinenziali
manifestato dall’art. 9, comma 1, della legge
122/1989 può esplicarsi liberamente.
Pertanto la deroga alle norme urbanistiche
può essere utilizzata anche per costruire
parcheggi pertinenziali in misura superiore
a quella minima (con alcune limitazioni: v.
TAR Brescia Sez. I 15.04.2009 n. 858);
(i) le medesime considerazioni valgono per
la legislazione regionale, in quanto l’art.
2, comma 2, della LR 22/1999 mantiene la
stessa impostazione della normativa statale
(v. TAR Brescia Sez. II 29.03.2011 n.
498; TAR Brescia Sez. I 26.09.2007 n.
898). Una differenza è costituita
dall’estensione del concetto di pertinenza,
applicato anche agli immobili non
residenziali dall’art. 1, comma 1, della LR
22/1999. Si tratta però di un’innovazione
che non interessa il caso in esame;
(j) un vero cambio di regime si è verificato
invece con l’entrata in vigore della LR
12/2005, che tramite l’art. 69 ha introdotto
il principio della gratuità dei titoli
edilizi relativi ai parcheggi collegando
l’utilità di queste opere direttamente agli
interessi della viabilità senza la
mediazione di uno specifico edificio (di qui
l’abbandono del requisito della
pertinenzialità) e senza la
predeterminazione di limiti quantitativi (di
qui il superamento della misura minima di
legge). La nuova disciplina, che non può
avere effetti per il passato, costituisce
dunque lo spartiacque in materia di titoli
edilizi riferiti ai parcheggi (v. TAR
Brescia, Sez I, 29.09.2009 n. 1709);
(k) solo con l’art. 69 della LR 12/2005 si
può ritenere che le opere accessorie ai
parcheggi (rampe, corselli, spazi di
manovra) siano sottoposte al regime di piena
gratuità. Nel periodo anteriore si applicava
lo stesso trattamento dei parcheggi: l’art.
2 del DM Lavori Pubblici 10.05.1977 n.
801, pur non elencando espressamente queste
opere, parla comprensivamente di servizi e
accessori. Pertanto, se le opere accessorie
servono senza alcuna distinzione materiale
sia i parcheggi rientranti nel minimo di
legge sia quelli eccedenti, devono essere
aggregate pro quota all’una o all’altra di
queste categorie applicando il rapporto tra
le superfici dei parcheggi (ad esempio, se
il 50% dei parcheggi ricade nel minimo di
legge e il 50% eccede tale minimo, gli spazi
accessori dovranno essere ripartiti nella
stessa proporzione);
(l) parimenti è solo con l’art. 69, comma 2,
della LR 12/2005 che le superfici destinate
a parcheggio non concorrono alla definizione
della classe dell'edificio ai fini del
calcolo del costo di costruzione. Per il
periodo precedente si deve invece tenere
conto delle superfici relative ai parcheggi
eccedenti la dotazione minima di legge.
In conclusione il ricorso deve essere
parzialmente accolto nel senso che il costo
di costruzione e la classe degli edifici
devono essere determinati prendendo in
considerazione i soli parcheggi eccedenti la
dotazione minima di legge (e i relativi
spazi accessori).
Il Comune è quindi tenuto a effettuare un
nuovo calcolo del contributo sul costo di
costruzione nel rispetto dei criteri esposti
ai punti precedenti. Per tale adempimento è
fissato il termine di 30 giorni dal deposito
della presente sentenza. Qualora la
ricorrente risulti aver pagato un importo
superiore a quello così ricalcolato il
Comune dovrà restituire la differenza entro
i successivi 30 giorni, applicando gli
interessi legali dalla data di notifica del
ricorso fino al saldo. Se la ricorrente per
i titoli edilizi in oggetto non risulterà
debitrice di somme ulteriori rispetto a
quelle già versate, il Comune dovrà
restituire immediatamente la polizza
fideiussoria.
Non sono dovuti indennizzi o risarcimenti
per il costo della suddetta polizza, in
quanto prima della LR 12/2005 vi era
incertezza sui criteri di calcolo degli
oneri concessori relativi ai parcheggi
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 23.08.2012 n. 1454 - link a www.giustizia-amministrativa.it) |
EDILIZIA PRIVATA: a) l'art. 13 (della legge 47/1985: NdE)
disciplina la sanatoria di opere realizzate
senza titolo ma conformi agli strumenti
urbanistici vigenti alla data della
costruzione ed alla data della domanda,
mentre l'applicazione della sanzione di cui
all'articolo 12 (stessa legge: NdE) è
prevista per le ipotesi di non conformità
della costruzione allo strumento
urbanistico;
b) la
sanzione pecuniaria inflitta ai sensi
dell'art. 12 l. 28.02.1985 n. 47 -secondo il quale il Sindaco, qualora ritenga
di non ordinare la demolizione delle opere
eseguite in parziale difformità dalla
concessione, applica una sanzione pari al
doppio del costo di produzione (oppure del
valore venale) delle opere medesime- ha
natura e finalità del tutto diverse dal
versamento dell'oblazione, cui è subordinato
il conseguimento della sanatoria delle opere
abusive;
c) da tale natura radicalmente differente
delle ipotesi contemplate dai citati artt.
12 e 13 legge 47/1985 (nel primo e più grave
caso: opere eseguite in parziale difformità
dalla concessione di cui, tuttavia, non è
possibile ordinare la demolizione senza
pregiudizio della parte conforme; nel
secondo, di gravità inferiore: sanatoria
postuma di opere intrinsecamente conformi)
discende anche la diversità dei parametri
rispettivamente previsti dai menzionati
artt. 12 e art. 13, e cioè:
- ai fini del calcolo della sanzione
pecuniaria ex art. 12: doppio del costo di
produzione della parte dell'opera realizzata
in difformità dalla concessione, se ad uso
residenziale; ovvero doppio del valore
venale, determinato a cura dell'ufficio
tecnico erariale, per le opere adibite ad
usi diversi da quello residenziale;
- ai fini dell’oblazione ex
art. 13: contributo di concessione in misura
doppia e calcolata con riferimento alla
(sola) parte di opera difforme dalla
concessione.
Iil Collegio osserva che, al fine di decidere la controversia come
sopra tratteggiata, occorre premettere, in
diritto, quanto segue:
a) <<l'art. 13 (della legge 47/1985: NdE)
disciplina la sanatoria di opere realizzate
senza titolo ma conformi agli strumenti
urbanistici vigenti alla data della
costruzione ed alla data della domanda,
mentre l'applicazione della sanzione di cui
all'articolo 12 (stessa legge: NdE) è
prevista per le ipotesi di non conformità
della costruzione allo strumento
urbanistico.>> (cfr. in termini: TAR
Sardegna, 15.10.2003, n. 1260);
b) anche la giurisprudenza della Cassazione
penale è, da tempo (cfr. sez. III, 14.10.01988, Brunini), nel senso che la
sanzione pecuniaria inflitta ai sensi
dell'art. 12 l. 28.02.1985 n. 47 -secondo il quale il Sindaco, qualora ritenga
di non ordinare la demolizione delle opere
eseguite in parziale difformità dalla
concessione, applica una sanzione pari al
doppio del costo di produzione (oppure del
valore venale) delle opere medesime- ha
natura e finalità del tutto diverse dal
versamento dell'oblazione, cui è subordinato
il conseguimento della sanatoria delle opere
abusive (nella specie, è stato rigettato il
ricorso dell'imputato, condannato per avere
eseguito lavori edili in difformità dalla
concessione, il quale presumeva di essere
stato ammesso alla sanatoria, essendogli
stata applicata dall'amministrazione
comunale la sanzione pecuniaria);
c) da tale natura radicalmente differente
delle ipotesi contemplate dai citati artt.
12 e 13 legge 47/1985 (nel primo e più grave
caso: opere eseguite in parziale difformità
dalla concessione di cui, tuttavia, non è
possibile ordinare la demolizione senza
pregiudizio della parte conforme; nel
secondo, di gravità inferiore: sanatoria
postuma di opere intrinsecamente conformi)
discende anche la diversità dei parametri
rispettivamente previsti dai menzionati
artt. 12 e art. 13, e cioè:
- ai fini del calcolo della sanzione
pecuniaria ex art. 12: doppio del costo di
produzione della parte dell'opera realizzata
in difformità dalla concessione, se ad uso
residenziale; ovvero doppio del valore
venale, determinato a cura dell'ufficio
tecnico erariale, per le opere adibite ad
usi diversi da quello residenziale;
- ai fini dell’oblazione ex
art. 13: contributo di concessione in misura
doppia e calcolata con riferimento alla
(sola) parte di opera difforme dalla
concessione
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 23.08.2012 n. 1449 - link a www.giustizia-amministrativa.it) |
URBANISTICA:
Il potere di modificare l’assetto territoriale,
già in precedenza configurato dallo stesso Comune, è
comunque correlato all’esercizio di un potere di natura
discrezionale, essendo, com’è, diretto a contemperare
l’interesse privato con il perseguimento dell’interesse
pubblico generale e collettivo contenuto nel Piano di
Intervento. Detto interesse pubblico deve necessariamente
considerare l’intero territorio, e non esclusivamente una
parte di esso.
L’esistenza di tale potere discrezionale, laddove non
integri il vizio dell’eccesso di potere permette allora di
ritenere legittimo il comportamento dell’Amministrazione.
Va ricordato come per un costante orientamento il potere di modificare
l’assetto territoriale, già in precedenza configurato dallo
stesso Comune, è comunque correlato all’esercizio di un
potere di natura discrezionale, essendo, com’è, diretto a
contemperare l’interesse privato con il perseguimento
dell’interesse pubblico generale e collettivo contenuto nel
Piano di Intervento. Detto interesse pubblico deve
necessariamente considerare l’intero territorio, e non
esclusivamente una parte di esso (Consiglio Stato, IV, 25.11.2003, n. 7782).
L’esistenza di tale potere discrezionale, laddove non
integri il vizio dell’eccesso di potere (ipotesi non
dimostrata dal ricorrente) permette allora di ritenere
legittimo il comportamento dell’Amministrazione (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 06.08.2012 n. 1116 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La
repressione degli abusi edilizi non incontra limiti di tempo
e, ciò, costituendo l’esercizio di un atto dovuto, in quanto
tale, diretto a ripristinare la situazione antecedente alla
violazione.
Analogamente a ciò, l’ordine di
demolizione costituisce un atto vincolato che non richiede
una specifica valutazione delle ragioni di interesse
pubblico, né una comparazione tra lo stesso interesse
pubblico e gli interessi privato, essendo comunque obbligata
l’Amministrazione a ricondurre la situazione di diritto a
quella di fatto.
Costituisce principio oramai consolidato in Giurisprudenza in base al
quale la repressione degli abusi edilizi non incontra limiti
di tempo e, ciò, costituendo l’esercizio di un atto dovuto,
in quanto tale, diretto a ripristinare la situazione
antecedente alla violazione (per tutti si veda Consiglio di
Stato n. 2010/3955).
Analogamente a ciò, l’ordine di demolizione costituisce un
atto vincolato che non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione tra
lo stesso interesse pubblico e gli interessi privato,
essendo comunque obbligata l’Amministrazione a ricondurre la
situazione di diritto a quella di fatto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 06.08.2012 n. 1114 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Gli interventi
edilizi in totale difformità dalla concessione, sanzionabili
con l'ordine di demolizione, sono quelli che comportano la
realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso
per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di
utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero
l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel
progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte
di esso con specifica rilevanza ed autonomamente
utilizzabile.
Con riferimento al terzo
motivo vengono contestati gli abusi riscontrati dal Comune,
in quanto, a parere del ricorrente, si farebbe riferimento a
violazioni inesistenti nella realtà. Va rilevato, al
contrario, come l’Amministrazione abbia pienamente
dimostrato come l’edificio realizzato sia integralmente
diverso per tipologia, posizionamento e per superficie.
L’entità dell’abuso realizzato ha, pertanto, legittimato
l’applicazione della sanzione della demolizione di cui
all’art. 31 del dpr 380/2001 nella parte in cui è diretta a
sanzionare proprio “la realizzazione di un organismo
edilizio integralmente diverso per caratteristiche
tipologiche, plano volumetriche o di utilizzazione…”.
Un costante orientamento Giurisprudenziale afferma, infatti,
che…”gli interventi edilizi in totale difformità dalla
concessione, sanzionabili con l'ordine di demolizione, sono
quelli che comportano la realizzazione di un organismo
edilizio integralmente diverso per caratteristiche
tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello
oggetto del permesso stesso, ovvero l'esecuzione di volumi
edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da
costituire un organismo edilizio o parte di esso con
specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile (Consiglio
di Stato Sez. V, sent. n. 1726 del 21-03-2011)”
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 06.08.2012 n. 1114 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Le opere di recinzione del terreno non
si configurano come nuova costruzione, per la quale è
necessario il previo rilascio di permesso di costruire,
quando, per natura e dimensioni, rientrino tra le
manifestazioni del diritto di proprietà, comprendente lo ius
excludendi alios o, comunque, la delimitazione e l'assetto
delle singole proprietà.
Tale è il caso della recinzione eseguita senza opere
murarie, costituita da una semplice rete metallica sorretta
da paletti in ferro, la quale costituisce installazione
precaria e non incide in modo permanente sull'assetto
edilizio del territorio.
L'intervento in questione, per costante giurisprudenza, non
rientra, tuttavia, tra gli interventi di edilizia libera
specificamente elencati dall’art. 6 del D.P.R. 380/2001,
come sostenuto dalla ricorrente, bensì nella portata
residuale degli interventi realizzabili con il regime
semplificato della d.i.a. di cui all’art. 22 del D.P.R.
380/2001.
Nel merito, quanto al fatto che per la realizzazione di una
recinzione in rete metallica e paletti non è prescritto il
permesso di costruire, esso appare irrilevante, atteso che
l'ordine di demolizione è connesso, non solo alla mancanza
del titolo edilizio, ma anche al mancato rispetto della
norma del regolamento edilizio che stabilisce le altezze
massime delle recinzioni, nonché al mancato rilascio del
nulla osta paesaggistico, trattandosi di opera realizzata in
zona vincolata.
Più precisamente, va premesso che le opere di recinzione del
terreno non si configurano come nuova costruzione, per la
quale è necessario il previo rilascio di permesso di
costruire, quando, per natura e dimensioni, rientrino tra le
manifestazioni del diritto di proprietà, comprendente lo
ius excludendi alios o, comunque, la delimitazione e
l'assetto delle singole proprietà.
Tale è il caso della recinzione eseguita senza opere
murarie, costituita da una semplice rete metallica sorretta
da paletti in ferro (come è nel caso di specie), la quale
costituisce installazione precaria e non incide in modo
permanente sull'assetto edilizio del territorio.
L'intervento in questione, per costante giurisprudenza, non
rientra, tuttavia, tra gli interventi di edilizia libera
specificamente elencati dall’art. 6 del D.P.R. 380/2001,
come sostenuto dalla ricorrente, bensì nella portata
residuale degli interventi realizzabili con il regime
semplificato della d.i.a. di cui all’art. 22 del D.P.R.
380/2001 (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 06.08.2012 n. 1102 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Nelle
gare di appalto l'interesse che assurge ad
interesse legittimo tutelato in sede
giurisdizionale non è quello generico al
rifacimento della gara, proprio di tutte le
imprese rimaste estranee al procedimento, ma
solo quello concreto ed attuale, finalizzato
all'ottenimento dell'aggiudicazione cui può
anelare l'aspirante alla gara attraverso la
eliminazione delle clausole lesive.
Si è quindi ritenuto inammissibile per
difetto di interesse l'impugnazione della lex specialis
quando l’impresa non abbia presentato alcuna
offerta e quindi si sia autoesclusa
dall'ulteriore corso della procedura se le
prescrizioni contenute nella stessa
procedura non impediscano la partecipazione
alla gara, né rendano impossibile la
presentazione dell'offerta.
La legittimazione al ricorso in materia di
affidamento di contratti pubblici spetta
solo al soggetto che ha legittimamente
partecipato alla procedura selettiva; in
termini di ratio è stato evidenziato che
“... deve essere tenuta rigorosamente ferma
la netta distinzione tra la titolarità di
una posizione sostanziale differenziata che
abilita un determinato soggetto
all'esercizio dell'azione (legittimazione al
ricorso) e l'utilità ricavabile
dall'accoglimento della domanda di
annullamento (interesse al ricorso) anche
prescindendo dal carattere finale e
strumentale di tale vantaggio. In altri
termini, ai fini della legittimazione al
ricorso, l'asserito valore sintomatico
derivante dal riscontro fattuale della
utilità pratica della decisione di
accoglimento presenta un risalto del tutto
marginale, in assenza di ulteriori dati
significativi”.
Nell’individuare, in termini peraltro non
restrittivi, le uniche eccezioni in base
alle quali sia possibile riconoscere la
legittimazione a impugnare una procedura di
affidamento anche da parte di un soggetto
che non ha partecipato a tale procedimento,
la stessa giurisprudenza predetta è giunta
ad enucleare esclusivamente le seguenti:
a) il soggetto che non ha partecipato alla
gara contesta in radice la scelta di
indizione della procedura;
b) l'operatore economico di settore contesta
un affidamento diretto o senza gara;
c) l'operatore manifesta la intenzione di
impugnare una clausola del bando escludente
in relazione alla illegittima previsione di
determinati requisiti di qualificazione.
In proposito, la giurisprudenza formatasi sia prima che successivamente
alla Adunanza Plenaria n. 1 del 2003, e
condivisa dal Collegio, ha ritenuto che
nelle gare di appalto l'interesse che
assurge ad interesse legittimo tutelato in
sede giurisdizionale non sia quello generico
al rifacimento della gara, proprio di tutte
le imprese rimaste estranee al procedimento,
ma solo quello concreto ed attuale,
finalizzato all'ottenimento
dell'aggiudicazione cui può anelare
l'aspirante alla gara attraverso la
eliminazione delle clausole lesive. Si è
quindi ritenuto inammissibile per difetto di
interesse l'impugnazione della lex specialis
quando l’impresa non abbia presentato alcuna
offerta e quindi si sia autoesclusa
dall'ulteriore corso della procedura se le
prescrizioni contenute nella stessa
procedura non impediscano la partecipazione
alla gara, né rendano impossibile la
presentazione dell'offerta (ex plurimis
Cons. Stato, V Sez., n. 102 del 2009 VI
Sez., n. 3786 del 2008).
Tali principi sono stati ribaditi
dall’Adunanza plenaria nel 2011: salve
puntuali eccezioni, individuate in coerenza
con il diritto comunitario, la
legittimazione al ricorso in materia di
affidamento di contratti pubblici, spetta
solo al soggetto che ha legittimamente
partecipato alla procedura selettiva; in
termini di ratio è stato evidenziato che “...
deve essere tenuta rigorosamente ferma la
netta distinzione tra la titolarità di una
posizione sostanziale differenziata che
abilita un determinato soggetto
all'esercizio dell'azione (legittimazione al
ricorso) e l'utilità ricavabile
dall'accoglimento della domanda di
annullamento (interesse al ricorso) anche
prescindendo dal carattere finale e
strumentale di tale vantaggio. In altri
termini, ai fini della legittimazione al
ricorso, l'asserito valore sintomatico
derivante dal riscontro fattuale della
utilità pratica della decisione di
accoglimento presenta un risalto del tutto
marginale, in assenza di ulteriori dati
significativi”.
Nell’individuare, in termini peraltro non
restrittivi, le uniche eccezioni in base
alle quali sia possibile riconoscere la
legittimazione a impugnare una procedura di
affidamento anche da parte di un soggetto
che non ha partecipato a tale procedimento,
la stessa giurisprudenza predetta è giunta
ad enucleare esclusivamente le seguenti:
a) il soggetto che non ha partecipato alla
gara contesta in radice la scelta di
indizione della procedura;
b) l'operatore economico di settore contesta
un affidamento diretto o senza gara;
c) l'operatore manifesta la intenzione di
impugnare una clausola del bando escludente
in relazione alla illegittima previsione di
determinati requisiti di qualificazione
(TAR Liguria, Sez. II,
sentenza 03.08.2012 n. 1135 - link a www.giustizia-amministrativa.it) |
EDILIZIA PRIVATA: Quando
non siano necessarie valutazioni di ordine
prettamente tecnico, che involgano profili
di tutela territoriale e paesaggistica, ma
emergano quelle di ordine più squisitamente
giuridico, l'Amministrazione può provvedere
pure in assenza del parere della Commissione
edilizia.
Neppure è fondato il terzo motivo di ricorso che lamenta la
violazione dell’art. 3 del regolamento
edilizio comunale.
L’articolo citato impone il parere della CE
in ogni ipotesi di opere edilizie che non
siano semplici varianti ex art. 15 l. n. 47/1985
o disciplinate dalla DIA, e certamente
quella in oggetto è per la trasformazione
operata sul primitivo permesso di
costruzione un’iniziativa edilizia del tutto
diversa come testimoniano in primo luogo,
l’aumento di cubatura e la modifica della
sagoma dell’edificio.
Tuttavia il Collegio ritiene fondata
l’eccezione del comune secondo la quale, nel
caso di specie, proprio per la radicale
trasformazione dell’opera progettata e la
diversa disciplina che sostiene il cd.
Piano-casa, il nuovo progetto non potesse
essere considerato una variante del primo,
con la conseguenza di non dover essere
sottoposto alla CE integrata, ma
semplicemente rigettato sulla base delle
considerazioni giuridiche che negavano la
continuità tra l’originaria iniziativa
edilizia e il nuovo progetto.
Le considerazioni sopra svolte hanno trovato
già conforto nella giurisprudenza
amministrativa che ha affermato: ”Quando
non siano necessarie valutazioni di ordine
prettamente tecnico, che involgano profili
di tutela territoriale e paesaggistica, ma
emergano quelle di ordine più squisitamente
giuridico, l'Amministrazione può provvedere
pure in assenza del parere della Commissione
edilizia”. (Tar Lazio I 10.05.2011 n.
4019; Tar Liguria, I 02.11.2011 n. 1509)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 03.08.2012 n. 1134 - link a www.giustizia-amministrativa.it) |
EDILIZIA PRIVATA: La
questione dell'adeguatezza o meno della
motivazione con cui il Comune ha esplicitato
i criteri di calcolo applicati è destinata a
risultare recessiva rispetto a quella della
correttezza o meno di tali criteri: al
riguardo, infatti, va richiamato il
consolidato indirizzo giurisprudenziale
secondo cui la determinazione degli oneri di
urbanizzazione si correla a una precisa
disciplina normativa, di modo che i
provvedimenti applicativi di essa non
richiedono di per sé alcuna puntuale
motivazione allorché le scelte
dell'Amministrazione si conformino a detti
criteri.
La società ricorrente impugna la suddetta
nota n. 1617 del 02.02.1993, deducendo ,
sotto un primo profilo, che la
rideterminazione assunta dal Comune
risulterebbe del tutto carente di
motivazione circa la rinnovata
qualificazione dell’intervento, essendosi
l’amministrazione limitata ad asserire: “un
supplemento di istruttoria ha dimostrato che
la riduzione sugli oneri di urbanizzazione
primaria e secondaria era stata applicata
erroneamente”.
Sul punto, è opportuno sottolineare come la
questione dell'adeguatezza o meno della
motivazione con cui il Comune ha esplicitato
i criteri di calcolo applicati è destinata a
risultare recessiva rispetto a quella della
correttezza o meno di tali criteri: al
riguardo, infatti, va richiamato il
consolidato indirizzo giurisprudenziale
secondo cui la determinazione degli oneri di
urbanizzazione si correla a una precisa
disciplina normativa, di modo che i
provvedimenti applicativi di essa non
richiedono di per sé alcuna puntuale
motivazione allorché le scelte
dell'Amministrazione si conformino a detti
criteri (cfr. Cons. St., Sez. IV,
27.04.2012, n. 2471; Sez. V, 09.02.2001, nr.
584).
Nel caso che qui occupa, inoltre, il Comune
ha esplicitato in corso di giudizio le
ragioni che lo hanno indotto alla
riqualificazione dell’intervento,
sottolineando –senza incontrare in proposito
specifica contestazione– che l’intervento ha
comportato un diverso carico urbanistico,
non solo quantitativo ma anche qualitativo,
per la destinazione commerciale di parte
dell’immobile. Ha quindi tratto da tale
elemento un argomento decisivo per escludere
la modesta entità e frammentarietà
dell’intervento.
La delibera C. C. n. 75 del 14.07.1977 norme
generali punto 2) prevede che “agli
interventi caratterizzati da modesta entità
o da frammentarietà come ad esempio gli
ampliamenti, i completamenti, i restauri e
le ristrutturazioni che non comportano
carico aggiuntivo di popolazione, oltreché
gli interventi singoli in zone (già dotate
in tutto o in parte di urbanizzazione) si
applica, per le opere di urbanizzazione
primaria e secondaria, un contributo
forfetario di un terzo del valore stimato in
modo sintetico per le zone di espansione”.
Orbene, le deduzioni svolte
dall’amministrazione consentono di escludere
la sussistenza del requisito che giustifica
l’applicazione del contributo in misura
contingentata, ovvero l’invarianza del
carico urbanistico.
Che tale fattore non sia rimasto immutato è
circostanza riconosciuta anche dalla parte
ricorrente (cfr. pag. 10 ricorso
introduttivo).
D’altra parte, avendo ad oggetto il giudizio
in corso l’accertamento negativo del diritto
di credito azionato dal comune, incombe
sull'attore l'onere di provare, ai sensi
dell'art. 2697 c.c., i fatti costituenti il
fondamento della pretesa azionata (cfr. TAR
Latina Lazio sez. I, 04.07.2007, n. 477).
Nell'ambito di siffatto giudizio di
accertamento, in cui le posizioni possedute
ed azionate hanno consistenza di diritto
soggettivo, il giudice dispone di soli
poteri acquisitivi e non dispositivi;
sicché, egli non può sostituirsi alle parti
ricercando e/o allegando lui le prove dei
fatti su cui è stato fondato il diritto
azionato. Grava sull'interessato l'onere di
comprovare le ragioni fondanti i fatti da
lui allegati; il giudice, dal suo canto,
potrà solo avvalersi di mezzi ausiliari (c.t.u.,
verificazioni) utili al fine della
valutazione di elementi probatori già
acquisiti o della soluzione di questioni che
comportino specifiche conoscenze tecniche
che vanno oltre il senso comune.
Alla luce dei principi enunciati, non
essendo stato allegato nessun elemento di
prova dei presupposti della riduzione degli
oneri, in conseguenza del carattere modesto
dell’intervento edilizio, la determinazione
assunta dal Comune sul punto non appare
censurabile.
Sotto questo primo profilo, il ricorso non
può trovare accoglimento
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 03.08.2012 n. 971 - link a www.giustizia-amministrativa.it) |
EDILIZIA PRIVATA: Devesi
ritenere legittima la condotta
dell'amministrazione che, valutando la
tipologia di lavori edilizi posti in essere,
ritenga di qualificare ed istruire come
istanza di concessione in sanatoria (art. 13
l. 28.02.1985 n. 47) la domanda formalmente
presentata come concessione in variante ai
sensi dell'art. 15 l. n. 47/1985.
---------------
L'entità del contributo per oneri di
urbanizzazione deve essere individuata con
riferimento al momento in cui viene
rilasciata la concessione edilizia in
sanatoria e in cui, quindi, sorge
l'obbligazione.
La ricorrente contesta l’atto impugnato
anche con riguardo alla determinazione degli
oneri dovuti in relazione alla variante del
22.11.1988.
La censura si fonda sull’asserita
irrazionalità della determinazione –che
quantifica l’oblazione prevista dall’art. 13
L. 47/1985- in quanto afferente a vicenda
non ancora conclusa, per non essere stato
presentato il progetto di sanatoria e per
non essere stati acquisiti tutti gli
elementi necessari ad una completa
rappresentazione delle opere realizzate.
La stessa nota n. 1617 del 02.02.1993
contiene l’espressa riserva di “rideterminare
gli oneri stessi in base al progetto di
sanatoria che dovrà essere presentato”.
Sussisterebbe, pertanto, assoluta incertezza
circa l’entità effettiva dell’oblazione e il
titolo della richiesta avanzata in tal senso
dal Comune.
Dalle difese della parte resistente si
ricava che il Comune, sul presupposto -non
contestato- che le opere eseguite in
variante sono abusive, perché prive di
concessione, ha inteso valutare ed esaminare
la domanda di variante “a titolo di
sanatoria”.
Della menzionata riqualificazione la
ricorrente non ha interesse a dolersi. Si
tratta, peraltro, di procedura ammissibile,
dovendosi ritenere legittima la condotta
dell'amministrazione che, valutando la
tipologia di lavori edilizi posti in essere,
ritenga di qualificare ed istruire come
istanza di concessione in sanatoria (art. 13
l. 28.02.1985 n. 47) la domanda formalmente
presentata come concessione in variante ai
sensi dell'art. 15 l. n. 47/1985 (cfr. TAR
Toscana Sez. III, 07-11-1998, n. 374).
Nondimeno, il contenuto dell’atto impugnato
appare sul punto non adeguatamente motivato,
in quanto recante conteggi non supportati da
alcun dato oggettivo di riferimento e da
alcuna tavola progettuale, alla cui
successiva acquisizione si riserva la
rideterminazione degli oneri stessi: nella
nota è infatti precisato che: “le somme
riferite alla variante potranno essere
rideterminate in base al progetto di
sanatoria che dovrà essere presentato dalla
società AL.E.RO.”.
L’iter seguito dal Comune, poi, non appare
in linea con le disposizioni normative
vigenti in materia, stando alle quali
l’intervento del Comune, ai fini della
determinazione in via definitiva del
relativo importo, fa seguito alla disamina
della domanda di concessione o di
autorizzazione e ai necessari correlati
accertamenti. Solo all’esito degli stessi,
il sindaco “determina in via definitiva
l'importo dell'oblazione e rilascia, salvo
in ogni caso il disposto dell'articolo 37,
la concessione o l'autorizzazione in
sanatoria” (art. 35 L. 47/1985).
Analogo principio è sinteticamente espresso
dall’art. 13, comma 3, L. 47/1985, ove si
dispone che “il rilascio della
concessione in sanatoria è subordinato al
pagamento, a titolo di oblazione, del
contributo di concessione in misura
doppia...”.
L’interpretazione che la giurisprudenza
fornisce di tali disposizioni è nel senso
che l'entità del contributo per oneri di
urbanizzazione deve essere individuata con
riferimento al momento in cui viene
rilasciata la concessione edilizia in
sanatoria e in cui, quindi, sorge
l'obbligazione (TAR Lazio sez. II,
04.05.2011, n. 3854; Tar Lazio, sez. II-ter,
n. 1059 del 2009; Cons. Stato, Sez. V,
26.03.2003, n. 1564).
L’amministrazione è quindi tenuta ad
effettuare adeguati accertamenti istruttori
sulla pratica di sanatoria, a determinarsi
sulla stessa e a riformulare, alla luce del
relativo esito, il conteggio degli oneri
dovuti ai sensi dell’art. 13 L. 47/1985
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 03.08.2012 n. 971 - link a www.giustizia-amministrativa.it) |
EDILIZIA PRIVATA: Gli
obblighi concernenti il pagamento di oneri
di urbanizzazione, la sopratassa per il
pagamento ritardato degli stessi e gli
interessi legali relativi, sono
qualificabili come obbligazioni di fonte
legale e quindi sono soggetti alla relativa
disciplina civilistica, in quanto non
derogata da norme speciali.
Con il quarto motivo, la ricorrente
contesta l’immotivata richiesta di interessi
avanzata dal Comune con lettera 11.03.1993 prot. n. 3941 in relazione ai versamenti
indicati nella precedente nota prot. n. 1617
del 02.02.1993.
Nella censura si lamenta l’assenza di
chiarezza del conteggio ivi riportato,
nonché l’illegittimità in sé della
richiesta, in difetto di inadempimento
colpevole imputabile alla parte ricorrente,
essendo la stessa rimasta in attesa delle
definitive determinazioni comunali.
Sul punto occorre premettere che gli
obblighi concernenti il pagamento di oneri
di urbanizzazione, la sopratassa per il
pagamento ritardato degli stessi e gli
interessi legali relativi, sono
qualificabili come obbligazioni di fonte
legale e quindi sono soggetti alla relativa
disciplina civilistica, in quanto non
derogata da norme speciali (TAR Lombardia,
Brescia Sez. I Sent. 14-12-2007, n. 1333).
La censura è parzialmente fondata, peraltro,
in ragione dell’accoglimento delle censure
sin qui esaminate, che comportano una
rideterminazione degli importi dovuti
costituenti la base di calcolo degli
interessi. L’amministrazione dovrà infatti
procedere ad una rideterminazione degli
stessi che tenga conto delle deduzioni degli
importi già versati.
Quanto alla loro
decorrenza, gli interessi legali di mora
dovranno essere calcolati dalla data di
comunicazione dell’atto di determinazione
degli oneri dovuti, oltre che dalla scadenza
del termine assegnato per l'adempimento
(cfr. Cons. Giust. Amm. Sic. Sez. giurisdiz.,
05-05-1993)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 03.08.2012 n. 971 - link a www.giustizia-amministrativa.it) |
APPALTI: In
base all’art. 46, comma 1-bis, del D.L.vo
12.04.2006, n. 163, aggiunto dall’art.
4, 2° comma, n. 2, lett. d), del D.L. n. 70
del 2011, convertito con modificazioni nella
L. 12.07.2011, n. 106,
è oggi possibile comminare
l’esclusione da una gara solo ove vi sia
incertezza in ordine alla provenienza della
domanda, al suo contenuto o alla sigillazione dei plichi e che ogni altra
ragione di non partecipazione agli incanti
non può essere prevista, a pena di nullità,
dal bando o dalla lettera d’invito.
La giurisprudenza ha già avuto modo di
chiarire che tale nuova disciplina restringe
la possibilità di comminare l’esclusione da
tali procedure alle ipotesi di mancato
adempimento a specifiche prescrizioni di
legge previste dal codice degli appalti, dal
regolamento attuativo (D.P.R. n. 207 del
2010) e da altre disposizioni legislative
vigenti, e solo ove vi sia incertezza
relativamente alla provenienza della
domanda, al suo contenuto o alla
sigillazione dei plichi, sanzionando con la
nullità ogni altra previsione di impedimento
alla partecipazione.
In particolare, è già chiarito, che è
illegittima l’esclusione da una gara, ad
esempio, per la mancata presentazione delle
referenze bancarie, di una fotocopia del
documento d’identità del sottoscrittore, di
una cauzione provvisoria di importo
inferiore a quello richiesto dal bando di
gara o di irregolarità della polizza
fideiussoria.
Ciò posto, ritiene il Collegio che la
mancata indicazione del tipo di società, del
numero, del nominativo e dell’indirizzo dei
soci non avrebbe dovuto determinare
l’automatica esclusione dalla gara del
raggruppamento in questione, specie ove si
consideri che tali elementi erano facilmente
rinvenibili consultando -come poi ha
effettuato la Stazione appaltante- altri
atti depositati dal concorrente in parola o
effettuando una visura camerale; tale
mancanza non crea, infatti, alcuna
incertezza “assoluta” sulla provenienza e
sul contenuto dell’offerta.
Va, al riguardo, ricordato che l’art. 46, comma 1-bis, del D.L.vo
12.04.2006, n. 163, aggiunto dall’art.
4, 2° comma, n. 2, lett. d), del D.L. n. 70
del 2011, convertito con modificazioni nella
L. 12.07.2011, n. 106, ha introdotto il
principio della tassatività delle cause di
esclusione dei soggetti partecipanti agli
esperimenti indetti dalla P.A, prevedendo la
possibilità di comminare l’esclusione solo
“nei casi di incertezza assoluta sul
contenuto o sulla provenienza dell’offerta,
per difetto di sottoscrizione o di altri
elementi essenziali ovvero in caso di non
integrità del plico contenente l’offerta o
la domanda di partecipazione o altre
irregolarità relative alla chiusura dei
plichi, tali da far ritenere, secondo le
circostanze concrete, che sia stato violato
il principio di segretezza delle offerte” e
che “i bandi e le lettere di invito non
possono contenere ulteriori prescrizioni a
pena di esclusione” e che “dette
prescrizioni sono comunque nulle”.
In base a tale norma, in definitiva -applicabile alla gara in questione, in
quanto il relativo bando è stato pubblicato
dopo l’entrata in vigore del predetto
decreto legge (TAR Puglia, sede Bari,
Sez. I, 11.01.2012)- è oggi possibile
comminare l’esclusione da una gara solo ove
vi sia incertezza in ordine alla provenienza
della domanda, al suo contenuto o alla sigillazione dei plichi e che ogni altra
ragione di non partecipazione agli incanti
non può essere prevista, a pena di nullità,
dal bando o dalla lettera d’invito.
Ora, interpretando tale normativa, la
giurisprudenza (cfr. da ultimo TAR
Sicilia, sez. Catania, sez. IV, 10.02.2012, n. 348, TAR Valle d’Aosta, 23.01.2012, n. 6, TAR Liguria, sez. II,
22.09.2011, n. 1396, e TAR Veneto,
sez. I, 13.09.2011, n. 1376) ha già
avuto modo di chiarire che tale nuova
disciplina restringe la possibilità di
comminare l’esclusione da tali procedure
alle ipotesi di mancato adempimento a
specifiche prescrizioni di legge previste
dal codice degli appalti, dal regolamento
attuativo (D.P.R. n. 207 del 2010) e da
altre disposizioni legislative vigenti, e
solo ove vi sia incertezza relativamente
alla provenienza della domanda, al suo
contenuto o alla sigillazione dei plichi,
sanzionando con la nullità ogni altra
previsione di impedimento alla
partecipazione.
In particolare, è già chiarito, che è
illegittima l’esclusione da una gara, ad
esempio, per la mancata presentazione delle
referenze bancarie (TAR Abruzzo, sede
Pescara, 09.11.2011, n. 632), di una
fotocopia del documento d’identità del
sottoscrittore (TAR Lombardia, sede
Milano, sez. III, 23.05.2012, n. 1397),
di una cauzione provvisoria di importo
inferiore a quello richiesto dal bando di
gara (Cons. St., sez. III, 01.02.2012,
n. 493, e TAR Lombardia, sede Milano,
sez. I, 14.06.2012, n. 1658) o di
irregolarità della polizza fideiussoria
(TAR Lazio, sede Roma, Sez. I-bis 15.12.2011, n. 9791).
Ciò posto, ritiene il Collegio che la
mancata indicazione del tipo di società, del
numero, del nominativo e dell’indirizzo dei
soci non avrebbe dovuto determinare
l’automatica esclusione dalla gara del
raggruppamento in questione, specie ove si
consideri che tali elementi erano facilmente
rinvenibili consultando -come poi ha
effettuato la Stazione appaltante- altri
atti depositati dal concorrente in parola o
effettuando una visura camerale; tale
mancanza non crea, infatti, alcuna
incertezza “assoluta” sulla
provenienza e sul contenuto dell’offerta
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 03.08.2012 n. 372 - link a www.giustizia-amministrativa.it) |
LAVORI PUBBLICI: L’impresa
che abbia richiesto nei prescritti termini
la verifica triennale del proprio attestato
SOA può partecipare alle gare indette dopo
il triennio anche se la verifica sia
compiuta successivamente, fermo restando che
l’efficacia dell’aggiudicazione è
subordinata all’esito positivo della
verifica stessa; mentre ove l’impresa che
abbia presentato la richiesta fuori termine
(cioè, oggi, dopo la scadenza del triennio)
può partecipare alle gare soltanto dopo la
data di positiva effettuazione della
verifica.
Quanto
alla prima va evidenziato che l’art. 77 del
regolamento di esecuzione ed attuazione del
codice dei contratti pubblici (D.P.R. 05.10.2010, n. 207) dispone che in data
“non antecedente a novanta giorni prima
della scadenza del previsto termine
triennale, l’impresa deve sottoporsi alla
verifica di mantenimento dei requisiti …
stipulando apposito contratto” e che
“qualora l’impresa si sottoponga a verifica
dopo la scadenza del triennio di validità
dell’attestazione, la stessa non può
partecipare alle gare nel periodo decorrente
dalla scadenza del triennio fino alla data
di effettuazione con esito positivo”.
Va osservato che questa disposizione, che
modifica la disciplina previgente contenuta
nell’art. 15-bis del D.P.R. 25.01.2000,
n. 34, non pone più un termine minimo per
l’avvio delle operazioni di verifica:
mentre, infatti, tale art. 15-bis, oggi
abrogato, prevedeva che “almeno” sessanta
giorni prima della scadenza del previsto
termine triennale, l’impresa avrebbe dovuto
sottoporsi alla verifica di mantenimento dei
requisiti presso la stessa SOA che aveva
rilasciato l’attestazione oggetto della
revisione e che nei trenta giorni successivi
avrebbe dovuto compiersi l’istruttoria, la
nuova normativa, oggi vigente ed applicabile
alla fattispecie ora all’esame, fissa il
diverso termine prima del quale non possono
iniziarsi le operazioni di verifica (“non
antecedente a novanta giorni prima della
scadenza”); con la conseguenza che, per
aversi continuità dell’iscrizione, è oggi
sufficiente che l’impresa stipuli il
relativo contratto con la SOA prima della
scadenza triennale.
Pertanto, come è stato di recente chiarito
(Cons. St., Ad. pl., 18.07.2012 n. 27),
l’impresa che abbia richiesto nei prescritti
termini la verifica triennale del proprio
attestato SOA può partecipare alle gare
indette dopo il triennio anche se la
verifica sia compiuta successivamente, fermo
restando che l’efficacia dell’aggiudicazione
è subordinata all’esito positivo della
verifica stessa; mentre ove l’impresa che
abbia presentato la richiesta fuori termine
(cioè, oggi, dopo la scadenza del triennio)
può partecipare alle gare soltanto dopo la
data di positiva effettuazione della
verifica
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 03.08.2012 n. 372 - link a www.giustizia-amministrativa.it) |
APPALTI: Quello
di continuità delle gare è un principio
tendenziale, che deve applicarsi per
soddisfare le due esigenze fondamentali di
garantire la celerità delle operazioni, in
ossequio al principio del buon andamento e
di efficienza dell'Amministrazione, e di
garantire l’assoluta indipendenza di
giudizio di chi presiede la gara e sottrarlo
a possibili influenze esterne.
Tale principio, però, ha valenza solo
orientativa, potendo essere derogato sia in
ragione della complessità delle operazioni
di gara (quali quelle ricomprese nel
sub-procedimento di verifica dell’anomalia)
e sia in presenza di situazioni particolari
che impediscano la concentrazione delle
stesse operazioni in una sola seduta.
Per cui si è al riguardo già precisato che,
considerate le ragioni di celerità e di
imparzialità sottese al principio di
continuità della gara, lo stesso, in
concreto, non viene violato se le operazioni
di gara si siano svolte in un tempo
ragionevole e se venga rispettato il
principio di segretezza delle operazioni di
gara fino all’enunciazione dell’esito della
stessa, né può essere addotta ad indice di
illegittimità dell’operato del seggio di
gara la pretesa inadeguatezza dei tempi
impiegati per l’esame delle offerte.
Va,
invero, al riguardo ricordato che quello di
continuità delle gare è un principio
tendenziale, che deve applicarsi per
soddisfare le due esigenze fondamentali di
garantire la celerità delle operazioni, in
ossequio al principio del buon andamento e
di efficienza dell'Amministrazione, e di
garantire l’assoluta indipendenza di
giudizio di chi presiede la gara e sottrarlo
a possibili influenze esterne.
Tale principio, però, ha valenza solo
orientativa, potendo essere derogato sia in
ragione della complessità delle operazioni
di gara (quali quelle ricomprese nel
sub-procedimento di verifica dell’anomalia)
e sia in presenza di situazioni particolari
che impediscano la concentrazione delle
stesse operazioni in una sola seduta.
Per cui si è al riguardo già precisato che,
considerate le ragioni di celerità e di
imparzialità sottese al principio di
continuità della gara, lo stesso, in
concreto, non viene violato se le operazioni
di gara si siano svolte in un tempo
ragionevole e se venga rispettato il
principio di segretezza delle operazioni di
gara fino all’enunciazione dell’esito della
stessa (Cons. St., sez. VI, 29.12.2010, n. 9577), né può essere addotta ad
indice di illegittimità dell’operato del
seggio di gara la pretesa inadeguatezza dei
tempi impiegati per l’esame delle offerte
(Cons. St., sez. IV, 28.03.2011, n. 1871,
e TAR Lazio, sede Roma, sez. III-bis,
27.06.2012, n. 5860)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 03.08.2012 n. 372 - link a www.giustizia-amministrativa.it) |
LAVORI PUBBLICI
- VARI:
Se l'albero rovina l'asfalto il padrone
paga dazio.
Il proprietario degli alberi posizionati
a margine di una strada rovinata dalle radici è sanzionabile
e tenuto al ripristino del danno provocato nel rispetto del
codice stradale. E non importa se la strada è pubblica o
privata essendo sufficiente che la stessa sia ammessa a
transito indistinto dei veicoli e quindi all'applicazione
diretta delle regole stradali.
Lo ha evidenziato la Corte di Cassazione, Sez. II civ., con
la
sentenza 17.07.2012 n. 12262.
La polizia municipale di Terni ha sanzionato il proprietario
di alcuni alberi per aver omesso di evitare il
danneggiamento della sede stradale con il loro apparato
radicale. Contro questa misura punitiva l'interessato ha
proposto ricorso senza successo fino al Palazzaccio.
Gli alberi in questione a parere del giudice d'appello
risultano piantati fuori dal confine stradale, su un terreno
privato, neppure sulle fasce di pertinenza.
Per questo motivo a parere del collegio le censure del
trasgressore devono essere respinte. Come evidenziato anche
dal consulente tecnico d'ufficio incaricato dal tribunale i
pini incriminati risultano privati e posizionati fuori dalla
strada. E non serve neppure richiamare la vecchia legge sui
lavori pubblici n. 2248/1865, prosegue il collegio, «perché
genericamente dedotta e comunque non collegata a una
ricostruzione di fatto smentita dagli accertamenti tecnici
espletati».
L'art. 22 della legge 2248, prosegue la sentenza, non
stabilisce infatti una vera e propria presunzione di
pertinenzialità degli spazi adiacenti al tracciato stradale,
natura che questi spazi assumono con certezza solo quando
sono parte integrante della strada e di proprietà pubblica.
Circa la proprietà pubblica o privata della strada il
collegio non si è espresso. Il codice stradale però non fa
differenza. All'art. 2/1° è infatti chiaramente specificato
che le regole della strada trovano applicazione su tutte le
strade a uso pubblico destinate alla circolazione.
In buona sostanza sono guai seri per il privato che non fa
manutenzione delle piante poste vicino al confine stradale.
Nel caso dei pini che sono notoriamente invasivi con radici
molto pericolose il trasgressore è stato infatti sanzionato
e obbligato a pagare il ripristino del manufatto. In pratica
tra sanzione e nota spese non sono bastati 10 mila euro per
far fronte all'intera vicenda (articolo ItaliaOggi del
21.08.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Posizioni giuridiche cedevoli dinanzi
all'annullamento.
L'esercizio del potere di annullamento
in autotutela è espressione di una facoltà ampiamente
discrezionale dell'amministrazione, a fronte della quale non
sussistono posizioni giuridiche qualificate dell'interessato:
così argomentando, il Consiglio di Stato (Sez. V,
sentenza
06.07.2012 n. 3958) ha
respinto il ricorso mosso da una donna avverso il
provvedimento di concessione edilizia rilasciata dal Comune
per «l'insediamento in prossimità della sua abitazione di
un impianto meccanico di autolavaggio».
Confermando il dictat del Tar adito, la V Sezione ha,
infatti, chiarito che «allorché si richiede
all'amministrazione l'annullamento in autotutela di
provvedimenti asseritamente illegittimi, l'amministrazione
non ha alcun obbligo di procedere»: ergo «il mancato
esercizio del potere di annullamento d'ufficio non può
essere sindacato in sede giurisdizionale», dal momento
che soltanto l'ente può valutare il singolo provvedimento
emanato, gli interessi dei privati concorrenti ed il loro
affidamento.
A nulla sono valse, quindi, le doglianze della ricorrente,
la quale –affermando di agire per la tutela di un interesse
pubblico– lamentava in particolare non solo che la
realizzazione e il funzionamento dell'impianto avevano
arrecato alla sua abitazione «immediatamente frontistante»
gravissimi danni derivanti dai rumori e dalle vibrazioni «costanti
e insopportabili» prodotte dalle macchine di lavaggio,
ma anche che il Comune, al quale si era rivolta
inizialmente, non aveva dato seguito alla sua richiesta, «malgrado
i rappresentati profili di illegittimità che in detta
istanza di annullamento in autotutela aveva evidenziato».
Secondo il Collegio giudicante, invece, l'interesse pubblico
utilizzato come «porta bandiera» delle proprie ragioni non
poteva trovare alcun sostegno: «Tale interesse»,
spiegano, infatti, i giudici, «non è azionabile direttamente
dal privato», il quale, a contrario, potrebbe agire solo a
tutela del proprio utile; né tanto meno poteva avere «pregio
alcuno dissertare sul rigetto dell'istanza di annullamento
in autotutela e sulla sufficienza ed adeguatezza delle
motivazioni rappresentate dall'amministrazione».
Infine, relativamente alle emissioni rumorose ed alle
vibrazioni che avrebbero arrecato fastidio all'abitazione,
osservano che «compete al giudice ordinario la cognizione
in materia di emissioni di qualunque tipo, comprese quelle
acustiche» (articolo ItaliaOggi
del 23.08.2012). |
VARI:
Autovelox, proteste con giudizio.
L'automobilista incorso nei rigori
dell'autovelox che per protesta si piazza con l'auto davanti
al misuratore di velocità commette reato solo se
concretamente impedisce la regolarità del servizio di
polizia stradale.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI pen., con la
sentenza 05.07.2012 n. 25574.
Un utente stradale contrariato dall'autovelox dei vigili è
tornato indietro affiancandosi con la vettura a quella della
polizia municipale e impedendo in questo modo agli agenti di
continuare il servizio, nonostante le richieste di
rimozione.
Contro la conseguente condanna per interruzione di pubblico
servizio l'interessato ha proposto ricorso con successo in
Cassazione. A parere del collegio integra il reato di
interruzione di pubblico servizio anche la condotta che
determina una alterazione temporanea della regolarità
dell'ufficio o servizio.
Tale alterazione tuttavia, specifica la sentenza, «deve
essere concretamente apprezzabile, mentre nel caso in esame
risulta piuttosto derivante da un soggettivo apprezzamento
dei vigili operanti, senza che emerga dalle sentenze dei
giudici di merito un qualche elemento di fatto che possa
costituire un indice oggettivo» (articolo ItaliaOggi
del 21.08.2012). |
CONDOMINIO:
Quote modificate a maggioranza. Per
rivedere le tabelle millesimali non serve l'unanimità. La
Cassazione sulla ripartizione delle spese comuni conferma il
principio introdotto nel 2010.
Per la modifica delle tabelle
millesimali è sufficiente la maggioranza dei voti espressi
dai condomini in assemblea e non è quindi necessaria
l'unanimità.
Con la recente
ordinanza 27.06.2012 n. 10762 la VI
Sez. civile della Corte di Cassazione ha fatto applicazione
del nuovo principio di diritto pronunciato in materia dalle
sezioni unite con la storica sentenza n. 18477 del 2010.
Il caso concreto.
Nella specie alcuni condomini avevano impugnato la delibera
condominiale con la quale, in seconda convocazione, erano
stati approvati a maggioranza il rendiconto consuntivo e il
preventivo di spesa presentati dall'amministratore. Secondo
loro, infatti, il riparto delle spese era stato effettuato
sulla base di tabelle millesimali diverse da quelle allegate
al regolamento di condominio predisposto dall'originario
costruttore dell'edificio e depositato presso la
conservatoria immobiliare. Nella dichiarata contumacia del
condominio convenuto in giudizio il tribunale aveva però
dichiarato inammissibile l'impugnazione.
La sentenza di primo grado era quindi stata appellata e, in
questo caso, con la partecipazione al giudizio del
condominio, in totale riforma della sentenza impugnata, era
stata ritenuta l'ammissibilità dell'impugnazione della
delibera condominiale, che era stata dichiarata nulla dai
giudici di appello nella parte in cui erano stati approvati
il rendiconto consuntivo e il preventivo di spesa in
difformità dei millesimi indicati dalle tabelle allegate al
regolamento condominiale trascritto. Il condominio aveva
allora presentato ricorso in cassazione avverso la sentenza
della Corte d'appello.
La decisione della Suprema corte.
La Corte di appello aveva fondato la propria pronuncia sulla
circostanza della radicale nullità della deliberazione
assembleare, in quanto adottata soltanto a maggioranza dei
voti e non con l'unanimità dei consensi dei condomini. I
giudici di secondo grado avevano infatti ritenuto che,
essendo stata provata l'esistenza di tabelle millesimali
allegate al regolamento condominiale confezionato dal
costruttore originario dell'edificio e regolarmente
trascritto presso la conservatoria immobiliare, la
ripartizione delle spese comuni avrebbe dovuto essere
effettuata sulla base delle predette tabelle e che la loro
eventuale modifica non poteva avvenire con la semplice
maggioranza dei partecipanti all'assemblea.
La sesta sezione della Suprema corte, facendo al contrario
leva sulla sopravvenuta recente sentenza (n. 18477 del 2010)
con la quale le sezioni unite della medesima Cassazione
hanno escluso la necessità del consenso unanime dei
condomini per l'approvazione e la revisione delle tabelle
millesimali, ritenendo viceversa sufficiente la maggioranza
qualificata di cui all'articolo 1136, comma 2, del codice
civile, hanno quindi ritenuto di dover cassare la decisione
impugnata.
In effetti, essendo sopravvenuta, nelle more del ricorso in
cassazione, la predetta sentenza del 2010, era venuto meno
il supporto logico sul quale era stata basata la decisione
della Corte d'appello, considerando che nel caso di specie
la deliberazione assembleare di modifica delle tabelle
millesimali era stata appunto approvata con la maggioranza
prevista dall'articolo 1136, comma 2, del codice civile ...
(articolo
ItaliaOggi Sette del 20.08.2012). |
CONDOMINIO:
Condominio. Danni in sede civile. Se è
circoscritto lo schiamazzo non è un reato.
Urla per le scale, porte che sbattono,
sedie che volano: uno scenario ricorrente in molti condomini
.
Non sempre però questi rumori, espressione più delle volte
di maleducazione, che ledono il diritto alla tranquillità
sono tutelabili in sede penale.
Le immissioni rumorose trovano la loro tutela in sede civile
nell'articolo 844 del Codice civile, ma il comportamento di
chi commette immissioni rumorose può integrare la
fattispecie delittuosa di cui all'articolo 659 del Codice
penale («Disturbo delle occupazioni e del riposto delle
persone») solo in presenza di certe condizioni.
Per integrare questo reato non è necessaria la prova reale
del disturbo provocato, ma occorre la certezza che i rumori
siano obiettivamente idonei a creare il disturbo trattandosi
di reato di pericolo e, soprattutto, è necessario che il
fenomeno rumoroso sia idoneo a disturbare un numero
indeterminato di persone e non solo un numero limitato.
A questi principi di diritto si è appellata la Corte di
Cassazione, Sez. I penale,
sentenza
26.06.2012 n. 25225,
affrontando il caso di alcuni condomini che erano stati
condannati, dal tribunale, alla pena di giustizia (per il
reato di cui agli articoli 81, 110 e 659, Codice penale) per
avere, in concorso fra di loro, cagionato disturbo a cinque
condomini dello stabile sbattendo con violenza le porte
dell'appartamento e d'ingresso condominiale, urlando
immotivatamente sulle scale del condominio, nonché sbattendo
tavoli e sedie sul pavimento dell'appartamento da essi
occupato.
Il Tribunale ha fondato la penale responsabilità degli
imputati sulle deposizioni rese dalle parti offese e
dall'amministratore condominiale pro-tempore, oltre che
sulla denuncia-querela presentata da uno dei condomini.
Inoltrato il ricorso, i condannati eccepivano che non era
stato accertato che i rumori molesti provenissero dal loro
appartamento, né era stata accertata la natura di tali
rumori né che sussisteva, nella specie, il reato a essi
contestato in quanto il disturbo da essi arrecato era
rimasto circoscritto all'interno delle mura condominiali, sì
da non essere idoneo ad arrecare danno a una generalità
indistinta di persone, elemento che costituisce la ratio
dell'articolo 659, Codice penale, ovvero la tutela della
quiete pubblica, intesa come collettività indistinta.
La Corte, nell'accogliere il ricorso ha precisato che: «La
contravvenzione prevista dall'articolo 659, primo comma,
Codice penale ... persegue la finalità di preservare la
quiete e la tranquillità pubblica e i correlati diritti
delle persone all'occupazione e al riposo; e la
giurisprudenza di legittimità è orientata nel senso di
ritenere che elemento essenziale di detta contravvenzione
sia l'idoneità del fatto ad arrecare disturbo a un numero
indeterminato di persone» (Cassazione n. 25225 citato).
Nel caso in esame è emerso che gli unici soggetti
danneggiati dai rumori molesti erano i cinque condomini
occupanti la palazzina e che i rumori sono rimasti
circoscritti all'interno dello stabile.
I fatti denunciati, pertanto, sono stati definiti «privi
di rilevanza penale» e tali da poter trovare tutela solo
in sede civile, con conseguente annullamento, senza rinvio,
della sentenza impugnata (articolo
Il Sole 24 Ore del 20.08.2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Pratiche avanti tutta. La causa civile
non blocca la p.a. Una sentenza del Consiglio di stato sulle
interferenze.
La circostanza che penda una causa
civile dall'esito suscettibile di interferire sull'assetto
di rapporti amministrativi (la qual cosa non è del tutto
infrequente) «non giustifica certo, ogni volta che si
manifesti, un congelamento sine die dell'azione
amministrativa».
E' quanto si legge nella
sentenza
26.06.2012 n. 3739 del Consiglio di Stato, Sez. V.
Il caso sottoposto all'attenzione della V Sezione riguardava
la riforma di una sentenza del Tar concernente il diritto di
superficie di un lotto demaniale: nello specifico, gli eredi
universali ab intestato, «nella loro qualità, in
comune e pro indiviso», avevano richiesto
all'amministrazione la voltura della concessione
cimiteriale, sulla cui istanza, però, il responsabile
dell'Ufficio aree cimiteriali del Comune aveva stabilito di
sospendere ogni determinazione, in attesa dell'esito di un
altro contenzioso, questa volta civile, promosso contro gli
stessi istanti dagli eredi della titolare più remota della
concessione.
Di qui l'impugnativa, respinta, ed il successivo ricorso in
appello: tra i diversi motivi di doglianza i ricorrenti
lamentavano soprattutto che il primo giudice invece di
pronunziarsi sugli specifici vizi che erano stati dedotti,
si era «concentrato sulla distinta tematica della
accoglibilità (o meno) dell'istanza di voltura: così
pervenendo al risultato di escludere l'annullabilità della
soprassessoria solo alla luce dell'esito negativo che il
procedimento sospeso avrebbe dovuto a suo avviso avere».
Il collegio giudicante, al contrario, nell'accogliere il
ricorso e annullare il provvedimento impugnato, ha ricordato
come la voltura richiesta costituisce per l'amministrazione
«un atto sostanzialmente dovuto»: il diritto sul sepolcro
costituisce, infatti, un diritto soggettivo perfetto, di
natura reale, assimilabile al diritto di superficie e
suscettibile di possesso e di trasmissione sia inter
vivos che per successione mortis causa.
Ne deriva che un congelamento sine die –legato alla
imprevedibilità della durata di un giudizio civile– e la
consequenziale l'impossibilità di avvalersi medio tempore
del bene demaniale «sottratto a qualsiasi utilizzazione»
avrebbero finito con l'intaccare il principio di non
aggravamento del procedimento, «volto ad evitare che il
medesimo subisca, oltre che onerosi appesantimenti, degli
inutili rallentamenti» e l'integrare un «irragionevole
spreco di risorse» (articolo
ItaliaOggi del 23.08.2012). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO
IMPIEGO - VARI:
Videosorveglianza. La Cassazione
interviene sull'installazione degli impianti.
Il sì di tutti i dipendenti «accende» le telecamere. Anche
in assenza del via libera da parte sindacale.
Per accendere le telecamere in azienda è sufficiente che vi
sia il consenso informato dei lavoratori. Infatti, per la
Corte di cassazione –che si è espressa in questo senso con
la
sentenza 11.06.2012 n. 22611– così può essere
superata la necessità dell'accordo preventivo con le
rappresentanze sindacali aziendali oppure, in mancanza di
queste, con le commissioni interne, come è ancora previsto
dallo Statuto dei lavoratori. Ciò, beninteso, purché tutti i
dipendenti dell'azienda abbiano prestato l'approvazione
espressa all'installazione di telecamere.
Condanna cancellata
L'importante novità nasce dalla vicenda della titolare di
un'impresa che, dopo un accesso ispettivo, veniva condannata
per la violazione della normativa che tutela i lavoratori
dai controlli indiretti mediante sistemi di
videosorveglianza, malgrado avesse raccolto il consenso dei
propri dipendenti e avesse segnalato in tutto lo
stabilimento, con cartelli, la presenza delle telecamere.
All'imprenditrice era stato contestato di avere proceduto
all'installazione degli apparecchi senza avere
preventivamente raggiunto l'accordo con le rappresentanze
sindacali, in base all'articolo 4 della legge 300/1970.
Per la Cassazione, tuttavia, è apparso logicamente
ammissibile che "il più contenga il meno", ossia che
non possa essere negata validità a un consenso chiaro ed
espresso proveniente dalla totalità dei lavoratori e non
soltanto da una loro rappresentanza. Del resto, non
risultando esservi disposizioni di alcun tipo che
disciplinino l'acquisizione del consenso, ritenere che le
rappresentanze sindacali possano intervenire ove neppure la
totalità dei lavoratori potrebbe farlo, a parere della
Cassazione darebbe alla materia il taglio di un «formalismo
estremo», tale da contrastare con la stessa logica della
disposizione voluta dal legislatore.
In definitiva, per i giudici di legittimità, una volta che
sia stata provata la piena consapevolezza dei lavoratori
–non solo dal documento di consenso da loro sottoscritto, ma
anche dal fatto che l'impresa abbia fatto comunque
installare dei cartelli in segnalazione della presenza del
sistema di videosorveglianza– nessuna censura può essere
validamente mossa al datore di lavoro.
Una soluzione evolutiva, volta, in sostanza, a superare il
sistema delineato dalla legge 300/1970, che apparentemente
ammette l'installazione solo in presenza dell'accordo
sindacale o, in alternativa, dell'autorizzazione accordata
dalla Direzione territoriale del lavoro competente.
Le istruzioni del Ministero
Un principio innovativo, quello della Cassazione, che segue
di poco tempo la nota di «semplificazione» del
ministero del Lavoro (del 16.04.2012, protocollo 37/0007162)
per cui oggi, per accendere le telecamere in azienda (ove
manchi l'accordo sindacale), basta formulare la domanda in
maniera corretta. In altre parole, è sufficiente fornire
tutte le idonee indicazioni sull'impianto prescelto e
sull'utilizzo che si intende farne. Anche così è diventato
finalmente più facile ottenere il rilascio delle
autorizzazioni al l'uso degli impianti audiovisivi e di
tutte le apparecchiature di controllo. Tali sistemi, del
resto, sono oramai di quotidiano utilizzo presso tutti i
luoghi di lavoro (dalle farmacie ai bar) e non più, come in
passato, mero appannaggio di banche, grandi industrie e
magazzini.
A fronte di una richiesta fattasi sempre più massiccia nel
corso degli anni (grazie a tecnologie più maneggiabili e
accessibili), si è reso però necessario lo snellimento delle
procedure amministrative. Già da tempo, del resto, gli
Uffici del lavoro –competenti a vigilare e a decidere in
materia– non erano più in grado di sostenere l'aumento
esponenziale delle pratiche per posizionare gli impianti di
controllo della sicurezza e dell'integrità patrimoniale
dell'azienda.
Il ministero del Lavoro ha deciso perciò di superare la
prassi operativa, consolidatasi nel tempo tra le Direzioni
territoriali, di fare operare agli ispettori un sopralluogo
preventivo all'emissione del l'autorizzazione per valutare
la rispondenza rispetto a quanto dichiarato dalle ditte
nelle loro istanze. Del resto, a parere del Ministero,
sussiste già una sostanziale «presunzione» di ammissibilità
all'installazione di apparecchiature nei casi in cui (ad
esempio, per rischio di rapine) la domanda appaia di per sé
volta a garantire l'incolumità del personale lavorativo e di
terzi.
In sostanza, interpretando con maggiore flessibilità le
indicazioni dell'articolo 4 della legge 300/1970 che ancora
governa la materia, oggi ci si potrà vedere più rapidamente
garantito il diritto a collocare gli apparecchi con la mera
presentazione di domande idonee, contenenti le specifiche
dell'impianto prescelto.
---------------
La vicenda
01|I GIUDICI DI MERITO
La titolare di un'azienda si vede condannata in sede penale
per avere installato apparecchi di videosorveglianza,
sebbene tutti i dipendenti avessero espresso formalmente il
consenso scritto all'installazione e l'azienda avesse
esposto cartelli che segnalavano la presenza di telecamere.
A parere dei giudici di merito, infatti, è violato
l'articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, per non avere
richiesto preventivamente il consenso delle rappresentanze
sindacali o l'autorizzazione della Direzione del lavoro.
02|LA SUPREMA CORTE
Per la Cassazione, non è corretta l'equazione per cui il
difetto degli accordi dava automaticamente luogo al reato
contestato, e la titolare dell'azienda va assolta, perché
non è stata interpretata correttamente la norma, sia sotto
il profilo oggettivo, sia sotto quello psichico ... (articolo
Il Sole 24 Ore del 20.08.2012). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
spetta la gratuità del contributo di
costruzione, per la costruzione di una
caserma dei carabinieri, alla società
(richiedente il permesso di costruire) che è
un soggetto privato che opera a fini di
lucro e non ha alcun rapporto o collegamento
di tipo pubblicistico con la Pubblica
Amministrazione.
... per l'accertamento del diritto della
ricorrente ad essere esonerata, nei
confronti della del Comune di Vico del
Gargano, dal pagamento degli oneri di
urbanizzazione primaria e secondaria, nonché
del costo di costruzione, ai sensi dell’art.
17, co. 3, lett. c), del DPR 06.06.2001 n.
380, relativamente alle rilasciata
concessione edilizia n. 19/1999 e successive
varianti n.3421/2000 e 2033/2001, per la
costruzione di un immobile da adibire a
locale caserma dei Carabinieri;
...
Con il ricorso in esame la società
ricorrente impugna i provvedimenti di cui in
epigrafe e ne chiede l’annullamento, previo
accertamento del proprio diritto ad essere
esonerata dal pagamento del costo di
costruzione e degli oneri di urbanizzazione
primaria e secondaria per la costruzione di
una Caserma dei Carabinieri richiesti
dall’Amministrazione Comunale intimata.
Occorre premettere che, alla stregua
dell’accordo intervenuto tra il Ministero
dell’Interno e la ditta esecutrice/autofinanziatrice
(sig. Salcuni Damiano), con atto di impegno
depositato presso la Prefettura di Foggia il
02.02.1998, la ditta esecutrice si è
obbligata a realizzare l’opera di che
trattasi entro 18 mesi dalla data di
impegno, nonché a locare l’immobile per un
periodo di anni 6 (rinnovabili) al Ministero
dell’Interno, prevedendo un canone annuo di
€ 235.000,00 e la possibilità per
l’Amministrazione locataria di procedere
all’acquisto dello stesso.
...
Premessa in via generale l’onerosità (oneri
di urbanizzazione e contributo sul costo di
costruzione) del rilascio di permesso di
costruire ex art. 16 D.P.R. 380/2001, il
successivo articolo 17 contiene una
elencazione tassativa delle ipotesi in cui
il contributo di costruzione non è dovuto e,
in particolare, al comma 3, lett. c),
prevede l’esonero dal versamento del
contributo di costruzione “per gli
impianti, le attrezzature, le opere
pubbliche o di interesse generale realizzate
dagli enti istituzionalmente competenti,
nonché per le opere di urbanizzazione,
eseguite anche da privati, in attuazione di
strumenti urbanistici”.
Ciò premesso, appare quasi superfluo
sottolineare che la società ricorrente, non
potendo annoverarsi tra gli “enti
istituzionalmente competenti”, difetta
anzitutto del requisito soggettivo.
Non può condividersi in proposito l’assunto
di parte ricorrente, che –sovrapponendo la
prima e la seconda parte della norma citata–
tende a prospettare una perfetta equivalenza
degli enti istituzionalmente competenti con
i soggetti privati.
L’esonero previsto dalla seconda parte della
norma citata concerne invero i soggetti
privati ma solo in relazione alla
realizzazione di opere di urbanizzazione in
attuazioni di strumenti urbanistici.
Né miglior sorte può avere la tesi della
equiparazione cui parte ricorrente perviene
attraverso una esclusiva attenzione
all’elemento oggettivo consistente nella
realizzazione di opere pubbliche o di
interesse generale.
Ed invero, anche a prescindere dalla
considerazione che siffatto argomentare
porterebbe –in contrasto con il chiaro
tenore della norma– ad un azzeramento del
requisito soggettivo, deve altresì rilevarsi
che la norma citata –proprio per la sua
natura di norma eccezionale rispetto alla
regola della onerosità del titolo– deve
essere riguardata in termini restrittivi,
non ponendosi neanche in tal caso un
problema di interpretazione, attesa la
chiarezza e univocità del dato testuale
della norma (in claris non fit
interpretatio).
Peraltro la società ricorrente, che è un
soggetto privato che opera a fini di lucro,
non ha alcun rapporto o collegamento di tipo
pubblicistico con la Pubblica
Amministrazione, a differenza di quanto si
verifica con riferimento ai concessionari di
opera pubblica (C.d.S. Sez. V 12.07.2005 n.
3774; Sez. V 18.09.2003 n. 5315)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 11.06.2010 n. 2420 - link a www.giustizia-amministrativa.it) |
AGGIORNAMENTO AL 20.08.2012 |
ã |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Per
chi compra casa in costruzione e non vuole
avere "fregature" è bene che si
informi
cliccando qui
(link a www.consap.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Ritardi nei pagamenti nelle transazioni
commerciali: tasso 01/07/2012-31/12/2012.
Il saggio d'interesse per ritardati
pagamenti nelle transazioni commerciali per
il semestre 1° luglio - 31.12.2012 è
determinato all'8%.
E' quanto risulta dal comunicato del
Ministero dell'Economia e delle Finanze
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 162
del 13.07.2012 che ha fissato il saggio di
cui all'art. 5, comma 2, del D.lgs. n.
231/2002 (link a www.altalex.com). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Tagliabue,
I beni culturali e la loro tutela giuridica
(Non profit n. 2-3/2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
A. L. Vergine,
Disposizioni penali maldestramente redatte,
decisioni correttamente assunte, immeritate
critiche (nota a Cass. pen. n. 15732/2012)
(link a www.lexambiente.it).
---------------
Commento a Corte di Cassazione penale,
sez. III, sentenza 24.04.2012, n. 15732
Trasporto rifiuti
pericolosi senza formulario o con dati
incompleti o inesatti - Artt. 258 e 260-bis
del D.Lgs. n. 152/2006 a seguito del D.Lgs.
n. 205/2010 - Condotta attualmente priva di
rilevanza penale ai sensi del comma 4, art.
258.
La modifica normativa apportata dalla legge
n. 205 del 2010 all’art. 258 D.Lgs. n.
152/2006 ha determinato il venir meno della
punibilità della condotta di trasporto di
rifiuti pericolosi senza formulario o con
formulario con dati incompleti o inesatti
non più sanzionata penalmente in quanto non
riconducibile ne´ alle previsioni del nuovo
testo dell’art. 258 né alla fattispecie
introdotta con l’art. 260-bis, che opera un
riferimento alla scheda Sistri e non ai
precedenti formulari con la conseguenza che,
in applicazione dei principi fissati
dall’art. 2 cod. pen. le condotte poste in
essere devono essere ritenute non più
riconducibili all’ipotesi di reato
contemplate dalla disciplina previgente. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G. Miele,
Ordinanze comunali contingibili ed urgenti
in materia di rimozione rifiuti (nota a
sentenza del TAR Campania-Napoli Sez. V,
26.07.2012 n. 3635) (link a
www.lexambiente.it). |
QUESITI &
PARERI |
APPALTI SERVIZI:
Tracciabilità dei flussi finanziari.
1) Le spese che le
organizzazioni di volontariato sostengono
per l'espletamento delle attività previste
dalle convenzioni di cui all'art. 7 della L.
266/1991, che la controparte convenzionata è
tenuta a rimborsare, esulano dalle
fattispecie di flussi finanziari che, ai
sensi dell'art. 3 della L. 136/2010, sono
assoggettati a tracciabilità.
2) Si ritiene che l'obbligo di tracciabilità
dei pagamenti sia applicabile
all'affidamento di servizi rivolti a
determinate categorie di utenza, che un'ASP
presta per specifica finalità istituzionale,
giacché:
a) tale caratteristica non incide sul
rapporto contrattuale che si instaura tra l'ASP
e l'amministrazione committente, il quale
sembra possedere i contenuti tipici
dell'appalto;
b) l'Avcp ha chiarito che l'art. 3 della L.
136/2010 si applica ai «contratti
aggiudicati da un'amministrazione
aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore ad
un'altra amministrazione aggiudicatrice o ad
un'associazione o consorzio di
amministrazioni aggiudicatrici, in
condizioni di concorrenza con operatori di
mercato».
---------------
Il Servizio sociale dei comuni dell'Ambito
distrettuale chiede un parere in ordine
all'obbligatorietà, o meno, di acquisizione
del codice identificativo di gara (CIG),
previsto nell'ambito della disciplina in
tema di tracciabilità dei flussi finanziari,
di cui alla legge 13.08.2010, n. 136,
relativamente a due distinte casistiche:
1) corresponsione di rimborsi spese, ai
sensi dell'art. 5, comma 1, lett. f)[1],
della legge 11.08.1991, n. 266, alle
associazioni di volontariato con le quali
vengono stipulate le convenzioni ex art.
7[2] della medesima legge;
2) affidamento del servizio di accoglienza
diurna e residenziale di persone disabili ad
un'Azienda pubblica di servizi alla persona
(ASP), che vi provvede in conseguenza dei
propri fini istituzionali [3].
Con riferimento alla prima ipotesi, l'Ente
ritiene che l'obbligo non dovrebbe
sussistere, considerato che:
- le somme corrisposte ai sensi del predetto
art. 5, comma 1, lett. f), della L. 266/1991
non costituiscono il corrispettivo di una
prestazione, bensì un mero rimborso delle
spese effettivamente sostenute e documentate
dall'associazione di volontariato;
- il rapporto convenzionale che si instaura
tra la P.A. e l'associazione di volontariato
non è riconducibile alla nozione di
contratto di appalto, contenuta nell'art.
1655[4] del codice civile;
- il rimborso spese di cui trattasi non
sembra neppure annoverabile tra i
finanziamenti pubblici cui fa riferimento
l'art. 3, comma 1[5], della L. 136/2010,
posto che, come ha chiarito l'Autorità per
la vigilanza sui contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture (Avcp) nella
determinazione n. 4 del 07.07.2011, la
sottoposizione alla disciplina della
tracciabilità dei flussi finanziari dei
predetti finanziamenti presuppone che i
soggetti percettori siano «a qualsiasi
titolo interessati ai lavori, ai servizi e
alle forniture pubblici», ovvero «richiede
una correlazione con l'esecuzione di appalti
di lavori, servizi e forniture»[6];
- l'esclusione dell'obbligo di tracciabilità
dovrebbe trovare applicazione anche alle
convenzioni (pur non disciplinate da
apposita normativa) con altri soggetti del
terzo settore, concernenti attività di
supporto, integrazione e collaborazione con
il Servizio sociale dei comuni per
l'esecuzione di progetti sociali in favore
della comunità di riferimento, purché in
tali convenzioni sia previsto il mero
rimborso delle spese e non già la
realizzazione delle attività quale
controprestazione del finanziamento
previsto[7].
Le osservazioni svolte dal Servizio sociale
dei comuni, in ordine alla non
assoggettabilità, alle prescrizioni di cui
all'art. 3 della L. 136/2010, dei rimborsi
spese connessi allo svolgimento delle
attività previste dalle convenzioni con le
organizzazioni di volontariato, appaiono
pienamente condivisibili[8], anche
considerando le disposizioni contenute negli
artt. 2, commi 1[9] e 2[10] e 3, commi 1[11]
e 3[12], della L. 266/1991, che evidenziano
l'assenza di fini di lucro nell'espletamento
dell'attività di volontariato e dispongono
l'assoluta gratuità delle prestazioni rese
dai volontari[13].
Detti elementi escludono, pertanto, che, in
tale contesto, le somme corrisposte dalla
P.A. alle organizzazioni di cui trattasi
possano qualificarsi come
'corrispettivi'[14] dell'attività prestata
dai soggetti aderenti.
Sulla questione della liquidazione delle
spese connesse ad una convenzione tra un
comune ed un'associazione di volontariato,
l'Associazione nazionale dei comuni italiani
(A.N.C.I.) ha dapprima ipotizzato
l'applicabilità delle disposizioni
concernenti la tracciabilità dei flussi
finanziari[15] mentre, successivamente, ha
negato la sussistenza dei relativi
presupposti[16].
Quanto alla seconda casistica oggetto di
quesito, concernente l'affidamento del
servizio di accoglienza diurna e
residenziale di persone disabili ad un'ASP,
che vi provvede per specifica finalità
istituzionale[17], non sembrano potersi
ravvisare elementi che inducano ad escludere
l'applicabilità della disciplina dettata
dalla L. 136/2010.
Infatti, la circostanza che l'ASP si
caratterizzi per erogare servizi a favore di
specifiche categorie di utenza non incide
sul rapporto contrattuale che si instaura
tra essa e l'amministrazione committente, il
quale sembra possedere i contenuti tipici
dell'appalto, a prescindere dalle modalità
di affidamento del servizio[18].
Né la soggettività pubblica del prestatore
del servizio sembra poter esonerare le parti
dagli obblighi concernenti la tracciabilità,
che l'Avcp ritiene applicabili ai «contratti
aggiudicati da un'amministrazione
aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore ad
un'altra amministrazione aggiudicatrice o ad
un'associazione o consorzio di
amministrazioni aggiudicatrici, in
condizioni di concorrenza con operatori di
mercato»[19].
---------------
[1]
«1. Le organizzazioni di volontariato
traggono le risorse economiche per il loro
funzionamento e per lo svolgimento della
propria attività da:
[...]
f) rimborsi derivanti da convenzioni;
[...]».
[2]
«1. Lo Stato, le regioni, le province
autonome, gli enti locali e gli altri enti
pubblici possono stipulare convenzioni con
le organizzazioni di volontariato iscritte
da almeno sei mesi nei registri di cui
all'articolo 6 e che dimostrino attitudine e
capacità operativa.
2. Le convenzioni devono contenere
disposizioni dirette a garantire l'esistenza
delle condizioni necessarie a svolgere con
continuità le attività oggetto della
convenzione, nonché il rispetto dei diritti
e della dignità degli utenti. Devono inoltre
prevedere forme di verifica delle
prestazioni e di controllo della loro
qualità nonché le modalità di rimborso delle
spese.
3. La copertura assicurativa di cui
all'articolo 4 è elemento essenziale della
convenzione e gli oneri relativi sono a
carico dell'ente con il quale viene
stipulata la convenzione medesima.».
[3]
Ad es., servizio di accoglienza in centro
diurno di persone non vedenti, effettuato da
un'istituzione specializzata per ciechi e
ipovedenti.
[4]
«L'appalto è il contratto col quale una
parte assume, con organizzazione dei mezzi
necessari e con gestione a proprio rischio,
il compimento di un'opera o di un servizio
verso un corrispettivo in danaro.».
[5]
«1. Per assicurare la tracciabilità dei
flussi finanziari finalizzata a prevenire
infiltrazioni criminali, gli appaltatori, i
subappaltatori e i subcontraenti della
filiera delle imprese nonché i concessionari
di finanziamenti pubblici anche europei a
qualsiasi titolo interessati ai lavori, ai
servizi e alle forniture pubblici devono
utilizzare uno o più conti correnti bancari
o postali, accesi presso banche o presso la
società Poste italiane Spa, dedicati, anche
non in via esclusiva, fermo restando quanto
previsto dal comma 5, alle commesse
pubbliche. Tutti i movimenti finanziari
relativi ai lavori, ai servizi e alle
forniture pubblici nonché alla gestione dei
finanziamenti di cui al primo periodo devono
essere registrati sui conti correnti
dedicati e, salvo quanto previsto al comma
3, devono essere effettuati esclusivamente
tramite lo strumento del bonifico bancario o
postale, ovvero con altri strumenti di
incasso o di pagamento idonei a consentire
la piena tracciabilità delle operazioni.».
[6]
In tale contesto (v. par. 3.3), l'Avcp ha,
inoltre, rilevato che, stante la natura
eccezionale delle previsioni dettate
dall'art. 3 della L. 136/2010, va esclusa la
possibilità di operare un'interpretazione
estensiva delle relative norme.
[7]
Così come sostenuto da questo Ufficio nel
parere 01.12.2010, prot. 28279, richiamato
nel quesito.
[8]
Considerato il contesto oggetto della
presente trattazione, si richiamano le
considerazioni già espresse da questo
Ufficio nei pareri 09.06.2011, prot. 22511 e
26.01.2011, prot. 2437.
[9]
«1. Ai fini della presente legge per
attività di volontariato deve intendersi
quella prestata in modo personale, spontaneo
e gratuito, tramite l'organizzazione di cui
il volontario fa parte, senza fini di lucro
anche indiretto ed esclusivamente per fini
di solidarietà.».
[10]
«2. L'attività del volontario non può essere
retribuita in alcun modo nemmeno dal
beneficiario. Al volontario possono essere
soltanto rimborsate dall'organizzazione di
appartenenza le spese effettivamente
sostenute per l'attività prestata, entro
limiti preventivamente stabiliti dalle
organizzazioni stesse.».
[11]
«1. È considerato organizzazione di
volontariato ogni organismo liberamente
costituito al fine di svolgere l'attività di
cui all'articolo 2, che si avvalga in modo
determinante e prevalente delle prestazioni
personali, volontarie e gratuite dei propri
aderenti.».
[12]
«3. Negli accordi degli aderenti, nell'atto
costitutivo o nello statuto [...] devono
essere espressamente previsti l'assenza di
fini di lucro [...] nonché la gratuità delle
prestazioni fornite dagli aderenti [...].».
[13]
Sul punto, v. i pareri dello scrivente
Servizio 16 aprile 2012, prot. 13600,
30.04.2009, prot. 6816, 31.12.2008, prot.
19851 e 02.10.2008, prot. 15255.
[14]
Al riguardo, si evidenzia che l'Avcp, nella
citata determinazione 4/2011, ha affermato
che la tracciabilità dei flussi finanziari
introdotta dall'art. 3 della L. 136/2010
costituisce «uno degli strumenti che
l'ordinamento appronta nel dichiarato
intento di arginare la penetrazione
economica delle organizzazioni mafiose
nell'attività di esecuzione delle commesse
pubbliche», la cui «finalità specifica è
quella di rendere trasparenti le operazioni
finanziarie relative all'utilizzo del
corrispettivo dei contratti pubblici» (v.
par. 1).
[15]
V. parere 18.07.2011 nel quale, dopo aver
ricordato che l'art. 3 della L. 136/2010 si
applica ai flussi finanziari derivanti dai
contratti d'appalto di servizi ed aver
richiamato la nozione contenuta nell'art.
1655 del codice civile, l'A.N.C.I. ha
affermato che, dalle informazioni fornite
dall'ente, «emerge la sostanziale
sussistenza degli elementi negoziali del
contratto di appalto, e quindi il
presupposto per l'applicabilità degli
adempimenti previsti dal citato art. 3.
Tuttavia è da verificare se gli atti (e, se
ritenuto opportuno, considerare una loro
riformulazione) definiscono effettivamente
un rapporto di natura sinallagmatica - e
quindi un contratto di appalto di servizi
soggetto a tracciabilità - oppure la
corresponsione di un contributo, ossia di un
'mero contributo', non a titolo di
corrispettivo, in favore dell'associazione
per la sua più complessiva attività,
nell'ambito della quale sono compresi i
compiti di cui trattasi, fattispecie che
risulterebbe diversa da un contratto di
appalto, potendosi quindi considerare la
medesima erogazione nell'ambito dei
contributi concessi, e dei soggetti degli
stessi beneficiari, come regolamentati ai
sensi dell'art. 12 della legge n.
241/1990.».
Si ritiene necessario evidenziare che la
perplessità manifestata dall'A.N.C.I.
potrebbe emergere dalla dichiarazione,
contenuta nel quesito posto, che le spese da
liquidare all'associazione di volontariato
«sono iscritte nel bilancio comunale come
prestazioni di servizio».
[16]
V. parere 27.07.2011, in cui si sostiene che
«il riconoscimento da parte dell'ente, con
conseguente rimborso, delle spese sostenute
da parte dell'organismo trova le sue
motivazioni nel contesto di un rapporto con
l'associazione che appare fondato sulla cd.
'sussidiarietà orizzontale', e non in base
ad un rapporto negoziale riconducibile alla
nozione di contratto di appalto di cui
all'art. 1665 del Codice civile. Si è quindi
del parere che per la fattispecie di cui
trattasi non sussista il presupposto che
conduce all'applicazione degli adempimenti
di tracciabilità.».
[17]
Profilo, questo, che appare distinto dal
'diritto esclusivo' contemplato dall'art.
19, comma 2 («Il presente codice non si
applica agli appalti pubblici di servizi
aggiudicati da un'amministrazione
aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore ad
un'altra amministrazione aggiudicatrice o ad
un'associazione o consorzio di
amministrazioni aggiudicatrici, in base ad
un diritto esclusivo di cui esse beneficiano
in virtù di disposizioni legislative,
regolamentari o amministrative pubblicate,
purché tali disposizioni siano compatibili
con il trattato.»), del decreto legislativo
12.04.2006, n. 163, rispetto al quale l'Avcp,
nel par. 3.6 della determinazione 4/2011,
afferma che «Si ritiene, al riguardo, che,
in considerazione della ratio della legge n.
136/2010, detti appalti non siano soggetti
agli obblighi di tracciabilità in quanto
contenuti in un perimetro pubblico, ben
delimitato da disposizioni legislative,
regolamentari o amministrative, tali da
rendere ex se tracciati i rapporti, anche di
natura finanziaria, intercorrenti tra le
amministrazioni aggiudicatrici [...].».
[18]
Si ricorda che l'Avcp ha più volte affermato
che non rileva né l'importo del contratto,
né la procedura di scelta del contraente
adottata, tant'è che l'assoggettabilità alle
disposizioni in tema di tracciabilità viene
estesa ai contratti conclusi tramite cottimo
fiduciario ed affidamento diretto, nonché a
quelli concernenti le attività finalizzate
all'inserimento lavorativo di persone
svantaggiate, ai sensi dell'art. 5 della
legge 08.11.1991, n. 381.
[19]
V. par. 3.6 della determinazione 4/2011 (26.07.2012
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EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Servitù di uso pubblico. Strade vicinali.
Iscrizione nell'elenco comunale dei
percorsi/transiti ad uso pubblico. Obblighi
di manutenzione.
1) Per la individuazione
dell'organo competente ad effettuare la
classificazione delle strade vicinali si
ritiene si possa applicare, per analogia,
l'art. 17 della legge 2248/1865 relativo
alla formazione degli elenchi delle strade
comunali il quale attribuisce alla giunta il
compito della loro formazione ed al
consiglio comunale la successiva
approvazione dello stesso.
2) Circa le opere di manutenzione sussiste
sul Comune un obbligo di compartecipazione a
tali spese, in attuazione di quanto dispone
l'articolo 3 del D.L.Lgt. 1446/1918 il quale
obbliga il Comune a concorrere alla spesa
per la manutenzione, sistemazione e
ricostruzione delle strade vicinali in una
misura che varia a seconda dell'importanza
della strada: da un minimo di un quinto
della spesa, sino ad arrivare alla metà.
---------------
Il Comune chiede di conoscere un parere in
merito alla disciplina giuridica relativa a
servitù di uso pubblico. Più in particolare,
riferisce che sul territorio comunale
sussiste, da tempo, una 'viabilità
secondaria' (rappresentata, per lo più, da
sentieri di bosco, mulattiere e similari)
che collega due zone pubbliche o il cui
transito permette di raggiungere luoghi
pubblici. In relazione ad essa l'Ente
desidera sapere se può introdurla
nell'elenco comunale dei percorsi/transiti
ad uso pubblico; quale sia l'organo
competente all'approvazione di tale elenco;
se tale inserimento legittimi il Comune ad
eseguire opere di manutenzione della
viabilità in argomento.
Con l'espressione servitù ad uso pubblico si
intendono quei diritti reali spettanti allo
Stato, alle Province ed ai Comuni per il
conseguimento di fini di pubblico interesse
corrispondenti a quelli a cui servono i beni
medesimi. Si tratta di diritti reali di
godimento costituiti a carico di un bene
privato a vantaggio di una collettività e
per il raggiungimento di un fine di pubblico
interesse.[1]
Con riferimento specifico ai transiti
costituenti la c.d. viabilità secondaria, di
cui al quesito in riferimento, si ritiene
che essi vadano annoverati tra le c.d.
strade vicinali pubbliche, tali essendo, per
l'appunto, le vie di proprietà privata,
soggette a pubblico transito.[2] In
concreto, il sedime della strada vicinale,
compresi accessori e pertinenze, è privato,
di proprietà dei titolari dei terreni
latistanti, mentre l'ente pubblico è
titolare di un diritto reale di transito.[3]
La giurisprudenza,[4] in diverse occasioni,
ha precisato che la natura pubblica della
strada dipende dalla coesistenza effettiva
delle tre condizioni di seguito indicate:
1. il passaggio esercitato iure
servitutis pubblicae, da una
collettività di persone qualificate
dall'appartenenza ad un gruppo territoriale;
2. la concreta idoneità del bene a
soddisfare esigenze di carattere generale,
anche per il collegamento con la pubblica
via;
3. un titolo valido a sorreggere
l'affermazione del diritto di uso pubblico,
che può anche identificarsi nella
protrazione dell'uso da tempo immemorabile.
Alla luce della qualificazione giuridica
che, come sopra affermato, può essere
attribuita alla viabilità secondaria
esistente sul territorio del Comune che ha
posto il quesito, segue che la stessa possa
essere inserita nell'elenco comunale delle
strade vicinali.
Circa l'individuazione dell'organo
competente all'approvazione di tale elenco
si osserva che l'unica disposizione di legge
che concerne, in generale, la compilazione
da parte del Comune dell'elenco delle vie
vicinali soggette al pubblico transito si
rinviene nell'allegato 4 all'articolo 83 del
regolamento per l'esecuzione della legge
comunale e provinciale,[5] approvato con
regio decreto 12.02.1911, n. 297, il quale,
tuttavia, non indica la procedura da
osservare per la formazione degli elenchi
delle strade vicinali. Tale articolo è
stato, peraltro, abrogato dall'articolo 64,
comma 1, lettera a), della legge 08.06.1990,
n. 142.[6]
La dottrina,[7] tuttavia, ritiene che, in
mancanza di norme specifiche per la
classificazione delle strade vicinali, si
possano seguire, per analogia, le
disposizioni riguardanti la formazione degli
elenchi delle strade comunali, atteso che le
strade vicinali hanno interesse pubblico al
pari di quelle comunali perché soggette a
servitù del pubblico, anche se di secondaria
importanza.
Al riguardo, l'articolo 17 della legge
20.03.1865, n. 2248 attribuisce alla giunta
municipale il compito della formazione
dell'elenco delle strade da classificarsi
fra le comunali precisando, altresì, al
secondo comma, che 'questo elenco sarà per
la durata di un mese depositato in una delle
sale della residenza comunale ed affisso in
copia all'albo pretorio. Gli interessati
verranno con pubblico avviso invitati a
prenderne cognizione ed a presentare in
iscritto entro il termine suddetto le loro
osservazioni ed i loro reclami. Spirato quel
termine, il Consiglio comunale, deliberando
sulla proposta della Giunta e sui reclami
dei privati, stabilirà l'elenco delle strade
comunali [...]'.
Con riferimento alle opere di manutenzione
delle strade vicinali si osserva che
l'articolo 14 del decreto legislativo
285/1992 prevede che: 'Gli enti
proprietari delle strade, allo scopo di
garantire la sicurezza e la fluidità della
circolazione, provvedono: a) alla
manutenzione, gestione e pulizia delle
strade, delle loro pertinenze e arredo,
nonché delle attrezzature, impianti e
servizi; b) al controllo tecnico
dell'efficienza delle strade e relative
pertinenze; c) alla apposizione e
manutenzione della segnaletica prescritta'.
Il successivo comma 4 dispone, poi, che 'Per
le strade vicinali di cui all'art. 2, comma
7, i poteri dell'ente proprietario previsti
dal presente codice sono esercitati dal
comune'.
Tra i compiti attribuiti al Comune vi sono,
pertanto, anche quelli volti a garantire la
sicurezza e la fluidità della circolazione,
e di provvedere alla manutenzione, gestione
e pulizia delle strade e delle pertinenze. I
comuni, tuttavia, sono chiamati ad assolvere
a tali obblighi di manutenzione solo in caso
di inadempimento da parte dei soggetti a ciò
tenuti, - ossia i consorzi per la
manutenzione delle strade vicinali, da
costituirsi con la procedura di cui
all'articolo 2 del decreto legge
luogotenenziale 01.09.1918, n. 1446,[8] o
qualora si tratti di interventi urgenti.
Alla luce di un tanto segue l'impossibilità
per l'ente locale di farsi integralmente
carico degli oneri di sistemazione delle
strade vicinali. Sul Comune sussiste,
invece, un obbligo di compartecipazione a
tali spese, in attuazione di quanto dispone
l'articolo 3 del D.L.Lgt. 1446/1918[9] il
quale obbliga il Comune a concorrere alla
spesa per la manutenzione, sistemazione e
ricostruzione delle strade vicinali in una
misura che varia a seconda dell'importanza
della strada: da un minimo di un quinto
della spesa, sino ad arrivare alla metà. Nel
caso in cui L'Ente anticipi tali somme
sussisterà, a suo favore, l'obbligo di
recuperare le somme di altrui spettanza.[10]
Circa l'inderogabilità dei limiti di
compartecipazione stabiliti dall'articolo 3
del D.L.Lgt. 1446/1918 si è espressa la
Corte dei Conti, sezione regionale di
controllo per il Veneto, con la sentenza del
07.11.2008, n. 140 la quale ha precisato che
'il legislatore con tale disciplina,
tenendo conto dello speciale regime
giuridico di tali strade, ha già
contemperato a monte gli interessi pubblici
e privati in gioco, demandando ai comuni
solo la possibilità di scegliere in concreto
l'ammontare della contribuzione all'interno
dei limiti minimi e massimi consentiti. Tale
scelta, corredata da esaustiva motivazione
anche in relazione al grado di fruizione
pubblica della strada oggetto di intervento,
dovrà ovviamente seguire criteri di
trasparenza, parità di trattamento,
economicità e razionalità di gestione, e
dovrà tener conto anche delle disponibilità
finanziarie complessive dell'ente'.
---------------
[1] Sul punto si veda Cassazione civile,
sez. II, sentenza del 10.01.2011, n. 333 la
quale recita: 'La servitù ad uso pubblico è
caratterizzata dall'utilizzazione, da parte
di una collettività indeterminata di
persone, di un bene il quale sia idoneo al
soddisfacimento di un interesse collettivo'.
[2] Si precisa, altresì, che una definizione
di strada vicinale si ritrova nell'articolo
3, comma 1, n. 52 del decreto legislativo
30.04.1992, n. 285 (Nuovo codice della
strada) il quale definisce la strada
vicinale (o Poderale o di Bonifica) quale
'strada privata fuori dai centri abitati ad
uso pubblico'.
[3] Interessante, al riguardo, è la sentenza
del TAR Lombardia, Brescia, sez. I,
dell'11.11.2008, n. 1602 relativa ad un
sentiero di montagna soggetto ad uso
pubblico per finalità turistiche,
naturalistiche, ricreative, e anche al
servizio delle attività agricole della zona,
in riferimento alla quale il giudice
amministrativo ha affermato che 'Se una
strada può essere percorsa indistintamente
da tutti i cittadini per una molteplicità di
usi e con una pluralità di mezzi non può
essere negata la presenza del pubblico
transito solo perché materialmente la strada
si presenta disagevole in alcuni tratti e
poco frequentata nel complesso. L'uso
pubblico, assimilabile a una servitù
collettiva, legittima i comuni a introdurre
alcune limitazioni al traffico, ad esempio
vietando l'uso di alcuni mezzi (specie di
quelli molto impattanti) in modo
continuativo o in particolari periodi, come
per il resto della viabilità comunale.
L'apposizione di limiti e divieti non fa
venire meno la caratteristica del pubblico
transito'.
[4] Tra le altre, Cassazione civile, sez. II,
sentenza del 10.01.2011, n. 354; TAR Puglia,
Lecce, sez. I, sentenza del 09.01.2008, n.
48; TAR Marche, Ancona, sez. I, sentenza del
10.10.2007, n. 1595.
[5] Recita l'articolo 83 del r.d. 297/1911:
'In ogni Comune il segretario deve tenere in
corrente e in ordine cronologico le leggi e
i decreti appartenenti all'edizione
ufficiale, i registri, gli elenchi e gli
atti indicati nell'allegato n. 4,
obbligatori per i Comuni, oltre a quelli
speciali prescritti da leggi e da
regolamenti. [...]'. L'allegato 4 del
regolamento n. 297 del 1911 comprende, al n.
4, l'elenco delle strade comunali e di
quelle private soggette a servitù pubblica,
ma non indica la procedura da osservare per
la formazione degli elenchi delle strade
vicinali.
[6] Si ricorda che la legge 142/1990 è stata
successivamente abrogata dall'articolo 274,
comma 1, lettera q), del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267.
[7] Cfr. P. La Rocca, 'Il regime giuridico
delle strade provinciali, comunali, vicinali
e private', Maggioli editore, 2006, pag.
257.
[8] Si consideri, al riguardo, anche la
legge 12.02.1958, n. 126 che prescrive,
all'articolo 14, l'obbligatorietà della
costituzione dei consorzi per le strade
vicinali di uso pubblico fra utenti e Comune
per il concorso nelle spese di manutenzione.
[9] Per completezza espositiva, si segnala
che il D.L.Lgt. 1446/1918 era stato
abrogato, a decorrere dal 16.12.2009,
dall'articolo 2, comma 1, del D.L.
22.12.2008, n. 200. Successivamente,
tuttavia, l'efficacia dell'indicato decreto
è stata ripristinata dall'articolo 1, comma
2, del D.Lgs. 01.12.2009, n. 179.
[10] In questo senso si veda, anche, il
parere rilasciato dal Ministero
dell'Interno, del 16.10.2009 e quello della
Regione Emilia Romagna, Servizio affari
istituzionali e delle autonomie locali, del
23.04.2010.
---------------
L 20.03.1865, n. 2248, art. 17; D.L.Lgt.
01.09.1918, n. 1446, art. 3 (25.07.2012
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PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Incarichi per
convegno.
Si ritiene che gli enti
locali, per l'affidamento di incarichi
occasionali o di collaborazione coordinata e
continuativa, in relazione
all'organizzazione e svolgimento di un
convegno, debbano applicare la disciplina di
cui all'art. 7, comma 6, del d.lgs.
165/2001.
--------------
Il Comune ha formulato una richiesta di
parere in ordine alla corretta
configurazione di alcune prestazioni
professionali, fornite da docenti e
ricercatori universitari, nell'ambito
dell'organizzazione di un convegno
programmato dall'Ente per il mese di
novembre 2012.
In particolare, l'Amministrazione istante
precisa che i docenti parteciperanno al
convegno per due giornate, mentre i
ricercatori universitari saranno coinvolti
in una consistente attività di studio,
ricerca e documentazione finalizzata alla
pubblicazione di materiale specifico. Il
Comune si pone, quindi, il problema
concernente la corretta configurazione
giuridica delle predette prestazioni, anche
alla luce delle nuove normative intervenute
in materia di riforma del lavoro.
Preliminarmente, si osserva che le recenti
disposizioni approvate in materia di mercato
del lavoro, per espressa previsione di
quanto disposto all'art. 1, comma 7, della
l. n. 92/2012, costituiscono principi e
criteri per la regolazione dei rapporti di
lavoro dei dipendenti delle pubbliche
amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2,
del d.lgs. 165/2001 (enti locali compresi).
Il successivo comma 8 del citato articolo
precisa, ad ogni buon conto, che, al fine
dell'applicazione di quanto statuito al
comma 7, il Ministro per la pubblica
amministrazione e la semplificazione,
sentite le organizzazioni sindacali
maggiormente rappresentative dei dipendenti
delle amministrazioni pubbliche, individua e
definisce, anche mediante iniziative
normative, gli ambiti, le modalità e i tempi
di armonizzazione della disciplina relativa
ai dipendenti delle amministrazioni
pubbliche.
Pertanto, alla luce di quanto rilevato, la
riforma del mercato del lavoro non ha
un'immediata ricaduta applicativa sul
sistema delle pubbliche amministrazioni,
richiedendo per l'appunto ulteriori e
specifici interventi da parte delle autorità
competenti.
Premesso un tanto, si evidenzia che, nella
fattispecie rappresentata, gli operatori
interessati appartengono all'ambiente
universitario e soggiacciono,
conseguentemente, alle regole e alla
disciplina in vigore per tale ordinamento.
Si richiama ad esempio quanto prescritto
dall'art. 53, comma 6, del d.lgs.
165/2001[1], che prevede che 'i commi da
7 a 13 del medesimo articolo si applicano ai
dipendenti delle amministrazioni pubbliche
di cui all'articolo 1, comma 2, dello stesso
decreto, ...con esclusione dei dipendenti
con rapporto di lavoro a tempo parziale con
prestazione lavorativa non superiore al
cinquanta per cento di quella a tempo pieno,
dei docenti universitari a tempo definito...'.
Il successivo comma 7 precisa poi che: 'i
dipendenti pubblici non possono svolgere
incarichi retribuiti che non siano stati
conferiti o previamente autorizzati
dall'amministrazione di appartenenza. Con
riferimento ai professori universitari a
tempo pieno, gli statuti o i regolamenti
degli atenei disciplinano i criteri e le
procedure per il rilascio
dell'autorizzazione nei casi previsti dal
presente decreto'.
In linea generale, si osserva che è prevista
la previa autorizzazione
dell'amministrazione di appartenenza per
tutti gli incarichi, anche occasionali, non
compresi nei compiti e doveri d'ufficio, per
i quali è previsto sotto qualsiasi forma un
compenso. Sono, invece, eccezionali e
tassative le deroghe previste per incarichi
retribuiti, dal comma 6 del citato art. 53,
che contempla, tra le varie fattispecie,
anche la partecipazione a convegni e
seminari.
E' da notare, inoltre, che la 'riforma
Gelmini' introdotta dalla l. n. 240/2011
ha, in larga parte, innovato il regime delle
incompatibilità dei professori e dei
ricercatori universitari, sia a tempo pieno
che a tempo definito, liberalizzando alcune
attività prima soggette ad autorizzazione e
sottoponendo all'autorizzazione del Rettore
altre tipologie di attività, in riferimento
all'assenza di conflitto di interessi con
l'Università di appartenenza, nonché a
condizione che le attività medesime non
rappresentino detrimento alle attività
didattiche, scientifiche e gestionali
affidate ai richiedenti.
In particolare, l'art. 6 della suddetta
legge, al comma 10, prevede che i professori
a tempo pieno possano svolgere liberamente,
anche con retribuzione e, conseguentemente,
senza la necessità di acquisire
un'autorizzazione preventiva, attività
correlata a lezioni e seminari di carattere
occasionale.
Per quanto concerne la configurazione delle
attività di cui si discute e
dell'inquadramento giuridico delle
fattispecie in esame, considerate sotto il
profilo dell'amministrazione comunale
procedente, si rileva quanto segue.
Al di là delle diverse caratteristiche che
contraddistinguono le prestazioni di cui si
discute (attività limitata nel tempo, in un
caso, e attività a carattere più prolungato
e impegnativo, nell'altra fattispecie) e
dell'appartenenza dei soggetti interessati
al sistema universitario, si ritiene che
dette attività rientrino, a pieno titolo,
nell'ambito del conferimento di incarichi
esterni, sotto la forma di collaborazioni
occasionali o coordinate e continuative,
come disciplinate dall'art. 7, comma 6, del
d.lgs. 165/2001 e dalle norme regolamentari
peculiari adottate dall'Ente locale[2].
Pertanto, l'Amministrazione dovrà attenersi
alla predetta norma, che definisce
puntualmente requisiti, condizioni e
procedure per l'affidamento di
collaborazioni esterne nella pubblica
amministrazione, tenendo conto anche dei
presupposti legittimanti il conferimento di
detti incarichi, come rilevati dalla
magistratura contabile[3].
In particolare, si richiama anche il
contenuto della circolare n. 2
dell'11.03.2008, diramata dal Dipartimento
della funzione pubblica. Al punto 7. della
predetta circolare (Esclusioni) è espresso
l'orientamento secondo cui le collaborazioni
meramente occasionali, che si esauriscono in
una sola azione o prestazione,
caratterizzata da un rapporto intuitu
personae che consente il raggiungimento
del fine, e che comportano, per loro stessa
natura, una spesa equiparabile ad un
rimborso spese, quali ad esempio la
partecipazione a convegni, la singola
docenza, la traduzione di pubblicazioni e
simili, non debbano comportare l'utilizzo
delle procedure comparative per la scelta
del collaboratore, né gli obblighi di
pubblicità.
Si evidenzia, da ultimo, che, qualora l'Ente
intenda procedere all'affidamento
dell'attività in argomento all'Università
(che poi provvederà all'organizzazione e
alla gestione concreta), risulta necessario
attivare preventivamente una procedura
comparativa aperta a tutti gli Istituti
interessati.
---------------
[1] Detto articolo rappresenta la
normativa di riferimento, per tutti i
dipendenti pubblici, in materia di
incompatibilità e conferimento di incarichi
extraistituzionali.
[2] Cfr. parere ANCI del 03.03.2008. Vedasi
anche il parere reso da questo Servizio,
prot. n.. 16192 del 07.05.2012, consultabile
sul sito: http:autonomielocali.regione.fvg.it.,
in cui si evidenzia la natura degli
incarichi professionali quali contratti di
prestazione d'opera ex artt. 2222-2238 del
codice civile.
[3] Cfr. Corte dei conti, sezione regionale
di controllo per il Molise, deliberazione n.
26/2010/COMP (20.07.2012
- link a www.regione.fvg.it). |
NEWS |
PUBBLICO IMPIEGO: Permessi
disabili, le ferie non riducono i tre
giorni. Il Welfare: nessun
riproporzionamento in caso di assenze
giustificate.
La malattia (o la maternità o il permesso
sindacale o le ferie o le festività) non
riduce il diritto ai tre giorni di permesso
mensili per assistenza a familiari disabili
(legge n. 104/1992). Infatti, qualora in uno
stesso mese si trovi a fruire anche di altre
assenze «giustificate» perché riconosciute
per legge, il lavoratore ha comunque diritto
a fruire dei tre giorni di permesso mensili
in quanto aventi natura, funzione e
caratteri diversi.
Lo precisa il Ministero del lavoro nell'interpello
01.08.2012 n. 24/2012, spiegando che
il riproporzionamento dei giorni di permesso
scatta invece in caso di prima richiesta nel
corso del mese.
Interpello.
L'interpello, presentato da Federambiente
(federazione italiana servizi pubblici
igiene ambientale), concerne le modalità di
fruizione dei tre giorni mensili di permesso
retribuiti previsti dall'articolo 33, comma
3, della legge n. 104/1992. Si tratta,
spiega il ministero, del diritto spettante
al coniuge, parente o affine entro il
secondo grado, ovvero entro il terzo grado
qualora i genitori o il coniuge della
persona con handicap in situazione di
gravità abbiano compiuto i sessantacinque
anni di età oppure siano anche essi affetti
da patologie invalidanti o siano deceduti o
mancanti. In particolare, è stato chiesto al
ministero del lavoro:
● se sia legittimo un eventuale
riproporzionamento del diritto ai tre giorni
di permesso in base alla prestazione
lavorativa effettivamente svolta, qualora il
dipendente fruitore dei permessi abbia
legittimamente beneficiato di altre
tipologie di permessi o di congedi a lui
spettanti (quali, per esempio, permesso
sindacale, maternità facoltativa, maternità
obbligatoria, malattia, congedo
straordinario invalidi ecc.) e si sia,
pertanto, assentato dal lavoro durante il
mese di riferimento;
● se il dipendente che inoltri domanda di
riconoscimento del diritto ai tre giorni di
permesso per la prima volta nel corso del
mese (ad esempio, il giorno 19) abbia
diritto al riproporzionamento o il diritto
ai tre giorni spetti comunque in misura
intera.
Quando non c'è
riproporzionamento.
Nelle ipotesi in cui il dipendente, nel
corso del mese, fruisca di altri permessi,
quali ad esempio permesso sindacale,
maternità, malattia, il ministero non
ritiene giustificabile il riproporzionamento
del diritto, in quanto trattasi comunque di
assenze «giustificate», riconosciute
per legge come diritti spettanti al
lavoratore.
L'intento di garantire alla persona con
disabilità grave una assistenza morale e
materiale adeguata, anche attraverso la
fruizione, da parte di colui che la assiste,
dei permessi mensili, spiega il ministero,
non sembra possa subire una menomazione a
causa della fruizione di istituti aventi
funzione, natura e caratteri diversi.
Quando c'è il
riproporzionamento.
Viceversa, aggiunge il ministero, nella
diversa ipotesi in cui il dipendente
presenti istanza per la prima volta nel
corso del mese (per esempio nel giorno 19),
appare evidentemente possibile operare un
riproporzionamento del numero dei giorni
mensili di permesso spettanti.
In tal caso, aggiunge il ministero, il
riproporzionamento avviene in base ai
criteri indicati dall'Inps (circolare n.
128/2003 si veda ItaliaOggi del 12.07.2003),
secondo cui viene concesso un giorno di
permesso ogni dieci giorni di assistenza
continuativa e, per periodi inferiori a
dieci giorni, non si ha diritto a nessuna
giornata
(articolo ItaliaOggi
del 18.08.2012). |
ENTI LOCALI: Autunno caldo per gli enti locali.
Bonus Patto, poi riordino province e tagli a
consumi e organici. Pubblicata in G.U. la spending review,
scatta la fase attuativa con un fitto
calendario di scadenze.
Sarà un autunno caldo quello che attende gli
enti locali. Dopo la pubblicazione della
legge n. 135/2012 di conversione del dl 95
sulla spending review, sta per scattare la
fase attuativa delle numerose disposizioni
che toccano l'assetto organizzativo, la
finanza e le funzioni di province e comuni.
I primi provvedimenti sono attesi subito
dopo la pausa estiva.
Entro il 10 settembre, infatti, le regioni
dovranno ripartire i bonus destinati ad
alleggerire gli obiettivi del Patto di
stabilità interno. Sul piatto ci sono 800
milioni di euro di incentivi, per
aggiudicarsi i quali i governatori dovranno
mettere a disposizione di sindaci e
presidenti almeno 960 milioni di spazi
finanziari.
C'è tempo fino al 30 settembre, invece, per
raggiungere in Conferenza stato-città e
autonomie locali un accordo sulla
ripartizione dei nuovi tagli al fondo
sperimentale di riequilibrio ed ai residui
trasferimenti erariali, che per il 2012
valgono complessivamente 500 milioni per i
comuni e altrettanti per le province. A tal
fine, si dovrà tenere conto delle analisi
della spesa effettuate dal commissario
Bondi, nonché (solo per i comuni) degli
elementi di costo nei singoli settori
merceologici, dei dati raccolti nell'ambito
della procedura per la determinazione dei
fabbisogni standard e dei conseguenti
risparmi potenziali di ciascun ente.
Se non si troverà una quadra, la
ripartizione verrà operata entro il 15
ottobre da un decreto del ministero
dell'interno in proporzione alle spese
sostenute per consumi intermedi desunte, per
l'anno 2011, dal Siope.
Tra la fine di settembre e gli inizi di
ottobre entrerà nel vivo anche la complessa
partita relativa al riordino delle province,
che dovrà essere operato sulla base dei due
criteri (popolazione non inferiore a 350
mila abitanti e superficie non inferiore a
2.500 kmq) fissati dalla deliberazione del
consiglio dei ministri del 20 luglio scorso.
E proprio la data di pubblicazione di tale
provvedimento sulla G.U., ovvero il 24
luglio, rappresenta il riferimento per le
successive scadenze.
Entro 70 giorni, quindi entro il 2 ottobre,
i Consigli delle autonomie locali (o, in
mancanza dei Cal, gli altri organi regionali
di raccordo tra regioni ed enti locali)
dovranno approvare un'ipotesi di riordino
relativa alle province ubicate nel
territorio della rispettiva regione,
inviandola alla regione medesima entro il
giorno successivo. Entro i 20 giorni
successivi (quindi, al più tardi entro il 23
ottobre), le regioni dovranno trasmettere al
governo una proposta di riordino, formulata
sulla base dell'ipotesi elaborata dal
competente cal; in mancanza di quest'ultima,
le regioni dovranno comunque provvedere
autonomamente entro il 24 ottobre. Infine,
toccherà all'esecutivo, al quale è imposto
un termine di 60 giorni dalla data di
entrata in vigore della l 135 (8 agosto),
che scade il 7 ottobre e che, non essendo
coordinato con gli altri momenti
procedurali, va inteso come ordinatorio (si
veda ItaliaOggi del 7/8/2012).
Non è chiaro, inoltre, che forma avrà
l'«atto legislativo di iniziativa
governativa» che dovrà chiudere il
procedimento: se, come pare, si tratterà di
un disegno di legge, servirà anche un
passaggio parlamentare (per questo il
governo starebbe pensando a un decreto
legge, ma si tratta di una soluzione
problematica dal punto di vista
costituzionale, si veda ItaliaOggi
dell'11/08/2012).
Completato il riordino, occorrerà procedere
alla redistribuzione delle funzioni (che in
gran parte passeranno ai comuni) e di beni e
risorse umane, strumentali e finanziarie: a
tal fine, si procederà con una serie di dpcm
da adottare entro 60 e 180 giorni
dall'entrata in vigore del dl 95 (avvenuta,
lo ricordiamo, il 6 luglio): anche in tal
caso, pertanto, si ritiene trattarsi di
termini ordinatori.
Sempre con dpcm, ma entro il 31 dicembre, si
procederà, invece, a definire i parametri di
virtuosità per la determinazione delle
dotazioni organiche degli enti locali, sulla
base dei quali dovranno essere definiti i
margini di manovra di ogni amministrazione
sulla gestione del rispettivo personale.
Ha invece effetto immediato l'obbligo di
attenersi alle convenzioni Consip o a quelle
stipulate dalle centrali di committenza
regionali, anche se sono fatte salve le
procedure di gara il cui bando sia stato
pubblicato precedentemente alla data di
entrata in vigore del dl 95.
La stretta sulle spese per le locazioni
passive (con riduzione del 15% dei canoni
attuali) andrà a regime dall'01.01.2015,
ma scatta fin da subito il blocco degli
adeguamenti Istat, che durerà fino al 2014
compreso.
Tempi più lunghi per gli interventi sulle
società strumentali, ma occorre mettersi al
lavoro fin da subito perché quelle che non
riusciranno a beneficiare delle deroghe
previste in sede di conversione del dl 95
dovranno essere dimesse entro il 30.06.2013 con alienazione delle partecipazioni da
parte degli enti controllanti o, in
mancanza, sciolte entro il successivo 31
dicembre.
Dal 1° ottobre, infine, è operativo il tetto
ai buoni pasto, che non potranno superare il
valore giornaliero di 7 euro, mentre il
nuovo taglio alle spese per l'acquisto, la
manutenzione, il noleggio e l'esercizio di
autovetture, nonché per l'acquisto di buoni
taxi diverrà operativo nel 2013
(articolo ItaliaOggi
del 17.08.2012). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Concertazione sugli esuberi. Torna il
confronto amministrazione-sindacati. La
legge 135 porta a 30 giorni il tempo per
definire le modalità di reimpiego.
È da considerare di trenta e non dieci
giorni dall'informazione alle organizzazioni
sindacali il tempo a disposizione delle
amministrazioni pubbliche per definire le
modalità per reimpiegare il personale in
esubero.
Le relazioni sindacali sulle procedure per
la rilevazione degli esuberi del personale
alle dipendenze della pubblica
amministrazione sono rese particolarmente
incerte dalla «spending review» (il dl
95/2012 convertito nella legge 135/2012
pubblicata nel Supplemento ordinario n. 173
allegato alla Gazzetta Ufficiale n. 189 del
14.08.2012) che gioca un cattivo
scherzo alle amministrazioni, complicando
non di poco il sistema per giungere alla
determinazione dei casi di eccedenza dei
dipendenti, a causa della classica modifica
normativa non coordinata con disposizioni
precedenti.
Il cortocircuito procedimentale è dovuto
all'articolo 2, comma 18, lettera b), della
legge 135/2012, che inserisce nell'articolo
6, comma 1, del dlgs 165/2001, il seguente
periodo: «Nei casi in cui processi di
riorganizzazione degli uffici comportano
l'individuazione di esuberi o l'avvio di
processi di mobilità, al fine di assicurare
obiettività e trasparenza, le pubbliche
amministrazioni sono tenute a darne
informazione, ai sensi dell'articolo 33,
alle organizzazioni sindacali
rappresentative del settore interessato e ad
avviare con le stesse un esame sui criteri
per l'individuazione degli esuberi o sulle
modalità per i processi di mobilità. Decorsi
trenta giorni dall'avvio dell'esame, in
assenza dell'individuazione di criteri e
modalità condivisi, la pubblica
amministrazione procede alla dichiarazione
di esubero e alla messa in mobilità».
La norma, come si vede, richiama l'articolo
33 del dlgs 165/2001, ma non si coordina con
esso. La spending review, nella sostanza,
reintroduce nel citato articolo 33 una fase
di confronto tra amministrazioni pubbliche e
sindacati che la legge 183/2011, modificando
appunto l'articolo 33, aveva eliminato.
Infatti, il testo vigente dell'articolo 33,
commi 4 e 5, dispone che laddove sia
individuato personale in esubero, il
dirigente responsabile deve dare
un'informativa preventiva alle
rappresentanze unitarie del personale e alle
organizzazioni sindacali firmatarie del
contratto collettivo nazionale del comparto
o area; trascorsi dieci giorni da detta
informativa, scattano le azioni per
ricollocare il personale all'interno del
medesimo ente o in altre amministrazioni.
La modifica all'articolo 6, comma 1, del
dlgs 165/2001 rende, però, di fatto
inoperante la previsione del comma 5
dell'articolo 33. Infatti, aggiunge
indirettamente alla procedura ivi descritta
l'obbligo, conseguente all'informazione
preventiva, di attivare un esame congiunto,
per concordare, laddove possibile, come
individuare gli esuberi e come attivare la
mobilità (cioè i trasferimenti) del
personale interessato.
Trattandosi di una disposizione tendente a
valorizzare la funzione dei sindacati, la
novellazione dell'articolo 6, comma 1, del
dlgs 165/2001 deve essere intesa come
prevalente sull'articolo 33, comma 5.
Insomma, la sola informazione preventiva ed
il decorso dei dieci giorni non possono più
bastare per legittimare le azioni di
ricollocazione del personale in esubero. I
sindacati hanno un diritto pieno all'esame
congiunto, anche se non possono pretendere
di avere l'ultima parola.
L'esame congiunto è nella sostanza una
procedura di concertazione della durata di
30 giorni, al termine della quale se
sindacati ed amministrazione non concordino
con criteri per gli esuberi e modalità per
porvi rimedio, comunque il potere
decisionale ultimo resta
all'amministrazione, che potrà agire in via
unilaterale
(articolo ItaliaOggi
del 17.08.2012 - link a
www.corteconti.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ La rinuncia anticipata da parte
del primo dei non eletti è inefficace. Dimissioni subito operative.
Ma per il subentro serve la delibera di
surroga.
Qual è il presupposto giuridico per
l'adozione del provvedimento di
surrogazione?
L'articolo 38, comma 8, del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, prevede
che le dimissioni dalla carica di
consigliere devono essere presentate
personalmente ed assunte immediatamente al
protocollo dell'ente nell'ordine temporale
di presentazione. In alternativa, le
dimissioni non presentate personalmente
devono essere autenticate ed inoltrate al
protocollo per il tramite di persona
delegata con atto autenticato in data non
anteriore a cinque giorni.
Esse sono
irrevocabili, non necessitano di presa
d'atto e sono immediatamente efficaci. Il
consiglio, entro e non oltre dieci giorni,
deve procedere alla surroga dei consiglieri
dimissionari, con separate deliberazioni,
seguendo l'ordine di presentazione delle
dimissioni quale risulta dal protocollo.
Ad avviso del Tar Lombardia (sentenza 28.02.2006, n. 245), «l'abdicazione dalla
carica di consigliere comunale, seppure
immediatamente operativa, è logicamente e
cronologicamente distinta dal subentro del
primo dei candidati non eletti, che si
realizza con l'adozione di un atto
consequenziale e subordinato entro il
termine di legge», rappresentando il
presupposto giuridico per l'adozione
dell'ulteriore provvedimento di
surrogazione.
Dunque, la lettera dell'art. 38 del Tuel è
sufficientemente chiara nel disporre che «lo
status di consigliere si acquista, in caso
di dimissioni, quale effetto immediato della
deliberazione di surrogazione da parte
dell'organo consiliare, la cui adozione è
peraltro preceduta dalla verifica,
normativamente prevista, dell'assenza di
eventuali cause di ineleggibilità e di
incompatibilità alla carica» (Tar ult.
cit.).
Tale premessa permette di comprendere meglio
e di condividere quell'orientamento
giurisprudenziale secondo cui, la
dichiarazione di indisponibilità resa dal
primo dei non eletti anticipatamente
rispetto all'adozione della delibera di
surrogazione deve ritenersi priva di ogni
effetto, non potendo egli disporre di un
munus di cui ancora non è investito.
Pertanto, ogni anticipata rinuncia a quel
diritto non può che essere radicalmente
inefficace (Tar Lazio, Latina, 05.05.2006, n. 651).
Per quanto riguarda la surroga del
consigliere dimessosi, si fa rilevare che
dalla lettura dell'art. 45 del dlgs n.
267/2000 non si evincono dubbi
interpretativi sull'individuazione del
successore, in quanto la norma stabilisce
che «il seggio che rimanga vacante è
attribuito al candidato che nella medesima
lista segue immediatamente l'ultimo eletto».
Si soggiunge che il vigente ordinamento non
prevede poteri di controllo di legittimità
sugli atti degli enti locali in capo
all'amministrazione dell'interno, pertanto
gli eventuali vizi di legittimità degli atti
adottati, potranno essere fatti valere solo
nelle competenti sedi giurisdizionali,
secondo le consuete regole vigenti in
materia
(articolo ItaliaOggi
del 17.08.2012). |
GIURISPRUDENZA |
INCARICHI PROFESSIONALI: Abolizione
dei tariffari senza riflessi per lo stato.
Parere del Consiglio di stato sul dpr con i
nuovi parametri.
L'abolizione delle tariffe non deve
danneggiare le casse professionali e gli
archivi notarili.
È quanto prevede il
parere 13.08.2012 n. 3576 del Consiglio
di Stato, che ha licenziato favorevolmente
lo schema di Regolamento sulla
determinazione dei parametri per oneri e
contribuzioni dovuti alle Casse
professionali e agli Archivi, in attuazione
dell'articolo 9, comma 2, secondo e terzo
periodo, del decreto-legge 1/2012.
Si tratta di un derivato della abolizione
delle tariffe professionali e il principio
generale da perseguire è salvaguardare
l'equilibrio finanziario, anche di lungo
periodo, delle casse previdenziali
professionali; inoltre si deve evitare una
riduzione delle principali entrate
dell'amministrazione degli archivi notarili
(tassa archivio, tassa iscrizione al
Registro generale dei testamenti e diritti
per i servizi resi all'utenza), basate sulla
tariffa notarile.
Lo schema di regolamento mantiene un importo
base di calcolo unico sia per le tasse che
per i contributi; tale importo rimane
graduale per gli atti di valore determinato
o determinabile, mentre è stabilito in
misura fissa per gli altri atti, a seconda
della tipologia dell'atto.
Inoltre gli importi da indicare al
repertorio per il calcolo di tasse e
contributi sono stati adeguati all'andamento
dell'inflazione nel periodo 2001-2011 (23%).
Il Consiglio di stato rileva che
l'adeguamento non deve necessariamente
essere pienamente corrispondente
all'incremento Istat per le professioni
liberali, soprattutto in un momento di crisi
economica e finanziaria.
Anche se la misura, più bassa del tasso
d'inflazione, deve essere rimessa
all'amministrazione, tenuto conto anche
della finalità di salvaguardare l'equilibrio
finanziario, anche di lungo periodo, delle
casse previdenziali professionali.
Lo schema di decreto prevede una sola
tabella per i parametri determinati in
misura graduale, da applicare sia per gli
atti pubblici, sia per le scritture private
autenticate, con allineamento agli importi
previsti per gli atti pubblici.
Il Consiglio di stato suggerisce, tuttavia,
di conservare una riduzione per le scritture
private autenticate o, comunque, di
mantenere una unica tabella con importi
determinati in misura inferiore e non
allineati verso l'alto.
Altro punto da rivedere è l'importo dovuto
per il rilascio delle copie di atto
cartaceo, raddoppiato in caso di copia
esecutiva: palazzo Spada chiede di valutare
la congruità degli importi, tenuto conto che
si tratta di un semplice rilascio di copie
(articolo ItaliaOggi
del 17.08.2012 - link a
www.corteconti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
caso in cui l’Autorità Giudiziaria penale
accerti, con valore di giudicato, la falsità
di titoli edilizi formati da funzionari comunali, responsabili del
relativo reato, sul piano amministrativo-urbanistico le opere realizzate in forza di
tali atti sono da considerare, a tutti gli
effetti, “sine titulo” e sussiste l’obbligo
per il Comune di esercitare il proprio
potere di controllo urbanistico, adottando
gli appropriati provvedimenti sanzionatori
(in base alla qualità dell’abuso), entro i
termini di legge decorrenti dal passaggio in
giudicato della sentenza che accerta la
falsità degli stessi titoli edilizi o,
comunque, a richiesta del privato portatore
di un interesse qualificato al corretto
assetto dei luoghi, il quale, in difetto,
può ricorrere avverso il silenzio della PA
di fronte al giudice amministrativo.
---------------
La giurisprudenza più qualificata ritiene
che la formazione del provvedimento
amministrativo in un ambiente collusivo
penalmente rilevante (e, quindi, a maggior
ragione, l’accertamento in sede penale della
falsità di un titolo edilizio) produce, sul
piano amministrativo, una causa di nullità
del provvedimento ex art. 21-septies della
l. 241/1990 (cfr. Consiglio di Stato, V,
04.03.2008 n. 890, che ha affermato
l’esposto principio in relazione ad una
fattispecie nella quale il Sindaco che aveva
rilasciato le concessioni edilizie, poi
dichiarate nulle d'ufficio dal suo
successore, era stato condannato in sede
penale per abuso di ufficio ex art. 323
c.p., con sentenza di applicazione della
pena su richiesta, ex art. 444 c.p.p.).
Più precisamente, la nullità di un atto
amministrativo non si riscontra solo nel
caso di carenza di potere
dell’Amministrazione, ma anche in quello
della mancanza degli elementi essenziali,
come accade al venir meno dell’imputabilità
dell’atto alla P.A. per interruzione del
rapporto organico.
In tali fattispecie, va ritenuto che se la
volontà di adottare un determinato
provvedimento amministrativo si è formata in
violazione dei principi cogenti sanciti
dall’art. 97 della Costituzione, tanto da
integrare gli estremi di un comportamento
penalmente rilevante per violazione di
quegli specifici beni giuridici che i
principi appena richiamati sono posti a
presidiare, non può dubitarsi che il
procedimento formativo della volontà
dell’organo è abnorme, al limite
dell’inesistenza, e dunque non ha titolo ad
impegnare l’Ente, difettando
l’immedesimazione organica ex art. 28 della
Costituzione.
---------------
Il giudicato penale non ha effetti
caducatori dell’atto amministrativo ed esso
impedisce di considerare invalido, in
assenza di specifica ed autonoma valutazione
dell’autorità amministrativa o di giudizio
del giudice amministrativo, il provvedimento
che è stato ritenuto illegittimo dal giudice
penale incidenter tantum; ma tale principio
presuppone che l’illegittimità così
accertata dal giudice penale rientri pur
sempre nell’ambito degli ordinarie patologie
che determinano l’annullabilità del
provvedimento amministrativo, mentre quando
il reato incide sulla qualificazione del
comportamento stesso dei funzionari pubblici
ed è tale da impedire la riferibilità della
volontà dei soggetti titolari dell'organo a
quella dell’Ente, quest’ultimo resta del
tutto estraneo alla fattispecie, con la
conseguenza che l’assetto d’interessi che
avrebbe dovuto essere regolato dal
provvedimento rimane senza fondamento
normativo e gli atti così prodotti non
rientrano nella “categoria” dei
provvedimenti amministrativi.
A stretto rigore, poiché il comportamento
penalmente rilevante dell’agente dipendente
pubblico è tale da interrompere la
riferibilità della volontà di quest’ultimo
alla PA (tant’è vero che egli risponde in
proprio della condotta penalmente rilevante,
che non si imputa all’Ente pubblico), gli
atti formati in occasione dell’esercizio
dell’attività illecita dovrebbero essere
ascritti, sul piano amministrativo, alla
categoria dogmatica dell’inesistenza; ma è
comunque certo che, nulli o inesistenti,
tali atti non possono in alcun modo
impegnare la volontà pubblica e regolare i
relativi assetti degli interessi sostanziali
che dipendono dall’azione della PA, siano
essi di natura pubblica che privata,
sussistendo degli atti amministrativi solo
una mera apparenza.
---------------
Quando è accertata in sede penale, con
sentenza passata in giudicato, la falsità di
un titolo edilizio per fatto dei dipendenti
dell’ufficio comunale responsabile, in
accordo o comunque a favore del privato
richiedente, ai relativi documenti non può
essere in alcun modo riconosciuta natura di
atti amministrativi, neppure in via mediata,
essendo essi solo apparentemente
riconducibili alla volontà dell’Ente, che
non può essere impegnata mediante
comportamenti di dipendenti pubblici
costituenti reato, dal momento che viene
interrotto il nesso di immedesimazione
organica dell’agente rispetto all’Ente del
quale è stato speso illecitamente il nome.
---------------
Anche a voler accedere all’orientamento
secondo cui l’accertamento da parte del
giudice penale dell’illegittimità di un
provvedimento amministrativo non implica
automaticamente la sua caducazione neppure
nelle ipotesi di nullità, rendendosi sempre
necessaria una corrispondente decisione
dell’Autorità amministrativa, l’esercizio
dell’autotutela va considerato in questi
casi come doveroso e, a richiesta del
privato interessato, atto obbligato, da
esercitarsi anche a distanza di tempo
dall’abuso e senza che possano venire in
rilievo eventuali aspettative di terzi
(come, nella specie, dell'odierno
controinteressato) o degli stessi titolari
del titolo edilizio, perché l'accertata
rilevanza penale non può in alcun modo
giustificare la permanenza dell'efficacia e
la presunzione di legittimità di un
provvedimento amministrativo "contra legem",
a pena di intuibili contraddizioni nella
coerenza dell’Ordinamento, dal momento che
così opinando si consentirebbe sul piano
amministrativo e civile il mantenimento di
quelle utilità illecite che costituiscono il
frutto del reato e che la prevenzione penale
mira invece ad impedire.
L’obbligo a provvedere discende, in questo
caso, dal principio -di immediata cogenza-
dell'imparzialità dell’azione amministrativa
sancito dall’art. 97 della Costituzione.
Nell’odierno giudizio, parte ricorrente si
duole dell’inerzia che il Comune di Palmi ha
mantenuto sulla propria istanza volta ad
ottenere da parte dell’Ente l’annullamento
in autotutela di titoli edilizi illegittimi,
per falsità penalmente accertata, e
l’attivazione dei poteri repressivi in
materia edilizia.
Disattendendo le numerose eccezioni
processuali della difesa comunale e del
controinteressato, acquirente di una unità
immobiliare nel fabbricato di cui si
discute, e gli argomenti che questi ultimi
hanno spiegato nel merito, il ricorso è
fondato e deve essere accolto, con le
precisazioni che seguono.
I) Nel caso in cui l’Autorità Giudiziaria
penale accerti, con valore di giudicato, la
falsità di titoli edilizi formati da
funzionari comunali, responsabili del
relativo reato, sul piano amministrativo-urbanistico le opere realizzate in forza di
tali atti sono da considerare, a tutti gli
effetti, “sine titulo” e sussiste l’obbligo
per il Comune di esercitare il proprio
potere di controllo urbanistico, adottando
gli appropriati provvedimenti sanzionatori
(in base alla qualità dell’abuso), entro i
termini di legge decorrenti dal passaggio in
giudicato della sentenza che accerta la
falsità degli stessi titoli edilizi o,
comunque, a richiesta del privato portatore
di un interesse qualificato al corretto
assetto dei luoghi, il quale, in difetto,
può ricorrere avverso il silenzio della PA
di fronte al giudice amministrativo.
Per la migliore comprensione di tale
principio di diritto, è opportuno anteporre
alla trattazione dei motivi di gravame ed
alle preliminari eccezioni difensive del
Comune un sintetico inquadramento della
fattispecie nella sua corretta
qualificazione giuridica.
In linea di principio, la giurisprudenza più
qualificata (che il Collegio condivide)
ritiene che la formazione del provvedimento
amministrativo in un ambiente collusivo
penalmente rilevante (e, quindi, a maggior
ragione, l’accertamento in sede penale della
falsità di un titolo edilizio) produce, sul
piano amministrativo, una causa di nullità
del provvedimento ex art. 21-septies della
l. 241/1990 (cfr. Consiglio di Stato, V, 04.03.2008 n. 890, che ha affermato
l’esposto principio in relazione ad una
fattispecie nella quale il Sindaco che aveva
rilasciato le concessioni edilizie, poi
dichiarate nulle d'ufficio dal suo
successore, era stato condannato in sede
penale per abuso di ufficio ex art. 323
c.p., con sentenza di applicazione della
pena su richiesta, ex art. 444 c.p.p.).
Più precisamente, secondo tale
giurisprudenza la nullità di un atto
amministrativo non si riscontra solo nel
caso di carenza di potere
dell’Amministrazione, ma anche in quello
della mancanza degli elementi essenziali,
come accade al venir meno dell’imputabilità
dell’atto alla P.A. per interruzione del
rapporto organico (Cfr. Cons. Stato, nr.
890/2008 cit.).
In tali fattispecie, a giudizio del
Collegio, va ritenuto che se la volontà di
adottare un determinato provvedimento
amministrativo si è formata in violazione
dei principi cogenti sanciti dall’art. 97
della Costituzione, tanto da integrare gli
estremi di un comportamento penalmente
rilevante per violazione di quegli specifici
beni giuridici che i principi appena
richiamati sono posti a presidiare, non può
dubitarsi che il procedimento formativo
della volontà dell’organo è abnorme, al
limite dell’inesistenza, e dunque non ha
titolo ad impegnare l’Ente, difettando
l’immedesimazione organica ex art. 28 della
Costituzione.
Non possono dunque trovare applicazione
nella odierna fattispecie le pronunce che
affermano il diverso principio, secondo cui
“non sono nulle le concessioni edilizie
assentite sulla base di una riscontrata
falsità degli elaborati progettuali, in
quanto in base all'art. 21-septies la
nullità del provvedimento è determinata
dalla mancanza di uno degli "elementi
essenziali" dell'atto amministrativo, quale
é la "volontà decidente"; ma tale nullità si
produce quando detta volontà è del tutto
inesistente e non quando la volontà,
ancorché viziata, esiste“ (TAR Pescara
Abruzzo sez. I, 04.05.2012, n. 178).
Infatti tale principio è stato enunciato in
relazione ad una fattispecie nella quale la
falsità accertata dal giudice penale era
inerente agli elaborati tecnici di
provenienza dei privati, che avevano tratto
in inganno l’Amministrazione comunale,
mentre nel caso odierno è il comportamento
degli stessi funzionari dell’Ente ad essere
penalmente rilevante.
Né può essere condivisa l’impostazione
seguita da altre pronunce secondo cui,
premesso che “la valutazione che il giudice
penale compie in ordine alla validità di un
atto amministrativo, al fine di accertare o
di escludere l'esistenza del reato della cui
cognizione è investito, è eseguita -ai
sensi dell'art. 5 l. 20.03.1865 n. 2248
all. E- "incidenter tantum" ed ha
efficacia circoscritta all'oggetto dedotto
in giudizio” con la conseguenza che “il
giudicato sul caso deciso, …non può
travolgere gli effetti di un provvedimento
amministrativo divenuto inoppugnabile”, si
nega che “i citati titoli possono ritenersi
"nulli", atteso che le nullità dei
provvedimenti amministrativi sono tassative
e vanno ricondotte, ex art. 21-septies, l.
n. 241 del 1990, esclusivamente alla
mancanza di elementi essenziali dell'atto,
ad ipotesi di incompetenza assoluta
dell'organo che adotta il provvedimento o
alla violazione di giudicato” (TAR Napoli
Campania sez. III, 01.03.2011, n. 1248).
Ad avviso di questo Tribunale, tale ultima
affermazione, meramente assertiva, non
spiega come possa salvaguardarsi la
riferibilità del comportamento penalmente
rilevante dell’agente all’amministrazione
pubblica, secondo il principio
dell'immedesimazione organica, e come
quest’aspetto non debba essere ricondotto
nel novero di quegli elementi essenziali
dell’atto, la cui mancanza comporta nullità.
Peraltro, è incontestabile il principio
secondo cui il giudicato penale non ha
effetti caducatori dell’atto amministrativo
ed esso impedisce di considerare invalido,
in assenza di specifica ed autonoma
valutazione dell’autorità amministrativa o
di giudizio del giudice amministrativo, il
provvedimento che è stato ritenuto
illegittimo dal giudice penale incidenter
tantum; ma tale principio presuppone che
l’illegittimità così accertata dal giudice
penale rientri pur sempre nell’ambito degli
ordinarie patologie che determinano
l’annullabilità del provvedimento
amministrativo, mentre quando il reato
incide sulla qualificazione del
comportamento stesso dei funzionari pubblici
ed è tale da impedire la riferibilità della
volontà dei soggetti titolari dell'organo a
quella dell’Ente, quest’ultimo resta del
tutto estraneo alla fattispecie, con la
conseguenza che l’assetto d’interessi che
avrebbe dovuto essere regolato dal
provvedimento rimane senza fondamento
normativo e gli atti così prodotti non
rientrano nella “categoria” dei
provvedimenti amministrativi.
A stretto rigore, poiché il comportamento
penalmente rilevante dell’agente dipendente
pubblico è tale da interrompere la
riferibilità della volontà di quest’ultimo
alla PA (tant’è vero che egli risponde in
proprio della condotta penalmente rilevante,
che non si imputa all’Ente pubblico), gli
atti formati in occasione dell’esercizio
dell’attività illecita dovrebbero essere
ascritti, sul piano amministrativo, alla
categoria dogmatica dell’inesistenza; ma è
comunque certo che, nulli o inesistenti,
tali atti non possono in alcun modo
impegnare la volontà pubblica e regolare i
relativi assetti degli interessi sostanziali
che dipendono dall’azione della PA, siano
essi di natura pubblica che privata,
sussistendo degli atti amministrativi solo
una mera apparenza.
Va dunque ritenuto che quando è accertata in
sede penale, con sentenza passata in
giudicato, la falsità di un titolo edilizio
per fatto dei dipendenti dell’ufficio
comunale responsabile, in accordo o comunque
a favore del privato richiedente, ai
relativi documenti non può essere in alcun
modo riconosciuta natura di atti
amministrativi, neppure in via mediata,
essendo essi solo apparentemente
riconducibili alla volontà dell’Ente, che
non può essere impegnata mediante
comportamenti di dipendenti pubblici
costituenti reato, dal momento che viene
interrotto il nesso di immedesimazione
organica dell’agente rispetto all’Ente del
quale è stato speso illecitamente il nome.
Sotto diversa prospettiva, anche a voler
accedere all’orientamento secondo cui
l’accertamento da parte del giudice penale
dell’illegittimità di un provvedimento
amministrativo non implica automaticamente
la sua caducazione neppure nelle ipotesi di
nullità, rendendosi sempre necessaria una
corrispondente decisione dell’Autorità
amministrativa, l’esercizio dell’autotutela
va considerato in questi casi come doveroso
e, a richiesta del privato interessato, atto
obbligato, da esercitarsi anche a distanza
di tempo dall’abuso e senza che possano
venire in rilievo eventuali aspettative di
terzi (come, nella specie, dell'odierno
controinteressato) o degli stessi titolari
del titolo edilizio, perché l'accertata
rilevanza penale non può in alcun modo
giustificare la permanenza dell'efficacia e
la presunzione di legittimità di un
provvedimento amministrativo "contra legem",
a pena di intuibili contraddizioni nella
coerenza dell’Ordinamento, dal momento che
così opinando si consentirebbe sul piano
amministrativo e civile il mantenimento di
quelle utilità illecite che costituiscono il
frutto del reato e che la prevenzione penale
mira invece ad impedire.
L’obbligo a provvedere discende, in questo
caso, dal principio -di immediata cogenza-
dell'imparzialità dell’azione amministrativa
sancito dall’art. 97 della Costituzione.
La posizione del terzo che, in buona fede,
si sia reso cessionario di diritti
sull’immobile, pur essendo ovviamente
estraneo all’abuso, ne sarà comunque
travolta, dovendo trovare tutela sul piano
contrattuale delle garanzie della
compravendita (o del diverso negozio
stipulato; sul punto si tornerà meglio
oltre)
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 11.08.2012 n. 536 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’impugnazione
della disciplina urbanistica d’aree estranee
a quelle di proprietà del ricorrente è
consentita soltanto “qualora
incida direttamente sul godimento o sul
valore di mercato delle aree stesse, o
comunque su interessi propri e specifici
dell’istante”.
Così, “la legittimazione all’impugnativa non
deriva dal mero riverbero che la nuova,
diversa destinazione attribuita alle aree
limitrofe può avere sull’area di proprietà
di parte ricorrente, occorrendo che tale
riverbero assuma una connotazione e
consistenza oggettivamente negative, che
determini cioè una lesione effettiva ed
attuale nella posizione sostanziale degli
esponenti”.
Non è in altre parole sufficiente “affermare
che la nuova disciplina urbanistica delle
aree adiacenti avrà ripercussioni anche
all’esterno delle stesse, ma occorre
dimostrare che tali ripercussioni si
caratterizzano in maniera sicuramente
pregiudizievole per i ricorrenti.
A tale riguardo questo Tribunale
Amministrativo ha già avuto modo di
manifestare il proprio orientamento circa la
rilevanza della mera vicinitas in rapporto
alla configurazione della legittimazione e
dell’interesse ad agire, osservando in più
occasioni (cfr. TAR Veneto, I, n.
1190/2009 e II, n. 2347/2009) come
l’impugnazione della disciplina urbanistica
d’aree estranee a quelle di proprietà del
ricorrente sia consentita soltanto “qualora
incida direttamente sul godimento o sul
valore di mercato delle aree stesse, o
comunque su interessi propri e specifici
dell’istante”.
Così, “la legittimazione all’impugnativa non
deriva dal mero riverbero che la nuova,
diversa destinazione attribuita alle aree
limitrofe può avere sull’area di proprietà
di parte ricorrente, occorrendo che tale
riverbero assuma una connotazione e
consistenza oggettivamente negative, che
determini cioè una lesione effettiva ed
attuale nella posizione sostanziale degli
esponenti”.
Non è in altre parole sufficiente “affermare
che la nuova disciplina urbanistica delle
aree adiacenti avrà ripercussioni anche
all’esterno delle stesse, ma occorre
dimostrare che tali ripercussioni si
caratterizzano in maniera sicuramente
pregiudizievole per i ricorrenti (cfr.
TAR Veneto, II, n. 4074/2006)”.
Tale orientamento è stato confermato dal
Consiglio di Stato, il quale ha avuto modo
di pronunciarsi, anche di recente, proprio
in ordine alla rilevanza della mera
vicinitas
(sentenza TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 06.08.2012 n. 1119 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' illegittimo il regolamento edilizio
comunale che prescrive per le nuove
costruzioni, al netto delle murature e degli
accessori, una superficie utile di almeno 80
mq.
Va condiviso l’assunto di parte
ricorrente che rileva la diversa finalità
attribuita alle disposizioni contenute nei
regolamenti edilizi comunali, le quali, pur
essendo destinate a disciplinare le modalità
costruttive, hanno il precipuo scopo di
assicurare che gli alloggi rispettino i
requisiti minimi di carattere
igienico-sanitario, ovvero rispondano a
determinate caratteristiche
tecnico-costruttive, ovvero ancora
assicurino determinate condizioni di
sicurezza e vivibilità.
Orbene, il limite fissato dal Comune per le
nuove costruzioni, che impone, al netto
delle murature e degli accessori, una
superficie utile di almeno 80 mq, non appare
giustificato da alcuna delle suddette
finalità: lo stesso limite fissato dal D.M.
del 1975 impone infatti una dimensione
minima della superficie da assicurare in
rapporto al numero degli abitanti l’unità
residenziale che è palesemente inferiore a
quella fissata dal Comune (56 mq per quattro
occupanti), pur essendo ritenuta conforme ai
requisiti di carattere igienico-sanitario
degli immobili.
Il ricorso è fondato e meritevole di
accoglimento sulla base delle seguenti
considerazioni.
Come rilevabile dagli atti di causa e dalla
stessa deliberazione n. 15/2012, assunta nelle
more del giudizio dal Consiglio Comunale di
Colle S. Lucia, l’obiettivo sotteso alla
disposizione introdotta con il Regolamento
Edilizio, stabilente la metratura minima
della superficie di pavimento per i nuovi
edifici a destinazione residenziale (80 mq),
è quello di assicurare la realizzazione di
appartamenti aventi dimensioni idonee alla
residenza di carattere stabile, arginando il
fenomeno delle “seconde case”, utilizzate
stagionalmente da non residenti.
Scoraggiando così la realizzazione di nuovi
immobili con dimensioni ridotte, a favore di
interventi che privilegiano l’insediamento
di nuovi nuclei familiari stanziali in
appartamenti di più ampie dimensioni, con la
norma regolamentare, più volte modificata
nel corso degli anni attraverso le varianti
approvate, il Comune ha inteso esercitare il
proprio potere di disciplina dell’uso del
territorio.
Ritiene il Collegio che gli atti assunti in
tale ottica, così come perseguita attraverso
la disposizione contenuta nel regolamento
edilizio, siano illegittimi.
Va infatti condiviso l’assunto di parte
ricorrente che rileva la diversa finalità
attribuita alle disposizioni contenute nei
regolamenti edilizi comunali, le quali, pur
essendo destinate a disciplinare le modalità
costruttive, hanno il precipuo scopo di
assicurare che gli alloggi rispettino i
requisiti minimi di carattere
igienico-sanitario, ovvero rispondano a
determinate caratteristiche
tecnico-costruttive, ovvero ancora
assicurino determinate condizioni di
sicurezza e vivibilità.
Orbene, il limite fissato dal Comune per le
nuove costruzioni, che impone, al netto
delle murature e degli accessori, una
superficie utile di almeno 80 mq, non appare
giustificato da alcuna delle suddette
finalità: lo stesso limite fissato dal D.M.
del 1975 impone infatti una dimensione
minima della superficie da assicurare in
rapporto al numero degli abitanti l’unità
residenziale che è palesemente inferiore a
quella fissata dal Comune (56 mq per quattro
occupanti), pur essendo ritenuta conforme ai
requisiti di carattere igienico-sanitario
degli immobili.
In realtà, come espressamente ammesso dalla
stessa amministrazione, la prescrizione
impugnata rappresenta lo strumento
utilizzato per il contenimento dell’edilizia
a scopo eminentemente turistico, al fine di
favorire degli insediamenti della
popolazione locale.
Una simile impostazione, tuttavia, non solo
non è rispettosa dei contenuti propri e
delle finalità delle disposizioni contenute
nei regolamenti edilizi, ma finisce per
incidere in modo sensibile sul libero
esercizio dello ius aedificandi,
limitando la libera scelta degli operatori
del settore, senza considerare che,
nell’attuale congiuntura economica, la
realizzazione e successiva messa sul mercato
di abitazioni di dimensioni più contenute
(non necessariamente rivolte al solo mercato
delle seconde case) può assicurare maggiori
possibilità di alienazione dei nuovi
immobili.
Non può essere infatti ignorato il dato di
fatto per cui, allo stato attuale, le
dimensioni dei nuclei familiari sono sempre
più contenute, senza contare il fenomeno dei
“single”, e quindi può apparire
anacronistica l’affermazione del Comune
secondo la quale solo garantendo la
realizzazione di nuovi appartamenti di più
ampie dimensioni si favorirebbe
l’insediamento di nuovi nuclei familiari.
“Non si può non rilevare che sono le regole
del libero mercato e la domanda di alloggi
con superficie inferiore a 45 mq a
determinare la scelta dell’imprenditore di
realizzare abitazioni adeguate alle
necessità sociali degli acquirenti, mentre
un’eventuale inadeguatezza degli alloggi
rispetto alle richieste del mercato,
comporta un naturale squilibrio nell’offerta
delle tipologie edilizie” (TAR Brescia, n.
301/2055).
Peraltro, non può essere ignorata la
considerazione dedotta in ricorso secondo la
quale il perseguimento di tali obiettivi può
essere ottenuto attraverso altri strumenti
di politica sociale, quale è l’edilizia
economico popolare o la riserva di
appartamenti a favore dei nuovi nuclei
familiari.
In conclusione, per le considerazioni sin
qui svolte, il ricorso può essere accolto
con conseguente annullamento degli atti
impugnati
(sentenza TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 06.08.2012 n. 1117 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Secondo
una giurisprudenza risalente, nel
caso di irreversibile utilizzazione del
suolo per finalità pubbliche avvenuta, come
pacificamente nella specie, in pendenza
della occupazione legittima (non seguita da
rituale e tempestiva espropriazione) il
dato temporale di riferimento, per la
collocazione dell'effetto appropriativo e
per la conseguente determinazione del valore
del bene ai fini risarcitori della
correlativa perdita da parte del
proprietario, è non già legato al momento
della irreversibile trasformazione
dell'immobile sebbene a quello successivo di
scadenza del termine di occupazione
legittima.
L’altro orientamento, di più recente
emersione, sostiene che la permanenza della
situazione di abusiva occupazione impedisce
di determinare puntualmente il dies a quo di
un’eventuale prescrizione. Tale termine
inizierà a decorrere a seguito dell’adozione
di un formale provvedimento espropriativo o
di specifico accordo traslativo o di
apposita acquisizione sanante. Nel caso di
specie, non essendo intervenuto nessuno di
questi tre atti, il termine di prescrizione
non è iniziato a decorrere.
---------------
La realizzazione dell'opera pubblica sul
fondo illegittimamente occupato è in sé un
mero fatto, non in grado di assurgere a
titolo dell'acquisto, come tale inidoneo a
determinare il trasferimento della
proprietà, per cui solo il formale atto di
acquisizione dell'amministrazione può essere
in grado di limitare il diritto alla
restituzione, non potendo rinvenirsi atti
estintivi (rinunziativi o abdicativi, che
dir si voglia) della proprietà in altri
comportamenti, fatti o contegni.
A tale riguardo la giurisprudenza ha
affermato che il proprietario del fondo
illegittimamente occupato, ottenuta la
declaratoria di illegittimità
dell'occupazione e l'annullamento dei
relativi provvedimenti, può legittimamente
domandare sia il risarcimento, sia la
restituzione, previa riduzione in pristino,
e che solo il formale atto di acquisizione
dell'amministrazione, ora ai sensi dell'art.
42-bis D.P.R. 327/2001, può limitarne il
diritto alla restituzione, non potendo
rinvenirsi atti estintivi della proprietà in
altri comportamenti, fatti o contegni.
Detta disposizione, sul presupposto che la
perdita della proprietà non possa collegarsi
se non ad un atto di natura contrattuale o
autoritativa, attribuisce
all'Amministrazione, qualora si sia
verificata una sostanziale perdita della
disponibilità del bene in capo al privato,
il potere di acquisire la proprietà
dell'area con un atto formale di natura
ablatoria e discrezionale (in sostanziale
sanatoria), al termine del procedimento
legale nel corso del quale vanno
motivatamente valutati gli interessi in
conflitto.
Nel caso in esame, il Comune non ha ritenuto
di acquisire la proprietà dell’area
illegittimamente trasformata mediante
formale atto di acquisizione sanante a mente
del citato art. 42-bis D.P.R. 327/2001.
In conclusione, affinché possa perfezionarsi
il trasferimento della proprietà del fondo
occupato sine titulo, su cui è stata
realizzata un'opera pubblica, e che
costituisce la sola condizione legittimante
la mancata restituzione, è necessario che
l'Amministrazione si avvalga dell'art.
42-bis del T.U.E., fatto sempre salvo il
ricorso alternativo ai possibili strumenti
di natura privatistica, come la stipula di
un contratto di acquisto avente anche
funzione transattiva, ovvero con la
riattivazione del procedimento espropriativo
in sanatoria con le relative garanzie
Sulla decorrenza del termine prescrizionale
del diritto al risarcimento del danno da
occupazione sine titulo, si registrano
sostanzialmente due orientamenti assunti
dalla giurisprudenza amministrativa, la cui
applicazione, nel caso di specie, esclude la
prescrizione dell’azione risarcitoria.
Secondo una giurisprudenza risalente “-nel
caso di irreversibile utilizzazione del
suolo per finalità pubbliche avvenuta, come
pacificamente nella specie, in pendenza
della occupazione legittima (non seguita da
rituale e tempestiva espropriazione)- il
dato temporale di riferimento, per la
collocazione dell'effetto appropriativo e
per la conseguente determinazione del valore
del bene ai fini risarcitori della
correlativa perdita da parte del
proprietario, è non già legato al momento
della irreversibile trasformazione
dell'immobile sebbene a quello successivo di
scadenza del termine di occupazione
legittima” (Cons. stato sez. IV 26.09.2008 n. 4660; Cons. Stato 10.11.2003
n. 7135; Cass. n. 6825/1994).
Nel caso di specie l’irreversibile
trasformazione del fondo deve presumersi
avvenuta in data 24.06.1997, per quanto
emerge dal certificato di ultimazione dei
lavori dell’impresa Spizzirri con cui si
attestava la realizzazione delle opere di
urbanizzazione primaria stradale e
dell’impianto sportivo in via Sicilia e via
Montevideo. Orbene tale ultimazione si
colloca durante il periodo di occupazione
legittima del bene, avvenuta con decreto di
urgenza del 15.04.1996 e avente durata di
cinque anni. Il dies a quo del termine di
prescrizione, dunque, ha inizio con la
scadenza del termine di occupazione
legittima ovvero il 15.04.2001, mentre
l’atto di citazione è stato notificato in
data 26.11.2004, quindi, entro il
termine quinquennale di prescrizione.
L’altro orientamento, di più recente
emersione, sostiene che la permanenza della
situazione di abusiva occupazione impedisce
di determinare puntualmente il dies a quo
di un’eventuale prescrizione. Tale termine
inizierà a decorrere a seguito dell’adozione
di un formale provvedimento espropriativo o
di specifico accordo traslativo o di
apposita acquisizione sanante (C.G.A.
20.11.2008 n. 946; Cons. Stato sez IV n.
258272007). Nel caso di specie, non essendo
intervenuto nessuno di questi tre atti, il
termine di prescrizione non è iniziato a
decorrere.
---------------
Occorre
innanzitutto premettere che la realizzazione
dell'opera pubblica sul fondo
illegittimamente occupato è in sé un mero
fatto, non in grado di assurgere a titolo
dell'acquisto, come tale inidoneo a
determinare il trasferimento della
proprietà, per cui solo il formale atto di
acquisizione dell'amministrazione può essere
in grado di limitare il diritto alla
restituzione, non potendo rinvenirsi atti
estintivi (rinunziativi o abdicativi, che
dir si voglia) della proprietà in altri
comportamenti, fatti o contegni.
A tale
riguardo la giurisprudenza, dalla quale il
Collegio non ha ragione di discostarsi, ha
affermato che il proprietario del fondo
illegittimamente occupato, ottenuta la
declaratoria di illegittimità
dell'occupazione e l'annullamento dei
relativi provvedimenti, può legittimamente
domandare sia il risarcimento, sia la
restituzione, previa riduzione in pristino,
e che solo il formale atto di acquisizione
dell'amministrazione, ora ai sensi dell'art.
42-bis D.P.R. 327/2001, può limitarne il
diritto alla restituzione, non potendo
rinvenirsi atti estintivi della proprietà in
altri comportamenti, fatti o contegni (Cons.
Stato sez. IV 4833/2011).
Detta disposizione, sul presupposto che la
perdita della proprietà non possa collegarsi
se non ad un atto di natura contrattuale o
autoritativa, attribuisce
all'Amministrazione, qualora si sia
verificata una sostanziale perdita della
disponibilità del bene in capo al privato,
il potere di acquisire la proprietà
dell'area con un atto formale di natura
ablatoria e discrezionale (in sostanziale
sanatoria), al termine del procedimento
legale nel corso del quale vanno
motivatamente valutati gli interessi in
conflitto.
Nel caso in esame, il Comune di Cosenza non
ha ritenuto di acquisire la proprietà
dell’area illegittimamente trasformata
mediante formale atto di acquisizione
sanante a mente del citato art. 42-bis
D.P.R. 327/2001.
In conclusione, affinché possa perfezionarsi
il trasferimento della proprietà del fondo
occupato sine titulo, su cui è stata
realizzata un'opera pubblica, e che
costituisce la sola condizione legittimante
la mancata restituzione, è necessario che
l'Amministrazione si avvalga dell'art.
42-bis del T.U.E., fatto sempre salvo il
ricorso alternativo ai possibili strumenti
di natura privatistica, come la stipula di
un contratto di acquisto avente anche
funzione transattiva, ovvero con la
riattivazione del procedimento espropriativo
in sanatoria con le relative garanzie (Cons.
Stato, sez. V 31.10.2011 n. 5813)
(TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 03.08.2012 n. 857 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Consiglio
di Stato. Sentenza sul principio
dell'affidamento. Asili comunali, in corso
d'anno vietati gli aumenti della retta.
Rette annuali invariate per chi fruisce di
asili comunali, anche se diminuiscono le
entrate pubbliche.
Lo sottolinea il Consiglio di Stato, Sez. V,
la con
sentenza 31.07.2012 n. 4362, in
una vicenda relativa al Comune di Bologna,
al tempo amministrato dal Commissario
straordinario, Anna Maria Cancellieri.
Risparmiano quindi i genitori, che ad aprile
2011 avevano visto lievitare le quote
mensili, mentre il Comune dovrà reperire
altrove le risorse mancanti.
L'ammissione a nidi comunali e convenzionati
(servizio pubblico a domanda individuale)
avviene previa formazione di graduatorie
redatte all'inizio dell'anno educativo: nel
bando del Comune felsineo si era appunto
specificata la quota di contribuzione a
carico degli utenti, cioè la tariffa mensile
rapportata all'indicatore della situazione
economica equivalente (cosiddetto Isee).
Sennonché una sopravvenuta riduzione delle
risorse finanziarie disponibili aveva nella
primavera indotto il Comune a innalzare le
tariffe per continuare a erogare le
prestazioni. L'ente locale applicava così
una norma specifica (articolo 53, comma 16,
della legge 388/2000), che ammette la
portata retroattiva ai regolamenti sulle
entrate locali, con effetto dal 1° gennaio
dell'anno di riferimento.
Ciò, tuttavia, secondo i giudici contrasta
con l'affidamento che i genitori bolognesi
avevano riposto circa gli oneri economici
annuali per i figli all'asilo, oneri che per
tutto l'anno educativo devono rimanere
invariati.
Prevale quindi il diritto dei genitori a
confidare nella permanenza delle condizioni
economiche almeno per l'anno in corso, con
conseguente annullamento degli aumenti. Per
giungere a questa conclusione, le tariffe
degli asili sono quindi state assimilate al
corrispettivo di un contratto privatistico,
che appunto non può variare nel corso dello
svolgimento del contratto.
Si tratta di un passo avanti nell'equilibrio
dei rapporti tra utenti e pubblica
amministrazione, in un contesto in cui una
recente circolare (10 agosto n. 9) del
ministro della Pubblica amministrazione,
Filippo Patroni Griffi, apre spazi anche per
la conciliazione stragiudiziale. Prima di
rivolgersi al Tar i genitori, ritenendo di
essere danneggiati in un contesto di tipo
contrattuale, cioè da atti non autoritativi,
avrebbero infatti potuto rivolgersi a un
organismo di mediazione (Dlgs 28/20101),
facendo presente che non bastano calcoli
errati di bilancio o sopravvenute
contrazioni di trasferimenti di risorse
dallo Stato, per rivedere le tariffe di un
servizio pubblico a domanda individuale. E
già in sede di mediazione, probabilmente, il
bilancio delle famiglie avrebbe potuto
prevalere sulle esigenze della finanza del
Comune.
---------------
MASSIMA
Si deve allora convenire che, a prescindere
dalla qualificazione in termini
pubblicistici o privatistici del rapporto
instaurato, la pubblicazione del bando
integri un auto-vincolo con il quale
l'amministrazione, a tutela del legittimo
affidamento ingenerato negli utenti circa la
permanenza per ogni anno scolastico delle
condizioni esposte, si impegna a mantenere
ferme le condizioni pubblicizzate (Consiglio
di Stato, sentenza 4362/2012)
(articolo Il Sole 24
Ore
del 18.08.2012 - link a
www.ecostampa.it). |
URBANISTICA: Il
carattere espropriativo o meno di un vincolo
di piano si desume non già, in maniera
astratta, dalla qualificazione che il P.R.G.
dà della destinazione impressa ai suoli, ma
dalla concreta disciplina urbanistica per
essi stabilita quale ricavabile dalle
prescrizioni delle N.T.A..
Più
specificamente, il
carattere conformativo dei vincoli non dipende dalla
collocazione in una specifica categoria di
strumenti urbanistici, ma soltanto dai
requisiti oggettivi, di natura e struttura,
dei vincoli stessi, ricorrendo in
particolare tale carattere ove siano
inquadrabili nella zonizzazione dell’intero
territorio comunale o di parte di esso, sì
da incidere su di una generalità di beni,
nei confronti di una pluralità
indifferenziata di soggetti, in funzione
della destinazione dell’intera zona in cui i
beni ricadono ed in ragione delle sue
caratteristiche intrinseche o del rapporto,
per lo più spaziale, con un’opera pubblica;
di contro il vincolo, se incide su beni
determinati, in funzione non già di una
generale destinazione di zona, ma della
localizzazione di un’opera pubblica, la cui
realizzazione non può coesistere con la
proprietà privata, deve essere qualificato
come preordinato alla relativa
espropriazione.
---------------
Con riferimento alla destinazione a zona N
(“verde pubblico attrezzato”) stabilita dal
previgente strumento urbanistico, sulla
scorta del consolidato indirizzo della
Sezione può convenirsi con l’avviso di parte
appellante secondo cui questa aveva natura
conformativa e non comportava un vincolo
preordinato all’esproprio, in quanto non
comportava né l’ablazione dei suoli né il
sostanziale svuotamento dei diritti
dominicali di natura privata insistenti su
di essi; infatti, detta disciplina
previgente consentiva significativi e
consistenti interventi edificatori, sia pure
limitati a particolari tipologie di opere
(p.es. impianti sportivi) e previa
predisposizione di piani particolareggiati,
allo scopo di assicurare la coerenza
dell’edificazione privata con la generale
“zonizzazione” intesa al perseguimento di
obiettivi di interesse pubblico: ciò che, in
ragione di quanto più sopra precisato, è
sufficiente per escludere che potesse
trattarsi di vincoli espropriativi.
---------------
Il fatto che le previsioni del Nuovo P.R.G.
comportino l’introduzione di vincoli di
natura espropriativa non modifica le
conclusioni dianzi anticipate in ordine
all’infondatezza delle censure articolate in
primo grado dalla società ricorrente:
infatti, alla luce di quanto si è più sopra
rilevato circa il carattere non
espropriativo della precedente disciplina
urbanistica, è evidente che ci si trova in
presenza non di reiterazione di vincoli
espropriativi, ma al più di previsioni
espropriative ex novo introdotte (o, se si
vuole, di trasformazione in espropriativa di
una precedente destinazione conformativa),
con la conseguente non invocabilità del
principio che impone all’Amministrazione un
onere motivazionale particolarmente intenso,
applicandosi –al contrario– i comuni
principi in ragione dei quali a sostegno
delle scelte pianificatorie del Comune non è
richiesta, salvi i casi di sussistenza di
aspettative giuridiche qualificate in capo
ai privati interessati, una motivazione
specifica ed estesa, e le ragioni delle
scelte adottate possono ricavarsi dai
principi generali che ispirano lo strumento
urbanistico.
---------------
Per identiche ragioni, non può concordarsi
col primo giudice neanche in ordine al
carattere viziante della mancata previsione
di un indennizzo per la previsione del
vincolo espropriativo de quo.
Infatti, è jus receptum che detta omissione,
al di là della possibilità di far valere la
pretesa all’indennizzo dinanzi al giudice
ordinario –e fuori dei casi, come detto non
pertinenti alla fattispecie, di reiterazione
del vincolo-, non si riverbera in termini di
illegittimità sulla previsione del P.R.G.
che impone su un suolo un vincolo di natura
espropriativa.
---------------
Le modifiche che, all’esito di tale piano,
impongono al Comune una nuova pubblicazione
del P.R.G. sono solo quelle che comportano
uno stravolgimento dello strumento adottato
ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi
criteri ispiratori, e non anche le
modifiche, per quanto numerose sul piano
quantitativo e incidenti in modo inteso
sulla destinazione di singole aree o gruppi
di aree, che comunque ne lascino inalterato
l’impianto originario.
In primo luogo, con riguardo
alle porzioni di proprietà della società ricorrente in primo
grado che nel Nuovo P.R.G. sono state destinate a “verde
pubblico” e “servizi pubblici di livello urbano”,
il primo giudice, tenuto conto della pregressa zonizzazione
di dette aree, ha ravvisato nella complessiva operazione
posta in essere dall’Amministrazione una reiterazione di
vincoli espropriativi, ritenendola illegittima siccome non
congruamente motivata e non accompagnata dalla previsione di
indennizzo.
Tuttavia,
anche a voler prescindere dalle osservazioni in fatto svolte
dall’Amministrazione appellante –laddove, sulla scorta di
un’accurata ricostruzione della “storia” urbanistica
dell’area, esclude vi sia stata continuità fra la
destinazione precedente e quella attuale, di modo che non
sarebbe possibile parlare di “reiterazione” di vincoli– la
Sezione non ritiene di dover condividere le conclusioni
raggiunte dal TAR.
Sul
punto, questa Sezione ha già più volte avuto modo di
enunciare il principio per cui il carattere espropriativo o
meno di un vincolo di piano si desume non già, in maniera
astratta, dalla qualificazione che il P.R.G. dà della
destinazione impressa ai suoli, ma dalla concreta disciplina
urbanistica per essi stabilita quale ricavabile dalle
prescrizioni delle N.T.A..
Più
specificamente, si è avuto modo di affermare che il
carattere conformativo dei vincoli non dipende dalla
collocazione in una specifica categoria di strumenti
urbanistici, ma soltanto dai requisiti oggettivi, di natura
e struttura, dei vincoli stessi, ricorrendo in particolare
tale carattere ove siano inquadrabili nella zonizzazione
dell’intero territorio comunale o di parte di esso, sì da
incidere su di una generalità di beni, nei confronti di una
pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della
destinazione dell’intera zona in cui i beni ricadono ed in
ragione delle sue caratteristiche intrinseche o del
rapporto, per lo più spaziale, con un’opera pubblica; di
contro il vincolo, se incide su beni determinati, in
funzione non già di una generale destinazione di zona, ma
della localizzazione di un’opera pubblica, la cui
realizzazione non può coesistere con la proprietà privata,
deve essere qualificato come preordinato alla relativa
espropriazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 23.07.2009, nr. 4662; id., 23.09.2008, nr. 4606).
Ciò
premesso, con riferimento alla destinazione a zona N (“verde
pubblico attrezzato”) stabilita dal previgente strumento
urbanistico, sulla scorta del consolidato indirizzo della
Sezione può convenirsi con l’avviso di parte appellante
secondo cui questa aveva natura conformativa e non
comportava un vincolo preordinato all’esproprio, in quanto
non comportava né l’ablazione dei suoli né il sostanziale
svuotamento dei diritti dominicali di natura privata
insistenti su di essi; infatti, detta disciplina previgente
consentiva significativi e consistenti interventi
edificatori, sia pure limitati a particolari tipologie di
opere (p.es. impianti sportivi) e previa predisposizione di
piani particolareggiati, allo scopo di assicurare la
coerenza dell’edificazione privata con la generale
“zonizzazione” intesa al perseguimento di obiettivi di
interesse pubblico: ciò che, in ragione di quanto più sopra
precisato, è sufficiente per escludere che potesse trattarsi
di vincoli espropriativi (cfr. Cons. Stato, sez. V, 13.04.2012, nr. 2116; Cons. Stato, sez. IV, 19.01.2012, nr. 244; id., 13.07.2011, nr. 4242; id.,
03.12.2010, nr. 8531; id., 12.05.2010, nr. 2843; id.,
12.05.2010, nr. 2159).
Se tale
è la conclusione per quanto concerne la destinazione
pregressa, qualche dubbio può sorgere invece in ordine alla
disciplina urbanistica impressa ai medesimi suoli dal Nuovo
P.R.G., laddove è dato cogliere nelle prescrizioni di piano
una tendenza ad ampliare e consolidare gli obiettivi
pubblicistici cui le aree de quibus risultano
asservite, con correlativo intensificarsi delle previsioni
vincolistiche e dell’incidenza della mano pubblica a scapito
della proprietà privata.
Ciò è dato
evincere soprattutto dalla disciplina generale dei “servizi
pubblici” contenuta nell’art. 83 delle N.T.A., il quale,
con disposizioni applicabili tanto alle aree destinate a “servizi
pubblici di livello urbano” (art. 84) quanto a quelle
destinate a “verde pubblico” (art. 85), prevede fra
l’altro:
- che “...Le
aree su cui tali servizi non siano già stati realizzati e
che non siano già di proprietà di Enti pubblici, o comunque
istituzionalmente preposti alla realizzazione e/o gestione
dei servizi di cui al comma 1, sono preordinate alla
acquisizione pubblica da parte del Comune o di altri
soggetti qualificabili quali beneficiari o promotori
dell’esproprio, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. c) e
d), del DPR n. 327/2001” (comma 2);
- che “...Gli
immobili privati esistenti, non adibiti a servizi pubblici,
ma a funzioni assimilabili alle destinazioni d’uso di cui
agli articoli 84 e 85, possono rimanere di proprietà
privata, purché ne sia garantito l’uso pubblico tramite
convenzione con il Comune o con altri Enti pubblici
competenti” (comma 4);
- che “...Le
aree di cui al comma 2 sono acquisite tramite espropriazione
per pubblica utilità, ai sensi del DPR n. 327/2001, ovvero,
nei casi e con le modalità espressamente previste dall’art.
22, mediante cessione compensativa” (comma 5).
Tuttavia, il
fatto che le previsioni del Nuovo P.R.G. capitolino
comportino l’introduzione di vincoli di natura espropriativa
non modifica le conclusioni dianzi anticipate in ordine
all’infondatezza delle censure articolate in primo grado
dalla società ricorrente: infatti, alla luce di quanto si è
più sopra rilevato circa il carattere non espropriativo
della precedente disciplina urbanistica, è evidente che ci
si trova in presenza non di reiterazione di vincoli
espropriativi, ma al più di previsioni espropriative ex
novo introdotte (o, se si vuole, di trasformazione in
espropriativa di una precedente destinazione conformativa),
con la conseguente non invocabilità del principio che impone
all’Amministrazione un onere motivazionale particolarmente
intenso, applicandosi –al contrario– i comuni principi in
ragione dei quali a sostegno delle scelte pianificatorie del
Comune non è richiesta, salvi i casi di sussistenza di
aspettative giuridiche qualificate in capo ai privati
interessati, una motivazione specifica ed estesa, e le
ragioni delle scelte adottate possono ricavarsi dai principi
generali che ispirano lo strumento urbanistico (cfr. ex
plurimis Cons. Stato, sez. IV, 04.04.2011, n. 2104;
id., 09.12.2010, nr. 8682; id., 04.05.2010, nr.
2545; id., 29.12.2009, nr. 9006).
---------------
Per identiche ragioni, non può concordarsi col primo giudice
neanche in ordine al carattere viziante della mancata
previsione di un indennizzo per la previsione del vincolo
espropriativo de quo.
Infatti, è
jus receptum che detta omissione, al di là della
possibilità di far valere la pretesa all’indennizzo dinanzi
al giudice ordinario –e fuori dei casi, come detto non
pertinenti alla fattispecie, di reiterazione del vincolo-,
non si riverbera in termini di illegittimità sulla
previsione del P.R.G. che impone su un suolo un vincolo di
natura espropriativa (cfr. Cons. Stato, Ad. Pl., 24.05.2007, nr. 7; Cons. Stato, sez. IV,
06.05.2010, nr. 2627;
id., 21.04.2010, nr. 2262).
---------------
Al
riguardo, va richiamato anche il consolidato indirizzo
giurisprudenziale secondo cui le modifiche che, all’esito di
tale piano, impongono al Comune una nuova pubblicazione del
P.R.G. sono solo quelle che comportano uno stravolgimento
dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei
suoi stessi criteri ispiratori, e non anche le modifiche,
per quanto numerose sul piano quantitativo e incidenti in
modo inteso sulla destinazione di singole aree o gruppi di
aree, che comunque ne lascino inalterato l’impianto
originario (cfr. Cons. Stato, sez. III, 24.03.2009, nr.
617; Cons. Stato, sez. IV, 26.04.2006, nr. 2297; id., 05.09.2003, nr. 4980; id.,
04.03.2003, nr. 1197; id.,
20.11.2000, nr. 6178; id., 20.02.1998, nr. 301;
id., 11.06.1996, nr. 777) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.07.2012 n. 4321 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In caso di presentazione di
D.I.A.,
l'inutile decorso del termine, di cui
all'art. 23, t.u. 06.06.2001 n. 380, dei
30 giorni assegnati all'autorità comunale
per l'adozione del provvedimento di
inibizione ad effettuare il previsto
intervento edificatorio, non comporta che
l'attività del privato, ancorché del tutto
difforme dal paradigma normativo, possa
considerarsi lecitamente effettuata e,
quindi possa andare esente dalle sanzioni
previste dall'ordinamento per il caso di sua
mancata rispondenza alle norme di legge e di
regolamento, alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici ed alle modalità
esecutive fissate nei titoli abilitativi.
Il titolo abilitativo formatosi per effetto
dell'inerzia dell'amministrazione può
infatti comunque formare oggetto, alle
condizioni previste in via generale
dall'ordinamento, di interventi di
annullamento d'ufficio o revoca.
L'amministrazione non perde infatti i propri
poteri di vigilanza e sanzionatori per cui,
a fronte della presentazione della d.i.a., i
controinteressati sono legittimati a
gravarsi non avverso il silenzio stesso ma,
nelle forme dell'ordinario giudizio di
impugnazione, avverso il titolo che si è
consolidato per effetto del decorso del
termine procedimentale.
In caso di presentazione di
dichiarazione di inizio di attività,
l'inutile decorso del termine, di cui
all'art. 23, t.u. 06.06.2001 n. 380, dei
30 giorni assegnati all'autorità
comunale per l'adozione del provvedimento di
inibizione ad effettuare il previsto
intervento edificatorio, non comporta che
l'attività del privato, ancorché del tutto
difforme dal paradigma normativo, possa
considerarsi lecitamente effettuata e,
quindi possa andare esente dalle sanzioni
previste dall'ordinamento per il caso di sua
mancata rispondenza alle norme di legge e di
regolamento, alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici ed alle modalità
esecutive fissate nei titoli abilitativi. Il
titolo abilitativo formatosi per effetto
dell'inerzia dell'amministrazione può
infatti comunque formare oggetto, alle
condizioni previste in via generale
dall'ordinamento, di interventi di
annullamento d'ufficio o revoca (cfr.
Consiglio Stato, Sez. IV 25.11.2008 n.
5811).
L'amministrazione non perde infatti i propri
poteri di vigilanza e sanzionatori per cui,
a fronte della presentazione della d.i.a., i
controinteressati sono legittimati a
gravarsi non avverso il silenzio stesso ma,
nelle forme dell'ordinario giudizio di
impugnazione, avverso il titolo che si è
consolidato per effetto del decorso del
termine procedimentale (cfr. Cons. Stato,
sez. IV 08.03.2011 n. 1423)
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.07.2012 n. 4318 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
caratteri della rimovibilità della struttura
e dell’assenza di opere murarie non rilevano
per nulla, quando l’installazione attua una
consistente trasformazione del tessuto
edilizio, in conseguenza della sua
conformazione e della sua destinazione
all’attività imprenditoriale.
---------------
Sul piano funzionale poi, la destinazione a
spazio destinato a soddisfare una migliore
sistemazione della clientela, non costituiva
un fine contingente ma una finalità
permanente -sia pure per una parte
dell'anno- che, come visto, comunque
necessita di concessione edilizia, a nulla
rilevando l'eventuale precarietà strutturale
del manufatto.
---------------
Il carattere “pertinenziale” all'intervento
in contestazione non muta il suo regime
giuridico (d.i.a. in luogo di quello
concessorio), in quanto la nozione di
“pertinenza urbanistica“ ha peculiarità
proprie che la distinguono da quella
civilistica, dal momento che il manufatto
-preordinato ad un'oggettiva esigenza
dell'edificio principale e funzionalmente
inserito al suo servizio- deve soprattutto
avere un volume modesto, rispetto
all'edificio principale in modo da escludere
ogni ulteriore “carico urbanistico”.
Come
ricordato l’art. 3, lett. e.5), del d.P.R. n.
380/2001, con l’evidente finalità di frenare
il fenomeno dei c.d. “abusi progressivi”,
riconduce alla nozione di “intervento di
nuova costruzione" anche le istallazioni di
strutture non murarie, con la diretta
conseguenza che, in tali ipotesi, sia
sempre necessario il “permesso di
costruire”.
E ciò a maggior ragione nel caso di una
struttura in legno, che:
- di fatto costituivano un unico manufatto;
- occupava infatti la superficie della
terrazza superiore dell'Hotel (peraltro
abusivamente realizzato, con istanze di
condono edilizio ai sensi della L. 47/1985
ancora pendenti);
- era stata ottenuta mediante la
congiunzione di n. 4 “gazebo” (dei quali due
di 138 mq ciascuno e due da complessivi mq.
102,2: mq. 59,9 e 46,28 mq) per una
superficie complessiva coperta di ben
mq. 378,84;
- aveva una copertura del tetto in tela di
plastica; con uno sviluppo massimo in
altezza delle coperture al colmo di ben mq.
3,45;
- era chiusa su tutti i lati esterni
attraverso paratie sovrastate da una
grigliatura;
- aveva due porte e due finestre (così
l’accertamento dei VV.UU. del 22.01.2006).
Le dimensioni e la finalità della struttura
realizzata implicavano che l’intervento non
potesse essere qualificato come semplice
“gazebo”, in quanto assumeva la consistenza
di un vero e proprio piano in elevazione
che, come tale, avrebbe dovuto in ogni caso
essere oggetto di concessione edilizia e di
autorizzazione paesaggistica.
Il “gazebo” costituiva infatti una rilevante
alterazione della sagoma esterna, e finiva
per avere un impatto visivo che provocava un
indubbio vulnus agli eccezionali valori
paesaggistici oggetto di salvaguardia. Di
qui, se non la compiacenza, per lo meno
l’erroneità della qualificazione come
“gazebo”, assunta dall’amministrazione
intimata come presupposto del suo
illegittimo rifiuto ad intervenire.
I caratteri della rimovibilità della
struttura e dell’assenza di opere murarie
non rilevano per nulla, quando
l’installazione attua una consistente
trasformazione del tessuto edilizio, in
conseguenza della sua conformazione e della
sua destinazione all’attività
imprenditoriale (cfr. proprio a proposito di
gazebo: Sez. V 13.06.2006 n. 3490, Cons.
Sez. IV 06.06.2008 n. 2705).
Sul piano funzionale poi, la destinazione a
spazio destinato a soddisfare una migliore
sistemazione della clientela, non costituiva
un fine contingente ma una finalità
permanente -sia pure per una parte
dell'anno- che, come visto, comunque
necessita di concessione edilizia, a nulla
rilevando l'eventuale precarietà strutturale
del manufatto (Cfr. in tal senso: Consiglio
Stato, Sez. V 01.12.2003 n. 7822; Cons.
St., sez. V, 20.04.2000 n. 2436, idem n.
419 del 27.01.2003; idem n. 696
dell'11.02.2003).
Per le predette ragioni, il carattere
“pertinenziale” all'intervento in
contestazione non muta il suo regime
giuridico (d.i.a. in luogo di quello
concessorio), in quanto la nozione di
“pertinenza urbanistica“ ha peculiarità
proprie che la distinguono da quella
civilistica, dal momento che il manufatto -preordinato ad un'oggettiva esigenza
dell'edificio principale e funzionalmente
inserito al suo servizio- deve soprattutto
avere un volume modesto, rispetto
all'edificio principale in modo da escludere
ogni ulteriore “carico urbanistico” (cfr.
Consiglio Stato; Sez. V n. 2325 del
18.04.2001; idem Sez. VI n. 1174
dell'08.03.2000).
In definitiva, se in relazione al ricordato
art. 3, lett. e.5), del d.P.R. n. 380/2001,
la struttura avrebbe comunque richiesto la
concessione edilizia e non poteva essere
ontologicamente qualificata come intervento
di “manutenzione straordinaria”, in quanto
costituiva una alterazione “dell’aspetto
esteriore dell’edificio” non consentita
dalla lett. a) dell’art. 149 del d.lgs.
n. 42/2004 e s.m.i .
L’amministrazione avrebbe quindi dovuto
qualificare correttamente la struttura come
intervento in zona vincolata soggetto a
concessione edilizia e, comunque, attivare
l’apposito sub-procedimento per
l’autorizzazione paesistica di cui
all’art. 146 del d.lgs. 22.01.2004 n. 42
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.07.2012 n. 4318 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ferma l’osservazione iniziale
sull’impossibilità di fondare sulle norme
finalizzate al risparmio energetico un
metodo di esenzione dall’onere di rispettare
in generale i parametri edilizi, non può
certo convenirsi che la norma regionale
(lombarda, n. 21/1996) facoltizzi ex se un aumento di altezza in
gronda, fino a cm. 25 per ogni solaio.
È invece corretto affermare che la detta
disciplina comporti che i tamponamenti
orizzontali che determinino spessori
complessivi superiori a centimetri 30,
non siano considerati nei computi per la
determinazione dei volumi, per la sola parte
eccedente i centimetri 30 e fino ad un
massimo di ulteriori centimetri 25,
e ciò qualora il maggior spessore
contribuisca al miglioramento dei livelli di
coibentazione. Tale criterio è poi
applicabile, con gli stessi scopi e limiti
quantitativi, anche alle costruzioni già
esistenti, come prevede il comma 3 dell’art.
2 della legge regionale n. 21 del 1996, ma
unicamente “in relazione ai soli spessori da
aggiungere a quelli esistenti”.
Pertanto, nel caso in specie, dove si è
assistito ad una sopraelevazione ai fini del
recupero del sottotetto, con realizzazione
ex novo della copertura, il detto criterio,
ossia quello dell’aggiunta all’esistente,
non è applicabile, stante la natura non
conservativa della copertura.
In rapporto al tema della
disciplina degli spessori realizzati ai fini
della coibentazione termica, l’appellante
censura la mancata considerazione della
differenza disciplinare tra interventi sul
pregresso e quelli sull’esistente, atteso
che, in relazione a questi ultimi, la
normativa regionale si riferisce ai soli
spessori da aggiungere.
La doglianza non è fondata.
Premessa la condivisibile ricostruzione in
merito sull’entità dimensionale del
realizzato (come si precisa nella già citata
nota del 29.12.2008 “il prospetto NORD
della sezione CC risulta essere più alto di
44 cm rispetto al progetto approvato e
quindi con un rialzo, della copertura
esistente di 84 cm anziché dei 40 cm
consentiti dalle N.A. di zona; tale
difformità è evidenziata dal confronto delle
documentazioni fotografiche allegate alle
relazioni di sopralluogo della Polizia
Locale in data 16.04.2008 e in data
26.01.2004, descritte nella relazione
istruttoria”, mentre “il prospetto SUD della
sezione AA risulta essere più alto di 29 cm
rispetto al progetto approvato e quindi con
un rialzo della copertura esistente di 69 cm
anziché dei 40 cm, consentiti dalle N.A. di
zona; anche tale difformità è evidenziata
dal confronto della foto n. 12 datata
dicembre 2004 con le foto della tav. 3
datata aprile 2008, descritte nella
relazione istruttoria”), deve convenirsi con
il TAR in merito alla non compatibilità
di tali realizzazioni con la evocata
disciplina regionale.
Ferma l’osservazione iniziale
sull’impossibilità di fondare sulle norme
finalizzate al risparmio energetico un
metodo di esenzione dall’onere di rispettare
in generale i parametri edilizi, non può
certo convenirsi che la norma regionale
facoltizzi ex se un aumento di altezza in
gronda, fino a cm. 25 per ogni solaio.
È invece corretto affermare che la detta
disciplina comporti che i tamponamenti
orizzontali che determinino spessori
complessivi superiori a centimetri 30,
non siano considerati nei computi per la
determinazione dei volumi, per la sola parte
eccedente i centimetri 30 e fino ad un
massimo di ulteriori centimetri 25,
e ciò qualora il maggior spessore
contribuisca al miglioramento dei livelli di
coibentazione. Tale criterio è poi
applicabile, con gli stessi scopi e limiti
quantitativi, anche alle costruzioni già
esistenti, come prevede il comma 3 dell’art.
2 della legge regionale n. 21 del 1996, ma
unicamente “in relazione ai soli spessori da
aggiungere a quelli esistenti”.
Pertanto, nel caso in specie, dove si è
assistito ad una sopraelevazione ai fini del
recupero del sottotetto, con realizzazione
ex novo della copertura, il detto criterio,
ossia quello dell’aggiunta all’esistente,
non è applicabile, stante la natura non
conservativa della copertura.
Il criterio applicato dal TAR va quindi
condiviso, con consequenziale rigetto della
censura
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.07.2012 n. 4304 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
34, comma secondo, del d.P.R. 380 del 2001
(sotto tale profilo doppiato dalla legge
regionale n. 61 del 1985) prevede che,
qualora gli interventi e le opere realizzati
in parziale difformità dal permesso di
costruire non possano venire demoliti “senza
pregiudizio della parte eseguita in
conformità”, allora l’ente competente
“applica una sanzione pari al doppio del
costo di produzione, stabilito in base alla
legge 27.07.1978, n. 392, della parte
dell’opera realizzata in difformità dal
permesso di costruire, se ad uso
residenziale, e pari al doppio del valore
venale, determinato a cura della agenzia del
territorio, per le opere adibite ad usi
diversi da quello residenziale”.
L’elemento su cui si applica la sanzione ed
a cui fa riferimento il legislatore non è
quindi limitata al solo segmento spaziale
modificato, atteso che la norma non si
riferisce alla modificazione
planovolumetrica, ma si riferisce ai diversi
concetti di opere o interenti, con palese
riferimento alle tipologie edilizie previste
nello stesso testo unico all’art. 3.
Pertanto, è corretto riferire la nozione di
parte dell’opera realizzata in difformità
dal permesso ad un ambito diverso, ossia
all’intero manufatto, separatamente
individuabile all’interno dell’intervento,
dove gli abusi insistono, e che da questi
ultimi è inciso e modificato, e non al solo
incremento dimensionale determinatosi.
Pertanto, nel caso in specie, la
disposizione normativa è stata correttamente
riferita al secondo piano dell’edificio ed i
garages, e non solo una frazione percentuale
di essi, atteso che gli stessi, in
conseguenza degli abusi sopra evidenziati a
cui si legano in maniera diretta ed
ineliminabile, hanno acquistato una nuova
rilevanza, valutabile in senso urbanistico e
commerciale.
Maggiore attenzione va posta sull’altro
profilo di doglianza, in merito cioè
all’individuazione dimensionale della parte
realizzata in difformità, ossia all’elemento
da porre alla base del calcolo della
sanzione, la cui diversa ponderazione può
condurre a quantificazioni diverse
dell’entità della sanzione.
A parere dell’appellante, la maggiore
altezza del fabbricato non ha inciso sulla
volumetria assentita e, per quanto riguarda
i garages, questi rimangono del tutto
interrati, non avendo quindi una valenza
urbanistica autonoma.
Le affermazioni dell’appellante non sono
condivisibili.
In merito ai garages, si è sopra evidenziato
come gli stessi fossero in contrasto con la
disciplina urbanistica, e ciò elide in
radice la tesi qui sostenuta.
In merito alla sopraelevazione, ritiene la
Sezione, muovendosi in assenza di una
consolidata giurisprudenza in merito, che
sia corretta l’affermazione del TAR, il
quale ha condiviso il criterio di calcolo
seguito dall’amministrazione, dove si è
fatto riferimento non soltanto alle parti
ritenute abusive, ma alla superficie
complessiva delle parti dell’edificio dove
gli abusi erano stati realizzati, giacché
senza la sopraelevazione e senza la
realizzazione della sporgenza fuori terra
dei garages, tali manufatti avrebbero avuto
una disciplina urbanistica diversa.
Si tratta di un’applicazione della
disciplina contenuta nel testo unico
dell’edilizia che appare connotata da
criteri di razionalità e, soprattutto,
appare aderente alla ratio sanzionatoria
espressa dalla normativa primaria e
regionale. Infatti, l’art. 34, comma
secondo, del d.P.R. 380 del 2001 (sotto tale
profilo doppiato dalla legge regionale n. 61
del 1985) prevede che, qualora gli
interventi e le opere realizzati in parziale
difformità dal permesso di costruire non
possano venire demoliti “senza pregiudizio
della parte eseguita in conformità”, allora
l’ente competente “applica una sanzione pari
al doppio del costo di produzione, stabilito
in base alla legge 27.07.1978, n. 392,
della parte dell’opera realizzata in
difformità dal permesso di costruire, se ad
uso residenziale, e pari al doppio del
valore venale, determinato a cura della
agenzia del territorio, per le opere adibite
ad usi diversi da quello residenziale”.
L’elemento su cui si applica la sanzione ed
a cui fa riferimento il legislatore non è
quindi limitata al solo segmento spaziale
modificato, atteso che la norma non si
riferisce alla modificazione
planovolumetrica, ma si riferisce ai diversi
concetti di opere o interenti, con palese
riferimento alle tipologie edilizie previste
nello stesso testo unico all’art. 3.
Pertanto, è corretto riferire la nozione di
parte dell’opera realizzata in difformità
dal permesso ad un ambito diverso, ossia
all’intero manufatto, separatamente
individuabile all’interno dell’intervento,
dove gli abusi insistono, e che da questi
ultimi è inciso e modificato, e non al solo
incremento dimensionale determinatosi.
Pertanto, nel caso in specie, la
disposizione normativa è stata correttamente
riferita al secondo piano dell’edificio ed i
garages, e non solo una frazione percentuale
di essi, atteso che gli stessi, in
conseguenza degli abusi sopra evidenziati a
cui si legano in maniera diretta ed
ineliminabile, hanno acquistato una nuova
rilevanza, valutabile in senso urbanistico e
commerciale
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.07.2012 n. 4304 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Si
è detto pertanto, in passato, che:
- l'art. 43, comma 5, l. 28.02.1985 n. 47,
nella parte in cui prevede che possono
ottenere la sanatoria le opere non ultimate
per effetto di provvedimenti amministrativi
o giurisdizionali, ma limitatamente alle
strutture realizzate e ai lavori necessari
alla loro funzionalità, è applicabile solo
ai lavori necessari per assicurare la
funzionalità di quanto già costruito e non
consente, pertanto, di integrare le opere
con interventi edilizi che diano luogo a
nuove strutture;
- l'art. 43, comma 5, l. 28.02.1985 n. 47,
nella parte in cui prevede che possono
ottenere la sanatoria le opere non ultimate
per effetto di provvedimenti amministrativi
o giurisdizionali, ma limitatamente alle
strutture realizzate e ai lavori
strettamente necessari alla loro
funzionalità, è applicabile solo ai lavori
necessari per assicurare la funzionalità di
quanto già costruito e non consente,
pertanto, di integrare le opere con
interventi edilizi che diano luogo a nuove
strutture.
Deve certamente condiscendersi con detta
tesi, evidenziandosi che quanto all'evocato
art. 43 della legge 28.02.1985, n. 47 questa
Sezione ha già precisato che, poiché oggetto
della norma sono i lavori attinenti alle
"strutture realizzate" e che "siano
strettamente necessari alla loro
funzionalità", ciò implica che la norma può
essere applicata ai soli lavori necessari
per assicurare la funzionalità di quanto già
costruito e non consente, invece, di
integrare le opere con interventi edilizi
che diano luogo di per sé a nuove strutture.
Si attaglia perfettamente al caso di specie
quanto condivisibilmente rilevato dalla
interpretazione giurisprudenziale della
norma laddove questa ha chiarito che la
sanatoria di edifici non ultimati per
effetto di provvedimenti di sospensione
postula la mancanza dei lavori strettamente
necessari alla funzionalità di quanto già
costruito e non consente l'integrazione
delle opere con interventi edilizi che diano
luogo a nuove strutture e che, di
conseguenza , la realizzazione della sola
struttura portante in travi e pilastri non
risulta sufficiente, mancando il
completamento delle strutture edilizie
necessarie a definire la volumetria
edilizia.
È stato, poi, affermato in passato che la
richiamata disposizione normativa può essere
applicata agli edifici che, anche se non
ultimati, abbiano acquistato una fisionomia
che ne renda riconoscibile il disegno
progettuale e la destinazione e debba essere
solo completato ai fini della sua
funzionalità; pertanto, la sanatoria
anzidetta non può essere concessa nel caso
in cui i lavori di costruzione si siano
arrestati alla prima fase e non siano
riconoscibili oggettivamente né la funzione
né la configurazione generale del costruendo
edificio.
Rileva in proposito il Collegio che il
requisito della "non ultimazione" previsto
dall'art. 43 deve essere logicamente letto
in relazione a quello ordinario della
"ultimazione" previsto dall'art. 31 della
legge n. 47/1985 ("si intendono ultimati gli
edifici nei quali sia stato eseguito il
rustico e completata la copertura ovvero,
quanto alle opere interne e a quelle non
destinate alla residenza, quando esse siano
completate funzionalmente"), con la
conseguenza che possono certamente
conseguire la sanatoria edilizia anche
manufatti la cui realizzazione si sia
arrestata ad uno stadio anteriore a quello
di configurabilità dei predetti requisiti.
Tuttavia, avendo la disposizione di cui
all'art. 43 carattere eccezionale rispetto
alla regola generale sancita dall'articolo
31, essa è di stretta interpretazione ed
applicabile in termini restrittivi (vertendosi,
tra l'altro, in materia di beneficio di
condono di lavori abusivi), richiedendosi
necessariamente che il manufatto, pur non
ultimato, sia suscettibile di una sicura
identificazione edilizia, sia da un punto di
vista strutturale che della destinazione.
Si
rammenta in proposito che l’articolo 31
della legge n. 47/1985 (richiamato
dall’articolo 39 della legge 23.12.1994, n.
724 laddove si prescrive che “le
disposizioni di cui ai capi IV e V della
legge 28-02-1985, n. 47, e successive
modificazioni e integrazioni, … si applicano
alle opere abusive che risultino ultimate
entro il 31.12.1993”) chiarisce, al
secondo comma, che “si intendono ultimati
gli edifici nei quali sia stato eseguito il
rustico e completata la copertura …”.
Ed è pacifico che alla data del 31-12-1993
il fabbricato dell’odierno appellante non
possedeva le dette caratteristiche, in
quanto presentava la sola struttura in
cemento armato ed era privo del tetto di
copertura: ciò appare incontrovertibile,
risultando dalla documentazione prodotta dal
sig. D’Alessandro a corredo delle pratiche
di condono edilizio e di completamento ed,
in particolare, dalla relazione tecnica
nella quale era stato precisato che “il
fabbricato allo stato attuale consiste nella
sola struttura portante in c.a.” (si veda
sul punto la allegata documentazione
fotografica).
E’ ben vero che il comma quinto
dell’articolo 43 della legge n. 47/1985,
stabilisce che “possono ottenere la
sanatoria le opere non ultimate per effetto
di provvedimenti amministrativi o
giurisdizionali limitatamente alle strutture
realizzate e ai lavori che siano
strettamente necessari alla loro
funzionalità”.
E’ però certamente condivisibile, del pari,
che nel caso di specie la detta disposizione
non appare invocabile con successo.
Ciò perché, la pacifica giurisprudenza
amministrativa, muovendo dal legame tra
l’avverbio “strettamente” ed il concetto di
“funzionalità” ivi contenuto ha sempre e
costantemente interpretato la detta norma in
senso diametralmente opposto a quanto
dall’appellante sostenuto.
Si è detto pertanto, in passato, che:
- “l'art.
43, comma 5, l. 28.02.1985 n. 47, nella
parte in cui prevede che possono ottenere la
sanatoria le opere non ultimate per effetto
di provvedimenti amministrativi o
giurisdizionali, ma limitatamente alle
strutture realizzate e ai lavori necessari
alla loro funzionalità, è applicabile solo
ai lavori necessari per assicurare la
funzionalità di quanto già costruito e non
consente, pertanto, di integrare le opere
con interventi edilizi che diano luogo a
nuove strutture.” (TAR Puglia Bari, sez. II,
15.04.2010, n. 1392);
-
”l'art. 43, comma 5, l. 28.02.1985 n.
47, nella parte in cui prevede che possono
ottenere la sanatoria le opere non ultimate
per effetto di provvedimenti amministrativi
o giurisdizionali, ma limitatamente alle
strutture realizzate e ai lavori
strettamente necessari alla loro
funzionalità, è applicabile solo ai lavori
necessari per assicurare la funzionalità di
quanto già costruito e non consente,
pertanto, di integrare le opere con
interventi edilizi che diano luogo a nuove
strutture.”
(Consiglio Stato, sez. IV, 18.06.2009,
n. 4011).
Deve certamente condiscendersi con detta
tesi, evidenziandosi che quanto all'evocato
art. 43 della legge 28.02.1985, n. 47
questa Sezione ha già precisato (da ultimo,
Consiglio di Stato, sez. VI, 27.06.2008
n. 3282) che, poiché oggetto della norma
sono i lavori attinenti alle "strutture
realizzate" e che "siano strettamente
necessari alla loro funzionalità", ciò
implica che la norma può essere applicata ai
soli lavori necessari per assicurare la
funzionalità di quanto già costruito e non
consente, invece, di integrare le opere con
interventi edilizi che diano luogo di per sé
a nuove strutture (vedi ancora Consiglio di
Stato, sez. IV, 30.06.2005, n. 3542;
sez. V, 20.12.2001, n. 6327 e 11.08.1998, n. 1240).
Si attaglia perfettamente al caso di specie
quanto condivisibilmente rilevato dalla
interpretazione giurisprudenziale della
norma (cfr. Cons. Stato, IV, 30-06-2005, n.
3542; V, 20-12-2001, n. 6327) laddove questa
ha chiarito che la sanatoria di edifici non
ultimati per effetto di provvedimenti di
sospensione postula la mancanza dei lavori
strettamente necessari alla funzionalità di
quanto già costruito e non consente
l'integrazione delle opere con interventi
edilizi che diano luogo a nuove strutture e
che, di conseguenza , la realizzazione della
sola struttura portante in travi e pilastri
non risulta sufficiente, mancando il
completamento delle strutture edilizie
necessarie a definire la volumetria
edilizia.
È stato, poi, affermato in passato (cfr.
Cons. Stato, II, 14-03-1990, n. 669) che la
richiamata disposizione normativa può essere
applicata agli edifici che, anche se non
ultimati, abbiano acquistato una fisionomia
che ne renda riconoscibile il disegno
progettuale e la destinazione e debba essere
solo completato ai fini della sua
funzionalità; pertanto, la sanatoria
anzidetta non può essere concessa nel caso
in cui i lavori di costruzione si siano
arrestati alla prima fase e non siano
riconoscibili oggettivamente né la funzione
né la configurazione generale del costruendo
edificio.
Rileva in proposito il Collegio che il
requisito della "non ultimazione" previsto
dall'art. 43 deve essere logicamente letto
in relazione a quello ordinario della
"ultimazione" previsto dall'art. 31 della
legge n. 47/1985 ("si intendono ultimati gli
edifici nei quali sia stato eseguito il
rustico e completata la copertura ovvero,
quanto alle opere interne e a quelle non
destinate alla residenza, quando esse siano
completate funzionalmente"), con la
conseguenza che possono certamente
conseguire la sanatoria edilizia anche
manufatti la cui realizzazione si sia
arrestata ad uno stadio anteriore a quello
di configurabilità dei predetti requisiti.
Tuttavia, avendo la disposizione di cui
all'art. 43 carattere eccezionale rispetto
alla regola generale sancita dall'articolo
31, essa è di stretta interpretazione ed
applicabile in termini restrittivi (vertendosi,
tra l'altro, in materia di beneficio di
condono di lavori abusivi), richiedendosi
necessariamente che il manufatto, pur non
ultimato, sia suscettibile di una sicura
identificazione edilizia, sia da un punto
di vista strutturale che della destinazione
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.07.2012 n. 4287 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
La disciplina relativa alla
valutazione di impatto ambientale non può
essere elusa a mezzo di un riferimento a
realizzazioni o interventi parziali,
caratteristici nelle opere da realizzarsi
per "tronchi" o "lotti", …La valutazione
ambientale necessita, infatti, di una
valutazione unitaria dell'opera, non essendo
possibile che, con un meccanismo di stampo
elusivo, l'opera venga artificiosamente
frazionata in porzioni eseguite in assenza
della valutazione perché, isolatamente
prese, non configurano interventi sottoposti
al regime protettivo.
La giurisprudenza della Corte Giustizia UE
(Corte Giustizia CE, Sez. II, 10.12.2009) e
del Giudice amministrativo italiano (Cons.
Stato, sez. VI, 30.08.2002, n. 4368; sez. IV,
02.10.2006, n. 5760; sez. V, 16.06.2009, n.
3849; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 16.04.2010,
n. 926; TAR Puglia, Bari, sez. II,
23.06.2010 n. 2602) è, infatti, concorde
nello stigmatizzare il cd. scorporo in lotti
di opere aventi carattere unitario, al fine
di eludere la normativa in tema di
valutazione di impatto ambientale: <<la
disciplina relativa alla valutazione di
impatto ambientale non può essere elusa a
mezzo di un riferimento a realizzazioni o
interventi parziali, caratteristici nelle
opere da realizzarsi per "tronchi" o
"lotti", …La valutazione ambientale
necessita, infatti, di una valutazione
unitaria dell'opera, non essendo possibile
che, con un meccanismo di stampo elusivo,
l'opera venga artificiosamente frazionata in
porzioni eseguite in assenza della
valutazione perché, isolatamente prese, non
configurano interventi sottoposti al regime
protettivo>> (Cons. Stato, sez. V,
16.06.2009, n. 3849) (TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 30.07.2012 n. 1388 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ordine
di demolizione, al pari di tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia
edilizia, è atto vincolato, e quindi non
richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una
comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti; il presupposto
per l'adozione dell'ordinanza di demolizione
è costituito soltanto dalla constatata
esecuzione dell'opera in difformità dal
titolo abilitativo od in carenza dello
stesso, con la conseguenza che, ove
ricorrano tali requisiti, il provvedimento è
sufficientemente motivato, essendo in re
ipsa l'interesse pubblico alla sua
rimozione.
Questo Collegio è, altresì, a conoscenza
dell’ulteriore orientamento
giurisprudenziale diretto a sancire la
necessità di una “congrua”, e più
articolata, motivazione in considerazione
del notevole lasso di tempo trascorso tra la
sanzione e l’abuso e, ciò, nelle ipotesi in
cui l’inerzia dell’Amministrazione abbia
ingenerato un affidamento del privato.
Detto ultimo orientamento, al fine di essere
concretamente applicabile, va
necessariamente correlato a due presupposti,
precisamente riconducibili all’avvenuto
accertamento del fatto che gli abusi siano
stati eseguiti in un periodo molto risalente
e, ancora, alla constatazione circa
l’effettiva inerzia dell’Amministrazione
(inerzia che presuppone una conoscenza
dell’abuso) che, in quanto tale, sia stata
l’effettiva causa dell’affidamento
ingenerato nei confronti del privato.
Con i due motivi, tutti e due comuni ad
entrambi i ricorsi, i ricorrenti sostengono
la violazione dell’art. 3 della L. n.
241/1990, in quanto entrambe le ordinanze
impugnate risulterebbero carenti dal punto
di vista dell’onere motivazione commisurato
al prevalente interesse pubblico in ordine
alla demolizione e, ciò, in presenza di un
presunto affidamento del ricorrente
riconducibile al fatto che le opere abusive
sarebbero state realizzate in un periodo
molto risalente nel tempo.
Il motivo deve ritenersi infondato in quanto
in contrasto con l’orientamento prevalente
in materia che sancisce che …”l'ordine di
demolizione, al pari di tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia
edilizia, è atto vincolato, e quindi non
richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una
comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti; il presupposto
per l'adozione dell'ordinanza di demolizione
è costituito soltanto dalla constatata
esecuzione dell'opera in difformità dal
titolo abilitativo od in carenza dello
stesso, con la conseguenza che, ove
ricorrano tali requisiti, il provvedimento è
sufficientemente motivato, essendo in re
ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione”
(da ultimo TAR Napoli Campania sez. III del
04.05.2012).
Se detto orientamento sopra ricordato
costituisce, oramai, un principio generale
questo Collegio è, altresì, a conoscenza
dell’ulteriore orientamento
giurisprudenziale diretto a sancire la
necessità di una “congrua”, e più
articolata, motivazione in considerazione
del notevole lasso di tempo trascorso tra la
sanzione e l’abuso e, ciò, nelle ipotesi in
cui l’inerzia dell’Amministrazione abbia
ingenerato un affidamento del privato (Cons.
Stato Sez. V, 29.05.2006, n. 3270).
A parere di questo Collegio detto ultimo
orientamento, al fine di essere
concretamente applicabile, va
necessariamente correlato a due presupposti,
precisamente riconducibili all’avvenuto
accertamento del fatto che gli abusi siano
stati eseguiti in un periodo molto risalente
e, ancora, alla constatazione circa
l’effettiva inerzia dell’Amministrazione
(inerzia che presuppone una conoscenza
dell’abuso) che, in quanto tale, sia stata
l’effettiva causa dell’affidamento
ingenerato nei confronti del privato.
Per quanto riguarda la data effettiva di
realizzazione degli abusi di cui si tratta,
deve evidenziarsi come parte ricorrente non
abbia fornito una prova inequivocabile, in
quanto riferita ad elementi documentali
incontrovertibili, che permetta di datare
con certezza i manufatti in questione.
Va inoltre rilevato che l’applicazione dello
stesso orientamento Giurisprudenziale sopra
citato, in merito alla necessità di una “congrua
motivazione” e in deroga ai principi che
ritengono la motivazione “in re ipsa”
, deve essere comunque considerare anche “l’entità”
dell’abuso realizzato.
Nella fattispecie sottoposta a questo
Collegio è del tutto evidente come siamo in
presenza (e con riferimento ad entrambi i
ricorsi) di interventi considerevoli
(consistenti nella realizzazione di diversi
manufatti) che hanno certamente avuto
l’effetto di modificare sostanzialmente e
radicalmente sia gli edifici che l’intera
azienda su cui essi incidono, fino ad
incidere (per quanto attiene la
realizzazione del fienile) su aree già “conformate”
in quanto incidenti su una fascia di
rispetto stradale e, quindi, in aree
deputata alla sicurezza del traffico (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 27.07.2012 n. 1044 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
Commissione (nei casi in cui la gara non si
esaurisca in una sola seduta) deve
predisporre particolari cautele a tutela
dell’integrità e della conservazione delle
buste contenenti le offerte, di cui deve
necessariamente farsi menzione nel verbale
di gara, e che tale tutela deve essere
assicurata in astratto ed a prescindere
dalle prescritte modalità di presentazione
delle offerte tecniche e dalla mancata
dimostrazione dell’effettiva manomissione
dei plichi contenenti le stesse.
Appare, invece, sicuramente condivisibile,
tra le censure prospettate in via
subordinata dalla Società ricorrente, quella
incentrata sulla violazione dei principi
generali in tema di segretezza e genuinità
delle offerte, perché la procedura aperta in
questione si è svolta in più sedute
successive (per una durata di quasi due anni
e, dunque, ben oltre il termine di 360
giorni prefissato dal punto IV.3.7 del
bando) senza che sia stata fatta adeguata
menzione nei verbali (e in particolare nel
verbale n° 3 del 16.07.2010 del seggio di
gara e nel verbale n° 1 dell'01.09.2010
della Commissione giudicatrice tecnica)
dell’adozione di misure cautelari idonee a
tutelare l’integrità e la conservazione
delle buste contenenti le offerte tecniche:
ossia senza indicare se i plichi (anche
nello spazio temporale intercorso dal
16.07.2010 al 18.03.2011) siano stati
risigillati o comunque richiusi in modo
adeguato (ad esempio: in una cassaforte, in
un armadio o in un locale archivio chiusi a
chiave), così da evitare qualsiasi ipotesi
di manomissione, condividendosi
l’orientamento giurisprudenziale prevalente
secondo cui la Commissione (nei casi in cui
la gara non si esaurisca in una sola seduta)
deve predisporre particolari cautele a
tutela dell’integrità e della conservazione
delle buste contenenti le offerte, di cui
deve necessariamente farsi menzione nel
verbale di gara, e che tale tutela deve
essere assicurata in astratto ed a
prescindere dalle prescritte modalità di
presentazione delle offerte tecniche e dalla
mancata dimostrazione dell’effettiva
manomissione dei plichi contenenti le stesse
(Cfr: TAR Puglia Lecce, II Sezione,
31.10.2011 n. 1876; Consiglio di Stato, V
Sezione, 21.05.2010 n. 3203; 12.12.2009 n.
7804)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 18.07.2012 n. 1320 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI - INCARICHI
PROGETTUALI - SICUREZZA LAVORO: Consip,
la gara è la regola.
Le gare Consip sono illegittime se prevedono
che l'aggiudicatario possa a sua volta
scegliere senza gara professionisti ai quali
affidare servizi di ingegneria, proponendoli
direttamente alle amministrazioni aderenti
alla convenzione Consip; occorre invece
affidare una gara ad hoc.
È questo il
contenuto principale della interessante
sentenza
16.07.2012 n. 4163 della
VI Sez. del Consiglio di stato.
La sentenza,
almeno con riguardo all'impostazione di
alcune gare seguite da Consip negli ultimi
anni, pone dei paletti invalicabili quando
le attività date in appalto contengano anche
servizi di ingegneria e architettura, sia
pure in misura complessivamente marginale.
Nel caso specifico gli atti di gara
prevedevano che l'aggiudicatario stipulasse
una convenzione con la Consip, aperta
all'adesione delle amministrazioni
interessate, attraverso la quale egli si
impegnasse a indicare all'amministrazione
aderente alla convenzione il curriculum e
quindi il nominativo del professionista da
incaricare per lo svolgimento del
coordinamento della sicurezza in fase di
progettazione e in fase di esecuzione.
In
prima istanza il Tar aveva giudicato
legittimo l'operato della Consip sul rilievo
che le attività di coordinamento della
sicurezza non sarebbero riservate a
ingegneri e architetti e che gli affidamenti
non sarebbero stati soggetti
all'applicazione dell'articolo 91 del Codice
dei contratti pubblici. Il Consiglio di
stato ribalta il giudizio di primo grado
innanzitutto per quel che riguarda la non
esclusività delle prestazioni in capo a
ingegneri e architetti.
Per quel che riguarda invece le modalità di
affidamento di tali prestazioni i giudici
affermano che se ad assumere le vesti del
committente-datore di lavoro è un soggetto
pubblico, le regole per la individuazione
delle figure professionali incaricate del
coordinamento della sicurezza non potrebbero
essere diverse da quelle prescritte dal
codice dei contratti in relazione alle
medesime figure.
Si tratta quindi di attività riservate da
affidare secondo le regole del Codice dei
contratti pubblici: oltre 100.000 euro con
gara e al di sotto con la procedura a inviti
(a cinque) prevista dall'art. 57, comma 6.
La convenzione è dunque illegittima perché
aggira l'evidenza pubblica
(articolo ItaliaOggi
del 17.08.2012 - link a
www.corteconti.it).
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Coordinatori sicurezza: Sentenza del
Consiglio di Stato sulle modalità di
affidamento.
Con la
sentenza
16.07.2012 n. 4163, il Consiglio
di Stato, sezione VI, si è definitivamente
espresso in merito alle modalità delle
nomine del coordinatore della sicurezza in
fase di progettazione ed in fase di
esecuzione nei cantieri temporanei e mobili.
La vicenda nasce da un ricorso del Consiglio
nazionale degli Ingegneri contro la Consip
s.p.a. per la riforma della sentenza n.
7124/2011 del Tar del Lazio–Roma sezione III
concernente la fornitura servizi e gestione
integrata della salute e della sicurezza sui
luoghi di lavoro.
Con bando pubblicato sulla Gazzetta
ufficiale delle comunità europee del
23.10.2009 Consip spa aveva indetto una gara
a procedura aperta, strutturata in sei lotti
corrispondenti a distinte aree geografiche
del Paese, per la fornitura del servizio di
gestione integrata della sicurezza sui
luoghi di lavoro negli immobili in uso a
qualsiasi titolo alle pubbliche
amministrazioni.
Tra i tanti servizi oggetto di gara era
anche ricompreso il servizio denominato “Misure
di sicurezza nei cantieri”, avente ad
oggetto la fornitura, alle amministrazione
richiedenti, delle risorse e degli strumenti
necessari a garantire la tutela della salute
e della sicurezza nei cantieri temporanei e
mobili che rientrano nel campo di
applicazione del d.lgs. n. 81 del 2008, in
forza del quale l'aggiudicatario avrebbe tra
l'altro fornito all'amministrazione i
nominativi del coordinatore della sicurezza
in fase di progettazione e del coordinatore
della sicurezza in fase esecutiva.
Con ricorso al Tar del Lazio il Consiglio
Nazionale degli Ingegneri aveva impugnato
gli esiti della predetta gara nella parte in
cui a mezzo di tale selezione è stato
sostanzialmente affidato all'aggiudicatario
dei singoli lotti d'appalto anche il compito
di indicare alle amministrazioni aderenti
alla convenzione i nominativi dei soggetti
responsabili dei servizi relativi al
coordinamento della sicurezza in fase di
progettazione ed in fase di esecuzione.
Con sentenza n. 7124 del 05.09.2011 il Tar
aveva respinto il ricorso.
Ora il Consiglio di stato da ragione al
Consiglio nazionale degli Ingegneri
precisando che le conclusioni cui pervengono
i giudici del Tar in ordine alla legittimità
degli affidamenti degli incarichi di
coordinatore della sicurezza in fase di
progettazione e di coordinatore della
sicurezza in fase esecutiva non appaiono
condivisibili.
I Giudici di Palazzo Spada ricordano che
alla luce delle previsioni contenute negli
articoli 90 e 91 del Codice dei contratti,
l'affidamento degli incarichi di
progettazione preliminare, definitiva ed
esecutiva nonché gli incarichi di supporto
tecnico-amministrativo, può essere compiuto
in favore di una pluralità di soggetti ma
quel che più rileva è che, indipendentemente
dalla natura giuridica del soggetto
affidatario dell'incarico, lo stesso deve
essere espletato da professionisti iscritti
negli appositi albi previsti dai vigenti
ordinamenti professionali, personalmente
responsabili e nominativamente indicati già
in sede di presentazione dell'offerta, con
la specificazione delle rispettive
qualificazioni professionali. Deve inoltre
essere indicata, sempre nell'offerta, la
persona fisica incaricata dell'integrazione
tra le varie prestazioni specialistiche.
Quanto alle modalità di affidamento,
l'articolo 91 è tassativo nel prescrivere
che gli incarichi di progettazione, di
coordinamento della sicurezza in fase di
progettazione, di direzione dei lavori, di
coordinamento della sicurezza in fase di
esecuzione e di collaudo , ovvero, per i
soggetti operanti nei settori di cui alla
parte III, delle disposizioni ivi previste.
Nella sentenza viene, anche, precisato che
tali affidamenti, nei quali rientrano anche
quelli afferenti i servizi di coordinatore
della sicurezza in fase di progettazione ed
in fase di esecuzione, postulano
l'esperimento di una procedura ad evidenza
pubblica per l’individuazione del contraente
e che, anche per le gare di importo
inferiore alla soglia di centomila euro,
devono comunque osservarsi i principi di non
discriminazione, parità di trattamento,
proporzionalità e trasparenza, secondo la
procedura prevista dall'articolo 57, comma
6, del Codice dei contratti. Per altro,
nell'articolo 91, comma 8, del codice dei
contratti viene definito il divieto di
affidamento di attività di progettazione
coordinamento della sicurezza in fase di
progettazione, direzione dei lavori,
coordinamento della sicurezza in fase di
esecuzione, collaudo, indagine e attività di
supporto a mezzo di contratti a tempo
determinato o altre procedure diverse da
quelle previste dal codice.
Peraltro ai giudici del Consiglio di Stato,
stante l'obbligo normativo dell'evidenza
pubblica in tal genere di affidamenti, non
appare pertinente, per evidente
incompatibilità applicativa, il richiamo
alla disciplina del subappalto ed ai suoi
limiti applicativi (commento tratto da
www.lavoripubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni ambientali. Normativa di
riferimento.
In caso di realizzazione, senza la
prescritta autorizzazione, di due baracche
in zona soggetta a vincolo paesaggistico per
valutare la conformità non deve farsi
ricorso al Codice dei beni culturali e del
paesaggio, bensì alla legge regionale che
rafforza la difesa dell’ambiente con
indicazioni più dettagliate (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.07.2012 n.
28135 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Rifiuti plastici e
spedizioni in Cina.
1. Anche i teloni e i film di protezione dei
prodotti agricoli non costituiscono "imballaggio"
bensì oggetti a composizione plastica
destinati a supportare le attività agricole
produttive; con la conseguenza che tali
oggetti, indipendentemente dalla operatività
del decreto 02/05/2006 del Ministero
dell'Ambiente e del Territorio, una volta
cessato il loro ciclo di impiego, vanno
considerati rifiuti destinati possibilmente
al recupero.
2. Il mancato conferimento al consorzio
Polieco da parte del ricorrente non può allo
stato essere considerato condotta
antigiuridica e valutabile come “abusiva"
nei termini integrativi della fattispecie
incriminatrice ex art. 260 d.lgs. 152/2006.
3. I trasporti di rifiuti plastici non
pericolosi destinati ad impianti di recupero
operanti all'interno della Repubblica
popolare Cinese debbono rispettare le
formalità e le garanzie prescritte, con
conseguente illiceità anche per
l'ordinamento italiano delle relative
violazioni (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza
11.07.2012 n. 27413 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Raccolta e di trasporto
dei rifiuti in forma ambulante.
Secondo l'art. 266 del d.lgs. n. 152 del
2006, le disposizioni di cui agli articoli
189, 190, 193 e 212 del citato decreto non
si applicano alle attività di raccolta e
trasporto di rifiuti, effettuate dai
soggetti abilitati allo svolgimento delle
attività medesime in forma ambulante,
limitatamente ai rifiuti che formano oggetto
del loro commercio.
La materia del commercio ambulante è
regolata dall'art. 28 del D.Lgs. 31.03.1998
n. 114, che impone agli ambulanti di munirsi
di una specifica autorizzazione comunale,
sulla base della normativa di attuazione,
che ogni regione deve emanare entro un anno
dalla data di pubblicazione dello stesso
decreto.
Di conseguenza, l’attività di raccolta e di
trasporto dei rifiuti in forma ambulante può
essere legittimamente esercitata solo previo
conseguimento di detto titolo abilitativo, e
limitatamente ai rifiuti compresi
nell'attività autorizzata; in caso
contrario, in assenza di siffatta
abilitazione, è configurabile il reato di
cui all'art. 256 del D.lgs. n. 152 del 2006
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.07.2012 n.
27290 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Omessa denuncia delle opere in
conglomerato cementizio armato.
La contravvenzione di omessa denuncia delle
opere in conglomerato cementizio armato
(artt. 65 e 72, 95 d.P.R. 380 del 2001)
costituisce un reato omissivo proprio del
costruttore.
Tuttavia, la natura di reato proprio non
esclude la possibilità che un soggetto
diverso da quello individuato dall'art. 65
del D.P.R. n. 380 del 2001 possa concorrere
alla realizzazione del fatto, sia pure in
qualità di extraneus apportando un
contributo consapevole, sia pure solo morale
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.07.2012 n.
27260 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Tassa solo chi
differenzia.
Rifiuti speciali non sempre assimilabili
agli urbani. Paletti
dalla Cassazione. Ma il decreto Ronchi dà
pieni poteri ai comuni.
I comuni non possono assimilare i rifiuti
degli imballaggi, secondari e terziari, a
quelli urbani nel caso in cui non abbiano
attivato la raccolta differenziata. I
rifiuti da imballaggi vanno trattati come
quelli speciali. Quindi, non e' previsto
l'esonero dal pagamento della Tarsu, ma una
riduzione della superficie proporzionale
alla quantità di rifiuti avviata al
recupero.
È quanto affermato dalla Corte di
Cassazione, con l'ordinanza
09.07.2012 n. 11500.
In realtà, l'articolo 21, comma 2, lettera
g) del decreto legislativo 22/1997 (decreto
Ronchi) attribuisce ai comuni il potere di
assimilazione dei rifiuti speciali non
pericolosi ai rifiuti urbani.
Anche il semplice rinvio contenuto nel
regolamento comunale ai criteri generali
previsti nella deliberazione 27.07.1984
del comitato interministeriale consente
all'amministrazione comunale di applicare la
tassa. Dunque, la dichiarazione di
assimilabilità dei rifiuti speciali (tossici
o nocivi) a quelli urbani adottata dal
comune costituisce il presupposto per
poterli tassare.
Del resto proprio la Corte
di cassazione, con le sentenze 6389/1994 e
12752/2002, ha stabilito che deve essere
assoggettata alla Tarsu la superficie sulla
quale venga svolta un'attività commerciale
produttiva di rifiuti che, benché in
astratto qualificabili come speciali e
quindi esclusi dal presupposto di
imposizione, siano poi stati equiparati a
quelli solidi urbani da una delibera
comunale.
Con la sentenza n. 27057/2007 ha poi
precisato che a decorrere dall'entrata in
vigore della legge n. 128/1998 e in base al dlgs n. 22/1997 nessuno dei rifiuti speciali
è assimilato per legge a quelli urbani.
Anche quando si tratti di rifiuti di origine
industriale, artigianale, commerciale o
connessi a servizi possono essere assimilati
agli urbani dai comuni, ad eccezione dei
rifiuti pericolosi.
Nello specifico, i
giudici di legittimità hanno ritenuta
legittima l'assimilazione degli imballaggi
ai rifiuti urbani contenuta in un
regolamento comunale, senza porre ulteriori
condizioni. Dunque, la delibera di
assimilazione dovrebbe costituire titolo per
la riscossione della tassa, a prescindere
dal fatto che il contribuente ne affidi a
terzi lo smaltimento.
La tassa non può essere applicata solo sulle
superfici o sulle aree nelle quali, per
specifiche caratteristiche strutturali o per
destinazione, si producono rifiuti speciali.
Per quanto concerne il regime fiscale da
applicare a questi rifiuti, l'articolo 62
del decreto legislativo 507/1993 prevede che
l'esclusione dell'obbligo di conferirli al
servizio pubblico si ha soltanto nei casi in
cui sia fornita dimostrazione dell'avvio al
recupero, con attestazione di ricevuta da
parte dell'impresa incaricata del
trattamento.
Qualora il produttore abbia fornito la prova
di aver avviato effettivamente al recupero i
rifiuti, per la relativa superficie non è
prevista la detassazione ma una riduzione
della misura della tassa che il comune ha
facoltà di stabilire con un'apposita norma
regolamentare, rapportata proporzionalmente
all'entità del recupero rispetto alla
produzione complessiva dei rifiuti.
Però, anche nelle ipotesi di recupero totale
dei rifiuti non si ottiene l'esonero totale
dall'assoggettamento al prelievo tributario,
in quanto lo stesso è finalizzato a coprire
i costi comuni e collettivi del servizio
(articolo ItaliaOggi
del 17.08.2012 - link a
www.ecostampa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: PUBBLICITÀ/
La Cassazione sugli impianti abusivi.
Verbali a tappeto. Paga pure il proprietario
del fondo.
Nelle installazioni pubblicitarie abusive
posizionate vicino alle autostrade la multa
può interessare anche il mero proprietario
del fondo ma solo se lo stesso non ottempera
alla diffida di demolizione del manufatto
fuori legge. In prima battuta quindi il
verbale per impianto irregolare deve essere
contestato solo all'autore materiale
dell'infrazione.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI civ., con l'ordinanza
05.07.2012 n. 11280.
Il proprietario di una porzione di terreno
affiancato a una autostrada si è visto
recapitare dalla polizia stradale un verbale
per installazione pubblicitaria abusiva ai
sensi dell'art. 23 del codice stradale.
Contro questa misura punitiva l'interessato
ha proposto con successo censure fino al
Palazzaccio.
A parere del collegio, nonostante le recenti
modifiche introdotte dalla legge 120/2010
nel corpo del codice stradale «il
proprietario del suolo, in quanto tale, è
estraneo alla fattispecie prevista e
disciplinata dall'art. 23, comma 7, Codice
della strada; questa, infatti, sanzionando
la condotta di colui che colloca cartelli e
mezzi pubblicitari senza autorizzazione, fa
riferimento, chiaramente ed esclusivamente
alla condotta di chi si rende specificamente
responsabile di una siffatta attività».
In buona sostanza a parere del collegio non
può trovare applicazione diretta nella
diffusa ipotesi sanzionatoria in esame il
principio di solidarietà sancito dalla legge
689/1981 in quanto questo principio resta
necessariamente circoscritto e limitato alle
ipotesi espressamente previste che fanno
riferimento letteralmente «al
proprietario della cosa che servì o fu
destinata a commettere la violazione».
La disciplina stradale del resto si
interessa anche del proprietario del suolo,
nel successivo comma 13-bis dell'art. 23,
così come modificato dalla legge 120/2010. A
parere del collegio solo se il proprietario
del terreno non ottempera alla specifica,
successiva diffida di rimozione incorrerà in
una autonoma sanzione.
Questa volta a prevedere la multa
salatissima di 4455 euro però è lo stesso
comma 13-bis dell'art. 23 del codice. Oltre
alla sanzione per installazione abusiva di
impianto pubblicitario scatteranno quindi
ulteriori verbali per i destinatari della
diffida di ripristino. Ma per l'infrazione
originaria non ci possono essere immediate
estensioni, conclude la sentenza
(articolo ItaliaOggi
del 17.08.2012). |
URBANISTICA:
Lottizzazione e buona fede.
Nella lottizzazione abusiva, la necessità
evidente di un piano di lottizzazione per
procedere all’edificazione di un complesso
urbanistico di rilevanti dimensioni, nonché
il prezzo di acquisto delle singole unità
immobiliari, se inferiore a quello di
mercato, costituiscono dati sintomatici
circa il difetto di buona fede degli
acquirenti degli immobili abusivi (Corte di
Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 28.06.2012 n.
25541 - tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Scala esterna in muratura e distanze tra costruzioni.
La scala, anche se priva
di copertura, costituisce corpo aggettante
rilevante ai fini della disciplina delle
distanza, essendo idoneo a ridurre le
intercapedini tra un edificio e l’altro e
quindi a pregiudicare l’esigenza di
salubrità che costituisce finalità
essenziale della previsione di distanze
minime.
Infine, con riferimento alla lamentata
violazione della distanza dal confine
prevista dall’art. 10 N.T.A. (m. 5), essendo
prevista una rampa di scale a distanza
inferiore, osserva il Collegio che la scala,
anche se priva di copertura, costituisce
corpo aggettante rilevante ai fini della
disciplina delle distanza, essendo idoneo a
ridurre le intercapedini tra un edificio e
l’altro e quindi a pregiudicare l’esigenza
di salubrità che costituisce finalità
essenziale della previsione di distanze
minime.
In tal senso si è espressa con orientamento
costante la giurisprudenza della Cassazione
in materia di distanze, evidenziando che “Nel
calcolo della distanza minima fra
costruzioni, posta dall'art. 873 c.c. o da
norme regolamentari integrative, deve
tenersi conto anche delle strutture
accessorie di un fabbricato (nella specie,
scala esterna in muratura), qualora queste,
presentando connotati di consistenza e
stabilità, abbiano natura di opera edilizia”
(Cass. 1966/2007, 17390/2004, 4372/2002,
tutte con riferimento a scale esterne)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 21.06.2012 n. 1219 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Cartelloni autostradali in zona
sismica: necessaria autorizzazione per
realizzarli.
La normativa antisismica
deve essere applicata a tutte le costruzioni
la cui sicurezza possa interessare la
pubblica incolumità, a nulla rilevando la
natura dei materiali usati e delle strutture
realizzate, in quanto l’esigenza di maggior
rigore nelle zone dichiarate sismiche rende
ancora più necessari i controlli e le
cautele prescritte, quando si impiegano
elementi strutturali meno solidi e duraturi
del cemento armato.
E’ questa la sintesi del principio ripreso
dalla Corte di Cassazione, Sez. III penale,
con la
sentenza 18.06.2012 n. 24086, applicato
rigorosamente anche per i cartelloni
autostradali.
Al riguardo, infatti, gli Ermellini non
possono fare a meno di richiamare il dato di
comune conoscenza che i cartelloni recanti
indicazioni sulla viabilità apposti ai
margini di un tratto autostradale non
possono essere per la funzione svolta di
modeste dimensioni e, anche se riferiti ad
interventi in apparenza minori, possono in
concreto rilevare sul piano della
pericolosità.
Nella valutazione sul punto –si legge nella
sentenza- non possono non concorrere,
infatti, con l'elemento dimensionale anche
altri aspetti quali, ad esempio, le modalità
di collocazione del manufatto, la morfologia
del sito, la pendenza del terreno, le
modalità di realizzazione delle strutture di
sostegno, in quanto suscettibili di
accrescere il grado di pericolo per
l'incolumità pubblica.
Allo stesso modo da tale valutazione non
sarà possibile prescindere anche per quelle
zone in il grado di sismicità non sia
particolarmente elevato.
Nel caso di specie, il Tribunale aveva
condannato il direttore del tronco
autostradale, in qualità di committente, e
la ditta, esecutrice dei lavori, alla pena
dell’ammenda per il reato di cui all’art. 95
del T.U.E. per aver realizzato opere di
installazione di pannelli a messaggi
variabili in zona sismica senza la
prescritta autorizzazione dell’ufficio
competente. Il ricorrente aveva contestato
la possibilità di applicare l’articolo 95
del T.U.E. al caso concreto in quanto il
concetto di costruzione cui fa riferimento
la disposizione predetta si riferisce alle
sole opere edili in senso stretto e non
anche, quindi, alla realizzazione di
semplici pannelli contenenti messaggi
autostradali dalla cui istallazione, non può
peraltro, oggettivamente derivare una
concreta fonte di rischio per l'incolumità.
Come si è visto, la Cassazione respinge
fortemente questa interpretazione del
ricorrente, ribadendo l’applicabilità della
norma ai cartelloni autostradali. Peraltro,
sostengono i giudici di Piazza Cavour, la
nozione di costruzione è stata ampiamente
elaborata dalla giurisprudenza della Corte
stessa e da quella amministrativa con
riferimento alle tematiche connesse al
rilascio della concessione ed è stato
rilevato che debbano essere ricompresi nella
nozione di costruzione tutte le opere che
alterino in modo stabile lo stato dei
luoghi, ancorché riconducibili a manufatti
privi di volume interno utilizzabile e che,
in particolare, anche la sistemazione di una
insegna o tabella pubblicitaria richiede il
rilascio del preventivo permesso di
costruire quando per le sue rilevanti
dimensioni comporti un mutamento
territoriale.
Da qui la già dichiarata conseguenza
dell’applicabilità della disposizione di cui
all’art. 95 del T.U.E. ai cartelloni
autostradali con il rigetto di tale motivo
di ricorso da parte del Supremo giudice di
legittimità (link a www.altalex.com). |
EDILIZIA PRIVATA: Titoli abilitativi e
promissario acquirente.
Ai fini della legittimazione attiva al
rilascio di titoli abilitativi nella materia
edilizia è necessaria, sulla base degli
artt. 11 e 23 del D.P.R. 380/2011, la
titolarità del diritto di proprietà, ovvero
di altro diritto reale od anche obbligatorio
a condizione, in tale ultima ipotesi, del
riconoscimento della disponibilità giuridica
e materiale del bene nonché della relativa
potestà edificatoria.
Quanto al promissario
acquirente si richiede, anche in ipotesi di
preliminare ad effetti anticipati, la
specifica autorizzazione del proprietario
promissario venditore all’esercizio dello
ius aedificandi.
La posizione di promissario conduttore, in
assenza di specifico consenso del
proprietario, non è titolo di legittimazione
idoneo al rilascio di titoli abilitativi,
anche se a regime semplificato, mancando la
disponibilità giuridica dell’area su cui
realizzare l’intervento. E ciò è tanto più
vero nella fattispecie, laddove il
proprietario promissario locatore si è
espressamente riservata la disponibilità ed
il godimento del bene fino alla stipula del
contratto definitivo.
Ai fini della
legittimazione attiva al rilascio di titoli
abilitativi nella materia edilizia, la
giurisprudenza ritiene necessaria, sulla
base degli artt. 11 e 23 del D.P.R.
380/2011, la titolarità del diritto di
proprietà, ovvero di altro diritto reale od
anche obbligatorio a condizione, in tale
ultima ipotesi, del riconoscimento della
disponibilità giuridica e materiale del bene
nonché della relativa potestà edificatoria
(Consiglio di Stato sez. V 28.05.2001 n.
2881; id. sez. IV 25.11.2008, n. 5811; TAR
Emilia Romagna Bologna 21.02.2007, n. 53;
TAR Lombardia Milano sez II 31.03.2010, n.
842).
Quanto al promissario acquirente, la tesi
che ne riconosce la legittimazione non è
affatto pacifica in giurisprudenza,
richiedendosi, anche in ipotesi di
preliminare ad effetti anticipati, la
specifica autorizzazione del proprietario
promissario venditore all’esercizio dello
ius aedificandi (Consiglio Stato, sez.
IV, 18.01.2010, n. 144; Cassazione civile
sez III 15.03.2007, n. 6005; TAR
Lazio-Latina 26.07.2005, n. 636). Tale
opzione esegetica risulta ancor più corretta
qualificando la relazione del promissario
acquirente con l’immobile, anche in caso di
preliminare ad effetti anticipati, quale “detenzione
qualificata” e non già come possesso,
secondo la più recente ricostruzione
pretoria (ex multis Cassazione Sez.
Unite 27.03.2008, n. 7930. id. sez. I
01.03.2010, n. 4863).
Ciò premesso, la posizione di promissario
conduttore, in assenza di specifico consenso
del proprietario, non è titolo di
legittimazione idoneo al rilascio di titoli
abilitativi, anche se a regime semplificato,
mancando la disponibilità giuridica
dell’area su cui realizzare l’intervento. E
ciò è tanto più vero nella fattispecie,
laddove il proprietario promissario locatore
si è espressamente riservata la
disponibilità ed il godimento del bene fino
alla stipula del contratto definitivo (punto
9.2 del contratto sottoscritto il
02.12.2008)
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 18.06.2012 n. 1195 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Presupposti indefettibili perché una d.i.a.
possa essere produttiva di effetti sono la
completezza e la veridicità delle
dichiarazioni contenute
nell'autocertificazione. Infatti, il decorso
del termine di 30 giorni non può avere
alcun effetto di legittimazione
dell'intervento, rispetto ad una
dichiarazione inesatta o incompleta, con la
conseguenza che l'Amministrazione ha la
facoltà ed il potere di inibire l'attività o
di sospendere i lavori.
Così opinando, tale potere non è
equiparabile ad un potere di autotutela,
poiché non vi è alcun provvedimento su cui
intervenire, ma ad un “potere di verifica
della non formazione della d.i.a.”, con
conseguente ordine di interruzione dei
lavori, così come d’altronde normativamente
previsto per l’ipotesi di mendacio (vedi
comma 3, art. 19, L. 241/1990); per tale
motivo, l'esercizio di tale potere non è
sottoposto al termine perentorio di 30
giorni, che presuppone invece che la d.i.a.
sia completa nei suoi elementi essenziali.
Con riferimento sia alle d.i.a. di cui alla
normativa di settore (con particolare
riferimento all’edilizia) sia al modello
generale di cui all’art. 19 legge 241/1990,
la giurisprudenza ritiene che presupposti
indefettibili perché una d.i.a. possa essere
produttiva di effetti siano la completezza e
la veridicità delle dichiarazioni contenute
nell'autocertificazione (ex multis
TAR Lombardia Milano II 09.12.2008 n. 5737;
TAR Emilia-Romagna Bologna sez. II
17.07.2006 n. 142; Consiglio di Stato sez.
IV 24.05.2010, n. 3263; TAR Lazio-Roma sez.
I 02.12.2010, n. 35023). Infatti, il decorso
del termine di trenta giorni non può avere
alcun effetto di legittimazione
dell'intervento, rispetto ad una
dichiarazione inesatta o incompleta, con la
conseguenza che l'Amministrazione ha la
facoltà ed il potere di inibire l'attività o
di sospendere i lavori.
Così opinando, tale potere non è
equiparabile ad un potere di autotutela,
poiché non vi è alcun provvedimento su cui
intervenire, ma ad un “potere di verifica
della non formazione della d.i.a.”, con
conseguente ordine di interruzione dei
lavori, così come d’altronde normativamente
previsto per l’ipotesi di mendacio (vedi
comma 3, art. 19, L. 241/1990); per tale
motivo, l'esercizio di tale potere non è
sottoposto al termine perentorio di trenta
giorni, che presuppone invece che la d.i.a.
sia completa nei suoi elementi essenziali (ex
multis TAR Lombardia Milano II
09.12.2008, n. 5737)
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 18.06.2012 n. 1195 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Vincoli preordinati
all'esproprio.
L’approvazione del progetto di un'opera
pubblica, quando comporti la dichiarazione
della p.u., indifferibilità ed urgenza della
stessa, è atto che deve essere notificato al
privato, proprietario del terreno, in quanto
impositivo di vincolo specifico preordinato
all’espropriazione e produttivo di effetti
giuridici lesivi immediati e diretti nei
confronti del destinatario individuato, così
che il decorso del termine per
l’impugnazione non può essere collegato alla
semplice pubblicazione, ma trova il suo
parametro temporale di riferimento nella
data della sua notificazione o della sua
piena conoscenza.
Un copioso
insegnamento giurisprudenziale (ex multis:
Cons. Stato, sez. IV, 22.02.2000 n. 939;
nonché TAR Piemonte, sez. I, 21.05.2010 n.
2438, TAR Sicilia, Catania, sez. II,
04.06.2008 n. 1071, TAR Sardegna, sez. II,
19.10.2006 n. 2248, TAR Campania, Napoli,
sez. IV, 24.10.2002 n. 6609) ha rilevato
come l’approvazione del progetto di un'opera
pubblica, quando comporti la dichiarazione
della p.u., indifferibilità ed urgenza della
stessa, è atto che deve essere notificato al
privato, proprietario del terreno, in quanto
impositivo di vincolo specifico preordinato
all’espropriazione e produttivo di effetti
giuridici lesivi immediati e diretti nei
confronti del destinatario individuato, così
che il decorso del termine per
l’impugnazione non può essere collegato alla
semplice pubblicazione, ma trova il suo
parametro temporale di riferimento nella
data della sua notificazione o della sua
piena conoscenza
(TAR Lazio-Roma, Sez. I,
sentenza 14.06.2012 n. 5467 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Beni ambientali. Piani paesaggistici e
prevalenza sulle disposizioni contenute in
altri atti di pianificazione.
L’art. 145, comma 3, del d.lgs. n. 42/2004
stabilisce che “Per quanto attiene alla
tutela del paesaggio, le disposizioni dei
piani paesaggistici sono comunque prevalenti
sulle disposizioni contenute negli atti di
pianificazione, ad incidenza territoriale
previsti dalle normative di settore, ivi
compresi quelli degli enti gestori delle
aree naturali protette”.
La prevalenza è
quindi attinente solo agli aspetti delle
altre disposizioni prima indicate relativi
alla mera tutela del paesaggio.
In relazione
ai Piani dei Parchi, che tutelano un sistema
di valori complesso, identificato, in base
all’art. 12, comma 1, della l. n. 394/1991,
come modificato dall'art. 2, della l. n.
426/1998, nella “tutela dei valori naturali
ed ambientali nonché storici, culturali,
antropologici, tradizionali”, detta
prevalenza è da ritenersi quindi relativa
solo agli aspetti paesaggistici, sicché ben
può affermarsi che la disciplina più
restrittiva rispetto al Piano paesaggistico
stabilita per determinate aree sia volta a
tutelare quegli ulteriori valori che il
Piano dei Parchi pure tutela e non violi
quindi il principio di prevalenza sopra
evidenziato.
Osserva la
Sezione che l’art. 145, comma 3, del d. lgs.
n. 42/2004, come modificato dall’art. 15 del
d.lgs. n. 157/2006 e dall'articolo 2, comma
1, lettera r) del d.lgs. n. 63/2008,
stabilisce che “Per quanto attiene alla
tutela del paesaggio, le disposizioni dei
piani paesaggistici sono comunque prevalenti
sulle disposizioni contenute negli atti di
pianificazione, ad incidenza territoriale
previsti dalle normative di settore, ivi
compresi quelli degli enti gestori delle
aree naturali protette”.
La prevalenza è quindi attinente solo agli
aspetti delle altre disposizioni prima
indicate relativi alla mera tutela del
paesaggio.
In relazione ai Piani dei Parchi, che
tutelano un sistema di valori complesso,
identificato, in base all’art. 12, comma 1,
della l. n. 394/1991, come modificato
dall'art. 2, della l. n. 426/1998, nella “tutela
dei valori naturali ed ambientali nonché
storici, culturali, antropologici,
tradizionali”, detta prevalenza è da
ritenersi quindi relativa solo agli aspetti
paesaggistici, sicché ben può affermarsi che
la disciplina più restrittiva rispetto al
Piano paesaggistico stabilita per
determinate aree sia volta a tutelare quegli
ulteriori valori che il Piano dei Parchi
pure tutela e non violi quindi il principio
di prevalenza sopra evidenziato
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.06.2012 n. 3518 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La formulazione del precetto
contenuto nell’art. 32, comma 27, lettera
d), legge 47/1985
lascia intendere che i vincoli in esso
indicati costituiscono fattore preclusivo
all’ottenimento della sanatoria soltanto ove
gravino direttamente sul manufatto
abusivamente realizzato o manipolato, e non
sull’area in cui sorge l’edificio.
La giurisprudenza ha fatto da tempo
giustizia di tale assunto, affermando come
il contrasto con la disciplina vincolistica
che legittima il diniego di condono debba
essere riferito all’area di realizzazione
dell’intervento abusivo e “non in maniera
specifica al singolo immobile”; in tal senso
vi sono numerose pronunce di questo
Tribunale, ai cui contenuti
argomentativi si rinvia, qui limitandosi a
riportare, facendolo proprio, il passo
conclusivo in cui si afferma che “la
proposta distinzione fra “immobile” ed
“area” (per quanto suggestiva) è
inconsistente, in quanto il carattere
vincolato di un edificio si rapporta per
insuperabile necessità logico–giuridica alla vincolatezza del sito ove è stato edificato,
sicché, dettando la norma generale ex art.
32, c. 27, lett. d), l. 326/2003, il
legislatore ha disciplinato l’ipotesi di
tutte le costruzioni effettuate in siti
vincolati e come tali riflettenti la
disciplina vincolistica della zona su cui
insistono”.
Così, da ultimo, in situazione similare, la
condivisa conclusione di TAR Campania,
Napoli, sezione settima, 03.11.2010, n.
22299, che non può mutare alla luce della
doglianza del ricorrente che, tralasciando
di considerare il profilo della
incompatibilità urbanistica, si limita a
sostenere che la formulazione del precetto
contenuto nell’art. 32, comma 27, lettera d),
lascia intendere che i vincoli in esso
indicati costituiscono fattore preclusivo
all’ottenimento della sanatoria soltanto ove
gravino direttamente sul manufatto
abusivamente realizzato o manipolato, e non
sull’area in cui sorge l’edificio.
La giurisprudenza ha fatto da tempo
giustizia di tale assunto, affermando come
il contrasto con la disciplina vincolistica
che legittima il diniego di condono debba
essere riferito all’area di realizzazione
dell’intervento abusivo e “non in maniera
specifica al singolo immobile”; in tal senso
vi sono numerose pronunce di questo
Tribunale (TAR Campania, Napoli, questa
sesta sezione, sentenza n. 359 del 27.01.2010 cit., n. 844 del 10.02.2010; n. 884 del 24.01.2006; sez.
settima, 03.11.2010, n. 22299 e n. 9355
del 24.07.2008; Salerno, sez. I, 14.01.2011, n. 26), ai cui contenuti
argomentativi si rinvia, qui limitandosi a
riportare, facendolo proprio, il passo
conclusivo in cui si afferma che “la
proposta distinzione fra “immobile” ed
“area” (per quanto suggestiva) è
inconsistente, in quanto il carattere
vincolato di un edificio si rapporta per
insuperabile necessità logico–giuridica alla vincolatezza del sito ove è stato edificato,
sicché, dettando la norma generale ex art.
32, c. 27, lett. d), l. 326/2003, il
legislatore ha disciplinato l’ipotesi di
tutte le costruzioni effettuate in siti
vincolati e come tali riflettenti la
disciplina vincolistica della zona su cui
insistono”.
Conclusioni, queste, esplicitamente
confermate dal Consiglio di Stato (sez.
quarta, 10.08.2007, n. 4396) in sede di
reiezione dell’appello proposto contro la
sopracitata sentenza di questa Sezione del
24.01.2006, n. 884 (TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 07.06.2012 n. 2699 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’efficacia
dei provvedimenti di demolizione non è
suscettibile di essere paralizzata dalla
successiva presentazione di una istanza di
accertamento di conformità alla disciplina
urbanistica ed edilizia, né da un’istanza di
accertamento di compatibilità paesaggistica,
le quali non incidono sulla legittimità del
provvedimento sanzionatorio “ma unicamente
sulla possibilità dell’amministrazione di
portare ad esecuzione la sanzione”, “autonomamente valutando gli
effetti” delle sopravvenute istanze a detti
fini.
In
proposito, và ribadito l’orientamento della
Sezione, avallato da pronunce del giudice di
appello, secondo cui l’efficacia dei
provvedimenti di demolizione non è
suscettibile di essere paralizzata dalla
successiva presentazione di una istanza di
accertamento di conformità alla disciplina
urbanistica ed edilizia, né da un’istanza di
accertamento di compatibilità paesaggistica,
le quali non incidono sulla legittimità del
provvedimento sanzionatorio “ma unicamente
sulla possibilità dell’amministrazione di
portare ad esecuzione la sanzione” (cfr.,
fra le ultime, C. di S., Sezione IV, ord. n.
3055 del 12.06.2009 e n. 870 del 21.02.2008), “autonomamente valutando gli
effetti” delle sopravvenute istanze a detti
fini (cfr., fra tante, TAR Campania,
Sezione VI, sent. n. 26787 del 03.12.2010 e
la restante giurisprudenza anche del giudice
di appello ivi riportata) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 07.06.2012 n. 2699 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nella
formulazione di cui all'art. 36, d.P.R. n.
380 del 2001, il silenzio
dell'Amministrazione su un'istanza di
sanatoria di abusi edilizi costituisce
ipotesi di silenzio significativo, al quale
vengono collegati gli effetti di un
provvedimento esplicito di diniego, con la
conseguenza che si viene a determinare una
situazione del tutto simile a quella che si
verificherebbe in caso di provvedimento
espresso.
In virtù della previsione legale di
implicito diniego, il silenzio tenuto
dall'Amministrazione non può, infatti,
essere inteso come mero fatto di
inadempimento, ma abilita l'interessato alla
proposizione di impugnazione, una volta
decorso dal suo perfezionarsi il termine
decadenziale di sessanta giorni.
Il silenzio sull'istanza di accertamento di
conformità urbanistica postula l'esercizio
di un'attività amministrativa essenzialmente
vincolata, trattandosi di un meccanismo
predisposto per sanare opere solo
formalmente abusive, in quanto eseguite
senza il prescritto titolo edilizio, ma
sostanzialmente conformi alla normativa
urbanistica ed edilizia vigente sia al
momento della loro realizzazione sia al
momento della presentazione della domanda.
Trattasi quindi di attività amministrativa
per lo più priva di apprezzabili margini di
discrezionalità in quanto riferita ad un
assetto di interessi già prefigurato dalle
previsioni dello strumento urbanistico
generale.
In ogni caso il sindacato del giudice
amministrativo sul diniego implicito
presuppone che sia assolto da parte del
ricorrente l'onere di provare la
illegittimità del rifiuto ossia la
fondatezza della sua pretesa sostanziale al
rilascio di un provvedimento a lui
favorevole
Per
quanto concerne l’inquadramento del
provvedimento di diniego tacito ai sensi
dell’art. 36 del d.P.R. 380/2001
concretizzatosi per effetto del decorso del
termine di sessanta giorni, l’orientamento
giurisprudenziale prevalente, da cui questo
Collegio non ha motivo di discostarsi (ex multis, TAR Campania, Napoli sez. VIII 13.12.2011 n. 5797), ritiene che nella
formulazione di cui all'art. 36, d.P.R. n.
380 del 2001, il silenzio
dell'Amministrazione su un'istanza di
sanatoria di abusi edilizi costituisce
ipotesi di silenzio significativo, al quale
vengono collegati gli effetti di un
provvedimento esplicito di diniego, con la
conseguenza che si viene a determinare una
situazione del tutto simile a quella che si
verificherebbe in caso di provvedimento
espresso. In virtù della previsione legale
di implicito diniego, il silenzio tenuto
dall'Amministrazione non può, infatti,
essere inteso come mero fatto di
inadempimento, ma abilita l'interessato alla
proposizione di impugnazione, una volta
decorso dal suo perfezionarsi il termine
decadenziale di sessanta giorni (C.d.S. sez.
IV 3.03.2006 n. 1037l; C.d.S. sez. IV 03.02.2006 n. 401; TAR Piemonte, Torino
08.03.2006 n. 1173; TAR Campania, Salerno,
sez. II 13.01.2005 n. 18).
Una volta riconosciuto il valore di
provvedimento amministrativo al silenzio di
cui all'art. 36 cit. e la natura impugnatoria
del presente giudizio, va precisato che
nella specie, il silenzio sull'istanza di
accertamento di conformità urbanistica
postula l'esercizio di un'attività
amministrativa essenzialmente vincolata,
trattandosi di un meccanismo predisposto per
sanare opere solo formalmente abusive, in
quanto eseguite senza il prescritto titolo
edilizio, ma sostanzialmente conformi alla
normativa urbanistica ed edilizia vigente
sia al momento della loro realizzazione sia
al momento della presentazione della
domanda.
Trattasi quindi di attività amministrativa
per lo più priva di apprezzabili margini di
discrezionalità in quanto riferita ad un
assetto di interessi già prefigurato dalle
previsioni dello strumento urbanistico
generale (cfr. TAR Campania Napoli questa
stessa sezione, 05.05.2005 n. 5484).
In ogni caso il sindacato del giudice
amministrativo sul diniego implicito
presuppone che sia assolto da parte del
ricorrente l'onere di provare la
illegittimità del rifiuto ossia la
fondatezza della sua pretesa sostanziale al
rilascio di un provvedimento a lui
favorevole (TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 07.06.2012 n. 2699 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Direttore dei lavori.
Il direttore dei lavori ha una posizione di
garanzia in merito alla regolare esecuzione
dei lavori ed ha, pertanto, l’obbligo di
esercitare un’attiva vigilanza sulle opere
realizzate, per cui -esclusi i casi in cui
abbia puntualmente svolto l’attività
prevista dal II comma art. 29 T.U.E.- è
responsabile anche delle violazioni edilizie
commesse in sua assenza, in quanto questi
deve sovrintendere con continuità alle opere
della cui esecuzione ha assunto la
responsabilità tecnica.
La
giurisprudenza, specie quella penale, ha già
avuto modo di chiarire che il direttore dei
lavori ha una posizione di garanzia in
merito alla regolare esecuzione dei lavori
ed ha, pertanto, l’obbligo di esercitare
un’attiva vigilanza sulle opere realizzate,
per cui -esclusi i casi in cui abbia
puntualmente svolto l’attività prevista dal
II comma art. 29 T.U.E.- è responsabile
anche delle violazioni edilizie commesse in
sua assenza, in quanto questi deve
sovrintendere con continuità alle opere
della cui esecuzione ha assunto la
responsabilità tecnica (così, da ultimo,
Cass. Pen., sez. III, 17.06.2000, n. 34602,
e 20.01.2009, n. 14504)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 04.06.2012 n. 247 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’errata
o insufficiente rappresentazione delle
circostanze di fatto e di diritto poste alla
base del rilascio della concessione
edilizia, che diversamente non sarebbe stata
rilasciata, costituisce da sola ragione
sufficiente per giustificare un
provvedimento di annullamento di ufficio
della concessione medesima.
In una tale situazione, può prescindersi dal contemperamento
dell’interesse privato con un interesse
pubblico attuale e concreto. Ciò perché,
ai fini dell'annullamento d'ufficio di una
concessione edilizia, è ben vero necessario,
in linea di principio, l'accertamento della
sussistenza di una situazione di interesse
pubblico attuale e concreto che giustifichi
il ricorso all'autotutela, ma da tale
valutazione si può prescindere quando
risulti che il rilascio della concessione è
derivato da un'erronea rappresentazione (non
importa se dolosa o colposa) dei fatti da
parte del privato richiedente.
Tale avviso, peraltro, si è da tempo
pacificamente radicato nella giurisprudenza
anche di altre sezioni di questo Consiglio, che
hanno parimenti escluso la necessità di una
comparata ponderazione dell'interesse
pubblico all'annullamento d'ufficio di un
atto amministrativo e dell'interesse
oppositivo del privato, quando si sia in
presenza di sostanziale negligenza del
privato stesso, il quale, per insufficiente
rappresentazione di circostanze di fatto,
non importa se per colpa o per dolo, abbia
contribuito all'errore dell'Amministrazione
inducendola, sostanzialmente, ad adottare
atti poi rivelatisi palesemente illegittimi.
---------------
Se è vero che è ius receptum che
l'annullamento di ufficio di un
provvedimento debba essere sorretto anche da
autonome ed attuali ragioni di pubblico
interesse, laddove incida su posizioni
giuridiche che risultino ormai consolidate
in ragione del tempo trascorso
dall'emanazione del provvedimento annullato
ed in ragione dell'affidamento sulla sua
legittimità ingenerato nei suoi destinatari,
siccome atto proveniente
dall'amministrazione pubblica, è, però,
corollario di tale principio, che non
occorre la presenza di preminenti ragioni di
interesse pubblico quando il soggetto nei
cui confronti si esercita il potere di
annullamento non sia in buona fede.
Questa Sezione ha già avuto modo di
chiarire, con avviso del tutto
condivisibile, che l’errata o insufficiente
rappresentazione delle circostanze di fatto
e di diritto poste alla base del rilascio
della concessione edilizia, che diversamente
non sarebbe stata rilasciata, costituisce da
sola ragione sufficiente per giustificare un
provvedimento di annullamento di ufficio
della concessione medesima ed ha, altresì,
precisato che, in una tale situazione, può
prescindersi dal contemperamento
dell’interesse privato con un interesse
pubblico attuale e concreto (cfr. sez. IV,
n. 6554 del 24.12.2008). Ciò perché,
ai fini dell'annullamento d'ufficio di una
concessione edilizia, è ben vero necessario,
in linea di principio, l'accertamento della
sussistenza di una situazione di interesse
pubblico attuale e concreto che giustifichi
il ricorso all'autotutela, ma da tale
valutazione si può prescindere quando
risulti che il rilascio della concessione è
derivato da un'erronea rappresentazione (non
importa se dolosa o colposa) dei fatti da
parte del privato richiedente.
Tale avviso, peraltro, si è da tempo
pacificamente radicato nella giurisprudenza
anche di altre sezioni di questo Consiglio
(cfr. C.G.A.R.S. n. 552 del 13.09.2011; CdS, Sez. V, n. 592 dell'08.02.2010 e n. 6554 del 12.10.2004), che
hanno parimenti escluso la necessità di una
comparata ponderazione dell'interesse
pubblico all'annullamento d'ufficio di un
atto amministrativo e dell'interesse
oppositivo del privato, quando si sia in
presenza di sostanziale negligenza del
privato stesso, il quale, per insufficiente
rappresentazione di circostanze di fatto,
non importa se per colpa o per dolo, abbia
contribuito all'errore dell'Amministrazione
inducendola, sostanzialmente, ad adottare
atti poi rivelatisi palesemente illegittimi.
Orbene, se è vero, come affermato
dall’appellante nella memoria depositata il
09.02.2012, che è ius receptum che
l'annullamento di ufficio di un
provvedimento debba essere sorretto anche da
autonome ed attuali ragioni di pubblico
interesse, laddove incida su posizioni
giuridiche che risultino ormai consolidate
in ragione del tempo trascorso
dall'emanazione del provvedimento annullato
ed in ragione dell'affidamento sulla sua
legittimità ingenerato nei suoi destinatari,
siccome atto proveniente
dall'amministrazione pubblica, è, però,
corollario di tale principio, alla stregua
della citata giurisprudenza di questo
Consiglio di Stato, che il Collegio
condivide, che non occorre la presenza di
preminenti ragioni di interesse pubblico
quando il soggetto nei cui confronti si
esercita il potere di annullamento non sia
in buona fede.
Nel caso in esame, ben può ritenersi che
siano sussistenti le condizioni evidenziate
dalla richiamata giurisprudenza, cioè
l’erronea rappresentazione (non importa se
dolosa o colposa) dei fatti da parte del
privato e la conseguente negligenza da
questi manifestata, al fine di prendere atto
della carenza di buona fede in capo al
privato stesso nel richiedere i due permessi
di costruire annullati di ufficio, nella
specie, con il provvedimento impugnato
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.05.2012 n. 3150 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: Legittime
le tariffe Tia deliberate dalla giunta.
Sono legittime le tariffe Tia deliberate
dalla giunta comunale. Al consiglio comunale
spetta solo la disciplina generale delle
tariffe.
Lo ha precisato il TAR Veneto, Sez. III, con
la
sentenza
10.05.2012 n. 680.
Per il giudice amministrativo non sussiste
il vizio di incompetenza della giunta,
«essendo riservata al consiglio comunale
esclusivamente la disciplina generale delle
tariffe».
Infatti, al consiglio è delegata
l'individuazione dei criteri economici sulla
base dei quali vanno determinate le tariffe,
le eventuali esenzioni o agevolazioni, le
modalità di graduazione delle tariffe sulla
base di fasce orarie o delle zone in cui il
servizio viene prestato. Mentre la concreta
quantificazione degli importi tariffari
spetta alla giunta.
Negli ultimi anni si è formato un contrasto
giurisprudenziale sull'obbligo di motivare
le delibere che prevedono aumenti tariffari
Tarsu o Tia. Essendo la delibera un atto
generale, per la Cassazione (sentenza
22804/2006) non c'è alcun obbligo di
motivare gli aumenti delle tariffe. Secondo
il Consiglio di stato (sentenza 5616/2010),
invece, l'amministrazione comunale deve
motivare la delibera che prevede un aumento
delle tariffe per coprire i costi del
servizio di smaltimento dei rifiuti. E non
si può invocare genericamente la necessità
di assicurare la tendenziale copertura
totale della spesa, senza avere dati certi
sullo scostamento tra entrate e costo del
servizio.
In effetti, pur essendo la delibera un atto
generale sussiste a carico dell'ente
l'obbligo specifico di motivare gli aumenti
delle tariffe. Per stabilire in una
determinata entità l'importo dell'aumento,
occorre almeno indicare dati certi in ordine
a spese e entrate.
Sia per la Tarsu che per la Tia la legge
detta i criteri ai quali i comuni si devono
attenere per la determinazione delle tariffe
e indica le categorie di locali e aree con
omogenea potenzialità di rifiuti. Gli enti
sono tenuti a adottare un regolamento che
deve contenere non solo la classificazione
delle categorie e eventuali sottocategorie,
ma anche la graduazione delle tariffe
ridotte per particolari condizioni d'uso.
Nell'ambito del potere regolamentare possono
essere individuate anche le fattispecie
agevolative, con relative condizioni,
modalità di richiesta e eventuali cause di
decadenza.
Se queste regole non vengono rispettate, il
contribuente può impugnare i relativi atti
generali (regolamenti e delibere) innanzi al
giudice amministrativo. Tuttavia, anche
l'eventuale dichiarazione d'illegittimità di
una delibera tariffaria non comporta la
liberazione dall'obbligo di pagamento del
tributo. Il contribuente è comunque tenuto a
pagare applicando la tariffa vigente in
precedenza (Cassazione, sentenza 8875/2010)
(articolo ItaliaOggi
del 17.08.2012 - link a
www.ecostampa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
disciplina contenuta nell’art. 22 del D.L.vo
285 del 1992 e quella a sua volta contenuta
nell’art. 4 del R.D. 1740 del 1933 non
assolve per certo a finalità urbanistico-edilizie ma ad esigenze
di sicurezza della circolazione stradale che
identificano un pubblico interesse di
maggior rilievo rispetto alle finalità
anzidette, e tali quindi da rendere le
finalità medesime nettamente recessive
rispetto alle valutazioni compiute
dall’Autorità istituzionalmente deputata a
garantire l’incolumità degli utenti delle
pubbliche strade, ovvero dallo stesso legislatore in sede di
diretta disciplina della relativa materia.
In tale contesto, quindi, il parere
favorevole dell’ente proprietario della
strada va configurato, a’ sensi degli artt.
5, comma 4, 20, comma 3, e 23, comma 4, del
T.U. approvato con D.P.R. 380 del 2001,
quale necessario e del tutto condizionante
presupposto per la legittima esplicazione
dell’attività edilizia da parte del soggetto
privato.
a) A parte la ben evidente e generale
confusione di ordine sistematico operata
dall’appellante tra titolo edilizio e titolo
autorizzatorio rilasciato dall’ente
proprietario della strada al fine
dell’apertura del passo carraio, va
rimarcato che la disciplina contenuta
nell’art. 22 del D.L.vo 285 del 1992 e
quella a sua volta contenuta nell’art. 4 del
R.D. 1740 del 1933 non assolve per certo a
finalità urbanistico-edilizie ma ad esigenze
di sicurezza della circolazione stradale che
identificano un pubblico interesse di
maggior rilievo rispetto alle finalità
anzidette, e tali quindi da rendere le
finalità medesime nettamente recessive
rispetto alle valutazioni compiute
dall’Autorità istituzionalmente deputata a
garantire l’incolumità degli utenti delle
pubbliche strade, ovvero –come nel caso di
specie– dallo stesso legislatore in sede di
diretta disciplina della relativa materia.
In tale contesto, quindi, il parere
favorevole dell’ente proprietario della
strada va configurato, a’ sensi degli artt.
5, comma 4, 20, comma 3, e 23, comma 4, del
T.U. approvato con D.P.R. 380 del 2001,
quale necessario e del tutto condizionante
presupposto per la legittima esplicazione
dell’attività edilizia da parte del soggetto
privato.
Né può essere condivisa la prospettazione
dell’appellante secondo cui la norma
risolutiva per il caso di specie
risiederebbe nell’art. 4 del R.D. 1740 del
1933 che prima dell’entrata in vigore
dell’attuale Codice della Strada
disciplinava il rilascio dei permessi di
passo carraio e non contemplava il divieto
di rilascio della relativa autorizzazione
nelle ipotesi in cui il passo medesimo
dovrebbe aprirsi su di una rampa di
accelerazione.
Risulta infatti assodato che il Turi mai ha
chiesto il rilascio di tale autorizzazione
nel corso della vigenza di tale disciplina e
che, una volta sopravvenuto l’attuale
divieto contenuto nell’art. 22 dell’attuale
Codice della Strada, non può pretendere l’ultrattività
dello ius vetus; né può giovare allo stesso
Turi la circostanza che il proprio accesso
alla pubblica strada sarebbe stato di fatto
tollerato “per fatto concludente” dall’Anas
anche mediante l’asserita posa in opera di
un guard rail che sin qui gli ha consentito
il materiale accesso al fondo, ovvero un
richiamo analogico del tutto inconferente
nell’economia di causa ad una giurisprudenza
(oltre a tutto neppure condivisa da questo
Collegio) circa la norma da applicare per
l’accertamento di conformità degli
interventi di ristrutturazione urbanistica.
b) E’ del tutto infondato l’assunto
dell’appellante secondo il quale l’art. 22
del Codice della Strada contemplerebbe al
comma 9 un’espressa possibilità di deroga al
susseguente suo comma 10, recante il diniego
di apertura di accessi lungo le rampe di
accelerazione: possibilità in alcun modo
considerata dall’Anas e dallo stesso giudice
di primo grado.
Tale assunto, infatti, va radicalmente
capovolto.
Il comma 9 anzidetto reca infatti non già
una disciplina di deroga, ma la disciplina
sostantiva dei presupposti per il rilascio
delle autorizzazioni all’apertura dei passi
carrai, laddove –per l’appunto– si dispone
che “nel caso di proprietà naturalmente
incluse o risultanti tali a seguito di
costruzioni o modifiche di opere di pubblica
utilità, nei casi di impossibilità di
regolarizzare in linea tecnica gli accessi
esistenti, nonché in caso di forte densità
degli accessi stessi e ogni qualvolta le
caratteristiche plano-altimetriche nel
tratto stradale interessato dagli accessi o
diramazioni non garantiscano requisiti di
sicurezza e fluidità per la circolazione,
l'ente proprietario della strada rilascia
l'autorizzazione per l'accesso o la
diramazione subordinatamente alla
realizzazione di particolari opere quali
innesti attrezzati, intersezioni a livelli
diversi e strade parallele, anche se le
stesse, interessando più proprietà,
comportino la costituzione di consorzi
obbligatori per la costruzione e la
manutenzione delle opere stesse”.
Nel susseguente comma 10 si dispone, invece,
che “il Ministro delle infrastrutture e dei
trasporti stabilisce con proprio decreto,
per ogni strada o per ogni tipo di strada da
considerare in funzione del traffico
interessante le due arterie intersecantisi,
le caratteristiche tecniche da adottare
nella realizzazione degli accessi e delle
diramazioni, nonché le condizioni tecniche e
amministrative che dovranno dall'ente
proprietario essere tenute a base
dell'eventuale rilascio
dell'autorizzazione”, soggiungendosi nella
seconda sua parte che “è comunque vietata
l’apertura di accessi lungo le rampe di
intersezioni sia a raso che a livelli
sfalsati, nonché lungo le corsie di
accelerazione e di decelerazione”.
Tale ultima disposizione costituisce,
quindi, norma generale di “chiusura” del
“sistema”, che inequivocabilmente ed in ogni
caso (“comunque”) inibisce -anche, quindi,
per la fattispecie che segnatamente riguarda
il Turi- il rilascio di qualsivoglia
autorizzazione in deroga alla stessa
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.04.2012 n. 2271 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Abuso di ufficio.
Nell'abuso d'ufficio connesso al rilascio di
un permesso edilizio ritenuto illegittimo e
nei reati edilizi compiuti in esecuzione di
tale permesso, uno degli elementi dai quali
desumere l'intenzionalità del dolo o la
colpa e costituito appunto dall'analisi del
contrasto del permesso di costruire con la
norma urbanistica nel senso che, quanto più
è palese o macroscopico tale contrasto,
tanto più e evidente la ricorrenza
dell'elemento psicologico del reato.
Il dolo
intenzionale del delitto di abuso d'ufficio
può desumersi, non solo dal rapporto
collusivo, ma anche da una serie di altri
indizi diversi, quali ad esempio: la natura
dell'illegittimità dell'atto, i rapporti tra
il pubblico ufficiale ed il privato, la
mancanza di una doverosa istruttoria della
pratica (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza
12.01.2012 n. 649 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione di istanza di condono
edilizio, successivamente alla impugnazione
dell'ordinanza di demolizione, produce
l'effetto di rendere improcedibile, per
sopravvenuta carenza di interesse,
l'impugnazione stessa.
Ed invero, il riesame dell’abusività
dell'opera al fine di verificarne la
eventuale sanabilità -provocato dall'istanza
de qua- comporta la necessaria formazione di
un nuovo provvedimento, esplicito (di
accoglimento o di rigetto).
Posto che, in data 27.02.1995, è stata
presentata, con riguardo alle opere
realizzate abusivamente di cui all’impugnato
provvedimento sanzionatorio, domanda di
condono ai sensi della legge 724/1994 (prot.
nn. 4912, in atti), osserva il Collegio che
la giurisprudenza amministrativa ha già
avuto modo di rilevare come la presentazione
di tali domande, successivamente alla
impugnazione dell'ordinanza di demolizione,
produca l'effetto di rendere improcedibile,
per sopravvenuta carenza di interesse,
l'impugnazione stessa (Cfr. ex multis,
TAR Campania, Sez. VI, 11.07.2007, n. 7129
sez. I, 18.05.2006 n. 4743).
Ed invero, il riesame dell’abusività
dell'opera al fine di verificarne la
eventuale sanabilità -provocato dall'istanza
degli interessati- comporta la necessaria
formazione di un nuovo provvedimento,
esplicito (di accoglimento o di rigetto),
che vale, comunque, a superare il
provvedimento tacito di diniego oggetto del
presente ricorso
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 26.10.2011 n. 4968 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nell’ambito del procedimento per
il rilascio di un titolo abilitativo
all’edificazione, poiché la legittimazione
attiva a chiedere il rilascio di un titolo
abilitativo edilizio è configurabile non
solo in capo al proprietario del terreno, ma
anche in favore del soggetto titolare di
altro diritto di godimento del fondo, che lo
autorizzi a disporne con un intervento
costruttivo, la pubblica amministrazione non
è tenuta a svolgere una preliminare indagine
istruttoria che si estenda fino alla ricerca
d'ufficio di eventuali elementi limitativi,
preclusivi o estintivi del titolo di
disponibilità allegato dal richiedente.
In via preliminare, la Sezione ritiene di
dover ricordare come sia oramai consolidato
in giurisprudenza un orientamento, a cui si
è rifatto il TAR nella sentenza gravata, che
identifica i limiti istruttori nell’ambito
del procedimento per il rilascio di un
titolo abilitativo all’edificazione. In tali
occasioni, poiché la legittimazione attiva a
chiedere il rilascio di un titolo
abilitativo edilizio è configurabile non
solo in capo al proprietario del terreno, ma
anche in favore del soggetto titolare di
altro diritto di godimento del fondo, che lo
autorizzi a disporne con un intervento
costruttivo, la pubblica amministrazione non
è tenuta a svolgere una preliminare indagine
istruttoria che si estenda fino alla ricerca
d'ufficio di eventuali elementi limitativi,
preclusivi o estintivi del titolo di
disponibilità allegato dal richiedente (da
ultimo, Consiglio di stato, sez. VI,
10.02.2010, n. 675).
Il controllo dell’azione amministrativa da
parte di questo giudice non può che
conformarsi a tale assetto, dovendosi
limitare a valutare se l’amministrazione ha
effettivamente operato nel rispetto delle
sue attribuzioni (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.09.2011 n. 4968 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Responsabile ufficio tecnico e
abuso d’ufficio.
Configura un ingiusto vantaggio patrimoniale
anche il mero incremento del valore
commerciale dell’immobile, per cui ben può
essere chiamato a rispondere di abuso di
ufficio il responsabile del settore
urbanistico del Comune che abbia rilasciato
una concessione edilizia in sanatoria per
un’opera non conforme agli strumenti
urbanistici generali vigenti in quel Comune
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.07.2011 n. 27703 -
tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abuso di ufficio ed elemento
soggettivo del reato.
Nel reato di abuso d'ufficio il
perseguimento del fine pubblico dell’agente
non vale ad escludere il dolo sotto il
profilo dell’intenzionalità allorché
rappresenti un mero pretesto con il quale
venga mascherato l’obiettivo reale della
condotta. In definitiva il vantaggio o danno
per il privato può essere affiancato anche
da una finalità pubblica che rappresenti una
mera occasione o pretesto per coprire la
condotta illecita.
La finalità pubblica non deve essere confusa
con il fine politico dell’agente,con
l’esigenza di dimostrare la propria capacità
dl “governo”
ai consociati, con la smania di
protagonismo, con la finalità
propagandistica,con l’aspirazione ad
aumentare il consenso elettorale perché
questi sono motivi egoistici che si pongono
in antitesi con la finalità altruistica e
collettiva che deve connotare la finalità
pubblica (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 13.05.2011 n. 18895 -
link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Impianto calcestruzzo amovibile.
E' illegittima l'autorizzazione provvisoria
riguardante opere trasferibili e precarie
(impianto di calcestruzzo amovibile)
installate sul suolo agricolo posto che il
concetto di opera contingente, momentanea e
transitoria va parametrato con riferimento
non alle dimensioni ma alla durata nel tempo
dei bisogni che l'edificazione dell'opera
intende soddisfare.
Pertanto, l'assenza di permesso a costruire
comporta la sussistenza del reato di cui
all'art. 44, lett. b, DPR 380/2001. Di
converso, tale illegittimità non costituisce
violazione di legge macroscopica idonea a
provare ex se il dolo intenzionale del
delitto di abuso d'ufficio (TRIBUNALE di
Santa Maria C.V.,
sentenza 10.03.2011 - link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
provvedimento di autorizzazione o concessione edilizia può
essere accordato al proprietario dell’area o a chi ha titolo
per richiederla, quale titolare di un diritto reale ovvero
un diritto obbligatorio che accordi al richiedente la
disponibilità del suolo o la potestà edificatoria, mentre
una semplice relazione di fatto, ancorché tutelata, quale
quella legata al mero possesso dell’area, non è idonea a
conferire il diritto ad ottenere il rilascio del titolo
concessorio.
Il richiedente il permesso di costruire deve, infatti, avere
la disponibilità giuridica dell’area interessata alla
costruzione in progetto, non essendo sufficiente la mera
disponibilità di fatto di essa.
In altre parole, per edificare è necessario che il soggetto
istante sia o il titolare del diritto di proprietà sul fondo
o chi, pur essendo titolare di altro diritto, reale o di
obbligazione, abbia, per effetto di questo obbligo o facoltà
di eseguire i lavori per cui chiede il permesso, quindi, ad
esempio, anche il locatario se il contratto di locazione
reca l’esplicita o implicita, ma inequivocabile,
autorizzazione all’esecuzione di dati interventi di
trasformazione del bene in funzione dell’uso per il quale lo
stesso è stato concesso ad altri.
E d’altra parte, certamente spetta al Comune la verifica del
possesso del titolo, la cui mancanza impedisce
all’Amministrazione di procedere oltre nell’esame del
progetto.
In proposito devesi osservare che il provvedimento di
autorizzazione o concessione edilizia può essere accordato
al proprietario dell’area o a chi ha titolo per richiederla,
quale titolare di un diritto reale ovvero un diritto
obbligatorio che accordi al richiedente la disponibilità del
suolo o la potestà edificatoria, mentre una semplice
relazione di fatto, ancorché tutelata, quale quella legata
al mero possesso dell’area, non è idonea a conferire il
diritto ad ottenere il rilascio del titolo concessorio.
Il richiedente il permesso di costruire deve, infatti, avere
la disponibilità giuridica dell’area interessata alla
costruzione in progetto, non essendo sufficiente la mera
disponibilità di fatto di essa.
Analogamente un richiesta di variante o la denuncia di
inizio attività deve essere prodotta, ai sensi dell’art. 23,
primo comma, del DPR 06.06.2001 n. 380, dal soggetto
legittimato, ovvero dal proprietario dell’immobile o da chi
abbia titolo per presentare la denuncia di inizio attività.
La formulazione ultima richiama, invero, quella dell’art. 11
del DPR 380/2001, a sua volta ispirata dall’art. 4 della
legge 28.01.1977 n. 10.
In altre parole, per edificare è necessario che il soggetto
istante sia o il titolare del diritto di proprietà sul fondo
o chi, pur essendo titolare di altro diritto, reale o di
obbligazione, abbia, per effetto di questo obbligo o facoltà
di eseguire i lavori per cui chiede il permesso, quindi, ad
esempio, anche il locatario se il contratto di locazione
reca l’esplicita o implicita, ma inequivocabile,
autorizzazione all’esecuzione di dati interventi di
trasformazione del bene in funzione dell’uso per il quale lo
stesso è stato concesso ad altri.
E d’altra parte, certamente spetta al Comune la verifica del
possesso del titolo, la cui mancanza impedisce
all’Amministrazione di procedere oltre nell’esame del
progetto
(TAR Basilicata,
sentenza 26.07.2010 n. 532 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: In
tema di responsabilità dell’amministrazione per attività
provvedimentale illegittima, il risarcimento del danno
richiede la positiva verifica di tutti i presupposti
previsti dalla legge e cioè, oltre alla lesione della
situazione soggettiva tutelata dall’ordinamento e alle
conseguenze pregiudizievoli immediate e dirette di essa, il
positivo accertamento dell’ingiustizia di tale lesione, la
colpa della P.A., la dimostrazione e quantificazione di
specifiche perdite di possibilità alternative di guadagno e
la sussistenza del nesso di causalità tra illecito e danno,
fermo restando che fa capo alla parte ricorrente l’onere
della prova in ordine al concreto pregiudizio subito e alla
sua ingiustizia, che, nel caso di attività provvedi mentale
ampliativa asseritamente illegittima della P.A., consiste
nella dimostrazione della spettanza del bene della vita di
cui si lamenta il mancato conseguimento.
In proposito
è sufficiente osservare che in tema di responsabilità
dell’amministrazione per attività provvedimentale
illegittima, il risarcimento del danno richiede la positiva
verifica di tutti i presupposti previsti dalla legge e cioè,
oltre alla lesione della situazione soggettiva tutelata
dall’ordinamento e alle conseguenze pregiudizievoli
immediate e dirette di essa, il positivo accertamento
dell’ingiustizia di tale lesione, la colpa della P.A., la
dimostrazione e quantificazione di specifiche perdite di
possibilità alternative di guadagno e la sussistenza del
nesso di causalità tra illecito e danno, fermo restando che
fa capo alla parte ricorrente l’onere della prova in ordine
al concreto pregiudizio subito e alla sua ingiustizia, che,
nel caso di attività provvedi mentale ampliativa
asseritamente illegittima della P.A., consiste nella
dimostrazione della spettanza del bene della vita di cui si
lamenta il mancato conseguimento
(TAR Basilicata,
sentenza 26.07.2010 n. 532 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'annullamento
di ufficio presuppone una congrua
motivazione sull'interesse pubblico attuale
e concreto a sostegno dell'esercizio
discrezionale dei poteri di autotutela, con
una adeguata ponderazione comparativa, che
tenga anche conto dell'interesse dei
destinatari dell'atto al mantenimento delle
posizioni, che su di esso si sono
consolidate e del conseguente affidamento
derivante dal comportamento seguito
dall'amministrazione.
Tale principio ha trovato da ultimo
esplicito riscontro normativo nell'art. 14
della legge n. 15 del 2005, con il quale è
stato introdotto l'art. 21-nonies della
legge n. 241 del 1990.
---------------
Il tempo successivo alla comunicazione di
avvio del procedimento di riesame della
validità della concessione edilizia deve
ritenersi utile alla formazione di un
legittimo affidamento in capo al privato
titolare della medesima [nella fattispecie,
la stessa sua abnormità ossia circa 14 mesi
a fronte del termine legislativamente
fissato in 30 giorni dall’art. 2 della legge
n. 241/1990 nella versione ratione temporis
applicabile alla fattispecie) rispetto al
brevissimo termine (15 giorni) dato al
privato stesso con detta comunicazione per
la presentazione di memorie scritte, è
indubbiamente valsa a rafforzare man mano,
col trascorrere del tempo successivo alla
scadenza del termine assegnato al privato
per la utile partecipazione al procedimento,
tale affidamento circa il consolidamento
della propria posizione giuridica e dunque
circa il mantenimento di validità ed
efficacia del provvedimento ampliativo della
sua sfera giuridica].
---------------
L'emanazione di un provvedimento di
carattere autoritativo, ovverosia in caso di
esercizio del potere di autotutela, è potere
tipicamente discrezionale della Pubblica
amministrazione, che non ha alcun obbligo di
attivarlo e, qualora intenda farlo, deve
valutare la sussistenza o meno di un
interesse che giustifichi la rimozione
dell'atto, valutazione della quale essa sola
è titolare e che non può ritenersi dovuta
nel caso di una situazione già definita con
provvedimento inoppugnabile.
---------------
Sull'argomento v’è, invero, da osservare che
questo Collegio si è già pronunciato su
fattispecie del tutto analoghe relative a
provvedimenti di annullamento d’ufficio di
concessioni edilizie posti in essere dallo
stesso Comune di Marino per gli stessi
motivi ed in epoca coeva a quella dell’atto
oggetto del presente giudizio, statuendo,
con motivazioni e conclusioni del tutto
pertinenti al caso di specie (v, per tutte,
Cons. St., IV, 21.12.2009, n. 8526),
che l'annullamento di ufficio presuppone una
congrua motivazione sull'interesse pubblico
attuale e concreto a sostegno dell'esercizio
discrezionale dei poteri di autotutela, con
una adeguata ponderazione comparativa, che
tenga anche conto dell'interesse dei destinatari dell'atto al mantenimento delle
posizioni, che su di esso si sono
consolidate e del conseguente affidamento
derivante dal comportamento seguito
dall'amministrazione (cfr. Cons. St., sez.
VI, 14/10/2004, n. 6656).
È appena il caso di soggiungere che tale
principio, già enunciato dalla
giurisprudenza amministrativa (invero già
la risalente sentenza del Cons. St., VI, 24.12.1982, n. 721 affermava il
principio, secondo cui la rimozione degli
atti amministrativi illegittimi non deve
pregiudicare l’interesse, cedevole solo a
fronte di un più grave interesse pubblico,
di chi sugli effetti di quell’atto abbia
fatto affidamento), ha trovato da ultimo
esplicito riscontro normativo nell'art. 14
della legge n. 15 del 2005, con il quale è
stato introdotto l'art. 21-nonies della
legge n. 241 del 1990.
---------------
Quanto,
poi, al legittimo affidamento maturato nel
destinatario del titolo abilitativo in
relazione al tempo intercorso dal rilascio
del titolo illegittimo (e che occorra a tal
fine far riferimento, quale momento iniziale
di tale periodo giuridicamente rilevante,
alla data di rilascio dello stesso e non
invece, come pretende l’appellante senza
peraltro nemmeno individuarla, a quella di
inizio lavori, non v’è, a parere del
Collegio, alcun dubbio, dal momento che è la
concessione edilizia in quanto tale –e non
certo l’inizio lavori, ch’è in facoltà del
concessionario individuare in assoluta
autonomia nel termine assegnatogli dalle
condizioni apposte alla concessione stessa–
a rappresentare il bene della vita, che,
entrato al momento stesso del rilascio nella
sfera patrimoniale e, trattandosi qui di
soggetto imprenditoriale,
economico-organizzativa dell’impresa, ne
viene poi espunto con l’atto di annullamento), un chiaro difetto di motivazione si
rileva nel provvedimento oggetto del
presente giudizio, siccome adottato
dall’Amministrazione nell’esercizio del
potere di annullamento, laddove la
frustrazione dell’affidamento ingenerato in
capo al destinatario non risulta in alcun
modo presa in considerazione
dall’Amministrazione, nemmeno per affermare
in ipotesi che nessuna situazione di
affidamento fosse da ponderarsi ai fini
della necessaria comparazione dell’incisione
delle posizioni in rilievo (v. Cons. St., VI,
04.12.2006, n. 7102 ).
Sotto questo profilo, l’affermazione della
difesa dell’appellante, secondo cui “il
lasso di tempo intercorso tra la
comunicazione di inizio lavori e la
comunicazione di avvio del procedimento”
dovrebbe ritenersi “non sufficiente a
ritenere maturato in capo al concessionario
un legittimo affidamento della validità
della concessione tale da rendere non più
possibile l’annullamento”, deve
considerarsi, ancor prima che infondata,
inammissibile, giacché indebitamente integra
in sede giurisdizionale, con motivazione
postuma e dunque nuova, il decisivo profilo
motivazionale del provvedimento impugnato,
per rimediare ad indubitabili carenze dello
stesso.
Vero è, comunque, che l’affidamento
dell’interessato non è stato affatto
valutato dal Comune nell’esercizio del
potere di autotutela e che, pur consapevole
dell’esigenza dell’individuazione del giusto
punto di equilibrio tra il diritto del
cittadino alla tutela dell’affidamento in
lui ingenerato dal rilascio del titolo e dal
successivo trascorrere del tempo in assenza
di provvedimenti inibitori dell’attività
edilizia assentita e la necessità per il
potere pubblico di esercitare la propria
discrezionalità tecnica nel procedimento di
riesame mediante un adeguato iter
istruttorio, il Collegio non può non
considerare abnorme, anche in considerazione
della non particolare complessità
quali-quantitativa dell’istruttoria
risultante dagli atti, il provvedimento di
annullamento di cui si discute, nella misura
in cui è intervenuto, come sopra rilevato,
circa 29 mesi dopo il rilascio dell’atto
annullato (quando i relativi lavori erano
terminati da quasi quattro mesi) e 14 mesi
dopo la relativa comunicazione di avvio del
procedimento di riesame.
Né può condividersi l’assunto
dell’Amministrazione, secondo cui non
rileverebbe, ai fini della valutazione
dell’affidamento del privato, “il tempo
decorso successivamente alla comunicazione
dell’avvio del procedimento” (ch’è proprio
quello, peraltro, che risulta invece
determinante, ad avviso del Collegio, ai
fini della veduta qualificazione di
abnormità), atteso che, in assenza
dell’esercizio da parte
dell’Amministrazione, in un momento
contestuale o successivo a detta
comunicazione, di qualsivoglia potere
cautelare (riconosciuto in via generale
dalla giurisprudenza ancor prima del
riconoscimento normativo poi operatone dal
comma 2 dell’art. 21-quater della legge n.
241/1990, previsto inoltre nella specifica
materia del governo del territorio dagli
artt. 27 e 39 del D.P.R. n. 327/2001 sub
specie “sospensione lavori” e del tutto incongruamente qui esercitato dal Comune
solo contestualmente al provvedimento di
annullamento, quando i lavori erano da tempo
terminati), alla comunicazione stessa non
può che riconoscersi la sola funzione sua
propria di assicurare all’interessato la
partecipazione al procedimento
amministrativo e non certo quella ulteriore,
che incongruamente il Comune pretende di
attribuirle, di affievolire il suo
affidamento sulla legittimità della
concessione, assistita da presunzione di
validità fino al suo annullamento, una volta
che nemmeno l’Amministrazione abbia ritenuto
di sospenderne tempestivamente, con gli
strumenti datile dall’ordinamento,
l’efficacia.
Non solo, dunque, a differenza di quanto
sostenuto dall’appellante, il tempo
successivo alla comunicazione di avvio del
procedimento di riesame della validità della
concessione edilizia deve ritenersi utile
alla formazione di un legittimo affidamento
in capo al privato titolare della medesima,
ma la stessa sua abnormità (nella
fattispecie circa 14 mesi a fronte del
termine legislativamente fissato in 30
giorni dall’art. 2 della legge n. 241/1990
nella versione ratione temporis applicabile
alla fattispecie) rispetto al brevissimo
termine (15 giorni) dato al privato stesso
con detta comunicazione per la presentazione
di memorie scritte, è indubbiamente valsa a
rafforzare man mano, col trascorrere del
tempo successivo alla scadenza del termine
assegnato al privato per la utile
partecipazione al procedimento, tale
affidamento circa il consolidamento della
propria posizione giuridica e dunque circa
il mantenimento di validità ed efficacia del
provvedimento ampliativo della sua sfera
giuridica.
Né il privato medesimo, come pure
erroneamente sostiene l’Amministrazione, in
quanto “avvisato del rischio di un eventuale
annullamento”, per “avere certezza della sua
situazione giuridica soggettiva”, avrebbe
dovuto “mettere in mora l’amministrazione
per una conclusione tempestiva del
procedimento” ( pag. 7 app. ).
Se, infatti, da un lato la pubblica
amministrazione ha l’obbligo di portare a
compimento i procedimenti amministrativi con
un’azione definita tanto nei modi dalle
varie disposizioni che regolano il
procedimento amministrativo in generale e le
singole fattispecie di procedimento (in
relazione a quello ch’è al tempo stesso il
suo atto conclusivo ed il fine espresso per
il quale il procedimento stesso è stato
instaurato) quanto nei tempi concessi per
la sua definizione (art. 2 della legge n.
241/1990) e dall’altro al soggetto, che a
tale definizione sia interessato, è concesso
di attivare la procedura per la rimozione
dell’inerzia amministrativa con il nuovo
rito previsto dall’art. 2 della legge n.
205/2000, comunque le procedure e gli
strumenti di tutela previsti
dall'ordinamento contro l'inerzia
dell'amministrazione si riferiscono invero
ai casi, nei quali sia riscontrabile
l'inadempimento da parte dell'autorità ad un
obbligo di provvedere sulla istanza del
privato tendente a sollecitare l'esercizio
di un pubblico potere e, quindi,
l'emanazione di un provvedimento di
carattere autoritativo; per cui si palesa
evidente la insussistenza di tali
presupposti in caso di esercizio del potere
di autotutela, ch’è potere tipicamente
discrezionale della Pubblica
amministrazione, che non ha alcun obbligo di
attivarlo e, qualora intenda farlo, deve
valutare la sussistenza o meno di un
interesse che giustifichi la rimozione
dell'atto, valutazione della quale essa sola
è titolare e che non può ritenersi dovuta
nel caso di una situazione già definita con
provvedimento inoppugnabile.
Dato, peraltro, che la certezza delle
situazioni giuridiche definite è essa stessa
un bene irrinunciabile, posto a tutela dei
cittadini (Cons. St., VI, 01.04.1992, n.
201), la stessa non può certo considerarsi
attenuata, come già detto, da una mera
comunicazione di avvio del procedimento
inteso all’adozione di provvedimenti di
annullamento o di modifica di precedenti
determinazioni, una volta che dal concreto
svolgersi del procedimento stesso il privato
abbia buoni motivi di evincere l’abbandono,
da parte della P.A., della volontà di
provvedere nuovamente, sacrificando il suo
interesse al mantenimento dell’efficacia del
provvedimento, sul rapporto come delineato
dal provvedimento stesso; e ciò in ragione
dell’evidente irragionevolezza di un
intervento di tal fatta in relazione al
tempo che va trascorrendo rispetto al
momento in cui, in forza proprio di quel
provvedimento, la sua sfera giuridico-patrimoniale s’è arricchita di un
bene nuovo, come pure in ragione del palese
contrasto con i principi di ragionevolezza,
proporzionalità e correttezza dell’azione
amministrativa di un atto di ritiro, che
sopraggiunga 14 mesi dopo l’inizio del
relativo procedimento, senza, peraltro,
recare né i “segni” di una istruttoria
particolarmente laboriosa e ponderosa, né,
come s’è visto, la puntuale esternazione (con adeguata motivazione della scelta
effettuata) delle ragioni, per le quali si
ritiene prevalente l’interesse pubblico e
recessivo quello privato.
Ne deriva che l’affidamento maturato in capo
all’odierna appellata in relazione al
rilascio della concessione edilizia poi
annullata non presenta margini di incertezza
sufficientemente apprezzabili, rilevando
semmai il mancato utilizzo, da parte
dell’interessato, della facoltà di
sollecitare l’Amministrazione alla
conclusione del procedimento di riesame, più
che sulla legittimità del provvedimento
alfine adottato all’ésito del procedimento
stesso, in un’eventuale sede risarcitoria,
estranea all’oggetto del presente giudizio
come risultante dalla devoluzione operatane
con l’atto di appello.
Quanto, poi, alla verifica, richiesta al
Giudice di legittimità, della correttezza
della valutazione effettuata
dall’Amministrazione circa la sussistenza di
elementi ulteriori rispetto a quello della
mera illegittimità dell’atto da eliminare,
essa va in ogni caso compiuta sulla base
dell’effettiva e specifica situazione
creatasi a séguito del rilascio dell’atto
abilitativo e della situazione, che si
determina a séguito del suo ritiro.
Una simile valutazione risulta nel caso di
specie viziata, come correttamente rilevato
dal TAR, in ordine alla omessa
considerazione, da parte
dell’Amministrazione, in sede di adozione
dell’atto di ritiro, della “incidenza
specifica dell’immobile in questione sulla
vivibilità e funzionalità dell’intero
insediamento abitativo, anche in
considerazione dell’imminente approvazione,
da parte dell’Autorità regionale, della
nuova Variante Generale al P.R.G. adottata
dal Comune di Marino con deliberazione
consiliare n. 62 del 24.11.2000, in
base alla quale l’intervento realizzato
dalla ricorrente doveva ritenersi pienamente
rispondente agli indici di fabbricabilità
ivi contemplati” (pag. 7 sent.).
Ciò non significa, si badi, che il tecnico
chiamato a verificare la conformità
urbanistica dell’intervento già assentito e
la sussistenza delle condizioni per
l’annullamento dell’atto abilitativo avrebbe
dovuto (illegittimamente, come ha buon
gioco ad affermare l’odierno appellante)
“anticipare gli effetti del nuovo e non
ancora approvato P.R.G.” (pag. 8 app.).
Ciò significa invece, piuttosto, che
l’intervenuta adozione di una variante al
P.R.G., nella quale incontestatamente le
nuove norme prevedono il solo intervento
diretto per la sottozona in questione,
all’uopo riprendendo l’indice fondiario da
quello della Tabella “A” delle norme
tecniche del vigente P.R.G. (e quindi
proprio l’indice, di cui è stata fatta
applicazione in sede di rilascio della
concessione edilizia oggetto del qui
controverso atto di annullamento), doveva
portare logicamente l’organo agente in
autotutela ad escludere la intervenuta
menomazione, per effetto dell’effettuato
rilascio della concessione edilizia pur
pacificamente illegittima, di interessi
(nella fattispecie quello ad “un adeguato
apporto di standard urbanistici”, che
l’illegittimo “incremento volumetrico
verrebbe inevitabilmente a compromettere in
modo irreparabile”: così, come s’è visto, la
motivazione del provvedimento oggetto del
giudizio), che lo stesso Comune, con lo
strumento di una Variante al piano in corso
di approvazione (che sarebbe poi
intervenuta circa un mese dopo l’adozione
dell’atto di ritiro di cui si tratta e che
deve ritenersi assistita, in virtù del
regime di pubblicità che la
contraddistingue, dal carattere della
notorietà), laddove, al secondo comma
dell’art. 30 delle nuove NN.TT.A.,
stabilisce che “la variante generale
conferma i caratteri edilizi consolidati con
l’attuazione del vigente P.R.G.” e laddove
conseguentemente (come s’è già detto)
prevede il solo intervento diretto per le
sottozone “B4” e “B5” con un indice
fondiario pari a quello applicato per il
rilascio della concessione edilizia
annullata, ha ritenuto invece recessivi o
comunque adeguatamente soddisfatti dagli standards urbanistici esistenti.
Ne risulta, in definitiva, una valutazione
della sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale all’adozione dell’atto
di ritiro (che, si ricorda, dev’essere
diverso dal mero ripristino della legalità),
illogica e contraddittoria rispetto alla
valutazione dello stesso interesse pubblico
compiuta in sede di nuove scelte di
pianificazione urbanistica; e se ciò non
vale certo a rendere dette scelte
applicabili alla fattispecie relativa alla
pratica edilizia de qua (che si sottrae
ratione temporis alla loro operatività, sì
che esse rilevano, come correttamente deduce
il Comune, per un eventuale accertamento di
conformità ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001), siffatta incongruità rende l’atto di
ritiro stesso, anche in relazione al già
veduto lasso di tempo trascorso dal rilascio
della concessione edilizia oggetto di
annullamento ed alla intervenuta pacifica
esecuzione dei relativi lavori, inidoneo a
giustificare il sacrificio del contrapposto
interesse privato.
Detto sacrificio, peraltro, non risulta
nemmeno legittimato da una adeguata attività
istruttoria quanto all’affermata mancanza,
posta nell’atto di ritiro a supporto della
ritenuta compromissione ad opera
dell’illegittima concessione edilizia di “un
sufficiente grado di funzionalità e
vivibilità dell’attuale insediamento
abitativo” (così, sempre, la veduta
motivazione), di “un adeguato supporto di
standard urbanistici”.
Per escludere, invero, l’applicazione delle
direttive impartite con la propria
precedente deliberazione n. 50 in data 29.10.2001, lo stesso Consiglio Comunale,
con la successiva deliberazione n. 45/2003,
riteneva necessarie “puntuali verifiche in
mérito alla esistenza delle opere di
urbanizzazione nella qualità e nella
quantità previste dalle N.T.A. del vigente
P.R.G. per le zone B”.
Se è vero, dunque, che il P.R.G. stabilisce
un diverso indice fondiario a seconda
dell’intervenuta adozione o meno di Piani
Particolareggiati ovvero di Piani di
Lottizzazione Convenzionati e se è
altrettanto vero che la valutazione del
grado di urbanizzazione dell’area va
effettuata in relazione alla adeguatezza e
fruibilità delle opere di urbanizzazione
medesime tenuto conto sia della consistenza
dell’intervento di cui si tratti sia della
situazione esistente dell’intera zona (il
che vale ad escludere che il dovuto
accertamento possa ritenersi, come pretende
in questa sede l’appellante peraltro in
contrasto con le precedenti vedute sue
determinazioni, contenuto nelle stesse
norme tecniche di attuazione del P.R.G.
allora vigente), la prova rigorosa della
non esistenza e non sufficienza delle opere
di urbanizzazione, quale elemento
imprescindibile dell’istruttoria del
procedimento di cui si tratta, spetta
indubbiamente all’Amministrazione.
Orbene, proprio in relazione a tale
valutazione in concreto (come s’è visto)
ritenuta necessaria dallo stesso organo di
indirizzo politico-amministrativo deve
notarsi come né il provvedimento oggetto del
giudizio, né gli atti della relativa
istruttoria ed in particolare la relazione
del Responsabile del Procedimento), non
illustrino per nulla l’accertamento
effettuato in ordine alla esistenza o meno
di dette opere con particolare riferimento
alla loro consistenza ed eventuale
insufficienza a sopportare l’incremento del
carico urbanistico discendente
dall’intervento illegittimamente assentito;
e ciò a maggior ragione, in presenza di una
pregressa valutazione, da parte del
Consiglio Comunale, in sede di adozione
delle predette nuove scelte pianificatòrie (pur non direttamente rilevanti, come già
detto, nel procedimento di cui si tratta),
di sostanziale sufficienza degli standards
urbanistici nella sottozona de qua.
Né è condivisibile il ribaltamento dell’onere
della prova, che l’Amministrazione tenta in
proposito di operare nell’atto di appello.
Occorre invero notare che il fatto, di cui
deve dare in tal caso prova la pubblica
amministrazione, è un fatto negativo (ossia
la mancanza di un determinato elemento,
assunta a presupposto della valutazione
dell’interesse pubblico posto a base
dell’atto impugnato); e la relativa prova
non può che essere riportata all’interno
dell’obbligo generale incombente
sull’Amministrazione di acquisizione
completa dei fatti (con correlato onere di
trasparenza ed accessibilità) nella sede
procedimentale, la cui funzione ordinatrice
(essendo il procedimento strumento di
affermazione del principio di conformità
dell'azione, attribuendo significato
all'attività amministrativa, in seno alla
quale la fattispecie legale è destinata a
realizzarsi: Cons. St., IV, 21.10.2008,
n. 5154) rende rilevanti, sotto il profilo
della produzione degli effetti definitivi
che il provvedimento conclusivo è destinato
a produrre, tutti quegli atti ("materiale
amministrativo"), che sono stati utilizzati
a tal fine e che comunque incidono sul
risultato finale.
Una volta, sulla base delle considerazioni
di cui sopra, accertata l’illegittimità del
provvedimento di ritiro di cui si tratta per
la mancanza di idonea specifica motivazione
atta a dimostrare le ragioni che lo
sostengono, non può trovare infine nemmeno
adesione l’invocato richiamo, effettuato
dall’Amministrazione nell’atto di appello,
al disposto dell’art. 21-octies della legge
n. 241/1990.
Avendo, invero, il provvedimento, di cui
all’art. 21-nonies della legge n. 241/1990,
carattere tipicamente discrezionale (Cons.
St., V, 07.01.2009, n. 17),
l’Amministrazione, al fine di escludere
l’effetto invalidante del vizio
procedimentale ai sensi dell’art. 21-octies,
comma 2, della stessa legge, ha l’onere di
dimostrare che, anche alla luce della
comparazione con gli affidamenti ingenerati
e di una completa valutazione delle
posizioni antagoniste, la determinazione di
ritiro sia l’unico sbocco decisionale
possibile a séguito del riscontro della
illegittimità dell’atto oggetto di ritiro.
Orbene, una tale dimostrazione manca del
tutto nelle deduzioni dell’appellante, che
pone a base della affermata “evidenza” circa
un non possibile diverso ésito del
procedimento:
- il “palese ed accertato contrasto della
concessione annullata con le norme di piano
regolatore indicate nel provvedimento”,
dimenticando che non è qui in discussione la
sussistenza o meno di siffatto “contrasto”,
quanto, piuttosto, la necessità che,
nell’ipotesi in cui la legittimità
dell'opera edilizia dipenda da valutazioni
discrezionali e di merito tecnico che
possono mutare nel tempo, il potere di
autotutela risulti opportunamente coordinato
con il principio di certezza dei rapporti
giuridici e di salvaguardia del legittimo
affidamento del privato nei confronti
dell'attività amministrativa (Cons. St., IV,
25.01.2008, n. 5811);
- “il parere del tecnico comunale del 17.10.2003, in cui vengono evidenziate in
maniera dettagliata le necessità
urbanistiche dell’area”: parere, questo,
che, come s’è visto, si configura invero
come atto infraprocedimentale privo di
qualsivoglia riferimento alla necessaria e
ponderata valutazione comparativa degli
interessi contrapposti in considerazione e
privo altresì di una accettabile, concreta e
compiuta verifica quanto a quella asserita
mancanza di “adeguato supporto di standard
urbanistici”, che il provvedimento
conclusivo assume come presupposto
dell’interesse pubblico, posto a base del
provvedimento stesso, alla non
compromissione del “già precario assetto urbanistico-edilizio della zona B4
interessata”;
- il “fatto che lo stesso TAR Lazio, in
altre vicende similari, riguardanti sempre
il Comune di Marino ed ambiti omogenei di
P.R.G. equivalenti a quelli in esame, ha
ritenuto invece di non annullare i
provvedimenti di annullamento in autotutela
proprio perché è stata riconosciuta
l’insufficienza degli standard per cui è
causa”: assunto, questo, che pretende
indebitamente di porre a supporto del
procedimento di cui si tratta pronunce
giurisprudenziali ad esso estranee e
successive, peraltro nemmeno passate in
giudicato e comunque facenti stato, com’è
noto, solo tra le parti, che risultano
diverse da quelle del procedimento di
autotutela, di cui si tratta.
L’Amministrazione, insomma, neanche nella
sede giudiziaria è stata in grado di
dimostrare l’ineluttabilità del contrastato
provvedimento mediante la puntuale
esplicitazione o di ragioni già emergenti
dall’istruttoria e rimaste inespresse, o di
accertamenti nel corso della stessa
effettuati e suscettibili di caratterizzare
il provvedimento stesso come necessitato, o
di richiami normativi prima non risultanti
dal provvedimento, ovvero di nuove,
adeguate, giustificazioni sottese alla
scelta discrezionale compiuta con l’atto; il
che vale, in definitiva, ad escludere
l’applicabilità, nella fattispecie,
dell’art. 21-octies, comma 2, seconda parte,
della legge n. 241 del 1990.
L’appello, in definitiva, è da
respingere (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.04.2010 n. 2178 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’annullamento d’ufficio di
concessione edilizia non necessita di
specifica motivazione sul pubblico
interesse, specie se sia disposto in
considerazione della natura permanente del
contrasto con lo strumento urbanistico e
soprattutto se interviene dopo un breve
lasso di tempo dal rilascio dei titoli senza
che l’edificazione sia stata ultimata.
Invero, secondo consolidata giurisprudenza,
l’annullamento d’ufficio di concessione
edilizia non necessita di specifica
motivazione sul pubblico interesse, specie
se sia disposto in considerazione della
natura permanente del contrasto con lo
strumento urbanistico e soprattutto se
interviene dopo un breve lasso di tempo dal
rilascio dei titoli senza che l’edificazione
sia stata ultimata (cfr. Cons. Stato, V
Sez., n. 211/1997; n. 1567/1995 e n.
187/1995) (Nel caso de quo, l’intervallo
temporale fra rilascio della concessione ed
intervento di autotutela va letto tenendo
della sospensione temporale operata dal
provvedimento di sequestro dell’area)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.10.2007 n. 5601 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Alcuni
brevi cenni sul potere di annullamento
ministeriale attribuito dall’art. 82 del
D.P.R. n. 616 del 1977, relativamente a
nulla-osta, autorizzazioni et similia rilasciati dalla Regione o
da altri Enti locali sub-delegati,
specificamente in materia
paesaggistico-ambientale.
Per una migliore comprensione della
controversia all’esame del Collegio giova
premettere alcuni brevi cenni sul potere di
annullamento ministeriale attribuito
dall’art. 82 del D.P.R. n. 616 del 1977,
relativamente a nulla-osta, autorizzazioni
et similia rilasciati dalla Regione o
da altri Enti locali sub-delegati,
specificamente in materia
paesaggistico-ambientale.
Il predetto potere trova il suo fondamento
nella competenza, sicuramente prevalente,
spettante allo Stato in materia di tutela
del paesaggio e, più in generale,
dell’Ambiente, inteso come bene unitario ed
indivisibile di cui, ai sensi dell’art. 9
Cost. risulta titolare direttamente lo
Stato. Se poi le relative funzioni vengono,
in concreto, esercitate, in prima battuta,
dall’Ente Regione delegata o da altri Enti
locali sub-delegati, ciò avviene in
conseguenza del principio costituzionale
decentramento amministrativo (art. 5 Cost.),
vieppiù accentuato dalle recenti Riforme
ispirate al c.d. principio di sussidiarietà,
di derivazione comunitaria, in forza del
quale si verifica un generalizzato
slittamento verso il basso dell’esercizio di
tutte le funzioni amministrative, attraverso
un meccanismo di deleghe e di sub-deleghe
che lasciano al livello istituzionale
sovrastante un ruolo di intervento residuale
e suppletivo.
In buona sostanza, il potere di annullamento
ministeriale esercitato dal Ministero dei
Beni culturali ed ambientali ex art. 82 del
D.P.R. n. 616 del 1977, si configura come un
potere di ultima istanza a tutela di una
competenza propria dello Stato a
salvaguardia dell’interesse pubblico al
paesaggio ed all’ambiente (Cfr. art. 9
Cost.), in un settore in cui sussistono
ulteriori interessi pubblici, quale quello
all’ordinato sviluppo urbanistico del
territorio, facente capo agli enti
territoriali di base, e privati che
potenzialmente potrebbero trovarsi in
contrapposizione con quello alla tutela
dell’Ambiente (inteso come habitat naturale
per l’esistenza stessa dell’uomo ed, in
genere, della vita), la qual cosa rende
necessario ed urgente trovare un equilibrio
fra i predetti interessi, rendendo
compatibili le scelte urbanistiche con
l’articolato e complesso sistema di vincoli
posti, direttamente o indirettamente, dal
Legislatore a tutela del territorio.
Un tale contemperamento è preferibile
avvenga “a monte”, con l’apposita previsione
e predisposizione di piani paesaggistici di
primo livello che condizionano le scelte
urbanistiche dei Comuni in occasione
dell’adozione dei Piani regolatori generali
(P.R.G.), stabilendo se, e con quali
modalità ed entro quali limiti, tenuto conto
della totalità dei vincoli preesistenti
gravanti sul territorio (anche coincidente
con l’intero Comune), ai sensi delle varie
leggi succedutesi nel tempo -prima fra
tutte la fondamentale L. n. 1497 del 1939-
il potere comunale urbanistico di
pianificazione possa trovare pratica e
legittima estrinsecazione.
Tale è il sistema organico a cui si è
ispirata la L. n. 431 del 1985 che si
riprometteva di dare una soluzione radicale
e generalizzata all’annoso problema del
contemperamento dei due interessi pubblici
in esame, sempre in potenziale conflitto, sì
da evitare la disdicevole situazione per cui
un’area considerata urbanizzabile per il
P.R.G., trovasse, poi, impedimenti ad una
tale destinazione a cagione della diversa
considerazione operata sotto il profilo
paesaggistico, per la presenza di vincoli,
almeno in origine, prevalenti.
Purtroppo il sistema su delineato,
implicante la fattiva collaborazione di una
pluralità di soggetti, pubblici e privati,
per più svariate cause -non sempre
commendevoli- non sempre ha funzionato bene
per cui rimane sempre attuale e determinante
quel potere di ultima istanza di
annullamento ex art. 82 del D.P.R. n. 616
del 1977 che il Ministro per i Beni
culturali ed ambientali può esercitare, in
via di autotutela, a salvaguardia di beni
unitari ed indivisibili che, per l’art. 9
Cost., spettano in esclusiva allo Stato.
Ma, se tale è la ratio del potere in esame,
è, altresì, evidente che il suo esercizio,
venendo ad incidere sul diritto di proprietà
dei cittadini, pure costituzionalmente
rilevante (art. 42 Cost.), non può che
esercitarsi entro rigorosi limiti temporali,
anche per ovvie esigenze di certezza del
diritto. Allora il legislatore ha
disciplinato il potere in questione in capo
al Ministro per i beni culturali ed
ambientali ovvero alla Soprintendenza ai
B.A.A.A.S in modo tale che esso debba
esercitarsi entro il ristretto arco di tempo
di giorni sessanta da quando la
documentazione afferente all’autorizzazione
o nulla-osta paesaggistico gli è pervenuta
completa.
Secondo consolidata giurisprudenza (Cfr:
C. di S., Sez. VI, 25.09.1995, n. 963, TAR
Campania, Salerno, 04.06.1997, n. 351), che si
ritiene senz’altro da preferire rispetto a
quella minoritaria, di segno contrario,
richiamata dal ricorrente, il suddetto
termine attiene esclusivamente all’esercizio
del potere di annullamento, sicché è
necessario (e sufficiente) che entro giorni
60 il relativo provvedimento sia stato
emanato, ma non anche comunicato ai
destinatari. Non sussiste, infatti, alcuna
specifica indicazione normativa dalla quale
possa desumersi la natura recettizio del
decreto di annullamento, sicché l’ulteriore
adempimento della sua comunicazione è da
considerarsi afferente esclusivamente alla
fase di integrazione degli effetti
dell’atto, allo scopo di far decorrere il
termine per l’eventuale impugnativa (C. di
S. , Sez. VI, 03.02.1998, n. 131) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 10.04.2007 n. 3193 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Allorquando
l’annullamento in autotutela della
concessione edilizia da parte del Comune
viene disposto non per ragioni prettamente
urbanistiche, ma, doverosamente, in
conseguenza di un provvedimento di
annullamento ministeriale del nulla-osta
paesaggistico, l’interesse pubblico
all’annullamento è in re ipsa per l’assoluta
preminenza dei valori di rango
costituzionale (Cfr. art. 9 Cost.) sottesi
ad entrambi gli atti di autotutela posti in
essere.
---------------
L'annullamento, in autotutela, di una
concessione edilizia non deve essere
preceduto dal parere della Commissione
edilizia nel caso in cui il provvedimento
sia sorretto unicamente da valutazioni
logico-giuridiche (come quando si renda
necessario adeguarsi all’annullamento
ministeriale del nulla-osta paesaggistico) e
non anche e solo da valutazioni di ordine
tecnico-edilizio.
Secondo la giurisprudenza il parere della
commissione comunale edilizia non è
necessario per la revoca di una licenza
edilizia laddove non venga richiesto alcun
apprezzamento tecnico di competenza
dell'organo consultivo ed il provvedimento
di autotutela venga adottato per ragioni
strettamente giuridiche.
Quanto
all’ulteriore argomento secondo cui a
distanza di sette anni dalla realizzazione
delle opere occorrerebbe un adeguata
motivazione circa la sussistenza di un
interesse pubblico attuale ad operare
l’annullamento in sede di autotutela,
considerando anche il consolidamento delle
situazioni giuridiche degli interessati,
basterà rilevare che, allorquando
l’annullamento in autotutela della
concessione edilizia da parte del Comune
viene disposto non per ragioni prettamente
urbanistiche, ma, doverosamente, in
conseguenza di un provvedimento di
annullamento ministeriale del nulla-osta
paesaggistico, l’interesse pubblico
all’annullamento è in re ipsa per l’assoluta
preminenza dei valori di rango
costituzionale (Cfr. art. 9 Cost.) sottesi
ad entrambi gli atti di autotutela posti in
essere.
---------------
Infondata,
quindi, è anche l’ultima censura atteso che
l'annullamento, in autotutela, di una
concessione edilizia non deve essere
preceduto dal parere della Commissione
edilizia nel caso in cui il provvedimento
sia sorretto unicamente da valutazioni
logico-giuridiche (come quando si renda
necessario adeguarsi all’annullamento
ministeriale del nulla-osta paesaggistico) e
non anche e solo da valutazioni di ordine
tecnico-edilizio.
Secondo la giurisprudenza il parere della
commissione comunale edilizia non è
necessario per la revoca di una licenza
edilizia laddove non venga richiesto alcun
apprezzamento tecnico di competenza
dell'organo consultivo ed il provvedimento
di autotutela venga adottato per ragioni
strettamente giuridiche (TAR Sicilia
Catania, 29.12.1981, n. 639) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 10.04.2007 n. 3193 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'annullamento
della concessione risulta giustificato
dalla necessità di applicazione di norme
volte a tutelare interessi pubblici, quali
quelle relative alla distanza tra
fabbricati, che essendo inderogabili
rendono sostanzialmente vincolata
l’iniziativa assunta dal Comune.
Il quarto motivo è volto a riproporre le
doglianze in ordine alla asserita
inesistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale alla eliminazione
dell'atto concessorio, prevalente sul
contrapposto interesse del privato.
A tali argomentazioni è agevole replicare
che, nel caso di specie, come espressamente
indicato nel provvedimento impugnato,
l'annullamento della concessione risultava
giustificato dalla necessità di applicazione
di norme volte a tutelare interessi
pubblici, quali quelle relative alla
distanza tra fabbricati, che essendo
inderogabili rendevano sostanzialmente
vincolata l’iniziativa assunta dal Comune
(cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 12.07.2002, n.
3929) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.05.2006 n. 3201 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
clausola relativa alla salvezza dei diritti
dei terzi deve intendersi nel senso che non
incombe all'autorità che rilascia la
concessione di compiere complesse
ricognizioni giuridico-documentali ovvero
accertamenti in ordine ad eventuali pretese
che potrebbero essere avanzate da soggetti
estranei al rapporto concessorio, essendo
sufficiente per l’Amministrazione
l’acquisizione del titolo che formalmente
abiliti alla concessione.
La clausola
relativa alla salvezza dei diritti dei
terzi, d’altronde, deve intendersi nel senso
che non incombe all'autorità che rilascia la
concessione di compiere complesse
ricognizioni giuridico-documentali ovvero
accertamenti in ordine ad eventuali pretese
che potrebbero essere avanzate da soggetti
estranei al rapporto concessorio, essendo
sufficiente per l’Amministrazione
l’acquisizione del titolo che formalmente
abiliti alla concessione (cfr. Cons. Stato,
Sez. V, 02.10.2002, n. 5165)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.05.2006 n. 3201 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
mero ritardo nell'adempimento degli obblighi
procedimentali non comporta, per ciò solo,
la possibilità del risarcimento danni per
responsabilità dell'Amministrazione, ove non
si riscontri la sussistenza di un interesse
pretensivo del privato che abbia per oggetto
la tutela di interessi sostanziali, come nel
caso di mancata emanazione o di ritardo
nella emanazione di un provvedimento
amministrativo vantaggioso per
l'interessato.
Per
quanto riguarda, infine, la contestuale
richiesta intesa ad ottenere il risarcimento
dei danni, essa non può che venire disattesa
in questa sede, dovendosi condividere
l'autorevole orientamento giurisprudenziale
secondo cui il mero ritardo nell'adempimento
degli obblighi procedimentali non comporta,
per ciò solo, la possibilità del
risarcimento danni per responsabilità
dell'Amministrazione, ove non si riscontri
la sussistenza di un interesse pretensivo
del privato che abbia per oggetto la tutela
di interessi sostanziali, come nel caso di
mancata emanazione o di ritardo nella
emanazione di un provvedimento
amministrativo vantaggioso per l'interessato
(Cons. Stato, Ad. Plen. 15.09.2005, n. 7)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.05.2006 n. 3201 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
appare neppure condivisibile l’ultima
censura dedotta in ricorso e cioè la
mancanza dell’interesse pubblico
all’annullamento della rilasciata
concessione in variante, dal momento che,
oramai per giurisprudenza costante, va
ritenuto che quando il provvedimento di
autotutela si basa sul contrasto dell’opera
da realizzare con gli strumenti urbanistici
l’interesse pubblico all’annullamento è in
re ipsa e non è necessaria una specifica
motivazione al riguardo.
Oltre tutto il breve lasso di tempo
intercorso tra il rilascio della concessione
e il suo annullamento (circa sei mesi),
peraltro rilevato dalla motivazione del
provvedimento stesso laddove si specifica
che non sono neppure iniziati i lavori di
costruzione, essendo limitati ad un parziale
sbancamento, impedisce che si siano
consolidate posizioni soggettive anche di
affidamento sì da rendere necessaria una
precisa e puntuale motivazione in ordine al
detto interesse pubblico.
Non appare neppure condivisibile l’ultima
censura dedotta in ricorso e cioè la
mancanza dell’interesse pubblico
all’annullamento della rilasciata
concessione in variante, dal momento che,
oramai per giurisprudenza costante, va
ritenuto che quando il provvedimento di
autotutela si basa sul contrasto dell’opera
da realizzare con gli strumenti urbanistici
l’interesse pubblico all’annullamento è
in re ipsa e non è necessaria una
specifica motivazione al riguardo (TAR
Veneto, sez. II, 09.10.2003, n. 5227).
Oltre tutto il breve lasso di tempo
intercorso tra il rilascio della concessione
e il suo annullamento (circa sei mesi),
peraltro rilevato dalla motivazione del
provvedimento stesso laddove si specifica
che non sono neppure iniziati i lavori di
costruzione, essendo limitati ad un parziale
sbancamento, impedisce che si siano
consolidate posizioni soggettive anche di
affidamento sì da rendere necessaria una
precisa e puntuale motivazione in ordine al
detto interesse pubblico (TAR Sicilia,
Catania, sez. I, 17.06.2003, n. 965)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 15.06.2005 n. 1110 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
presenza della realizzazione di una
significativa parte delle opere assentite,
non può l’Amministrazione, tornando, dopo
oltre un anno, sul titolo concessorio
rilasciato, disporne l’annullamento per
semplici ragioni di ripristino della
legalità.
E, invero, correttamente il TAR ha escluso
che il provvedimento di annullamento di
concessione edilizia fosse correttamente
motivato sotto il profilo dell’interesse
pubblico e della comparazione con quello
privato.
In presenza, infatti, come nella specie,
della realizzazione di una significativa
parte delle opere assentite, non può
l’Amministrazione, tornando, dopo oltre un
anno, sul titolo concessorio rilasciato,
disporne l’annullamento per semplici ragioni
di ripristino della legalità; e ciò tanto
più dopo avere assunto, nel tempo (e,
precisamente, a partire dal 1988), a favore
della Cooperativa, una serie di
determinazioni, mai rimosse dal mondo
giuridico (sebbene pure esse adottate
nell’asserita assenza di validità del P. di
Z.), tali da avere determinato un più che
valido e legittimo affidamento, da parte
della Cooperativa stessa, in merito alla
realizzabilità dell’intervento,
concretizzatasi, poi, con il rilascio del
contestato titolo edificatorio (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 12.11.2003 n. 7218 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
potere di annullamento di una concessione
edilizia prescinde dalla valutazione del
pubblico interesse, che è in re ipsa.
... considerato che il potere di
annullamento ex art. 98 L.R. 61/1985 (ndr:
annullamento dei provvedimenti comunali, da
parte del consiglio provinciale)
prescinde dalla valutazione del pubblico
interesse, che è in re ipsa (cfr.
Cons. St., IV, 16.03.1998 n. 443)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 09.10.2003 n. 5227 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Al
momento dell’adozione del provvedimento di
annullamento, della concessione edilizia,
erano già stati da tempo realizzati i lavori
di costruzione della rimessa e si era già
innescata, tra interessati e Comune, una
precedente vicenda contenziosa in quanto gli
odierni appellanti, nel realizzare l’opera,
non si sarebbero conformati al titolo
edificatorio del 1992.
Ebbene, è da ritenere, in questa situazione,
che gli interessati abbiano maturato un
legittimo affidamento in merito alla
realizzabilità delle opere in questione (e
alla loro piena conformità alle disposizioni
contenute nello strumento pianificatorio),
quanto meno se e in quanto rispettosa dei
limiti fissati in concessione; anzi, il
fatto che la contestazione del 1994 avesse
rilevato solo una eccedenza di altezza non
consentita e non avesse, per contro, nulla
dedotto in merito alla sussistenza dei
presupposti di fatto e di diritto
preordinati al rilascio del titolo
edificatorio, va rivisto come elemento
capace di radicare ulteriormente, nel
privato, il convincimento in merito alla
legittimità, sotto tali profili, del titolo
stesso.
Con la conseguenza che gli ulteriori
provvedimenti del 2002 appaiono adottati ad
una distanza di tempo tale da richiedere
l’idonea motivazione di cui si è detto;
motivazione (tanto più necessaria allorché,
come nella specie, siano passati altri sette
anni prima dell’adozione, da parte
dell’Amministrazione, delle iniziative
demolitorie di cui si tratta) che, per ciò
stesso, non può essere legata al puro e
semplice ripristino della legalità, ma deve
dar conto della sussistenza di un interesse
pubblico attuale e concreto alla rimozione
del titolo in questione (ad esempio, per
significative ragioni legate alla tutela
della igiene e sanità, della sicurezza,
dell’ambiente etc.) e della comparazione tra
tale interesse e l’entità del sacrificio
imposto all’interesse del privato.
Osserva, però, il Collegio che, al momento
dell’adozione del provvedimento di
annullamento del 1995, erano già stati da
tempo realizzati i lavori di costruzione
della rimessa e che, inoltre, si era
innescata, tra interessati e Comune, una
precedente vicenda contenziosa (definita con
la citata sentenza di improcedibilità n.
349/2001) in quanto gli odierni appellanti,
nel realizzare l’opera, non si sarebbero
conformati al titolo edificatorio del 1992.
Ebbene, è da ritenere, in questa situazione,
che gli interessati abbiano maturato un
legittimo affidamento in merito alla
realizzabilità delle opere in questione (e
alla loro piena conformità alle disposizioni
contenute nello strumento pianificatorio),
quanto meno se e in quanto rispettosa dei
limiti fissati in concessione; anzi, il
fatto che la contestazione del 1994 avesse
rilevato solo una eccedenza di altezza non
consentita e non avesse, per contro, nulla
dedotto in merito alla sussistenza dei
presupposti di fatto e di diritto
preordinati al rilascio del titolo
edificatorio, va rivisto come elemento
capace di radicare ulteriormente, nel
privato, il convincimento in merito alla
legittimità, sotto tali profili, del titolo
stesso (salve restando, naturalmente, le
problematiche relative agli eventuali abusi
in sede di realizzazione delle opere, che
non possono, però, indurre a ritenere
l’illegittimità del titolo, al contrario,
confermato nei suoi contenuti).
Con la conseguenza che gli ulteriori
provvedimenti del 2002 appaiono adottati ad
una distanza di tempo tale da richiedere
l’idonea motivazione di cui si è detto;
motivazione (tanto più necessaria allorché,
come nella specie, siano passati altri sette
anni prima dell’adozione, da parte
dell’Amministrazione, delle iniziative
demolitorie di cui si tratta) che, per ciò
stesso, non può essere legata al puro e
semplice ripristino della legalità, ma deve
dar conto della sussistenza di un interesse
pubblico attuale e concreto alla rimozione
del titolo in questione (ad esempio, per
significative ragioni legate alla tutela
della igiene e sanità, della sicurezza,
dell’ambiente etc.) e della comparazione tra
tale interesse e l’entità del sacrificio
imposto all’interesse del privato (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 01.03.2003 n. 1150 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
illegittimo il provvedimento di revoca
dell'autorizzazione edilizia rilasciata dal
quale non solo non
emergono neppure in via indiretta o
implicita motivazioni o ragioni di
particolare interesse pubblico alla sua
emanazione, ma anzi è dato ragionevolmente
desumere ragioni di puro interesse
privatistico a difesa di diritti di terzi
che la legge fa comunque salvi e
che ben possono essere tutelati in altra e
più opportuna sede senza coinvolgere
l’amministrazione comunale in beghe di
condominio.
Sotto il profilo del c.d. “ripristino della
legalità”, non possono essere legittimamente
addotte solo motivazioni correlate alla mera
tutela dell’interesse privatistico dei
terzi; tale interesse è fatto normalmente
salvo da tutti i provvedimenti autorizzatori
o concessori in ambito edilizio, mentre non
spetta all’Amministrazione prendere
posizione su di esso allorché non sia
denegata la legittimazione dell’interessato
(quanto meno nella veste di comproprietario)
al rilascio del titolo richiesto e non si
faccia questione in merito alla eventuale
lesione di norme poste a tutela di interessi
primari curati dall’Amministrazione (ad
esempio, norme igienico-sanitarie) che,
indirettamente, tutelano anche la posizione
dei terzi.
Inoltre, trattandosi di provvedimento teso a
rimuovere una precedente determinazione
ampliativa della sfera giuridica
dell’interessato, non può esso non recare (e
a maggior ragione, nel caso di specie, in
quanto emanato ad oltre tre anni dal
rilascio del titolo autorizzatorio e ad
opere ormai eseguite) puntuali precisazioni
in merito all’interesse pubblico in concreto
tutelato che vadano al di là del mero
ripristino della legalità e,
correlativamente, in ordine al pregiudizio
che lo stesso, in quanto incidente
sull’affidamento ingenerato nel privato, è
in grado di produrre nella sfera di
quest’ultimo.
Con la sentenza appellata il TAR ha
rigettato il ricorso proposto dall’odierno
appellante per l’annullamento del
provvedimento 14.02.1995 con il quale il
Sindaco di Trento ha revocato
l’autorizzazione edilizia 21.09.1992, n.
20329.
...
Esattamente deduce l’interessato, con il
terzo motivo del ricorso di primo grado, che
dal provvedimento impugnato “non solo non
emergono neppure in via indiretta o
implicita motivazioni o ragioni di
particolare interesse pubblico alla sua
emanazione, ma anzi è dato ragionevolmente
desumere ragioni di puro interesse
privatistico a difesa di diritti di terzi
che la legge faceva e fa comunque salvi e
che ben potevano essere tutelati in altra e
più opportuna sede senza coinvolgere
l’amministrazione comunale in beghe di
condominio”.
E, in effetti, sotto il profilo del c.d. “ripristino
della legalità”, non potevano essere
legittimamente addotte solo motivazioni
correlate alla mera tutela dell’interesse
privatistico dei terzi; tale interesse è
fatto normalmente salvo –come, nella specie,
è stato fatto espressamente salvo- da tutti
i provvedimenti autorizzatori o concessori
in ambito edilizio, mentre non spetta
all’Amministrazione prendere posizione su di
esso allorché non sia denegata –come nel
caso in esame, non è stata denegata- la
legittimazione dell’interessato (quanto meno
nella veste di comproprietario) al rilascio
del titolo richiesto e non si faccia
questione in merito alla eventuale lesione
di norme poste a tutela di interessi primari
curati dall’Amministrazione (ad esempio,
norme igienico-sanitarie) che,
indirettamente, tutelano anche la posizione
dei terzi.
Che la titolarità del sottotetto debba fare
capo al richiedente il titolo concessorio o
al condominio è, del resto, questione che
involge esclusivamente i rapporti
interprivati ed eventuali controversie in
materia possono essere definite solo dal
giudice competente; mentre non può sposare
l’Amministrazione la posizione di uno dei
contendenti, né addurre a supporto delle
proprie determinazioni sopravvenienze
giuridiche (nella specie, decreto tavolare
del 26.01.1994), potenzialmente controverse
nei loro contenuti e che incidono, a loro
volta, su rapporti interprivati.
Inoltre, trattandosi di provvedimento teso a
rimuovere una precedente determinazione
ampliativa della sfera giuridica
dell’interessato, non poteva esso non
recare, anche in quanto emanato ad oltre tre
anni dal rilascio del titolo autorizzatorio
e ad opere ormai eseguite, puntuali
precisazioni in merito all’interesse
pubblico in concreto tutelato che andassero
al di là del mero ripristino della legalità
e, correlativamente, in ordine al
pregiudizio che lo stesso, in quanto
incidente sull’affidamento ingenerato nel
privato, era in grado di produrre nella
sfera di quest’ultimo (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 19.02.2003 n. 899 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
N.T.A. sono atti a contenuto generale,
recanti prescrizioni a carattere normativo e
programmatico, destinate a regolare la
futura attività edilizia e, in quanto tali,
non sono di per sé immediatamente lesive di
posizioni giuridiche soggettive di singoli,
per cui la loro impugnazione può avvenire
soltanto unitamente all’impugnazione del
provvedimento che ne costituisca la concreta
applicazione e il termine per la
proposizione del relativo ricorso decorre
non dalla data di pubblicazione della norma
di piano, bensì dalla piena conoscenza del
provvedimento esecutivo.
Le N.T.A., infatti, sono atti a contenuto
generale, recanti prescrizioni a carattere
normativo e programmatico, destinate a
regolare la futura attività edilizia e, in
quanto tali, non sono di per sé
immediatamente lesive di posizioni
giuridiche soggettive di singoli, per cui la
loro impugnazione può avvenire soltanto
unitamente all’impugnazione del
provvedimento che ne costituisca la concreta
applicazione e il termine per la
proposizione del relativo ricorso decorre
non dalla data di pubblicazione della norma
di piano, bensì dalla piena conoscenza del
provvedimento esecutivo (cfr. Cons. St., IV,
13.08.1997, n. 845; Cons. St., V,
29.04.1991, n. 699; Cons. St., IV,
06.10.1983, n. 700)
(cfr. Cass. civ., 25.08.1989, n. 3762)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.07.2002 n. 3929 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
D.M. 02.04.1968 n. 1444, emanato in forza
dell’art. 17 della <<legge ponte>>, trae da
questa la forza di integrare con efficacia
precettiva il regime delle distanze nelle
costruzioni, sicché l’inderogabile distanza
di dieci metri tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti vincola anche i
Comuni in sede di formazione e di revisione
degli strumenti urbanistici, con la
conseguenza che ogni previsione
regolamentare in contrasto con l’anzidetto
limite minimo è illegittima, essendo
consentita alla P.A. solo la fissazione di
distanze superiori.
Non può, pertanto, escludersi la
legittimazione e l’interesse del privato
confinante ad impugnare le norme dello
strumento urbanistico comunale ed i
conseguenti atti applicativi nel momento in
cui in base ad essi sia prevista a favore
del vicino costruttore una consistente
deroga alla rigida osservanza delle distanze
tra fabbricati di cui al D.M. n.1444/1968
cit., nella specie attuata, come dedotto
dagli appellati, tramite la demolizione di
un edificio preesistente -una villetta- e la
ricostruzione al suo posto di un fabbricato
di sei piani posto a una distanza inferiore
ai dieci metri prescritti; la deroga,
infatti, viene ritenuta ammissibile
unicamente nei casi di demolizione e
ricostruzione in forma fedele (quantomeno
nelle medesime dimensioni esterne), non
potendosi ritenere sussistente in tal caso
una nuova costruzione, ma solo il suo
recupero, con una serie di interventi
assimilabili alla manutenzione
straordinaria.
Il D.M.
02.04.1968 cit., infatti, emanato in forza
dell’art. 17 della <<legge ponte>>
trae da questa la forza di integrare con
efficacia precettiva il regime delle
distanze nelle costruzioni, sicché
l’inderogabile distanza di dieci metri tra
pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti vincola anche i Comuni in sede di
formazione e di revisione degli strumenti
urbanistici, con la conseguenza che ogni
previsione regolamentare in contrasto con
l’anzidetto limite minimo è illegittima
(cfr. Cass. civ., SS.UU., 21.02.1994,
n.1645), essendo consentita alla P.A. solo
la fissazione di distanze superiori (cfr.
Cons. St., IV, 13.05.1992, n. 511; Cass.
civ., 29.10.1994, n. 8944; id., 21.02.1994,
n. 1645; id. 04.02.1998, n.1132); non può,
pertanto, escludersi la legittimazione e
l’interesse del privato confinante ad
impugnare le norme dello strumento
urbanistico comunale ed i conseguenti atti
applicativi nel momento in cui in base ad
essi sia prevista a favore del vicino
costruttore una consistente deroga alla
rigida osservanza delle distanze tra
fabbricati di cui al D.M. n. 1444/1968 cit.,
nella specie attuata, come dedotto dagli
appellati, tramite la demolizione di un
edificio preesistente -una villetta- e la
ricostruzione al suo posto di un fabbricato
di sei piani posto a una distanza inferiore
ai dieci metri prescritti; la deroga,
infatti, viene ritenuta ammissibile
unicamente nei casi di demolizione e
ricostruzione in forma fedele (quantomeno
nelle medesime dimensioni esterne), non
potendosi ritenere sussistente in tal caso
una nuova costruzione, ma solo il suo
recupero, con una serie di interventi
assimilabili alla manutenzione straordinaria
(cfr. Cass. civ., 25.08.1989, n. 3762)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.07.2002 n. 3929 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 16.08.2012 |
ã |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
APPALTI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
G.U. 14.08.2012 n. 189, suppl. ord. n.
173/L, "Testo
del decreto-legge 06.07.2012, n. 95,
coordinato con la legge di conversione
07.08.2012, n. 135, recante:
“Disposizioni urgenti per la revisione della
spesa pubblica con invarianza dei servizi ai
cittadini nonché misure di rafforzamento
patrimoniale delle imprese del settore
bancario”. |
VARI: G.U.
14.08.2012 n. 189 "Regolamento recante
riforma degli ordinamenti professionali, a
norma dell’articolo 3, comma 5, del
decreto-legge 13.08.2011, n. 138,
convertito, con modificazioni, dalla legge
14.09.2011, n. 148"
(D.P.R.
07.08.2012 n. 137). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 33 del
14.08.2012, "Criteri e modalità per la
redazione, la presentazione e la valutazione
delle domande per il riconoscimento della
figura di tecnico competente in acustica
ambientale" (deliberazione
G.R. 06.08.2012 n. 3935). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 33 del
14.08.2012, "Criteri per l’installazione
e l’esercizio degli impianti di produzione
di energia collocati sul territorio
regionale" (deliberazione
G.R. 06.08.2012 n. 3934). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
G.U.U.E. 24.07.2012 n. L 197/1 "DIRETTIVA
2012/18/UE DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL
CONSIGLIO del 04.07.2012 sul controllo
del pericolo di incidenti rilevanti connessi
con sostanze pericolose, recante modifica e
successiva abrogazione della direttiva
96/82/CE del Consiglio" (link a
http://eur-lex.europa.eu).
---------------
Una
consultazione pubblica prima di costruire
fabbriche.
Consultazione pubblica sui progetti, piani e
programmi prima di costruire lo
stabilimento, salva la possibilità di azioni
legali se non sono state fornite adeguate
informazioni. Norme più rigorose per
l'ispezione degli stabilimenti per garantire
una maggiore efficacia delle norme di
sicurezza. Non solo, ma d'ora innanzi,
chiunque deve poter disporre delle
informazioni sui rischi industriali, per via
informatica, perché tutti gli stabilimenti
dovranno fornire le indicazioni sui sistemi
d'allarme e sulle norme di comportamento in
caso di grave incidente.
È quanto prevede la
DIRETTIVA 2012/18/UE DEL PARLAMENTO EUROPEO
E DEL CONSIGLIO del 04.07.2012,
sul controllo del pericolo di incidenti
connessi con sostanze pericolose, entrata in
vigore ieri.
La direttiva, nota come Seveso III, prevede
che gli stati membri dovranno applicare le
nuove norme dall'01.06.2015, data in cui
diventa applicabile la legislazione sulla
classificazione delle sostanze chimiche in
Europa. In particolare, prevede che in caso
di incidente, le autorità dovranno
informarne tutti gli interessati comunicando
le principali misure del caso. Le modifiche
in termini di pianificazione del territorio
comporteranno l'introduzione di una distanza
«di sicurezza» nei progetti relativi a nuovi
stabilimenti e infrastrutture da costruire
vicino agli stabilimenti esistenti.
Quando
le autorità e le imprese giudicano che siano
presenti rischi di incidenti gravi e
adottano le misure per farvi fronte,
dovranno tenere in maggior conto il
potenziale aumento dei rischi dovuto alla
vicinanza di altri siti industriali e le
potenziali ripercussioni sugli impianti
vicini. Le disposizioni rientrano in un
aggiornamento tecnico sotto altri aspetti
della direttiva Seveso, che è strumento
essenziale nella gestione dei rischi
industriali, la quale viene adeguata alla
luce della recente evoluzione della
classificazione delle sostanze chimiche a
livello europeo e internazionale.
La
direttiva obbliga anche gli Stati membri a
preparare piani di emergenza per le zone
intorno agli impianti industriali in cui si
trovano ingenti quantitativi di sostanze
pericolose
(articolo ItaliaOggi del 14.08.2012). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI:
Mediaconciliazione estesa alla
p.a.. Amministrazione rappresentata da
dirigenti o dipendenti. Circolare della
funzione pubblica sul dlgs 28/2010.
L'Avvocatura dello stato farà solo
consulenza.
Mediaconciliazione
aperta anche alla p.a. Ma solo per le
controversie che riguardano la
responsabilità della pubblica
amministrazione per atti di natura non
autoritativa. La direttiva Ue sulla
mediazione civile e commerciale (2008/52/Ce)
che, assieme alla legge delega n. 69/2009,
ha ispirato il dlgs 28/2010 esclude infatti
dal proprio ambito di applicazione «la
materia fiscale, doganale e amministrativa»
oltre alla «responsabilità dello stato per
atti o omissioni nell'esercizio di pubblici
poteri». A rappresentare la p.a. davanti
agli organismi di conciliazione non sarà
però né l'Avvocatura dello stato (che potrà
svolgere solo funzione consultiva) né gli
avvocati del libero foro, ma il dirigente
dell'Ufficio competente in materia o un
dipendente, privo di qualifica dirigenziale,
dotato di «comprovata e particolare
competenza». L'Avvocatura dello stato
interverrà dinanzi all'organismo di
conciliazione «solo in casi eccezionali,
giustificati dalla particolare rilevanza
della potenziale controversia». E, in ogni
caso, «non sostituendo, ma affiancando il
rappresentante dell'amministrazione». Le
p.a., infine, dovranno avvalersi
dell'organismo di mediazione più economico e
per sceglierlo dovranno bandire una gara.
Sono questi i principali chiarimenti della
circolare 10.08.2012 n. 9/2012
emanata dal dipartimento della funzione
pubblica per assicurare un'omogenea
attuazione della mediazione civile e
commerciale da parte delle p.a.
Dopo aver ribadito che la conciliazione è
esperibile solo per risolvere controversie
sorte tra privati, o tra privati e pubbliche
amministrazioni che agiscono «iure
privatorum», la circolare ribadisce che
ai sensi del dlgs 28/2010 il ricorso a
procedure deflative del contenzioso è
facoltativo per le cause civili e
commerciali aventi ad oggetto diritti
disponibili, mentre è obbligatorio per le
liti condominiali e in materia di diritti
reali, divisione, successioni ereditarie,
patti di famiglia, locazione, comodato,
affitto di azienda, risarcimento del danno
derivante dalla circolazione dei veicoli,
responsabilità medica, diffamazione a mezzo
stampa, contratti assicurativi, bancari e
finanziari.
A queste tipologie va poi aggiunta la
conciliazione in materia di lavoro, prevista
dal codice di procedura civile (art. 410) e
applicabile anche alle pubbliche
amministrazioni. Restano invece escluse
dalla mediaconciliazione le cause di
risarcimento per violazione del termine
ragionevole di durata dei processi ai sensi
della legge Pinto (legge n. 89/2001) dal
momento che «il potere giurisdizionale
rientra nell'esercizio dell'attività
amministrativa di natura autoritativa».
Delineati i confini della mediazione, la
circolare di palazzo Vidoni fornisce
indicazioni su ciò che l'amministrazione,
come parte attrice o convenuta, deve fare ai
fini dell'eventuale transazione. Nelle
procedure di mediazione l'Avvocatura dello
stato, a cui ordinariamente spetta la difesa
in giudizio della p.a., svolgerà
esclusivamente funzione consultiva, intesa
come «assistenza tecnica complementare».
«Trattandosi di procedura non
riconducibile alla tutela legale contenziosa»,
scrive il ministro della funzione pubblica,
Filippo Patroni Griffi, «resta infatti
esclusa la rappresentanza processuale e la
difesa in giudizio delle amministrazioni
patrocinate da parte dell'Avvocatura dello
stato». Le p.a. non potranno avvalersi
neppure dell'assistenza di avvocati del
libero foro. Largo dunque ai dirigenti
oppure ai dipendenti, privi di qualifica
dirigenziale, che siano dotati di «comprovata
e particolare competenza e esperienza nella
materia del contenzioso».
La nota della funzione pubblica dà alle
amministrazioni qualche suggerimento su come
scegliere questi dipendenti secondo criteri
«trasparenti e oggettivi». Meglio
dunque affidare l'incarico a dipendenti di
area III del comparto ministeri, o di
categoria equiparata, con formazione di tipo
giuridico-economico, in possesso della
laurea o del diploma di laurea, che potranno
essere coadiuvati da personale tecnico o
professionale. Gli enti potranno in ogni
caso scegliere se assegnare la funzione di
rappresentanza a un ufficio dirigenziale già
esistente, centralizzando in questo modo la
competenza sulla procedura di mediazione, o
attribuire la funzione all'ufficio
dirigenziale di volta in volta competente
per materia.
Pur escludendo la rappresentanza da parte
dell'Avvocatura dello stato, la nota di
palazzo Vidoni ritiene opportuno che le p.a.
si rivolgano agli avvocati erariali per un
motivato parere tutte le volte in cui «il
tentativo di transazione riguardi
controversie di particolare rilievo, dal
punto di vista della materia che ne
costituisce l'oggetto o degli effetti in
termini finanziari che ne potrebbero
conseguire anche con riferimento al numero
di ulteriori controversie che potrebbero
derivarne». Al di fuori di questi casi,
il parere all'Avvocatura andrà chiesto solo
quando il dirigente si sia espresso
(motivando la sua scelta) in senso
favorevole alla conclusione dell'accordo (articolo
ItaliaOggi del 15.08.2012). |
NEWS |
VARI: Senza
pista ciclabile occhio al semaforo.
Se il ciclista pedala
fuori dalla sede stradale ordinaria deve
omologare il suo comportamento a quello
degli altri utenti deboli presenti sul
tracciato. In particolare nel caso di piste
ciclopedonali agli incroci dovrà osservare
le lanterne semaforiche dedicate ai pedoni
oppure quelle riservate alle biciclette
sulle piste ciclabili, se installate. In
mancanza di piste e tracciati riservati agli
utenti a pedali anche il ciclista osserverà
le normali regole del traffico veicolare e
dovrà quindi fermarsi al semaforo a fianco
dei mezzi a motore.
Lo ha chiarito il Ministero dei Trasporti
con il parere 04.07.2012 n. 3936 di prot..
La questione dell'arresto dei ciclisti ai
semafori pedonali è stata oggetto di
interpretazioni contrastanti a seguito di un
precedente parere del ministero
dell'01.06.2012. In pratica in questa nota
d'inizio estate l'organo centrale di
coordinamento tecnico del codice stradale
evidenziava la necessità per tutti i
ciclisti di osservare agli incroci (senza
piste ciclabili con semafori ad hoc)
le indicazioni delle lanterne semaforiche
pedonali.
La questione ha subito suscitato clamore tra
gli addetti ai lavori e per questo il
ministero è tornato sul punto articolando
meglio la precedente risposta. Nel caso di
piste ciclabili con tanto di attraversamento
dedicato possono essere impiegate lanterne
semaforiche speciali per velocipedi. Ma si
tratta di esperienze ancora poco diffuse sul
territorio nazionale.
Più comunemente in Italia i velocipedi
circolano in promiscuo con gli altri veicoli
oppure sulle piste ciclopedonali assieme ai
pedoni. Solo in questo caso i ciclisti sono
tenuti ad attraversare gli incroci sugli
attraversamenti pedonali, anche in sella
alla bicicletta, osservando le indicazioni
delle lanterne semaforiche (articolo
ItaliaOggi del 15.08.2012). |
CONDOMINIO: Giardino,
area destinata a parcheggio.
«La delibera assembleare
di destinazione a parcheggio di un'area di
giardino condominiale, interessata solo in
piccola parte da alberi di alto fusto e di
ridotta estensione rispetto alla superficie
complessiva, non dà luogo a una innovazione
vietata dall'art. 1120 cod. civ., non
comportando tale destinazione alcun
apprezzabile deterioramento del decoro
architettonico, né alcuna significativa
menomazione del godimento e dell'uso del
bene comune, e anzi, da essa derivando una
valorizzazione economica di ciascuna unità
abitativa e una maggiore utilità per i
condòmini».
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione
(sent. n. 15319/2011, inedita) (articolo
ItaliaOggi del 15.08.2012). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Una
frenata ai documenti inutili. In ogni atto
pubblico lista degli oneri per cittadini e
imprese. Dopo l'ok del Consiglio di stato il
dpcm è in dirittura. Obbligatorio il
referente dei reclami.
Un responsabile a cui i
cittadini possano inoltrare i reclami contro
provvedimenti amministrativi, circolari e
regolamenti ministeriali. I quali dovranno
essere sempre pubblicati sui siti internet
delle p.a. allo scopo di rendere trasparenti
tutti gli oneri informativi gravanti sui
cittadini e sulle imprese, introdotti o
eliminati con gli atti medesimi.
È ormai in dirittura il dpcm attuativo
dell'articolo 7, comma 2, della legge
11.11.2011, n. 180, vale a dire lo Statuto
delle imprese, che punta a responsabilizzare
le amministrazioni dello Stato per evitare
oneri sproporzionati rispetto alle esigenze
di tutela degli interessi pubblici e a
rendere immediatamente conoscibili ai
cittadini e alle imprese questi adempimenti.
Il Consiglio di stato, con il
parere 19.07.2012 n. 3326, ha
dato il via libera al decreto, con una serie
di spunti e suggerimenti di integrazione del
testo. Gli oneri informativi toccati dal
provvedimento sono tutti quegli adempimenti
che comportino la raccolta, elaborazione,
trasmissione, conservazione e produzione di
informazioni e documenti alla pubblica
amministrazione.
In parole povere, carte e documenti da
girare agli uffici. Con riferimento, dunque,
a ogni regolamento o provvedimento
amministrativo, il cittadino dovrà sapere se
tali atti introducono o riducono gli oneri
in questione, mentre in relazione alle
modalità di presentazione dei reclami, la
legge 180 e il dpcm specificano che si
tratta di un tassello essenziale ai fini
della valutazione degli eventuali profili di
responsabilità dei dirigenti preposti agli
uffici interessati. Insomma, chi non
risponde, paga.
Nei quattro articoli del decreto si
stabiliscono i criteri e le modalità di
pubblicazione delle informazioni sui siti
istituzionali, grazie a una apposita sezione
denominata «oneri informativi»
introdotti ed eliminati e individuando i
soggetti responsabili dell'allegazione,
dell'istruttoria e della pubblicazione.
L'articolo 3 riguarda invece le modalità di
presentazione dei reclami, e prescrive la
pubblicazione sul sito dei riferimenti del
responsabile del trattamento reclami, nonché
la casella di posta elettronica a cui
scrivere, e l'obbligo di inoltrare i reclami
anche all'Ispettorato della funzione
pubblica per il previsto monitoraggio.
Entro nove mesi dell'entrata in vigore del
regolamento scatterà una valutazione sulle
modalità di attuazione delle disposizioni,
dopo aver sentito le associazioni di
categoria rappresentative a livello
nazionale, allo scopo eventualmente di
rivedere e integrare lo stesso regolamento.
Il giudizio di palazzo Spada sul dpcm è «sostanzialmente
positivo», ma non mancano osservazioni
sullo schema di regolamento, e non solo di
forma. Il parere suggerisce ad esempio di
fare riferimento alla pubblicazione dei
regolamenti ministeriali o
interministeriali, dei provvedimenti
amministrativi a carattere generale ma anche
di circolari e atti di indirizzo, ai quali
allegare l'elenco degli oneri informativi
introdotti o eliminati.
Altro suggerimento, precisare che il
regolamento si applica soltanto alle
amministrazioni dello Stato e specificare
meglio la natura di «onere informativo»,
intendendo con esso qualunque adempimento
previsto per determinate categorie di
cittadini o imprese o per le generalità
degli stessi, di raccogliere, elaborare,
conservare, produrre e trasmettere dati,
notizie, comunicazioni, relazioni,
dichiarazioni, istanze e documenti alle
p.a., anche su richiesta di queste ultime, a
determinate scadenze o con periodiche
cadenze.
Ovviamente non rientrano tra gli oneri
informativi gli obblighi di natura fiscale,
né quelli che discendono dall'adeguamento di
comportamenti, di processi produttivi o di
prodotti. Da sottolineare infine come ai
giudici di palazzo Spada sembrino non
piacere gli anglicismi. E così, il termine
checklist andrebbe sostituito con «lista di
controllo», «box» con «quadro»
ed help desk con «ufficio per la
semplificazione amministrativa del
Dipartimento della funzione pubblica» (articolo
ItaliaOggi del 14.08.2012 -
tratto da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI: Comunità
montane salve come unioni. Dopo anni di
tentativi di soppressione la spending review
ribalta tutto. E le regioni si adeguano.
Le comunità montane
cambiano pelle, ma si salvano di fatto
dall'abrogazione. Anche grazie al taglio
delle province. Gli enti montani potranno
continuare a sopravvivere, trasformati in
unioni di comuni, e avranno pure più poteri
perché, sotto questa nuova veste,
svolgeranno le funzioni che i minienti
dovranno obbligatoriamente gestire in forma
associata a partire dal 2013.
Ci ha pensato Mario Monti con la spending
review a mettere in cassaforte gli enti di
montagna, bersaglio cinque anni or sono del
primo tentativo di riduzione dei costi della
politica.
Con la Finanziaria 2008 il governo Prodi ha
provato a sopprimere gli enti di montagna,
ma poi la Corte costituzionale (sentenza n.
237/2009) ha affidato la competenza in
materia alle regioni stabilendo che lo Stato
non avesse il potere di eliminare le
comunità ma tutt'al più di decretarne una
morte lenta e graduale non finanziando il
fondo che le alimenta.
La patata bollente è passata così ai
governatori che in questi anni hanno fatto
poco o nulla. A parte qualche eccezione
(Basilicata, Liguria, Molise, Puglia,
Toscana e Friuli-Venezia Giulia) le regioni
hanno progressivamente ridotto i
trasferimenti alle comunità montane senza
però avere il coraggio di eliminarle del
tutto o trasformarle in unioni. Tanto che,
ad oggi, se ne contano ancora 161.
E mentre in alcune regioni (Piemonte e
Veneto), senza l'intervento salvifico della
spending review, gli enti sarebbero
dovuti scomparire entro fine anno, in altre,
come la Lombardia, prendere tempo alla fine
ha giovato. In tutti questi anni l'assessore
al bilancio del Pirellone, Romano Colozzi,
non ha mai voluto saperne di staccare la
spina alle comunità montane, anzi ha
puntualmente compensato con 9 milioni di
euro di finanziamenti regionali i contributi
erariali soppressi.
C'è stato anche chi, come il Molise, è
arrivato a commissariare gli enti
attribuendo le loro funzioni all'ennesima
agenzia regionale costituita ad hoc (con
conseguente aggravio di spesa pubblica) o
chi, come la Calabria, ha provato a fare lo
stesso ma non ha avuto abbastanza tempo.
Perché, come detto, la spending review
(art. 19 del dl 95/2012 atteso oggi in G.U.)
ha rimesso le cose a posto. Tanto che ieri
le comunità montane hanno celebrato una
loro, particolarissima, ricorrenza.
Esattamente un anno fa, il 13.08.2011, la
manovra d'estate del governo Berlusconi (dl
138/2011), con una norma molto discussa
(art. 16), aveva imposto ai comuni con meno
di mille abitanti di mettersi insieme
fondendo bilanci e funzioni. Una forzatura
che secondo il presidente di Uncem Piemonte,
Lido Riba, «avrebbe distrutto la montagna»
e con essa «i territori marginali dove il
comune è un punto fermo e gli amministratori
locali sono volontari» al servizio dei
cittadini.
A un anno di distanza tutto è cambiato
perché il decreto sulla riduzione della
spesa pubblica, pur obbligando gli enti
sotto i 5.000 abitanti (o sotto i 3.000 se
montani) a esercitare le funzioni
fondamentali in forma associata a partire
dall'anno prossimo (cominciando con tre su
nove fino ad arrivare a metterle insieme
tutte dal 2014, si veda tabelle in pagina),
ha lasciato ampia libertà di scelta sulla
forma associativa da scegliere tra unione e
convenzione. Non solo. Potrebbe sembrare un
paradosso, ma un punto a favore della
sopravvivenza delle comunità montane
potrebbe proprio arrivare dal riordino delle
province. «Se con il taglio degli enti
intermedi si stabilisce per esempio che le
competenze in materia di risorse
idrogeologiche passano ai comuni, si
dovranno costituire unioni di dimensioni
tali da ricomprendere un intero bacino»,
spiega a ItaliaOggi Enrico Borghi,
presidente della commissione montagna dell'Anci.
«In questa nuova prospettiva l'esperienza
di governo del territorio delle comunità
montane sarà fondamentale. Ecco perché la
nascita delle unioni montane rappresenta un
momento storico per far mantenere nelle mani
delle popolazioni locali le redini di un
destino che sembra sempre più deciso da
soggetti esterni». E così, a tempo di
record, le regioni, anche quelle che avevano
deciso di fare sul serio, tornano sui loro
passi. Lo farà il Piemonte che a settembre
porterà in consiglio un correttivo del ddl
sulla messa in liquidazione delle comunità
montane dal 31/12/2012.
E lo farà il Veneto che ha presentato un
progetto di legge bipartisan che trasforma
le comunità montane in unioni. Tirando le
somme, cinque anni di riforme annunciate per
un nulla di fatto. Un precedente che non
induce all'ottimismo quando il riordino
delle province entrerà nel vivo. Anche
perché l'iniziativa dovrà nuovamente partire
dalle regioni (articolo
ItaliaOggi del 14.08.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti
elettrici, non tutto si butta. Verifica
pre-smaltimento per salvare ciò che si può
riusare. In vigore la direttiva europea che
spinge verso il riciclaggio dei materiali
per pc, tv e cellulari.
Gli esportatori dovranno
verificare il funzionamento degli
apparecchi, per evitare che si tratti di
rifiuti da smaltire invece che materiale
usato da riutilizzare. Tuttavia, saranno
anche semplificati gli adempimenti previsti
per la raccolta ed il trattamento dei
rifiuti elettronici.
Queste, alcune delle novità contenute nella
DIRETTIVA 2012/19/UE DEL PARLAMENTO EUROPEO
E DEL CONSIGLIO del 04.07.2012,
sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed
elettroniche, entrata in vigore ieri con
l'obiettivo di aumentare la protezione
dell'ambiente perché riguarda articoli che
rientrano tra i rifiuti dal tasso di
crescita più elevato ma presentano anche un
grande potenziale in termini di
commercializzazione di materie prime
secondarie.
La raccolta sistematica, quindi, unitamente
al corretto trattamento sono indispensabili
per il riciclaggio di materiali come l'oro,
l'argento, il rame e i metalli rari usati
per la produzione, tanto per citarne alcuni,
di televisori, computer portatili e telefoni
cellulari. La normativa, che è stata
pubblicata sulla Gazzetta dell'Ue lo scorso
24 luglio, si colloca nell'ambito della
direttiva Raee (direttiva 2002/96/Ce),
entrata in vigore nel febbraio 2003 e che
prevedeva la restituzione gratuita dei
rifiuti elettronici da parte dei
consumatori.
Oggi, l'obiettivo del nuovo provvedimento è
quello di prevenire danni alla salute umana
e all'ambiente dovuti alle sostanze
pericolose contenute nei rifiuti elettronici
aumentando il riciclaggio e il riutilizzo di
prodotti e materiali. Ma l'intento della
direttiva è quello anche di pervenire, a
decorrere dal 2016, alla raccolta pari al
45% delle apparecchiature elettroniche.
In un secondo tempo, dal 2019, l'obiettivo
salirà al 65% delle apparecchiature vendute,
oppure all'85% dei rifiuti elettronici
prodotti e gli Stati membri potranno
scegliere liberamente quale sistema adottare
per la misurazione dello scopo raggiunto. La
direttiva comunque entrerà in vigore, a
regime, a partire dal 2018. Ciò in quanto,
fino al 14.08.2018, l'ambito di applicazione
è limitato ai prodotti espressamente
individuati negli allegati alla direttiva
stessa. Solo per questi, in pratica, fin da
subito vige l'obbligo del loro conferimento
presso i centri autorizzati.
Si tratta, in particolare, dei grandi e
piccoli elettrodomestici, delle
apparecchiature informatiche e per
telecomunicazioni, dei pannelli
fotovoltaici, delle apparecchiature di
illuminazione, degli strumenti elettrici ed
elettronici (ad eccezione degli utensili
industriali fissi di grandi dimensioni), dei
giocattoli elettronici e dei distributori
automatici.
I consumatori potranno restituire i rifiuti
elettronici di piccole dimensioni presso i
negozi al dettaglio, eccetto nei casi in cui
sistemi alternativi già in uso diano prova
di essere almeno di pari efficacia. Al più
tardi entro il 14.02.2014 gli stati membri
saranno tenuti a modificare la legislazione
nazionale in vigore in materia di Raee per
conformarsi alle disposizioni della nuova
direttiva e ai relativi obiettivi (articolo
ItaliaOggi del 14.08.2012). |
APPALTI:
Appalti. Istruzioni
anche sugli affidamenti alle cooperative
sociali.
Gare, l'Autorità frena sul prestito dei
requisiti. No all'avvalimento per
certificazioni di qualità e iscrizioni
all'albo.
L'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici ha tradotto in due determinazioni i
risultati delle consultazioni sull'istituto
dell'avvalimento e sui rapporti delle
amministrazioni pubbliche con le cooperative
sociali coinvolgenti nelle attività soggetti
svantaggiati, che assumono notevole
rilevanza per le stazioni appaltanti,
soprattutto in relazione ai percorsi (con
gara o derogatori) per l'acquisizione di
beni o servizi.
L'avvalimento
Secondo la
determinazione 01.08.2012 n. 2 le
prospettive di ampio utilizzo del l'avvalimento
non possono permettere l'elusione del dato
normativo contenuto nell'articolo 49 del
Codice dei contratti pubblici, il cui comma
2 è preordinato a garantire la certezza del
rapporto tra concorrente e impresa
ausiliaria in relazione al prestito dei
requisiti.
I documenti elencati nella disposizione
devono quindi essere allegati alla domanda
di partecipazione a pena di esclusione.
Secondo l'Autorità l'avvalimento non può
essere utilizzato per la certificazione di
qualità tranne nell'ipotesi in cui la stessa
sia compresa nell'attestazione Soa, in
quanto essa è assimilabile a un requisito
soggettivo, poiché attinente a uno specifico
"status" dell'imprenditore.
In simile prospettiva, l'Autorità non
ritiene assoggettabili al l'avvalimento
molti requisiti di idoneità professionale,
come l'iscrizione ad albi specifici o il
possesso di particolari licenze legate
all'esercizio dell'attività.
L'istituto può trovare applicazione nelle
gare per servizi di architettura e
ingegneria, ma solo in relazione ai
requisiti di partecipazione e non anche per
i tre servizi analoghi da considerare nella
parte tecnico-qualitativa dell'offerta.
Inoltre, l'avvalimento può aversi tra due
imprese che facciano parte dello stesso
raggruppamento temporaneo partecipante a una
gara. In ogni caso, il rapporto tra
operatore economico concorrente e impresa
ausiliaria deve essere documentato da un
contratto molto dettagliato, nel quale
devono essere specificamente indicati i
requisiti prestati.
Le cooperative
Per gli acquisti di beni e servizi di valore
inferiore alla soglia comunitaria l'Avcp
evidenzia invece nella
determinazione 01.08.2012 n. 3 i
presupposti che possono permettere il
ricorso ad affidamenti alle cooperative
sociali di tipo B, specificando anzitutto
che questi organismi devono avere in
organico almeno il 30 per cento dei
lavoratori (soci o non) costituito da
persone svantaggiate (nell'accezione
dell'articolo 4 della legge n. 381/1991) e
che devono essere iscritte all'apposito albo
regionale (condizione necessaria per la
stipula delle convenzioni).
Focalizzando l'attenzione sui limiti per il
ricorso a tali affidamenti derogatori,
individuati dall'articolo 5 della stessa
legge n. 381/1991 nel valore inferiore alla
soglia comunitaria e nella riconduzione a
forniture di beni e di servizi non sociali,
l'Autorità richiede che essi avvengano in
base a un confronto concorrenziale.
Nella determinazione si evidenzia infatti la
necessità di procedere alla pubblicazione,
sul profilo committente, di un avviso
pubblico, per rendere nota la volontà di
riservare parte degli appalti di determinati
servizi e forniture alle cooperative sociali
di tipo B, per le finalità di reinserimento
lavorativo di soggetti svantaggiati. L'ente
locale, se rileva che sussistono più
cooperative interessate alla convenzione,
nel rispetto dei principi dell'ordinamento
comunitario è chiamato a promuovere una
procedura competitiva di tipo negoziato tra
tali soggetti (articolo
Il Sole 24 Ore del 13.08.2012 -
tratto da www.corteconti.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Decreto sviluppo. Cambi
d'uso e manutenzione straordinaria senza
permessi.
Per gli immobili d'impresa si amplia
l'edilizia libera. Le incertezze
interpretative frenano però l'applicazione.
I DUBBI/ Le modifiche urbanistiche non
possono interessare i fabbricati che non
sono ancora adibiti alle attività
produttive.
Il legislatore nazionale torna a occuparsi
dell'attività edilizia libera, con
l'articolo 13-bis del Dl 83/2012, introdotto
dalla legge di conversione in attesa di
pubblicazione sulla «Gazzetta»). Dopo le
significative modificazioni già apportate
alla materia dal Dl 40/2010, la nuova norma
amplia ulteriormente il novero degli
interventi per la cui esecuzione non è
necessario un titolo abilitativo, inserendo
al secondo comma dell'articolo 6 del Dpr
380/2001 la lettera e-bis), specificamente
rivolta agli immobili utilizzati per lo
svolgimento di attività imprenditoriali, nel
cui ambito, stante la generalità (o
genericità) del termine, possono
ragionevolmente ricomprendersi di fatto
tutti gli immobili non destinati alla
residenza (capannoni e negozi, ad esempio).
Da domani, quindi, sarebbe sufficiente una
semplice comunicazione al Comune sia per
realizzare «le modifiche interne di
carattere edilizio sulla superficie coperta
dei fabbricati adibiti ad esercizio
d'impresa», sia per effettuare «le
modifiche della destinazione d'uso» di
questi locali.
La disposizione solleva varie perplessità,
innanzitutto per il ricorso alla locuzione "modifiche
interne" senza alcuna ulteriore
specificazione tipologica. Appare azzardato
ipotizzare che il legislatore abbia inteso
consentire cambiamenti anche di tipo
strutturale, oppure interventi riconducibili
al novero della ristrutturazione o del
restauro e risanamento conservativo, poiché
in tal caso verrebbe a delinearsi una
incongrua disparità di trattamento e il
sospetto di incostituzionalità della
previsione. Infatti, solo i proprietari di
immobili adibiti ad attività imprenditoriali
risulterebbero esentati dalla necessità di
un titolo abilitativo per queste categorie
di interventi.
È quindi preferibile una lettura
costituzionalmente orientata, che riconduca
le modifiche interne nel novero degli
interventi di manutenzione straordinaria
ammessi dal comma 2, lettera a), che già
contempla «l'apertura di porte interne o
lo spostamento di pareti interne»; anche
in questo caso con ovvia esclusione delle
opere di tipo strutturale –per le quali è
richiesto in via generale il titolo
abilitativo– e senza alcun mutamento di
destinazione d'uso, trattandosi di modifiche
edilizie relative a fabbricati comunque già
adibiti a esercizio di impresa. Ma con
questa più prudente chiave interpretativa,
la previsione finisce con lo svuotarsi di
contenuto sostanziale.
Anche la seconda parte della disposizione
desta incertezze, nella misura in cui
prevede la possibilità di effettuare «modifiche
della destinazione d'uso dei locali adibiti
ad esercizio d'impresa». Trattandosi di
misure teoricamente volte a favorire le
iniziative produttive, la norma avrebbe
forse dovuto adoperare il termine "da
adibirsi", così sancendo la possibilità
di utilizzare a esercizio di impresa spazi
in precedenza destinati ad altro uso.
Inoltre, se i locali sono (già) adibiti ad
attività imprenditoriale, la modifica d'uso
non potrà che avvenire nell'ambito della
stessa tipologia ed essere di tipo
funzionale, quindi senza l'esecuzione di
opere. Diversamente si ricadrebbe in
un'ipotesi interpretativa sperequata e di
dubbia costituzionalità, esentando i soli
proprietari imprenditori dall'obbligo del
previo titolo abilitativo (che nelle zone
omogenee "A" è il permesso di costruire, ai
sensi dell'articolo 10, primo comma, lettera
c), Testo unico).
Secondo la giurisprudenza (si veda ad
esempio Consiglio di Stato, Sezione V,
1650/2010, 498/2009; Tar Lazio-Roma,
4622/2011; Cassazione penale, Sezione III,
20350/2010) il mutamento di destinazione
d'uso giuridicamente rilevante è quello tra
categorie funzionalmente autonome dal punto
di vista urbanistico, posto che nell'ambito
delle stesse categorie possono aversi
mutamenti di fatto, ma non diversi regimi
urbanistico costruttivi, stante le
sostanziali equivalenze dei carichi
urbanistici nell'ambito della medesima
categoria. Peraltro, in questo caso, la
modifica d'uso non dovrebbe comportare il
pagamento di un ulteriore contributo di
costruzione.
La previsione, dunque, dovrebbe essere letta
e interpretata tenendo presente le possibili
ripercussioni del mutamento d'uso sui
parametri urbanistici e sulle volumetrie
massime assentibili in relazione agli indici
della zona, così come individuati dai piani
regolatori generali, nonché i limiti di
carattere generale posti per l'attività
edilizia che può essere eseguita in assenza
di pianificazione urbanistica, specie per
ciò che attiene alle destinazioni produttive
(articolo 9, testo unico).
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Le nuove definizioni
Le tipologie di attività edilizia libera
dopo l'intervento del decreto sviluppo
nell'articolo 6 del Testo unico
dell'edilizia
ARTICOLO 6, COMMA 1 -
Attività edilizia totalmente libera
● lettera a) - manutenzione ordinaria;
● lettera b) - eliminazione di barriere
architettoniche senza realizzazione di
rampe, di ascensori esterni o altri
manufatti che alterino la sagoma
dell'edificio;
● lettera c) - opere temporanee per attività
di ricerca nel sottosuolo, eseguite in aree
esterne al centro edificato, di carattere
geognostico, ad esclusione di attività di
ricerca di idrocarburi;
● lettera d) - movimenti di terra
strettamente pertinenti all'esercizio
dell'attività agricola e delle pratiche
agro-silvo-pastorali, compresi gli
interventi su impianti idraulici agrari;
● lettera e) - serre mobili stagionali,
sprovviste di strutture in muratura,
funzionali allo svolgimento dell'attività
agricola
ARTICOLO 6, COMMA 2 -
Attività edilizia libera previa
comunicazione inizio lavori
● lettera a) - manutenzione straordinaria,
compresa l'apertura di porte interne o lo
spostamento di pareti interne, che non
riguardi parti strutturali dell'edificio,
non aumenti il numero delle unità
immobiliari e non incrementi i parametri
urbanistici;
● lettera b) - opere dirette a soddisfare
esigenze contingenti e temporanee e da
rimuovere al cessare della necessità,
comunque, entro novanta giorni;
● lettera c) - pavimentazione e finitura di
spazi esterni, anche per aree di sosta,
contenute entro l'indice di permeabilità,
ove stabilito dallo strumento urbanistico
comunale, ivi compresa la realizzazione di
intercapedini interamente interrate e non
accessibili, vasche di raccolta delle acque,
locali tombati;
● lettera d) - pannelli solari,
fotovoltaici, a servizio degli edifici, da
realizzare al di fuori delle zone A (centri
storici);
● lettera e) - aree ludiche senza fini di
lucro ed elementi di arredo delle aree
pertinenziali degli edifici;
● lettera e-bis) - modifiche interne di
carattere edilizio sulla superficie coperta
dei fabbricati adibiti ad esercizio
d'impresa e modifiche della destinazione
d'uso dei locali adibiti ad esercizio
d'impresa
ARTICOLO 6, COMMA 4, PRIMO
E SECONDO PERIODO -
Attività edilizia libera previa
comunicazione inizio lavori, trasmissione
dati identificativi dell'impresa esecutrice
dei lavori e relazione tecnica, con
elaborati progettuali, asseverante la
conformità a strumenti urbanistici e
regolamenti edilizie e non necessità di
titolo abilitativo
● interventi articolo 6, comma 2, lettera a)
- manutenzione straordinaria, compresa
l'apertura di porte interne o lo spostamento
di pareti interne, che non riguardi parti
strutturali dell'edificio, non aumenti il
numero delle unità immobiliari e non
incrementi i parametri urbanistici;
● lettera e-bis) - modifiche interne di
carattere edilizio sulla superficie coperta
dei fabbricati adibiti ad esercizio
d'impresa e modifiche della destinazione
d'uso dei locali adibiti ad esercizio
d'impresa (con dichiarazione di conformità
da parte dell'Agenzia per le imprese, su
sussistenza requisiti)
---------------
SEMPLIFICAZIONI/ Via anche
i nullaosta da allegare
L'articolo 13-bis abroga l'intero comma 3
dell'articolo 6 del Dpr 380/2001, facendo
venire meno l'obbligo generalizzato di
allegare alla comunicazione di inizio dei
lavori «le autorizzazioni eventualmente
obbligatorie ai sensi delle normative di
settore», per tutti gli interventi di
cui al comma 2.
Con le contestuali modifiche apportate al
comma 4, questo onere permane solo nel caso
degli interventi di cui alla lettera a) e
alla nuova lettera e-bis), per i quali
andranno comunicati i dati identificativi
dell'impresa cui si intende affidare la
realizzazione dei lavori, nonché una
relazione, redatta da un tecnico abilitato.
Questi dovrà prima dichiarare di non avere
rapporti di dipendenza con l'impresa, né con
il committente, quindi asseverare, sotto la
propria responsabilità, che i lavori sono
conformi agli strumenti urbanistici
approvati e ai regolamenti edilizi e che non
è necessario il titolo abilitativo.
Infine, per i soli interventi di cui alla
lettera e-bis), dovranno essere trasmesse le
dichiarazioni di conformità da parte
dell'Agenzia per le imprese concernenti la
realizzazione, la trasformazione, il
trasferimento e la cessazione dell'esercizio
del l'attività di impresa.
---------------
INTERVENTO/ Sui tecnici
gravano oneri impropri
Per comprendere appieno la portata delle
ultime modifiche in tema di attività
edilizia libera introdotte dall'articolo
13-bis della legge di conversione del
decreto-sviluppo occorrerà attendere un
chiarimento giurisprudenziale, se non
legislativo. Sino ad allora la complessità
delle questioni dovrebbe suggerire ai
professionisti di agire con la massima
prudenza e di interpretare in senso
restrittivo le nuove disposizioni.
Essi vengono chiamati dall'articolo 6, comma
4, del Testo unico dell'edilizia non solo ad
asseverare che i lavori progettati siano
conformi agli strumenti urbanistici
approvati e ai regolamenti edilizi vigenti
(e sin qui il compito sarebbe relativamente
facile, potendosi fare affidamento su fonti
certe e provenienti dalla stessa
amministrazione), ma anche a certificare al
Comune -e a garantire al committente- che la
normativa statale e regionale non prevede il
rilascio di un titolo abilitativo per
l'intervento che si intende eseguire.
In tal modo, ai tecnici abilitati risulta
assegnato un compito esegetico della portata
applicativa della norma che non solo li
espone a rilevanti responsabilità di natura
civile, penale e professionale, ma,
soprattutto, che istituzionalmente non
compete loro. La funzione interpretativa
della norma, infatti, non può che spettare
al giudice chiamato ad applicarla, oppure al
legislatore che l'ha formulata, operando un
chiarimento quando incerta si presenta
l'enunciazione normativa o il suo ambito di
operatività.
---------------
Le competenze. La
Consulta ha chiarito che è il legislatore
nazionale a fissare il regime delle
autorizzazioni.
Alle Regioni spazi limitati per incidere sui
titoli abilitativi.
LA RIPARTIZIONE/ Sulla materia del governo
del territorio ancora incerti i confini
della potestà normativa suddivisa tra Stato
e governi locali.
L'articolo 6, comma 6, lettera a), del Testo
unico dell'edilizia stabilisce che le
Regioni a statuto ordinario possono
estendere la disciplina dell'attività
edilizia libera a interventi edilizi
ulteriori rispetto a quelli previsti dai
commi 1 e 2. La previsione ripropone la
tematica dei rapporti tra il Dpr 380/2001 e
le leggi regionali in materia, dopo le
modifiche del titolo V della Costituzione e
solleva dubbi che non vengono sedati –ma
semmai ampliati– dal decreto sviluppo di
quest'anno.
Norma di riferimento è l'articolo 2 del
Testo unico, il cui comma 1 dispone che le
Regioni a statuto ordinario «esercitano
la potestà legislativa concorrente in
materia edilizia nel rispetto dei principi
fondamentali della legislazione statale
desumibili dalle disposizioni contenute nel
Testo unico». Inoltre (comma 3) le
disposizioni, anche di dettaglio, del Testo
unico, e attuative dei principi di riordino
in esso contenuti, operano direttamente nei
riguardi delle medesime Regioni, fino a
quando queste non adeguino la propria
legislazione a tali principi.
La prima difficoltà, quindi, è quella di
circoscrivere la categoria dei principi di
riordino e capire in cosa si differenzino
dai principi fondamentali. Il Consiglio di
Stato (adunanza plenaria del 07.04.2008, n.
2) ha rilevato come il legislatore
nazionale, attraverso il Testo unico, ha
proceduto al complessivo riordino della
materia, assegnando alle disposizioni in
esso contenute carattere di norme di
principio, con la conseguente abrogazione
delle disposizioni regionali con esse
confliggenti. Pertanto «fino al
l'adeguamento delle Regioni a statuto
ordinario alle norme di principio recate nel
Testo unico, le norme aventi tale portata in
questo contenute sono destinate a prevalere
sulle prime».
Anche l'adeguamento del legislatore
regionale dovrà però comunque avvenire nel
rispetto dei principi fondamentali, che, a
loro volta, non sono chiaramente indicati
dal Dpr 380/2001, bensì solo desumibili dal
Testo unico. Sul punto la Corte
costituzionale, con la sentenza 309/2011 ha
ribadito che nella normativa di principio in
materia di governo del territorio vanno
ricondotte tutte le disposizioni legislative
riguardanti i titoli abilitativi per gli
interventi edilizi. Con l'ulteriore
conseguenza che «a fortiori sono principi
fondamentali della materia le disposizioni
che definiscono le categorie di interventi,
perché è in conformità a queste ultime che è
disciplinato il regime dei titoli
abilitativi, con riguardo al procedimento e
agli oneri, nonché agli abusi e alle
relative sanzioni, anche penali».
Per la Consulta, quindi, l'intero corpo
normativo statale si fonda sulla definizione
degli interventi edilizi e l'individuazione
delle relative categorie spetta al
legislatore nazionale. Sarà quindi arduo il
compito del legislatore regionale che
volesse estendere la disciplina
dell'attività edilizia libera a interventi
tipologicamente diversi da quelli previsti
dalla norma statale, poiché l'esclusione per
un intervento dalla necessità del titolo
abilitativo potrebbe incorrere nella
violazione dell'articolo 117, comma 3 della
Costituzione e dei limiti posti alla
legislazione concorrente nella materia del
governo del territorio (articolo
Il Sole 24 Ore del 13.08.2012). |
GIURISPRUDENZA |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il
Collegio ritiene che fermo restando che la
qualifica del fresato d’asfalto rimane
quella di “rifiuto” -e pertanto che ai fini
dello smaltimento esso è soggetto a tutte le
norme che valgono per la categoria dei
rifiuti (nella specie non pericolosi)- che
lo stesso materiale possa essere nondimeno
qualificato sottoprodotto anziché rifiuto se
lo stesso è inserito in un ciclo produttivo,
ossia se viene utilizzato senza nessun
trattamento diverso dalla normale pratica
industriale (di fatto vengono effettuate
solo operazioni di cernita e di selezione,
che non possono essere, tuttavia,
considerate operazioni di trasformazione
preliminare cfr. Cass. Pen. N. 41839 del
07/11/2008) in un impianto che ne preveda
l’impiego nello stesso ciclo di produzione,
e precisamente per il reimpiego del
materiale come componente del prodotto
finale trattato nell’ambito dello stesso
impianto.
L’impianto che utilizza il fresato come
“sottoprodotto” non deve quindi, perché il
materiale conservi la natura di
sottoprodotto, stoccare quantitativi d’esso
che eccedono rispetto al fabbisogno del
proprio ciclo produttivo, perché la giacenza
del materiale in attesa di un futuro
reimpiego (nella stessa sede o altrove)
integra la fase dello stoccaggio e pone il
problema della permanenza del rifiuto, che
invece va esclusa per quella limitata
provvista di materiale che rientra
quantitativamente nel normale processo di
lavorazione dell’impianto.
--------------
Né appare necessario al Collegio, come
ritiene l’amministrazione provinciale, che
ai fini della qualifica del fresato come
sottoprodotto, il riutilizzo debba avvenire,
per volontà della norma, nello stesso sito
di produzione del rifiuto e sotto la
direzione del medesimo imprenditore, posto
che il fatto che il materiale fresato
rimanga nel luogo di produzione, nelle
vicinanze od in altro luogo non costituisce
di per sé elemento univoco per qualificarlo
come rifiuto dovendo ciò desumersi, invece,
dalle modalità del deposito, dalla sua
durata o da altre circostanze che evidenzino
con certezza una situazione di abbandono
(nella quale rientra lo stoccaggio del
materiale in attesa di un futuro reimpiego);
il che non si verifica nel caso in esame,
dove il deposito di asfalto fresato verrà
consumato (reimpiegato) quotidianamente per
la produzione di nuovo asfalto.
Il Collegio non ignora, né lo
ignorano le parti, che richiamano, ciascuna
a proprio favore, la contrastata
giurisprudenza sin qui intervenuta in subiecta materia, che in Italia la questione
della classificazione del fresato d’asfalto
come “rifiuto” o “sottoprodotto” costituisce
tuttora, una problematica irrisolta e che
sul piano pratico il persistente conflitto
giurisprudenziale ha concorso, generando
incertezza, a produrre una serie di
conseguenze negative assai rilevanti
sull’impiego e sul trattamento di quel
materiale, peraltro assai ricercato e quindi
intrinsecamente dotato di un apprezzabile
valore economico.
Appare quindi utile esaminare nel dettaglio
quali sono i due punti di vista diversi che
sottostanno alle opposte soluzioni
ermeneutiche.
Generalmente, le Pubbliche
Amministrazioni considerano il fresato
d’asfalto un rifiuto perché:
a) è sostanza di cui il detentore “si disfa”
o ha l’intenzione o l’obbligo di disfarsi
(art. 183 D.Lgs. 152/2006);
b) la sostanza è prevista e disciplinata
come rifiuto dal D.M. 05.02.1998 sotto la voce
7.6 e 7.1 (modificata dal D.M. 05.04.2006);
c) alcuni contratti d’appalto stabiliscono
che quel materiale deve essere smaltito in
discarica, salvo recupero come rifiuto;
d) è contemplato dal Codice Europeo Rifiuti
(CER -17.03.02).
Come rifiuto, inoltre, esso è classificato
come speciale non pericoloso (CER 170302)
perché: non è un “rifiuto urbano” ma un
“materiale da demolizione” incluso
nell’elenco (D.Lgs. 152/2006 art. 184) e non
contraddistinto con l’asterisco (*)
riservato ai materiali pericolosi.
La gestione del fresato in quanto
rifiuto, peraltro, è notoriamente assai
complicata e necessita di una serie di
adempimenti burocratici che vanno: dalla
fase della demolizione e produzione, in cui
il produttore del rifiuto (l’impresa
stradale) deve tenere il registro di carico
e scarico ed effettuare la dichiarazione MUD;
del trasporto, in cui il conglomerato
bituminoso di recupero deve viaggiare
accompagnato dal formulario di
identificazione del rifiuto (FIR) e
l’impresa che lo trasporta deve essere
iscritta all’Albo Gestori Ambientali per il
trasporto dei rifiuti (in conto proprio o in
conto terzi, a seconda dei casi); al
recupero e trattamento, dove l’impianto di
trattamento del fresato è un tradizionale
impianto di produzione del conglomerato
bituminoso, che quando riceve un “rifiuto”
deve essere autorizzato secondo le regole
proprie di quel genere di impianti, tale per
cui le attività presso l’impianto stesso
sono subordinate al rilascio delle
autorizzazioni “messa in riserva” R13
e/o “recupero” R5, il cui iter è complesso e
prevede: procedura VIA (Valutazione Impatto
Ambientale) o, in casi specifici, la VAS
(Valutazione Ambientale Strategica).
A ciò va aggiunta una serie di richieste più
restrittive rispetto a quelle di base
(riduzione emissioni in atmosfera, post
combustori, impianti con sistemi di
aspirazione scarico prodotto finito
fidejussioni a garanzia; limitazioni dei
quantitativi di produzione giornaliera;
speciali caratteristiche costruttive delle
aree di stoccaggio e copertura, sistemi di
raccolta delle acque con scolmatore e
trattamento di prima pioggia).
La gestione come sottoprodotto è invece
molto più semplice e le motivazioni per cui
il fresato dovrebbe essere considerato un
“sottoprodotto” sono:
a) che esso è
originato da un processo di produzione, di
cui costituisce parte integrante, il cui
scopo primario non è la produzione di tale
sostanza (D.Lgs. 152, comma 1, art. 184-bis)
ma il suo impiego: lo scopo per cui si fresa
l’asfalto è, infatti, il rifacimento del
manto stradale e non la produzione del
fresato in quanto tale;
b) che l’utilizzo è certo (ha i requisiti
tecnici per l’uso cui è destinato), legale
(non reca pregiudizi alla salute umana e
all’ambiente), non necessita di ulteriori
preventivi trattamenti rispetto alla normale
pratica industriale (lo si lavora in un
normale impianto d’asfalto senza alcuna
particolare modifica (cfr. D.Lgs. 152, comma
1, art. 184-bis);
c) ha un valore economico
di mercato notevole, che deriva proprio
dall’interesse al reimpiego dello stesso
materiale piuttosto che al suo smaltimento
come rifiuto.
Ebbene, alla luce di detta analisi il
Collegio ritiene che fermo restando che la
qualifica del fresato d’asfalto rimane
quella di “rifiuto” -e pertanto che ai fini
dello smaltimento esso è soggetto a tutte le
norme che valgono per la categoria dei
rifiuti (nella specie non pericolosi)- che
lo stesso materiale possa essere nondimeno
qualificato sottoprodotto anziché rifiuto se
lo stesso è inserito in un ciclo produttivo,
ossia se viene utilizzato senza nessun
trattamento diverso dalla normale pratica
industriale (di fatto vengono effettuate
solo operazioni di cernita e di selezione,
che non possono essere, tuttavia,
considerate operazioni di trasformazione
preliminare cfr. Cass. Pen. N. 41839 del
07/11/2008) in un impianto che ne preveda
l’impiego nello stesso ciclo di produzione,
e precisamente per il reimpiego del
materiale come componente del prodotto
finale trattato nell’ambito dello stesso
impianto.
L’impianto che utilizza il fresato come
“sottoprodotto” non deve quindi, perché il
materiale conservi la natura di
sottoprodotto, stoccare quantitativi d’esso
che eccedono rispetto al fabbisogno del
proprio ciclo produttivo, perché la giacenza
del materiale in attesa di un futuro
reimpiego (nella stessa sede o altrove)
integra la fase dello stoccaggio e pone il
problema della permanenza del rifiuto, che
invece va esclusa per quella limitata
provvista di materiale che rientra
quantitativamente nel normale processo di
lavorazione dell’impianto (cfr. Cass. n.
35235 del 12.09.2008).
Così posta la questione, e alla stregua
del criterio di distinzione individuato da
parte della giurisprudenza, ritiene il
Collegio che poiché, secondo le
dichiarazioni del legale rappresentante
della società ricorrente, ribadite nella
conferenza di servizio, l’impianto di
betonaggio e asfalto della ditta Doneda,
oggetto di autorizzazione, prevede l’impiego
di fresato d’asfalto come sottoprodotto,
ossia in quantità tale da poter essere
trattato e smaltito all’interno del ciclo
produttivo per soddisfare l’operatività
giornaliera e continua dell’impianto e non
in funzione di centro di stoccaggio a tempo
indefinito di tale materiale (ciò che
renderebbe l’impianto, a tutti gli effetti,
una discarica, e comunque lo renderebbe
strumentale a quest’ultima) il progetto in
questione avrebbe dovuto essere approvato
senza alcuna condizione, salvo quella
relativa al rapporto tra stoccaggio e
quantità trattata e reimpiegata nel ciclo
produttivo.
Né appare necessario al Collegio, come
ritiene l’amministrazione provinciale, che
ai fini della qualifica del fresato come
sottoprodotto, il riutilizzo debba avvenire,
per volontà della norma, nello stesso sito
di produzione del rifiuto e sotto la
direzione del medesimo imprenditore, posto
che il fatto che il materiale fresato
rimanga nel luogo di produzione, nelle
vicinanze od in altro luogo non costituisce
di per sé elemento univoco per qualificarlo
come rifiuto dovendo ciò desumersi, invece,
dalle modalità del deposito, dalla sua
durata o da altre circostanze che evidenzino
con certezza una situazione di abbandono
(nella quale rientra lo stoccaggio del
materiale in attesa di un futuro reimpiego);
il che non si verifica nel caso in esame,
dove il deposito di asfalto fresato verrà
consumato (reimpiegato) quotidianamente per
la produzione di nuovo asfalto (cfr. Cass.
n. 35235 del 12.09.2008).
E tutto ciò non senza chiarire peraltro, con
riguardo all’art. 184-bis D.Lgs. 152/2006,
che non si tratta di una certezza
genericamente riferita “al normale
reimpiego” del fresato d’asfalto, quanto di
un dato che va dichiarato e indicato
nell’autorizzazione e, in quanto tale,
imposto come condizione di corretta gestione
dell’impianto.
Il parere impugnato è stato quindi, a
giudizio del Collegio, erroneamente
applicato alla richiesta della ditta
ricorrente, nella parte in cui lo stesso
assume un contrasto insuperabile tra le
previsioni del PPGR della Provincia di Monza
e Brianza e il progetto del nuovo impianto
della ditta Doneda s.r.l., per la parte
relativa all’impiego del fresato d’asfalto,
prescrivendone l’approvazione, in parte qua,
condizionata.
Il ricorso è quindi, nei detti limiti
fondato e va accolto, con conseguente
annullamento degli atti che si sono
espressi, contro tale progetto
condizionandone la successiva fase di
approvazione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.08.2012 n. 2182 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’esito
positivo della conferenza di servizio
indetta ex DPR 447/1998 produce l’effetto di
esigere dall’amministrazione che intenda
respingere la conseguente variante di PGT
una motivazione puntuale, non
contraddittoria e non esorbitante dagli
stretti limiti funzionali di tale
provvedimento: in tal caso infatti un
eventuale scostamento dai pareri confluiti
nel modulo della conferenza di servizio
richiede una motivazione tanto più
stringente, in presenza di provvedimenti
negativi per le aspettative degli
interessati, quanto più avanzato è lo stato
del procedimento e quanto più definito e
quindi irretrattabile è il carattere delle
decisioni assunte (e delle sottostanti
valutazioni) dall’amministrazione sugli atti
presupposti.
---------------
Scelte diverse e di segno antitetico sono
possibili e del tutto legittime, quando
l’amministrazione debba ancora assumere le
proprie decisioni, nell’esercizio delle
funzioni discrezionali che le appartengono,
ma che non sono tali, o quantomeno implicano
conseguenze giuridiche che non possono
essere trascurate, quando, e nella misura in
cui, l’esercizio del potere discrezionale
non trovi in concreto una legittima e
coerente forma di esplicazione in
sostanziale autotutela, con tutte le
conseguenze che tale modus decidendi può
comportare e che rilevano sia sul piano
caducatorio (dei nuovi provvedimenti
illegittimi) che sul piano risarcitorio.
Ancora
più pertinenti, e quindi meritevoli di
essere integralmente riportate, appaiono le
affermazioni di principio di un precedente
analogo di questa Sezione (cfr. sez. 2^ n.
1120 del 03.05.2011) in tema di procedura SUAP, laddove, esaminando un caso simile di
diniego di approvazione di proposta SUAP già
favorevolmente istruita e assentita in tutte
le fasi del relativo procedimento, il
Collegio ha rilevato: "che l’esito positivo
della conferenza di servizio indetta ex DPR
447/1998 produce l’effetto di esigere
dall’amministrazione che intenda respingere
la conseguente variante di PGT una
motivazione puntuale, non contraddittoria e
non esorbitante dagli stretti limiti
funzionali di tale provvedimento: in tal
caso infatti un eventuale scostamento dai
pareri confluiti nel modulo della conferenza
di servizio richiede una motivazione tanto
più stringente, in presenza di provvedimenti
negativi per le aspettative degli
interessati, quanto più avanzato è lo stato
del procedimento e quanto più definito e
quindi irretrattabile è il carattere delle
decisioni assunte (e delle sottostanti
valutazioni) dall’amministrazione sugli atti
presupposti".
Il che, espresso con concetti
applicabili al caso in esame, significa che
la scelta dell’area di ubicazione
dell’impianto, confermata con l’approvazione
del relativo progetto non può più essere
ritrattata in sede di approvazione della
variante di PRG sulla base di una diversa
valutazione degli stessi presupposti che,
coevamente, anche se con atti diversi sono
stati posti a base dell’approvazione del
progetto e, prima ancora, che sono stati
ribaditi in tutta la lunga e complessa fase
di procedura SUAP, (procedimento di VAS e
conferenza di servizio compresi).
Analoghe considerazioni valgono per tutta
la parte della motivazione con cui
l’amministrazione comunale ha rifiutato
l’approvazione della variante adducendone
l’incompatibilità con la destinazione
agricola dell’area, poiché, anche a
prescindere da quanto appena rilevato in
funzione del principio di affidamento, dai
documenti di causa emerge che rispetto al
momento in cui il progetto fu presentato e
la relativa allocazione ritenuta ammissibile
(e persino caldeggiata) dall’amministrazione
comunale di Arcore, che per la realizzazione
del progetto della ditta Doneda ha richiesto
e percepito un anticipo di 150 mila euro a
titolo di oneri di urbanizzazione, (cfr.
doc. n. 38 e 39 dep. il 19.09.2011 in
allegato al ricorso principale) non ci sono
stati mutamenti di programmazione
urbanistica, intesi come nuove previsioni di PGT, che potessero giustificare un
ripensamento, così motivato, sulla scelta di
allocazione del progetto, né elementi di
fatto sopravvenuti e riferibili
specificamente all’area in questione -al di
là dei nuovi criteri generali di
programmazione dell’uso delle aree agricole
che l’amministrazione invoca e che non sono
applicabili a quell’area già individuata
come unica opzione possibile in ambito
provinciale, tali da poter giustificare
un’incompatibilità sopravvenuta del sito-
che non sia né arbitraria né contraddittoria
rispetto a quanto già deciso dalla stessa
amministrazione con altri distinti atti
dello stesso procedimento.
Non resta quindi, come sostiene parte
ricorrente, che ricondurre, quantomeno per
questi specifici profili, la scelta
dell’amministrazione alla c.d. volontà
politica, peraltro non dissimulata nella
stessa delibera impugnata, di segno diverso
rispetto alla volontà manifestata nel corso
del procedimento SUAP; volontà imputabile,
in termini di ripensamento alla stessa
amministrazione in scadenza, prima, e
all’amministrazione subentrante, poi.
Sennonché, scelte diverse e di segno
antitetico sono possibili e del tutto
legittime, quando l’amministrazione debba
ancora assumere le proprie decisioni,
nell’esercizio delle funzioni discrezionali
che le appartengono, ma che non sono tali, o
quantomeno implicano conseguenze giuridiche
che non possono essere trascurate, quando, e
nella misura in cui, l’esercizio del potere
discrezionale non trovi in concreto una
legittima e coerente forma di esplicazione
in sostanziale autotutela, con tutte le
conseguenze che tale modus decidendi può
comportare e che rilevano sia sul piano
caducatorio (dei nuovi provvedimenti
illegittimi) che sul piano risarcitorio
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.08.2012 n. 2182 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
consumazione del potere inibitorio (ndr: 30
gg. per la DIA) non preclude
all’amministrazione stessa l’esercizio del
diverso potere di autotutela, ex artt.
21-quinquies e 21-nonies legge n. 241/1990,
oltre al potere sanzionatorio e di vigilanza
di cui all’art. 21 stessa legge.
Anche ammesso che l’amministrazione
abbia, con la nota datata 23.03.2007 (cfr.
doc. n. 8 allegati di parte ricorrente),
riscontrato positivamente la DIA prot. 2066
del 05.03.2007, (affermazione discutibile,
tenuto conto sia del tenore della nota de
qua, che si limita a richiedere il
contributo di costruzione e i diritti di
segreteria in relazione all’intervento
dichiarato; che della sua datazione, ben
anteriore alla scadenza del termine di
trenta giorni spettante alla p.a. per
l’esercizio del potere di diffida ex art. 23, co. 6, d.P.R. n. 380/2001), sta di fatto che
la consumazione del potere inibitorio non
preclude all’amministrazione stessa
l’esercizio del diverso potere di
autotutela, ex artt. 21-quinquies e
21-nonies legge n. 241/1990, oltre al potere
sanzionatorio e di vigilanza di cui all’art.
21 stessa legge (cfr. sulla diversa natura
del potere inibitorio e di quello di
autotutela, entrambi richiamati dall’art.
19, co. 3, della legge n. 241/1990 Ad. Plen.
Cons. Stato n. 15, del 29.07.2011; nonché,
TAR Bologna, sez. I, 26.04.2012, n.
272; TAR Milano, sez. II, 24.11.2011, n.
2899)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 07.08.2012 n. 2181 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Quanto al concetto di
“intradosso del solaio di copertura”, lo
stesso deve correttamente intendersi al
netto di extra-spessori non strutturali, sì
da rimanere indifferente alle opere interne
realizzate in aderenza al tetto;
diversamente opinando “…infatti, si
renderebbe del tutto ondivaga, affidata alla
mera volontà dell'interessato e senza alcun
parametro che ne renda possibile il
controllo, la determinazione dell'altezza
ammissibile per l'edificazione, che potrebbe
essere maggiorata semplicemente mediante la
realizzazione di tramezzature e/o
tamponature di qualsivoglia spessore. Al
contrario, l'intradosso del solaio deve
essere considerato quale elemento obiettivo,
che prescinde dalle opere interne: nella
fattispecie, dalla tamponatura per effetto
del quale l'altezza dell'edificio
(calcolata, all'epoca del permesso del 2003,
all'intradosso del solaio come
originariamente progettato) è stata
inequivocabilmente innalzata”.
Quanto al concetto di
“intradosso del solaio di copertura”, lo
stesso deve correttamente intendersi al
netto di extra-spessori non strutturali, sì
da rimanere indifferente alle opere interne
realizzate in aderenza al tetto;
diversamente opinando “…infatti, si
renderebbe del tutto ondivaga, affidata alla
mera volontà dell'interessato e senza alcun
parametro che ne renda possibile il
controllo, la determinazione dell'altezza
ammissibile per l'edificazione, che potrebbe
essere maggiorata semplicemente mediante la
realizzazione di tramezzature e/o
tamponature di qualsivoglia spessore. Al
contrario, l'intradosso del solaio deve
essere considerato quale elemento obiettivo,
che prescinde dalle opere interne: nella
fattispecie, dalla tamponatura per effetto
del quale l'altezza dell'edificio
(calcolata, all'epoca del permesso del 2003,
all'intradosso del solaio come
originariamente progettato) è stata
inequivocabilmente innalzata” (così,
Consiglio di Stato, VI, 30.05.2011 n. 3228)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 07.08.2012 n. 2180 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il
legislatore, intervenendo due volte sulle
disposizioni di cui trattasi (ndr: art. 38,
c. 1, lett. g) e c. 2, d.lgs. n. 163/2006)
ha elaborato una norma complessa che, da un
lato (v. d.l. n. 70/2011) introduce il
concetto di “gravità” della violazione,
predeterminandone però il quantum attraverso
il rinvio nell’art. 38, c. 2 (terzo periodo,
prima parte) all’art. 48-bis d.p.r. n.
602/1973 (euro diecimila, salvo modifiche da
disporsi con apposito d.m. – v. art. 48-bis,
c. 2-bis) e, dall’altro lato (v. d.l. n.
16/2012), fornisce la definizione del
concetto di “violazioni definitivamente
accertate”, che sono solo quelle “relative
all'obbligo di pagamento di debiti per
imposte e tasse certi, scaduti ed
esigibili.” (v. art. 38, c. 2, terzo
periodo, seconda parte).
Orbene, le disposizioni di cui al d.l. n.
70/2011, nel testo risultante dalla legge di
conversione, che hanno modificato l’art. 38,
c. 1, lett. g) e c. 2 (terzo periodo, prima
parte), d.lgs. n. 163/2006, sono a stretto
rigore applicabili solo alle procedure i cui
bandi siano pubblicati successivamente alla
data di entrata in vigore del d.l. n.
70/2011 (v. art. 4, c. 3, d.l. n. 70/2011);
al contrario le disposizioni di cui al d.l.
n. 16/2012, che hanno introdotto la seconda
parte del terzo periodo dell’art. 38, c. 2,
per espressa previsione della legge, si
applicano retroattivamente (v. art. 1, c. 6,
d.l. n. 16/2012).
Ciò nonostante, ritiene il Collegio che il
nuovo art. 38, c. 1, lett. g) e c. 2, terzo
periodo, prima e seconda parte, d.lgs. n.
163/2006, contenga delle disposizioni che
vanno lette complessivamente in modo
unitario. Da esse si astrae, attraverso una
corretta e ragionevole operazione
ermeneutica, una norma alla quale non può
che darsi complessivamente valore di norma
interpretativa nel segno di un’unitaria
considerazione della regolazione della
fattispecie, come tale avente, anch’essa,
efficacia retroattiva e, dunque, in quanto
tale, con effetti anche sulla controversia
in esame.
In tal senso depone in particolare
l’utilizzo dell’espressione “si intendono”
al fine di predeterminare il concetto di
“gravità” della violazione che è sottratto
al sindacato discrezionale della stazione
appaltante (v. determinazione dell’A.V.C.P.
n. 1/2012: “non residua in capo alla
stazione appaltante alcun margine di
discrezionalità per effettuare un
apprezzamento sulla gravità dell’illecito
commesso dall’operatore economico; dunque,
in presenza di un debito fiscale
definitivamente accertato di importo
superiore a quello previsto dalla legge
citata, la stazione appaltante è costretta
ad escludere, poiché la valutazione della
gravità è stata già effettuata a monte dal
legislatore”), nonché la ratio delle
modifiche introdotte dal d.l. n. 70/2011,
cioè quella di ridurre i tempi di
costruzione delle opere pubbliche,
semplificare le procedure di affidamento dei
relativi contratti pubblici, garantire un
più efficace sistema di controllo e ridurre
il contenzioso (v. art. 1, c. 1, prima
parte, d.l. n. 70/2011).
L’opzione ermeneutica offerta consente,
invero, di porre fine ai contrasti
giurisprudenziali in materia.
In punto di diritto, osserva il
Collegio che il testo della disposizione di
cui all’art. 38, c. 1, lett. g), d.lgs. n.
163/2006, vigente all’epoca di pubblicazione
del bando (e richiamato espressamente nel
disciplinare di gara – v. punto 4, lett. g)
era il seguente:
“1. Sono esclusi dalla partecipazione alle
procedure di affidamento delle concessioni e
degli appalti di lavori, forniture e
servizi, né possono essere affidatari di
subappalti, e non possono stipulare i
relativi contratti i soggetti … g) che hanno
commesso violazioni, definitivamente
accertate, rispetto agli obblighi relativi
al pagamento delle imposte e tasse, secondo
la legislazione italiana o quella dello
Stato in cui sono stabiliti”.
Solo per effetto delle modifiche
successivamente intervenute ed apportate
dapprima dall’art. 4, c. 2, lett. b), punto
1.5, d.l. n. 13/05/2011, n. 70 (conv. in l.
n. 106/2011) e poi dall’art. 1, c. 5, d.l.
n. 02/03/2012, n. 16 (conv. in l. n. 44/2012)
il testo dell’art. 38, c. 1, lett. g) e c.
2, d.lgs. n. 163/2006 è divenuto il
seguente:
“1. Sono esclusi dalla partecipazione alle
procedure di affidamento delle concessioni e
degli appalti di lavori, forniture e
servizi, né possono essere affidatari di
subappalti, e non possono stipulare i
relativi contratti i soggetti … g) che hanno
commesso violazioni gravi, definitivamente
accertate, rispetto agli obblighi relativi
al pagamento delle imposte e tasse, secondo
la legislazione italiana o quella dello
Stato in cui sono stabiliti. … 2. Ai fini
del comma 1, lettera g), si intendono gravi
le violazioni che comportano un omesso
pagamento di imposte e tasse per un importo
superiore all’importo di cui all’articolo
48-bis, commi 1 e 2-bis, del decreto del
Presidente della Repubblica 29.09.1973, n. 602; costituiscono violazioni
definitivamente accertate quelle relative
all'obbligo di pagamento di debiti per
imposte e tasse certi, scaduti ed
esigibili.”.
In sostanza, il legislatore, intervenendo
due volte sulle disposizioni di cui trattasi
ha elaborato una norma complessa che, da un
lato (v. d.l. n. 70/2011) introduce il
concetto di “gravità” della violazione,
predeterminandone però il quantum attraverso
il rinvio nell’art. 38, c. 2 (terzo periodo,
prima parte) all’art. 48-bis d.p.r. n.
602/1973 (euro diecimila, salvo modifiche da
disporsi con apposito d.m. – v. art. 48-bis,
c. 2-bis) e, dall’altro lato (v. d.l. n.
16/2012), fornisce la definizione del
concetto di “violazioni definitivamente
accertate”, che sono solo quelle “relative
all'obbligo di pagamento di debiti per
imposte e tasse certi, scaduti ed
esigibili.” (v. art. 38, c. 2, terzo
periodo, seconda parte).
Orbene, le disposizioni di cui al d.l. n.
70/2011, nel testo risultante dalla legge di
conversione, che hanno modificato l’art. 38,
c. 1, lett. g) e c. 2 (terzo periodo, prima
parte), d.lgs. n. 163/2006, sono a stretto
rigore applicabili solo alle procedure i cui
bandi siano pubblicati successivamente alla
data di entrata in vigore del d.l. n.
70/2011 (v. art. 4, c. 3, d.l. n. 70/2011);
al contrario le disposizioni di cui al d.l.
n. 16/2012, che hanno introdotto la seconda
parte del terzo periodo dell’art. 38, c. 2,
per espressa previsione della legge, si
applicano retroattivamente (v. art. 1, c. 6,
d.l. n. 16/2012).
Ciò nonostante, ritiene il Collegio che il
nuovo art. 38, c. 1, lett. g) e c. 2, terzo
periodo, prima e seconda parte, d.lgs. n.
163/2006, contenga delle disposizioni che
vanno lette complessivamente in modo
unitario. Da esse si astrae, attraverso una
corretta e ragionevole operazione
ermeneutica, una norma (sul rapporto tra
“disposizioni” e “norma”, v.
TAR Sicilia,
sez. III, 05.07.2012, n. 1403), alla
quale non può che darsi complessivamente
valore di norma interpretativa nel segno di
un’unitaria considerazione della regolazione
della fattispecie, come tale avente,
anch’essa, efficacia retroattiva e, dunque,
in quanto tale, con effetti anche sulla
controversia in esame.
In tal senso depone in particolare
l’utilizzo dell’espressione “si intendono”
al fine di predeterminare il concetto di
“gravità” della violazione che è sottratto
al sindacato discrezionale della stazione
appaltante (v. determinazione dell’A.V.C.P.
n. 1/2012: “non residua in capo alla
stazione appaltante alcun margine di
discrezionalità per effettuare un
apprezzamento sulla gravità dell’illecito
commesso dall’operatore economico; dunque,
in presenza di un debito fiscale
definitivamente accertato di importo
superiore a quello previsto dalla legge
citata, la stazione appaltante è costretta
ad escludere, poiché la valutazione della
gravità è stata già effettuata a monte dal
legislatore”), nonché la ratio delle
modifiche introdotte dal d.l. n. 70/2011,
cioè quella di ridurre i tempi di
costruzione delle opere pubbliche,
semplificare le procedure di affidamento dei
relativi contratti pubblici, garantire un
più efficace sistema di controllo e ridurre
il contenzioso (v. art. 1, c. 1, prima
parte, d.l. n. 70/2011).
L’opzione ermeneutica offerta consente,
invero, di porre fine ai contrasti
giurisprudenziali in materia
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 02.08.2012 n. 1752 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La violazione della
normativa urbanistica determina ex se
l’interesse pubblico al ripristino della
legalità violata, sicché i provvedimenti di
repressione degli abusi edilizi (ordine di
demolizione e ogni altro provvedimento
sanzionatorio) costituiscono atto dovuto
della Pubblica amministrazione,
riconducibile ad esercizio di potere
vincolato, in mera dipendenza
dall'accertamento dell'abuso e della
riconducibilità del medesimo ad una delle
fattispecie di illecito previste dalla
legge, con il risultato che il provvedimento
sanzionatorio non richiede una particolare
motivazione, essendo sufficiente la mera
rappresentazione del carattere illecito
dell'opera realizzata, e senza che sia
necessaria una previa comparazione
dell'interesse pubblico alla repressione
dell'abuso, che è in re ipsa , con
l'interesse del privato proprietario del
manufatto.
La violazione della
normativa urbanistica determina ex se
l’interesse pubblico al ripristino della
legalità violata (da ultimo, ex plurimis,
TAR Campania, Napoli, sez. VII, 10.05.2012 n. 2175), sicché i provvedimenti di
repressione degli abusi edilizi (ordine di
demolizione e ogni altro provvedimento
sanzionatorio) costituiscono atto dovuto
della Pubblica amministrazione,
riconducibile ad esercizio di potere
vincolato, in mera dipendenza
dall'accertamento dell'abuso e della
riconducibilità del medesimo ad una delle
fattispecie di illecito previste dalla
legge, con il risultato che il provvedimento
sanzionatorio non richiede una particolare
motivazione, essendo sufficiente la mera
rappresentazione del carattere illecito
dell'opera realizzata, e senza che sia
necessaria una previa comparazione
dell'interesse pubblico alla repressione
dell'abuso, che è in re ipsa , con
l'interesse del privato proprietario del
manufatto (così Cons. St., sez. IV,
20.07.2011 n. 4403)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 02.08.2012 n. 1742 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: La
comunicazione di avvio del procedimento è
superflua quando:
- l'adozione del provvedimento finale è
doverosa (oltre che vincolata) per
l'Amministrazione;
- i presupposti fattuali dell'atto risultano
assolutamente incontestati dalle parti; il
quadro normativo di riferimento non presenta
margini di incertezza sufficientemente
apprezzabili;
- l'eventuale annullamento del provvedimento
finale, per accertata violazione
dell'obbligo formale di comunicazione, non
priverebbe l'amministrazione del potere (o
addirittura del dovere) di adottare un nuovo
provvedimento di identico contenuto (anche
in relazione alla decorrenza dei suoi
effetti giuridici).
La giurisprudenza esclude l’obbligo di
comunicazione dell’avvio del procedimento
per i provvedimenti a carattere
sanzionatorio in materia di violazioni
edilizie, anche in considerazione che l’art.
21-octies della l. 241 che non ammette
l’annullamento del provvedimento emesso in
violazione di norme del procedimento il cui
contenuto non avrebbe potuto essere diverso
da quello in concreto adottabile.
Va altresì considerato che la comunicazione
di avvio del procedimento serve a stimolare
l’apporto partecipativo del privato al
procedimento stesso, e risulta inutile
proprio nei casi in cui l’apporto sarebbe
inutile alla luce del contenuto
dell’emanando provvedimento.
Per
giurisprudenza costante e pacifica, la
comunicazione di avvio del procedimento è
superflua quando:
- l'adozione del
provvedimento finale è doverosa (oltre che
vincolata) per l'Amministrazione;
- i
presupposti fattuali dell'atto risultano
assolutamente incontestati dalle parti; il
quadro normativo di riferimento non presenta
margini di incertezza sufficientemente
apprezzabili;
- l'eventuale annullamento del
provvedimento finale, per accertata
violazione dell'obbligo formale di
comunicazione, non priverebbe
l'amministrazione del potere (o addirittura
del dovere) di adottare un nuovo
provvedimento di identico contenuto (anche
in relazione alla decorrenza dei suoi
effetti giuridici) (TAR Piemonte, sez. II,
08.05.2012 n. 507).
D’altra parte la giurisprudenza esclude
l’obbligo di comunicazione dell’avvio del
procedimento per i provvedimenti a carattere
sanzionatorio in materia di violazioni
edilizie (ex multis, TAR Reggio Calabria,
09.05.2012 n. 336), anche in
considerazione che l’art. 21-octies della l.
241 che non ammette l’annullamento del
provvedimento emesso in violazione di norme
del procedimento il cui contenuto non
avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottabile (ex plurimis, TAR
Campania, Napoli, sez. III, 04.05.2012 n.
2052).
Va altresì considerato che la comunicazione
di avvio del procedimento serve a stimolare
l’apporto partecipativo del privato al
procedimento stesso, e risulta inutile
proprio nei casi in cui l’apporto sarebbe
inutile alla luce del contenuto
dell’emanando provvedimento, come nel caso
concreto, in cui –stante l’indiscutibile
accertamento del giudice civile in ordine
alla proprietà dell’area– la ricorrente
Lupo Grazia non avrebbe avuto alcun
argomento sostanziale per opporsi
all’emissione del provvedimento di
annullamento d’ufficio, vincolato
all’accertamento dell’inesistenza della
titolarità dell’area di sedime dell’edificio
realizzato (circostanza di fatto alla quale
il Comune non avrebbe potuto ovviare in
alcun modo, se non legittimando l’esistenza
di una sanatoria di un edificio che, stando
così le cose, non avrebbe mai potuto
concedere) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 02.08.2012 n. 1742 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
semplice disponibilità dell’area non è
sufficiente per conseguire l'effetto finale
conseguente all'instaurazione di un
procedimento amministrativo preordinato al
rilascio di una concessione edilizia, in
presenza di un esplicito atto di opposizione
del proprietario.
... per
l'annullamento, previa sospensione del
provvedimento datato 04.04.2012, del
Comune di Monreale - Area Gestione
Territorio, con il quale venivano annullati
la concessione edilizia in sanatoria n. 195
rilasciata in data 21.07.2004 e il
certificato di abitabilità rilasciato in
data 31.03.2005 afferente un edificio
adibito a civile abitazione.
...
Grazia Lupo ha impugnato il provvedimento
indicato in epigrafe, con il quale il Comune
di Monreale ha annullato d’ufficio la
concessione in sanatoria, rilasciata il 21.07.2004, e il certificato di abitabilità
del 31.03.2005, entrambi relativi ad un
edificio sito in Monreale, c.da Valle
Sapone, fg. 25 p.lla 402 sub 4 e 5, la cui
proprietà, in forza della sentenza
definitiva della Corte di Cassazione del 22.02.2011, non è attribuibile a Lupo
Grazia, sicché, difettando la titolarità
dell’area, si è reso necessario
l’annullamento.
...
La
legittimazione dei proprietari di
costruzioni a chiedere la sanatoria edilizia
non significa che sia sufficiente la
proprietà superficiaria dell’edificio, in
mancanza di quella dell’area di sedime.
Tutto ciò considerando che nel provvedimento
concessorio, del 2004, il presupposto
fattuale consisteva nella “proprietà
dell’area di sedime dell’edificio” da parte
di Lupo Grazia, “giusto atto di assegnazione
e divisione” del 1975, proprietà che, come
più volte ripetuto, è stata messa in
discussione a seguito dell’azione di
regolamento di confini proposta da Lupo
Enzo, che ha definitivamente accertato
l’inesistenza del diritto reale in capo alla
ricorrente, e quindi ha fatto venir meno il
presupposto fondante del provvedimento
annullato.
La giurisprudenza amministrativa, inoltre,
ha osservato in più occasioni che la
semplice disponibilità dell’area non è
sufficiente per conseguire l'effetto finale
conseguente all'instaurazione di un
procedimento amministrativo preordinato al
rilascio di una concessione edilizia, in
presenza di un esplicito atto di opposizione
del proprietario (TAR Sicilia, Catania,
sez. I, 08.07.2010
n. 2911).
Ne consegue che, nel caso di specie,
l’opposizione del germano Lupo Enzo (che
aveva instaurato apposito contenzioso volto
alla contestazione della proprietà
dell’area) vale di per sé a rendere
inesistente ab origine la stessa
disponibilità giuridica dell’area da parte
della ricorrente (in tal senso, si veda
anche TAR Veneto, sez. II, 19.12.2008 n.
3922) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 02.08.2012 n. 1742 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: E' pacifico in giurisprudenza che
l’attendibilità dell’offerta debba essere
valutata in forza di un apprezzamento
complessivo, ma resta fermo che le
modificazioni consentite si riducono alla
possibilità di variare le giustificazioni
delle singole voci di costo rispetto a
quelle già fornite e alla possibilità di
“aggiustare” singole voci di costo, in
ragione di documentate sopravvenienze di
fatto o normative che comportino una
riduzione dei costi, o di originari e
comprovati errori di calcolo, o di altre
ragioni plausibili.
Insomma, l'offerta è immodificabile, mentre
modificabili sono le giustificazioni e sono
ammesse giustificazioni sopravvenute, nonché
compensazioni tra sottostime e sovrastime,
purché l'offerta risulti nel suo complesso
affidabile al momento dell'aggiudicazione e,
a tale momento, dia garanzia di una seria
esecuzione del contratto.
Viceversa, non sono consentiti aggiustamenti
dell’offerta in itinere e l’amministrazione
deve verificare “la serietà di una offerta
consapevolmente già formulata ed immutabile”.
Pertanto, non si può “consentire che in sede
di giustificazioni vengano apoditticamente
rimodulate le voci di costo senza alcuna
motivazione, con un’operazione di finanza
creativa priva di pezze d’appoggio, al solo
scopo di “far quadrare i conti”, ossia di
assicurarsi che il prezzo complessivo
offerto resti immutato e si superino le
contestazioni sollevate dalla stazione
appaltante su alcune voci di costo”.
Da ciò si ricava “l'inaccettabilità di
quelle giustificazioni che risultino
tardivamente dirette (nel tentativo di far
apparire seria un'offerta che viceversa non
è stata adeguatamente meditata) ad
un'allocazione dei costi diversa rispetto a
quella originariamente enunciata. Si vuol
dire che se una
quota di costo è stata indicata a titolo di
spese generali, quella voce non può poi
essere invocata, nel corso del subprocedimento
di giustificazione, per coprire costi
diversi”.
E' pacifico in giurisprudenza che
l’attendibilità dell’offerta debba essere
valutata in forza di un apprezzamento
complessivo, ma resta fermo che le
modificazioni consentite si riducono alla
possibilità di variare le giustificazioni
delle singole voci di costo rispetto a
quelle già fornite e alla possibilità di
“aggiustare” singole voci di costo, in
ragione di documentate sopravvenienze di
fatto o normative che comportino una
riduzione dei costi, o di originari e
comprovati errori di calcolo, o di altre
ragioni plausibili.
Insomma, l'offerta è immodificabile, mentre
modificabili sono le giustificazioni e sono
ammesse giustificazioni sopravvenute, nonché
compensazioni tra sottostime e sovrastime,
purché l'offerta risulti nel suo complesso
affidabile al momento dell'aggiudicazione e,
a tale momento, dia garanzia di una seria
esecuzione del contratto (Consiglio di
Stato, sez. V, 23.06.2010, n. 3962).
Viceversa, non sono consentiti aggiustamenti
dell’offerta in itinere e l’amministrazione
deve verificare “la serietà di una offerta
consapevolmente già formulata ed immutabile”
(Consiglio di stato, sez. V, 12.03.2009,
n. 1451).
Pertanto, non si può “consentire che in sede
di giustificazioni vengano apoditticamente
rimodulate le voci di costo senza alcuna
motivazione, con un’operazione di finanza
creativa priva di pezze d’appoggio, al solo
scopo di “far quadrare i conti”, ossia di
assicurarsi che il prezzo complessivo
offerto resti immutato e si superino le
contestazioni sollevate dalla stazione
appaltante su alcune voci di costo” (cfr.
Consiglio di Stato, sez. VI, 07.02.2012, n. 636).
Da ciò si ricava “l'inaccettabilità di
quelle giustificazioni che risultino
tardivamente dirette (nel tentativo di far
apparire seria un'offerta che viceversa non
è stata adeguatamente meditata) ad
un'allocazione dei costi diversa rispetto a
quella originariamente enunciata. Si vuol
dire che se, come avviene nella specie, una
quota di costo è stata indicata a titolo di
spese generali, quella voce non può poi
essere invocata, nel corso del subprocedimento
di giustificazione, per coprire costi
diversi” (Consiglio di Stato, sez. V,
12.03.2009, n. 1451) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 01.08.2012 n. 2175 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
disposizione dell'art. 3, comma 4, l. n.
241 del 1990 non influisce
sull'individuazione e sulla cura
dell'interesse pubblico concreto cui è
finalizzato il provvedimento, né sulla
riconducibilità dello stesso all'autorità
amministrativa, ma tende semplicemente ad
agevolare il ricorso alla tutela
giurisdizionale, sicché l'omissione de qua,
nel concorso di significative ulteriori
circostanze, potrebbe semmai dar luogo alla
concessione del beneficio della rimessione
in termini.
RITENUTO:
► che va preliminarmente escluso il rilievo
delle censure di natura formale attinenti
alla violazione dell’art. 3 della legge n.
241/1990 per l’omessa menzione nell’atto
impugnato del termine di impugnazione e
dell’Autorità giudiziaria cui ricorrere, dal
momento che la censura è innanzitutto
smentita testualmente, in quanto la parte
dispositiva del provvedimento gravato
include esplicitamente la comunicazione che
avverso il predetto è ammesso ricorso al
Tribunale Amministrativo Regionale “entro i
termini di legge”, né alcun significato può
attribuirsi alla omessa precisazione della
durata del predetto termine, dal momento che
ad essa pacificamente la giurisprudenza non
attribuisce efficacia invalidante.
Infatti,
la disposizione dell'art. 3, comma 4, l. n.
241 del 1990 non influisce
sull'individuazione e sulla cura
dell'interesse pubblico concreto cui è
finalizzato il provvedimento, né sulla
riconducibilità dello stesso all'autorità
amministrativa, ma tende semplicemente ad
agevolare il ricorso alla tutela
giurisdizionale, sicché l'omissione de qua,
nel concorso di significative ulteriori
circostanze, potrebbe semmai dar luogo alla
concessione del beneficio della rimessione
in termini (cfr Tar Campania, Napoli,
sez. VII 02.11.2010 n. 22291; Tar Campania
Napoli sez. VIII 14.03.2011 n. 1459) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 31.07.2012 n. 3710 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’ordine
di demolizione non deve essere
necessariamente preceduto dalla
comunicazione di avvio del procedimento,
trattandosi di atto dovuto e rigorosamente
vincolato, rispetto al quale non sono
richiesti apporti partecipativi del
destinatario ed il cui presupposto è
costituito unicamente dalla constatata
esecuzione dell'opera in totale difformità o
in assenza del titolo abilitativo.
Rispetto ad un ordine di demolizione non si
richiede una specifica motivazione che dia
conto della valutazione delle ragioni di
interesse pubblico alla demolizione, o della
comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati,
senza che sussista alcuna violazione
dell'art. 3, l. n. 241 del 1990, dato che,
ricorrendo i predetti requisiti, il
provvedimento deve intendersi
sufficientemente motivato con l'affermazione
dell'accertata abusività dell'opera, essendo
in re ipsa l'interesse pubblico concreto ed
attuale alla sua rimozione.
---------------
In materia di demolizione, la figura del
responsabile dell’abuso non si identifica
solo in colui che ha materialmente eseguito
l’opera ritenuta abusiva, ma si riferisce,
necessariamente, anche a chi di quell’opera
ha la materiale disponibilità e pertanto,
quale detentore, è in grado di provvedere
alla demolizione restaurando così l’ordine
violato.
L’ordine di demolizione, infatti, non
presuppone l’accertamento dell’elemento
soggettivo integrante responsabilità a
carico del suo destinatario, né è un
provvedimento diretto a sanzionare un
comportamento illegittimo del trasgressore,
ma è un atto di tipo ripristinatorio avendo
la funzione di eliminare le conseguenze
della violazione edilizia, attraverso la
riduzione in pristino dello stato dei luoghi
conseguente alla rimozione delle opere
abusive. Per tale ragione l’ordine di
demolizione deve essere rivolto a colui che
abbia la disponibilità materiale dell’opera
abusiva, indipendentemente dal fatto che
l’abbia concretamente realizzata, aspetto
che potrebbe rilevare sotto il profilo della
responsabilità penale, ma non per la
legittimità dell’ordine di demolizione.
Si è difatti affermato con riguardo
all’analoga posizione dell’utilizzatore di
un bene abusivo realizzato su area
demaniale, che: “i provvedimenti repressivi
di illeciti edilizi possono essere
indirizzati anche a persone diverse da
quelle che hanno materialmente realizzato
l’abuso, ma è anche vero che, ai fini della
legittimità delle relative ingiunzioni, è
sempre necessaria la sussistenza di una
relazione giuridica o materiale del
destinatario con il bene".
---------------
L’ordine di demolizione correttamente è
rivolto, ad avviso del Collegio, a colui che
al momento della sua irrogazione aveva
l’attuale disponibilità del bene abusivo e
ciò indipendente dal fatto di averlo
realizzato.
RITENUTO:
► che, in ordine alla mancanza della previa
diffida prevista per gli abusi contestati ai
sensi dell’art. 35 d.p.r. n. 380/2001, deve
osservarsi, ad avviso del Collegio, che si
tratta di un adempimento prescritto dalla
legge, onde consentire all’interessato di
eliminare spontaneamente l’abuso
contestatogli, al fine di evitare di
incorrere nella misura del ripristino
suscettibile di essere eseguita dal Comune
d’ufficio ed a spese del responsabile
dell’abuso.
Al riguardo, la ricorrente non
ha dedotto che, ove previamente diffidata,
avrebbe avuto la possibilità di eliminare
l’abuso e di non incorrere nell’ordine
gravato, avendo al contrario manifestato con
il presente ricorso un interesse al
mantenimento in vita delle opere abusive de quibus;
► che, stante la descritta natura
sollecitatoria della diffida in questione,
la sua omissione non potrebbe acquisire
rilievo nemmeno quale omessa garanzia
partecipativa la cui operatività, peraltro,
è pacificamente esclusa per orientamento
costante di questo Collegio nella materia in
esame.
L’ordine di demolizione, difatti, non
deve essere necessariamente preceduto dalla
comunicazione di avvio del procedimento,
trattandosi di atto dovuto e rigorosamente
vincolato, rispetto al quale non sono
richiesti apporti partecipativi del
destinatario ed il cui presupposto è
costituito unicamente dalla constatata
esecuzione dell'opera in totale difformità o
in assenza del titolo abilitativo;
► che rispetto ad un ordine di demolizione non
si richiede una specifica motivazione che
dia conto della valutazione delle ragioni di
interesse pubblico alla demolizione, o della
comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati,
senza che sussista alcuna violazione
dell'art. 3, l. n. 241 del 1990, dato che,
ricorrendo i predetti requisiti, il
provvedimento deve intendersi
sufficientemente motivato con l'affermazione
dell'accertata abusività dell'opera, essendo
in re ipsa l'interesse pubblico concreto ed
attuale alla sua rimozione (cfr, ex plurimis,
Consiglio Stato, sez. IV, 31.08.2010,
n. 3955);
► che, quanto all’assunta estraneità all’abuso
sul presupposto –rimasto comunque
indimostrato in atti- della preesistenza
delle opere alla consegna dell’alloggio in
questione, è bene chiarire che in materia di
demolizione, ad avviso del Collegio, la
figura del responsabile dell’abuso non si
identifica solo in colui che ha
materialmente eseguito l’opera ritenuta
abusiva, ma si riferisce, necessariamente,
anche a chi di quell’opera ha la materiale
disponibilità e pertanto, quale detentore, è
in grado di provvedere alla demolizione
restaurando così l’ordine violato.
L’ordine
di demolizione, infatti, non presuppone
l’accertamento dell’elemento soggettivo
integrante responsabilità a carico del suo
destinatario, né è un provvedimento diretto
a sanzionare un comportamento illegittimo
del trasgressore, ma è un atto di tipo ripristinatorio avendo la funzione di
eliminare le conseguenze della violazione
edilizia, attraverso la riduzione in
pristino dello stato dei luoghi conseguente
alla rimozione delle opere abusive. Per tale
ragione l’ordine di demolizione deve essere
rivolto a colui che abbia la disponibilità
materiale dell’opera abusiva,
indipendentemente dal fatto che l’abbia
concretamente realizzata, aspetto che
potrebbe rilevare sotto il profilo della
responsabilità penale, ma non per la
legittimità dell’ordine di demolizione.
Si è
difatti affermato con riguardo all’analoga
posizione dell’utilizzatore di un bene
abusivo realizzato su area demaniale, che:
“i provvedimenti repressivi di illeciti
edilizi possono essere indirizzati anche a
persone diverse da quelle che hanno
materialmente realizzato l’abuso, ma è anche
vero che, ai fini della legittimità delle
relative ingiunzioni, è sempre necessaria la
sussistenza di una relazione giuridica o
materiale del destinatario con il bene” (cfr
C.d.S. sez. IV 16.07.2007 n. 4008);
► che il presupposto del provvedimento
amministrativo emesso ai sensi dell’art. 35
d.p.r. n. 380/2001 è la realizzazione di
un’opera in assenza di permesso di costruire
(ovvero in totale o parziale difformità dal
medesimo) su suoli del demanio o del
patrimonio dello Stato o di enti pubblici,
la cui eliminazione è necessaria per
ripristinare il corretto assetto del
territorio, sicché l’ordine di demolizione
correttamente è rivolto, ad avviso del
Collegio, a colui che al momento della sua
irrogazione aveva l’attuale disponibilità
del bene abusivo e ciò indipendente dal
fatto di averlo realizzato (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 31.07.2012 n. 3710 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell'art. 3, d.P.R.
06.06.2001 n. 380, la costruzione di una
veranda, con conseguente incremento di
superficie utile e mutamento di destinazione
d’uso della superficie occupata dal balcone
che comporta un aumento di volumetria, deve
essere qualificata ristrutturazione
edilizia, in quanto si risolve nella
realizzazione di un organismo diverso dal
precedente per struttura e destinazione e
quindi, ai sensi dell'art. 10, stesso d.P.R.,
richiede il previo rilascio del permesso di
costruire in mancanza del quale è legittimo
l'ordine di demolizione.
La
realizzazione di una veranda cui consegua un
aumento di volumetria deve essere
qualificata, ai sensi dell'art. 3 del d.P.R.
n. 380 del 2001, come ristrutturazione
edilizia, in quanto comporta per effetto
dell'aumento di volumetria correlata, la
realizzazione di un organismo diverso dal
precedente per struttura e destinazione.
L'intervento in questione, secondo quanto
previsto dall'art. 10 del d.P.R. n. 380 del
2001, deve essere quindi assentito con
permesso di costruire il che determina la
legittimità della prescrizione demolitoria
irrogata con il provvedimento impugnato.
RITENUTO:
► che, analogamente, con riferimento alla
contestata installazione di una veranda in
alluminio sul balcone adibita in parte a
ripostiglio, la documentazione versata in
atti, costituita da una relazione redatta da
un geometra, peraltro non giurata e dagli
elaborati planimetrici ad essa allegati, in
mancanza di riproduzioni fotografiche
aggiornate dello stato dei luoghi, sono
inidonei a dimostrare la assunta natura
precaria e pertinenziale dell’opera, specie
considerando che sugli elaborati redatti dal
tecnico risulta rappresentato il solo
ripostiglio, mentre l’ordinanza redatta
all’esito del sopralluogo eseguito dai
tecnici comunali descrive chiaramente una
veranda adibita “solo in parte” a
ripostiglio.
Ai sensi dell'art. 3, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, la costruzione di una
veranda, con conseguente incremento di
superficie utile e mutamento di destinazione
d’uso della superficie occupata dal balcone
che comporta un aumento di volumetria, deve
essere qualificata ristrutturazione
edilizia, in quanto si risolve nella
realizzazione di un organismo diverso dal
precedente per struttura e destinazione e
quindi, ai sensi dell'art. 10, stesso d.P.R.,
richiede il previo rilascio del permesso di
costruire in mancanza del quale è legittimo
l'ordine di demolizione.
Recente la
giurisprudenza ha infatti precisato che la
realizzazione di una veranda cui consegua un
aumento di volumetria deve essere
qualificata, ai sensi dell'art. 3 del d.P.R.
n. 380 del 2001, come ristrutturazione
edilizia, in quanto comporta per effetto
dell'aumento di volumetria correlata, la
realizzazione di un organismo diverso dal
precedente per struttura e destinazione.
L'intervento in questione, secondo quanto
previsto dall'art. 10 del d.P.R. n. 380 del
2001, deve essere quindi assentito con
permesso di costruire il che determina la
legittimità della prescrizione demolitoria
irrogata con il provvedimento impugnato (cfr.
TAR Lazio Roma, sez. I, 01.09.2010, n. 32098; Tar Sicilia, Catania sez. II,
07.05.2012 n. 2079; Tar Napoli, sez. IV 04.02.2011 n. 716) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 31.07.2012 n. 3710 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
opere di demolizione e costruzione di
tramezzi interni, finalizzate ad una diversa
distribuzione degli spazi interni sono
assoggettate a mera comunicazione ai sensi
dell'art. 6 del d.p.r. n. 380 cit. che
include tra le opere di manutenzione
straordinaria lo spostamento di pareti
interne.
RITENUTO:
► che a diverse conclusioni deve pervenirsi
limitatamente alle contestate opere di
demolizione e costruzione di tramezzi
interni finalizzate ad una diversa
distribuzione degli spazi interni che, come
innanzi anticipato, sono assoggettate a mera
comunicazione ai sensi del sopra richiamato
art. 6 del d.p.r. n. 380 cit. che include
tra le opere di manutenzione straordinaria
lo spostamento di pareti interne (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 31.07.2012 n. 3710 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Non
è ammissibile l’istanza con la quale sia
chiesta all’Amministrazione non l’ostensione
di atti già esistenti in rerum natura, ma
una attività di elaborazione e formazione di
nuovi documenti che non può mai essere
pretesa in sede di accesso.
Non può sussistere alcun valido e
qualificato interesse all’ostensione di atti
e documenti che non hanno avuto alcuna
rilevanza esterna, restando meri interna
corporis dell’Amministrazione privi di ogni
seguito.
Con riferimento a tali
atti, l’Amministrazione appellante precisa
che si tratterebbe, almeno in parte, di atti
non esistenti presso l’Agenzia delle
Entrate, e comunque che, per quanto concerne
le informazioni esistenti nelle banche dati
dell’Anagrafe Tributaria, sarebbe
impossibile soddisfare le richieste della
società appellata senza procedere ad una
complessa estrapolazione di dati: infatti,
l’istante non ha chiesto la trasmissione di
documentazione “statica”, quale sarebbe ad
esempio il complesso delle informazioni che
la riguardano esistenti presso l’Anagrafe
Tributaria, bensì l’acquisizione di
specifici atti (segnalazioni, note di
trasmissione etc.) che su tale realtà
“statica” hanno inciso.
Pertanto, trova applicazione l’indirizzo per
cui non è ammissibile l’istanza con la quale
sia chiesta all’Amministrazione non
l’ostensione di atti già esistenti in rerum
natura, ma una attività di elaborazione e
formazione di nuovi documenti che non può
mai essere pretesa in sede di accesso (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 20.04.2012, nr.
2362; Cons. Stato, sez. VI, 12.07.2011, nr. 4209; Cons. Stato, sez. IV, 30.11.2010, nr. 8359).
Un
discorso a parte, poi, va fatto per quanto
concerne la richiesta di acquisizione di una
pregressa iscrizione a ruolo e del relativo
provvedimento di annullamento intervenuto
prima che la stessa divenisse efficace,
della quale la società appellata assume di
essere venuta a conoscenza e che ritiene
sintomatiche degli intenti scorretti e
persecutori dell’Amministrazione.
Sul punto, al di là di quanto già
evidenziato circa la genericità
dell’affermazione di parte istante circa la
“conoscenza” che avrebbe avuto degli atti
richiesti, va richiamato l’orientamento per
cui non può sussistere alcun valido e
qualificato interesse all’ostensione di atti
e documenti che non hanno avuto alcuna
rilevanza esterna, restando meri interna corporis dell’Amministrazione privi di ogni
seguito (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 10.01.2012, nr. 25; id., 29.10.2001, nr.
5636)
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.07.2012 n. 4316 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: La
proroga dei termini previsti dall'art. 13 l.
n. 2359 del 1865 è considerata istituto di
carattere eccezionale finalizzato ad evitare
di mantenere i beni espropriabili in stato
di soggezione a tempo indeterminato e a
tutelare l'interesse pubblico a che l'opera
venga eseguita in un congruo arco di tempo,
tale da giustificare le ragioni di serietà
dell'azione amministrativa.
Da tale pacifica affermazione
discende primariamente la conseguenza della
necessaria individuazione di cause di forza
maggiore indipendenti dalla volontà dei
concessionari che giustifichino la proroga
ed in assenza delle quali deve ritenersi
vulnerato il principio di legalità che
informa l'attività dell'amministrazione
nella materia dell'espropriazione per
pubblica utilità.
---------------
L'obbligo di motivazione del provvedimento
di proroga del termine per la conclusione
della procedura espropriativa risulta
adeguatamente assolto con il richiamo al
ritardo degli organi pubblici preposti nella
definizione delle procedure di esproprio,
che costituisce fatto estraneo alla sfera di
disponibilità dell'ente concessionario dei
lavori e, quindi, riconducibile nei
presupposti per l'adozione dell'atto di
proroga del termine quali identificati
dall'art. 13 l. n. 2359 del 1865.
La normativa di
riferimento, costituita dall’evocato art. 13
della legge sull’espropriazione del 1865,
oggi abrogata dal testo unico sulle
procedure espropriative, ma rilevante ratione temporis per il presente appello,
prevedeva, al comma 1, che nell’atto che
dichiara la pubblica utilità di un’opera
fossero indicati i termini “entro i quali
dovranno cominciarsi e compiersi le
espropriazioni e i lavori”, mentre al
successivo comma 2 prevedeva che “l’autorità
che stabilì i suddetti termini li può
prorogare per casi di forza maggiore o per
altre cagioni indipendenti dalla volontà dei
concessionari, ma sempre con determinata prefissione di tempo”.
Dalla lettura giurisprudenziale data al
complesso normativo, emerge come la proroga
dei termini previsti dall'art. 13 l. n. 2359
del 1865 sia considerata istituto di
carattere eccezionale finalizzato ad evitare
di mantenere i beni espropriabili in stato
di soggezione a tempo indeterminato e a
tutelare l'interesse pubblico a che l'opera
venga eseguita in un congruo arco di tempo,
tale da giustificare le ragioni di serietà
dell'azione amministrativa (da ultimo,
Consiglio di Stato, sez. VI, 10.10.2002
n. 5443).
Da tale pacifica affermazione
discende primariamente la conseguenza della
necessaria individuazione di cause di forza
maggiore indipendenti dalla volontà dei
concessionari che giustifichino la proroga
ed in assenza delle quali deve ritenersi
vulnerato il principio di legalità che
informa l'attività dell'amministrazione
nella materia dell'espropriazione per
pubblica utilità.
...
Quindi, anche nel procedimento civile, è
emersa l’oggettiva complessità della vicenda
catastale della particella, elemento questo
a fondare la ragione giustificativa della
proroga, atteso che l'obbligo di motivazione
del provvedimento di proroga del termine per
la conclusione della procedura espropriativa
risulta adeguatamente assolto con il
richiamo al ritardo degli organi pubblici
preposti nella definizione delle procedure
di esproprio, che costituisce fatto estraneo
alla sfera di disponibilità dell'ente
concessionario dei lavori e, quindi,
riconducibile nei presupposti per l'adozione
dell'atto di proroga del termine quali
identificati dall'art. 13 l. n. 2359 del
1865 (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. VI,
22.06.2005 n. 3298)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.07.2012 n. 4301 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L'istituto della conferenza di
servizi cosiddetta decisoria, disciplinato
dagli artt. 14 ss. della legge 07.08.1990 n. 241,
come modificato dalle leggi 24.11.2000 n.
340 e 11.02.2005 n. 15, è caratterizzato da
una struttura dicotomica, articolata in una
fase che si conclude con la determinazione
della conferenza, che ha valenza endoprocedimentale, e in una successiva
fase, che si conclude con l'adozione del
provvedimento finale, che ha valenza
esoprocedimentale ed esterna, effettivamente
determinativa della fattispecie e incidente
sulle situazioni degli interessati.
Ciò, in quanto la legge 11.2.2005 n. 15 ha
espressamente abrogato la previsione
normativa (art. 14-ter, comma 7), che
consentiva alle amministrazioni dissenzienti
di impugnare direttamente ed immediatamente
la determinazione conclusiva della
conferenza di servizi ed ha (comma 6-bis del
citato art. 14-ter), rafforzato il ruolo e
la responsabilità dell'amministrazione
procedente, cui è rimessa la determinazione
finale previa valutazione delle specifiche
risultanze della conferenza, tenendo conto
delle posizioni prevalenti ivi espresse,
nonché ferma restando l'autonomia del potere
provvedimentale dell'autorità procedente
stessa -su cui si concentra l'imputazione di
responsabilità che non è condivisa dagli
altri partecipanti alla conferenza- a
seguito della valutazione collegiale.
Pertanto, la conferenza di servizi decisoria
va considerata uno strumento procedimentale
di mero coordinamento tra amministrazioni
autonome e distinte ed i verbali stilati a
conclusione dei lavori, che, avendo natura
endoprocedimentale, non è autonomamente
impugnabile per carenza di interesse (TAR
Toscana, sez. II, 20.10.2006, n. 4565,
che ha precisato: “i verbali di conclusione
delle conferenze di servizi decisorie,
nell’ambito dei procedimenti di bonifica dei
siti contaminati di interesse nazionale, ai
sensi del d.m. 471 del 1999, non assurgono
al rango di provvedimenti conclusivi del
procedimento; trattandosi di atti endoprocedimentali, essi non possono
ritenersi autonomamente impugnabili”).
Invero, secondo il prevalente orientamento -da cui non v'è motivo di discostarsi-
l'istituto della conferenza di servizi
cosiddetta decisoria, disciplinato dagli
artt. 14 ss. della legge 07.08.1990 n. 241,
come modificato dalle leggi 24.11.2000 n.
340 e 11.02.2005 n. 15, è caratterizzato da
una struttura dicotomica, articolata in una
fase che si conclude con la determinazione
della conferenza, che ha valenza endoprocedimentale, e in una successiva
fase, che si conclude con l'adozione del
provvedimento finale, che ha valenza
esoprocedimentale ed esterna, effettivamente
determinativa della fattispecie e incidente
sulle situazioni degli interessati.
Ciò, in quanto la legge 11.2.2005 n. 15 ha
espressamente abrogato la previsione
normativa (art. 14-ter, comma 7), che
consentiva alle amministrazioni dissenzienti
di impugnare direttamente ed immediatamente
la determinazione conclusiva della
conferenza di servizi ed ha (comma 6-bis del
citato art. 14-ter), rafforzato il ruolo e
la responsabilità dell'amministrazione
procedente, cui è rimessa la determinazione
finale previa valutazione delle specifiche
risultanze della conferenza, tenendo conto
delle posizioni prevalenti ivi espresse,
nonché ferma restando l'autonomia del potere
provvedimentale dell'autorità procedente
stessa -su cui si concentra l'imputazione
di responsabilità che non è condivisa dagli
altri partecipanti alla conferenza- a
seguito della valutazione collegiale (ex plurimis: Cons. Stato: Sez. VI, 11.12.2008
n. 5620; 09.11.2010 n. 7981; 31.01.2011 n.
712).
Pertanto, la conferenza di servizi decisoria
va considerata uno strumento procedimentale
di mero coordinamento tra amministrazioni
autonome e distinte ed i verbali stilati a
conclusione dei lavori, che, avendo natura
endoprocedimentale, non è autonomamente
impugnabile per carenza di interesse (ex plurimis: Cons. St., sez. VI,
09.11.2010, n. 7981; TAR Toscana, sez. II, 24.08.2009, n. 1398, ed ancora TAR
Toscana, sez. II, 20.10.2006, n. 4565,
che ha precisato: “i verbali di conclusione
delle conferenze di servizi decisorie,
nell’ambito dei procedimenti di bonifica dei
siti contaminati di interesse nazionale, ai
sensi del d.m. 471 del 1999, non assurgono
al rango di provvedimenti conclusivi del
procedimento; trattandosi di atti endoprocedimentali, essi non possono
ritenersi autonomamente impugnabili”)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 26.07.2012 n. 810 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Quanto al rapporto tra il
soggetto che procede alla bonifica e
l’Autorità competente, il D.Lgs. n. 152/2006
individua nella Conferenza di Servizi il
modulo procedimentale con cui valutare,
approvare, magari con prescrizioni, o
respingere i piani e i progetti presentati
dal proponente, all’interno delle diverse
fasi.
I provvedimenti assunti nel corso del
procedimento di bonifica non si
diversificano rispetto a quelli che, di
norma, vengono assunti in materia ambientale
nei confronti del proprietario o di chi
gestisce un impianto produttivo, come, ad
esempio, l’autorizzazione allo scarico (art.
124 D.Lgs. n. 152/2006) o l’autorizzazione
alle emissioni in atmosfera (art. 269 D.Lgs.
n. 152/2006), in relazione alle quali le
Amministrazioni competenti, di solito,
subordinano la validità dell’autorizzazione
richiesta al rispetto di puntuali
prescrizioni.
Secondo l’art. 245 D.Lgs. n. 03.04.2006 n.
152, il proprietario del sito ha il diritto,
in qualunque momento, di intervenire nel
procedimento di bonifica, sostituendosi a
colui che lo aveva aperto.
L’art. 242 del D.Lgs. n.152/2006, prevede,
sulla base del principio di matrice
comunitaria del chi inquina paga, che, nelle
attività di bonifica e messa in sicurezza
del sito contaminato, sia coinvolto in
primis il responsabile dell’inquinamento,
mentre gli artt. 245 e 252 del D.Lgs.
n.152/2006 prevedono che il soggetto non
responsabile della potenziale
contaminazione, id est il proprietario, ha
soltanto una facoltà di intervento per la
realizzazione delle attività di bonifica.
Invero, ai sensi dell’art. 253 del D.Lgs n.
152/2006, gli interventi, ove realizzati
d’ufficio dall’autorità competente,
nell’inerzia dei soggetti obbligati o
volontariamente intervenuti, costituiscono
onere reale sui siti e comportano spese
assistite da privilegio speciale immobiliare
sulle aree medesime: è prevista, quindi, una
forma di responsabilità patrimoniale
indiretta per il proprietario dell’area,
oltre che una limitazione alla sua
responsabilità patrimoniale (ai sensi
dell’art. 253, comma 4, il proprietario
risponde nei limiti del valore di mercato
del sito).
Conseguentemente, il suo obbligo di facere,
già ex se incoercibile (nemo ad facere cogi
potest), non potrebbe risultare
incondizionato, essendo normativamente
previsto che il proprietario non possa
essere chiamato a rispondere ultra vires
Quanto al
rapporto tra il soggetto che procede alla
bonifica e l’Autorità competente, il D.Lgs.
n. 152/2006 individua nella Conferenza di
Servizi il modulo procedimentale con cui
valutare, approvare, magari con
prescrizioni, o respingere i piani e i
progetti presentati dal proponente,
all’interno delle diverse fasi.
I provvedimenti assunti nel corso del
procedimento di bonifica non si
diversificano rispetto a quelli che, di
norma, vengono assunti in materia ambientale
nei confronti del proprietario o di chi
gestisce un impianto produttivo, come, ad
esempio, l’autorizzazione allo scarico (art.
124 D.Lgs. n. 152/2006) o l’autorizzazione
alle emissioni in atmosfera (art. 269 D.Lgs.
n. 152/2006), in relazione alle quali le
Amministrazioni competenti, di solito,
subordinano la validità dell’autorizzazione
richiesta al rispetto di puntuali
prescrizioni (conf.: TAR Lombardia-Milano, 14.01.2009, n. 93; TAR Campania,
14.01.2011, n. 152; TAR Lombardia-Milano, 06.09.2011, n. 2166).
Secondo l’art. 245 D.Lgs. n. 03.04.2006 n.
152, il proprietario del sito ha il diritto,
in qualunque momento, di intervenire nel
procedimento di bonifica, sostituendosi a
colui che lo aveva aperto.
L’art. 242 del D.Lgs. n.152/2006, prevede,
sulla base del principio di matrice
comunitaria del chi inquina paga, che, nelle
attività di bonifica e messa in sicurezza
del sito contaminato, sia coinvolto in
primis il responsabile dell’inquinamento,
mentre gli artt. 245 e 252 del D.Lgs.
n.152/2006 prevedono che il soggetto non
responsabile della potenziale
contaminazione, id est il proprietario, ha
soltanto una facoltà di intervento per la
realizzazione delle attività di bonifica.
Invero, ai sensi dell’art. 253 del D.Lgs n.
152/2006, gli interventi, ove realizzati
d’ufficio dall’autorità competente,
nell’inerzia dei soggetti obbligati o
volontariamente intervenuti, costituiscono
onere reale sui siti e comportano spese
assistite da privilegio speciale immobiliare
sulle aree medesime: è prevista, quindi, una
forma di responsabilità patrimoniale
indiretta per il proprietario dell’area,
oltre che una limitazione alla sua
responsabilità patrimoniale (ai sensi
dell’art. 253, comma 4, il proprietario
risponde nei limiti del valore di mercato
del sito).
Conseguentemente, il suo obbligo di facere,
già ex se incoercibile (nemo ad facere cogi
potest), non potrebbe risultare
incondizionato, essendo normativamente
previsto che il proprietario non possa
essere chiamato a rispondere ultra vires
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 26.07.2012 n. 810 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
lavori di
demolizione e ricostruzione di immobile che
ricada in zona vincolata ...
richiedono, oltre al necessario titolo
abilitativo, anche l'autorizzazione
dell'amministrazione preposta alla tutela
del vincolo, ai sensi degli arti. 151 e 152
del d.lgs. 29.10.1999, n. 490, ai fini
della verifica della compatibilità
dell'opera che si intende realizzare con le
esigenze di conservazione dei valori
protetti dal vincolo stesso.
La necessità di previo ottenimento
dell’autorizzazione paesaggistica, peraltro,
risulta affermata dalla giurisprudenza anche
con riferimento alle (sole) attività di
demolizione e ricostruzione, correttamente
ricondotte alla lettera d) e non alla
lettera b) dell’art. 3 del d.P.R. 380/2001
(cfr., ex multis, TAR Lazio, Roma, sez. II,
04.06.2007, n. 5158, secondo cui “...i
lavori di demolizione e ricostruzione di
immobile che ricada in zona vincolata ...
richiedono, oltre al necessario titolo
abilitativo, anche l'autorizzazione
dell'amministrazione preposta alla tutela
del vincolo, ai sensi degli arti. 151 e 152
del d.lgs. 29.10.1999, n. 490, ai fini
della verifica della compatibilità
dell'opera che si intende realizzare con le
esigenze di conservazione dei valori
protetti dal vincolo stesso”, negli stessi
termini cfr. pure TAR Campania, Napoli,
sez. IV, 31.01.2008, n. 430) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 25.07.2012 n. 3589 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’Autorità Comunale non può adottare
provvedimenti sanzionatori di abusi edilizi
prima di aver definito, con pronuncia
espressa e motivata, il procedimento di
concessione in sanatoria, in quanto
nell’eventuale sussistenza della conformità
del manufatto alla disciplina urbanistica,
la pronuncia positiva sarebbe “inutiliter
data” e gravemente illegittima risulterebbe
l’eventuale demolizione del bene. In
definitiva, una volta presentata un’istanza
di concessione di condono edilizio, in
assenza di preventiva determinazione su
quest’ultima, l’Autorità urbanistica è
tenuta ad adottare il provvedimento
sull’istanza medesima prima di procedere
all’irrogazione delle sanzioni definitive;
ciò per non correre il rischio di vanificare
l’eventuale procedimento teso a restituire
alla legalità l’opera non più esistente.
---------------
Rispetto al principio generale della non
necessità di una particolare motivazione
dell’ordine di demolizione è ammessa una
deroga proprio per il caso in cui per il
lungo lasso di tempo trascorso dalla
commissione dell’abuso e il protrarsi
dell’inerzia dell’Amministrazione preposta
alla vigilanza, avuto riguardo all’entità e
alla tipologia dell’abuso, si sia ingenerata
una posizione di affidamento nel privato,
ipotesi in relazione alla quale si ravvisa
un onere di congrua motivazione sul pubblico
interesse, evidentemente diverso da quello
al ripristino della legalità, idoneo a
giustificare il sacrificio del contrapposto
interesse privato.
---------------
Il lungo lasso di tempo trascorso dalla
commissione dell’abuso può rappresentare un
indice di affidamento solo ove il privato,
il quale abbia correttamente e in modo
compiuto reso nota la propria posizione alla
P.A., venga indotto da un provvedimento
della stessa a ritenere la legittimità del
proprio operato, mentre ciò non si verifica
quando si commette un abuso a tutta insaputa
della P.A. medesima.
Relativamente alle opere per le quali è
stata presentata domanda di condono, non
evasa dal Comune, l’ordinanza di demolizione
impugnata viola il principio, pacificamente
affermato in giurisprudenza, secondo il
quale detta sanzione non può essere
irrogata, in assenza di definizione del
relativo procedimento.
Cfr. ex multis la seguente massima:
“L’Autorità Comunale non può adottare
provvedimenti sanzionatori di abusi edilizi
prima di aver definito, con pronuncia
espressa e motivata, il procedimento di
concessione in sanatoria, in quanto
nell’eventuale sussistenza della conformità
del manufatto alla disciplina urbanistica,
la pronuncia positiva sarebbe “inutiliter
data” e gravemente illegittima risulterebbe
l’eventuale demolizione del bene. In
definitiva, una volta presentata un’istanza
di concessione di condono edilizio, in
assenza di preventiva determinazione su
quest’ultima, l’Autorità urbanistica è
tenuta ad adottare il provvedimento
sull’istanza medesima prima di procedere
all’irrogazione delle sanzioni definitive;
ciò per non correre il rischio di vanificare
l’eventuale procedimento teso a restituire
alla legalità l’opera non più esistente” (TAR Campania Napoli, sez. VI, 20.05.2009 n. 2760).
Per ciò che concerne gli ulteriori abusi
contestati, la fondatezza del ricorso deriva
dalla applicazione di altri due principi di
marca giurisprudenziale, vale a dire quello
secondo cui –prima di procedere alla
demolizione– il Comune avrebbe dovuto
annullare le autorizzazioni –in tesi–
illegittimamente concesse, e avrebbe dovuto
tenere conto del periodo risalente di
edificazione delle opere indi ritenute
abusive, motivando specificamente circa le
ragioni d’interesse pubblico prevalenti
sull’affidamento ingeneratosi nel privato.
Per un’esposizione di tali principi, si
leggano le seguenti decisioni: “Rispetto al
principio generale della non necessità di
una particolare motivazione dell’ordine di
demolizione è ammessa una deroga proprio per
il caso, quale quello di specie, in cui, per
il lungo lasso di tempo trascorso dalla
commissione dell’abuso e il protrarsi
dell’inerzia dell’Amministrazione preposta
alla vigilanza, avuto riguardo all’entità e
alla tipologia dell’abuso, si sia ingenerata
una posizione di affidamento nel privato,
ipotesi in relazione alla quale si ravvisa
un onere di congrua motivazione sul pubblico
interesse, evidentemente diverso da quello
al ripristino della legalità, idoneo a
giustificare il sacrificio del contrapposto
interesse privato” (TAR Campania
Napoli, sez. III, 04.05.2012, n. 2049);
“Il lungo lasso di tempo trascorso dalla
commissione dell’abuso può rappresentare un
indice di affidamento solo ove il privato,
il quale abbia correttamente e in modo
compiuto reso nota la propria posizione alla
P.A., venga indotto da un provvedimento
della stessa a ritenere la legittimità del
proprio operato, mentre ciò non si verifica
quando si commette un abuso a tutta insaputa
della P.A. medesima” (TAR Lombardia
Brescia, Sez. I, 16.01.2012, n. 59)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 25.07.2012 n. 1480 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
potere ex art. 7, l. 29.06.1939, n.
1497, di autorizzare costruzioni edilizie in
zone soggette a vincolo paesistico è
delegato, nella regione Campania, al sindaco
(l.reg. 01.09.1981, n. 65, e l. 23.02.1982, n. 10), che delibera previo
parere espresso dalla commissione edilizia,
integrata da cinque esperti in beni
ambientali, storia dell’arte e discipline
naturalistiche.
Di conseguenza è illegittima
l’ordinanza del sindaco di demolizione di un
impianto di distribuzione di energia
elettrica per il quale la commissione
edilizia si era pronunciata favorevolmente,
ordinanza motivata con la mancante
preventiva autorizzazione della
sovrintendenza ai beni culturali e
ambientali, cui l’autorizzazione del sindaco
viene trasmessa all’unico scopo di
consentire al Ministro l’esercizio del
potere di annullamento ex art. 82, comma 9, d.P.R. 24.07.1977 n. 616.
Per ciò
che concerne, infine, la dedotta
illegittimità delle opere realizzate, per
non essere state le stesse autorizzate dalla
Soprintendenza (emergente da vari punti
dalla relazione delle funzionarie di
quest’ultimo ente, sulla quale s’è fondata
l’ordinanza di demolizione impugnata), va
richiamato l’ulteriore orientamento della
giurisprudenza del TAR Campania,
compendiato nella massima che segue: “Il
potere ex art. 7, l. 29.06.1939, n.
1497, di autorizzare costruzioni edilizie in
zone soggette a vincolo paesistico è
delegato, nella regione Campania, al sindaco
(l.reg. 01.09.1981, n. 65, e l. 23.02.1982, n. 10), che delibera previo
parere espresso dalla commissione edilizia,
integrata da cinque esperti in beni
ambientali, storia dell’arte e discipline
naturalistiche. Di conseguenza è illegittima
l’ordinanza del sindaco di demolizione di un
impianto di distribuzione di energia
elettrica per il quale la commissione
edilizia si era pronunciata favorevolmente,
ordinanza motivata con la mancante
preventiva autorizzazione della
sovrintendenza ai beni culturali e
ambientali, cui l’autorizzazione del sindaco
viene trasmessa all’unico scopo di
consentire al Ministro l’esercizio del
potere di annullamento ex art. 82, comma 9, d.P.R. 24.07.1977 n. 616” (TAR
Campania Napoli, sez. III, 31.10.1995,
n. 585)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 25.07.2012 n. 1480 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'onere di fornire la prova
dell'epoca di realizzazione di un abuso
edilizio incombe sull'interessato e non
sull'amministrazione che, in presenza di
un'opera edilizia non assistita da un titolo
edilizio e/o paesaggistico che la legittimi,
ha solo “il potere-dovere di sanzionarla ai
sensi di legge e di adottare il
provvedimento di demolizione.
Tale onere può ritenersi a sufficienza
soddisfatto solo quando le prove addotte
risultano obiettivamente inconfutabili sulla
base di atti e documenti che, da soli o
unitamente ad altri elementi probatori,
offrono la ragionevole certezza dell'epoca
di realizzazione del manufatto, mentre la
semplice produzione di una dichiarazione
sostitutiva non può in alcun modo assurgere
al rango di prova, seppur presuntiva,
sull'epoca di realizzazione dell'abuso. Per
converso, solo la deduzione, da parte del
privato destinatario della sanzione, di
“concreti elementi a sostegno delle proprie
affermazioni volte a contrastare l’assunto
dell’amministrazione trasferisce il suddetto
onere in capo a questa ultima.
Orbene, venendo alla fase
valutativa-decisionale, osserva il Collegio
come costituisca pacifico e consolidato
orientamento giurisprudenziale quello
secondo cui l'onere di fornire la prova
dell'epoca di realizzazione di un abuso
edilizio incombe sull'interessato e non
sull'amministrazione che, in presenza di
un'opera edilizia non assistita da un titolo
edilizio e/o paesaggistico che la legittimi,
ha solo “il potere-dovere di sanzionarla ai
sensi di legge e di adottare il
provvedimento di demolizione” (cfr. Cons.
Stato, sezione quinta, 12.10.1999, n.
1440 e, omisso medio, fra le ultime, per
tutte, Tar Liguria, Genova, sez. I, 08.03.2012, n. 367).
La giurisprudenza ha altresì affermato che
tale onere può ritenersi a sufficienza
soddisfatto solo quando le prove addotte
risultano obiettivamente inconfutabili sulla
base di atti e documenti che, da soli o
unitamente ad altri elementi probatori,
offrono la ragionevole certezza dell'epoca
di realizzazione del manufatto, mentre la
semplice produzione di una dichiarazione
sostitutiva non può in alcun modo assurgere
al rango di prova, seppur presuntiva,
sull'epoca di realizzazione dell'abuso
(cfr., fra le ultime, la cennata pronuncia
del Tar Liguria, Tar Campania, sezione
ottava, 02.07.2010, n. 16569), ovvero (ha
affermato per converso) che solo la
deduzione, da parte del privato destinatario
della sanzione, di “concreti elementi a
sostegno delle proprie affermazioni volte a
contrastare l’assunto dell’amministrazione
trasferisce il suddetto onere in capo a
questa ultima” (omisso medio, Cons. Stato,
sempre sezione quinta, 09.11.2009, n.
6984 e Tar Campania, questa sesta sezione,
sentenze n. 2380 del 28.04.2011; 23.06.2010, n. 1593, 25.05.2010, n.
8775 e 15.03.2010, n. 1460) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 24.07.2012 n. 3539 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
La valutazione di impatto
ambientale, per giurisprudenza pacifica, si
caratterizza quale giudizio espressione di
ampia discrezionalità oltre che di tipo
tecnico, anche amministrativa, sul piano
dell’apprezzamento degli interessi pubblici
in rilievo e della loro ponderazione
rispetto all’interesse all’esecuzione
dell’opera.
--------------
L’asserita non corrispondenza contenutistica
tra il preavviso di diniego e la v.i.a.
negativa non può assurgere a vizio
invalidante ex art. 21-octies legge
241/1990. Infatti, benché tale
corrispondenza sia tendenzialmente da
reputarsi necessaria al fine di non eludere
la funzione collaborativa e deflattiva
propria dell’istituto essa non deve essere
assoluta, ben potendo l’Amministrazione,
sulla base delle osservazioni dell’istante
ma anche in via del tutto autonoma,
precisare le proprie posizioni in sede
decisoria, nel limite dei soli “punti
salienti indicati nel preavviso.
Preliminarmente, va evidenziato come la
valutazione di impatto ambientale, per
giurisprudenza pacifica, si caratterizza
quale giudizio espressione di ampia
discrezionalità oltre che di tipo tecnico,
anche amministrativa, sul piano
dell’apprezzamento degli interessi pubblici
in rilievo e della loro ponderazione
rispetto all’interesse all’esecuzione
dell’opera (cfr. Consiglio di Stato, sez. V,
22.06.2009, n. 4206; id., sez. V,
21.11.2007, n. 5910; id., sez. VI,
17.05.2006, n. 2851; id., sez. IV,
22.07.2005, n. 3917; TAR Puglia Bari sez I,
14.05. 2010, n. 1897; TAR Toscana sez II,
20.04.2010, n. 986).
---------------
Infine, anche
le censure “formali” di violazione
del giusto procedimento (art. 7 e 10-bis
legge 241/1990) sono prive di pregio, avendo
l’Amministrazione puntualmente controdedotto
alle osservazioni prodotte dalla ricorrente
in seguito al preavviso di diniego.
L’asserita non corrispondenza contenutistica
tra il preavviso di diniego e la v.i.a.
negativa non può d’altronde assurgere a
vizio invalidante ex art. 21-octies legge
241/1990. Infatti, benché tale
corrispondenza sia tendenzialmente da
reputarsi necessaria (Consiglio di Stato
sez. IV 13.11.2007, n. 6325; TAR Piemonte,
sez I, 07.02.2007, n. 503) al fine di non
eludere la funzione collaborativa e
deflattiva propria dell’istituto (TAR Puglia
Bari, sez III, 25.03.2011, n. 500) essa non
deve essere assoluta, ben potendo
l’Amministrazione, sulla base delle
osservazioni dell’istante ma anche in via
del tutto autonoma, precisare le proprie
posizioni in sede decisoria, nel limite dei
soli “punti salienti indicati nel
preavviso” (Consiglio di Stato sez. IV
13.11.2007, n. 6325) secondo quindi un
criterio di “ragionevole flessibilità”
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 24.07.2012 n. 1512 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La
prospettata "astratta necessarietà" degli
impianti eolici non può mai condizionare e
vincolare in maniera assoluta il giudizio di
compatibilità ambientale, obbligandone il
rilascio in termini positivi in relazione ai
benefici legati all'efficienza energetica
per la collettività, perché, altrimenti, si
darebbe luogo ad un totale sbilanciamento
(in favore delle sole esigenze energetiche)
di un sistema di valori -quali quelli
paesistico-ambientali ed economici- aventi
invece pari rilevanza costituzionale.
Va poi ribadito
che la prospettata "astratta necessarietà"
degli impianti eolici non può mai
condizionare e vincolare in maniera assoluta
il giudizio di compatibilità ambientale,
obbligandone il rilascio in termini positivi
in relazione ai benefici legati
all'efficienza energetica per la
collettività, perché, altrimenti, si darebbe
luogo ad un totale sbilanciamento (in favore
delle sole esigenze energetiche) di un
sistema di valori -quali quelli
paesistico-ambientali ed economici- aventi
invece pari rilevanza costituzionale (TAR
Toscana 14.10.2009, n. 1536; TAR Sardegna
sez. II 03.10.2006, n. 2083)
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 24.07.2012 n. 1512 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Trattandosi
di provvedimento “a motivazione plurima”,
esso non può essere annullato qualora anche
uno solo dei motivi fornisca autonomamente
la legittima e congrua giustificazione della
determinazione adottata.
Le ragioni
ostative alla realizzazione dell’impianto
esaminate rendono superfluo l’esame della
fondatezza delle censure dedotte avverso gli
ulteriori motivi a supporto della v.i.a.
impugnata (tra cui l’impatto acustico e la
insufficiente distanza delle torri dagli
insediamenti abitativi presenti) poiché
trattandosi di provvedimento “a
motivazione plurima”, esso non può
essere annullato qualora anche uno solo dei
motivi fornisca autonomamente la legittima e
congrua giustificazione della determinazione
adottata (ex multis TAR Toscana sez.
II 13.10.2010, n. 6457; Consiglio di Stato
sez. V 10.03.2009, n. 1383; TAR Friuli
Venezia Giulia, 11.02.2010, n. 101)
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 24.07.2012 n. 1512 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
La destinazione d’uso di un
immobile non si identifica con l’impiego che
in concreto ne fa il soggetto che lo
utilizza, ma con la destinazione impressa
dal titolo abilitativo, e ciò in quanto la
nozione di “uso” urbanisticamente rilevante
è ancorata alla tipologia strutturale
dell’immobile –quale individuata nel titolo
edilizio–, senza che essa possa essere
influenzata da utilizzazioni difformi
rispetto al contenuto degli atti
autorizzatori e/o pianificatori.
Va premesso che, secondo un costante
orientamento giurisprudenziale, la
destinazione d’uso di un immobile non si
identifica con l’impiego che in concreto ne
fa il soggetto che lo utilizza, ma con la
destinazione impressa dal titolo abilitativo
(v., ex multis, Cons. Stato, Sez. V,
09.02.2001 n. 583; TAR Liguria, Sez. I,
25.01.2005 n. 85), e ciò in quanto la
nozione di “uso” urbanisticamente
rilevante è ancorata alla tipologia
strutturale dell’immobile –quale individuata
nel titolo edilizio–, senza che essa possa
essere influenzata da utilizzazioni difformi
rispetto al contenuto degli atti
autorizzatori e/o pianificatori (v., tra le
altre, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 07.05.1992
n. 219).
Tale principio, d’altra parte, risulta
codificato anche nella legislazione della
Regione Emilia-Romagna, laddove è previsto
che la “destinazione d’uso in atto
dell’immobile o dell’unità immobiliare è
quella stabilita dal titolo abilitativo che
ne ha previsto la costruzione o l’ultimo
intervento e recupero o, in assenza o
indeterminatezza del titolo, dalla
classificazione catastale attribuita in sede
di primo accatastamento ovvero da altri
documenti probanti” (art. 26, comma 3,
legge reg. n. 31/2002) (TAR Emilia
Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 24.07.2012 n. 520 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
vincolo di inedificabilità gravante sulla
fascia di rispetto stradale ha carattere
assoluto e prescinde dalle caratteristiche
dell’opera realizzata, in quanto il divieto
di costruzione sancito dall’art. 9 della
legge n. 729 del 1961 e dal successivo D.M.
01.04.1968 n. 1404 non può essere inteso
restrittivamente al solo scopo di prevenire
l’esistenza di ostacoli materiali
suscettibili di costituire, per la loro
prossimità alla sede stradale, pregiudizio
alla sicurezza del traffico e all’incolumità
delle persone, ma appare correlato alla più
ampia esigenza di assicurare un’area
contigua all’arteria stradale utilizzabile
in qualsiasi momento dall’Ente proprietario
o gestore per l’esecuzione di lavori ivi
compresi quelli di ampliamento senza limiti
connessi alla presenza di costruzioni;
pertanto tale distanze vanno mantenute anche
con riferimento ad opere che pur rientrando
nella fascia stessa, siano arretrate
rispetto ad opere preesistenti qual è nel
caso il muro di confine con la strada.
Tale principio trova applicazione per tutte
le opere stabilmente realizzate sul terreno,
a prescindere dalla loro tipologia,
utilizzazione e dalla precarietà dei
materiali utilizzati.
Trattandosi di vincolo assoluto permanente e
inderogabile, non occorre alcuna particolare
motivazione che si faccia carico della
situazione in concreto, essendo sufficiente
la verifica della violazione del limite di
distanza dalla strada dato che l’atto di
diniego si configura come un provvedimento
del tutto vincolato. Dal che consegue anche
l’infondatezza del vizio di disparità di
trattamento, peraltro genericamente dedotta,
non potendo giustificare eventuali
illegittime precedenti autorizzazioni
l’adozione di un provvedimento in ripetuta
violazione della legge.
Neppure l’esistenza di un muro di confine
fra l’opera abusiva e la fascia posta a
rispetto della strada può costituire una
deroga al divieto posto dalla legge posto
che verificandosi la necessità anche tale
muro di cinta può essere oggetto di
interventi ripristinatori.
---------------
La specialità del procedimento di condono
edilizio, rispetto all'ordinario
procedimento di rilascio della concessione
ad edificare, e l'assenza di una specifica
previsione in ordine alla sua necessità
rendono, per il rilascio della concessione
in sanatoria c.d. straordinaria (o condono),
il parere della Commissione edilizia non
obbligatorio ma, tutt'al più, facoltativo,
al fine di acquisire eventuali informazioni
e valutazioni con riguardo a particolari e
sporadici casi incerti e complessi, in
assenza dei quali il rilascio della
concessione in sanatoria è subordinato alla
semplice verifica dei numerosi presupposti e
delle condizioni espressamente e chiaramente
fissati dal legislatore.
Va detto che un pacifico orientamento
giurisprudenziale che il Collegio non ha
motivo di disattendere, ha da tempo
affermato che il vincolo di inedificabilità
gravante sulla fascia di rispetto stradale
abbia carattere assoluto e prescinda dalle
caratteristiche dell’opera realizzata, in
quanto il divieto di costruzione sancito
dall’art. 9 della legge n. 729 del 1961 e
dal successivo D.M. 01.04.1968 n. 1404 non
può essere inteso restrittivamente al solo
scopo di prevenire l’esistenza di ostacoli
materiali suscettibili di costituire, per la
loro prossimità alla sede stradale,
pregiudizio alla sicurezza del traffico e
all’incolumità delle persone, ma appare
correlato alla più ampia esigenza di
assicurare un’area contigua all’arteria
stradale utilizzabile in qualsiasi momento
dall’Ente proprietario o gestore per
l’esecuzione di lavori ivi compresi quelli
di ampliamento senza limiti connessi alla
presenza di costruzioni; pertanto tale
distanze vanno mantenute anche con
riferimento ad opere che pur rientrando
nella fascia stessa, siano arretrate
rispetto ad opere preesistenti qual è nel
caso il muro di confine con la strada (cfr.
sul punto Cons. Stato, sez. IV, 30.09.2008
n. 4719).
Tale principio trova applicazione per tutte
le opere stabilmente realizzate sul terreno,
a prescindere dalla loro tipologia,
utilizzazione e dalla precarietà dei
materiali utilizzati.
Trattandosi di vincolo assoluto permanente e
inderogabile, non occorre alcuna particolare
motivazione che si faccia carico della
situazione in concreto, essendo sufficiente
la verifica della violazione del limite di
distanza dalla strada dato che l’atto di
diniego si configura come un provvedimento
del tutto vincolato. Dal che consegue anche
l’infondatezza del vizio di disparità di
trattamento, peraltro genericamente dedotta,
non potendo giustificare eventuali
illegittime precedenti autorizzazioni
l’adozione di un provvedimento in ripetuta
violazione della legge.
Neppure l’esistenza di un muro di confine
fra l’opera abusiva e la fascia posta a
rispetto della strada può costituire una
deroga al divieto posto dalla legge posto
che verificandosi la necessità anche tale
muro di cinta può essere oggetto di
interventi ripristinatori.
La circostanza che dalla data di
realizzazione dell’opera il Comune non abbia
adottato alcun provvedimento repressivo non
costituisce legittimo affidamento al
mantenimento del manufatto abusivo né
impedimento per l’Amministrazione al
ripristino della legalità in occasione
dell’esame della domanda di sanatoria.
Quanto alla mancanza del parere della C.E.,
va detto che l’orientamento costante dei
giudici amministrativi è nel senso che la
specialità del procedimento di condono
edilizio, rispetto all'ordinario
procedimento di rilascio della concessione
ad edificare, e l'assenza di una specifica
previsione in ordine alla sua necessità
rendono, per il rilascio della concessione
in sanatoria c.d. straordinaria (o condono),
il parere della Commissione edilizia non
obbligatorio ma, tutt'al più, facoltativo,
al fine di acquisire eventuali informazioni
e valutazioni con riguardo a particolari e
sporadici casi incerti e complessi, in
assenza dei quali il rilascio della
concessione in sanatoria è subordinato alla
semplice verifica dei numerosi presupposti e
delle condizioni espressamente e chiaramente
fissati dal legislatore (cfr. tra le tante
Cons. Stato, sez. IV, 03.08.2010 n. 5156)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 23.07.2012 n. 1347 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
legge 122 del 1989, di incentivazione dei
parcheggi, prevede solo la deroga agli
strumenti urbanistici vigenti per la
realizzazione in aree urbane di parcheggi
all’interno di aree pertinenziali di edifici
o esterne purché in prossimità degli stessi,
senza alcuna previsione di deroga, invece,
con riguardo alle fasce di rispetto stradali
stabiliti dal D.M. n. 1404 del 1968 laddove
i parcheggi vengano realizzati, come nel
caso di specie (si veda pagina 1 del
ricorso), al di fuori del centro abitato.
La norma dell'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122
consente di realizzare gratuitamente
parcheggi da destinare a pertinenza delle
singole unità immobiliari solo se realizzati
nel sottosuolo per l’intera altezza. La
predetta norma, ponendosi in deroga agli
strumenti urbanistici ed ai regolamenti
edilizi vigenti, è di stretta
interpretazione e di rigorosa applicazione.
In altre parole, la deroga per la
realizzazione di autorimesse e parcheggi
prevista dall'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122,
opera solo ed esclusivamente nel caso in cui
i detti garage (oltre ad essere formalmente
vincolati a pertinenza di singole unità
immobiliari) siano totalmente realizzati al
di sotto dell’originario piano naturale di
campagna, senza alcuna tolleranza di sorta,
mentre la realizzazione di autorimesse e
parcheggi, non totalmente al di sotto del
piano naturale di campagna, è soggetta alla
disciplina urbanistica dettata per le
ordinarie nuove costruzioni fuori terra.
Del tutto improprio e inconferente è,
infine, il richiamo della legge 122 del 1989
di incentivazione dei parcheggi, prevedendo
tale legge solo la deroga agli strumenti
urbanistici vigenti per la realizzazione in
aree urbane di parcheggi all’interno di aree
pertinenziali di edifici o esterne purché in
prossimità degli stessi, senza alcuna
previsione di deroga, invece, con riguardo
alle fasce di rispetto stradali stabiliti
dal D.M. n. 1404 del 1968 laddove i
parcheggi vengano realizzati, come nel caso
di specie (si veda pagina 1 del ricorso), al
di fuori del centro abitato (cfr. TAR
Toscana, sez. III, 07.06.2002 n. 1174 e
l’ulteriore giurisprudenza ivi richiamata).
Inoltre è da aggiungere che, come ha più
volte affermato la giurisprudenza del
Consiglio di Stato dalla quale il Collegio
non ha motivo di divergere (Sez. IV,
13.07.2011 n.4234 e Sez. IV 16.04.2012 n.
2185), la norma dell'art. 9, l. 24.03.1989
n. 122 consente di realizzare gratuitamente
parcheggi da destinare a pertinenza delle
singole unità immobiliari solo se realizzati
nel sottosuolo per l’intera altezza. La
predetta norma, ponendosi in deroga agli
strumenti urbanistici ed ai regolamenti
edilizi vigenti, è di stretta
interpretazione e di rigorosa applicazione.
In altre parole, la deroga per la
realizzazione di autorimesse e parcheggi
prevista dall'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122,
opera solo ed esclusivamente nel caso in cui
i detti garage (oltre ad essere formalmente
vincolati a pertinenza di singole unità
immobiliari) siano totalmente realizzati al
di sotto dell’originario piano naturale di
campagna, senza alcuna tolleranza di sorta,
mentre la realizzazione di autorimesse e
parcheggi, non totalmente al di sotto del
piano naturale di campagna, è soggetta alla
disciplina urbanistica dettata per le
ordinarie nuove costruzioni fuori terra
(cfr. anche Consiglio Stato, sez. IV,
27.11.2010, n. 8260; Consiglio Stato, sez.
IV, 23.02.2009, n. 1070) (TAR Toscana, Sez.
III,
sentenza 23.07.2012 n. 1347 - link a
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URBANISTICA: Le
osservazioni ai procedimenti di
pianificazione costituiscono meri apporti
collaborativi, dai quali non nasce alcuna
aspettativa qualificata, per cui il rigetto
delle osservazioni non richiede una
motivazione puntuale e analitica.
Si ricordi -inoltre- che la giurisprudenza
amministrativa ha più volte affermato che le
osservazioni ai procedimenti di
pianificazione costituiscono meri apporti
collaborativi, dai quali non nasce alcuna
aspettativa qualificata, per cui il rigetto
delle osservazioni non richiede una
motivazione puntuale e analitica (cfr. fra
le tante, Consiglio di Stato, sez. IV,
12.01.2011, n. 133)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 11.07.2012 n. 1955 - link a
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URBANISTICA: Le
censure inerenti il procedimento di VAS sono
ammissibili nei limiti in cui la parte
istante specifichi quale concreta lesione
alla sua proprietà siano derivate
dall’inosservanza delle norme sul
procedimento; in altri termini, non deve
trattarsi di una doglianza meramente
“strumentale”, ma sostanziale, visto che il
generico interesse ad un nuovo esercizio del
potere pianificatorio dell’Amministrazione è
insufficiente a distinguere la posizione del
ricorrente da quella del quisque de populo.
Nel secondo
motivo, è denunciata la violazione delle
norme sulla valutazione ambientale
strategica (VAS), sotto vari profili.
La censura appare però inammissibile, alla
luce della giurisprudenza del Consiglio di
Stato (cfr. sez. IV, 12.01.2011, n. 133),
per la quale le censure inerenti il
procedimento di VAS sono ammissibili nei
limiti in cui la parte istante specifichi
quale concreta lesione alla sua proprietà
siano derivate dall’inosservanza delle norme
sul procedimento; in altri termini, non deve
trattarsi di una doglianza meramente “strumentale”,
ma sostanziale, visto che il generico
interesse ad un nuovo esercizio del potere
pianificatorio dell’Amministrazione è
insufficiente a distinguere la posizione del
ricorrente da quella del quisque de
populo (cfr. in termini, TAR Lombardia,
Milano, sez. II, 12.01.2012, n. 297)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 11.07.2012 n. 1955 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
norma attributiva di potere dell’art. 167,
co. 4, codice beni culturali ammette la
sanatoria soltanto “per i lavori, realizzati
in assenza o difformità dall'autorizzazione
paesaggistica, che non abbiano determinato
creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente
realizzati”.
La lettera della norma (creazione di
superfici “o” volumi) non è superabile da
operazioni interpretative in cui, sostenendo
che nonostante l’utilizzo della particella
disgiuntiva “o” il legislatore abbia voluto
dire “e”, si giunga alla disapplicazione
della norma.
Si ricorda, infatti, che l’art. 12 delle
preleggi prescrive che alle norme non possa
essere attribuito altri senso che quello
fatto proprio dal significato delle parole.
---------------
Circa la paventata violazione degli artt.
167 e 181 d.lgs. 42/2004, perché la
Soprintendenza per i beni architettonici e
paesaggistici si è pronunciata in ritardo di
un mese oltre il termine legale di 90 gg.,
non è fondata in quanto -conformemente ai
principi generali- il potere non si consuma
per effetto del decorso del termine entro
cui esso deve essere esercitato.
Invero, la giurisprudenza ha avuto modo di
statuire che:
►
il termine di conclusione del procedimento
non appare assistito, nella normalità dei
casi, da alcuna previsione di perentorietà;
ne consegue che l'amministrazione
legittimamente può concludere il
procedimento successivamente alla scadenza
del relativo termine;
►
la violazione del termine finale di adozione
dell'atto conclusivo di un procedimento
determina un vizio dell'atto stesso quando
produca una lesione specifica della
posizione dell'interessato strettamente
dipendente dal momento di adozione
dell'atto, cioè dall'illegittimo trascorrere
del tempo rispetto alla scadenza del termine
legale;
►
il mancato rispetto del termine per la
conclusione del procedimento costituisce
causa di illegittimità del relativo
provvedimento soltanto quando produca una
lesione specifica della posizione
dell'interessato strettamente dipendente dal
momento dell'adozione dell'atto, come
nell'ipotesi in cui nelle more della
scadenza del termine cambi la normativa di
riferimento in senso sfavorevole per il
soggetto istante, e non nel caso in cui da
essa non derivi alcun pregiudizio diretto
alla posizione giuridica di quest'ultimo.
Il ricorrente sostiene che un’opera abusiva
in area paesaggisticamente vincolata che
crea volume, ma non crea superficie, possa
essere oggetto di accertamento postumo di
compatibilità, perché il divieto legale di
sanatoria riguarderebbe solo le opere
abusive che hanno creato sia volume che
superficie.
L’interpretazione proposta in realtà non ha
basi normative, in quanto la norma
attributiva di potere dell’art. 167, co. 4,
codice beni culturali ammette la sanatoria
soltanto “per i lavori, realizzati in
assenza o difformità dall'autorizzazione
paesaggistica, che non abbiano determinato
creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati”.
La lettera della norma (creazione di
superfici “o” volumi) non è superabile da
operazioni interpretative in cui, sostenendo
che nonostante l’utilizzo della particella
disgiuntiva “o” il legislatore abbia voluto
dire “e”, si giunga alla disapplicazione
della norma.
Si ricorda, infatti, che l’art. 12 delle
preleggi prescrive che alle norme non possa
essere attribuito altri senso che quello
fatto proprio dal significato delle parole.
---------------
Il terzo motivo
di entrambi i ricorsi, in cui si sostiene la
violazione degli artt. 167 e 181 d.lgs.
42/2004, perché la Soprintendenza per i beni
architettonici e paesaggistici di Brescia si
è pronunciata in ritardo di un mese oltre il
termine legale di 90 gg., non è fondato, in
quanto -conformemente ai principi generali-
il potere non si consuma per effetto del
decorso del termine entro cui esso deve
essere esercitato (Tar Liguria, II,
270/2005: "il termine di conclusione del
procedimento non appare assistito, nella
normalità dei casi, da alcuna previsione di
perentorietà; ne consegue che
l'amministrazione legittimamente può
concludere il procedimento successivamente
alla scadenza del relativo termine”; Tar
Liguria, I 349/2006: “la violazione del
termine finale di adozione dell'atto
conclusivo di un procedimento determina un
vizio dell'atto stesso quando produca una
lesione specifica della posizione
dell'interessato strettamente dipendente dal
momento di adozione dell'atto, cioè
dall'illegittimo trascorrere del tempo
rispetto alla scadenza del termine legale”;
Tar Piemonte, II, 2830/2005: “il mancato
rispetto del termine per la conclusione del
procedimento costituisce causa di
illegittimità del relativo provvedimento
soltanto quando produca una lesione
specifica della posizione dell'interessato
strettamente dipendente dal momento
dell'adozione dell'atto, come nell'ipotesi
in cui nelle more della scadenza del termine
cambi la normativa di riferimento in senso
sfavorevole per il soggetto istante, e non
nel caso in cui da essa non derivi alcun
pregiudizio diretto alla posizione giuridica
di quest'ultimo”)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 02.07.2012 n. 1214 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ordine
di demolizione di opere edilizie abusive non
deve essere preceduto dall'avviso ex art. 7
della L. n. 241/1990, trattandosi di un atto
dovuto, che viene emesso quale sanzione per
l’accertamento della inosservanza di
disposizioni urbanistiche secondo un
procedimento di natura vincolata
precisamente tipizzato dal legislatore e
conseguente disciplinato rigidamente dalla
legge.
Gli atti sanzionatori in materia edilizia
-attesa la loro natura rigidamente
vincolata- non risultano viziati ove non
siano stati preceduti dalla comunicazione
d’avvio del procedimento.
---------------
Il Comune non ha formalmente chiuso il
procedimento attivato dalla istanza di
compatibilità paesaggistica, ed ha
provveduto direttamente ad ordinare la
demolizione.
Questa irregolarità formale del procedimento
di accertamento postumo di compatibilità
paesaggistica non incide, però, sull’ordine
di demolizione impugnato, in quanto, posto
che il provvedimento conclusivo del
procedimento di compatibilità paesaggistica
non poteva che essere negativo dopo il
parere negativo della Soprintendenza per i
beni architettonici e paesaggistici, esso si
risolve non in un vizio dei presupposti
(come argomenta, la difesa del ricorrente),
perché i presupposti della demolizione si
risolvono nella mera constatazione
dell’abusività dell’opera, ma in una
irregolarità di tipo formale superabile
attraverso la clausola sostanzialista
dell’art. 21-octies, co. 2, l. 241/1990.
---------------
Quando gli abusi sono in area vincolata, si
applica in punto di sanzioni la disciplina
speciale posta a tutela del paesaggio, che
va rinvenuta nell’art. 167 d.lgs. 42/2004
che, nella sua versione novellata dall’art.
27 d.lgs. 24.03.2006 n. 157, dispone che “in
caso di violazione degli obblighi e degli
ordini previsti dal Titolo I della Parte
terza, il trasgressore è sempre tenuto alla
rimessione in pristino a proprie spese,
fatto salvo quanto previsto al comma 4.
Nel primo
ricorso per motivi aggiunti la ricorrente
deduce la violazione degli artt. 167 d.lgs.
42/2004 e 36 e 37 d.p.r. 380/2001, in quanto
il Comune non si è pronunciato formalmente
sulla domanda di sanatoria dopo il parere
contrario della Soprintendenza, nonché la
mancanza di comunicazione di avvio del
procedimento di demolizione.
Sulla seconda parte del motivo
(mancanza comunicazione di avvio), la
censura è infondata, in quanto tale
comunicazione non è dovuta (Tar Campania,
Napoli, sez. IV, 10.12.2007, n. 15871: “l'ordine
di demolizione di opere edilizie abusive non
deve essere preceduto dall'avviso ex art. 7
della L. n. 241/1990, trattandosi di un atto
dovuto, che viene emesso quale sanzione per
l’accertamento della inosservanza di
disposizioni urbanistiche secondo un
procedimento di natura vincolata
precisamente tipizzato dal legislatore e
conseguente disciplinato rigidamente dalla
legge”; nello stesso senso cfr. anche
Cons. Stato, sez. IV, 26.09.2008, n. 4659,
secondo cui “gli atti sanzionatori in
materia edilizia -attesa la loro natura
rigidamente vincolata- non risultano viziati
ove non siano stati preceduti dalla
comunicazione d’avvio del procedimento”).
Sulla prima parte del motivo,
l’argomentazione della difesa del
ricorrente, in realtà, è corretta, perché il
Comune non ha formalmente chiuso il
procedimento attivato dalla istanza di
compatibilità paesaggistica, ed ha
provveduto direttamente ad ordinare la
demolizione.
Questa irregolarità formale del procedimento
di accertamento postumo di compatibilità
paesaggistica non incide, però, sull’ordine
di demolizione impugnato, in quanto, posto
che il provvedimento conclusivo del
procedimento di compatibilità paesaggistica
non poteva che essere negativo dopo il
parere negativo della Soprintendenza per i
beni architettonici e paesaggistici di
Brescia, esso si risolve non in un vizio dei
presupposti (come argomenta, la difesa del
ricorrente), perché i presupposti della
demolizione si risolvono nella mera
constatazione dell’abusività dell’opera, ma
in una irregolarità di tipo formale
superabile attraverso la clausola
sostanzialista dell’art. 21-octies, co. 2,
l. 241/1990.
---------------
Il secondo e nel terzo motivo del
ricorso per motivi aggiunti, in cui il
ricorrente vorrebbe regolarizzare gli abusi
pagando una sanzione pecuniaria, sono
infondati, in quanto affrontano la questione
sotto il solo aspetto edilizio,
pretermettendo la circostanza che, quando
gli abusi sono in area vincolata, si applica
in punto di sanzioni la disciplina speciale
posta a tutela del paesaggio, che va
rinvenuta nell’art. 167 d.lgs. 42/2004 che,
nella sua versione novellata dall’art. 27
d.lgs. 24.03.2006 n. 157, dispone che “in
caso di violazione degli obblighi e degli
ordini previsti dal Titolo I della Parte
terza, il trasgressore è sempre tenuto alla
rimessione in pristino a proprie spese,
fatto salvo quanto previsto al comma 4”.
---------------
In ordine all’ultimo motivo, in cui
si sostiene la violazione art. 6 d.p.r.
380/2001 per quanto riguarda lo spostamento
dei tavolati interni, che sarebbe attività
libera, e non soggetta a vincolo, è corretto
l’argomento proposto dalla difesa del Comune
che rileva che non era compito
dell’amministrazione comunale scindere quali
opere fossero assoggettabili alla normativa
a tutela del paesaggio e quali no.
Dall’argomento proposto dalla difesa del
ricorrente deriverebbe soltanto la
possibilità per la ricorrente di ottenere un
titolo per la sola parte dei tavolati
interni, ma non la illegittimità dell’ordine
di demolizione che ha attinto l’abuso nella
sua complessità
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 02.07.2012 n. 1214 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI: PRIVACY/
La Cassazione punisce lo strumento di
marketing. Perché comporta una perdita di
tempo. Addio alle e-mail indesiderate Serve
il consenso dell'interessato.
E-mail marketing alle corde. Lo strumento
della mail di benvenuto (mail welcome)
richiede il preventivo consenso
dell'interessato.
La regola è stata rafforzata dalla
sentenza 15.06.2012 n. 23798 della Corte
di Cassazione, III Sez. penale, che ha
bocciato le mail welcome indesiderate e ha
punito l'invio delle stesse. La cassazione
ha fatto applicazione dell'articolo 167 del
codice della privacy, superando un ostacolo
previsto dalla stessa norma. Si tratta del
concetto di «nocumento»: senza
nocumento, dice l'articolo 167 codice
privacy non c'è punizione. È ovvio che per
evitare la sanzione penale si cerchi di
dimostrare che nei casi concreti non si
siano verificati nocumenti per gli
interessati.
La sentenza della Cassazione rintraccia il
concetto di nocumento basandosi non tanto
sul nocumento del singolo, ma quanto sul
volume di mail indesiderate inviate: così se
si inviano migliaia di mail, non si può
sostenere a propria discolpa che nessuno si
è lamentato.
Si tratta, quindi, di una scorciatoia
giuridica, grazie alla quale non c'è alcun
bisogno di chiedere se il destinatario della
mail abbia avuto un danno patrimoniale
rilevante: perché il reato sia consumato,
basta la perdita di tempo per cestinare la
mail o cancellarsi dalla mailing list.
La Cassazione mette, quindi, sul chi va là
l'e-mail marketing, confermando così la
condanna dei titolari di una società che ha
inviato mail indesiderate a oltre 150 mila
destinatari utilizzando il data base di
proprietà di un'altra società (list owner).
La pronuncia si caratterizza proprio per la
conclusione cui arriva a proposito del
nocumento, allontanandosi da altre pronunce
nelle quali si è sostenuto che non è
significativo il danno causato al
destinatario della singola mail (perché
troppo lieve).
Il codice della privacy.
L'articolo 167 del codice della privacy (dlgs
196/2003) prevede il reato di trattamento
illecito dei dati personali. Il reato si
consuma quando si violano alcune importanti
adempimenti: ad esempi non si chiede il
consenso dell'interessato o si diffondono
dati sanitari, ecc.
Per la punibilità la norma pone, però,
alcune condizioni: il pubblico ministero
deve provare che il colpevole è animato dal
fine di trarne per sé o per altri profitto o
di recare ad altri un danno e, inoltre, dal
fatto deve derivare un nocumento: se non si
verificano queste due condizioni la
conclusione è l'assoluzione. Come è avvenuto
tantissime volte: tanto che il legislatore è
intervenuto nel 2008 con il decreto legge
207 e ha affiancato una sanzione
amministrativa: in caso di trattamento di
dati personali effettuato in violazione
delle disposizioni indicate nell'articolo
167 è applicata in sede amministrativa, in
ogni caso, la sanzione del pagamento di una
somma da 10 mila euro a 120 mila euro.
Le sentenze restrittive.
La punibilità dipende dal concetto di
nocumento: più si allarga più aumentano i
rischi penali.
La Cassazione è stata molto rigorosa e ha
definito maglie strette: il «nocumento»
richiesto dall'art. 167 dlgs n. 196 del 2003
per la configurabilità del reato di
trattamento di dati sensibili senza il
consenso dell'interessato costituisce una
condizione obiettiva di punibilità che non
può ritenersi implicita per il solo fatto
che detto trattamento abbia avuto luogo,
occorrendo invece la dimostrazione che dal
fatto sia derivato un «vulnus»
significativo alla persona offesa
(Cassazione, sez. V, n. 40078, del
25.06.2009).
Più esplicitamente si è arrivati a dire che
l'invio di un messaggio elettronico
commerciale non autorizzato non costituisce
il reato di trattamento illecito dei dati,
mancando l'estremo del nocumento: non è
rilevante, quindi, un solo messaggio non
ripetuto che non ha provocato un concreto
vulnus alla persona offesa, ma una lesione
minima della privacy che non ha determinato
un danno patrimonialmente apprezzabile
(Tribunale Udine, sentenza 06.05.2005).
D'altra parte non c'è reato se il
trattamento dei dati avvenga per fini
esclusivamente personali, senza una loro
diffusione o destinazione ad una
comunicazione sistematica (Cassazione
penale, sez. V, del 22.10.2008, n. 46454).
Sulla stessa scia si colloca un'altra
pronuncia con la quale si è mandato assolto
un imputato, che ha comunicato ad alcuni
provider le generalità, l'indirizzo,
compreso quello di posta elettronica, il
numero di telefono e il codice fiscale di
una persona senza il suo consenso al fine di
aprire un sito internet e tre nuovi
indirizzi di posta elettronica a nome di
tale persona (si è ritenuto che il fatto non
configurasse una diffusione di dati o una
comunicazione sistematica, non essendovi un
pubblico accesso agli stessi o una loro
immediata esposizione (Cassazione penale
sez. III, del 17.11.2004, n. 5728).
Sentenze più garantiste.
Con altre sentenze la cassazione si è
mostrata più garantista e ha dato maggiore
spazio alle ragioni di tutela degli
interessati. Ad esempio ha stabilito che il
nocumento, condizione obiettiva di
punibilità del reato di trattamento illecito
di dati personali, non è esclusivamente
riferibile a quello derivato alla persona
fisica o giuridica cui si riferiscono i
dati, ma anche a quello causato a soggetti
terzi quale conseguenza dell'illecito
trattamento: ad esempio i familiari di
persona, deceduta, la cui immagine in stato
morente era stata illecitamente diffusa
(Cassazione penale, sez. III, del
17.02.2011, n. 17215).
---------------
Pregiudicati gli
interessi del destinatario
La Cassazione con la sentenza 23798/2012
opera un'inversione di rotta e stabilisce
nuovi principi.
La pronuncia non abbandona le astratte
enunciazioni di carattere generale:
certamente la richiesta di un nocumento
significa che per la punizione non basta la
sola violazione della privacy, altrimenti il
reato scatterebbe per il solo fatto, ad
esempio, che non è stato chiesto il
consenso. Per la punizione ci vuole qualcosa
di più e cioè un concreto pregiudizio agli
interessi del destinatario della mail
indesiderata.
Ma la novità della sentenza sta nella
descrizione di questo concreto pregiudizio:
può manifestarsi in forme molteplici, sia
come pregiudizio al patrimonio sia come
pregiudizio alla persona; e, se non è
sufficiente la mera illecita utilizzazione
di dati personali altrui, questo non vuol
dire che il reato scatti solo quando la
persona offesa sia stata danneggiata
pesantemente nel suo patrimonio.
La sentenza, quindi, passa a descrivere
alcuni esempi di nocumento e a questo
proposito cita la «perdita di tempo nel
vagliare mail indesiderate e nelle procedura
da seguire per evitare ulteriori invii».
L'esperienza comune di qualunque internauta
dimostra che si spende parecchio tempo a
controllare posta elettronica di nessun
interesse, magari censire la posta
indesiderata o a sbrigare le procedure per
evitare di avere comunicazioni successive,
anche se poi comunque arrivano lo stesso,
magari da un altro indirizzo mittente.
Basta, per aversi «nocumento» il solo
rischio di perdere il controllo dei propri
dati, venduti e ceduti di mano in mano senza
alcuna concreta possibilità di opporsi.
La cassazione rivoluziona, poi, il modo di
provare il «nocumento»: per punire
chi manda
spamming, secondo la cassazione, non
è neanche necessario provare che ogni
singolo destinatario abbia subito il danno.
Un principio di questo tipo porterebbe al
risultato (assurdo, secondo la Cassazione)
di non poter mai punire nessuno. Si pensi al
caso di migliaia di mail mandate ad
altrettanti destinatari: si dovrebbero prima
individuare i titolari degli indirizzi di
posta elettronica (per cui si utilizzano
magari nomi di fantasia o pseudonimi) e poi
convocarli per chiedere solo se hanno subito
un nocumento. Una indagine di questo tipo
non è necessaria: il danno, al contrario, è
insito (è in re ipsa) nell'avere
mandato centinaia di migliaia di messaggi.
Non basta, poi, inserire avvisi sulla
possibilità di cancellarsi dalla lista: la
sentenza 23798/2012 afferma che si può
mandare la mail di wellcome solo a chi già
in precedenza ha dato il consenso e che se
manca il consenso e il destinatario non si è
cancellato (seguendo le indicazioni) il
reato è stato ugualmente perfezionato.
---------------
Sanzioni fino a 120
mila euro.
Anche se non c'è reato, il trattamento
illecito di dati è punito con una sanzione
amministrativa fino a 120 mila euro.
In caso di trattamento di dati personali
effettuato in violazione delle disposizioni
indicate nell'articolo 167 codice della
privacy, infatti, è applicata in sede
amministrativa, in ogni caso, la sanzione
del pagamento di una somma da diecimila euro
a centoventimila euro.
Se non scatta la sanzione penale, comunque,
in ogni caso, la violazione del codice della
privacy porterà a una sanzione pecuniaria,
anche se amministrativa, applicata dal
Garante della privacy.
Va però sottolineato, passando ad alcuni
casi, che integra il reato di diffusione di
dati sensibili la pubblicazione su internet
del numero di cellulare altrui (Cassazione
penale, sez. III del 17.02.2011, n. 21839);
che anche la targa di un'auto è dato
personale rilevante per la punibilità
(Cassazione penale, sez. V, del 28-09-2011,
n. 44940); integra il reato di trattamento
illecito di dati personali il diffondere,
per scopi diversi dalla tutela di un diritto
proprio o altrui, una conversazione
documentata mediante registrazione.
(Cassazione penale, sez. III, del
24.03.2011, n. 18908).
---------------
Linee guida del garante
della privacy. L'obbligo riguarda società
telefoniche e Internet provider. Attacco ai
dati, utente da avvisare.
Utente avvisato in caso di attacco in rete
ai suoi dati personali. In caso di
distruzione o perdita dei dati personali
società telefoniche e Internet provider
hanno l'obbligo di avvisare gli utenti e il
garante della privacy.
Lo prevede il decreto legislativo 69/2009,
per attuare il quale il Garante ha adottato
il provvedimento di Linee Guida n. 221 del
26.07.2012.
Il maggior livello di protezione nasce dal
fatto che le società telefoniche e Internet
provider devono di avvisare gli utenti dei
casi più gravi di violazioni ai loro data
base che dovessero comportare perdita,
distruzione o diffusione indebita di dati. I
nuovi obblighi sono stati introdotti dal
decreto legislativo 69 del 28.05.2012,
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del
31.05.2012 n. 126, in vigore
dall'01.06.2012. Il decreto recepisce le
direttive 2009/136/Ce, e 2009/140/Ce e
modifica il codice della privacy (dlgs
196/2003).
Con le nuove disposizioni, in particolare, i
dati su ogni telefonata e sessione in rete
devono essere tenuti al sicuro da un uso
indesiderato, accidentale o fraudolento. Gli
operatori devono rispondere della
responsabilità che deriva loro dalla
elaborazione e memorizzazione di queste
informazioni.
Vengono, inoltre, introdotti obblighi di
notifiche per le violazioni dei dati
personali. Ciò significa che i fornitori di
comunicazioni sono obbligati a informare le
autorità e i loro clienti circa le
violazioni della sicurezza che lede i loro
dati personali. Ciò consentirà di aumentare
gli incentivi per una migliore protezione
dei dati personali da parte dei fornitori di
reti e servizi di comunicazione.
Le Linee guida adottate dal Garante
stabiliscono chi deve adempiere all'obbligo
di comunicare, in quali casi scatta
l'obbligo di avvisare gli utenti, le misure
di sicurezza tecniche e organizzative da
mettere in atto per avvisare l'Autorità e
gli utenti di un avvenuto «data breach», i
tempi e i contenuti della comunicazione.
Al fine di armonizzare le procedure e le
modalità di notifica, il garante, presieduto
da Antonello Soro, ha comunque deciso di
avviare una consultazione pubblica (con
pubblicazione sulla gazzetta ufficiale), per
acquisire da parte delle società telefoniche
e degli Isp elementi utili a valutare
l'adeguatezza delle misure individuate.
Obbligo di notifica.
Il decreto legislativo 69/2012 ha aggiunto
l'articolo 32-bis al codice della privacy,
relativo agli adempimenti conseguenti a una
violazione di dati personali.
In caso di violazione di dati personali, il
fornitore di servizi di comunicazione
elettronica accessibili al pubblico deve
comunicarlo senza indebiti ritardi detta
violazione al Garante. Inoltre il fornitore
di un servizio di comunicazione elettronica
accessibile al pubblico deve adottare misure
tecniche e organizzative adeguate al rischio
esistente, per salvaguardare la sicurezza
dei suoi servizi. Inoltre i soggetti che
operano sulle reti di comunicazione
elettronica devono garantire che i dati
personali siano accessibili soltanto al
personale autorizzato per fini legalmente
autorizzati.
L'obiettivo delle precauzioni è preservare
la protezione dei dati relativi al traffico
e all'ubicazione e degli altri dati
personali archiviati o trasmessi dalla
distruzione anche accidentale, da perdita o
alterazione anche accidentale e da
archiviazione, trattamento, accesso o
divulgazione non autorizzati o illeciti:
innanzi tutto deve essere attuata una
politica di sicurezza.
In attuazione della direttiva europea in
materia di sicurezza e privacy nel settore
delle comunicazioni elettroniche, di recente
recepita dall'Italia, il Garante per la
privacy ha fissato un primo quadro di regole
in base alle quali le società di tlc e i
fornitori di servizi di accesso a Internet
saranno tenuti a comunicare, oltre che allo
stesso garante, anche agli utenti le «violazioni
di dati personali» («data breaches»)
che i loro data base dovessero subire a
seguito di attacchi informatici, o di eventi
avversi, quali incendi o altre calamità.
Quando la violazione di dati personali
rischia di arrecare pregiudizio ai dati
personali o alla riservatezza di contraente
o di altra persona, il fornitore deve
comunicarlo agli stessi senza ritardo. Se il
fornitore non vi abbia già provveduto, il
Garante può, considerate le presumibili
ripercussioni negative della violazione,
obbligare lo stesso a comunicare al
contraente o ad altra persona l'avvenuta
violazione.
La comunicazione non è, però, dovuta se il
fornitore ha dimostrato al Garante di aver
utilizzato misure tecnologiche di protezione
che rendono i dati inintelligibili a
chiunque non sia autorizzato ad accedervi e
che tali misure erano state applicate ai
dati oggetto della violazione. Se c'è,
dunque, la sicurezza che il tentativo di
violare la privacy non può andare a buon
fine il gestore è esonerato dalla
notificazione.
La comunicazione al contraente o ad altra
persona contiene almeno una descrizione
della natura della violazione di dati
personali e i punti di contatto presso cui
si possono ottenere maggiori informazioni ed
elenca le misure raccomandate per attenuare
i possibili effetti pregiudizievoli della
violazione di dati personali. La
comunicazione al Garante descrive, inoltre,
le conseguenze della violazione di dati
personali e le misure proposte o adottate
dal fornitore per porvi rimedio. Inoltre i
fornitori devono tenere un aggiornato
inventario delle violazioni di dati
personali, incluse le circostanze in cui si
sono verificate, le loro conseguenze e i
provvedimenti adottati per porvi rimedio, in
modo da consentire al Garante di verificare
il rispetto delle disposizioni.
---------------
Un giorno di tempo per
comunicare la violazione.
La comunicazione della violazione dovrà
avvenire in maniera tempestiva: entro 24 ore
dalla scoperta dell'evento, aziende tlc e
Internet provider dovranno fornire le
informazioni per consentire una prima
valutazione dell'entità della violazione
(tipologia dei dati coinvolti, descrizione
dei sistemi di elaborazione, indicazione del
luogo dove è avvenuta la violazione).
Aziende telefoniche o internet provider
avranno 3 giorni di tempo per una
descrizione più dettagliata.
Per agevolare l'adempimento il Garante ha
predisposto un modello di comunicazione
disponibile on line sul suo sito
(www.garanteprivacy.it). All'esito delle
verifiche, i provider dovranno comunicare al
Garante le modalità con le quali hanno posto
rimedio alla violazione e le misure adottate
per prevenirne di nuove. L'obbligo di
comunicare le violazione di dati personali
spetta esclusivamente ai fornitori di
servizi telefonici e di accesso a Internet.
L'adempimento non riguarda quindi le reti
aziendali, gli Internet point (che si
limitano a mettere a disposizione dei
clienti i terminali per la navigazione), i
motori di ricerca, i siti Internet che
diffondono contenuti.
---------------
Criteri legati al grado
di pregiudizio.
Nei casi più gravi, oltre al Garante, le
società telefoniche e gli Isp avranno
l'obbligo di informare anche ciascun utente
delle violazioni di dati personali subite. I
criteri per la comunicazione dovranno
basarsi sul grado di pregiudizio che la
perdita o la distruzione dei dati può
comportare (furto di identità, danno fisico,
danno alla reputazione), sulla «attualità»
dei dati (dati più recenti possono rivelarsi
più interessanti per i malintenzionati),
sulla qualità dei dati (finanziari,
sanitari, giudiziari , ecc.), sulla quantità
dei dati coinvolti. La comunicazione agli
utenti deve avvenire al massimo entro 3
giorni dalla violazione e non è dovuta se si
dimostra di aver utilizzato misure di
sicurezza e sistemi di cifratura e di
anonimizzazione che rendono inintelligibili
i dati.
In ogni caso, in ragione dell'entità del
possibile pregiudizio per gli interessati,
devono essere sempre comunicate
immediatamente ai contraenti le violazioni
che riguardano le credenziali di
autenticazione (nome utente e password,
ancorché quest'ultima sia cifrata o
sottoposta a funzioni di hashing) o
le chiavi di cifratura utilizzate dai
contraenti medesimi. Per consentire
l'attività di accertamento del Garante, i
provider dovranno tenere un inventario
costantemente aggiornato delle violazioni
subite che dia conto delle circostanze in
cui queste si sono verificate, le
conseguenze che hanno avuto e i
provvedimenti adottati a seguito del loro
verificarsi.
Non comunicare al Garante la violazione dei
dati personali o provvedere in ritardo
espone a una sanzione amministrativa che va
da 25mila a 150 mila euro. Stesso discorso
per la omessa o mancata comunicazione agli
interessati, siano essi soggetti pubblici,
privati o persone fisiche: qui la sanzione
prevista va da 150 euro a 1.000 euro per
ogni società o persona interessata. La
mancata tenuta dell'inventario aggiornato è
punita con la sanzione da 20mila a 120mila
euro (articolo
ItaliaOggi Sette del 13.08.2012). |
AGGIORNAMENTO AL
13.08.2012 |
ã |
NOVITA' NEL
SITO |
Inseriti i nuovi bottoni:
►
dossier PERMESSO DI COSTRUIRE (legittimazione richiesta
titolo)
►
dossier PERMESSO DI COSTRUIRE (deroga)
Nel contempo, si è colta l'occasione per rinominare -e
rendere più funzionali- alcuni
esistenti dossier nel seguente modo:
●
dossier PERMESSO DI COSTRUIRE
(annullamento e/o impugnazione)
●
dossier PERMESSO DI COSTRUIRE (decadenza)
●
dossier PERMESSO DI COSTRUIRE (prescrizioni)
●
dossier PERMESSO DI COSTRUIRE (proroga) |
UTILITA' |
SICUREZZA LAVORO:
La sicurezza sul lavoro e la delega delle
funzioni (articolo
ItaliaOggi Sette del 06.08.2012). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 11.08.2012 n. 187, suppl. ord. n.
171/L, "Testo
del decreto-legge 22.06.2012, n. 83,
coordinato con la legge di conversione
07.08.2012, n. 134 recante: «Misure
urgenti per la crescita del Paese.»". |
ENTI LOCALI: G.U.
09.08.2012 n. 185 "Modalità di
applicazione dell’imposta comunale sulla
pubblicità al marchio di fabbrica apposto
sulle gru mobili, sulle gru a torre
adoperate nei cantieri edili e sulle
macchine da cantiere" (Ministero
dell'Economia e delle Finanze,
decreto 26.07.2012). |
AUTORITA'
VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI |
APPALTI SERVIZI:
Linee guida per gli affidamenti a
cooperative sociali ai sensi dell’art. 5,
comma 1, della legge n. 381/1991 (determinazione
01.08.2012 n. 3 - link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI:
L’avvalimento nelle procedure di gara
(determinazione
01.08.2012 n. 2 - link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA: D.
Chinello,
Legittimazione edilizia dei singoli
condòmini per intervenire sulle parti comuni
e poteri comunali di verifica
(Urbanistica e appalti n. 4/2012). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: T.
Grandelli e M. Zamberlan,
Il decreto fiscale cambia le regole sulle
assunzioni e sugli incarichi dirigenziali
... a favore degli enti !!! (Risorse
Umane n. 3/2012). |
EDILIZIA PRIVATA: A.
Fedeli,
Il vincolo di rispetto cimiteriale e i
parcheggi interrati (Urbanistica e
appalti n. 2/2011). |
EDILIZIA PRIVATA:
F. P. Francica,
Le antenne per telefonia mobile nella fascia
di rispetto cimiteriale
(Urbanistica e appalti n. 5/2010). |
EDILIZIA PRIVATA:
O. Carapelli,
Brevi note in tema di soggetti legittimati a
richiedere la concessione edilizia (07-08/2001
- link a www.giustamm.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
G. Carlotti,
Il permesso di costruire in deroga e la
ristrutturazione edilizia nel d.p.r. n.
380/2001 (aprile 2004 - link a
www.diritto.it). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il divieto di
monetizzare le ferie vale per il futuro.
Esclusi i rapporti di lavoro cessati prima
del varo della spending review.
Il divieto di monetizzare le ferie residue
ai dipendenti pubblici, stabilito
dall'articolo 5 del decreto legge sulla
spending review, non ha valore retroattivo.
Pertanto, lo stesso non opera nel caso in
cui si riferisca a rapporti di lavoro già
cessati prima dell'entrata in vigore della
norma, a situazioni in cui le ferie siano
maturate prima di tale entrata in vigore e
qualora la fruizione delle stesse sia
oggettivamente incompatibile, per esempio, a
causa della ridotta durata del rapporto di
lavoro.
È quanto ha precisato il dipartimento della
funzione pubblica nel testo della
nota 06.08.2012 n.
32937 di prot., con cui,
rispondendo a una precisa istanza formulata
dall'Associazione nazionale dei comuni
italiani (Anci) ha fatto chiarezza su alcuni
aspetti conseguenti all'entrata in vigore
dell'articolo 5, comma 8 del dl n. 95/2012.
Come noto, tale disposizione, nell'ottica di
un generale contenimento della spesa
pubblica, prevede che le ferie, i riposi e i
permessi che spettano al personale pubblico
devono essere obbligatoriamente fruiti e non
danno luogo, in nessun caso, a trattamenti
sostitutivi. Principio che opera anche nel
caso di cessazione del rapporto di lavoro
per mobilità, dimissioni, risoluzione del
contratto e pensionamento. In caso di
violazione, si prevede l'avvio di un
procedimento disciplinare e amministrativo
per il dirigente responsabile.
Su queste basi, Palazzo Vidoni ha precisato
che il tenore letterale della norma non
prevede una disciplina transitoria.
Pertanto, in base ai principi generali che
governano le leggi nel tempo, è pacifico che
sono da ritenersi escluse da tali
limitazioni tutte quelle situazioni che si
sono definite prima della sua entrata in
vigore (06.07.2012), poiché, operando al
contrario, si attribuirebbe alla norma una
portata retroattiva che non è prevista.
In tale ottica, la funzione pubblica,
ammette alla monetizzazione i rapporti di
lavoro cessati prima del 6 luglio scorso, le
situazioni in cui le giornate di ferie sono
maturate prima della stessa data e quelle in
cui risulti incompatibile la loro fruizione
a causa della ridotta durata del rapporto o
per altre cause ben definite. Resta comunque
fermo il principio che la monetizzazione
delle ferie nei residui casi potrà avvenire
solo in presenza di ipotesi previste da
norme di legge o da contratti di lavoro.
Quindi, rivolgendosi alle amministrazioni,
la nota suggerisce che ogni singolo caso sia
esaminato attentamente, soprattutto nei
motivi che hanno portato all'accumulo delle
ferie per i lavoratore che lo stesso non è
riuscito successivamente a «smaltire»
(articolo ItaliaOggi
dell'08.08.2012). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
APPALTI SERVIZI - LAVORI PUBBLICI: Appalti, solidarietà senza confini.
Garanzia contributiva e retributiva estesa a
tutti i lavoratori. Una circolare Inps
illustra le novità introdotte dalla legge
44/2012 e in vigore dal 29 aprile.
Solidarietà senza confini negli appalti. Dal
29 aprile, infatti, riguarda non solo i
dipendenti, ma pure i lavoratori impiegati
con altre tipologie contrattuali (co.co.pro.
per esempio) e quelli «in nero». Dalla
stessa data, inoltre, vige un unico regime
(di responsabilità) per committenti e
appaltatori.
Lo spiega l'Inps, nella
circolare
10.08.2012 n. 106/2012, illustrando le novità
della legge n. 44/2012 di conversione del dl
n. 16/2012.
La responsabilità solidale. È una sorta di
vincolo che lega, negli appalti, la ditta
che affida un lavoro a quella che tale
lavoro esegue. Il vincolo vale relativamente
ai diritti retributivi, fiscali e
contributivi spettanti ai lavoratori che
sono impiegati nell'esecuzione dei lavori.
L'Inps spiega che oggi vige una doppia
disciplina: la prima (dlgs n. 276/2003)
stabilisce che «in caso di appalto di opere
o di servizi il committente imprenditore o
datore di lavoro è obbligato in solido con
l'appaltatore, nonché con ciascuno degli
eventuali ulteriori subappaltatori entro il
limite di due anni dalla cessazione
dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori
i trattamenti retributivi, comprese le quote
di trattamento di fine rapporto, nonché i
contributi previdenziali dovuti in relazione
al periodo di esecuzione del contratto di
appalto, restando escluso qualsiasi obbligo
per le sanzioni civili di cui risponde solo
il responsabile dell'inadempimento».
La
seconda (legge n. 248/2006) è quella
interessata da recenti modifiche, per cui
esiste una versione rimasta in vigore fino
al 28 aprile e un'altra, quella vigente,
operativa dal 29 aprile.
Una sola disciplina. Dall'analisi
complessiva delle norme, spiega l'Inps,
deriva che il committente (e anche
l'appaltatore) è chiamato a rispondere in
solido con l'appaltatore, nonché con gli
eventuali subappaltatori, per l'intero
importo della contribuzione previdenziale
(nonché della retribuzione) dovuta, con
esclusione, dal 10.02.2012 (entrata in
vigore del dl n. 5/2012, il dl
semplificazioni), delle sanzioni civili.
Circa le somme per le quali il committente è
chiamato a rispondere in solidarietà, l'Inps
richiama le indicazioni del ministero del
lavoro nella parte in cui precisano che il
regime di solidarietà permane sulle somme
dovute a titolo di interesse moratorio sui
debiti previdenziali. Inoltre, aggiunge
l'Inps, il dies a quo a partire dal quale il
committente non risponde dell'obbligo
relativo alle somme aggiuntive coincide con
tutti gli obblighi contributivi la cui
scadenza del versamento è successiva al 10
febbraio.
Il vincolo della solidarietà viene
meno dopo due anni dalla cessazione
dell'appalto (o del subappalto). Atteso il
tenore della norma, secondo l'Inps vanno
tutelati tutti i lavoratori, ovvero non solo
i lavoratori subordinati, ma anche quelli
impiegati con altri tipi di contratti di
lavoro (per esempio i collaboratori a
progetto), nonché quelli in nero, purché
impiegati direttamente nell'opera o nel
servizio oggetto dell'appalto.
Obblighi per l'appaltatore.
Dal 29.04.2012, spiega inoltre l'Inps,
all'appaltatore si applica la stessa
disciplina prevista per i committenti. Ciò
in virtù della consolidata giurisprudenza
che considera il contratto di subappalto
null'altro che un vero e proprio appalto
(per tutte, Cassazione n. 6208 del
07.03.2008).
Pertanto, a partire da tale data, il regime
previsto per il committente obbligato in
solido è da ritenersi esteso all'appaltatore
chiamato in solidarietà
(articolo ItaliaOggi
dell'11.08.2012). |
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - VARI: Accatastamento
d'ufficio con addebito.
Accatastamento d'ufficio
con addebito delle spese e applicazione
delle sanzioni amministrative per coloro che
non provvederanno entro il prossimo 30
novembre a dichiarare al catasto edilizio
urbano i fabbricati rurali iscritti al
catasto terreni.
Lo ha precisato l'Agenzia del Territorio con
la
circolare
07.08.2012 n. 2/2012.
I fabbricati rurali, in base a quanto
disposto dall'articolo 13 del dl «salva-Italia»
(201/2011), devono transitare dal catasto
terreni a quello edilizio urbano, con
esclusione di quelli che non costituiscono
oggetto di inventariazione, su apposita
dichiarazione dei titolari degli immobili
che deve essere presentata entro il 30
novembre. Per gli immobili soggetti
all'obbligo di dichiarazione, l'Agenzia ha
chiarito che deve essere previamente
presentato «l'atto di aggiornamento del
CT (tipo mappale), con passaggio dei cespiti
alla partita speciale 1 “Enti urbani e
promiscui”. E che nella relazione tecnica
allegata all'atto di aggiornamento
cartografico deve essere specificato che
viene presentato secondo le regole imposte
dall'articolo 13».
Nelle more della presentazione della
dichiarazione di aggiornamento catastale,
l'imposta municipale è dovuta a titolo di
acconto e salvo conguaglio in base alla
rendita delle unità similari già iscritte in
catasto. Il conguaglio dell'imposta deve
essere poi determinato dai comuni in seguito
all'attribuzione della rendita definitiva.
Nella circolare viene posto in rilievo che,
«in caso di inottemperanza da parte del
soggetto obbligato» si applicano le
disposizioni contenute nell'articolo 1,
comma 336, della legge 311/2004. Quindi, se
i contribuenti non presentano la
dichiarazione di aggiornamento gli uffici
provinciali dell'Agenzia del territorio
provvedono d'ufficio, con oneri a carico
dell'interessato, all'accatastamento
dell'immobile rurale notificando le
risultanze del classamento e la relativa
rendita. In questo caso i titolari di
diritti reali immobiliari (proprietari,
usufruttuari, e via dicendo) saranno
soggetti al pagamento delle spese e delle
sanzioni amministrative.
Nel momento in cui l'Agenzia attribuisce la
rendita catastale agli immobili è tenuta a
notificare il provvedimento al soggetto
interessato. L'avviso di classificazione di
un immobile in una determinata categoria è
comunque soggetto all'obbligo della
motivazione. Questo adempimento deve
ritenersi osservato anche mediante la
semplice indicazione della consistenza,
della categoria e della classe
dell'immobile, trattandosi di dati
sufficienti a porre il contribuente nella
condizione di difendersi (Cassazione,
sentenza 12068/2004).
L'obbligo di motivazione degli atti di
natura tributaria è infatti finalizzato a
garantire il diritto di difesa del
contribuente. Il provvedimento attributivo
della rendita catastale è impugnabile, per
vizi propri, nel breve termine di decadenza
di 60 giorni, innanzi al giudice tributario.
Se la rendita non viene impugnata diventa
definitiva e incontestabile.
E al contribuente rimane solo la possibilità
di presentare istanza di autotutela
all'Agenzia per correggere eventuali vizi o
errori contenuti nel provvedimento. Il
riesame d'ufficio o su segnalazione del
contribuente, come indicato nella circolare
11/2005 della stessa Agenzia, consente di
eliminare gli errori di inserimento dati o
che derivano da erronee applicazioni dei
principi dell'estimo catastale
(articolo ItaliaOggi
del 10.08.2012). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Permessi al test di
convenienza.
Con il part-time orizzontale meglio
usufruire di giorni non ore. Il quadro di
riferimento fornito dall'Inps con circolare
100/2012 in merito all'assistenza a
familiari disabili.
Il part-time orizzontale «obbliga» i
lavoratori ai permessi giornalieri. Infatti,
al dipendente assunto a tempo parziale
orizzontale conviene richiedere i permessi
giornalieri (tre giorni) e non orari (18 ore
se l'orario di lavoro giornaliero è di 6
ore) per assistere a familiari disabili,
perché nel primo caso i permessi spettano in
misura interna mensile (cioè sono garantite
le tre giornate mensili), mentre i permessi
orari sono soggetti a riduzione in funzione
della percentuale di riduzione della
prestazione lavorativa.
A fornire un quadro
di riferimento sul riconoscimento dei
permessi ai lavoratori in part-time è l'Inps
nella
circolare
24.07.2012 n. 100.
Permessi ex legge n. 104/1992. I chiarimenti
dell'Inps (rivolti al proprio personale ma
applicabili, per analogia, a tutti i
dipendenti) riguardano alcuni dei permessi
mensili (retribuiti e coperti da contributi
figurativi) che spettano, in virtù della
legge n. 104/1992, ai lavoratori dipendenti.
Nello specifico l'Inps prende in esame i
seguenti permessi spettanti ai lavoratori
dipendenti:
a) portatori di handicap in situazione di
disabilità grave (due ore al giorno ovvero
tre giorni mensili frazionabili in ore);
b) genitori di figli in situazione di
disabilità grave (tre giorni mensili
frazionabili in ore);
c) coniuge, parenti o affini entro il 2°
grado (tre giorni al mese frazionabili in
ore).
Lavoratori in part-time. Con riferimento ai
dipendenti con rapporto di lavoro a tempo
parziale, l'Inps illustra le modalità con
cui procedere al riproporzionamento dei
permessi mensili spettanti (tre giorni
ovvero 18 ore), a seconda della tipologia di
part-time.
Part-time di tipo orizzontale. Il rapporto
di lavoro a tempo parziale di tipo
orizzontale prevede l'articolazione della
prestazione lavorativa secondo un orario
ridotto uniformemente in tutti i giorni
lavorativi. I dipendenti disabili con
rapporto di lavoro a tempo parziale
orizzontale, i quali assicurino una
prestazione lavorativa fino a sei ore
giornaliere, hanno diritto, in alternativa,
ai seguenti benefici: un'ora di permesso
giornaliero; tre giorni di permesso mensile;
permessi orari mensili in misura
corrispondente alla percentuale della
prestazione lavorativa.
I dipendenti disabili che assicurino una
prestazione lavorativa superiore a sei ore
giornaliere hanno diritto, in alternativa ai
benefici di tre giorni di permesso mensile e
dei permessi mensili, a due ore di permesso
giornaliero. Le stesse regole valgono anche
per i dipendenti con rapporto di lavoro
part-time orizzontale che fruiscono dei
permessi in argomento per assistere un
familiare disabile.
Part-time di tipo verticale. Quando il
part-time è di tipo verticale la prestazione
lavorativa può essere articolata
concentrandola con due diverse modalità: 1)
in tutti i giorni lavorativi, solo in alcuni
mesi dell'anno; 2) soltanto in alcune
settimane del mese o in alcuni giorni della
settimana.
Conseguentemente, spiega l'Inps, nel caso in
cui il contratto di part-time sia
riconducibile alla prima ipotesi
(prestazione lavorativa in tutti i giorni
lavorativi, solo in alcuni mesi dell'anno),
il lavoratore dipendente avrà diritto ai
benefici dei permessi nella misura intera
nei mesi in cui è prevista la prestazione
lavorativa. Diversamente, qualora
l'articolazione della prestazione lavorativa
sia riconducibile alla prima ipotesi
(soltanto in alcune settimane del mese o in
alcuni giorni della settimana), il diritto
ai permessi mensili è riconosciuto in misura
ridotta proporzionalmente alla riduzione
della prestazione lavorativa prevista dal
contratto stesso nel mese di riferimento.
Part-time di tipo misto.
L'articolazione della prestazione lavorativa
deriva dalla combinazione delle due
tipologie verticale e orizzontale e
consiste, pertanto, nella concentrazione
della prestazione lavorativa giornaliera ad
orario ridotto soltanto in alcuni periodi
dell'anno, del mese o della settimana. Il
dipendente che assiste un familiare disabile
ha diritto a un numero di permessi
giornalieri calcolato sulla base della
percentuale della prestazione lavorativa
corrispondente alla componente verticale.
Diversamente, in caso di fruizione dei
permessi mensili nella modalità oraria, il
monte ore dei benefici spettanti è
determinato sulla base della percentuale
corrispondente alla componente orizzontale
(articolo ItaliaOggi
Sette
del 06.08.2012). |
CORTE DEI
CONTI |
APPALTI:
PICCOLI COMUNI/ I mini-enti fanno
acquisti insieme. Centrale unica di
committenza per beni, forniture e gare. La
Corte dei conti prevede poche eccezioni
all'obbligo in vigore dal 31 marzo.
I comuni fino a 5 mila
abitanti devono necessariamente attivare le
centrali uniche di committenza per
effettuare tutti gli acquisti di beni e
forniture e tutte le aggiudicazioni di
lavori pubblici a partire dal prossimo 31
marzo. Possono sfuggire da tale obbligo,
sulla base delle prescrizioni del dl n.
95/2012, c.d. spending review, solamente nel
caso in cui utilizzino altre centrali di
committenza, ivi comprese le convenzioni di
acquisto, ovvero facciano ricorso al mercato
elettronico.
Per la Corte dei conti del Piemonte (parere
06.07.2012 n. 271) il vincolo al
ricorso alla centrale unica di committenza
si estende anche ai cottimi fiduciari. È
perciò quanto mai urgente che i comuni fino
a 5 mila abitanti avviino le procedure per
realizzare questo nuovo strumento, visto che
si sta per giungere alla scadenza del
termine. Si deve subito ricordare che
dall'01.04.2013 tutti gli acquisti e le
aggiudicazioni effettuate direttamente da
parte dei piccoli comuni con gare gestite
direttamente saranno illegittimi.
Dunque, oltre alla gestione associata delle
funzioni fondamentali per come individuate
dal dl n. 95/2012 e nel rispetto del termine
per cui questa esperienza si deve realizzare
per almeno tre attività entro il 2012 e per
le restanti sei entro il 2013, i comuni con
popolazione inferiore a 5 mila abitanti
devono effettuare gli acquisti di beni e
servizi e le aggiudicazioni di lavori
pubblici esclusivamente tramite centrali
uniche di committenza.
È questo un obbligo che si può definire come
«trasversale», intendendo con questa
espressione che si estende a qualsivoglia
funzione, quindi senza distinzione tra
quelle fondamentali e le altre. Nelle
previsioni legislative la unione dei comuni
rappresenta lo strumento principali
attraverso cui realizzare concretamente
questa forma di gestione associata.
L'ambito di applicazione della disposizione
è assai vasto. Per la sezione regionale di
controllo della Corte dei conti del
Piemonte, esso si estende a tutte le
procedure che non siano «in economia»
ed a quelle che hanno importo inferiore alla
soglia comunitaria. Nell'ambito degli
acquisti in economia si deve effettuare una
distinzione tra quelli effettuati mediante «amministrazione
diretta», che sono da considerare
esclusi, e quelli per i quali si ricorre al
metodo del «cottimo fiduciario». Per
quest'ultimo strumento si deve pervenire
alla conclusione dell'assoggettamento ai
vincoli della utilizzazione delle centrali
uniche di committenza in quanto essa, per la
definizione dettata dal legislatore, «costituisce
procedura negoziata, laddove per procedura
negoziata di intende ogni procedura in cui
la stazione appaltante consulta gli
operatori economici scelti e negozia con uno
o più di essi le condizioni dell'appalto».
Ed ancora, «risulta evidente la volontà
del legislatore, confermata dalla disciplina
contenuta nel regolamento di esecuzione,
nonché dalla giurisprudenza amministrativa,
di assoggettare la procedura di cottimo
fiduciario alle norme del codice dei
contratti pubblici previste per i
procedimenti di affidamento ordinari, purché
compatibili con la procedura semplificata».
Il riferimento utilizzato dal legislatore
alla gara non può determinare la esclusione
di questa procedura, in quanto prevale il
dato sostanziale della spinta alla
razionalizzazione delle procedure.
Sulla base delle previsioni del dl n.
95/2012 il ricorso alla centrale unica di
committenza non è obbligatorio nei seguenti
due casi. In primo luogo, se l'ente aderisce
ad un'altra esperienza di questo tipo:
ricordiamo che molte regioni si sono e/o si
stanno concretamente attivando in tale
direzione e che è possibile per i comuni,
come per tutte le altre pubbliche
amministrazioni, aderire a tali esperienze.
In tale ambito sono comprese anche le
convenzioni di acquisto, tra le quali
assumono particolare e specifico rilievo
quelle stipulate con la Consip. In secondo
luogo, per quegli acquisti che si effettuano
tramite il mercato elettronico. Alla base di
questa esclusione il fatto che in queste
esperienze il rischio della frammentazione è
di per sé evitato, così come i costi di
gestione per tali procedure sono ridotti al
minimo
(articolo ItaliaOggi
del 10.08.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
QUESITI &
PARERI |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Discarica
non autorizzata.
Domanda
In presenza di una discarica non autorizzata
di rifiuti provenienti da attività di
demolizione, il ripristino ambientale può
essere considerato risarcimento in forma
specifica?
Risposta
La Corte di cassazione, sezione III penale,
con la sentenza del 12.05.2011, numero
18815, ha affermato che, in tema di
smaltimento di rifiuti, conseguenti alla
realizzazione e gestione di una discarica
non autorizzata di rifiuti provenienti da
attività di demolizione, il ripristino dello
stato dei luoghi non è configurabile quale
sanzione accessoria a quella penale, ma è,
nella sostanza, un risarcimento in forma
specifica che discende ex lege dalla
condanna, con il limite previsto dalla legge
(«ove sia possibile») ed è anche diverso,
pertanto, dall'obbligo di ripristino
disciplinato dall'articolo 2058 del codice
civile.
Il ripristino dello stato dei luoghi era
previsto dall'articolo 18, comma 8, della
legge 08.07.1986, numero 349, (legge
istitutiva del ministero dell'ambiente), che
statuiva, al citato comma 8, che «il
giudice, nella sentenza di condanna dispone,
ove possibile, il ripristino dello stato dei
luoghi a spese del responsabile» . Detta
disposizione è, all'attualità, contenuta,
con formulazione non identica, nell'articolo
311 del decreto legislativo numero 152, del
3 aprile 2006. Detto articolo è stato poi
modificato dalla legge numero 166, del 2009.
Ora la Suprema corte, con la summenzionata
sentenza, ha puntualizzato che il ripristino
dello stato dei luoghi non deve essere
considerato come una sanzione accessoria
penale, ma una forma di risarcimento del
danno, di forma civilistica, distinta da
quella prevista dall'articolo 2058 del
codice civile, che dispone che: «Il
danneggiato può chiedere la reintegrazione
in forma specifica, qualora sia in tutto o
in parte possibile. Tuttavia, il giudice può
disporre che il risarcimento avvenga solo
per equivalente, se la reintegrazione in
forma specifica risulta eccessivamente
onerosa per il debitore» .
È da dire che già in tema di tutela del
paesaggio, la stessa Corte di cassazione,
sezione III penale, con la sentenza del 10.06.1991, numero 6390 ebbe ad affermare
che il provvedimento di ripristino non deve
essere considerato come pena accessoria,
perché le pene accessorie sono sempre di
natura personale e mai patrimoniali. Esse,
infatti, incidono sullo status del
condannato, non aggrediscono il suo
patrimonio, ma ne limitano la sua sfera
giuridica.
Inoltre, l'istituto del
ripristino è applicabile indipendentemente
dalla proprietà del bene e dal responsabile.
Ed è posto, come affermato dalla Corte di
cassazione, sezione III penale, con la
sentenza del 21.04.1994, numero 4549, a
tutela degli interessi della collettività
(articolo ItaliaOggi
Sette
del 06.08.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Omessa
compilazione.
Domanda
Il gestore dell'impianto di destinazione
finale dei rifiuti ha responsabilità in
ordine all'omessa compilazione del
Formulario di identificazione del rifiuto (Fir)?
Risposta
La Corte di cassazione, sezione VI civile,
con la sentenza dell'08.04.2011, numero
11160, ha fatto chiarezza al disposto di
legge in materia di rifiuti e in
particolare, in ordine all'omessa
compilazione da parte del gestore
dell'impianto di destinazione finale dei
rifiuti e ha cassato, senza rinvio, la
sentenza della Corte di appello che aveva
ritenuto responsabile il predetto
dell'illecito amministrativo per avere
omesso di compilare il Formulario di
identificazione del rifiuto (Fir).
La stessa Corte di cassazione, sezione II
civile, con la sentenza numero 21781,
dell'11 ottobre 2006, affrontando
l'ambiguità e l'incertezza dell'obbligo
della compilazione del Formulario di
identificazione del rifiuto (Fir), aveva
affermato che «...è sufficiente rilevare che
la necessità dell'indicazione nel formulario
di identificazione della quantità del
rifiuto trasportato è chiaramente ed
inequivocabilmente stabilita dall'articolo
15, comma 1, lettera b) del decreto
legislativo numero 22, del 1997, secondo
cui: durante il trasporto effettuato da enti
o imprese i rifiuti sono accompagnati da un
formulario di identificazione dal quale
devono risultare, in particolare, i seguenti
dati... b) origine, tipologia e quantità del
rifiuto».
«In tema di rifiuti, il produttore
di quelli che siano avviati allo smaltimento
deve indicare, all'atto della partenza, la
quantità degli stessi nel formulario di
accompagnamento e la relativa omissione
comporta la violazione, punita con sanzione
amministrativa, degli articoli 15 e 52 del
decreto legislativo numero 22, del 1997,
posto che, dall'interpretazione letterale
del combinato disposto di dette norme, si
desume che la responsabilità per la mancata
presenza del formulario a corredo del
trasporto è attribuibile non solo al
trasportatore, ma anche al produttore dei
rifiuti» .
Peraltro, il destinatario del rifiuto non ha
quelle notizie sul rifiuto note, soltanto,
al produttore o al trasportatore o al
detentore del rifiuto
(articolo ItaliaOggi
Sette
del 06.08.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Risarcimento
di danno ambientale.
Domanda
Il risarcimento del danno ambientale, quale
lesione dell'interesse pubblico e generale
dell'ambiente, spetta esclusivamente allo
stato?
Risposta
La Corte di cassazione, sezione III penale,
con la sentenza del 27.05.2011, numero
21311, ha affermato che il risarcimento del
danno ambientale, quale lesione
dell'interesse pubblico e generale
dell'ambiente, spetta esclusivamente allo
stato, ai sensi dell'articolo 311, del
decreto legislativo 03.04.2006, numero
152. Gli enti territoriali, per la Suprema
corte di cassazione, sono legittimati a
costituirsi parte civile nel giudizio penale
al fine di ottenere il risarcimento del
danno ambientale ai sensi dell'articolo 2043
del codice civile.
La stessa Corte di cassazione, sezione III
penale, con la sentenza numero 14828,
dell'11.02.2010, ebbe ad affermare che
la legittimazione alla costituzione di parte
civile delle associazioni ecologiche
operanti nel settore dell'ambiente, richiede
che le associazioni si atteggino quali enti
esponenziali di interessi ambientali
concretamente individualizzati e, cioè, di
interessi collettivi legittimi e non di meri
interessi diffusi. Al fine di accertare se
la situazione giuridica soggettiva dell'ente
sia differenziata e qualificata rispetto al
mero interesse collettivo, di natura
diffusa, è necessario che l'associazione
abbia dato prova di continuità del suo
contributo a difesa del territorio.
Ancora
la Corte di cassazione, sezione III penale
ha puntualizzato, con la sentenza del 03.11.2006, numero 36514, che le
associazioni ambientaliste portatrici di
interessi superindividuali possono
costituirsi parte civile nel processo
penale, avocando la risarcibilità del danno
ambientale, con poteri identici a quelli
della persona offesa, munendosi del consenso
di quest'ultima, quale requisito essenziale
della legittimazione processuale.
Alla luce della normativa in atto, pertanto,
le regioni, gli enti pubblici territoriali
minori, nonché gli altri protagonisti
singoli o associati, possono agire per
l'accertamento della responsabilità
aquiliana ex articolo 2043, del codice
civile, per ottenere il risarcimento del
danno patrimoniale. Infatti il citato
articolo 311 concentra la competenza in
materia in capo allo stato, che la esercita,
per il tramite il ministero dell'ambiente e
della tutela del territorio, per la tutela,
la prevenzione e la riparazione dei danni
ambientali
(articolo ItaliaOggi
Sette
del 06.08.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Trasporto
di rifiuti senza formulario.
Domanda
Il trasporto di rifiuti senza formulario è
sanzionato penalmente?
Risposta
Il comma 3 dell'articolo 52 del decreto
legislativo numero 22, del 1997, poi
diventato comma 4 dell'articolo 258 del
decreto legislativo numero 152, del 2006, in
forza del rinvio quoad poenam all'articolo
483 del codice penale sanzionava quale
delitto la condotta di chiunque effettuasse
trasporto di rifiuti pericolosi senza
formulario, oppure avendo indicato nel
formulario dei dati incompleti o inesatti.
Sanzionava, pure, la condotta di chi, nella
predisposizione di un certificato di analisi
di rifiuti forniva false indicazioni sulla
natura, sulla composizione e sulle
caratteristiche chimico-fisiche dei rifiuti.
Sanzionava, ancora, la condotta di colui che
facesse uso di un certificato falso durante
il trasporto.
Il legislatore, con il decreto legislativo
numero 205, del 2010, che ha dato attuazione
alla direttiva numero 98/1999/CE, con il
nuovo comma 4 dell'articolo 258, ha
ridimensionato il rilievo penale. Infatti la
pena di cui all'articolo 483, del codice
penale è applicabile non solamente a colui
che nella predisposizione di un certificato
di analisi di rifiuti fornisce false
indicazioni sulla natura, sulla composizione
e sulle caratteristiche chimico-fisiche de
rifiuti, ma anche a colui che fa uso di un
certificato falso durante il trasporto.
Detta condotta, dopo l'entrata in vigore del
citato decreto legislativo numero 205, del
2010, è penalmente rilevante soltanto quando
realizzata da imprese che raccolgono e
trasportano i propri rifiuti non pericolosi
di cui all'articolo 212, comma 8,e che non
aderiscono al sistema di controllo della
tracciabilità dei rifiuti (Sistri), di cui
all'articolo 188-bis, comma 2, lettera a).
Il tribunale di Bologna, sezione prima
penale, con la sentenza del 19.05.2011,
numero 109, ha affermato che l'articolo 35
del decreto legislativo n. 205, del
03.12.2010, ha depenalizzato il reato di cui
all'articolo 52, comma 3, del decreto
legislativo numero 22, del decreto
legislativo numero 205, del 2010, ora
articolo 258, comma 4, del decreto
legislativo 03.04.2006, numero 152, relativo
al trasporto di rifiuti pericolosi senza
l'apposito formulario o con l'indicazione
inesatta o incompleta dei dati indicati nel
formulario stesso e con «una lettura
costituzionalmente orientata dell'articolo
484 del codice penale» ha ritenuto
depenalizzata la condotta meno grave di chi
attesti false indicazioni nei registri di
cui al citato articolo 484 del codice penale
(articolo ItaliaOggi
Sette
del 06.08.2012). |
CONDOMINIO: Approvazione
tabelle a maggioranza.
Domanda
L'approvazione delle tabelle millesimali in
una palazzina condominiale con quali criteri
deve essere fatta? Occorre l'unanimità
oppure, come sostiene l'amministratore, è
sufficiente la maggioranza assoluta
(maggioranza degli intervenuti che
rappresenti la metà almeno del valore
dell'edificio)?
Risposta
Ha ragione l'amministratore. La sentenza n.
18477/2010 delle Sezioni unite della Corte
di cassazione ha «validato» l'orientamento
(minoritario) più recente affermando il
principio che le tabelle millesimali non
devono essere approvate con il consenso
unanime dei condomini, essendo sufficiente
la maggioranza qualificata di cui all'art.
1138, 3° c., c.c.
La Cassazione ha negato che i millesimi
rappresentino l'espressione di una volontà
negoziale dei condomini volta ad accertare
il valore millesimale delle loro unità
immobiliari da cui sarebbe conseguita la
necessità dei consensi di tutti gli stessi
per la loro approvazione.
La Cassazione ha esaminato anche la funzione
delle tabelle millesimali, negando che la
presunta necessità dell'unanimità dei
consensi dipenderebbe dal fatto che la
deliberazione di approvazione delle tabelle
millesimali costituirebbe un negozio di
accertamento del diritto di proprietà sulle
singole unità immobiliari e sulle parti
comuni; piuttosto, la tabella millesimale
serve solo a esprimere in precisi termini
aritmetici un già preesistente rapporto di
valore tra i diritti dei vari condomini,
senza incidere in alcun modo sulla
consistenza dei diritti reali a ciascuno
spettanti.
Afferma la Cassazione nella
sentenza che la deliberazione che approva le
tabelle millesimali non si pone come fonte
diretta dell'obbligo contributivo del
condomino, che è nella legge prevista, ma
solo come parametro di quantificazione
dell'obbligo, determinato in base a una
valutazione tecnica; caratteristica propria
del negozio giuridico è la conformazione
della realtà oggettiva alla volontà delle
parti: l'atto di approvazione della tabella,
invece, fa capo a una documentazione
ricognitiva di tale realtà, donde il difetto
di note negoziali.
In sintesi, con la predetta sentenza le
Sezioni Unite hanno affermato che:
1) le
tabelle esprimono un rapporto di valore tra
unità immobiliari e parti comuni, che
preesiste alle tabelle stesse, ai soli fini
della ripartizione delle spese e del
corretto svolgimento dell'assemblea (art. 68 disp. att. c.c.); 2) le tabelle sono un
allegato del regolamento del condominio che,
se di origine «assembleare» (anziché
«contrattuale»), può essere approvato e
modificato a maggioranza;
3) in quanto
allegato al regolamento assembleare, esse
sono soggette alle norme che regolano tale
atto principale e, poiché per le tabelle
nulla è previsto mentre per il regolamento è
specificato il quorum necessario per la sua
approvazione (art. 1138, 3° c. e 1136, 2°
c.), anche per l'approvazione e la revisione
delle tabelle è sufficiente il voto
favorevole della maggioranza degli
interventi all'assemblea che rappresentino
almeno 500 millesimi
(articolo ItaliaOggi
Sette
del 06.08.2012). |
NEWS |
ENTI LOCALI - VARI: I
comuni possono installare i box
porta-autovelox.
I comuni possono installare box
porta-sistemi autovelox anche in centro
abitato senza necessità di alcuna
autorizzazione particolare da parte di
organi terzi. Il loro uso però sarà limitato
a una attività dissuasiva e preventiva
oppure all'accertamento non automatico
dell'eccesso di velocità con la presenza
costante dei vigili urbani.
Lo ha chiarito
il ministero dei trasporti con il parere
04.07.2012 n.
3937 di prot.
I box colorati
dissuasori dell'eccesso di velocità stanno
spuntando come funghi specialmente nei
centri abitati dove la normativa stradale
limita fortemente l'uso degli autovelox
fissi senza presidio. Per questo motivo una
provincia ha richiesto chiarimenti al
ministero dei trasporti che ha confermato la
legittimità sostanziale di queste
installazioni. I manufatti in oggetto,
specifica il parere centrale, «non sono
inquadrabili in alcuna delle categorie
previste dal nuovo codice della strada e dal
connesso regolamento di esecuzione e
attuazione e dunque per essi non risulta
concessa alcuna approvazione, ai sensi
dell'art. 45, comma 6, del codice e dell'art.
192, comma 3, del regolamento da parte di
questa direzione».
In pratica, gli
armadietti non sono classificabili come
segnaletica e nemmeno come sua componente.
Ma non si tratta neppure di impianti,
prosegue il Mit e «in quanto privi di
qualsivoglia dispositivo deputato alla
specifica funzione essi probabilmente non
potranno neppure essere ricondotti alla
futura nuova disciplina che sarà introdotta
in attuazione dell'art. 60 della legge n.
120/2010».
Il riferimento ministeriale è al
decreto che dovrà definire compiutamente le
caratteristiche e le modalità di impiego di
tutti gli impianti da utilizzare per il
controllo elettronico della velocità. In
buona sostanza, i manufatti porta-autovelox
possono essere utilizzati con misuratori
omologati, ma sempre con la presenza della
pattuglia se l'accertamento viene effettuato
in un tratto di strada non ricompreso tra
quelli autorizzati dal prefetto per il
controllo automatico
(articolo ItaliaOggi
dell'11.08.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dipendenti
in fuga dalle province. Boom di richieste di
mobilità volontaria per evitare gli esuberi.
A preoccupare i lavoratori anche
l'incertezza sulla nuova destinazione. Enti
in imbarazzo.
Fuga dalle province. È caos sulla normativa
e sulle modalità con le quali guidare e
regolare i processi di trasferimento dei
dipendenti delle amministrazioni provinciali
verso i comuni o le regioni, che dovranno
subentrare alle province nell'esercizio
delle loro competenze, per effetto
dell'articolo 17 del dl 95/2012.
La condizione di incertezza rispetto al
destino delle province, sta inducendo circa
4/5 mila dipendenti provinciali ad
anticipare decisamente i tempi ed a cercare
da subito una nuova attività lavorativa,
attraverso la «mobilità volontaria»
prevista dall'articolo 30 del dlgs 165/2001,
cioè il trasferimento verso altre
amministrazioni.
Non c'è, in effetti, dubbio che il
complicatissimo processo del passaggio delle
funzioni provinciali ai comuni o alle
regioni ponga almeno due elementi
problematici.
Il primo, è il rischio di essere coinvolti
negli «esuberi»: i dipendenti
provinciali potrebbero, cioè, trovarsi senza
una utile collocazione lavorativa e
rischiare di essere inseriti nelle liste di
«disponibilità» per 24 mesi, con
stipendio ridotto all'80%.
Tale evenienza dovrebbe essere scongiurata,
perché l'articolo 17, comma 9, del dl
95/2012 condiziona la decorrenza
dell'esercizio delle funzioni provinciali
trasferite a comuni o regioni al contestuale
ed effettivo trasferimento di beni, risorse
finanziarie, strumentali e di personale. In
linea teorica, dunque, dovrebbe esserci una
traslazione totale: le competenze
provinciali passano agli enti subentranti in
blocco col personale provinciale impiegato.
Il secondo elemento problematico, più
concreto, è dato dall'incertezza della sede
di nuova destinazione. In assenza di criteri
su come ripartire le funzioni provinciali e
su quali potranno essere degli 8.100 comuni
destinatari quelli che subentreranno (lo
stesso vale per l'eventuale subentro delle
regioni), i lavoratori impiegati nelle
province non sanno quale potrà essere il
nuovo lavoro, il nuovo ente di appartenenza,
la distanza, le condizioni di lavoro,
contrattuali ed organizzative.
Nulla di sorprendente, allora, che molti
cerchino di anticipare i tempi e di guidare
il proprio passaggio lavorativo dalla
provincia a un'altra amministrazione
(eventualmente anche non del comparto
regioni-autonomie locali) che possano in
qualche modo scegliere.
Le altre amministrazioni sanno bene di
questa situazione. E cercano di trarne
vantaggio, in particolare i comuni. Infatti,
le assunzioni per mobilità sostanzialmente
si ritiene non incidano sui tetti al
turnover e sui saldi finanziari, in quanto
neutrali. Per rimpinguare la dotazione
organica, dunque, la mobilità è una buona
opportunità. Del resto, l'articolo 30, comma
2, del dlgs 165/2001 obbliga tutte le
amministrazioni ad esperire una procedura
finalizzata ad attivare la mobilità
volontaria prima di espletare i concorsi.
A fronte del chiaro interesse dei dipendenti
delle province a partecipare alle procedure
di mobilità per cercare il trasferimento, le
amministrazioni provinciali si trovano in un
evidente imbarazzo.
L'articolo 16, comma 9, sempre del dl
95/2012 vieta alle province di assumere
nuovo personale a tempo indeterminato nelle
more dell'attuazione delle disposizioni
finalizzate alla loro riduzione e
razionalizzazione. Un divieto che si deve
intendere esteso anche alle assunzioni
mediante mobilità, per quanto ad oggi
l'ipotesi di dipendenti pubblici che
chiedano di trasferirsi presso una provincia
appare piuttosto improbabile.
In conseguenza del divieto assoluto di
assumere, se le province lasciassero andare
in mobilità il personale non potrebbero
sostituirlo.
Per questa ragione, alcune province, come
per esempio Siena, hanno disposto una sorta
di blocco totale alle mobilità in uscita,
riservandosi di non esprimere il «nulla
osta» alle domande di mobilità
presentate dai propri dipendenti.
La mobilità verso altri enti non
costituisce, per i dipendenti, un diritto
soggettivo, dunque ogni amministrazione,
comprese le province, possono negarla.
Di fatto, tuttavia, porte totalmente chiuse
alla mobilità non sembrano una scelta
corretta, considerando l'evidente favor del
legislatore per questa forma di
razionalizzazione della distribuzione dei
dipendenti tra amministrazioni.
La difficile gestione del personale
provinciale, circa 56 mila dipendenti,
potrebbe risultare più agevole se il
dipartimento della Funzione pubblica
pubblicasse con urgenza l'elenco dei posti
vacanti delle pubbliche amministrazioni e
indicasse regole specifiche sulla mobilità
dei dipendenti provinciali. Esiste, infatti,
un interesse indiretto ma sostanziale,
nell'organizzazione degli assetti del
personale, alla migliore distribuzione dei
dipendenti pubblici tra enti.
Processi di riordino come quelli previsti
dal legislatore richiedono come necessità la
regolazione dei trasferimenti da enti che
vanno verso il depotenziamento, ad altri
enti che, invece, risultino carenti di
personale. Un blocco totale, pertanto, delle
mobilità dalle province verso altri enti si
rivela contrario ai principi di corretta
amministrazione
(articolo ItaliaOggi
del 10.08.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI: Gestioni
unitarie solo per le competenze
fondamentali. Per le funzioni di Ict non
serve associarsi.
I piccoli comuni non devono gestire in forma
associata le attività di Ict in modo da
raggiungere la soglia minima di 30 mila
abitanti.
È quanto prevede la legge di conversione del
dl n. 95/2012, cd spending review,
che limita le gestioni associate
esclusivamente alle sole funzioni
fondamentali. In tal modo viene superata una
antinomia che si era determinata nella
sovrapposizione delle previsioni normative,
vincolando i piccoli comuni in modo duplice
alla unificazione sia della gestione delle
attività fondamentali, sia delle tecnologie,
ma prevedendo anche soglie minime
completamente diverse: per le funzioni
fondamentali essa è fissata in 10 mila
abitanti, che per scelta regionale possono
anche essere inferiori, mentre per le
attività di Ict veniva fissata nella soglia
inderogabile di 30 mila abitanti.
Sulla base delle nuove disposizioni il dato
prevalente, ai fini della individuazione
delle attività da svolgere necessariamente
in modo associato è costituito dalle
funzioni fondamentali, che ricordiamo essere
le seguenti: organizzazione generale della
amministrazione, gestione, contabilità e
controllo; organizzazione dei servizi
pubblici di interesse comunale, ivi compresi
i trasporti pubblici comunali; catasto;
pianificazione urbanistica ed edilizia
comunale e partecipazione a quella
sovraccomunale; pianificazione della
protezione civile e coordinamento dei primi
soccorsi; organizzazione e gestione della
raccolta e smaltimento dei rifiuti e dei
relativi tributi; progettazione del sistema
di servizi sociali ed erogazione delle
relative prestazioni ai cittadini; edilizia
scolastica e organizzazione e gestione dei
servizi scolastici; polizia municipale e
polizia amministrativa locale; tenuta dei
registri di stato civile ed anagrafe,
servizi anagrafici, elettorali e statistici.
Ciò che conta sono tali attività e non più
le modalità di svolgimento; infatti per
espressa previsione del dl n. 95/2012, cd
spending review, «se l'esercizio di tali
funzioni è legato alle tecnologie
dell'informazione e della comunicazione, i
comuni le esercitano obbligatoriamente in
forma associata secondo le modalità
stabilite dal presente articolo, fermo
restando che tali funzioni comprendono la
realizzazione e la gestione di
infrastrutture tecnologiche, rete dati,
fonia, apparati, di banche dati, di
applicativi software, l'approvvigionamento
di licenze per il software, la formazione
informatica e la consulenza nel settore
dell'informatica».
Di conseguenza, la gestione associata
comprende unicamente materie specifiche e
cessa di comprendere modalità di esercizio
di tali attività, cioè di essere «trasversale».
L'unica eccezione è costituita dall'obbligo
delle centrali uniche di committenza per
ogni tipo di acquisto, a prescindere dalla
destinazione a questa o a quella funzione.
Siamo cioè in presenza di un chiarimento
quanto mai opportuno, sul terreno
concretamente operativo, perché permette di
superare tutti i dubbi applicativi e di
evitare la sovrapposizione di modalità
diverse di gestione
(articolo ItaliaOggi
del 10.08.2012). |
ENTI LOCALI: I
consorzi locali si salvano ancora. Ma la
deroga può incentivare tentativi di elusione
del Patto. La spending review mette il
welfare al riparo dai tagli. E alcuni enti
subito ne approfittano.
A sorpresa, la spending review salva
i consorzi socio-assistenziali. Si tratta di
una deroga all'obbligo di sfoltire enti e
società strumentali, che tuttavia rischia di
dare la stura a nuovi tentativi di elusione
dei vincoli di finanza pubblica.
Facciamo un passo indietro. Correva l'anno
2009 quando il legislatore statale decise di
sopprimere tutti i consorzi di funzioni tra
gli enti locali. L'art. 2, comma 186, lett.
e), della legge 191/2009 non contemplava
eccezioni di sorta (una venne prevista
successivamente, dalla legge 42/2010, per
salvare i bacini imbriferi montani), sicché
la mannaia (come chiarito da varie pronunce
della Corte dei conti) avrebbe dovuto
colpire, fra gli altri, anche i consorzi
socio-assistenziali, a decorrere dal primo
rinnovo del rispettivo consiglio di
amministrazione successivo al 2011. Ben
pochi, in realtà, i consorzi fin qui davvero
sciolti e ora, con il decreto sulla
spending review (dl 95/2012), arriva per
tutti un inaspettato salvagente.
A fronte di un art. 9, comma 1, del dl 95
–che in modo draconiano prevede l'obbligo
per regioni ed enti locali di sopprimere «enti,
agenzie e organismi comunque denominati e di
qualsiasi natura giuridica» che
esercitino, anche in via strumentale,
funzioni amministrative anche fondamentali–
il successivo comma 1-bis (introdotto in
sede di conversione) precisa che la tagliola
non si applica «alle aziende speciali,
agli enti ed alle istituzioni che gestiscono
servizi socio-assistenziali, educativi e
culturali».
Quindi anche ai consorzi da sopprimere in
base alla disciplina pregressa? Parrebbe di
sì, almeno stando all'ordine del giorno
presentato dall'on.le Luigi Bobba (Pd) e
approvato dalla camera (con l'ok del
governo) in occasione del voto di fiducia al
provvedimento di revisione della spesa
proprio al fine di chiarire l'ambito di
applicazione del comma 1-bis. Del resto, non
è la prima volta che l'esecutivo si mostra
disponibile ad allentare la stretta sugli
organismi che operano nel sociale.
Già con l'art. 25, comma 2, del decreto
«Cresci Italia» (dl 1/2012), infatti, era
stata prevista (anche qui in sede di
conversione) una deroga a favore di aziende
speciali ed istituzioni (non per i consorzi)
«che gestiscono servizi
socio-assistenziali ed educativi, culturali
e farmacie», che vennero salvate
dall'assoggettamento al Patto e alle
limitazioni sul personale che per tutte le
altre scatteranno nel 2013. Non stupisce,
quindi, che molti comuni si stiano
interrogando sull'opportunità di costituire
nuovi enti strumentali cui assegnare le
funzioni «protette» . Il rischio,
però, è che, in tal modo, si incentivino
nuovi tentativi di elusione dei vincoli di
finanza pubblica, tanto faticosamente
combattuti in questi anni.
Senza voler essere maligni, fa certamente
riflettere il fatto che il comune di
Alessandria, che recentemente ha dovuto
dichiarare il dissesto, abbia deciso di
costituire un'azienda speciale per la
gestione dei servizi per l'infanzia.
Colpisce, soprattutto, il fatto che a
presiedere il cda sia, di diritto, il
sindaco malgrado la chiara causa di
ineleggibilità/incompatibilità sancita per
gli amministratori locali dal Tuel
(articolo ItaliaOggi
del 10.08.2012). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Osservatorio
Viminale. Il sindaco non fa gruppo.
Se le disposizioni regolamentari di un
comune consentono la costituzione di gruppi
consiliari unipersonali, un sindaco, eletto
in una lista, può costituire e fare parte di
un nuovo gruppo consiliare?
La disciplina della materia relativa alla
costituzione dei gruppi consiliari è
demandata allo statuto e al regolamento del
consiglio, nell'esercizio della propria
autonomia funzionale ed organizzativa. Ne
deriva che le problematiche relative alla
costituzione e al funzionamento dei gruppi
consiliari dovrebbero essere valutate alla
stregua delle specifiche norme statutarie e
regolamentari di cui l'ente locale si è
dotato, competendo al consiglio comunale
l'eventuale interpretazione autentica delle
predette norme.
Tuttavia, l'attività interpretativa non può
essere disgiunta dall'osservanza dei
principi di buona amministrazione, né
possono essere utilizzate, a sostegno di
tale attività, massime giurisprudenziali che
non si adattino perfettamente alla
fattispecie esaminata. Occorre tenere
presente che la candidatura del sindaco, per
espressa previsione contenuta nell'art. 71
del Tuel, non è compresa ma «è collegata
alla lista di candidati alla carica di
consigliere comunale», unitamente alla
quale è presentato il relativo nominativo
del candidato. Il sindaco, pur se membro del
consiglio comunale ai sensi dell'art. 46
Tuel, ha, in effetti, una posizione
differenziata rispetto ai singoli
consiglieri comunali.
Il sindaco e il consiglio comunale, di cui i
gruppi consiliari sono organismi strumentali
e funzionali, svolgono ruoli distinti; il
primo, di organo responsabile
dell'amministrazione dell'ente, il secondo,
di organo di indirizzo e controllo
dell'operato del sindaco e della giunta, con
le specifiche competenze declinate dall'art.
42 del Tuel. Per lo svolgimento di siffatte
attribuzioni il consiglio si avvale dei
gruppi consiliari che rappresentano la
proiezione dei partiti politici all'interno
dell'ente.
Ne deriva che l'iscrizione del sindaco ad un
gruppo, e a maggior ragione la costituzione
di un gruppo unipersonale nel corso della
consiliatura da parte dello stesso sindaco,
può incidere sul corretto e bilanciato
esercizio delle funzioni di governo
dell'ente. Tale sbilanciamento può influire
anche sull'esercizio del fondamentale
diritto di iniziativa, nonché sull'attività
di sindacato ispettivo dei consiglieri,
ovvero, in casi estremi, venendo meno il
rapporto fiduciario, sulla presentazione
della mozione di sfiducia
(articolo ItaliaOggi
del 10.08.2012). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Funzione
pubblica. Le vecchie ferie si possono
monetizzare.
Il divieto di
monetizzare le ferie non godute al termine
del rapporto di lavoro si applica a partire
dal 7 luglio, cioè dall'entrata in vigore
del Dl 95/2012. Le ferie non godute dai
dipendenti pubblici cessati dal servizio in
precedenza possono continuare a essere
monetizzate e, scelta ancora più rilevante,
anche le ferie non godute fino a quella data
dai dipendenti potranno essere monetizzate
alla cessazione anche se questa interverrà
dopo l'entrata in vigore della norma.
Lo sostiene la Funzione Pubblica in una
risposta all'Anci. Il dipartimento giunge a
questa conclusione per l'assenza di norme
transitorie e l'applicazione dei principi
generali di interpretazione delle leggi, che
dispongono solo per il futuro. Appare come
frutto di un'interpretazione "creativa"
l'esclusione dei casi in cui il divieto di
monetizzazione «risulti incompatibile con
la fruizione delle ferie a causa della
ridotta durata del rapporto o a causa della
situazione di sospensione del rapporto cui
segua la sua cessazione».
Per cui rimarranno per sempre al di fuori
dell'ambito di applicazione della norma i
casi eccezionali di sospensione del rapporto
seguiti da cessazioni, ma anche buona parte
delle assunzioni flessibili
(articolo
Il Sole 24 Ore
del 10.08.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Addio ai superstipendi nella p.a..
Taglio della retribuzione per chi sfora il
tetto dei 293.656 €.
La funzione pubblica promette tolleranza
zero. E arriva un odg per estendere la stretta
alle regioni.
Tolleranza zero per chi riceve a carico
delle pubbliche finanze emolumenti che, in
virtù del disposto previsto dall'articolo
23-ter del decreto salva Italia, superano il
trattamento economico percepito dal primo
presidente della Cassazione.
Infatti, i soggetti che sforeranno il limite
oggi fissato a 293.656 euro, subiranno il
taglio tra la retribuzione in godimento fino
a concorrenza di quanto sopra.
Tale decurtazione non concorrerà a formare
l'imponibile fiscale e sarà evidenziata in
apposita nota nel cedolino delle spettanze
quale «trattenuta ex articolo 23-ter del dl
n. 201/2011».
Il trattamento da considerare, inoltre,
sconterà il criterio di competenza e non di
cassa e comprende anche il trattamento
accessorio, anche se questo, di norma, viene
erogato successivamente allo svolgimento
della prestazione lavorativa. Restano
comunque fuori da tale ambito applicativo
coloro che hanno in corso rapporti di lavoro
con amministrazioni regionali e locali.
Queste alcune delle indicazioni che il
dipartimento della funzione pubblica ha
ritenuto necessarie diffondere con la
circolare n. 8 del 6 agosto, in ordine alla
disciplina sui limiti retributivi operata
dalla norma richiamata e alla luce delle
indicazioni operative fissate dal relativo
dpcm 23.03.2012 che è divenuto operativo il
17 aprile scorso, ovvero il giorno dopo la
sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
Ma il giro di vite sui super stipendi
potrebbe essere ancora più rigoroso ed
estendersi anche agli enti locali (in primis
ai governatori regionali) o ai presidenti
degli enti pubblici. In pratica non solo a
coloro che hanno un rapporto di lavoro
subordinato o autonomo con la p.a., ma anche
a tutti quelli che sono a carico delle
finanze pubbliche a vario titolo.
Il governo si è impegnato a non fare
eccezioni. E lo ha fatto accogliendo un
ordine del giorno alla spending review a
firma del deputato Pd Simonetta Rubinato. La
proposta punta proprio a rafforzare le
disposizioni del decreto Salva Italia che
potrebbero presentare più di un punto
debole. A cominciare dall'inadeguatezza di
un provvedimento come il dpcm a ridurre un
trattamento economico fissato con legge
ordinaria. Ecco perché l'odg Rubinato
prevede che l'adeguamento dei compensi debba
avvenire con un provvedimento avente forza
di legge e non con un dcpm che, per inciso,
non potrebbe obbligare una regione ad
adeguare i compensi dei propri
amministratori o dirigenti.
Un'altra falla nel sistema risiede nel fatto
che il dpcm del 23 marzo non esclude che
trattamenti inferiori al trattamento
economico del primo presidente della
Cassazione possano essere elevati a tale
limite. Basta leggere l'art. 5 del dpcm per
rendersene conto: «Per il personale con
qualifica dirigenziale cui non si applica la
disposizione di cui all'art. 3, a causa del
mancato raggiungimento del limite massimo
retributivo ivi previsto, le pubbliche
amministrazioni provvedono, in occasione del
rinnovo del contratto individuale di lavoro,
alla ridefinizione del relativo trattamento
economico».
«Ridefinizione», fa notare Rubinato, «è un termine assai generico che
non necessariamente significa riduzione e
che non esclude la possibilità di un ritocco
verso l'alto degli stipendi inferiori a
293.656 euro». Cosa che puntualmente si è
verificata in qualche Authority negli ultimi
mesi. Di qui l'impegno al governo a evitare
che il limite di stipendio di cui sopra
finisca per produrre un effetto paradossale
elevando tutti gli altri stipendi e quindi
contribuendo a incrementare la spesa
pubblica invece di ridurla.
Tornando alla circolare della funzione
pubblica, il dipartimento guidato da Filippo
Patroni Griffi chiarisce che il limite di
stipendio si applica a coloro che sono
titolari di rapporti con amministrazioni
«attratte» all'ambito statale. Per esempio
la presidenza del consiglio dei ministri, la
Corte dei conti, le agenzie fiscali, gli
enti pubblici non economici, nonché i
componenti e i presidenti delle Authority.
Vigilanza affidata ai diretti interessati.
Le operazioni di controllo sul corretto
rispetto del limite partono dagli stessi
interessati. Infatti, questi devono rendere
all'amministrazione di appartenenza, sotto
forma di dichiarazione sostitutiva di atto
notorio, l'elenco dell'incarico o degli
incarichi conferiti con il relativo importo.
Nel caso di soggetti che sono titolari di
uno o più incarichi di lavoro autonomo,
questi dovranno trasmettere la
documentazione all'amministrazione «con la
quale è in corso l'incarico prevalente dal
punto di vista economico».
L'inoltro delle dichiarazioni (se non già
effettuato dai soggetti obbligati per
effetto della pubblicazione del citato dpcm
23.3.2012), dovrà avvenire entro il 30
novembre di ciascun anno. Il controllo delle
amministrazioni riceventi è la parte più
delicata dell'intero iter di verifica.
Queste dovranno operare secondo il criterio
di competenza delle somme (e quindi non per
quello di cassa), accertando quanto spetti
al dipendente nel complesso «in ragione
d'anno». A tal fine, la circolare precisa
che deve essere incluso in tale ammontare
anche la parte di trattamento accessorio,
anche se, di regola, questo viene
corrisposto nell'anno successivo
all'espletamento della prestazione
lavorativa (è il caso, per esempio, della
retribuzione di risultato dei dirigenti). Il
taglio non avrà effetti sugli atti già
sottoscritti, nel senso che, come ammette la
circolare di Palazzo Vidoni, non sarà
necessario nei casi di sforamento
sottoscrivere un nuovo contratto o un nuovo
incarico.
Pertanto, i soggetti che sforeranno dal
limite di 293.656 euro, subiranno una
decurtazione pari alla differenza tra il
trattamento complessivo goduto e il predetto
limite. Quest'importo non sarà incluso nella
massa imponibile (ovvero non si pagheranno
le tasse) e sarà indicato separatamente nel
cedolino delle spettanze stipendiali. In
termini operativi, l'amministrazione
comunicherà al soggetto che sta procedendo
alla riduzione e, nell'anno successivo,
operare la decurtazione vera e propria.
Occorre considerare che il trattamento del
primo presidente della Cassazione varia di
anno in anno, per cui le riduzioni dei
trattamenti devono essere effettuati sulla
base del dato disponibile relativo all'anno
precedente. Per quanto riguarda i limiti per
i soggetti che prestano servizio presso
altre amministrazioni pubbliche, mantenendo
il trattamento economico previsto
dall'amministrazione di appartenenza (per
esempio, i fuori ruolo), la circolare di
Patroni Griffi ricorda che anche per tali
soggetti vige il limite di cui sopra, con la
precisazione che per l'incarico ricoperto,
questi non possono percepire più del 25%
dell'ammontare complessivo del trattamento
riconosciuto dalla propria amministrazione
(articolo ItaliaOggi
dell'08.08.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Procedure
edilizie. Il caso in cui il collegio è
integrato con esperti esterni.
Vincolo paesaggistico, serve la commissione.
Per il Consiglio di Stato l'organismo è
«indispensabile».
L'ALTRO ORIENTAMENTO/
Secondo i giudici di merito è possibile
affidare le valutazioni a un soggetto
tecnico con atto dirigenziale.
Il Comune può sempre fare a meno della
commissione edilizia? Due recenti pronunce
del Consiglio di Stato danno risposte
differenti, mentre per la legge da oltre un
decennio le commissioni edilizie comunali
non sono più un organo consultivo di natura
obbligatoria nell'ambito dei procedimenti
edilizi.
L'articolo 4 del Dpr 380/2001 –innovando le disposizioni contenute
nell'articolo 33 della legge urbanistica
fondamentale 1150/1942– ha infatti lasciato
ai Comuni, nell'ambito del regolamento
edilizio, la potestà di prevederne o meno
l'istituzione e precisare le relative
attribuzioni.
Nella prima pronuncia (Sezione IV,
975/2012), a conferma dell'orientamento già
espresso in passato dalla stessa sezione
(4793/2008), si ribadisce che l'articolo 4
del Dpr 380/2001, nel rendere per i Comuni
facoltativa l'istituzione della commissione
edilizia, ha introdotto un principio
fondamentale in materia di governo del
territorio, al quale il legislatore
regionale deve sottostare, ai sensi
dell'articolo 117, comma 3, della
costituzione.
Ne deriva che una norma
regionale che preveda l'obbligatorietà del
parere della commissione edilizia, deve
ritenersi implicitamente soppressa ai sensi
dell'articolo 10 della legge 62/1953, in
base al quale le leggi della Repubblica che
modificano i principi fondamentali abrogano
le norme regionali che siano in contrasto
con esse.
Di segno opposto è invece la
sentenza 05.04.2012 n. 2013 della VI Sez.
del Consiglio di Stato, che ha
ritenuto illegittima la delibera con cui
l'Unione di due Comuni aveva soppresso la
commissione edilizia, poiché, in questo
caso, si trattava di una commissione
integrata con due esperti in materia di
bellezze naturali e di tutela dell'ambiente,
che aveva il compito di esprimere un parere
nell'ambito dei procedimenti di rilascio
delle autorizzazioni paesaggistiche
(articolo 146 del Dlgs 42/2004).
I giudici di Palazzo Spada affermano che un
organo così costituito non può essere
ritenuto «non indispensabile» ai sensi e per
gli effetti dell'articolo 96, Dlgs 267/2000,
poiché, a differenza della commissione
edilizia prevista dall'articolo 4, si
tratterebbe di un organismo diverso e
«direttamente istituito da una legge
regionale e portatore di competenze già
delegate dallo Stato alla Regione e che solo
l'autorità delegante (o sub-delegante)
avrebbe potuto sopprimere avocando a sé le
relative funzioni, con atto normativo
primario o sub-primario».
Quest'ultima tesi, tuttavia, solleva alcune
perplessità e non sembra offrire una lettura
costituzionalmente orientata della normativa
di riferimento, finendo per incidere sulla
capacità organizzatoria e regolamentare
dell'ente locale, oltreché sui principi in
tema di attribuzione di funzioni, così come
attualmente disegnati dagli articoli 117 e
118 della costituzione. Ai Comuni, infatti,
il nostro ordinamento riconosce piena
potestà regolamentare in ordine alla
disciplina dell'organizzazione e dello
svolgimento delle funzioni loro attribuite,
potendo quindi scegliere le modalità con cui
le stesse saranno espletate, pur nel
rispetto dei principi stabiliti dalla legge.
Questa, peraltro, non impone che il parere
in materia paesaggistica sia reso da un
organo collegiale e tantomeno ne definisce
una specifica composizione.
Appare quindi più convincente quel diverso
orientamento giurisprudenziale in base al
quale, in caso di soppressione della
commissione edilizia, il compito di
esprimere pareri in ordine agli interventi
in zone soggette a vincolo paesaggistico
venga riassegnato ad un organo tecnico
interno, con provvedimento dirigenziale
assunto sulla base di un atto di indirizzo
dell'organo politico dell'ente locale (Tar
Toscana, sezione III, 480/2004). Laddove
quest'ultimo non proceda all'autonoma
individuazione di un diverso ufficio in
sostituzione della commissione, le funzioni
di tutela saranno automaticamente riportate
all'organo regionale cui compete la gestione
del vincolo (Cassazione penale, sezione III,
42102/2006), senza necessità di un atto
avocazione da parte della Regione. Infatti,
la soppressione degli organismi non
identificati come indispensabili per la
realizzazione dei fini istituzionali
dell'amministrazione è una conseguenza
automatica che discende direttamente dalla
legge statale (Tar Calabria, Sezione Reggio
Calabria, 48/1999).
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Le pronunce
01|PARERE NON OBBLIGATORIO
SE NON C'È LA COMMISSIONE
La legge regionale Piemonte 08.07.1999 n.
19 (norme in materia edilizia) deve essere
interpretata in senso costituzionalmente
coerente con i principi generali introdotti
in materia dal Dpr 380/2011. La scelta
comunale di non istituire la commissione
edilizia, conformemente all'articolo 4,
comma 2, del Dpr 380, implica
necessariamente la non obbligatorietà
dell'acquisizione del relativo parere.
Consiglio di Stato, sezione IV, 4793/2008
02|GLI ENTI LOCALI POSSONO SEMPRE
SOPPRIMERE LA COMMISSIONE
A seguito delle innovazioni introdotte dal
Dpr 380/2001, la commissione edilizia ha
perso il suo carattere di organo necessario
ex lege (articolo 4, comma 2), dal momento
che alla concessione si sostituisce
il permesso di costruire, secondo
procedimenti strutturati sul modulo dello
sportello unico comunale e dell'eventuale
intervento sostitutivo del competente organo
regionale con la conseguenza
che, data la natura attualmente facoltativa
della commissione edilizia, gli enti locali
potranno scegliere se conservarla,
adeguandone la composizione e indicando nel
regolamento edilizio gli interventi
sottoposti al suo preventivo
parere, oppure sopprimerla.
Consiglio di Stato, commiss. spec.,
n. 492/99/2003
03|UNA COMMISSIONE TECNICA
VALUTA IL VINCOLO PAESAGGISTICO
Ai sensi dell'articolo 96, Dlgs 267/2000,
direttamente applicabile alle Regioni a
statuto ordinario, spetta ai consigli e alle
giunte comunali, secondo le rispettive
competenze, individuare non solo gli organi
collegiali ritenuti indispensabili
per la realizzazione dei fini istituzionali
dell'amministrazione, con conseguente
soppressione di tutti gli altri, ma anche
l'ufficio che rivesta maggiore competenza in
materia, al quale –per legge– le relative
funzioni siano poi attribuite; deve perciò
ritenersi legittima, in caso di soppressione
della commissione edilizia, l'attribuzione
del compito di esprimere pareri in ordine
agli interventi in zone soggette a vincolo
paesaggistico ad una commissione tecnica
interna, individuata a mezzo provvedimento
dirigenziale.
Tar Toscana, sezione III, 480/2004
04|LE FUNZIONI DI TUTELA AMBIENTALE
SPETTANO ALL'ORGANO REGIONALE
In materia edilizia, a seguito dell'entrata
in vigore del Testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali
(Dlgs 267/2000) le funzioni edilizie,
precedentemente esercitate a titolo
consultivo dalla commissione edilizia
comunale integrata, sono state trasferite,
ove non individuato come indispensabile ex
articolo 96 dello stesso Testo unico, al
competente ufficio comunale, mentre le
funzioni di tutela ambientale sono state
riportate all'organo regionale cui compete
la gestione del vincolo ambientale.
Cassazione penale, sezione III, 42102/2006
05|ORGANISMI NON INDISPENSABILI,
LA SOPPRESSIONE È UN ATTO DOVUTO
Dall'articolo 41, comma 1, legge 449/1997 si
desume che la soppressione di taluni
organismi non identificati come
indispensabili per la realizzazione
dei fini istituzionali dell'amministrazione
o dell'ente è una conseguenza che discende
direttamente dalla legge: mancando, al
riguardo, qualsiasi potestà di scelta
dell'amministrazione la soppressione si
configura, pertanto, come un atto dovuto.
Tar Calabria, sez. Reggio Calabria, 48/1999
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L'obiettivo
è il risparmio
Il Testo unico dell'edilizia, definendo la
«non obbligatorietà» delle commissioni
edilizie, riflette
le più generali e incisive previsioni
dell'articolo 96
del Testo unico degli enti locali, che
lascia alle singole amministrazioni il
compito
di individuare con cadenza annuale ed entro
sei mesi dall'inizio di ogni esercizio
finanziario, «i comitati, le commissioni, i
consigli e ogni altro organo collegiale
con funzioni amministrative ritenuti
indispensabili per
la realizzazione dei fini istituzionali».
Alla mancata individuazione degli organi non
identificati come indispensabili consegue la
loro automatica soppressione e
l'attribuzione delle relative funzioni
«all'ufficio che riveste preminente
competenza nella materia».
Il fine
dichiarato della norma –che ripropone
i contenuti dell'articolo 41, comma 1, della
legge 449/1997– è quello di conseguire un recupero di
efficienza nei tempi dei procedimenti
amministrativi e, soprattutto, un risparmio
della spesa pubblica per organi collegiali;
obiettivo che è stato perseguito da
successive previsioni normative e che anche
oggi
è di massima attualità.
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Le ricadute. Le implicazioni delle pronunce
di Palazzo Spada.
A rischio le sub-deleghe regionali.
La pronuncia 2013/2012 del Consiglio di
Stato suscita un'altra riflessione di
carattere generale, quella relativa al
permanere della possibilità per le Regioni
di sub-delegare ai Comuni funzioni in
materia paesaggistica, dopo le modifiche
introdotte nel 2001 al titolo V della
Costituzione; dubbio che riguarda non solo
le norme regionali, ma le stesse previsioni
del Dlgs 42/2004 in tale materia.
La
funzione autorizzatoria, con l'articolo 146
del Codice del 2004, è stata conferita dallo
Stato alle Regioni, che possono delegarla ad
altri soggetti, tra cui i Comuni, purché
essi dispongano di strutture in grado di
assicurare un adeguato livello di competenze
tecnico-scientifiche e possano garantire la
differenziazione tra attività di tutela
paesaggistica ed esercizio di funzioni
amministrative in materia
urbanistico-edilizia.
Tuttavia, in forza dell'articolo 118 della
Costituzione, comma 2, i Comuni sono
titolari di funzioni amministrative proprie
e di quelle conferite loro con legge statale
o regionale, secondo le rispettive
competenze. La tutela dei beni culturali,
tra cui rientrano quelli paesaggistici, è
materia di legislazione esclusiva statale
(ex articolo 117, comma 2, lettera s, della
costituzione), per cui è solo la legge
statale che può attribuire direttamente la
funzione amministrativa.
Nel caso dell'articolo 146, la scelta del
legislatore nazionale ha direttamente
riguardato la sola amministrazione regionale
e alle Regioni manca uno strumento
costituzionalmente valido per delegare ai
Comuni (o ad altri soggetti) le funzioni in
materia paesaggistica: non con legge
regionale, essendo del tutto priva di
competenza legislativa in materia; non con
atto provvedimentale (quale una delibera di
giunta), poiché le funzioni amministrative
possono essere assegnate ai Comuni solo con
legge e solo da parte del soggetto che ne ha
la corrispondente competenza, secondo il
riparto per materie sancito dalla
Costituzione. Tantomeno una legge regionale
potrebbe legittimamente imporre a un Comune
il modello organizzativo con cui esercitare
una funzione, laddove questa fosse
effettivamente delegabile, pena la
violazione della richiamata potestà
organizzatoria e regolamentare degli enti
locali.
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Organizzazione. La riduzione dei rimborsi.
Ai componenti compensi limitati.
La riduzione dei costi degli organismi
collegiali è un obiettivo che il legislatore
statale persegue ormai da anni e che è
oggetto di particolare attenzione anche da
parte del Governo Monti. Dopo le indicazioni
della prima Bassanini (articolo 12, comma 1,
lettera p), legge 59/1997) il primo intervento
è l'articolo 41 della legge 449/1997, che ha
sancito l'automatica soppressione degli
organismi non individuati come
indispensabili da parte degli organi di
direzione politica delle varie
amministrazioni. Previsione è stata poi
ripresa dall'articolo 96 del Tuel.
L'articolo 18 della finanziaria per il 2002
(448/2001) ha poi fatto divieto a tutte le
pubbliche amministrazioni, con l'esclusione
delle Regioni e degli enti locali, «di
istituire comitati, commissioni, consigli e
altri organismi collegiali, a eccezione di
quelli di carattere tecnico e a elevata
specializzazione».
Ulteriore intervento è
contenuto nell'articolo 26 del Dl 223/2006,
che ha disposto la riduzione del 30%
rispetto, a quella sostenuta nel 2005, della
spesa per organi collegiali e altri
organismi, anche monocratici, comunque
denominati, operanti in tutte le
amministrazioni; riduzione che andava ad
aggiungersi a quella del 10% già sancita
dall'articolo 1, comma 58 della finanziaria
per il 2005 (266/2005) per le «indennità,
compensi, gettoni, retribuzioni o altre
utilità comunque denominate».
Il programma è stato poi proseguito
dall'articolo 68 del Dl 112/2008, che ha
sancito la necessità che nei trattamenti
economici da versare ai componenti di tali
organi fossero «privilegiati i compensi
collegati alla presenza rispetto a quelli
forfettari od omnicomprensivi». Questo
principio è stato reso cogente dall'articolo
6 del Dl 78/2010, che ha sancito la natura
onorifica dei componenti degli organi
collegiali, disponendo che la partecipazione
può dar luogo solo al rimborso delle spese e
che eventuali gettoni di presenza non
possono superare i 30 euro per ogni seduta
giornaliera. La presidenza del Consiglio,
con direttiva del 04.08.2010, ha fornito
indirizzi interpretativi sul riordino degli
organismi collegiali e la riduzione dei
costi degli apparati amministrativi.
Nella
stessa direzione, peraltro, si muove
l'articolo 9 del Dl 95/2012 (spending review)
ove si prevede che anche i Comuni debbano
sopprimere –o accorpare, riducendo i
relativi oneri finanziari– gli enti, le
agenzie e gli organismi comunque denominati
e che svolgano compiti di amministrazione
attiva
(articolo Il Sole 24
Ore del 06.08.2012). |
APPALTI FORNITURE: Spending
review. Canale centrale «aperto» anche ai
Comuni fino a mille abitanti (5mila in
montagna).
Acquisti Consip per tutti.
Esteso agli enti locali l'obbligo di
ricorrere alle convenzioni.
ADEGUAMENTI «AUTOMATICI»/
Se le convenzioni offrono prezzi inferiori a
quelli degli appalti già in corso si può
recedere dai contratti con preavviso di 15
giorni.
Le disposizioni del Dl 95/2012 che attende
ora il via libera definitivo della Camera
rafforzano il sistema delle convenzioni
Consip e obbligano anche gli enti locali a
farvi ricorso per alcune tipologie di beni e
servizi. Il quadro è stato ridefinito
dall'articolo 1 nella formulazione scaturita
dal maxiemendamento.
Il comma 3 evidenzia l'obbligatorietà del
ricorso a questa procedura in forza di
quanto stabilito dalla norma-chiave,
individuata nell'articolo 26, comma 3, della
legge 488/1999 e dall'articolo 1, comma 499,
della legge 296/2006 (recentemente
modificato dalla legge 94/2012).
Quest'ultima disposizione prevede l'obbligo
di adesione alle convenzioni Consip per le
amministrazioni statali (tranne scuole e
università) e l'obbligo di utilizzo delle
convenzioni stipulate dalle centrali
regionali da parte del servizio sanitario
nazionale.
La stessa norma delinea come facoltativo
l'utilizzo del sistema da parte delle altre
amministrazioni pubbliche (ad esempio gli
enti locali e le Camere di commercio),
stabilendo tuttavia che esse sono tenute a
utilizzare i parametri di qualità e prezzo,
sia delle convenzioni stipulate dalla
centrale di committenza statale che da
quelle regionali, come limiti massimi per la
stipulazione dei contratti (quindi come dato
massimo per le basi d'asta nelle gare e
negli affidamenti in economia).
L'articolo 26 della legge 488/1999 prevede
peraltro una specifica esclusione,
evidenziando come il meccanismo previsto dal
comma 3 non si applichi comunque ai Comuni
con popolazione fino a mille abitanti (5mila
abitanti in montagna). Rispetto alla fascia
degli enti di minori dimensioni, comunque,
l'articolo 1, comma 4, del Dl 95/2012 delinea
in alternativa alle gare aggregate, previste
dall'articolo 33 del codice dei contratti,
il ricorso agli strumenti di acquisto in
forma telematica gestiti da Consip e dalle
centrali di committenza regionali.
Tuttavia il comma 7 dello stesso articolo 1
del decreto spending review sancisce un
obbligo specifico per tutte le
amministrazioni pubbliche e per tutte le
società inserite nel «consolidato Istat»,
stabilendo che tali soggetti devono fare
ricorso alle convenzioni Consip o a quelle
delle centrali regionali per l'acquisto di
una serie di beni e servizi a consumo
intensivo: energia elettrica, gas,
carburanti rete e carburanti extra-rete,
combustibili per riscaldamento, telefonia
fissa e telefonia mobile.
Il comma 13 prevede anche un interessante
meccanismo, finalizzato ad assicurare
vantaggi economici alle amministrazioni
pubbliche, quando la Consip stipuli una
convenzione per l'acquisto di determinate
tipologie di beni o servizi e queste abbiano
prezzi inferiori a quelli dei contratti di
appalto che le stesse amministrazioni hanno
in corso per i medesimi beni o servizi con
altri operatori economici. In tal caso le
stazioni appaltanti possono recedere dal
contratto (pagando le prestazioni eseguite
oltre al decimo delle prestazioni non
eseguite) con un preavviso breve (quindici
giorni) qualora l'appaltatore non accetti la
proposta migliorativa formulata da Consip
rispetto ai parametri della propria
convenzione.
Questa modulazione del diritto di recesso si
inserisce automaticamente nei contratti in
corso ai sensi dell'articolo 1339 del Codice
civile, anche in deroga alle eventuali
clausole difformi apposte dalle parti.
Inoltre, nei futuri contratti le clausole di
recesso dovranno essere rese conformi, in
quanto ogni patto contrario alla
disposizione sarà nulla.
Un meccanismo particolare è reso regola
generale dall'articolo 1, comma 16-bis, del
Dl 95/2012, il quale integra l'articolo 26
della legge 488/1999 con una disposizione in
base alla quale le convenzioni centralizzate
possono essere stipulate con una o più
imprese alle condizioni contrattuali
migliorative rispetto a quelle proposte dal
miglior offerente.
Tale disposizione costituisce il primo dato
normativo in materia di contratti pubblici
che consente l'affidamento multiplo a più
operatori economici in base al risultato di
una gara.
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Beni e servizi.
Le clausole.
Appalti divisi in più lotti per aprirsi alle
Pmi
VINCOLI ALLE DEROGHE/
Per i requisiti di fatturato con valori
significativi serve la motivazione economica
e organizzativa nel bando o nel disciplinare.
Le gare di appalto per beni e servizi devono
essere impostate in modo tale da garantire
l'accesso al confronto anche alle Pmi, anche
quando gestite in forma aggregata.
L'articolo 1 del Dl 95/2012 introduce
ulteriori elementi di salvaguardia per le
piccole e medie imprese, rafforzando il
sistema impostato dalla legge 180/2011 e
sancito nel Codice Appalti, con il principio
della necessaria suddivisione in lotti degli
appalti, salve valutazioni (esplicite) di
convenienza economica (articolo 2, comma
1-bis).
La norma integra l'articolo 41 del DLgs
163/2006, specificando che sono illegittimi
i criteri che fissano, senza congrua
motivazione, limiti di accesso connessi al
fatturato aziendale.
Nelle gare di appalto per l'acquisizione di
beni e servizi, le stazioni appaltanti
devono motivare nel bando o nel disciplinare
le ragioni operative e di convenienza
economica che hanno indotto a realizzare una
procedura con lotto unico e i motivi che
hanno determinato i requisiti di capacità
economico-finanziaria fondati sul fatturato
secondo valori significativi.
Particolare attenzione è posta anche
all'ammontare della cauzione provvisoria e
definitiva, che nelle gare in forma
aggregata effettuate da centrali di
committenza è prevista rispettivamente nei
termini massimi del 2 e del 10 per cento.
Questo dato sembra compensare le linee di
massima razionalizzazione introdotte per gli
acquisti di beni e servizi di valore
inferiore alla soglia comunitaria
dall'articolo 7 della legge 94/2012 (di
conversione del primo decreto spending
review, il 52/2012).
La norma, infatti, riformulando l'articolo
1, comma 450, della legge 296/2006 stabilisce
che tutte le amministrazioni pubbliche
(compresi gli enti locali, le Camere di
commercio, le Asl, le aziende speciali) sono
tenute ad acquistare beni e servizi in tale
fascia di valore ricorrendo al mercato
elettronico della pubblica amministrazione
gestito da Consip o ad altri mercati
elettronici, gestiti ad altre
amministrazioni.
La disposizione vale peraltro per tutte le
tipologie di beni e servizi per i quali sia
presente un catalogo attivo, con fornitori
abilitati, ma comporta la necessaria
verifica da parte delle stazioni appaltanti,
le quali, in caso di rinvenimento della
tipologia di prodotto o di attività che
devono acquisire, hanno l'obbligo di fare
ricorso al Mepa.
Per i beni e servizi non rinvenibili nei
mercati elettronici della Consip, delle
centrali di committenza regionali o di altre
amministrazioni, gli enti locali possono
continuare ad acquisire con gare sottosoglia
o con procedure in economia.
La disposizione, peraltro, costituisce uno
stimolo per le singole amministrazioni a
costituire un proprio Mepa, facendo
riferimento all'articolo 328 del Dpr
207/2010, in modo tale da poter gestire con
lo questo sistema sia tipologie di beni e
servizi pienamente corrispondenti alle
proprie esigenze sia interazioni di mercato
più favorevoli rispetto a quelle nazionali o
regionali
(articolo Il Sole 24
Ore del 06.08.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale.
Sulle ferie monetizzazione con rischi.
Dirigenti, incarichi solo con l'obiettivo.
Individuazione degli obiettivi già al
conferimento dell'incarico dirigenziale.
Divieto di conferimento di incarichi di
consulenza ai dipendenti collocati in
quiescenza nelle materie di cui si sono
occupati nell'ultimo anno. Divieto di
monetizzazione delle ferie non godute e, dal
prossimo ottobre, fissazione del tetto
massimo di 7 euro per i buoni pasto dei
dipendenti pubblici.
Sono queste alcune
importanti novità contenute nella legge di
conversione del Dl 95/2012.
Gli obiettivi su cui i dirigenti sono
valutati per il trattamento accessorio
collegato alle performance devono essere
«predeterminati all'atto del conferimento
dell'incarico dirigenziale». Si estende così
a tutti i dirigenti pubblici una previsione
fino a oggi limitata allo Stato; gli
obiettivi dovranno avere una durata per lo
meno triennale, e saranno assegnati dal
sindaco, che conferisce l'incarico. Negli
enti locali questa norma andrà raccordata
con il piano degli obiettivi annualmente
approvato dalla Giunta; si può ritenere che
la novità si applichi ai titolari di
posizione organizzativa nei Comuni
sprovvisti di dirigenti.
I dipendenti collocati in quiescenza non
potranno ricevere incarichi di consulenza,
studio e ricerca dalla propria
amministrazione nelle materie di cui si sono
occupati nell'ultimo anno. Tale vincolo si
aggiunge a quello (legge 724/1994) che vieta
l'uso da parte delle Pa dei dipendenti
collocati in quiescenza per ragioni diverse
dalla maturazione del limite massimo di età,
nei 5 anni successivi. La nuova norma vale
solo per l'amministrazione con cui si è
avuto l'ultimo rapporto di lavoro e ha
natura permanente.
I buoni pasto da ottobre dovranno rientrare
entro il tetto di 7 euro. I risparmi saranno
acquisiti al bilancio degli enti e non
potranno incrementare il fondo per le
risorse decentrate. I problemi con i
fornitori sono stati risolti attraverso la
garanzia, che si realizza con l'allungamento
della durata del contratto, dell'invarianza
del valore della fornitura.
Dallo scorso 7 luglio, è poi vietata la
monetizzazione delle ferie non godute e
viene ribadito il principio per cui esse
devono essere godute come previsto dal Dlgs
66/2003 e, ove contengano norme più
favorevoli per i dipendenti, dai contratti
nazionali. Tali disposizioni si applicano al
personale e ai dirigenti di tutte le Pa. La
monetizzazione delle ferie non godute era
fin qui consentita nel pubblico impiego solo
al momento della cessazione del rapporto di
lavoro. La concreta applicazione di questa
disposizione, per la mancanza di norme
transitorie, solleva numerosi problemi.
Peraltro, la disposizione induce ad una
lettura assai rigida visto che la sua
violazione determina per i dirigenti il
maturare di responsabilità amministrativa e
disciplinare ed obbliga le amministrazioni
al recupero a carico dei dipendenti
(articolo Il Sole 24
Ore del 06.08.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI: Mini-comuni,
commissario per chi non si associa.
La norme (art. 19) del dl 95 sulla gestione
associata obbligatoria delle funzioni
fondamentali da parte dei piccoli comuni
subiscono una sola, ma assai rilevante
modifica.
È stato previsto che gli enti che
risulteranno inadempienti alle scadenze
fissate dal legislatore (31.01.2013 per
almeno 3 funzioni, 01.01.2014 per le
altre) subiranno un «richiamo» da parte del
prefetto, che fisserà loro un termine
perentorio per provvedere.
Decorso inutilmente tale termine, scatterà
il potere sostitutivo del governo ex art. 8
della l 131/2003, con possibilità anche di
nomina di un commissario ad acta.
Si tratta di una modifica importante, che
completa una disciplina che, malgrado le
numerose modifiche, risultava ancora monca
proprio sul versante «sanzionatorio». Per il
resto, viene confermato il testo originario
del decreto, che ridefinisce il «core
business» dei comuni, obbligando quelli
di minori dimensioni (fino a 5 mila
abitanti, senza più rigide distinzioni fra
quelli sopra e sotto i mille) a dare vita a
unioni o convenzioni
(articolo ItaliaOggi
Sette
del 06.08.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Pubblicate
in Guue le direttive su gestione dei rifiuti
elettronici e controllo delle sostanze
pericolose. Raee e Seveso III, al via i
cantieri.
È conto alla rovescia per adeguarsi ai nuovi
adempimenti.
Scatta il conto alla rovescia per
l'adeguamento nazionale alle nuove regole
comunitarie sui rifiuti elettronici e sulle
sostanze pericolose. Con la pubblicazione
sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea
(Guue) dello scorso 24.07.2012 (n. L/197)
delle due attese direttive «Raee»
(2012/19/Ue) e «Seveso III» (2012/18/Ue)
assumono date certe (rispettivamente: 14.02.2014 e
01.06.2015) i termini
entro i quali gli stati dovranno far
rispettare sul piano interno le nuove regole
Ue su gestione dei rifiuti di
apparecchiature elettriche ed elettroniche e
controllo delle industrie a rischio di
incidenti rilevanti. Le nuove scadenze si
aggiungono alla già nota deadline del
prossimo gennaio 2013, data a partire dalla
quale la direttiva 2011/65/Ce imporrà una
stretta sulla fabbricazione ecocompatibile
delle apparecchiature elettriche ed
elettroniche (cd. «Aee»).
La gestione dei Raee. Le novità in arrivo
con la direttiva 2012/19/Ue sui rifiuti da
apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee)
riguardano sostanzialmente distributori di
nuove apparecchiature e gestori a valle dei
relativi rifiuti. Per i distributori di
nuove apparecchiature Aee si profila
l'estensione dell'obbligo del ritiro
gratuito dei Raee conferiti dagli utenti
finali.
Il ritiro sarà, infatti,
obbligatorio per i negozi al dettaglio con
superficie di vendita di Aee uguale o
superiore ai 400 metri quadrati e avrà a
oggetto i rifiuti da apparecchiature
elettriche ed elettroniche provenienti da
nuclei domestici di «piccolissime
dimensioni» (inferiori a 25 centimetri
esterni) e conferiti dagli utenti finali,
senza obbligo per questi di acquistare
all'atto del conferimento una Aee di tipo
equivalente.
L'obbligo potrà essere evitato
dai distributori solo ove sia pubblicamente
dimostrato che i regimi di raccolta
alternativa esistenti siano altrettanto
efficaci. Sul fronte della gestione a valle
dei Raee, ci sarà invece l'aumento delle
percentuali di raccolta differenziata e di
recupero che ogni stato dovrà assicurare sul
suo territorio nazionale, percentuali che
dagli attuali volumi del 70/80% dovranno
salire (a pieno regime) fino all'85%.
Dal
punto di vista tecnico, l'adeguamento alla
nuova direttiva 2012/19/Ue, destinata a
sostituire la 2002/96/Ce, renderà necessario
da parte del legislatore l'aggiornamento
entro il 2014 della disciplina prevista
dall'attuale dlgs 151/2005.
Le parallele novità sugli Aee. Entro
l'inizio del 2013, come accennato, dovrà
inoltre essere messa a regime dallo stesso
legislatore nazionale l'operatività della
nuova disciplina Ue sulla fabbricazione
delle Aee contenuta nella direttiva
2011/65/Ce (Guue dell'01.07.2011, n.
L/174), direttiva che riformulando l'intera
materia (con parallela rottamazione della
direttiva 2002/96/Ce, recepita tramite il
citato dlgs 151/2005) prevede un
allargamento del divieto di
commercializzazione delle apparecchiature
contenenti sostanze pericolose insieme a una
restrizione delle attuali deroghe e
all'aumento degli obblighi per fabbricanti,
importatori e distributori.
L'estensione del
divieto poggerà in particolare
sull'allargamento della definizione di «Aee»,
estesa a qualsiasi apparecchiatura che
dipende da correnti elettriche o campi
elettromagnetici per espletare «almeno una»
delle funzioni previste e ai relativi «pezzi
di ricambio». L'utilizzo in deroga di
determinate sostanze sarà invece permesso
solo in condizioni di compatibilità con il
regolamento Ce n. 1907/2006 (cd.
«regolamento Reach» su fabbricazione e
commercializzazione delle sostanze
chimiche).
La stretta sugli operatori
arriverà infine con l'obbligo per i
fabbricanti di corredare le Aee prodotte con
documentazione tecnica, dichiarazione di
conformità e identificazione seriale, con
l'onere per gli importatori di integrare i
prodotti con propri dati identificativi; con
il dovere per i distributori di effettuare a
valle un controllo sugli adempimenti di
fabbricanti e importatori.
La «Seveso III». Al centro delle novità
previste dalla direttiva 2012/18/Ue sul
«controllo dei pericoli di incidenti
rilevanti connessi con determinate sostanze
pericolose» vi saranno l'allargamento del
novero degli impianti rientranti nel campo
di applicazione della disciplina «Seveso» e
l'ampliamento degli adempimenti a carico dei
relativi gestori.
In particolare, a
provocare l'allargamento delle industrie
rientranti nel sistema «Seveso» è
l'inclusione di 14 nuove sostanze
nell'elenco di quelle che fanno scattare gli
obblighi previsti dalla disciplina. Ad
ampliare, invece, gli obblighi a carico dei
responsabili delle strutture è la maggiore
analiticità richiesta dalla nuova direttiva
alla documentazione comprovante l'avvenuta
attività preventiva degli incidenti. Una
stretta arriverà, infine, sui controlli
esterni, con l'obbligo per le Autorità
nazionali competenti di procedere a
ispezioni semestrali negli stabilimenti a
più elevato rischio.
L'adeguamento alla
nuova direttiva 2012/18/Ue renderà
necessaria la rivisitazione entro il 2015
dell'impianto normativo previsto dal dlgs
334/1999, provvedimento nazionale di
recepimento dell'uscente direttiva 96/82/Ce
(cd. «Seveso II»)
(articolo ItaliaOggi
Sette
del 06.08.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Pneumatici
usati, la Cassazione chiarisce il confine
con i beni ordinari.
Solo gli pneumatici usati non giacenti in
evidente stato di abbandono e obiettivamente
riutilizzabili (sia «tal quali» che tramite
ricostruzione) possono essere considerati
ordinari beni. Tutti gli altri sono invece
rifiuti, e come tali vanno gestiti.
A
chiarire a gommisti, demolitori di veicoli e
ricostruttori di pneumatici le due
condizioni che consentono di operare senza
sottostare alla gravosa disciplina sui
rifiuti dettata dal Codice ambientale (dlgs
152/2006) sono due sentenze della Corte di
cassazione dello scorso giugno. Con i due
provvedimenti della III Sez. penale,
rubricati come 25207/2012 e 25385/2012, la
Corte ha armonizzato e sintetizzato i
diversi principi espressi dalle pronunce di
legittimità stratificatesi fino a oggi.
Pneumatici, tra rifiuti e beni. Due i dati
normativi sui quali sono fondate le pronunce
della Cassazione: la fondamentale
definizione di «rifiuto», secondo l'articolo
183, comma 1, lettera a), del dlgs 152/2006
(in base alla quale è tale «qualsiasi
sostanza od oggetto di cui il detentore si
disfi o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo
di disfarsi») e la voce «pneumatici fuori
uso» contenuta sotto il codice «16.01.03»
dell'allegato «D» dello stesso decreto
(allegato recante l'elenco dei rifiuti di
matrice comunitaria).
Sotto il primo profilo
la Cassazione, abbracciando
l'interpretazione estensiva della nozione di
«rifiuto» adottata dalla Corte Ue di
giustizia (fin dalla sentenza 15.06.2000
n. C-418/97), ritiene integrata la volontà
del «disfarsi» ogni qualvolta le circostanze
provino l'intenzione di abbandonare
l'oggetto, che deve di conseguenza essere
ritenuto un rifiuto con tutte le conseguenti
responsabilità per il suo produttore o
detentore. Sotto questo aspetto, ricorda la
Corte, qualsiasi pneumatico può essere
potenzialmente un rifiuto.
Sotto il secondo
profilo, lo stesso giudice sottolinea invece
come, anche in assenza di abbandono (fatto
che di per se qualificherebbe a monte
l'oggetto come rifiuto) gli «pneumatici
fuori uso», ossia gli pneumatici che per
condizioni di decadimento o per altre
ragioni non risultano ricostruibili, sono
comunque da considerarsi rifiuto quando
appaiono nella disponibilità degli operatori
in parola e devono dunque essere gestiti di
conseguenza. Escono invece sicuramente dal
novero dei rifiuti, precisano le due
sentenze, gli «pneumatici usati», ossia
quelli passibili di ricostruzione o
riutilizzabili tal quali.
Il ragionamento
della Cassazione è fondato sulla duplice
classificazione degli pneumatici che si
evince dall'attuale assetto normativo
nazionale, assetto generato dalla legge
179/2002 che (in attuazione della decisione
comunitaria 2000/532/Ce) ha provveduto a
mutare il contenuto della voce «16.01.03»
del Catalogo europeo dei rifiuti
(attualmente riprodotto nel Codice
ambientale) da «pneumatici usati» a
«pneumatici fuori uso», sancendo di
conseguenza una fuoriuscita dal novero dei
rifiuti (sempre che non si versino in stato
di abbandono) degli pneumatici
ricostruibili.
Il tutto però, conclude la
Corte, con l'onere della prova (della ricostruibilità) a carico dell'operatore che
li detiene, e ciò per il fatto che trattasi
di una disciplina (quella degli «pneumatici
usati») eccezionale rispetto a quella
ordinaria in tema di rifiuti (ossia di
«pneumatici fuori uso»).
Gli obblighi degli operatori. La corretta
condotta che la Cassazione suggerisce con le
pronunce a gommisti e riparatori varia in
funzione dello «status» dello pneumatico
detenuto ed è sostanzialmente la seguente:
nel caso in cui sia manifestamente evidente
l'impossibilità di procedere a una
ricostruzione dello pneumatico, il gommista
ha l'onere di conferirlo come rifiuto (con
codice «16.01.03: pneumatico fuori uso») a
un operatore autorizzato, ponendo nelle more
tutti gli accorgimenti stabiliti dal Codice
ambientale in materia (limiti quantitativi e
temporali del deposito temporaneo; tenuta
dei registri e dei formulari per il
tracciamento della loro gestione); nel caso
in cui invece lo pneumatico appaia
ricostruibile (sia dunque uno «pneumatico
usato»), il gommista può conferirlo come
merce ad un ricostruttore.
In quest'ultimo
caso, sottolinea la Cassazione, il
procedimento di ricostruzione va qualificato
come una operazione di «trattamento di
risanamento di un bene» e non come una
operazione di recupero di rifiuto, per cui
non soggiace agli adempimenti previsti dal
Codice ambientale per quest'ultimo
(articolo ItaliaOggi
Sette
del 06.08.2012). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: L'ordine
di demolizione, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è un atto
vincolato che non richiede una specifica
valutazione delle ragioni di interesse
pubblico, né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né una motivazione
sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non
potendo neppure ammettersi l’esistenza di un
affidamento tutelabile alla conservazione di
una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può mai legittimare.
Il gravame r.g. 1282/2001 è inammissibile per mancata impugnazione
dell’atto di annullamento della concessione
edilizia, il quale si pone come “fonte”
dell’abusività delle opere e come
presupposto unico e diretto dell’ordine di
demolizione.
Quest’ultimo peraltro, come
tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è un atto vincolato che
non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una
comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati,
né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non potendo neppure ammettersi
l’esistenza di un affidamento tutelabile
alla conservazione di una situazione di
fatto abusiva, che il tempo non può mai
legittimare (cfr. Consiglio di Stato, sez. V
– 11/01/2011 n. 79): dunque in linea generale
l’abusività costituisce di per sé
motivazione sufficiente per l'adozione della
misura repressiva in argomento (cfr. TAR
Umbria – 07/12/2010 n. 522)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 10.08.2012 n. 1447 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Alle
nuove edificazioni e agli altri interventi –comunque soggetti a titolo
abilitativo– corrisponde il pagamento di un
contributo commisurato all’incidenza degli
oneri di urbanizzazione, nonché al costo di
costruzione. La natura giuridica del
predetto contributo è quella di prestazione
patrimoniale imposta, anche
indipendentemente dall’utilità specifica del
singolo concessionario, comunque tenuto a
concorrere alla spesa pubblica per le
infrastrutture che debbono accompagnare ogni
nuovo insediamento edificatorio.
Il contributo per oneri di urbanizzazione è
un corrispettivo di diritto pubblico, di
natura non tributaria, posto a carico del
costruttore a titolo di partecipazione ai
costi delle opere di urbanizzazione in
proporzione all’insieme dei benefici che la
nuova costruzione ne ritrae.
Dalla natura di prestazione
obbligatoriamente dovuta discende che il
privato non può esimersi dal pagamento del
contributo, e che l’amministrazione può
riesaminare la pratica anche dopo il
rilascio del titolo che abilita l’intervento
edilizio: le vicende che coinvolgono il
permesso di costruire si sviluppano in
autonomia, senza interferire con le
questioni che incidono su “an” e “quantum”
dell’obbligazione pecuniaria. Per tale
ragione l’amministrazione ha legittimamente
fatto ricorso “ex post” al potere di
autotutela, pochi mesi dopo l’emissione del
titolo autorizzatorio e con largo anticipo
rispetto al compimento del termine
prescrizionale (di 10 anni).
Sia nell’attuale normativa che in quella pregressa (art. 16 del
D.P.R. 380/2001 e artt. 3, 5, 6 della L.
10/1977) alle nuove edificazioni e agli altri
interventi –comunque soggetti a titolo
abilitativo– corrisponde il pagamento di un
contributo commisurato all’incidenza degli
oneri di urbanizzazione, nonché al costo di
costruzione. La natura giuridica del
predetto contributo è quella di prestazione
patrimoniale imposta, anche
indipendentemente dall’utilità specifica del
singolo concessionario, comunque tenuto a
concorrere alla spesa pubblica per le
infrastrutture che debbono accompagnare ogni
nuovo insediamento edificatorio (Consiglio
di Stato, sez. VI – 25/08/2009 n. 5059).
Il contributo per oneri di
urbanizzazione è un corrispettivo di diritto
pubblico, di natura non tributaria, posto a
carico del costruttore a titolo di
partecipazione ai costi delle opere di
urbanizzazione in proporzione all’insieme
dei benefici che la nuova costruzione ne
ritrae (cfr. per tutti TAR Puglia Bari,
sez. III – 10/02/2011 n. 243).
Dalla natura di prestazione
obbligatoriamente dovuta discende che il
privato non può esimersi dal pagamento del
contributo, e che l’amministrazione può
riesaminare la pratica anche dopo il
rilascio del titolo che abilita l’intervento
edilizio: le vicende che coinvolgono il
permesso di costruire si sviluppano in
autonomia, senza interferire con le
questioni che incidono su “an” e “quantum”
dell’obbligazione pecuniaria. Per tale
ragione l’amministrazione ha legittimamente
fatto ricorso “ex post” al potere di
autotutela, pochi mesi dopo l’emissione del
titolo autorizzatorio e con largo anticipo
rispetto al compimento del termine
prescrizionale (di 10 anni) (TAR Marche –
31/01/2007 n. 8)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 10.08.2012 n. 1446 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
9 della L. 10/1977 rubricato “Cessione
gratuita” statuisce al comma 1 che il
contributo di cui al precedente articolo 3
non è dovuto tra l’altro “per gli interventi
di restauro, di risanamento conservativo, di
ristrutturazione e di ampliamento, in misura
non superiore al 20 per cento, di edifici
unifamiliari” (lett. d).
Come appare evidente, l'esenzione dal
pagamento dei contributi di cui si discute
ha la funzione di agevolare i proprietari di
alloggi unifamiliari, presumendo il
legislatore che gli interventi sugli stessi
non abbiano carattere di lucro, ma la sola
funzione di migliorare le condizioni di
abitabilità degli edifici medesimi,
indipendentemente dalla loro dimensione.
La disposizione è diretta dunque a
promuovere le opere di adeguamento dei
manufatti alle necessità abitative del
singolo nucleo familiare, circoscrivendone
l’operatività agli interventi che non mutino
sostanzialmente l’entità strutturale e la
dimensione spaziale dell’immobile e non ne
elevino (in modo apprezzabile) il valore
economico.
---------------
L’esenzione dal contributo di costruzione
per il caso di interventi di
ristrutturazione di edifici unifamiliari
entro il limite di ampliamento del 20%,
costituisce oggetto di una previsione di
carattere eccezionale (applicabile in un
ambito di stretta interpretazione ancorato
ai parametri predefiniti dal legislatore):
la ratio è di natura sociale ed è diretta
sostanzialmente ad apprestare uno strumento
di tutela e di salvaguardia alla piccola
proprietà immobiliare per gli interventi
funzionali all’adeguamento dell’immobile
alle necessità abitative del nucleo
familiare.
---------------
Per edifici "unifamiliari" in mancanza di
ulteriori specificazioni, sono da intendere
quelli strutturalmente destinati all'uso
"abitativo" di un "solo" nucleo familiare,
indipendentemente dalle dimensioni
dell’edificio stesso.
Con il motivo principale i ricorrenti si
dolgono della violazione dell’art. 9, lett.
f), della L. 10/1977, che esonera dal
versamento del contributo gli interventi di
ristrutturazione ed ampliamento degli
edifici unifamiliari nella misura del 20%; a
loro avviso infatti:
• la norma invocata, nell’indicare la
percentuale di ampliamento, non fa
riferimento né al volume né alle superfici;
• la relazione tecnica dell’Arch. Comencini
dà conto dell’incremento volumetrico di
151,01 mc., inferiore al 20% dell’esistente;
• anche se si utilizza come parametro la
superficie utile di calpestio ex art. 2 del
DM 801/1977 l’intervento provoca un
ampliamento del 19,1%;
• è stato inopinatamente creato un nuovo
criterio ibrido che non trova alcun supporto
normativo, facendosi riferimento alla
superficie dei vani principali (con
esclusione degli accessori) esistenti e di
risultanza;
• non si registra alcuna variazione di
destinazione d’uso all’interno di una stessa
categoria.
La doglianza è priva di pregio.
L’art. 9 della L. 10/1977 rubricato
“Cessione gratuita” statuisce al comma 1 che
il contributo di cui al precedente articolo
3 non è dovuto tra l’altro “per gli
interventi di restauro, di risanamento
conservativo, di ristrutturazione e di
ampliamento, in misura non superiore al 20
per cento, di edifici unifamiliari” (lett.
d). Come appare evidente, l'esenzione dal
pagamento dei contributi di cui si discute
ha la funzione di agevolare i proprietari di
alloggi unifamiliari, presumendo il
legislatore che gli interventi sugli stessi
non abbiano carattere di lucro, ma la sola
funzione di migliorare le condizioni di
abitabilità degli edifici medesimi,
indipendentemente dalla loro dimensione
(Consiglio di Stato, sez. IV – 11/10/2006 n.
6065). La disposizione è diretta dunque a
promuovere le opere di adeguamento dei
manufatti alle necessità abitative del
singolo nucleo familiare, circoscrivendone
l’operatività agli interventi che non mutino
sostanzialmente l’entità strutturale e la
dimensione spaziale dell’immobile e non ne
elevino (in modo apprezzabile) il valore
economico.
In linea generale, come già accennato al
par. 1.2, la partecipazione del privato al
costo delle opere di urbanizzazione è dovuta
allorquando l’intervento determini un
incremento del peso insediativo con
un’oggettiva rivalutazione dell’immobile,
sicché l'onerosità del permesso di costruire
è funzionale a sopportare il carico socio
economico che la realizzazione comporta
sotto il profilo urbanistico. Alla luce di
tale considerazione la giurisprudenza (cfr.
TAR Campania Napoli, sez. VIII – 09/05/2012
n. 2136) ha statuito che l’esenzione dal
contributo di costruzione per il caso di
interventi di ristrutturazione di edifici
unifamiliari entro il limite di ampliamento
del 20%, costituisce oggetto di una
previsione di carattere eccezionale
(applicabile in un ambito di stretta
interpretazione ancorato ai parametri
predefiniti dal legislatore): la ratio è di
natura sociale ed è diretta sostanzialmente
ad apprestare uno strumento di tutela e di
salvaguardia alla piccola proprietà
immobiliare per gli interventi funzionali
all’adeguamento dell’immobile alle necessità
abitative del nucleo familiare.
I delineati presupposti non risultano
sussistere nella fattispecie all’esame del
Collegio. Dal raffronto tra stato di fatto e
di progetto (cfr. doc. 6 Comune) emerge come
la porzione di fabbricato effettivamente
abitata sia interessata da un significativo
incremento di volume (da 468,60 mc. a
747,90) e di superficie (da 111,69 mq. a
206,87), con l’intera soffitta che viene
recuperata in piano abitabile con accesso
autonomo dotato di 4 locali (2 camere da
letto, 1 bagno e 1 guardaroba). Non è
condivisibile l’impostazione dei ricorrenti
laddove (per dimostrare la conformità al
parametro normativo) prendono in esame il
volume e la superficie dell’intero edificio,
poiché lo spirito della norma (già
descritto) è quello di incentivare i modesti
interventi posti in essere dai nuclei
unifamiliari: il carattere “unifamiliare”
deve essere quindi mantenuto dopo
l’ampliamento/ristrutturazione, mentre nella
fattispecie è stata creata (come si evince
anche dalla previsione di un accesso ad hoc)
un’ulteriore autonoma unità abitativa, con
conseguente mutamento della realtà
strutturale e della fruibilità urbanistica
dell’organismo edilizio oggetto di
trasformazione.
In definitiva la disposizione invocata
opera soltanto per gli edifici
"unifamiliari" e, in mancanza di ulteriori
specificazioni, tali sono quelli
strutturalmente destinati all'uso
"abitativo" di un "solo" nucleo familiare,
indipendentemente dalle dimensioni
dell’edificio stesso (TAR Marche –
31/01/2007 n. 8)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 10.08.2012 n. 1446 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
verifica di anomalia dell’offerta
costituisce un sub-procedimento formalmente
distinto (ancorché collegato) rispetto al
procedimento di evidenza pubblica di
individuazione della proposta migliore, e si
esprime in un’indagine di contenuto
tecnico-economico secondo una precisa ratio
di fondo che è quella di evitare
l’aggiudicazione a prezzi tali da non
garantire la qualità del lavoro, fornitura o
servizio oggetto di affidamento.
Il giudizio di verifica della congruità di
un’offerta anomala ha natura globale e
sintetica sulla serietà o meno dell’offerta
nel suo insieme e costituisce espressione di
un potere tecnico-discrezionale
dell’amministrazione di per sé insindacabile
in sede di legittimità, salva l’ipotesi in
cui le valutazioni siano manifestamente
illogiche o fondate su insufficiente
motivazione o affette da errori di fatto.
Al contempo occorre rilevare che la verifica
di anomalia non ha per oggetto la ricerca di
specifiche e singole inesattezze
dell’offerta economica, mirando, invece, ad
accertare se l’offerta, nel suo complesso,
sia attendibile o inattendibile, e dunque se
dia o meno serio affidamento circa la
corretta esecuzione dell’appalto.
Osserva preliminarmente il Collegio che la
verifica di anomalia dell’offerta
costituisce un sub-procedimento formalmente
distinto (ancorché collegato) rispetto al
procedimento di evidenza pubblica di
individuazione della proposta migliore, e si
esprime in un’indagine di contenuto
tecnico-economico secondo una precisa ratio
di fondo che è quella di evitare
l’aggiudicazione a prezzi tali da non
garantire la qualità del lavoro, fornitura o
servizio oggetto di affidamento.
La giurisprudenza prevalente ha
ripetutamente osservato che il giudizio di
verifica della congruità di un’offerta
anomala ha natura globale e sintetica sulla
serietà o meno dell’offerta nel suo insieme
(Consiglio di Stato, sez. V – 08/09/2010 n.
6495) e costituisce espressione di un potere
tecnico-discrezionale dell’amministrazione
di per sé insindacabile in sede di
legittimità, salva l’ipotesi in cui le
valutazioni siano manifestamente illogiche o
fondate su insufficiente motivazione o
affette da errori di fatto (TAR Lazio
Roma, sez. I-ter – 14/10/2011 n. 7957;
Consiglio di Stato, sez. V – 11/03/2010 n.
1414; sez. IV – 20/5/2008 n. 2348).
Al
contempo occorre rilevare che la verifica di
anomalia non ha per oggetto la ricerca di
specifiche e singole inesattezze
dell’offerta economica, mirando, invece, ad
accertare se l’offerta, nel suo complesso,
sia attendibile o inattendibile, e dunque se
dia o meno serio affidamento circa la
corretta esecuzione dell’appalto (Consiglio
di Stato, sez. VI – 21/05/2009 n. 3146;
sentenza Sezione 08/02/2012 n. 195)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 10.08.2012 n. 1445 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Anche le offerte che si discostano dalle
tabelle sul costo del lavoro non sono “ex
se” anomale: il parametro certo cui riferire
la valutazione di attendibilità non
autorizza l’esclusione automatica delle
offerte che racchiudono valori inferiori a
quelli minimi, ove siano salvaguardate le
retribuzioni dei lavoratori, per cui un
costo del servizio che si discosti dalle
tabelle non è di per sé incongruo.
I dati risultanti dalle tabelle
costituiscono in altri termini indici non
assoluti ed inderogabili, ma suscettibili di
scostamento in relazione a valutazioni
statistiche ed analisi aziendali svolte
dall’offerente che –evidenziando una
particolare organizzazione imprenditoriale–
rimettono alla stazione appaltante ogni
valutazione tecnico-discrezionale di
congruità.
Conseguentemente è da reputarsi ammissibile
l’offerta che si discosti dai dati numerici
delle tabelle, purché il divario non sia
eccessivo e vengano salvaguardate le
retribuzioni dei lavoratori, così come
stabilito in sede di contrattazione
collettiva.
La
giurisprudenza ha ritenuto che anche le
offerte che si discostano dalle tabelle sul
costo del lavoro non sono “ex se” anomale:
il parametro certo cui riferire la
valutazione di attendibilità non autorizza
l’esclusione automatica delle offerte che
racchiudono valori inferiori a quelli
minimi, ove siano salvaguardate le
retribuzioni dei lavoratori, per cui un
costo del servizio che si discosti dalle
tabelle non è di per sé incongruo (TAR
Sicilia Catania, sez. III – 01/03/2011 n.
524).
I dati risultanti dalle tabelle
costituiscono in altri termini indici non
assoluti ed inderogabili, ma suscettibili di
scostamento in relazione a valutazioni
statistiche ed analisi aziendali svolte
dall’offerente che –evidenziando una
particolare organizzazione imprenditoriale–
rimettono alla stazione appaltante ogni
valutazione tecnico-discrezionale di
congruità (TAR Campania Napoli, sez. VIII
– 02/07/2010 n. 16568). Conseguentemente è
da reputarsi ammissibile l’offerta che si
discosti dai dati numerici delle tabelle,
purché il divario non sia eccessivo e
vengano salvaguardate le retribuzioni dei
lavoratori, così come stabilito in sede di
contrattazione collettiva
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 10.08.2012 n. 1445 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
sanzione pecuniaria prevista dall’art. 10, comma 1,
della legge 47/1985 (il doppio dell'aumento
del valore venale dell'immobile conseguente
alla realizzazione delle opere abusive) si
deve intendere nel senso che la base di
calcolo è costituita dall’incremento di
valore acquisito dall’immobile per effetto
delle innovazioni introdotte.
Quando la modifica consiste nell’adattamento
dei locali a una nuova destinazione d’uso
l’incremento è dato dalla differenza tra il
valore della nuova utilizzazione e quello
dell’uso precedente. Poiché si guarda al
risultato e non ai mezzi, non ha particolare
rilievo il costo dei materiali impiegati.
---------------
In materia edilizia vi sono abusi maggiori
(v. art. 31-32-33 del DPR 380/2001) e abusi
minori (v. art. 37 del DPR 380/2001), e
all’interno di ciascuna categoria si possono
individuare abusi sostanziali, così definiti
perché normalmente non sanabili con il
rilascio successivo del titolo edilizio, e
abusi formali, che sono tali in quanto
ammettono il rilascio di un titolo edilizio
a posteriori.
Gli abusi maggiori (ad esempio, una nuova
costruzione senza titolo edilizio) possono
essere sanati se esiste la conformità
urbanistica (v. art. 36 del DPR 380/2001),
gli abusi minori seguono la stessa regola
(v. art. 37, comma 4, del DPR 380/2001) ma
possono, a certe condizioni, essere sanati
anche se non vi è la conformità urbanistica.
In quest’ultima ipotesi la somma di denaro
pagata non è soltanto una sanzione per la
mancata tempestiva richiesta del titolo
edilizio ma costituisce principalmente il
corrispettivo (o, dal punto di vista
dell’amministrazione, il risarcimento) per
il fatto che sono mantenuti fermi i
risultati dell’intervento edilizio
nonostante il contrasto con la disciplina
urbanistica;
Per questa ragione la sanatoria degli abusi
minori privi di conformità urbanistica è
correlata all’aumento del valore venale
dell’immobile (v. art. 37, comma 1, del DPR
380/2001, art. 53, comma 2, della LR
12/2005). Quando sussiste la conformità
urbanistica la sanzione è invece calcolata
in altro modo (v. art. 37, comma 4, del DPR
380/2001).
---------------
Con riferimento al cambio di destinazione
d’uso occorre fare un’ulteriore
precisazione. Questa fattispecie è inserita
da tempo tra gli interventi edilizi minori
sottoposti a DIA (v. art. 4, commi 7 e 13,
del DL 05.10.1993 n. 398), ma se il cambio
implica un incremento dello standard
urbanistico si realizza una variazione
essenziale da inquadrare tra gli abusi
maggiori (v. art. 8, comma 1-a, della legge
47/1985, art. 32, comma 1-a, del DPR
380/2001, art. 54, comma 1-a, della LR
12/2005). Dunque esiste una graduazione
all’interno di questa tipologia di abuso
che, in mancanza di conformità urbanistica,
può condurre all’applicazione di tre diverse
discipline sanzionatorie:
(1) abuso maggiore con obbligo di remissione
in pristino nel caso di insufficienza dello
standard urbanistico;
(2) abuso minore con obbligo di pagamento di
una somma pari al doppio dell'aumento del
valore venale dell'immobile se sono state
effettuate opere edilizie (v. art. 37, comma
1, del DPR 380/2001);
(3) abuso minore con obbligo di pagamento di
una somma pari all'aumento del valore venale
dell'immobile se non sono state realizzate
opere edilizie (v. art. 53, comma 2, della
LR 12/2005).
... per l'annullamento del provvedimento del
dirigente dell’Area Servizi al Territorio
prot. n. 5904 del 12.03.2001, con il
quale, in relazione al cambio di
destinazione d’uso dell’immobile situato in
via Malogno (mappale n. 31), è stata
inflitta una sanzione pecuniaria pari a €
79.017,91 ai sensi dell’art. 3 comma 2 della
LR 15.01.2001 n. 1; ...
...
Sulle questioni proposte dalle parti si possono svolgere le seguenti
considerazioni:
(a) in primo luogo, non sembra che la
ricorrente abbia un particolare interesse ad
affermare l’inapplicabilità della LR 1/2001.
All’epoca del cambio di destinazione d’uso
non esisteva una disciplina regionale
specifica per questo tipo di infrazioni, e
pertanto doveva essere applicato, in quanto
norma generale sugli abusi edilizi minori,
l’art. 10, comma 1, della legge 47/1985 (v.
ora l’art. 37, comma 1, del DPR 06.06.2001
n. 380). Tale norma, letta in collegamento
con l’art. 26 della legge 47/1985, è
riferibile anche ai lavori di adattamento
interni comportanti modiche alla
destinazione d’uso, come nel caso in esame;
(b) la sanzione pecuniaria prevista
dall’art. 10, comma 1, della legge 47/1985 (il
doppio dell'aumento del valore venale
dell'immobile conseguente alla realizzazione
delle opere abusive) si deve intendere nel
senso che la base di calcolo è costituita
dall’incremento di valore acquisito
dall’immobile per effetto delle innovazioni
introdotte. Quando la modifica consiste
nell’adattamento dei locali a una nuova
destinazione d’uso l’incremento è dato dalla
differenza tra il valore della nuova
utilizzazione e quello dell’uso precedente.
Poiché si guarda al risultato e non ai
mezzi, non ha particolare rilievo il costo
dei materiali impiegati;
(c) dunque la sanzione dell’art. 10, comma 1,
della legge 47/1985 è confrontabile con
quella dell’art. 3, comma 2, della LR 1/2001
(v. ora l’art. 53, comma 2, della LR 11.03.2005 n. 12), e dal confronto si desume che
la ricorrente trae un vantaggio
dall’applicazione di quest’ultima, in quanto
l’onere economico è dimezzato;
(d) in proposito si osserva che questo
risultato (ossia una sanzione pari
all'aumento del valore venale e non al
doppio di tale aumento) è stato raggiunto
perché il Comune ha ritenuto che la modifica
della destinazione d’uso sia stata
conseguita senza opere edilizie (appunto la
fattispecie che l’art. 3, comma 2, della LR
1/2001 ha staccato dalla previsione generale
dell’art. 10, comma 1, della legge 47/1985).
Se invece il Comune avesse qualificato come
opere edilizie i lavori eseguiti dalla
ricorrente si sarebbe applicata la sanzione
corrispondente alla tipologia delle
innovazioni in concreto poste in essere (v.
art. 3, comma 1, della LR 1/2001, art. 53,
comma 1, della LR 12/2005), ossia nel caso
specifico proprio la sanzione ex art. 10,
comma 1, della legge 47/1985;
(e) cadono quindi le censure della
ricorrente contro il presunto
fraintendimento degli interventi eseguiti al
primo piano dell’edificio in questione. In
realtà il Comune ha giudicato irrilevanti le
partizioni in cartongesso e si è
(correttamente) concentrato sul cambio di
destinazione d’uso. Della presenza di un
cambio di destinazione d’uso non si può
dubitare se si mettono a confronto da un
lato la zonizzazione e il certificato di
agibilità (incentrati sull’uso industriale-artigianale) e dall’altro
l’attività svolta in concreto
(poliambulatorio);
(f) non possono essere condivise neppure le
censure che tendono a porre in risalto il
comportamento contraddittorio degli uffici
comunali. Una certa mancanza di
coordinamento è evidente, perché quando il
Comune ha imposto la sanzione pecuniaria per
il cambio di destinazione d’uso stava già
riscuotendo da oltre due anni l’imposta
sulla pubblicità relativa all’attività di
poliambulatorio e di fisioterapia. Tuttavia
non esiste alcuna contraddizione tra questi
provvedimenti: la sanzione pecuniaria è
infatti il prezzo che il privato è tenuto a
pagare per consolidare un cambio di
destinazione d’uso senza opere in contrasto
con le norme urbanistiche, precisamente la
fattispecie disciplinata dall’art. 3, comma 2,
della LR 1/2001;
(g) per chiarire meglio questo punto occorre
posizionare la vicenda in questione nel
quadro generale: in materia edilizia vi sono
abusi maggiori (v. art. 31-32-33 del DPR
380/2001) e abusi minori (v. art. 37 del DPR
380/2001), e all’interno di ciascuna
categoria si possono individuare abusi
sostanziali, così definiti perché
normalmente non sanabili con il rilascio
successivo del titolo edilizio, e abusi
formali, che sono tali in quanto ammettono
il rilascio di un titolo edilizio a
posteriori.
Gli abusi maggiori (ad esempio,
una nuova costruzione senza titolo edilizio)
possono essere sanati se esiste la
conformità urbanistica (v. art. 36 del DPR
380/2001), gli abusi minori seguono la
stessa regola (v. art. 37, comma 4, del DPR
380/2001) ma possono, a certe condizioni,
essere sanati anche se non vi è la
conformità urbanistica. In quest’ultima
ipotesi la somma di denaro pagata non è
soltanto una sanzione per la mancata
tempestiva richiesta del titolo edilizio ma
costituisce principalmente il corrispettivo
(o, dal punto di vista dell’amministrazione,
il risarcimento) per il fatto che sono
mantenuti fermi i risultati dell’intervento
edilizio nonostante il contrasto con la
disciplina urbanistica;
(h) per questa ragione la sanatoria degli
abusi minori privi di conformità urbanistica
è correlata all’aumento del valore venale
dell’immobile (v. art. 37, comma 1, del DPR
380/2001, art. 53, comma 2, della LR 12/2005).
Quando sussiste la conformità urbanistica la
sanzione è invece calcolata in altro modo
(v. art. 37, comma 4, del DPR 380/2001);
(i) con riferimento al cambio di
destinazione d’uso occorre fare un’ulteriore
precisazione. Questa fattispecie è inserita
da tempo tra gli interventi edilizi minori
sottoposti a DIA (v. art. 4, commi 7 e 13, del DL
05.10.1993 n. 398), ma se il cambio
implica un incremento dello standard
urbanistico si realizza una variazione
essenziale da inquadrare tra gli abusi
maggiori (v. art. 8, comma 1-a, della legge
47/1985, art. 32, comma 1-a, del DPR 380/2001,
art. 54, comma 1-a, della LR 12/2005). Dunque
esiste una graduazione all’interno di questa
tipologia di abuso che, in mancanza di
conformità urbanistica, può condurre
all’applicazione di tre diverse discipline
sanzionatorie:
(1) abuso maggiore con
obbligo di remissione in pristino nel caso
di insufficienza dello standard urbanistico;
(2) abuso minore con obbligo di pagamento di
una somma pari al doppio dell'aumento del
valore venale dell'immobile se sono state
effettuate opere edilizie (v. art. 37, comma
1, del DPR 380/2001);
(3) abuso minore con
obbligo di pagamento di una somma pari
all'aumento del valore venale dell'immobile
se non sono state realizzate opere edilizie
(v. art. 53, comma 2, della LR 12/2005);
(j) il Comune ha deciso di collocare il
comportamento della ricorrente nella terza
categoria, nonostante le osservazioni
contenute nella relazione del 14.04.2000
sulla diversa quantificazione delle aree a
standard per gli insediamenti produttivi e
per quelli direzionali;
(k) questa decisione è in effetti più
vantaggiosa per la ricorrente, in quanto
permette di conservare la nuova destinazione
d’uso pagando una sanzione pecuniaria (e,
tra le sanzioni ipotizzabili, quella
minore), ma è irragionevole e sproporzionata
nella parte in cui non consente alla
ricorrente di liberarsi dalla sanzione
rinunciando al cambio di destinazione d’uso.
Il Comune avrebbe invece dovuto porre alla
ricorrente un’alternativa: pagare la somma
richiesta e proseguire nell’utilizzazione
dell’immobile come poliambulatorio
(eventualmente adeguando le aree a standard,
ma su questo i provvedimenti impugnati non
si soffermano) oppure rimettere in pristino
i locali abbandonando ogni utilizzazione
diversa da quella industriale-artigianale.
Non spetta infatti all’amministrazione la
scelta sul modo migliore di soddisfare
l’interesse dei privati quando vi sono due
opzioni ugualmente idonee a tutelare
l’interesse pubblico
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 09.08.2012 n. 1443 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Rientra
nella giurisdizione del giudice ordinario la
controversia che ha ad oggetto la
progressione economica dei dipendenti, in
applicazione delle disposizioni al riguardo
contenute nei contratti collettivi di lavoro
di settore, implicando il semplice passaggio
di livello economico, senza variazione di
area o di categoria ossia senza novazione
oggettiva del rapporto di lavoro.
- Visto il disposto di cui all’art. 63, cc.
1 e 4, d.lgs. 165/2011 ai sensi del quale: “1.
Sono devolute al giudice ordinario, in
funzione di giudice del lavoro, tutte le
controversie relative ai rapporti di lavoro
alle dipendenze delle pubbliche
amministrazioni di cui all'articolo 1, comma
2, ad eccezione di quelle relative ai
rapporti di lavoro di cui al comma 4, … 4.
Restano devolute alla giurisdizione del
giudice amministrativo le controversie in
materia di procedure concorsuali per
l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche
amministrazioni. …”;
- Visto il costante orientamento della
giurisprudenza civile e amministrativa
secondo cui, rientra nella giurisdizione del
giudice ordinario la controversia che ha ad
oggetto la progressione economica dei
dipendenti, in applicazione delle
disposizioni al riguardo contenute nei
contratti collettivi di lavoro di settore,
implicando il semplice passaggio di livello
economico, senza variazione di area o di
categoria ossia senza novazione oggettiva
del rapporto di lavoro (cfr., ex multis,
Cass. s.u., 09.01.2007, n. 220; 20.05.2005,
n. 10605; Cons. Stato, IV Sez., 15.12.2009,
n. 7993; Tar Torino–Piemonte, sez. II,
16.03.2009, n. 770; Tar Lazio-Roma, sez. III,
15.01.2010, n. 278; Tar Lazio-Roma, sez. II,
06.05.2009, n. 4733; Tar Liguria, sez. II,
17.03.2006, n. 239; Tar Umbria 17.03.2005,
n. 94)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 02.08.2012 n. 1754 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
caso delle istanze dolosamente infedeli (v.
art. 40, c. 1, l. n. 47/1985) non opera il
meccanismo del silenzio-assenso e tale deve
considerarsi quella in cui viene indicata
una data di commissione dell’abuso anteriore
a quella effettiva (a sua volta successiva
al termine ultimo previsto dalla legge per
la sanabilità dell’abuso).
D’altra parte, la prova della data della
realizzazione delle opere abusive grava su
colui che richiede la sanatoria, che può
avvalersi, solo se non c’è contestazione,
della dichiarazione sostitutiva dell’atto di
notorietà, ma a fronte di elementi di prova
a disposizione dell’Amministrazione che
attestino il contrario, quali il rilievo
aerofotogrammetrico, il responsabile
dell'abuso è gravato dall'onere di provare,
attraverso elementi certi, quali fotografie
aeree, fatture, sopralluoghi e così via,
l'effettiva realizzazione dei lavori entro
il termine previsto dalla legge per poter
usufruire del beneficio, non potendo
limitarsi a contestare i dati in possesso
dell'Amministrazione senza fornire alcun
elemento di prova a corredo della propria
tesi.
Pertanto, l'Amministrazione, in assenza di
elementi di prova contrari, non può che
respingere la domanda di sanatoria.
Invero, nel caso delle istanze dolosamente
infedeli (v. art. 40, c. 1, l. n. 47/1985)
non opera il meccanismo del silenzio-assenso
e tale deve considerarsi quella in cui viene
indicata una data di commissione dell’abuso
anteriore a quella effettiva (a sua volta
successiva al termine ultimo previsto dalla
legge per la sanabilità dell’abuso).
D’altra parte, la prova della data della
realizzazione delle opere abusive grava su
colui che richiede la sanatoria, che può
avvalersi, solo se non c’è contestazione,
della dichiarazione sostitutiva dell’atto di
notorietà, ma a fronte di elementi di prova
a disposizione dell’Amministrazione che
attestino il contrario, quali il rilievo
aerofotogrammetrico, il responsabile
dell'abuso è gravato dall'onere di provare,
attraverso elementi certi, quali fotografie
aeree, fatture, sopralluoghi e così via,
l'effettiva realizzazione dei lavori entro
il termine previsto dalla legge per poter
usufruire del beneficio, non potendo
limitarsi a contestare i dati in possesso
dell'Amministrazione senza fornire alcun
elemento di prova a corredo della propria
tesi.
Pertanto, l'Amministrazione, in
assenza di elementi di prova contrari, non
può che respingere la domanda di sanatoria
(v. Tar Lazio, sez. II, 06.12.2010,
n. 354040)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 02.08.2012 n. 1749 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: I)
Anche per le gare d’appalto indette in epoca
anteriore all’entrata in vigore del Codice
del processo amministrativo, il termine per
l’impugnazione dell’aggiudicazione
definitiva da parte dei concorrenti non
aggiudicatari inizia a decorrere dal momento
in cui essi hanno ricevuto la comunicazione
di cui all’art. 79, comma 1, lettera a), del
d.lgs. n. 163 del 2006, e non dal momento,
eventualmente successivo, in cui la stazione
appaltante abbia concluso con esito positivo
la verifica del possesso dei requisiti di
gara in capo all’aggiudicatario, ai sensi
dell’art. 11, comma 8, dello stesso decreto.
II) I principi di pubblicità e trasparenza
che governano la disciplina comunitaria e
nazionale in materia di appalti pubblici
comportano che, qualora all’aggiudicazione
debba procedersi col criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, l’apertura
delle buste contenenti le offerte e la
verifica dei documenti in esse contenuti
vadano effettuate in seduta pubblica anche
laddove si tratti di procedure negoziate,
con o senza previa predisposizione di bando
di gara, e di affidamenti in economia nella
forma del cottimo fiduciario, in relazione
sia ai settori ordinari che ai settori
speciali di rilevanza comunitaria.
In conclusione, l’adunanza plenaria ritiene
di dover enunciare i seguenti principi di
diritto:
I) Anche per le gare d’appalto indette in
epoca anteriore all’entrata in vigore del
Codice del processo amministrativo, il
termine per l’impugnazione
dell’aggiudicazione definitiva da parte dei
concorrenti non aggiudicatari inizia a
decorrere dal momento in cui essi hanno
ricevuto la comunicazione di cui all’art.
79, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 163
del 2006, e non dal momento, eventualmente
successivo, in cui la stazione appaltante
abbia concluso con esito positivo la
verifica del possesso dei requisiti di gara
in capo all’aggiudicatario, ai sensi
dell’art. 11, comma 8, dello stesso decreto.
II) I principi di pubblicità e trasparenza
che governano la disciplina comunitaria e
nazionale in materia di appalti pubblici
comportano che, qualora all’aggiudicazione
debba procedersi col criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, l’apertura
delle buste contenenti le offerte e la
verifica dei documenti in esse contenuti
vadano effettuate in seduta pubblica anche
laddove si tratti di procedure negoziate,
con o senza previa predisposizione di bando
di gara, e di affidamenti in economia nella
forma del cottimo fiduciario, in relazione
sia ai settori ordinari che ai settori
speciali di rilevanza comunitaria
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 31.07.2012 n. 31 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
fini del rilascio della concessione edilizia
è necessaria una relazione qualificata a
contenuto reale dell'istante con il bene, e
cioè la qualità di proprietario,
superficiario, affittuario di fondi rustici,
usufruttuario dello stesso, anche se in
formazione, non essendo sufficiente il solo
rapporto obbligatorio, in quanto il diritto
a costruire è una proiezione del diritto di
proprietà o di altro diritto reale di
godimento che autorizzi a disporre un
intervento costruttivo.
All'usufruttuario è comunque riconosciuta la
legittimazione al rilascio del permesso di
costruire dal momento che l'art. 11, d.P.R.
n. 380 del 2001 individua tra i soggetti
legittimati oltre al proprietario anche
coloro che “abbiano titolo per richiederlo”,
sicché non vi è dubbio che tra gli aventi
titolo rientri anche l'usufruttuario del
bene, che, quale titolare di un diritto
reale di godimento, gode di una relazione
qualificata con il bene medesimo.
Tali considerazioni
vanno coniugate con le affermazioni che la
costante giurisprudenza amministrativa ha
reso in passato, in punto di legittimazione
a richiedere la concessione edilizia, ad
avversare quella rilasciata ad altro
soggetto, e di individuazione del momento di
percezione della lesione che coincide con il
dies a quo per la proposizione del ricorso.
Quanto ai primi due profili, si è detto, in
passato muovendo dal tenore letterale
dell’art. 11 del dPR n. 380/2001 che:
- ”ai fini del rilascio della concessione
edilizia è necessaria una relazione
qualificata a contenuto reale dell'istante
con il bene, e cioè la qualità di
proprietario, superficiario, affittuario di
fondi rustici, usufruttuario dello stesso,
anche se in formazione, non essendo
sufficiente il solo rapporto obbligatorio,
in quanto il diritto a costruire è una
proiezione del diritto di proprietà o di
altro diritto reale di godimento che
autorizzi a disporre un intervento
costruttivo” -Consiglio Stato, sez. IV, 08.06.2007,
n. 3027-;”
-
all'usufruttuario è comunque riconosciuta la
legittimazione al rilascio del permesso di
costruire dal momento che l'art. 11, d.P.R.
n. 380 del 2001 individua tra i soggetti
legittimati oltre al proprietario anche
coloro che “abbiano titolo per richiederlo”,
sicché non vi è dubbio che tra gli aventi
titolo rientri anche l'usufruttuario del
bene, che, quale titolare di un diritto
reale di godimento, gode di una relazione
qualificata con il bene medesimo -TAR
Campania Napoli, sez. VIII, 07.03.2011, n.
1318-
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.07.2012 n. 4287 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
ricorso proposto avverso il permesso di
costruire rilasciato al vicino la vicinitas
è condizione necessaria, ma non sufficiente
a radicare, ferma la legittimazione,
l'interesse al ricorso, il quale richiede
anche la dimostrazione del pregiudizio
concreto alle facoltà dominicali del
ricorrente.
---------------
La decorrenza del termine per ricorrere in
sede giurisdizionale avverso atti
abilitativi dell'edificazione si ha, per i
soggetti diversi da quelli cui l'atto è
rilasciato (ovvero che in esso sono comunque
indicati) dalla data in cui si renda palese
ed oggettivamente apprezzabile la lesione
del bene della vita protetto, la qual cosa
si verifica quando sia percepibile dal
controinteressato la concreta entità del
manufatto e la sua incidenza effettiva sulla
propria posizione giuridica. In materia di
impugnazione del permesso di costruire, è
sufficiente la cd. "vicinitas", quale
elemento che distingue la posizione
giuridica del ricorrente da quella della
generalità dei consociati, di talché è
corretto riconoscere a chi si trovi in tale
situazione un interesse tutelato a che il
provvedimento dell'Amministrazione sia
procedimentalmente e sostanzialmente
ossequioso delle norme vigenti in materia.
Costituisce altresì principio fondante in
materia quello per cui “nel ricorso
proposto avverso il permesso di costruire
rilasciato al vicino la vicinitas è
condizione necessaria, ma non sufficiente a
radicare, ferma la legittimazione,
l'interesse al ricorso, il quale richiede
anche la dimostrazione del pregiudizio
concreto alle facoltà dominicali del
ricorrente” (Consiglio Stato, sez. IV, 24.01.2011, n. 485).
---------------
Osserva
il Collegio che consolidata e condivisibile
giurisprudenza ha con continuità affermato
che “la decorrenza del termine per ricorrere
in sede giurisdizionale avverso atti
abilitativi dell'edificazione si ha, per i
soggetti diversi da quelli cui l'atto è
rilasciato (ovvero che in esso sono comunque
indicati) dalla data in cui si renda palese
ed oggettivamente apprezzabile la lesione
del bene della vita protetto, la qual cosa
si verifica quando sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del
manufatto e la sua incidenza effettiva sulla
propria posizione giuridica. In materia di
impugnazione del permesso di costruire, è
sufficiente la cd. "vicinitas", quale
elemento che distingue la posizione
giuridica del ricorrente da quella della
generalità dei consociati, di talché è
corretto riconoscere a chi si trovi in tale
situazione un interesse tutelato a che il
provvedimento dell'Amministrazione sia
procedimentalmente e sostanzialmente
ossequioso delle norme vigenti in
materia" (Consiglio Stato, sez. IV, 05.01.2011,
n. 18) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.07.2012 n. 4287 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Nella
gara per l’affidamento di contratti pubblici
l’interesse fatto valere dal ricorrente che
impugna la sua esclusione è volto a
concorrere per l’aggiudicazione nella stessa
gara; pertanto, anche nel caso dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, in presenza
del giudicato di annullamento
dell’esclusione stessa sopravvenuto alla
formazione della graduatoria, il rinnovo
degli atti deve consistere nella sola
valutazione dell’offerta illegittimamente
pretermessa, da effettuarsi ad opera della
medesima commissione preposta alla
procedura.
In conclusione, in base alle esposte
considerazioni, l’adunanza plenaria afferma
il seguente principio di diritto: “Nella
gara per l’affidamento di contratti pubblici
l’interesse fatto valere dal ricorrente che
impugna la sua esclusione è volto a
concorrere per l’aggiudicazione nella stessa
gara; pertanto, anche nel caso dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, in presenza
del giudicato di annullamento
dell’esclusione stessa sopravvenuto alla
formazione della graduatoria, il rinnovo
degli atti deve consistere nella sola
valutazione dell’offerta illegittimamente
pretermessa, da effettuarsi ad opera della
medesima commissione preposta alla procedura”
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 26.07.2012 n. 30 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere edilizie autorizzate, l'uso
diverso legittima la demolizione.
E' legittima l'ordinanza di demolizione di
opere la cui destinazione, sebbene
cristallizzata nel provvedimento
abilitativo, è mutata nel corso del tempo a
cagione di un diverso utilizzo da parte
degli interessati.
Il deducente, proprietario di due posti auto
ubicati nel piano interrato di un immobile
situato nel centro cittadino, ha gravato
l’ordinanza con cui il Comune aveva
ingiunto, ai sensi dell’art. 9, comma 1,
della L.R. (Emilia Romagna) n. 23/2004, la
demolizione di alcuni interventi realizzati
per la chiusura dei “…box auto destinati
al solo utilizzo privato …”, nonché il
ripristino della destinazione degli stessi a
“… spazi per sosta e parcheggi pubblici
in interrato”.
In particolare, ha contestato l’erroneità
del presupposto secondo cui tutti i posti
auto di quell’edificio avrebbero costituito,
sebbene privati, parcheggi funzionali alle
attività terziarie e direzionali insediate
negli edifici del comparto realizzato con
precedente piano particolareggiato e che,
quindi, avrebbero rappresentato “spazi
per sosta e parcheggi pubblici in interrato”,
ovvero spazi destinati a operare come
strutture aperte non suddivise in box.
Invero, ha addotto che la concessione
edilizia rilasciata riguardava l’esecuzione
di lavori di “interrato sottopiazza a uso
parcheggi di pertinenza” e che le
convenzioni urbanistiche a suo tempo
stipulate tra il Comune e il soggetto
attuatore del piano particolareggiato non
contemplavano il diritto di uso pubblico dei
posti-auto.
Il Collegio di Bologna ha dichiarato
l’infondatezza del gravame.
In argomento ha dapprima rammentato che,
secondo un costante orientamento
giurisprudenziale, la destinazione d’uso di
un immobile non si identifica con l’impiego
che in concreto ne fa il soggetto che lo
utilizza, ma con la destinazione impressa
dal titolo abilitativo, e ciò in quanto: “…
la nozione di <<uso>> urbanisticamente
rilevante è ancorata alla tipologia
strutturale dell’immobile – quale
individuata nel titolo edilizio – senza che
essa possa essere influenzata da
utilizzazioni difformi rispetto al contenuto
degli atti autorizzatori e/o pianificatori”
(ex multis, Cons. Stato, Sez. V,
09.02.2001, n. 583; TAR Liguria, Sez. I,
25.01.2005, n. 85; TAR Lombardia, Milano,
Sez. II, 07.05.1992, n. 219).
D’altra parte, ha osservato come il
menzionato principio sia stato codificato
anche nella legislazione della regione
Emilia Romagna, laddove, all’art. 26, comma
3, L.R. n. 31/2002, è previsto che: “… la
destinazione d’uso in atto dell’immobile o
dell’unità immobiliare è quella stabilita
dal titolo abilitativo che ne ha previsto la
costruzione o l’ultimo intervento e recupero
o, in assenza o indeterminatezza del titolo,
dalla classificazione catastale attribuita
in sede di primo accatastamento ovvero da
altri documenti probanti”.
Sicché, con riferimento alla vicenda, il
giudicante ha sottolineato che, al momento
di richiesta del rilascio della concessione
edilizia per i lavori di «interrato
sottopiazza ad uso parcheggi di pertinenza»,
l’amministrazione comunale aveva istruito la
pratica e acquisito l’avviso positivo del
Settore gestione controlli trasformazioni
urbanistiche, nonché il parere favorevole
della Commissione edilizia.
Tali atti istruttori avevano evidentemente
rappresentato gli elementi costitutivi della
volontà della civica P.A. di assentire i
predetti interventi, con la conseguenza che
mediante il rilascio del relativo titolo
abilitativo si fosse inteso destinare quei
posti-auto al soddisfacimento delle
necessità di parcheggio degli utenti della
attività direzionali insediate nel comparto,
indipendentemente dall’uso che poi in
concreto fosse stato fatto da parte degli
interessati.
Pertanto, la circostanza per cui, a distanza
di un considerevole arco di tempo, le
caratteristiche strutturali di quelle aree
erano state modificate in termini tali
(trasformazione in veri e propri “box
auto” chiusi) da renderle oggettivamente
inidonee all’uso a suo tempo autorizzato, a
opinione dell’adito Tribunale aveva
giustificato l’intervento repressivo
dell’amministrazione ex art. 9, comma 1,
L.R. n. 23/2004; quest’ultima diposizione,
non a caso, prevede espressamente che: ”…
lo Sportello unico per l’edilizia, quando
accerti l’inizio o l’esecuzione di opere,
realizzate senza titolo o in difformità
dallo stesso, su aree assoggettate, da leggi
statali, regionali o da altre norme
urbanistiche vigenti, a vincolo di
inedificabilità o destinate a opere e spazi
pubblici … ordina l’immediata sospensione
dei lavori e ingiunge al proprietario e al
responsabile dell’abuso di provvedere entro
novanta giorni alla demolizione delle opere
e al ripristino dello stato dei luoghi …”.
Né a differenti conclusioni s’è giunti con
riferimento alla doglianza formulata
dall’interessato secondo cui l’omessa
trascrizione del vincolo (pubblico) nei
registri immobiliari avrebbe determinato
l’inopponibilità dello stesso ai terzi
acquirenti del bene.
In realtà il Collegio ha precisato che,
essendo il vincolo di destinazione d’uso il
risultato dell’efficacia costitutiva del
rilascio della concessione edilizia, le
limitazioni connesse a tale destinazione si
sarebbero risolte in una qualità obiettiva
del suolo che, proprio perché formata da un
provvedimento amministrativo, sarebbe stata
opponibile anche ai terzi acquirenti, fatti
salvi i rimedi giurisdizionali e
amministrativi azionabili nei confronti del
titolo abilitativo eventualmente
illegittimo.
D’altro canto, ha rilevato che la tutela dei
terzi sarebbe stata comunque assicurata con
la pacifica accessibilità agli atti
urbanistico/edilizi del Comune e con la
conseguente possibilità di conoscenza della
destinazione d’uso impressa a ogni singolo
immobile oggetto di interesse dei
consociati, secondo modalità che
garantiscono un’adeguata pubblicità e quindi
una sufficiente circolazione delle
informazioni.
In virtù di quanto illustrato, il G.A. di
Bologna ha respinto il ricorso,
contestualmente dichiarando la legittimità
della gravata ordinanza di demolizione
(commento tratto da www.ipsoa.it - TAR
Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 24.07.2012 n. 520 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
tutela urbanistica e quella paesaggistica
sono autonome ed hanno pari dignità, il che
sta a significare che in un’area
paesaggisticamente vincolata l’assegnazione
di una certa volumetria nello strumento di
piano da parte dell’ente locale è solo
condizione necessaria, ma non sufficiente,
perché possano poi essere rilasciati i
titoli abilitativi per costruirla.
In un’area paesaggisticamente vincolata
l’assegnazione di una certa volumetria nello
strumento di piano da parte dell’ente locale
non dà alcuna garanzia in ordine alla futura
edificazione, perché l’esercizio della
funzione di tutela paesaggistica può
rivedere completamente le volumetrie
assegnate in sede urbanistica ed arrivare
anche a negare del tutto di edificare anche
un solo metro cubo, perché nelle valutazioni
di pertinenza dell’autorità preposta alla
tutela del paesaggio deve essere
obbligatoriamente presa in considerazione
anche la stessa possibilità di cui dispone
l’autorità preposta alla tutela urbanistica,
e cioè la opzione zero, cioè la possibilità
di non realizzare nulla.
Se così non fosse, non vi sarebbe
quell’autonomia tra tutela urbanistica e
tutela paesaggistica su cui è fondato il
nostro sistema giuridico, e la tutela
paesaggistica verrebbe ad essere meramente
sussidiaria a quella urbanistica.
E ciò sarebbe addirittura contraddittorio,
considerato che in realtà è solo la tutela
paesaggistica a godere di copertura
costituzionale, attraverso il richiamo
dell’art. 9 Cost., ed essa finirebbe invece
con l’essere subordinata alle valutazioni
urbanistiche che non godono della stessa
copertura.
D’altronde, la tutela paesaggistica è stata
introdotta proprio perché la tutela
urbanistica si rivela da sola inadeguata ad
assicurare nelle aree protette quel
principio di protezione sostenibile di cui
ha parlato Cons. Stato, sez. VI, 16.11.2004,
n. 7472, secondo cui “il problema del punto
di equilibrio tra realizzazione di
infrastrutture e tutela dell'ambiente e del
paesaggio e, dunque, del concreto
atteggiarsi del principio dello sviluppo
sostenibile (ora codificato dall'art.
3-quater, d.lgs. 152/2006), meglio si
chiarisce anche in relazione alla
valutazione dell'utilizzazione economica
delle aree protette; per cui non dovrebbe
parlarsi di sviluppo sostenibile ossia di
sfruttamento economico dell'ecosistema
compatibile con esigenza di protezione, ma,
con prospettiva rovesciata, di protezione
sostenibile, intendendosi con tale
terminologia evocare i vantaggi economici
che la protezione in sé assicura senza
compromissione di equilibri economici
essenziali per la collettività. Si deve
ammettere l'alterazione dei valori
ambientali solo in quanto non vi siano
alternative possibili”.
Con ricorso principale la ricorrente impugna
il provvedimento del 21.11.011 con cui la
Soprintendenza per i beni architettonici e
paesaggistici di Brescia ha espresso parere
negativo all’intervento edilizio di
realizzazione di un nuovo residence, ed il
consequenziale provvedimento del 21.11.2011
della Comunità montana Alto Garda.
...
Nel secondo motivo si sostiene che il
provvedimento sarebbe illegittimo per
violazione dell’art. 146 d.lgs. 42/2004,
perché la Soprintendenza avrebbe travalicato
le proprie competenze istituzionali sulla
tutela paesaggistica negando del tutto la
possibilità edificatoria all’area in esame,
potere che esulerebbe dall’impianto del
codice dei beni culturali ed ambientali.
Anche questo motivo è infondato.
A prescindere dal contenuto in concreto del
provvedimento (che non nega affatto del
tutto le potenzialità edificatorie,
limitandosi a conformarle), non può essere
proprio accettata l’impostazione su cui è
basato questo motivo di ricorso.
In esso il ricorrente scrive che il corretto
esercizio del potere di rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica deve
partire dal presupposto della edificabilità
dei suoli, dato di fatto immutabile dal
Ministero, e che i parametri di costruzione
dovrebbero essere ricavati soltanto dagli
strumenti urbanistici decisi dagli enti
locali, mentre il compito della
Soprintendenza sarebbe solo la verifica
delle modalità costruttive scelte.
Questa costruzione non è giuridicamente
accettabile. Essa, infatti, svilisce il
ruolo della tutela paesaggistica,
trasformandola in un mero potere di
dettaglio rispetto alla disciplina
urbanistica, che rimarrebbe unica e sola a
dettare la disciplina di principio.
Mutatis mutandis, si trasformerebbe,
infatti, il rapporto tra tutela urbanistica
e tutela paesaggistica in qualcosa di simile
al rapporto che esiste negli ambiti di
legislazione concorrente tra disciplina di
principio dettata dallo Stato e disciplina
di dettaglio dettata dalle Regioni. Secondo
l’impostazione del ricorrente, infatti, alla
tutela urbanistica dovrebbe essere riservato
il potere di dettare la disciplina di
principio degli interventi edilizi
(volumetrie, altezze, distanze tra i
fabbricati), mentre alla tutela
paesaggistica resterebbe soltanto il potere
di muoversi in questa cornice (dettando
forma degli edifici, colori, tipologie di
mitigazione degli interventi), talché se
l’ente locale ha deciso una certa volumetria
la Soprintendenza non potrebbe impedire di
realizzarla perché ormai questa volumetria è
data.
In realtà, non è questo il rapporto tra
tutela urbanistica e tutela paesaggistica
nel nostro ordinamento. La tutela
urbanistica e quella paesaggistica, infatti,
sono autonome ed hanno pari dignità, il che
sta a significare che in un’area
paesaggisticamente vincolata l’assegnazione
di una certa volumetria nello strumento di
piano da parte dell’ente locale è solo
condizione necessaria, ma non sufficiente,
perché possano poi essere rilasciati i
titoli abilitativi per costruirla.
In un’area paesaggisticamente vincolata
l’assegnazione di una certa volumetria nello
strumento di piano da parte dell’ente locale
non dà alcuna garanzia in ordine alla futura
edificazione, perché l’esercizio della
funzione di tutela paesaggistica può
rivedere completamente le volumetrie
assegnate in sede urbanistica ed arrivare
anche a negare del tutto di edificare anche
un solo metro cubo, perché nelle valutazioni
di pertinenza dell’autorità preposta alla
tutela del paesaggio deve essere
obbligatoriamente presa in considerazione
anche la stessa possibilità di cui dispone
l’autorità preposta alla tutela urbanistica,
e cioè la opzione zero, cioè la possibilità
di non realizzare nulla (sull’opzione zero,
v. Consiglio Stato, sez. IV, 05.07.2010, n.
4246).
Se così non fosse, non vi sarebbe
quell’autonomia tra tutela urbanistica e
tutela paesaggistica su cui è fondato il
nostro sistema giuridico, e la tutela
paesaggistica verrebbe ad essere meramente
sussidiaria a quella urbanistica.
E ciò sarebbe addirittura contraddittorio,
considerato che in realtà è solo la tutela
paesaggistica a godere di copertura
costituzionale, attraverso il richiamo
dell’art. 9 Cost., ed essa finirebbe invece
con l’essere subordinata alle valutazioni
urbanistiche che non godono della stessa
copertura.
D’altronde, la tutela paesaggistica è stata
introdotta proprio perché la tutela
urbanistica si rivela da sola inadeguata ad
assicurare nelle aree protette quel
principio di protezione sostenibile di cui
ha parlato Cons. Stato, sez. VI, 16.11.2004,
n. 7472, secondo cui “il problema del
punto di equilibrio tra realizzazione di
infrastrutture e tutela dell'ambiente e del
paesaggio e, dunque, del concreto
atteggiarsi del principio dello sviluppo
sostenibile (ora codificato dall'art.
3-quater, d.lgs. 152/2006), meglio si
chiarisce anche in relazione alla
valutazione dell'utilizzazione economica
delle aree protette; per cui non dovrebbe
parlarsi di sviluppo sostenibile ossia di
sfruttamento economico dell'ecosistema
compatibile con esigenza di protezione, ma,
con prospettiva rovesciata, di protezione
sostenibile, intendendosi con tale
terminologia evocare i vantaggi economici
che la protezione in sé assicura senza
compromissione di equilibri economici
essenziali per la collettività. Si deve
ammettere l'alterazione dei valori
ambientali solo in quanto non vi siano
alternative possibili” (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 13.07.2012 n. 1341 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Sussiste
il carattere eccezionale della
legittimazione ad agire dei consiglieri
contro gli atti del Consiglio,
legittimazione circoscritta ai casi di
effettiva lesione, in via diretta ed
immediata, dei diritti del singolo
consigliere, dovendosi in ogni caso
escludere che qualsiasi vizio formale o
sostanziale di una deliberazione consiliare
consenta l’impugnazione ai consiglieri
dissenzienti.
Non ritiene il Collegio che nel caso di
specie si configuri una concreta ed
effettiva lesione delle prerogative (c.d. “munus”),
dei consiglieri di minoranza, tenuto anche
conto del carattere eccezionale della
legittimazione ad agire dei consiglieri
contro gli atti del Consiglio,
legittimazione circoscritta ai casi di
effettiva lesione, in via diretta ed
immediata, dei diritti del singolo
consigliere, dovendosi in ogni caso
escludere che qualsiasi vizio formale o
sostanziale di una deliberazione consiliare
consenta l’impugnazione ai consiglieri
dissenzienti (cfr. Consiglio di Stato, sez.
V, 29.04.2010, n. 2457 e TAR Piemonte, sez.
I, 12.08.2009, n. 2231) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 11.07.2012 n. 1954 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: La
nozione di "bosco" deve essere
riferita non soltanto ai terreni
completamente coperti da boschi o foreste di
alto fusto, ma anche (per identità di ratio)
a tutte le aree parzialmente boscate, a
condizione che siano concretamente inserite
in un contesto con la preponderanza di
vegetazione, anche di tipo arbustivo.
Pertanto, a prescindere dalla presenza o
meno di alberi di alto fusto, non vi sono
dubbi sulla sussistenza di un vincolo
boschivo anche qualora l'area fosse coperta
solo da vegetazione qualificabile come
"macchia".
Il motivo non merita accoglimento, essendo fondato sull’errato
presupposto che la nozione, in questa sede
rilevante, di “bosco”, debba tenere in
considerazione i confini di proprietà dei
singoli mappali.
Il tenore letterale dell’art. 42, c. 3, L.R.
n. 31/2008 è invece inequivoco sul punto,
affermandosi che “i confini amministrativi,
i confini di proprietà o catastali, le
classificazioni urbanistiche e catastali, la
viabilità agro-silvo-pastorale e i corsi
d'acqua minori non influiscono sulla
determinazione dell'estensione e delle
dimensioni minime delle superfici
considerate bosco”.
Parimenti, in giurisprudenza si è affermato
che la nozione di "bosco" deve essere
riferita non soltanto ai terreni
completamente coperti da boschi o foreste di
alto fusto, ma anche (per identità di ratio)
a tutte le aree parzialmente boscate, a
condizione che siano concretamente inserite
in un contesto con la preponderanza di
vegetazione, anche di tipo arbustivo.
Pertanto, a prescindere dalla presenza o
meno di alberi di alto fusto, non vi sono
dubbi sulla sussistenza di un vincolo
boschivo anche qualora l'area fosse coperta
solo da vegetazione qualificabile come
"macchia" (C.S. Sez. IV 10.10.2011 n. 5500).
---------------
Il
corretto esercizio dei poteri comunali in
materia urbanistica ed edilizia presuppone,
in taluni casi, l’intervento di altre
autorità pubbliche preposte alla tutela di
altri valori costituzionalmente protetti,
come accade nella materia di che trattasi,
in cui gli interessi pubblici tutelati dalla
legislazione in materia di boschi e da
quella urbanistica, sono nettamente distinti
ed autonomi rispetto a quelli privatistici,
assentiti nei provvedimenti comunali (TAR
Puglia, Lecce, Sez. III 08.04.2005 n. 1981)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 11.07.2012 n. 1941 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: L’individuazione
e la localizzazione di un’opera pubblica
costituiscono manifestazione di ampia
discrezionalità amministrativa, censurabile
solo in caso di manifesta illogicità o
irrazionalità, senza contare che
costituisce “opera pubblica” quella la cui
destinazione è conforme alle finalità di
tutela degli interessi collettivi, propria
dell’ente pubblico;
inoltre la nozione di “opera pubblica” tende
ormai ad allargarsi per arrivare a
comprendere anche ogni <<intervento del
pubblico potere diretto ad ottenere,
nell'interesse della collettività, una
modificazione durevole del mondo fisico>>.
La giurisprudenza amministrativa ammette del resto che l’individuazione e
la localizzazione di un’opera pubblica
costituiscono manifestazione di ampia
discrezionalità amministrativa, censurabile
solo in caso di manifesta illogicità o
irrazionalità (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV,
09.12.2011, n. 6468; sez. V, 25.07.2011,
n. 4454 e TAR Friuli Venezia Giulia,
10.08.2011, n. 365), senza contare che
costituisce “opera pubblica” quella la cui
destinazione è conforme alle finalità di
tutela degli interessi collettivi, propria
dell’ente pubblico (cfr. TAR Campania,
Salerno, sez. I, 05.10.2011, n. 1608);
inoltre la nozione di “opera pubblica” tende
ormai ad allargarsi per arrivare a
comprendere anche ogni <<intervento del
pubblico potere diretto ad ottenere,
nell'interesse della collettività, una
modificazione durevole del mondo fisico>>
(così Consiglio di Stato, sez. II,
12.11.2008, n. 3303) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.07.2012 n. 1896 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI -
EDILIZIA PRIVATA: Trattandosi
di provvedimento intervenuto prima del mese
di gennaio del 1998, la competenza
all'emanazione di sanzioni demolitorie deve
reputarsi appartenente al Sindaco e non
all'organo dirigenziale.
Soltanto con l'art. 2, l. 16.06.1998 n. 191
si è avuta l'estensione della responsabilità
gestionale anche in capo ai responsabili dei
servizi (non dirigenti) nominati dal
sindaco, nonché l'attribuzione in capo ai
medesimi (ed alla stessa dirigenza) della
competenza specifica ad adottare i
provvedimenti di sospensione dei lavori,
abbattimento e riduzione in pristino di
competenza comunale, nonché i poteri di
vigilanza edilizia e di irrogazione delle
sanzioni amministrative previsti dalla
vigente legislazione statale e regionale in
materia di prevenzione e repressione
dell'abusivismo edilizio e
paesaggistico-ambientale; è pertanto viziata
da incompetenza l'ordinanza di demolizione
emessa dal responsabile del servizio
urbanistica prima dell'entrata in vigore
della l. n. 191, citata, e ciò anche ove
tale potere fosse contemplato dal
regolamento sull'ordinamento degli uffici e
dei servizi del comune, non potendo detta
fonte secondaria ritenersi idonea ad
innovare il regime delle competenze ancor
prima che fosse modificato l'art. 6, l.
15.05.1997 n. 127 ad opera dell'art. 2 comma
13, l. n. 191, citato.
---------------
I provvedimenti repressivi degli abusi
edilizi e l'ordine di demolizione sono atti
a contenuto vincolato, tali da non
richiedere alcun avviso di inizio del
procedimento.
L'ordine di demolizione è atto dal contenuto
dovuto, che non richiede previo avviso di
inizio del procedimento, né motivazione che
ecceda la descrizione dell'abuso.
Il Collegio rileva, in conformità all'indirizzo giurisprudenziale
consolidato, che, nel caso di specie,
trattandosi di provvedimento intervenuto
prima del mese di gennaio del 1998, la
competenza all'emanazione di sanzioni demolitorie deve reputarsi appartenente al
Sindaco e non all'organo dirigenziale
("Sotto la vigenza degli art. 51 l.
08.06.1990 n. 142, e 6 l. 15.05.1997 n. 127,
legittimamente il provvedimento che dispone
la demolizione d'ufficio di un manufatto
abusivo è adottato dal sindaco e non dal
dirigente, essendo stata la detta competenza
trasferita ai dirigenti solo ai sensi
dell'art. 2, comma 12, l. 16.06.1998 n.
191" cfr., ex plurimis, TAR Napoli
Campania sez. VI, 30.04.2008, n. 3072,
TAR Lazio Latina, 24.08.1998 , n.
664).
Del resto, soltanto con l'art. 2, l. 16.06.1998 n. 191 si è avuta l'estensione
della responsabilità gestionale anche in
capo ai responsabili dei servizi (non
dirigenti) nominati dal sindaco, nonché
l'attribuzione in capo ai medesimi (ed alla
stessa dirigenza) della competenza specifica
ad adottare i provvedimenti di sospensione
dei lavori, abbattimento e riduzione in
pristino di competenza comunale, nonché i
poteri di vigilanza edilizia e di
irrogazione delle sanzioni amministrative
previsti dalla vigente legislazione statale
e regionale in materia di prevenzione e
repressione dell'abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale; è pertanto viziata
da incompetenza l'ordinanza di demolizione
emessa dal responsabile del servizio
urbanistica prima dell'entrata in vigore
della l. n. 191, citata, e ciò anche ove
tale potere fosse contemplato dal
regolamento sull'ordinamento degli uffici e
dei servizi del comune, non potendo detta
fonte secondaria ritenersi idonea ad
innovare il regime delle competenze ancor
prima che fosse modificato l'art. 6, l. 15.05.1997 n. 127 ad opera dell'art. 2
comma 13, l. n. 191, citato (cfr., TAR
Latina Lazio sez. I, 05.06.2007, n.
412).
Ne deriva, pertanto, che il provvedimento
impugnato è stato legittimamente adottato
dal Sindaco del Comune di Robbiate.
In relazione alle altre doglianze dedotte
dal ricorrente e, in particolare, al mancato
invio da parte del Comune dell’avviso di
avvio del procedimento, il Collegio ritiene
di aderire all’orientamento consolidato
della giurisprudenza amministrativa, secondo
cui i provvedimenti repressivi degli abusi
edilizi e, nel caso di specie, l'ordine di
demolizione sono atti a contenuto vincolato,
tali da non richiedere alcun avviso di
inizio del procedimento (cfr., TAR Roma
Lazio sez. I, 10.04.2012, n. 3264).
L'ordine di demolizione è atto dal contenuto
dovuto, che non richiede previo avviso di
inizio del procedimento, né motivazione che
ecceda la descrizione dell'abuso (da ultimo,
TAR Roma Lazio sez. I, 10.04.2012, n.
3265 e Cons. Stato, sez. IV, n. 4764 del
2011)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 03.07.2012 n. 1885 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
costruzione, l'allargamento o la
modificazione di una strada, anche laddove
questi interventi vengano realizzati su una
precedente pista o strada, richiedono il
permesso di costruire, consistendo in una
trasformazione edilizia del territorio.
La realizzazione di strutture
in muratura, anche parzialmente fuori terra
con copertura, per il suo carattere di
stabilità e permanenza costituisce una vera
e propria "costruzione" in senso tecnico del
termine e deve essere ricondotto alla
categoria degli "interventi di nuova
costruzione", ai sensi dell'art. 3 lett. e),
t.u. 21.06.2001 n. 38.
Il
Collegio ritiene che la costruzione,
l'allargamento o la modificazione di una
strada, anche laddove questi interventi
vengano realizzati su una precedente pista o
strada, richiedono il permesso di costruire,
consistendo in una trasformazione edilizia
del territorio (cfr., Cassazione penale sez. III, 26.01.2011, n. 19568).
L’amministrazione ha, altresì, dimostrato
che il ricorrente ha realizzato opere in
muratura e n. 3 scale, meglio descritte
nell’informativa di reato del 12.04.1997,
corredando l’accertamento effettuato dai
tecnici comunali di chiari rilievi
fotografici.
Sul punto, la giurisprudenza, cui questo
Collegio intende dare continuità, ha
precisato che la realizzazione di strutture
in muratura, anche parzialmente fuori terra
con copertura, per il suo carattere di
stabilità e permanenza costituisce una vera
e propria "costruzione" in senso tecnico del
termine e deve essere ricondotto alla
categoria degli "interventi di nuova
costruzione", ai sensi dell'art. 3 lett. e),
t.u. 21.06.2001 n. 38 (cfr., Consiglio
di Stato sez. IV, 16.04.2012, n. 2185)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 03.07.2012 n. 1885 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Anche
in seguito all’entrata in vigore dell’art.
22-bis, d.P.R. 08.06.2001 n. 327 l’ordinanza
di occupazione d’urgenza riguarda una fase
puramente attuativa di quella riguardante la
dichiarazione di pubblica utilità,
indifferibilità ed urgenza dei lavori, con
la conseguenza che è sufficiente la
motivazione dell’ordinanza di occupazione
che si limiti a richiamare espressamente
tale dichiarazione, costituente l’unico
presupposto della stessa, e che consenta di
rilevare l’urgenza della realizzazione delle
opere previste nella dichiarazione di
pubblica utilità.
A sua volta, la dichiarazione di pubblica
utilità, conseguendo ex lege alla
approvazione del progetto definitivo (cfr.
art. 12 DPR n. 327/2001), non abbisogna di
una particolare motivazione.
In prima battuta, occorre ribadire l’orientamento
giurisprudenziale, alla cui stregua, anche
in seguito all’entrata in vigore dell’art.
22-bis, d.P.R. 08.06.2001 n. 327
l’ordinanza di occupazione d’urgenza
riguarda una fase puramente attuativa di
quella riguardante la dichiarazione di
pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza
dei lavori, con la conseguenza che è
sufficiente la motivazione dell’ordinanza di
occupazione che si limiti a richiamare
espressamente tale dichiarazione,
costituente l’unico presupposto della
stessa, e che consenta di rilevare l’urgenza
della realizzazione delle opere previste
nella dichiarazione di pubblica utilità
(Consiglio di Stato, sez. IV, 09.12.2011 n. 6468; TAR Ancona Marche sez. I,
28.10.2011 n. 807; Consiglio di Stato
sez. IV 07.09.2011 n. 5029; Consiglio
di Stato, sez. VI, 12.01.2011 n. 114).
A sua volta, la dichiarazione di pubblica
utilità, conseguendo ex lege alla
approvazione del progetto definitivo (cfr.
art. 12 DPR n. 327/2001), non abbisogna di
una particolare motivazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 02.07.2012 n. 1874 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI: Rosso
al semaforo, telefonino out. Il conducente
rischierebbe di rallentare le reazioni di
guida. Una sentenza del tribunale di Torino
interpreta in modo rigoroso il Codice della
strada.
Il divieto per
l'automobilista di utilizzare il telefonino
sussiste anche quando è fermo con semaforo
rosso.
Lo ha affermato il TRIBUNALE di Torino, Sez.
III, con la sentenza 07.06.2012 n. 3904.
Il Tribunale piemontese ha esordito
evidenziando che l'art. 173 del Codice della
strada («È vietato al conducente di far
uso durante la marcia di apparecchi
radiotelefonici ovvero di usare cuffie
sonore_») è una delle specificazioni
dell'art. 140 del medesimo Codice («Gli
utenti della strada devono comportarsi in
modo da non costituire pericolo o intralcio
per la circolazione ed in modo che sia in
ogni caso salvaguardata la sicurezza
stradale») la cui ratio è quella
di prevenire comportamenti tali da
determinare in generale la distrazione dalla
guida ed in particolare l'impegno delle mani
del guidatore in operazioni diverse da
quelle strettamente inerenti alla guida
stessa.
«L'impegno di una delle mani sul
telefonino», prosegue la sentenza, «a
prescindere dalla maggiore o minor durata
della conversazione, incide sulla sicurezza
nella circolazione del veicolo, implicando
comunque un disturbo e una maggiore e minore
deviazione della concentrazione alla guida
del conducente –non importa se più o meno
lunga– e comunque potendo implicare una
situazione di possibile pericolo, ad esempio
un ritardo nell'azionare i sistemi di guida
al momento in cui scatta il verde laddove la
conduzione del veicolo richiede tempi
psicotecnici di reazione immediati; il
divieto di utilizzo di cellulari durante la
marcia e il concetto di marcia vanno intesi
alla luce di tale ratio della norma».
«Si pensi appunto», ha aggiunto la
sentenza, «alle possibili conseguenze nel
ritardo della partenza laddove scatti il
verde semaforico e il veicolo rimanga ancora
in posizione arresto e/o non riprenda
tempestivamente la marcia, con accentuazione
del pericolo di impatto/collisione o urto
con veicolo sopravveniente».
«Il veicolo al semaforo», ha concluso
il Tribunale, «non è né fermo né in sosta
e quindi in una situazione di momentaneo
arresto che alla luce della sopra
evidenziata ratio della norma rientra però
sempre nel concetto di marcia, tenuto conto
che l'arresto dura un tempo solitamente
breve e il tempo necessario per lo scattare
del verde non giustifica una operazione del
tutto improvvida e inopportuna e pericolosa
quale il rispondere per dire che si è alla
guida o per dire altro; il conducente ha la
piena possibilità di fermarsi in luogo
apposito e consentito alla prima occasione
utile e richiamare senza rispondere mentre
attende che scatti il verde»
(articolo ItaliaOggi
del 10.08.2012). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La cancellatura sul compito non
comporta annullamento.
Non sono segni di riconoscimento che
comportano l'annullamento della prova
scritta di un concorso l'apposizione di
cancellature nell'elaborato.
Lo ha affermato il Consiglio di stato, Sez.
V, con la
sentenza 26.03.2012 n. 1740.
I giudici di palazzo Spada hanno
preliminarmente richiamato le regole che in
materia di pubblici concorsi sono
finalizzate a garantire l'anonimato delle
prove a salvaguardia della par condicio tra
i candidati. «Ciò che rileva», sottolineano,
«non è tanto l'identificabilità
dell'autore dell'elaborato attraverso un
segno a lui personalmente riferibile, quanto
piuttosto l'astratta idoneità del segno a
fungere da elemento di identificazione».
«Ciò ricorre», prosegue il Collegio,
«quando la particolarità riscontrata
assuma un carattere oggettivamente ed
incontestabilmente anomalo rispetto alle
ordinarie modalità di estrinsecazione del
pensiero e di elaborazione dello stesso in
forma scritta, in tal caso a nulla rilevando
che in concreto la Commissione o singoli
componenti di essa siano stati, o meno, in
condizione da riconoscere effettivamente
l'autore dell'elaborato scritto».
«Ritiene il Collegio», conclude la
sentenza, «che l'apposizione di
cancellatura (peraltro non isolata, ma in un
certo numero) a penna nell'elaborato è fatto
riconducibile ad una incertezza usuale nei
candidati, rilevabile nella maggior parte
degli elaborati di una selezione concorsuale
e non connotata da un carattere di anomalia
tale da poter mettere la Commissione o un
suo componente in condizione di riconoscerne
l'autore: per questo, essa non è
configurabile come segno di riconoscimento»,
sentenza, «alle possibili conseguenze nel
ritardo della partenza laddove scatti il
verde semaforico e il veicolo rimanga ancora
in posizione arresto e/o non riprenda
tempestivamente la marcia, con accentuazione
del pericolo di impatto/collisione o urto
con veicolo sopravveniente».
«Il veicolo al semaforo», ha concluso
il Tribunale, «non è né fermo né in sosta
e quindi in una situazione di momentaneo
arresto che alla luce della sopra
evidenziata ratio della norma rientra però
sempre nel concetto di marcia, tenuto conto
che l'arresto dura un tempo solitamente
breve e il tempo necessario per lo scattare
del verde non giustifica una operazione del
tutto improvvida e inopportuna e pericolosa
quale il rispondere per dire che si è alla
guida o per dire altro; il conducente ha la
piena possibilità di fermarsi in luogo
apposito e consentito alla prima occasione
utile e richiamare senza rispondere mentre
attende che scatti il verde»
(articolo ItaliaOggi
del 10.08.2012). |
APPALTI: Stretta
sui requisiti di moralità.
Fuori dalla gara pubblica il partecipante
che dice il falso. Secondo il Consiglio di
stato è irrilevante che l'omissione non
alteri il corso dell'appalto.
Il partecipante di una gara pubblica
chiamato a dichiarare i propri requisiti di
moralità professionale deve essere
immediatamente escluso se nella
dichiarazione omette informazioni o dice il
falso. Inoltre, non si può addurre a propria
scusa il fatto che il falso sia innocuo,
cioè non sia tale da alterare il corso della
gara.
Lo ha stabilito la
sentenza
16.03.2012 n. 1471, emessa dalla Sez.
III del
Consiglio di Stato.
Nel caso concreto una società è stata
esclusa da una gara indetta da una Asl
piemontese per l'affidamento dei servizi di
pulizia ed accessori.
Secondo l'amministrazione, infatti, la
gareggiante avrebbe omesso alcune
informazioni previste dall'art. 38 del
codice dei contratti pubblici (decreto
legislativo n. 163 del 2006), motivo per il
quale la gara, per la candidata, è finita
prima del tempo.
L'esclusa ha quindi deciso di rivolgersi al
Tribunale amministrativo per la regione
Piemonte, il quale, tuttavia, alla luce
delle indicazioni mancanti nella domanda di
partecipazione alla gara, ha confermato la
decisione assunta dalla Asl.
Sulla vicenda si è pronunciato anche il
Consiglio di stato. La società si è rivolta
a Palazzo Spada affermando l'erroneità della
sentenza nella parte in cui non ha ritenuto
che i dati mancanti nella domanda di
partecipazione non avrebbero inciso
sull'andamento della gara, data la loro
irrilevanza. In parole semplici, la
ricorrente sostiene che si sarebbe trattato
di un «falso innocuo», una terminologia
questa ben conosciuta in ambito penalistico.
I giudici romani non hanno condiviso la tesi
avanzata dalla società, dimostrando di
aderire alla diversa tesi per la quale
nell'ambito delle procedure a evidenza
pubblica il «falso innocuo» non può trovare
applicazione. Nella sentenza viene
sottolineato come il falso possa dirsi tale
solo qualora non sia in grado di incidere,
neppure minimamente, sugli interessi
tutelati dall'ordinamento. Ciò non può
accadere nelle procedure ad evidenza
pubblica, dove la completezza delle
dichiarazioni rappresenta, già per sé
medesima, un «valore da perseguire».
Conseguentemente l'amministrazione, al fine
di evitare inutili perdite di tempo, deve
poter scegliere immediatamente se un
soggetto può partecipare alla gara oppure
no.
L'effetto della sentenza è quello di rendere
più facile l'esclusione dei partecipanti
alle gare indette dalle stazioni appaltanti.
L'automatismo dell'esclusione è giustificato
dall'importanza dei requisiti di moralità
professionale, il cui ruolo è quello di far
emergere aspetti negativi della vita
professionale dei gareggianti
(articolo ItaliaOggi
del 09.08.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
APPALTI: Le
misure sanzionatorie della comunicazione
all’Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici e l’escussione della cauzione
disposta dal comune per violazione dell’art.
48 del codice approvato con il d.l.vo n.
163/2006 sono applicabili con riguardo al
mancato possesso sia dei requisiti generali
che di quelli speciali.
Le sanzioni di cui all’art. 48 del codice
dei contratti pubblici sono comunque
applicabili nel caso di inosservanza del
termine assegnato indipendentemente dalla
tipologia dei requisiti non dimostrati come
affermato dalla giurisprudenza secondo la
quale “in caso di mancata prova del possesso
dei requisiti prescritti per la
partecipazione alla gara, conseguono
automaticamente, una volta scaduto il
termine, non solo l’esclusione dalla gara,
ma anche l’incameramento della cauzione e la
segnalazione all’Autorità di vigilanza,
senza distinguere tra inadempimento formale
(errore od altro) o inadempimento
sostanziale (mancanza dei requisiti per
partecipare alla gara)".
Con il primo motivo di gravame la
ricorrente afferma di non aver ricevuto il
fax del 21.07.2009 e contesta l’indirizzo
giurisprudenziale in base al quale l’onere
della prova negativa della ricezione grava
sul destinatario, ritenendolo non conforme
ai principi di giustizia ed equità.
Con la seconda censura la Vetrucci
s.r.l. contesta il computo del termine
perentorio di 10 giorni assegnato dal Comune
per la presentazione della documentazione
attestante i requisiti richiamando il
principio secondo il quale nel calcolo dei
termini a giorni il “dies a quo non
computatur”; il termine, nel caso di
specie, scadeva pertanto il 31 luglio e non
il 30 luglio, come affermato dal Comune; da
tutto ciò fa discendere i vizi di violazione
degli artt. 155 del c.p.c. e 2963 c.c.
nonché di eccesso di potere.
Con il terzo motivo di impugnativa la
ricorrente contesta la legittimità della
comunicazione all’Autorità per la vigilanza
sui contratti pubblici e l’escussione della
cauzione disposta dal comune per violazione
dell’art. 48 del codice approvato con il
d.l.vo n. 163/2006, il quale ammette
l’adozione di tali misure solo nel caso in
cui non venga comprovato il possesso dei
requisiti di capacità economico-finanziaria
e tecnico-organizzativa.
Nel caso in esame, sostiene l’interessata,
il Comune resistente con la nota del
21.07.2009 aveva chiesto di comprovare il
possesso di requisiti di carattere generale
e non anche dei predetti requisiti speciali
sopra indicati, cosicché non risulterebbero
giustificate le misure sanzionatorie
adottate; pertanto, ove le norme del bando
dovessero interpretarsi in maniera opposta
alla previsione del citato art. 48,
sarebbero da considerare a loro volta
illegittime e, conseguentemente, viziati
anche gli atti adottati in esecuzione di
tali norme.
Con il quarto ed ultimo motivo di ricorso
la società Vetrucci s.r.l. ribadisce di aver
prodotto in data 04.08.2007 la
documentazione attestante il possesso dei
requisiti generali richiesti, afferma che il
termine per la presentazione della
documentazione non viene definito come
perentorio dal più volte menzionato art. 48
e che, sotto quest’ultimo profilo, la lex
specialis del bando deve essere comunque
considerata illegittima dal momento che
prevede, in contrasto con lo stesso art. 48,
la produzione di una documentazione diversa
da quella indicata da detta norma.
Il Comune di Zibido San Giacomo ha prodotto,
con la nota n. 1792 del 04.02.2010 di
trasmissione dei documenti relativi al
ricorso, anche una memoria controdeduttiva
redatta dall’avv. Marco Locali con la quale
contesta punto per punto le censure avanzate
dalla ricorrente sostenendo:
a)
quanto alla prima censura, che è in possesso
della ricevuta del telefax attestante la
ricezione da parte della ricorrente e che
dopo la data del 21.07.2009 ha pubblicato
sul sito web del Comune l’elenco delle 8
imprese sottoposte a verifica ai sensi
dell’art. 48 del d.l.vo n. 163/2006, tra le
quali è compresa anche la ricorrente;
b)
quanto alla seconda doglianza, ritiene
comunque infondati i rilievi esposti
osservando come, in ogni caso, la ricorrente
abbia prodotto la documentazione solo in
data 04.08.2009 (e quindi in ogni caso dopo
la scadenza del termine di 10 giorni
assegnati) e ciò anche a voler considerare
il mero errore materiale relativo alla
indicazione della data del 30 luglio nella
lettera del 21.07.2009 inviata alla società
ricorrente. Lo stesso Comune ribadisce il
carattere perentorio del termine anche con
richiamo alla giurisprudenza del Consiglio
di Stato (ex multis Consiglio di
Stato, Sez. V, n. 328/2007 e Sezione VI n.
7294/2004);
c)
con riferimento al terzo motivo di
impugnativa il Comune di Zibido San Giacomo
sottolinea l’insussistenza della censura
dedotta facendo presente che le misure
sanzionatorie in questione sarebbero
applicabili con riguardo al mancato possesso
sia dei requisiti generali che di quelli
speciali.
Conferma che le sanzioni di cui all’art. 48
del codice dei contratti pubblici sono
comunque applicabili nel caso di
inosservanza del termine assegnato
indipendentemente dalla tipologia dei
requisiti non dimostrati come affermato
dalla giurisprudenza secondo la quale “in
caso di mancata prova del possesso dei
requisiti prescritti per la partecipazione
alla gara, conseguono automaticamente, una
volta scaduto il termine, non solo
l’esclusione dalla gara, ma anche
l’incameramento della cauzione e la
segnalazione all’Autorità di vigilanza,
senza distinguere tra inadempimento formale
(errore od altro) o inadempimento
sostanziale (mancanza dei requisiti per
partecipare alla gara" (v. Consiglio di
Stato, Sez. VI, 11.11.2004, n. 7294);
d)
da ultimo, in ordine al quarto motivo di
gravame, il Comune resistente ribadisce le
argomentazioni svolte al riguardo e chiede
che il ricorso sia rigettato, in quanto
inammissibile e infondato (Consiglio di
Stato, Sez. I,
parere 03.03.2012 n. 1052 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: È
abuso assumere la figlia.
Il dirigente comunale deve astenersi
dall'adottare l'atto amministrativo con il
quale si procede all'assunzione -per
chiamata diretta- dei suoi prossimi
congiunti. In mancanza commette il reato di
abuso d'ufficio.
Lo ha stabilito la sentenza 20.02.2012 n. 6705 emessa dalla Corte di
Cassazione.
Nel caso di specie il dirigente comunale,
responsabile del servizio affari generali e
personale, al fine di coprire un posto da
vigile urbano per il periodo estivo, ha
adottato una determinazione con la quale ha
assunto per chiamata diretta la propria
figlia. Al contempo ha escluso un'altra
candidata, nonostante questa avesse già
maturato una breve esperienza come vigile
urbano.
Sia il tribunale di primo grado che la Corte
d'appello hanno condannato il dirigente a
quattro mesi di reclusione per il reato di
abuso d'ufficio, previsto all'articolo 323
del codice penale. Il comportamento
dell'imputato, secondo i giudici di merito,
oltre a violare l'obbligo di astensione per
il conflitto di interesse, ha determinato un
ingiusto vantaggio per la figlia, che si è
vista balzata al primo posto della
graduatoria nonostante il suo punteggio
fosse in grado di collocarla solo al quarto
posto.
Il dirigente ha cercato di difendersi
dicendo che l'assunzione non aveva
danneggiato il Comune dato che era pur
sempre necessario coprire un posto da vigile
per il periodo estivo. Inoltre, sempre
secondo la difesa dell'imputato, la sua
decisione era stata confermata dagli organo
politici, il che valeva a ritenerla
legittima.
La Corte di cassazione, adita in un ultima
istanza, ha confermato la sentenza della
corte d'appello. Per i giudici romani,
infatti, la condotta del dirigente ha
integrato tutti gli elementi previsti dalla
legge per il reato di abuso d'ufficio. Viene
spiegato che l'articolo 323 del codice
penale è stato introdotto per impedire che
il funzionario pubblico, nello svolgimento
della propria funzione o servizio violi il
dovere di curare gli interessi
dell'amministrazione pubblica e favorisca se
stesso o i suoi prossimi congiunti ovvero
arrechi danno ad altri.
Nel caso di specie il dirigente non si è
astenuto dal conflitto di interessi che lo
vedeva coinvolto e, anzi, ha
intenzionalmente deciso di avvantaggiare la
figlia
(articolo ItaliaOggi
del 09.08.2012). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Nel
procedimento amministrativo, è necessario
che il contenuto del provvedimento
conclusivo di diniego si inscriva nello
schema delineato dal preavviso di rigetto,
il quale deve contenere la motivazione della
decisione in nuce dell’Amministrazione,
dovendosi ritenere precluso
all'Amministrazione fondare il diniego
definitivo su ragioni del tutto nuove, non
enucleabili dalla motivazione dell’atto
endoprocedimentale, frustrando così
irrimediabilmente la funzione partecipativa
e di dialogo che la legge assegna all’atto
di preavviso.
---------------
L’istituto del preavviso di rigetto,
previsto dall’art. 10-bis, l. 07.08.1990 n.
241, introdotto dalla l. 11.02.2005 n. 15,
ha portata generale e trova quindi
applicazione in tutti i procedimenti a
istanza di parte.
Tuttavia la sua omissione non determina
comunque l’annullabilità del provvedimento
qualora trovi applicazione il disposto
dell’art. 21-octies l. 07.08.1990 n. 241,
per il quale non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di
norme sul procedimento o sulla forma degli
atti qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto
essere diverso da quello concretamente
adottato.
“Nel procedimento amministrativo, è
necessario che il contenuto del
provvedimento conclusivo di diniego si
inscriva nello schema delineato dal
preavviso di rigetto, il quale deve
contenere la motivazione della decisione in
nuce dell’Amministrazione, dovendosi
ritenere precluso all'Amministrazione
fondare il diniego definitivo su ragioni del
tutto nuove, non enucleabili dalla
motivazione dell’atto endoprocedimentale,
frustrando così irrimediabilmente la
funzione partecipativa e di dialogo che la
legge assegna all’atto di preavviso”
(TAR Lazio Roma, sez. II, 27.11.2009, n.
11946).
---------------
Del resto, se è
vero che all’affermazione secondo cui: “L’istituto
del preavviso di rigetto, previsto dall’art.
10-bis, l. 07.08.1990 n. 241, introdotto
dalla l. 11.02.2005 n. 15, ha portata
generale e trova quindi applicazione in
tutti i procedimenti a istanza di parte”
si fa seguire, in giurisprudenza, la
precisazione per la quale: “Tuttavia la
sua omissione non determina comunque
l’annullabilità del provvedimento qualora
trovi applicazione il disposto dell’art.
21-octies l. 07.08.1990 n. 241, per il quale
non è annullabile il provvedimento adottato
in violazione di norme sul procedimento o
sulla forma degli atti qualora, per la
natura vincolata del provvedimento, sia
palese che il suo contenuto dispositivo non
avrebbe potuto essere diverso da quello
concretamente adottato” (TAR Piemonte
Torino, sez. I, 14.01.2011, n. 16), tuttavia
nella specie tale principio non soccorre,
posto che non può discorrersi di una natura
vincolata, bensì senz’altro discrezionale,
del provvedimento finale in questione
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza
26.01.2012 n. 146 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Per distinte sentenze servono
distinti appelli. L'appellante non può con
un unico ricorso impugnare distinte sentenze
del Giudice amministrativo.
Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez.
IV, con la
sentenza 18.11.2011 n. 6102.
«È del tutto pacifico in giurisprudenza»,
hanno sostenuto i giudici di Palazzo Spada,
«come non sia valutabile processualmente
l'appello, cumulativamente prodotto avverso
più sentenze, in quanto è solo al giudice
amministrativo di secondo grado che spetta
il potere di riunire appelli contro più
sentenze in funzione sia dell'economicità e
della speditezza dei giudizi, come pure per
prevenire la possibilità di contrasto tra
giudicati».
«Ne deriva», ha concluso il Collegio,
«che l'iniziativa dell'appellante, intesa
a riunire cause diverse mediante unico
appello contro più sentenze si scontra con
l'attribuzione positiva di tale potere al
giudice, al quale verrebbe così sottratto il
governo dei giudizi, venendo a porre le
premesse per la creazione di situazioni
processuali confuse o inestricabili (così,
da ultimo, Consiglio di stato, sez. IV,
21.05.2010, n. 3232)»
(articolo ItaliaOggi
del 10.08.2012). |
ATTI AMMINISTRATIVI: È
eliminabile in corso di giudizio il vizio
nel provvedimento della p.a.. La Pubblica
amministrazione anche in pendenza di
giudizio può eliminare il vizio di cui è
inficiato il provvedimento. Il Consiglio di
stato dissipa ogni dubbio sull'applicazione
della legge 249 del 1968.
Lo ha affermato il Consiglio di stato con la
sentenza 14.10.2011 n. 5538,
dissipando ogni dubbio derivante dal
disposto dell'art. 6 della legge 18.03.1968
n. 249 che prevede «alla convalida degli
atti viziati di incompetenza può provvedersi
anche in pendenza di gravame in sede
amministrativa e giurisdizionale».
Sulla base di questa disposizione infatti la
giurisprudenza anteriore all'introduzione
nel nostro ordinamento dell'art. 21-nonies
della legge 241/1990 («È fatta salva la
possibilità di convalida del provvedimento
annullabile, sussistendone le ragioni di
interesse pubblico ed entro un termine
ragionevole») riconosceva la possibilità
di convalida in corso di giudizio solo
quando il provvedimento era viziato da
incompetenza (Cons. di stato, sez. IV
12.10.2000 n. 5322, IV sez. 14.12.2004 n.
4941).
Dopo questa introduzione sussistevano ancora
perplessità in dottrina e giurisprudenza,
perplessità adesso fugate dal pronunciamento
dei giudici di Palazzo Spada.
«La convalida», esordisce il
Collegio, «sotto un profilo spiccatamente
dottrinario, è figura del sistema
amministrativo facente parte del più ampio
fenomeno dell'autotutela, potere in virtù
del quale la p.a. ha la facoltà di sanare i
propri atti da vizi di legittimità, in
applicazione, come evidenziato dalla
giurisprudenza (Consiglio di stato, sez. IV
09/07/2010 n. 4460), del principio di
economia dei mezzi giuridici e di
conservazione degli atti».
«Essa consiste», prosegue la
sentenza, «in una manifestazione di
volontà della pubblica amministrazione
rivolta ad eliminare il vizio dell'atto
(originariamente) invalido, in genere per
vizi formali o di procedura o per
incompetenza».
«L'ammissibilità della convalida di un
atto nelle more del giudizio», puntualizzano
i giudici di Palazzo Spada, «è da ritenersi
ormai fuor di dubbio alla luce della novella
recata dall'art. 21-nonies della legge n.
241/1990, norma che ha previsto la
possibilità, in generale, di convalida
dell'atto per ragioni di pubblico interesse
ed entro un ragionevole lasso temporale
senza che il legislatore abbia previsto come
causa preclusiva la pendenza di un giudizio».
«Nella specie, allora», conclude il
Collegio, «si è in presenza di un
provvedimento nuovo, ma che si collega
all'atto convalidato al fine di mantenerne
fermi gli effetti fin dal momento in cui
questo venne emanato (efficacia ex tunc),
con il preciso scopo di operare una
sanatoria dell'atto viziato nel momento
storico di avvenuta instaurazione della
controversia giudiziaria, senza che in ciò
possa rinvenirsi una qualsiasi volontà di
riesercizio di un'attività discrezionale e/o
di amministrazione attiva esercitata per la
prima volta»
(articolo ItaliaOggi
del 10.08.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI: La
p.a. rispetti la parola.
Anche la p.a. deve rispettare la parola data.
L'impegno assunto per la vendita di un
terreno da parte della pubblica
amministrazione deve essere rispettato. Tale
regola vale anche nel caso in cui il valore
del terreno subisca un'impennata per effetto
di una modifica del piano regolatore
generale della regione.
Lo ha stabilito il TAR Calabria-Catanzaro, Sez.
I, con la
sentenza
19.09.2011 n. 1234.
La controversia vede protagonisti due
cittadini del comune di Trebisacce contro la
filiale calabrese dell'Agenzia del demanio.
Nel 1999 l'Agenzia bandisce la vendita di un
territorio appartenente al patrimonio
disponibile dello stato. Il prezzo è
stracciato. Si parla di 60 mila delle
vecchie lire, l'equivalente di 31 mila euro.
I due cittadini vincono la gara e
l'amministrazione emana il provvedimento di
aggiudicazione. Pronti a stipulare il
contratto di vendita, contattano più volte
l'Agenzia per sapere come concludere
l'affare.
Nel mentre, però, capita un evento
inaspettato. Una variante al piano
regolatore generale della regione muta la
destinazione urbanistica del terreno appena
aggiudicato. Il valore sale vertiginosamente
e l'amministrazione inizia a riflettere se
le convenga ancora vendere il suo terreno.
Decide, quindi, di chiedere un consiglio
alla Direzione gestione patrimonio
dell'Agenzia del demanio di Roma la quale
sconsiglia la vendita.
Conseguentemente l'Agenzia calabrese annulla
l'aggiudicazione mediante un provvedimento
di revoca in autotutela. Le trattative
vengono bloccate e nessun contratto viene
firmato. I due cittadini non accettano il
comportamento dell'amministrazione e
decidono di rivolgersi al Tar.
L'amministrazione cerca di difendersi
affermando che i motivi che l'avevano spinta
a cambiare idea risiedevano nel mancato
ritrovamento della relazione di stima negli
atti del procedimento e al rinvenimento,
successivamente all'aggiudicazione, di un
manufatto abusivo proprio sul terreno
bandito.
Queste difese, tuttavia, non trovano
approvazione e il Tar, consapevole della
vera ed unica ragione che ha portato
l'amministrazione a cambiare idea, annulla
il provvedimento di revoca e ordina alla
stessa di rispettare la parola data. Per il
giudice la p.a. non può tirarsi indietro per
il semplice fatto che il valore del terreno
abbia subito un aumento di valore in attesa
della stipulazione del contratto di vendita.
E il prezzo stabilito al momento
dell'aggiudicazione deve essere il medesimo
del successivo contratto
(articolo ItaliaOggi
del 09.08.2012). |
PUBBLICO IMPIEGO: Scudo da infortunio.
Il lavoratore non si può licenziare. Il
Consiglio di stato in una controversia alle Poste.
Il lavoratore assunto che si infortuna
durante il periodo di prova non può essere
licenziato in tronco dall' amministrazione.
È quanto stabilito dal Consiglio di Stato,
Sez. VI,
con la
sentenza
05.09.2011 n. 4988 chiamato a
risolvere una controversia tra un lavoratore
neo assunto e Poste Italiane spa.
Il lavoratore, entrato regolarmente in
servizio (ma ancora in prova), dopo pochi
giorni si infortuna gravemente. La
menomazione che ne deriva è permanente e
comporta l'inidoneità fisica a ricoprire la
qualifica di operatore di esercizio (nello
specifico, categoria IV, portalettere). In
un primo momento l'amministrazione decide di
collocare il lavoratore in aspettativa per
motivi di salute proponendogli di
declassarlo alla categoria immediatamente
inferiore su richiesta esplicita del
lavoratore (III categoria, usciere capo).
Quest'ultimo accetta e chiede di essere
declassato per poter continuare a lavorare
nonostante la forzata convivenza con il suo
nuovo handicap. Tuttavia l'amministrazione
cambia improvvisamente idea e decide di
risolvere il contratto di lavoro sul
presupposto che fosse venuta meno l'idoneità
fisica a svolgere il ruolo per il quale il
lavoratore era stato originariamente assunto
e sottoposto a prova.
A questo punto il lavoratore presenta
un'istanza per essere riassunto ai sensi
dell'art. 132 del dpr n. 3 del 1957 ma
questa viene rigettata. Sarà il Tribunale
amministrativo della Regione Puglia, con una
motivazione ripresa dal Consiglio di stato,
a dare ragione al lavoratore. Vengono,
infatti, annullati sia il provvedimento di
risoluzione unilaterale del contratto di
lavoro sia il successivo provvedimento con
cui è stata negata la riassunzione del
lavoratore.
Poste Italiane spa non ci sta e la lite
finisce davanti al Consiglio di stato.
Confermando la sentenza di primo grado, i
giudici di Palazzo Spada ricordano i limiti
del giudizio durante il periodo di prova.
Durante questa fase del rapporto di lavoro
l'amministrazione deve limitarsi a valutare
solo le capacità professionali e i requisiti
morali del lavoratore. Non il suo stato di
idoneità fisica. Quest'ultimo, infatti,
viene valutato solo al momento della
scadenza della domanda di partecipazione al
concorso e nella fase immediatamente
precedente alla messa in servizio. In
pratica il lavoratore che non avesse
l'idoneità fisica non potrebbe nemmeno
superare il concorso pubblico.
Quanto al destino del lavoratore che si
infortuna durante il periodo di prova,
aggiungono i giudici, la legge prevede
un'apposita procedura tesa a riconoscere
alcune garanzie allo stesso (disciplinata
nel dpr n. 3 del 1957). La procedura deve
attivarsi solo qualora vi sia
l'impossibilità di ricollocare il lavoratore
in servizio nella medesima categoria o in
quella immediatamente inferiore e ha la
finalità di pervenire ad una specifica
dispensa per motivi di salute e non già a un
licenziamento in tronco
(articolo ItaliaOggi
del 09.08.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
11 del DPR n. 380/2001 stabilisce
espressamente che il PdC non comporta
limitazione dei diritti di terzi e che il
rilascio del permesso è fatto non solo al
proprietario, ma anche a “chi abbia titolo
per richiederlo”, ovvero per tutte le
posizioni civilisticamente utili per
esercitare un’attività costruttiva (cd.
disponibilità giuridica ad aedificandum),
che è possibile individuare anche in
soggetti che vantano altra qualificata
relazione legittimante il titolo edilizio,
diversa dalla proprietà esclusiva, quali i
contitolari del diritto dominicale,
l’enfiteuta, l’usufruttuario, il titolare
del diritto di superficie, d’uso e
d’abitazione, fino al promissorio acquirente
in possesso del godimento dell’immobile.
Sulla base di questa considerazione, il
comproprietario condominiale ha il diritto
ad utilizzare il suo titolo reale parziario,
al pari di tutti gli altri condomini, né
l’Amministrazione è tenuta a fare alcuna
disamina puntuale dei rapporti tra gli
stessi condomini, essendo sufficiente la
sussistenza di un qualificato collegamento
soggettivo tra chi fa l’istanza ed il bene
oggetto dell’edificazione.
L’Amministrazione dà atto, nel provvedimento
impugnato, della concessione edilizia del
1980 (n. 831) e della proprietà esclusiva
del sottotetto, invocando per la copertura
comune l’art. 1117 c.c., stante la
realizzazione di aperture sul tetto, e,
quindi, anche il consenso del e/o dei
comproprietari, ai sensi dell’art. 11 del
DPR. n. 380/2001.
L’art. 1117 c.c. indica in modo
esemplificativo le parti comuni di un
condominio, tra le quali i “tetti”;
trattasi di una norma generale, ma non
assoluta, superabile dalle situazioni
obiettive e strutturali che dimostrino l’uso
e/o l’esclusivo godimento di tale parte
dell’immobile, che possono far venir meno le
situazioni di contitolarità necessaria,
potendo la particolarità della destinazione,
vincere la stessa attribuzione legale (Cass.
Civ. II, n. 14885/06.07.2011).
Tale aspetto non è stato considerato dal
Comune, pur avendo parte ricorrente
evidenziato che l’unico accesso per il tetto
è dalla loro abitazione, prospettando
un’usucapione ventennale del tetto rifatto
nel 1980, a spese esclusive del loro dante
causa.
Non è compito dell’Amministrazione accertare
l’avvenuta usucapione, ma non lo è neppure
quello di tutelare i diritti di
terzi-condomini, che si ritengono lesi nella
loro proprietà o godimento.
L’art. 11 del DPR n. 380/2001, infatti,
stabilisce espressamente che il PdC non
comporta limitazione dei diritti di terzi e
che il rilascio del permesso è fatto non
solo al proprietario, ma anche a “chi
abbia titolo per richiederlo”, ovvero
per tutte le posizioni civilisticamente
utili per esercitare un’attività costruttiva
(cd. disponibilità giuridica ad
aedificandum), che è possibile
individuare anche in soggetti che vantano
altra qualificata relazione legittimante il
titolo edilizio, diversa dalla proprietà
esclusiva, quali i contitolari del diritto
dominicale, l’enfiteuta, l’usufruttuario, il
titolare del diritto di superficie, d’uso e
d’abitazione, fino al promissorio acquirente
in possesso del godimento dell’immobile.
Sulla base di questa considerazione, il
comproprietario condominiale ha il diritto
ad utilizzare il suo titolo reale parziario,
al pari di tutti gli altri condomini, né
l’Amministrazione è tenuta a fare alcuna
disamina puntuale dei rapporti tra gli
stessi condomini (C.S., IV, n. 2546/2010),
essendo sufficiente la sussistenza di un
qualificato collegamento soggettivo tra chi
fa l’istanza ed il bene oggetto
dell’edificazione (C.S., IV, n.
3505/08.06.2011).
Nel PdC n. 184/2007 (recupero abitativo del
sottotetto, ai sensi dell’art. 85 LRA n.
15/2004) il Comune ha accertato che il
fabbricato è in comproprietà, per la metà,
dei due fratelli Totano Nicola e Domenico;
ciò stante la motivazione dell’annullamento
in autotutela risulta essere in palese
contraddizione con il citato PdC (TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza
01.09.2011
n. 504 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
titolare di un diritto di comodato è
legittimato alla richiesta di titoli edilizi
compatibili con l'effettiva disponibilità
del bene e con l'entità della trasformazione
oggetto della richiesta.
Il titolare di un diritto di comodato è
legittimato alla richiesta di titoli edilizi
compatibili con l'effettiva disponibilità
del bene e con l'entità della trasformazione
oggetto della richiesta (cfr. C.d.S., sez.
V, 19.09.2008 , n. 4518; TAR Campania,
Salerno, sez. II, n. 4254 del 2009)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 20.07.2011 n. 4370 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Va
risarcito il danno da tardiva assunzione.
Il vincitore di un concorso pubblico che non
viene immediatamente assunto dall'amministrazione ha diritto al risarcimento
del danno per l'inutile attesa affrontata.
Lo ha stabilito la
sentenza
30.06.2011 n. 3934 emessa dalla Sez. V
del Consiglio di Stato chiamato
a risolvere una lite sorta tra una neo
vincitrice di un concorso pubblico per
l'assunzione di cinquanta vigili urbani e il
Comune di Pozzuoli.
Tutta in salita, infatti, è la strada
percorsa dalla vincitrice del concorso per
vedersi finalmente inserita nel ruolo di
vigile urbano. In un primo momento
l'amministrazione decide di escluderla dalla
procedura, ma il Tribunale amministrativo
per la Campania annulla il provvedimento di
esclusione è ordina alla p.a. di assumere la
nuova dipendente. La decisione viene
confermata anche in appello dal Consiglio di
stato. Ma il Comune di Pozzuoli non ne vuole
proprio sapere è continua a prendere tempo.
Viene allora azionato un giudizio di
ottemperanza che porterà, per giunta, alla
nomina di un commissario ad acta. Finalmente
l'assunzione avviene. Ora però è il momento
di chiedere il risarcimento dei danni per il
tempo impiegato nell'attesa ingiustificata.
Così la neo assunta decide di rivolgersi per
la seconda volta al Tribunale amministrativo
per la Regione Campania. Quest'ultimo,
tuttavia, dichiara il ricorso inammissibile
per questioni procedurali. Scatta il ricorso
in appello al Consiglio di stato che viene
dichiarato, questa volta, ammissibile e
fondato. I giudici amministrativi
riconoscono in pieno il danno patito dalla
ricorrente e la responsabilità
dell'amministrazione. Non è ammissibile,
dice Palazzo Spada, che per ottenere la
meritata assunzione si debbano affrontare
ben tre giudizi e la nomina di un
commissario ad acta. Facendo i
calcoli l'assunzione è avvenuta dopo oltre
sei anni dalla prima sentenza del Tar
Campania; dopo oltre due anni dalla sentenza
del Consiglio di stato che ha confermato la
decisione del giudice di primo grado e dopo
otto mesi dalla sentenza di ottemperanza che
ha ordinato al Comune di procedere in tal
senso.
Il danno quantificato in via equitativa
viene stabilito in una somma pari all'80%
delle retribuzioni che sarebbero state
corrisposte nel periodo decorrente tra la
data della mancata assunzione a quella
dell'effettivo collocamento in servizio.
Viene anche ordinata la regolarizzazione
della posizione contributiva e previdenziale
di quel periodo, la rivalutazione monetaria
e gli interessi compensativi al tasso
legale. Nessun risarcimento viene, tuttavia,
riconosciuto per il danno esistenziale.
La frustrazione derivante dall'impossibilità
di cercare un altro impiego nell'attesa di
iniziare quello sicuro non può, secondo il
Consiglio di stato, essere direttamente
ricondotta al ritardo della p.a. ma,
piuttosto, alle difficoltà che affliggono il
mercato del lavoro
(articolo ItaliaOggi
del 09.08.2012). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
procedimento di rilascio dei titoli edilizi,
l'Amministrazione ha il potere ed il dovere
di verificare l'esistenza in capo al
richiedente di un idoneo titolo di godimento
sull'immobile interessato dal progetto di
trasformazione urbanistica, per cui, in caso
di opere che vadano ad incidere sul diritto
di altri comproprietari (quali le opere
edilizie interessanti porzioni condominiali
comuni), è legittimo esigere il consenso
degli stessi o pretendere la produzione
della dichiarazione di assenso
dell'amministrazione condominiale anche
nelle ipotesi di autorizzazioni in
sanatoria, in quanto il contitolare del bene
può essere estraneo all'abuso ed avere un
interesse contrario alla sanatoria di opere
che potrebbero risolversi in suo danno.
Non è seriamente contestabile che nel
procedimento di rilascio dei titoli edilizi
l'Amministrazione abbia il potere ed il
dovere di verificare l'esistenza, in capo al
richiedente, di un idoneo titolo di
godimento sull'immobile, interessato dal
progetto di trasformazione urbanistica,
trattandosi di una attività istruttoria che
non è diretta, in via principale, a
risolvere i conflitti di interesse tra le
parti private in ordine all'assetto
proprietario degli immobili interessati, ma
che risulta finalizzata, più semplicemente,
ad accertare il requisito della
legittimazione del richiedente.
Pertanto, la funzione autorizzatoria
dell'Amministrazione richiede un livello
minimo di istruttoria che comprende anche
l'acquisizione di tutti gli elementi
sufficienti a dimostrare la sussistenza di
un qualificato collegamento soggettivo tra
chi propone l'istanza e il bene giuridico
oggetto dell'autorizzazione, senza che
l'esame del titolo di godimento operato
dalla Pubblica Amministrazione costituisca
un'illegittima intrusione in ambito
privatistico; per cui, in definitiva,
legittimamente l'Amministrazione, ove
accerti che l'intervento edilizio interessi
parti comuni dell'edificio, ben può
subordinare il rilascio del titolo edilizio
alla previa assunzione del consenso dei
comproprietari per la parte di intervento
che interessa tali parti comuni.
Si è infatti anche di recente precisato che
in base all'art. 11 del D.P.R. 06.06.2001,
n. 380, il permesso di costruire "è
rilasciato al proprietario o a chi ne abbia
titolo".
Ora, interpretando tale normativa (che
ricalca quella precedentemente vigente), la
giurisprudenza amministrativa ha
costantemente chiarito che nel procedimento
di rilascio dei titoli edilizi,
l'Amministrazione ha il potere ed il dovere
di verificare l'esistenza in capo al
richiedente di un idoneo titolo di godimento
sull'immobile interessato dal progetto di
trasformazione urbanistica, per cui, in caso
di opere che vadano ad incidere sul diritto
di altri comproprietari (quali le opere
edilizie interessanti porzioni condominiali
comuni), è legittimo esigere il consenso
degli stessi o pretendere la produzione
della dichiarazione di assenso
dell'amministrazione condominiale anche
nelle ipotesi di autorizzazioni in
sanatoria, in quanto il contitolare del bene
può essere estraneo all'abuso ed avere un
interesse contrario alla sanatoria di opere
che potrebbero risolversi in suo danno
(Cons. St., sez. V, 21.10.2003, n. 6529).
In effetti, sul punto la giurisprudenza, che
in passato era prevalentemente orientata nel
senso che il parametro valutativo
dell'attività amministrativa in materia
edilizia era esclusivamente quello
dell'accertamento della conformità
dell'opera alla disciplina pubblicistica che
ne regola la realizzazione, salvi i diritti
dei terzi e senza che la mancata
considerazione di tali diritti potesse in
qualche modo incidere sulla legittimità
dell'atto, ha oggi avuto occasione di
precisare che la necessaria distinzione tra
gli aspetti civilistici e quelli
pubblicistici dell'attività edificatoria non
impedisce di rilevare la presenza di
significativi punti di contatto tra i due
diversi profili.
In proposito ha, pertanto, chiarito che non
è seriamente contestabile che nel
procedimento di rilascio dei titoli edilizi
l'Amministrazione abbia il potere ed il
dovere di verificare l'esistenza, in capo al
richiedente, di un idoneo titolo di
godimento sull'immobile, interessato dal
progetto di trasformazione urbanistica,
trattandosi di una attività istruttoria che
non è diretta, in via principale, a
risolvere i conflitti di interesse tra le
parti private in ordine all'assetto
proprietario degli immobili interessati, ma
che risulta finalizzata, più semplicemente,
ad accertare il requisito della
legittimazione del richiedente (cfr. TAR
Trentino Alto Adige, sez. Bolzano,
27.02.2006, n. 81, TAR Lombardia, sede
Milano, sez. II, 11.02.2005, n. 357, TAR
Puglia Lecce, sez. III, 18.12.2007, n.
4286).
Pertanto, la funzione autorizzatoria
dell'Amministrazione richiede un livello
minimo di istruttoria che comprende anche
l'acquisizione di tutti gli elementi
sufficienti a dimostrare la sussistenza di
un qualificato collegamento soggettivo tra
chi propone l'istanza e il bene giuridico
oggetto dell'autorizzazione, senza che
l'esame del titolo di godimento operato
dalla Pubblica Amministrazione costituisca
un'illegittima intrusione in ambito
privatistico; per cui, in definitiva,
legittimamente l'Amministrazione, ove
accerti che l'intervento edilizio interessi
parti comuni dell'edificio, ben può
subordinare il rilascio del titolo edilizio
alla previa assunzione del consenso dei
comproprietari per la parte di intervento
che interessa tali parti comuni
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 18.04.2011 n. 364
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
All’usufruttuario è comunque
riconosciuta la legittimazione al rilascio
del permesso di costruire dal momento
che l’art. 11, D.P.R. n. 380 del 2001
individua tra i soggetti legittimati
oltre al proprietario anche coloro che
‘‘abbiano titolo per
richiederlo’’, sicché non vi è dubbio che
tra gli aventi titolo rientri
anche l’usufruttuario del bene, che, quale
titolare di un diritto
reale di godimento, gode di una relazione
qualificata con il bene
medesimo.
Innanzitutto è da evidenziare che il
ricorrente Di Grazia Giuseppe ha agito nel
presente giudizio quale diretto destinatario
del diniego gravato, avendo egli
personalmente richiesto il rilascio del
permesso di costruire denegatogli dal Comune
di Aversa, nella dichiarata veste di
usufruttuario del bene, e detta circostanza
era ben nota al Comune intimato che nella
medesima qualità gli aveva in precedenza
rilasciato per lo stesso immobile il condono
ex lege 326/2003 con atto n. 158 del
29.04.2009.
Peraltro, l’eccepito difetto di
legittimazione dell’istante non è stato
posto dall’amministrazione quale ragione
ostativa all’accoglimento della istanza di
mutamento di destinazione inoltrata dal
ricorrente, fondandosi il diniego impugnato
esclusivamente su ragioni di natura
urbanistica.
A ciò si aggiunga che, per giurisprudenza
pacifica, all’usufruttuario è comunque
riconosciuta la legittimazione al rilascio
del permesso di costruire, dal momento che
l’art. 11 del d.p.r. n. 380/2001 individua
tra i soggetti legittimati oltre al
proprietario anche coloro che “abbiano
titolo per richiederlo”, sicché non vi è
dubbio che tra gli aventi titolo rientri
anche l’usufruttuario del bene, che, quale
titolare di un diritto reale di godimento,
gode di una relazione qualificata con il
bene medesimo (C.d.s. sez. IV n. 3027/2007) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 07.03.2011 n. 1318 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Mentre
l’art. 36 dpr 380/2001 delinea un
procedimento dal vincolato esito accertativo
(o meno) della cd. doppia conformità, il
rilascio del permesso di costruire in deroga
esprime un procedimento contrassegnato da
una lata discrezionalità di cui è indice
significativo l’esigenza che intervenga
anche l’organo “politico” dell'ente locale,
al fine di coinvolgere non solo il livello
burocratico, ma anche quello elettivo nella
(impegnativa e gravosa) determinazione di
contraddire quanto stabilito in sede
pianificatoria.
La sottolineatura della ampia
discrezionalità della amministrazione,
unitamente al carattere derogatorio del
rilascio del permesso che “spezza”
l’uniformità giuridica delle norme di
pianificazione normativamente applicate,
dequota, quindi, sensibilmente l’onere
motivazionale della p.a., atteso che la
affermazione della non derogabilità
costituisce la regola, mentre l’onere
motivazionale, per converso, si accentua ove
l’amministrazione comunale (nel suo
complesso) voglia deliberatamente
contraddire le norme vigenti.
---------------
Proprio perché la deroga “esorbita
dall’ordinario regime dei titoli costruttivi
poiché spezza l’uniformità giuridica delle
regole normalmente applicate”, richiede un
procedimento ad hoc che il legislatore vuole
partecipato da tutti gli “interessati” (cfr.
art. 14, c. 2, DPR 380 cit.), in assenza del
quale, l’opera è senz’altro abusiva e
sottoposta, da subito, ai rigori demolitori,
tranne il limitato ambito della richiesta
verifica ex art. 36 DPR cit. in ordine alla
cd. “doppia conformità”: verifica vincolata
a fronte della lata discrezionalità –secondo
quanto sopra enunciato– caratterizzante la
deroga invocata.
Riservandosi in prosieguo di soffermarsi
sulla incompatibilità giuridica fra i due
istituti, è certo che mentre l’art. 36 dpr
380/2001 delinea un procedimento dal
vincolato esito accertativo (o meno) della
cd. doppia conformità, il rilascio del
permesso di costruire in deroga esprime un
procedimento contrassegnato da una lata
discrezionalità di cui è indice
significativo l’esigenza che intervenga
anche l’organo “politico” dell'ente
locale, al fine di coinvolgere non solo il
livello burocratico, ma anche quello
elettivo nella (impegnativa e gravosa)
determinazione di contraddire quanto
stabilito in sede pianificatoria.
La sottolineatura della ampia
discrezionalità della amministrazione,
unitamente al carattere derogatorio del
rilascio del permesso che “spezza”
l’uniformità giuridica delle norme di
pianificazione normativamente applicate,
dequota, quindi, sensibilmente l’onere
motivazionale della p.a., atteso che la
affermazione della non derogabilità
costituisce la regola, mentre l’onere
motivazionale, per converso, si accentua ove
l’amministrazione comunale (nel suo
complesso) voglia deliberatamente
contraddire le norme vigenti.
---------------
Vi è, infatti,
una prima ragione di ordine sistematico
costituita dal fatto che l’attuale art. 14
DPR 380/2001 è stato inscritto nel corpus
generale del T.U. in materia edilizia ove è
da relazionare all’art. 36 dello stesso, in
cui si disciplina la possibilità di
ottenere, tramite l’accertamento di
conformità, un titolo sanante l’abuso
realizzato.
Le due norme sono distinte, ma fra esse
relazionate, nel senso che, dall’intero
complesso normativo, si desume che il titolo
edilizio è previamente rilasciato o con la
legittima procedura di richiesta o in
deroga, ovvero ancora ex post per il
tramite della cd sanatoria ex art. 36.
La circostanza che le due norme –nello
stesso ambito testuale– non si richiamino,
lascia quindi chiaramente intendere che
dispongono di ambiti diversi che non possono
dunque cumularsi. D’altra parte, come per
tutte le norme derogatorie vale il primario
criterio interpretativo letterale, sicché
ove il legislatore non ha inteso riferisi
alla sanatoria (che, ripetesi, ha ben tenuto
presente nello stesso corpo normativo) deve
concludersi che non abbia inteso estendere
la possibilità derogatoria anche ad un abuso
già perpetrato.
Sono poi univoche e chiare le ragioni
sostanziali che militano per la non
applicabilità del procedimento sanante
all’art. 14 T.U. citato.
Proprio perché la deroga “esorbita
dall’ordinario regime dei titoli costruttivi
poiché –come sopra accennato– spezza
l’uniformità giuridica delle regole
normalmente applicate”, richiede un
procedimento ad hoc che il
legislatore vuole partecipato da tutti gli “interessati”
(cfr. art. 14, c. 2, DPR 380 cit.), in
assenza del quale, l’opera è senz’altro
abusiva e sottoposta, da subito, ai rigori
demolitori, tranne il limitato ambito della
richiesta verifica ex art. 36 DPR cit. in
ordine alla cd. “doppia conformità”:
verifica vincolata a fronte della lata
discrezionalità –secondo quanto sopra
enunciato– caratterizzante la deroga
invocata (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza
21.01.2011 n. 404 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’atto
di decadenza della concessione edilizia, per
il decorso infruttuoso del termine triennale
fissato per la conclusione dei lavori, ha
natura meramente ricognitiva.
In ogni caso la predetta decadenza
rappresenta un approdo ineludibile in
ipotesi di mancato completamento delle opere
nel termine di legge.
Invero è necessario evidenziare:
- che l’atto di decadenza della
concessione edilizia, per il decorso
infruttuoso del termine triennale fissato
per la conclusione dei lavori, ha natura
meramente ricognitiva (cfr. Cons. Stato, IV,
n. 511 del 1992);
- che lo stesso è desumibile per implicito
dall’ordinanza di demolizione impugnata del
09.02.2002 ed in particolare dalle sue
premesse (cfr. TAR Lazio, I, n. 264 del
2009);
- che in ogni caso la predetta decadenza
rappresenta un approdo ineludibile in
ipotesi di mancato completamento delle opere
nel termine di legge;
- che, quindi, nella specie trova
applicazione il disposto normativo contenuto
nell’art. 21-octies, comma 2, della Legge n.
241 del 1990, anche per l’ordinanza
impugnata, che ne rappresenta la conseguenza
necessitata;
- che l’ordinanza di sospensione dei lavori
produce effetti per soli 45 giorni (cfr.
art. 4 Legge n.47 del 1985);
- che non risulta richiesta, né tantomeno
accordata, la proroga dei termini per
l’ultimazione dei lavori (cfr. art. 4 Legge
n. 10 del 1977);
- che del pari è a dirsi per il titolo in
variante dell’11.05.1995, risultando le
opere in ogni caso non eseguite e i lavori
fermi al 22.12.1992 (cfr. verbale del
sopralluogo, all. 3 al ricorso e
documentazione fotografica, all. 1 agli atti
del Comune), a fronte di titoli edilizi non
annullati (cfr. anche Corte Cass., III, n.
111 del 1996, all. 3 agli atti del Comune);
- che quindi assumeva rilevanza anche la
sopravvenuta entrata in vigore di nuove
norme urbanistiche, preclusive
dell’edificazione, non ultimata
tempestivamente (cfr. art. 31, comma 11,
Legge n. 1150 del 1942 in relazione al Piano
dell’Arenile, art. 7.3, all. 4 agli atti del
Comune)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza
14.09.2010
n. 5944 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
merito all'ammissibilità del rilascio di
concessioni o permessi di costruire in
deroga, la giurisprudenza amministrativa
aveva inizialmente interpretato
l'espressione «impianti di interesse
pubblico», di cui all'art. 41-quater della
l. 17.08.1942 n. 1150 (trasfuso nell'attuale
art. 14, T.U. sull'edilizia, approvato con
d.P.R. 06.06.2001 n. 380), facendovi
rientrare solo gli interventi corrispondenti
a compiti assunti direttamente dalla
pubblica Amministrazione. Attualmente,
peraltro, si ritiene applicabile la stessa
norma anche alle (ipotesi) in cui sia
offerto un servizio alla collettività,
caratterizzato da una pubblica fruibilità.
È stato considerato, infatti, che l'art. 16,
l. 06.08.1967 n. 765 prevede la possibilità
di esercizio di un potere di deroga alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici per
manufatti sia pubblici (cioè gestiti da enti
pubblici) che di interesse pubblico (ossia
gestiti da soggetti indifferentemente
pubblici o privati, aventi peraltro
l'identica missione di soddisfare esigenze
della collettività di tipo economico,
bancario-assicurativo, culturale,
industriale, igienico, religioso o
turistico-alberghiero).
In questo nuovo indirizzo vanno ricomprese …
anche le strutture gestite da privati in
regime di impresa, se rivestono un interesse
lato sensu pubblico, quali gli edifici e le
opere destinati ad attività economiche di
interesse generale, tra cui i «complessi
artigianali con processo lavorativo di tipo
industriale ed un consistente numero di
dipendenti o comunque aventi rilevanza per
la realtà economica locale», le quali dunque
possono usufruire della deroga alle
previsioni degli strumenti urbanistici
generali.
“In merito all'ammissibilità del rilascio
di concessioni o permessi di costruire in
deroga, la giurisprudenza amministrativa
aveva inizialmente interpretato
l'espressione «impianti di interesse
pubblico», di cui all'art. 41-quater della
l. 17.08.1942 n. 1150 (trasfuso nell'attuale
art. 14, T.U. sull'edilizia, approvato con
d.P.R. 06.06.2001 n. 380), facendovi
rientrare solo gli interventi corrispondenti
a compiti assunti direttamente dalla
pubblica Amministrazione. Attualmente,
peraltro, si ritiene applicabile la stessa
norma anche alle (ipotesi) in cui sia
offerto un servizio alla collettività,
caratterizzato da una pubblica fruibilità.
È stato considerato, infatti, che l'art. 16,
l. 06.08.1967 n. 765 prevede la possibilità
di esercizio di un potere di deroga alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici per
manufatti sia pubblici (cioè gestiti da enti
pubblici) che di interesse pubblico (ossia
gestiti da soggetti indifferentemente
pubblici o privati, aventi peraltro
l'identica missione di soddisfare esigenze
della collettività di tipo economico,
bancario-assicurativo, culturale,
industriale, igienico, religioso o
turistico-alberghiero).
In questo nuovo indirizzo vanno ricomprese …
anche le strutture gestite da privati in
regime di impresa, se rivestono un interesse
lato sensu pubblico, quali gli edifici e le
opere destinati ad attività economiche di
interesse generale, tra cui i «complessi
artigianali con processo lavorativo di tipo
industriale ed un consistente numero di
dipendenti o comunque aventi rilevanza per
la realtà economica locale», le quali dunque
possono usufruire della deroga alle
previsioni degli strumenti urbanistici
generali” (TAR Trentino Alto Adige
Trento, sez. I, 18.06.2009, n. 194)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza
22.07.2010 n. 1821 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L’art. 54 del T.U.E.L. (ex art.
38, comma 2, della l. n. 142/1990)
attribuisce al Sindaco il potere di emanare
ordinanze contingibili ed urgenti in materia
di sanità ed igiene sempreché sussistano i
presupposti della straordinarietà e
dell’urgenza della situazione.
Il potere del Sindaco di emanare ordinanze
contingibili ed urgenti presuppone, oltre
all’esistenza ed indicazione, nel
provvedimento gravato, di una situazione di
pericolo, quale ragionevole probabilità che
accada un evento dannoso ove la P.A. non
intervenga prontamente, anche, o meglio
soprattutto, la necessità di provvedere con
immediatezza in riferimento a situazioni di
carattere eccezionale ed imprevedibile, cui
sia impossibile fare fronte con gli
strumenti ordinari apprestati
dall’ordinamento (dell’impossibilità di
fronteggiare la situazione con i rimedi
ordinari non si rinviene, nell’ordinanza
impugnata, alcuna allegazione, né tantomeno
la dimostrazione).
Pertanto, ai sensi degli artt. 50 e 54
T.U.E.L., per giustificare il ricorso allo
strumento dell’ordinanza, il collegamento
con le esigenze di protezione dell’igiene e
della salute pubblica costituisce
presupposto necessario ma non sufficiente,
qualora non sussistano gli ulteriori
particolari requisiti di urgenza.
Questo Tribunale ha già avuto modo di
osservare che l’art. 54 del T.U.E.L. (ex
art. 38, comma 2, della l. n. 142/1990)
attribuisce al Sindaco il potere di emanare
ordinanze contingibili ed urgenti in materia
di sanità ed igiene sempreché sussistano i
presupposti della straordinarietà e
dell’urgenza della situazione (TAR Toscana,
Sez. II, ord. 06.05.2009, n. 355/2009; cfr.
anche TAR Lazio, Roma, Sez. II, 29.03.2004,
n. 2922).
Nella vicenda in esame, invece, il
riferimento all’urgenza e straordinarietà
della situazione è espresso in termini
ambigui e contraddittori, da cui si deduce
che si tratta di una mera clausola di stile.
Sul punto, va rilevato infatti che
l’ordinanza gravata:
a) si esprime con formulazione tutt’altro
che perspicua in merito agli effetti
prodotti dall’intervento posto in essere
dalla società ricorrente, in particolare,
dalla (re)installazione dell’elettropompa,
che “non ha garantito il verificarsi di
ulteriori disagi e sversamenti a danno delle
proprietà adiacenti”; al riguardo si
osserva che, oltre alle improprietà
lessicali, l’ordinanza non specifica se,
dopo il secondo montaggio dell’elettropompa,
si siano ancora verificati degli sversamenti,
né quali siano stati questi ulteriori
sversamenti;
b) non indica le ragioni di imprevedibilità
ed eccezionalità del pericolo, tali da
giustificare il ricorso allo strumento ex
art. 54 T.U.E.L. (TAR Piemonte, Sez. II,
16.01.2006, n. 88): come questo Tribunale ha
già avuto modo di evidenziare (cfr. TAR
Toscana, Sez. II, 09.04.2004, n. 1006), il
potere del Sindaco di emanare ordinanze
contingibili ed urgenti presuppone, oltre
all’esistenza ed indicazione, nel
provvedimento gravato, di una situazione di
pericolo, quale ragionevole probabilità che
accada un evento dannoso ove la P.A. non
intervenga prontamente, anche, o meglio
soprattutto, la necessità di provvedere con
immediatezza in riferimento a situazioni di
carattere eccezionale ed imprevedibile, cui
sia impossibile fare fronte con gli
strumenti ordinari apprestati
dall’ordinamento (dell’impossibilità di
fronteggiare la situazione con i rimedi
ordinari non si rinviene, nell’ordinanza
impugnata, alcuna allegazione, né tantomeno
la dimostrazione).
Pertanto, ai sensi degli artt. 50 e 54
T.U.E.L., per giustificare il ricorso allo
strumento dell’ordinanza, il collegamento
con le esigenze di protezione dell’igiene e
della salute pubblica costituisce
presupposto necessario ma non sufficiente,
qualora non sussistano gli ulteriori
particolari requisiti di urgenza;
c) fa riferimento ad una situazione di
potenziale danneggiamento, priva di
qualsivoglia carattere di novità, e non ad
un nuovo pericolo, o ad un danneggiamento
già in atto
(TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 05.01.2010 n. 4 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’amministrazione non è tenuta a svolgere
indagini particolari in presenza della
richiesta
edificatoria prodotta da un comproprietario.
Al contrario, qualora
uno o più comproprietari si attivino per
denunciare il proprio dissenso
rispetto al rilascio del titolo
edificatorio, il Comune deve
verificare se, dietro l’istanza di
concessione, sia riconoscibile
l’effettiva sussistenza della disponibilità
del bene oggetto dell’intervento
edificatorio e se, più in generale, la
situazione di fatto
consenta di supporre l’esistenza di un
pactum fiduciae intercorrente tra i
comproprietari.
È noto, del resto, che, se normalmente
l’Amministrazione non è tenuta a svolgere
indagini particolari in presenza della
richiesta edificatoria prodotta da un
comproprietario, al contrario, qualora uno o
più comproprietari si attivino per
denunciare il proprio dissenso rispetto al
rilascio del titolo edificatorio (o quando,
comunque, l’esistenza di un titolo di
proprietà in comune emerga dagli atti), il
Comune deve verificare se, dietro l'istanza
di concessione, sia riconoscibile
l'effettiva sussistenza della disponibilità
del bene oggetto dell'intervento
edificatorio (TAR Salerno, sez. II,
05.10.2007, n. 2080) e se, più in generale,
la situazione di fatto consenta (come
necessario: Cons. Stato, sez. V, 24.09.2003,
n. 5445) di supporre l’esistenza di un “pactum
fiduciae” intercorrente tra i
comproprietari (o, semmai di escludere,
all’esito di un effettivo accertamento sul
punto, la ventilata esistenza di un dominio
in comune). Al qual fine, in definitiva, ciò
che non è dato comunque omettere è il
coinvolgimento dei soggetti “prima facie”
coinvolti dal progettato intervento
edificatorio (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 16.12.2009 n.
7921 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non sussiste alcun obbligo per il
Comune di dare comunicazione ai proprietari
frontisti o vicini dell'avvio del
procedimento diretto al rilascio di
concessione edilizia, in quanto gli
interessi coinvolti dal provvedimento con
cui si consente la trasformazione edilizia
del territorio sono di tale varietà ed
ampiezza da rendere difficilmente
individuabili tutti i soggetti che
dall'emanazione dell'atto potrebbero
ricevere nocumento.
Diversa soluzione deve darsi nei casi in cui
l’interesse a contraddire (e, prima ancora,
la concreta individuazione di una
fondamentale esigenza partecipativa) sia
correlata ad una (sia pure non
immediatamente acclarabile) situazione di
comproprietà, nel qual caso quell’interesse
(ed il correlato obbligo di coinvolgimento
nel procedimento) risulta, come deve
ritenersi nella specie, “in re ipsa”
Con più lungo discorso, se può, in termini
generali, condividersi l’assunto per cui “non
sussiste alcun obbligo per il Comune di dare
comunicazione ai proprietari frontisti o
vicini dell'avvio del procedimento diretto
al rilascio di concessione edilizia, in
quanto gli interessi coinvolti dal
provvedimento con cui si consente la
trasformazione edilizia del territorio sono
di tale varietà ed ampiezza da rendere
difficilmente individuabili tutti i soggetti
che dall'emanazione dell'atto potrebbero
ricevere nocumento” (da ultimo, Cons.
Stato, sez. IV, 31.07.2009, n. 4847),
diversa soluzione deve darsi nei casi in cui
l’interesse a contraddire (e, prima ancora,
la concreta individuazione di una
fondamentale esigenza partecipativa) sia
correlata ad una (sia pure non
immediatamente acclarabile) situazione di
comproprietà, nel qual caso quell’interesse
(ed il correlato obbligo di coinvolgimento
nel procedimento) risulta, come deve
ritenersi nella specie, “in re ipsa” (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 16.12.2009 n.
7921 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Le norme che disciplinano la
possibilità di rilasciare concessioni
edilizie in deroga ai piani regolatori ed
alle norme di regolamento edilizio non
possono travolgere le esigenze di ordine
urbanistico a suo tempo recepite nel piano,
con la conseguenza che non possono essere
oggetto di deroga le destinazioni di zona
che attengono all’impostazione stessa del
piano regolatore generale e ne costituiscono
le norme direttrici.
Invero, anzitutto gli artt. 41-quater L. n.
1150/1942 e 3 L. n. 1357/1957, che
disciplinano la possibilità di rilasciare
concessioni edilizie in deroga ai piani
regolatori ed alle norme di regolamento
edilizio, vanno interpretati
restrittivamente, nel senso che tali deroghe
non possono travolgere le esigenze di ordine
urbanistico a suo tempo recepite nel piano,
con la conseguenza che non possono essere
oggetto di deroga le destinazioni di zona
che attengono all’impostazione stessa del
piano regolatore generale e ne costituiscono
le norme direttrici (cfr. Cons. Stato, IV
Sez. 02.04.1996 n. 439; 01.10.1007 n.
1057) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 25.11.2009 n. 5847 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Circa
l’efficacia temporale e decadenza del
permesso di costruire (art. 15 T.U. n. 380
del 2001) è stato affermato in
giurisprudenza che la perdita di efficacia
della concessione di costruzione edilizia
per mancato inizio od ultimazione dei lavori
nei termini prescritti deve essere accertata
e dichiarata con formale pronuncia di
decadenza da parte dell’amministrazione,
anche ai fini del necessario contraddittorio
col privato in ordine all’esistenza dei
presupposti di fatto e di diritto che
possano giustificare la pronuncia stessa.
Essa, invero, costituisce atto che
presuppone il mero decorso del tempo,
eccettuati i casi di sospensione o proroga
connessi a factum principis, forza maggiore
o cause espressamente contemplate dalla
legge, che deve intervenire per il solo
fatto del verificarsi del presupposto di
legge, nel caso in cui manchi un espresso
atto sindacale di proroga del termine
stesso, non potendosi configurare un atto
tacito di proroga del termine stesso, pur in
presenza delle condizioni di legge per farvi
luogo.
E’ stato, altresì, affermato che l’atto di
decadenza della concessione di costruzione,
per mancato inizio dei lavori nel termine
stabilito, non ha carattere dichiarativo, ma
costitutivo, comportando esercizio del
potere di discrezionalità tecnica, in
funzione di un interesse pubblico.
Il Collegio
ritiene che la censura svolta al riguardo
dall’appellante sia fondata. Invero, circa
l’efficacia temporale e decadenza del
permesso di costruire (art. 15 T.U. n. 380
del 2001) è stato affermato in
giurisprudenza che la perdita di efficacia
della concessione di costruzione edilizia
per mancato inizio od ultimazione dei lavori
nei termini prescritti deve essere accertata
e dichiarata con formale pronuncia di
decadenza da parte dell’amministrazione,
anche ai fini del necessario contraddittorio
col privato in ordine all’esistenza dei
presupposti di fatto e di diritto che
possano giustificare la pronuncia stessa
(Cons. Stato, VI Sez., n. 671/2006; V Sez.
n. 4954/2006).
Essa, invero, costituisce atto che
presuppone il mero decorso del tempo,
eccettuati i casi di sospensione o proroga
connessi a factum principis, forza
maggiore o cause espressamente contemplate
dalla legge, che deve intervenire per il
solo fatto del verificarsi del presupposto
di legge, nel caso in cui manchi un espresso
atto sindacale di proroga del termine
stesso, non potendosi configurare un atto
tacito di proroga del termine stesso, pur in
presenza delle condizioni di legge per farvi
luogo (Cons. Stato, IV Sez., n. 3196/2006; V
Sez. n. 597/2000).
E’ stato, altresì, affermato che l’atto di
decadenza della concessione di costruzione,
per mancato inizio dei lavori nel termine
stabilito, non ha carattere dichiarativo, ma
costitutivo, comportando esercizio del
potere di discrezionalità tecnica, in
funzione di un interesse pubblico (C.G.A. n.
743/2006) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 27.10.2009 n. 6545 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 31 L. n. 47/1985,
legittimato a richiedere la sanatoria è, in
via generale, colui che ha titolo a
richiedere la concessione o autorizzazione
edilizia e, per giurisprudenza consolidata,
al fine di richiedere la concessione
edilizia, e per contestarne l’eventuale
diniego, è sufficiente l’esistenza di un
contratto preliminare relativo all’acquisto
del terreno, avuto riguardo all’esperibilità
della tutela in forma specifica (ai sensi
dell’art. 2932 cod. civ.) in caso di
inadempimento della controparte.
In via preliminare, va anzitutto chiarito,
andando in contrario avviso rispetto a
quanto ritenuto dal Tribunale
amministrativo, che, ad avviso del Collegio,
sussisteva la legittimazione del sig.
Maggiolo, all’epoca della presentazione
della domanda non ancora proprietario del
terreno, a richiedere il titolo edilizio in
sanatoria, in quanto, ai sensi dell’art. 31
L. n. 47/1985, legittimato a richiedere la
sanatoria è, in via generale, colui che ha
titolo a richiedere la concessione o
autorizzazione edilizia e, per
giurisprudenza consolidata, al fine di
richiedere la concessione edilizia, e per
contestarne l’eventuale diniego, è
sufficiente l’esistenza di un contratto
preliminare relativo all’acquisto del
terreno, avuto riguardo all’esperibilità
della tutela in forma specifica (ai sensi
dell’art. 2932 cod. civ.) in caso di
inadempimento della controparte (cfr. Cons.
Stato, VI Sez., n. 7847/2004).
Nella fattispecie, non è contestato quanto
affermato dall’appellante che fra lo stesso
e il proprietario del terreno su cui
insisteva il manufatto fosse stato stipulato
un contratto preliminare e che il terreno
fosse da decenni utilizzato dal Maggiolo e
che ancora lo fosse al momento della
richiesta di condono (30/12/1986); vi aveva
fatto seguito nel 2001 il definitivo
contratto di acquisto. Il provvedimento di
concessione in sanatoria n. 318 del
18/08/2001 risulta, quindi, legittimo in
quanto destinatario finale dello stesso è il
proprietario del terreno su cui è stato
realizzato il manufatto oggetto di sanatoria
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 27.10.2009 n. 6545 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Quanto
alla problematica della individuazione del
soggetto cui il permesso di costruire può
essere rilasciato ed, in particolare, la
corretta interpretazione dell’articolo 11
del dpr n. 380/2001,
la giurisprudenza ha in generale chiarito
che la disposizione normativa va intesa nel
senso che il soggetto abilitato alla
richiesta è non solo il proprietario
dell’area , ma anche il titolare di un
diritto (avente o meno natura reale) che lo
legittimi nei confronti del proprietario
medesimo.
Con specifico riferimento, poi, alla
posizione del comodatario, essa ha affermato
che il titolare di un diritto di comodato è
legittimato alla richiesta di titoli edilizi
compatibili con l’effettiva disponibilità
del bene e con l’entità della trasformazione
oggetto della richiesta.
Occorre, dunque, guardare ai contenuti del
contratto stipulato dalle parti ed alle
facoltà in esso conferite al comodatario,
comparando le stesse con il tipo di
intervento edilizio che si è richiesto per
l’immobile oggetto del rapporto
obbligatorio.
La prima ragione di diniego afferma che “il
richiedente non risulta titolato poiché dal
contratto di comodato d’uso, allegato al
progetto, non si evince la possibilità, da
parte del comodatario (richiedente), di
poter intervenire con opere di così radicale
trasformazione”.
La disamina di essa involge la problematica
della individuazione del soggetto cui il
permesso di costruire può essere rilasciato
ed, in particolare, la corretta
interpretazione dell’articolo 11 del dpr n.
380/2001, il quale prevede, al primo comma,
che “il permesso di costruire è
rilasciato al proprietario dell’immobile o a
chi abbia titolo per richiederlo”.
Orbene, con riferimento al fabbricato
ubicato in località “Vallone Caprerie”,
non si pone alcun problema, considerato che
lo stesso è di proprietà della ricorrente,
onde sussiste certamente la qualità
soggettiva di “proprietario”
richiesta dalla norma.
Quanto al fabbricato sito in località “Taverna
Bosco”, va, invece evidenziato che la
sig.ra Falcone ne è comodataria, giusta
scrittura privata del 10-09-1999, registrata
il 07-04-2000.
La giurisprudenza ha in generale chiarito
che la disposizione normativa va intesa nel
senso che il soggetto abilitato alla
richiesta è non solo il proprietario
dell’area , ma anche il titolare di un
diritto (avente o meno natura reale) che lo
legittimi nei confronti del proprietario
medesimo.
Con specifico riferimento, poi, alla
posizione del comodatario, essa ha affermato
che il titolare di un diritto di comodato è
legittimato alla richiesta di titoli edilizi
compatibili con l’effettiva disponibilità
del bene e con l’entità della trasformazione
oggetto della richiesta (cfr. Cons. Stato,
V, 19-09-2008, n. 4518).
Occorre, dunque, guardare ai contenuti del
contratto stipulato dalle parti ed alle
facoltà in esso conferite al comodatario,
comparando le stesse con il tipo di
intervento edilizio che si è richiesto per
l’immobile oggetto del rapporto
obbligatorio.
Rileva il Tribunale che il citato contratto
di comodato ha ad oggetto il fabbricato
rurale con annessa corte e terreno agricolo
(in catasto alla partita 1406, foglio 5,
particelle 14, 16 e 17) e prevede,
all’articolo 2, che la proprietaria “autorizza
il comodatario a effettuare tutte quelle
opere che esso ritenesse necessario per
l’esercizio di un’azienda agricola, ivi
comprese la possibilità di richiedere
agevolazioni e finanziamenti a norma delle
vigenti leggi”.
La lettura dell’atto evidenzia, dunque, che
è data la facoltà al comodatario di
effettuare “opere” che siano dallo
stesso ritenute necessarie “per
l’esercizio di un’azienda agricola”.
Orbene, nel concetto di “opere”,
attesa la generalità e la onnicomprensività
della previsione (“tutte quelle opere"),
rientrano certamente quelle di carattere
edilizio ed inoltre gli interventi che sono
previsti per il fabbricato Taverna del Bosco
risultano certamente collegati e funzionali
all’esercizio dell’azienda agricola, atteso
che l’esame degli atti progettuali ad esso
relativi evidenzia (v. pure la relazione
giurata di parte in atti) che in tale
fabbricato non sono previsti incrementi dei
volumi residenziali esistenti ma unicamente
degli annessi agricoli, con conseguente
sussistenza del nesso funzionale dell’”esercizio
dell’azienda agricola”.
Da quanto sopra, dunque, emerge che il primo
motivo di diniego è certamente illegittimo,
non risultando, in capo alla sig.ra Falcone,
la carenza di titolo ritenuta dal Comune e
riveniente dai contenuti del contratto di
comodato
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 07.08.2009 n. 4254 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il provvedimento di concessione
edilizia in deroga alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici, essendo espressione
di un potere di natura eccezionale,
necessita di una congrua e adeguata
motivazione.
Ai sensi della vigente normativa in materia
urbanistica della provincia di Trento il
rilascio della concessione edilizia in
deroga è comunque limitato ai casi
eccezionali di edifici e impianti pubblici o
di interesse pubblico previsti dall’art. 16
legge 06.08.1967 n. 765, fermo restando
ovviamente l’onere di una congrua e
specifica motivazione sulla sussistenza e la
prevalenza di tale interesse.
Il rilascio di una concessione edilizia in
deroga alle previsioni dello strumento
urbanistico costituisce per sua stessa
natura un provvedimento eccezionale e di
contenuto singolare, cioè assunto per
soddisfare specifici interessi pubblici
sulla base di valutazioni contingenti e
dotate di un carattere di eccezionalità, che
giustificano, solo nella situazione
concreta, la inosservanza consentita delle
prescrizioni dettate dagli atti di
programmazione.
In linea di principio quindi il potere
derogatorio non è utilizzabile per
soddisfare esigenze strutturali miranti a
nuovi assetti urbanistici, che male si
prestano a interventi episodici e saltuari e
che giustificherebbero invece la adozione di
specifiche varianti allo strumento
urbanistico, le sole rispondenti alla
definizione di strumenti di governo del
territorio e che assicurano grazie al loro
carattere di generalità tipico degli atti
pianificatori, la razionalità e la
imparzialità delle scelte rispetto
all’insieme degli interessi, pubblici e
privati, coinvolti in un tale disegno
innovativo.
La concessione edilizia in deroga può essere
legittimamente emanata se sussiste un
concreto e specifico interesse pubblico, di
natura e qualità prevalenti rispetto agli
interessi che hanno trovato considerazione e
riconoscimento negli atti di pianificazione
territoriale, ossia conducendo una adeguata
valutazione comparativa fra le eccezionali
ragioni che impongono la deroga e la
situazione di fatto e di diritto sulla quale
il relativo provvedimento verrebbe a
incidere, anche a tutela del legittimo
affidamento riposto dai privati sull’assetto
urbanistico derivante dalle prescrizioni cui
essi stessi hanno prestato osservanza e che
nel caso concreto verrebbero invece
disapplicate.
--------------
Con riguardo alla delimitazione della
concessione in deroga tale potere
eccezionale sussiste con riguardo alle
strutture alberghiere, da ritenersi di
interesse pubblico per la sua destinazione
all’interesse tipico perseguito dalla
pubblica amministrazione, perché si tratta
di impianti posti al servizio della
collettività o comunque di opere che,
soprattutto se poste in località di spiccata
vocazione turistica, risultano di pubblica
utilità.
Gli interessi coinvolti nella gestione del
servizio alberghiero in genere, sebbene sia
esercitata da soggetti privati, hanno
carattere pubblicistico in ragione della
generalizzata fruibilità collettiva e della
connessione di detto servizio con gli
interessi della sicurezza e della salute
pubblica, nonché dello sviluppo turistico;
pertanto è legittimo il nulla osta al
rilascio di concessione edilizia in deroga
al piano regolatore per l’ampliamento di una
struttura alberghiera.
A convincere della legittimità della
concessione in deroga e del suo utilizzo
legittimo in concreto vale anche la
considerazione della natura peculiare di
tale strumento.
Alla concessione in deroga, che condivide
con la normale concessione edilizia la
funzione di controllo e di mera attuazione a
mezzo di verifica di conformità, non è
estranea anche una funzione di tipo
conformativo, tipica degli strumenti di
pianificazione.
La concessione in deroga, infatti, si
differenzia radicalmente, sia dal punto di
vista procedimentale che da quello
sostanziale, rispetto alla normale
concessione edilizia, in quanto con essa si
consente alla amministrazione di esercitare
un potere ampiamente discrezionale al fine
di perseguire un interesse pubblico ritenuto
preminente, potere che si concretizza nella
disapplicazione di una norma a una
fattispecie concreta, che pure presenta
tutti gli elementi per essere assoggettata
alla disciplina da essa dettata e che si
concreta in una vera decisione urbanistica.
---------------
Il rilascio della deroga non avviene solo a
mezzo di atto del sindaco o delle strutture
comunali (ché si limiterebbe a una verifica
di conformità), ma richiede, diversamente
dalle altre concessioni, la deliberazione
del Consiglio comunale (cioè la medesima
autorità o organo competente alla adozione
del p.r.g.) e della Regione (nella specie
Provincia Autonoma) che valuta la
compatibilità dell’intervento edilizio con
l’area circostante e gli interessi con
riguardo ad essa emersi in sede di
pianificazione (similmente quindi ad un
procedimento di piano), conferendo una
potenzialità edificatoria, sia pure non
definitiva ma solo provvisoria.
La concessione in deroga si caratterizza
quindi come una vera decisione (di
micro-pianificazione) relativa a una
specifica area, di solito non
particolarmente estesa e che, diversamente
dalle varianti speciali, non ha carattere
definitivo. Proprio perché in deroga, ossia
disposizione di carattere speciale rispetto
alla normativa generale, venuta meno l’opera
per la quale è stata rilasciata la
concessione (similmente alla proprietà
separata superficiaria, che si estingue al
venire meno dell’opera mentre ciò non
avviene in caso di diritto di superficie),
riemerge la norma generale e con essa le
originarie prescrizioni previste dal prg,
salva eventuale altra concessione in deroga.
La concessione in deroga è quindi istituto
che, unitamente alle varianti ma in senso
parzialmente diverso da esse, consente di
adottare decisioni urbanistiche, superando
la eccessiva staticità del sistema
pianificatorio che si porrebbe quasi in modo
atemporale, suscettibile di attuazioni e
integrazioni, ma non di modifiche se non in
casi eccezionali.
Certo, la derogabilità è possibile rispetto
a quel gruppo di norme e previsioni degli
strumenti urbanistici che attengono alla
disciplina urbanistica indifferenziata,
concernenti ad esempio gli indici di
fabbricabilità, le altezze, la tipologia
edilizia; altre norme, come quelle relative
alle ubicazioni specifiche di edifici,
impianti e servizi pubblici, allineamenti
stradali, di destinazione, di vincoli a
verde pubblico e privato, dovrebbero essere
derogate soltanto a mezzo di apposite
varianti al piano regolatore generale.
Questo Consesso, con precedenti riferiti
proprio a vicende relative al medesimo
comune di Pinzolo, ha precisato come il
provvedimento di concessione edilizia in
deroga alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici, essendo espressione di un
potere di natura eccezionale, necessiti di
una congrua e adeguata motivazione (C.
Stato, IV, 03.02.1981, n. 128).
Ai sensi della vigente normativa in materia
urbanistica della provincia di Trento il
rilascio della concessione edilizia in
deroga è comunque limitato ai casi
eccezionali di edifici e impianti pubblici o
di interesse pubblico previsti dall’art. 16
legge 06.08.1967 n. 765, fermo restando
ovviamente l’onere di una congrua e
specifica motivazione sulla sussistenza e la
prevalenza di tale interesse (in tal senso
anche Cons. Stato, IV, 06.10.1983, n. 700).
Proprio in considerazione della
eccezionalità dell’esercizio del potere di
deroga la prima sentenza di primo grado
aveva ritenuto insufficiente la motivazione
della eccezionalità, in quanto il rilascio
di una concessione edilizia in deroga alle
previsioni dello strumento urbanistico
costituisce per sua stessa natura un
provvedimento eccezionale e di contenuto
singolare, cioè assunto per soddisfare
specifici interessi pubblici sulla base di
valutazioni contingenti e dotate di un
carattere di eccezionalità, che
giustificano, solo nella situazione
concreta, la inosservanza consentita delle
prescrizioni dettate dagli atti di
programmazione.
In linea di principio quindi il potere
derogatorio non è utilizzabile per
soddisfare esigenze strutturali miranti a
nuovi assetti urbanistici, che male si
prestano a interventi episodici e saltuari e
che giustificherebbero invece la adozione di
specifiche varianti allo strumento
urbanistico, le sole rispondenti alla
definizione di strumenti di governo del
territorio e che assicurano grazie al loro
carattere di generalità tipico degli atti
pianificatori, la razionalità e la
imparzialità delle scelte rispetto
all’insieme degli interessi, pubblici e
privati, coinvolti in un tale disegno
innovativo (in tal senso, Consiglio di
Stato, V, 03.02.1997, n. 132, sempre con
riferimento a vicenda riguardante il comune
di Pinzolo).
Nella specie, come rilevato anche dal primo
giudice nella sentenza n. 148 del 2004,
l’amministrazione ha successivamente meglio
dato conto delle sue esigenze, con dati di
fatto più puntuali, calati nella realtà
territoriale, specificando anche la
impossibilità a dare corso alla concreta
deroga in regime ordinario a mezzo di
varianti pianificatorie.
Resta pertanto pienamente rispettato il
principio secondo il quale la concessione
edilizia in deroga può essere legittimamente
emanata se sussiste un concreto e specifico
interesse pubblico, di natura e qualità
prevalenti rispetto agli interessi che hanno
trovato considerazione e riconoscimento
negli atti di pianificazione territoriale,
ossia conducendo una adeguata valutazione
comparativa fra le eccezionali ragioni che
impongono la deroga e la situazione di fatto
e di diritto sulla quale il relativo
provvedimento verrebbe a incidere, anche a
tutela del legittimo affidamento riposto dai
privati sull’assetto urbanistico derivante
dalle prescrizioni cui essi stessi hanno
prestato osservanza e che nel caso concreto
verrebbero invece disapplicate.
---------------
Con riguardo
alla delimitazione della concessione in
deroga tale potere eccezionale sussiste con
riguardo alle strutture alberghiere, da
ritenersi di interesse pubblico per la sua
destinazione all’interesse tipico perseguito
dalla pubblica amministrazione, perché si
tratta di impianti posti al servizio della
collettività o comunque di opere che,
soprattutto se poste in località di spiccata
vocazione turistica, risultano di pubblica
utilità.
Gli interessi coinvolti nella gestione del
servizio alberghiero in genere, sebbene sia
esercitata da soggetti privati, hanno
carattere pubblicistico in ragione della
generalizzata fruibilità collettiva e della
connessione di detto servizio con gli
interessi della sicurezza e della salute
pubblica, nonché dello sviluppo turistico;
pertanto è legittimo il nulla osta al
rilascio di concessione edilizia in deroga
al piano regolatore per l’ampliamento di una
struttura alberghiera (in tal senso Cons.
Stato, IV, 29.10.2002, n. 5913).
A convincere della legittimità della
concessione in deroga e del suo utilizzo
legittimo in concreto vale anche la
considerazione della natura peculiare di
tale strumento.
Alla concessione in deroga, che condivide
con la normale concessione edilizia la
funzione di controllo e di mera attuazione a
mezzo di verifica di conformità, non è
estranea anche una funzione di tipo
conformativo, tipica degli strumenti di
pianificazione.
La concessione in deroga, infatti, si
differenzia radicalmente, sia dal punto di
vista procedimentale che da quello
sostanziale, rispetto alla normale
concessione edilizia, in quanto con essa si
consente alla amministrazione di esercitare
un potere ampiamente discrezionale al fine
di perseguire un interesse pubblico ritenuto
preminente, potere che si concretizza nella
disapplicazione di una norma a una
fattispecie concreta, che pure presenta
tutti gli elementi per essere assoggettata
alla disciplina da essa dettata e che si
concreta in una vera decisione urbanistica.
---------------
Il rilascio della deroga non avviene solo a
mezzo di atto del sindaco o delle strutture
comunali (ché si limiterebbe a una verifica
di conformità), ma richiede, diversamente
dalle altre concessioni, la deliberazione
del Consiglio comunale (cioè la medesima
autorità o organo competente alla adozione
del p.r.g.) e della Regione (nella specie
Provincia Autonoma) che valuta la
compatibilità dell’intervento edilizio con
l’area circostante e gli interessi con
riguardo ad essa emersi in sede di
pianificazione (similmente quindi ad un
procedimento di piano), conferendo una
potenzialità edificatoria, sia pure non
definitiva ma solo provvisoria.
La concessione in deroga si caratterizza
quindi come una vera decisione (di
micro-pianificazione) relativa a una
specifica area, di solito non
particolarmente estesa e che, diversamente
dalle varianti speciali, non ha carattere
definitivo. Proprio perché in deroga, ossia
disposizione di carattere speciale rispetto
alla normativa generale, venuta meno l’opera
per la quale è stata rilasciata la
concessione (similmente alla proprietà
separata superficiaria, che si estingue al
venire meno dell’opera mentre ciò non
avviene in caso di diritto di superficie),
riemerge la norma generale e con essa le
originarie prescrizioni previste dal prg,
salva eventuale altra concessione in deroga.
La concessione in deroga è quindi istituto
che, unitamente alle varianti ma in senso
parzialmente diverso da esse, consente di
adottare decisioni urbanistiche, superando
la eccessiva staticità del sistema
pianificatorio che si porrebbe quasi in modo
atemporale, suscettibile di attuazioni e
integrazioni, ma non di modifiche se non in
casi eccezionali.
Certo, la derogabilità è possibile rispetto
a quel gruppo di norme e previsioni degli
strumenti urbanistici che attengono alla
disciplina urbanistica indifferenziata,
concernenti ad esempio gli indici di
fabbricabilità, le altezze, la tipologia
edilizia; altre norme, come quelle relative
alle ubicazioni specifiche di edifici,
impianti e servizi pubblici, allineamenti
stradali, di destinazione, di vincoli a
verde pubblico e privato, dovrebbero essere
derogate soltanto a mezzo di apposite
varianti al piano regolatore generale
(Consiglio di Stato, Sezione IV,
sentenza 23.07.2009 n. 4664 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
disposizione comunale che riserva al Sindaco
la “facoltà di rilasciare concessioni per
costruzioni difformi dalla presente norma
quando si presentino motivi di utilità
pubblica, di interesse pubblico o di
salvaguardia paesaggistica” sostanzia che il
pianificatore comunale ha attribuito alla
concessione edilizia in deroga una
latitudine di significato più ampia rispetto
a quanto imposto dalla normativa
sovraordinata .
Il riferimento ai motivi di interesse
pubblico, di pubblica utilità, di
salvaguardia paesaggistica amplia, almeno
potenzialmente, la gamma dei possibili
interventi edilizi in deroga rispetto alla
opzione effettuata dal legislatore ordinario
e da quello regionale.
La legislazione primaria, coerentemente alla
natura eccezionale della deroga ha, invece,
previsto una tipizzazione oggettiva delle
costruzioni da assentire in deroga.
Ciò significa che l’area di operatività
della concessione edilizia in deroga, così
come ricostruita alla stregua delle norme
tecniche di attuazione dello strumento
urbanistico in discorso, amplia
eccessivamente lo spazio di manovra
dell’autorità urbanistica.
L’art 41-quater della Legge Urbanistica
stabilisce che “i poteri di deroga
previsti da norme di piano regolatore e di
regolamento edilizio possono essere
esercitati limitatamente ai casi di edifici
ed impianti pubblici o di interesse pubblico
e sempre con l’osservanza dell’art. 3 della
legge 21.12.1955, n. 1537”.
A sua volta, l’art. 30 della legge regionale
Puglia 31.05.1980, n. 56 replica
pedissequamente il contenuto della
disposizione statale sopra citata
legittimando il ricorso alla deroga nei soli
casi di edifici ed impianti pubblici o di
interesse pubblico.
L’art. 16 delle norme tecniche di attuazione
del piano di fabbricazione vigente in
Castrignano del Capo elencato gli interventi
edilizi ordinari consentiti nella zona B3
prescelta per la localizzazione del
complesso edilizio di cui si discute.
La stessa disposizione riserva al Sindaco la
“facoltà di rilasciare concessioni per
costruzioni difformi dalla presente norma
quando si presentino motivi di utilità
pubblica, di interesse pubblico o di
salvaguardia paesaggistica”.
Il Collegio osserva che, alla luce di questo
assetto normativo, il pianificatore comunale
ha attribuito alla concessione edilizia in
deroga una latitudine di significato più
ampia rispetto a quanto imposto dalla
normativa sovraordinata .
Il riferimento ai motivi di interesse
pubblico, di pubblica utilità, di
salvaguardia paesaggistica amplia, almeno
potenzialmente, la gamma dei possibili
interventi edilizi in deroga rispetto alla
opzione effettuata dal legislatore ordinario
e da quello regionale.
La legislazione primaria, coerentemente alla
natura eccezionale della deroga ha, invece,
previsto una tipizzazione oggettiva delle
costruzioni da assentire in deroga.
Ciò significa che l’area di operatività
della concessione edilizia in deroga, così
come ricostruita alla stregua delle norme
tecniche di attuazione dello strumento
urbanistico in discorso, amplia
eccessivamente lo spazio di manovra
dell’autorità urbanistica.
Né può condividersi la tesi proposta dalla
difesa della amministrazione civica
resistente secondo la quale la deroga di cui
si parla ha una sua autonoma valenza nel
sistema e non ha punti di contatto con la
normativa sovraordinata.
La tesi collide con il chiaro dettato della
normativa primaria citata, e segnatamente
con la lettera dell’art. 41-quater Legge
1150/1942 che delimita proprio lo spazio
applicativo dei “poteri di deroga
previsti da norme di piano regolatore”.
Da tanto deriva l’esigenza di ricostruire
sistematicamente la deroga utilizzando una
esegesi restrittiva della casistica di
interventi costruttivi suscettibili di
approvazione.
Invero, la sostanziale modifica dell’assetto
urbanistico che deriva dalla approvazione di
un intervento edilizio difforme da quanto si
ritiene assentibile di norma nella zona
esige la piena riconducibilità del progetto
da approvare all’area applicativa della
deroga, in considerazione del carattere
eccezionale dell’istituto.
Nel caso sottoposto all’esame del Collegio,
la concessione ad edificare richiama, sotto
il profilo descrittivo, il progetto edilizio
presentato dalla controinteressata,
precedentemente approvato dal Consiglio
Comunale al dichiarato fine di realizzare la
“riqualificazione di Piazza Savoia a
suffragio del conseguimento di un pubblico
interesse quale contropartita per
l’ammissione della deroga” .
Il Collegio esprime, a tal riguardo,
l’avviso che l’obiettivo della
riqualificazione della piazza cittadina,
(ritenuta tradizionale polo commerciale
della Marina di Leuca) perseguito attraverso
la realizzazione di cinque locali
commerciali per porre rimedio al degrado
urbanistico di edifici esistenti possa
essere raggiunto, non già attraverso il
rilascio di una concessione in deroga ,
quanto in regime di recupero dell’esistente,
ai sensi dello stesso art. 16 nta.
Quest’ultima disposizione stabilisce,
infatti, che in zona B3 sono consentite, tra
l’altro, “eventuali demolizioni e
ricostruzioni di edifici esistenti
attraverso la redazione di un progetto plano
volumetrico di zona che indichi i modi e i
tempi dell’intervento di ristrutturazione”.
La riqualificazione urbanistica di un sito
costituisce, del resto, obiettivo ordinario
di governo del territorio comunale che non
giustifica l’uso di uno strumento
derogatorio quale quello evocato dalla
difesa comunale e della contro interessata.
A tanto deve aggiungersi che il complesso
edilizio approvato con la delibera
consiliare impugnata include anche la
realizzazione di civili abitazioni al primo
piano .
Un programma edificatorio di questa natura,
che appare connotato dal perseguimento di un
preponderante interesse di marca
privatistica insito nella realizzazione di
immobili ad uso privato risulta
incompatibile con la finalità pubblicistica
da soddisfare, secondo la normativa tecnica
esaminata, per il rilascio di una
concessione in deroga .
Ne è prova la anomala compensazione che si è
ritenuto di poter effettuare, in sede di
rilascio dell’assenso edilizio, tra
l’importo degli oneri concessori e quello
delle “opere pubbliche“ che il
privato si è impegnato ad eseguire, in
violazione del principio di onerosità del
titolo concessorio, consacrato dall’art. 3
della legge Bucalossi 10/1977.
La concessione edilizia impugnata risente,
pertanto, delle violazioni che inficiano la
presupposta delibera di Consiglio Comunale e
va annullata anche per vizio proprio, per
quanto su ricordato
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza
09.07.2009 n. 1806 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
indicazioni grafiche contenute nelle
planimetrie di uno strumento urbanistico
hanno carattere precettivo e rappresentano
un modo di per sé valido ed efficace di
imporre vincoli e destinazioni di zona in
sede di pianificazione urbanistica; esse,
normalmente, vanno lette alla luce e nei
limiti delle norme contenute nello stesso
strumento, con la conseguenza che un
problema di prevalenza delle norme rispetto
alle predette indicazioni grafiche può porsi
solo in presenza di un contrasto insanabile.
Costituisce del resto principio consolidato,
secondo la giurisprudenza, che le
indicazioni grafiche contenute nelle
planimetrie di uno strumento urbanistico
hanno carattere precettivo e rappresentano
un modo di per sé valido ed efficace di
imporre vincoli e destinazioni di zona in
sede di pianificazione urbanistica; esse,
normalmente, vanno lette alla luce e nei
limiti delle norme contenute nello stesso
strumento, con la conseguenza che un
problema di prevalenza delle norme rispetto
alle predette indicazioni grafiche può porsi
solo in presenza di un contrasto insanabile
(così, tra molte, Cons. Stato, sez. IV,
05.06.1998 n. 917; Id., sez. IV, 12.06.2007
n. 3081; Id., 03.04.2009 n. 2110) (TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza
08.07.2009 n. 1792 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
decisione di ridurre l’altezza massima degli
edifici, a fronte di un consistete aumento
della cubatura realizzabile, costituisce
espressione della discrezionalità che deve
senza dubbio riconoscersi al Consiglio
comunale, in sede di approvazione delle
concessioni edilizie per la realizzazione di
opere di interesse pubblico, in deroga allo
strumento urbanistico, rispetto alla quale
non può invocarsi l’estensione del sindacato
giurisdizionale oltre i limiti della
manifesta irragionevolezza o
contraddittorietà, che nella specie non
sussiste.
La decisione di
ridurre l’altezza massima degli edifici, a
fronte di un consistete aumento della
cubatura realizzabile, è stata infatti
congruamente motivata nel corso della
discussione (cfr. l’intervento del Sindaco,
riportato a pag. 21 del verbale della seduta
del 10.11.1999) e costituisce espressione
della discrezionalità che deve senza dubbio
riconoscersi al Consiglio comunale, in sede
di approvazione delle concessioni edilizie
per la realizzazione di opere di interesse
pubblico, in deroga allo strumento
urbanistico, rispetto alla quale non può
invocarsi l’estensione del sindacato
giurisdizionale oltre i limiti della
manifesta irragionevolezza o
contraddittorietà, che nella specie non
sussiste (TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza
08.07.2009 n. 1792 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’iter previsto dall’art.
41-quater della l. n. 1150/1942 (ora art.
14 DPR 380/2001) prevede, come atto
terminale del procedimento azionato
dall’istante, la concessione edilizia (ora
permesso di costruire) in deroga, che è
accordata o negata previa deliberazione del
Consiglio Comunale. Quest’ultima si
configura, quindi, come atto interno del
procedimento, non immediatamente lesivo ed
impugnabile solo congiuntamente all’atto
finale, una volta che questo sia stato
emanato.
Tale deliberazione preliminare costituisce,
quindi, un elemento necessario del
procedimento amministrativo destinato a
sfociare nel rilascio o diniego della
concessione in deroga, con la conseguenza
che la sua assenza vizia il procedimento
stesso .
La necessità della pronuncia del Consiglio
Comunale, sostenuta dalla giurisprudenza,
pone in rilievo il dato che la
determinazione negativa del Consiglio sulla
deroga precluda il prosieguo del
procedimento di concessione edilizia in
ordine alla deroga stessa, specificando che,
a norma dell’art. 41-quater cit., è
illegittimo il rilascio di una concessione
edilizia in deroga quando la deroga non
consegua a deliberazione del Consiglio
Comunale.
---------------
A differenza degli altri titoli edilizi,
l’assenso in deroga presenta profili
marcatamente discrezionali in ordine
all’opportunità del rilascio, talché
l’esatta individuazione della specifica
finalità avuta di mira con la deroga è un
elemento aggiuntivo, ma decisamente
essenziale, del relativo provvedimento,
tanto da risultare talora finanche
consacrato in atti convenzionali ad hoc,
accessivi al provvedimento autorizzativo,
conclusi tra il richiedente e
l’Amministrazione procedente.
Il permesso di costruire in deroga consiste,
invero, al pari dell’omologa “vecchia”
concessione edilizia, in una disciplina
dell’uso del territorio che, sebbene
puntuale (ossia limitata al singolo
intervento), esorbita dall’ordinario regime
dei titoli costruttivi poiché spezza
l’uniformità giuridica delle regole
normalmente applicate nella zona urbanistica
di riferimento. L’esercizio del relativo
potere può quindi giustificarsi soltanto in
vista della soddisfazione di esigenze
straordinarie rispetto agli interessi
primari tutelati dalla disciplina
urbanistica generale. Si comprende allora
perché l’esatta perimetrazione dell’ambito
della deroga rappresenti, ancor oggi come in
passato, l’aspetto di maggiore
problematicità.
Al riguardo il Ministero dei lavori pubblici
ha offerto ai comuni, in più occasioni ed in
tempi diversi, alcuni criteri interpretativi
ai fini del corretto esercizio del potere in
questione, al duplice scopo di dare lumi
alle Amministrazioni locali e di impedirne
le prevedibili distonie applicative.
E’ stata dapprima emanata la circolare
dell'01.03.1963, n. 518, recante «Istruzioni
per l’applicazione dell’art. 3 delle legge
21.12.1955 n. 1357. Esercizio dei poteri
comunali di deroga alle norme di regolamento
edilizio e di attuazione dei piani
regolatori», che, al punto 2, dopo aver
sottolineato, nell’impossibilità di esporre
una precisa casistica, l’esigenza di
verificare, caso per caso, l’esistenza delle
condizioni di fatto per l’assenso alla
deroga, puntualizzava che gli edifici di
interesse pubblico fossero tutti quelli che,
pur non costruiti da enti pubblici,
presentassero comunque un «chiaro e diretto
interesse pubblico».
Venne in seguito diramata la circolare Min.
LL.PP., Direzione Generale dell’Urbanistica
del 28.10.1967, n. 3210, contenente le
istruzioni per l’applicazione della
legge-ponte che, al capo 12, dilatò il
concetto di “interesse pubblico”.
Nell’opinione ministeriale dovevano
intendersi come edifici ed impianti
pubblici, quelli per i quali ricorressero le
due condizioni dell’appartenenza ad enti
pubblici (requisito soggettivo) e della
destinazione a finalità di carattere
pubblico (requisito oggettivo); mentre erano
considerati edifici ed impianti di interesse
pubblico, quelli oggettivamente destinati a
finalità di carattere generale (di natura
economica, culturale, industriale, igienica,
religiosa, ecc.), a nulla rilevando il
profilo soggettivo della relativa titolarità
giuridica e, quindi, «indipendentemente
dalla qualità dei soggetti che li
realizzano».
Alla stregua di siffatta distinzione vennero
esemplificativamente classificate come
pubbliche le sedi degli uffici pubblici, le
scuole, le caserme; e di interesse pubblico
molti altri beni immobili, di proprietà
pubblica o privata, quali i conventi, i
poliambulatori, gli alberghi, gli impianti
turistici, le biblioteche, i teatri ed i
silos portuali.
Infine merita menzione la successiva
circolare 25.02.1970, n. 25/M che, al punto
3, rifacendosi espressamente ad un parere
reso dal Consiglio di Stato, ebbe a
valorizzare ampiamente il concetto di
interesse pubblico, evidenziando che
l’individuazione di esso «…non può essere
effettuata in base a criteri generali ed
astratti né è suscettibile di essere
precisata in ipotesi tassative, ma può
emergere esclusivamente dall’esame concreto
delle singole fattispecie … (L’interesse
pubblico) … va inteso nella sua accezione
tecnico-giuridica di interesse tipico, il
cui soddisfacimento e la cui tutela sono
assunti dalla P.A.; quindi non nel senso
lato di interesse collettivo o generale,
bensì in quello specifico di interesse
qualificato dalla sua rispondenza a fini
perseguiti dall’Amministrazione stessa».
Si è così affermato, in numerose decisioni,
che per l’individuazione dei fabbricati
suscettibili di derogare alle disposizioni
edilizie non fosse tanto rilevante la
qualità pubblica o privata dei soggetti
esecutori, ma che occorresse valutare, sotto
il profilo obiettivo, l’effettiva ricorrenza
di un nesso tra la destinazione
dell’edificio ed un interesse tipico
perseguito dalla Pubblica Amministrazione,
con specifico riferimento alla situazione
del singolo immobile.
Si è prodotto così l’effetto di un
ampliamento del campo di applicazione,
esteso fino al punto di comprendere i
tralicci per gli impianti televisivi «… in
ragione del carattere di preminente
interesse generale della diffusione di
programmi radiofonici o televisivi …
riconosciuto dall’art. 1 della legge n. 223
del 1990…» o, ancora, gli edifici destinati
all’ampliamento di una sede consolare di uno
Stato estero e, perfino, un impianto per il
tiro a volo,o le grandi strutture
commerciali di vendita.
Il nuovo testo della norma, come recepito
nell’art. 14 DPR 380/2001, non richiede più
che i poteri di deroga siano espressamente
«previsti da norme di piano regolatore e di
regolamento edilizio».
L’eliminazione di tale presupposto comporta
un’apprezzabile attenuazione della
tassatività dei casi in cui è consentito
ricorrere all’istituto. Per il resto la
norma, al pari della disciplina abrogata,
limita la possibilità di rilasciare titoli
edilizi in deroga per la sola realizzazione
di edifici ed impianti pubblici o di
interesse pubblico.
---------------
Un’altra questione controversa concerne
l’esatta portata dell’istituto circa
l’individuazione delle norme suscettibili di
deroga.
Con riguardo alla normativa statale, si sono
manifestati due differenti orientamenti:
da un lato, vi era chi riteneva
derogabile qualunque previsione di piano,
ivi comprese le destinazioni urbanistiche di
zona; dall’altro, la giurisprudenza
amministrativa assolutamente prevalente
negava siffatta possibilità ed, anzi,
tendeva ad escludere che attraverso la
concessione in deroga si potesse consentire
la realizzazione di volumi maggiori di
quelli autorizzabili o l’inosservanza degli
standard di altezza, distanza e densità
edilizia fissati dal d.m. 02.04.1968, n.
444; questi ultimi, in particolare, in
quanto ritenuti funzionali alla superiore
salvaguardia di esigenze di carattere
igienico sanitarie collegate al diritto alla
buona qualità della vita di tutti i
cittadini, erano considerati come un limite
inderogabile anche per l’autonomia
regolamentare degli enti locali.
Si opinava inoltre che l’insuperabilità
delle norme fissate dal d.m. cit.
discendesse dal principio
dell’inderogabilità delle norme primarie:
muovendo dal presupposto che il d.m. n.
1444/1968 era stato emanato in attuazione
dell’art. 41-quinquies l. urb., si pensava
che una deroga al primo si concretasse anche
in un’inammissibile deroga al secondo.
In tal senso, del resto, si era espresso in
epoca risalente il medesimo Ministero dei
lavori pubblici che, con la circolare del
28.02.1956, n. 847, aveva suggerito ai
Comuni (capo III, punto 2), per evitare che
l’esercizio dei poteri derogatori aggravasse
la densità fabbricativa di una zona o
ingenerasse inconvenienti di natura igienica
o di traffico, l’adozione del criterio del
c.d. “compenso dei volumi” nel caso di
licenza rilasciata in deroga alle altezze o
ai distacchi o a qualsiasi altra misura
prevista dalla locale normativa urbanistico-
edilizia. In altre parole, per evitare lo
sviluppo di un volume edilizio
complessivamente maggiore di quello
astrattamente risultante dalla corrente
applicazione delle norme edilizie della zona
di insistenza, le Amministrazioni avrebbero
dovuto far luogo a congrue e contemporanee
riduzioni di altri elementi costruttivi
quali la superficie occupata o i ritiri di
fronte.
La giurisprudenza ha sempre sostenuto,
coerentemente con un’esegesi restrittiva
dell’art. 41-quater l.urb., che le deroghe
previste nelle singole concessioni non
potessero mai travolgere le direttive di
ordine urbanistico stabilite nel P.R.G., non
potendo configurare una variante puntuale
alla pianificazione, e che, pertanto, non
fossero derogabili le destinazioni di zona
ivi previste.
Con il nuovo testo dell’art. 14 DPR
380/2001, commi 1 e 3, si sono fissati dei
“paletti” invalicabili al possibile oggetto
della deroga. In particolare, il permesso di
costruire non può essere rilasciato in
violazione:
- delle disposizioni contenute nel d.lg.
29.10.1999, n. 490, recante il testo unico
delle disposizioni in materia di beni
culturali ed ambientali; (ora d.lg.
22.01.2004, n. 41);
- delle altre «normative di settore» aventi
incidenza sulla disciplina dell’attività
edilizia;
- delle norme igieniche, sanitarie e di
sicurezza, se non limitatamente agli
standard di densità edilizia, di altezza e
di distanza tra i fabbricati di cui alle
norme di attuazione degli strumenti
urbanistici generali ed esecutivi;
- delle disposizioni di cui agli artt. 7, 8
e 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444.
Dall’insieme delle esclusioni alla deroga
emerge il quadro di un complessivo
ridimensionamento rispetto al passato della
“eccezionalità” dell’istituto.
Il Legislatore si è premurato di indicare,
in particolare, quali siano le norme degli
strumenti urbanistici (ivi compresi quelli
esecutivi) derogabili: a questo novero non
appartengono quelle che abbiano natura
igienica, sanitaria o di sicurezza, ma
esclusivamente le norme di attuazione che
fissino limiti di densità edilizia, di
altezza e di distanza fra i fabbricati.
Tuttavia il successivo capoverso chiarisce
che la deroga non può comunque riguardare
gli artt. 7, 8 e 9 del d.m. n. 1444/1968.
Pertanto, ancorché l’aspetto de quo non
investa l’esame del Tribunale che nella
specie deve scrutinare la legittimità della
revoca alla stregua delle motivazioni per le
quali la stessa è stata disposta, non appare
superfluo rilevare che in sede di emissione
del titolo in deroga, dovrà compiersi da
parte dell’amministrazione una attenta
valutazione della compatibilità della deroga
richiesta con le esclusioni indicate nella
disposizione normativa.
---------------
Infine, e per quanto qui interessa, si è
posto anche il problema della ammissibilità
di una deroga in sanatoria, risolvendolo
positivamente. L’emersione del principio si
ebbe in occasione delle note vicende del
«Palatrussardi» di Milano. La realizzazione
dell’edificio, destinata a sopperire
all’inagibilità del Palazzo dello Sport di
Milano danneggiato dagli agenti atmosferici,
fu originariamente assentita con due
autorizzazioni provvisorie per strutture
mobili. Tali autorizzazioni vennero però
successivamente annullate dal TAR Lombardia
in considerazione della loro ritenuta
inadeguatezza giuridica, trattandosi di una
tensostruttura di dimensioni notevoli,
costruita in metallo e cemento armato.
Per legittimare l’esistente fu così concessa
una deroga “in sanatoria”, previo nulla osta
regionale. In relazione al rilascio di
quest’ultimo atto il contenzioso è stato
definito dalla decisione del Consiglio di
Stato, sez. IV, 01.10.1997, n. 1057; con
tale pronuncia si è stabilito che la
costruzione in oggetto si inseriva
nell’esercizio delle funzioni amministrative
comunali di promozione di attività
ricreative e sportive ex art. 60, lett. a),
D.P.R. n. 616/1977 e che, pertanto,
rientrava nel novero degli edifici per i
quali poteva considerasi ammesso il rilascio
di concessioni in deroga.
---------------
La valutazione del Consiglio Comunale in
ordine alla possibilità di derogare ai
parametri dello strumento urbanistico, ha
carattere di valutazione discrezionale, e
l’amministrazione, nel porla in essere, ha
l’obbligo di dare puntuale motivazione della
scelta compiuta.
... per l'annullamento previa sospensione
dell'efficacia, della delibera n. 39 del
24.07.1998 di C.C. con cui è stata revocata
la delibera consiliare n. 30 del 30.06.1998
che aveva espresso parere favorevole al
rilascio di concessione edilizia in deroga.
...
Va premesso che la procedura per la
concessione edilizia in deroga è
disciplinata dall’art. 14 TU 380/2001,
intitolato “Permesso di costruire in deroga
agli strumenti urbanistici" (legge 17.08.1942, n. 1150, art. 41-quater, introdotto
dall'art. 16 della legge 06.08.1967, n.
765; decreto legislativo n. 267 del
2000, art. 42, comma 2, lettera b); legge 21.12.1955, n. 1357, art. 3), il quale
dispone: "1. Il permesso di costruire in deroga agli
strumenti urbanistici generali è rilasciato
esclusivamente per edifici ed impianti
pubblici o di interesse pubblico, previa
deliberazione del consiglio comunale, nel
rispetto comunque delle disposizioni
contenute nel decreto legislativo 29.10.1999, n. 490 e delle altre normative di
settore aventi incidenza sulla disciplina
dell'attività edilizia.
2. Dell'avvio del procedimento viene data
comunicazione agli interessati ai sensi
dell'articolo 7 della legge 07.08.1990,
n. 241.
3. La deroga, nel rispetto delle norme
igieniche, sanitarie e di sicurezza, può
riguardare esclusivamente i limiti di
densità edilizia, di altezza e di distanza
tra i fabbricati di cui alle norme di
attuazione degli strumenti urbanistici
generali ed esecutivi, fermo restando in
ogni caso il rispetto delle disposizioni di
cui agli articoli 7, 8 e 9 del decreto
ministeriale 02.04.1968, n. 1444.".
Sotto un profilo strettamente
procedimentale, rilevante ai fini dell’esame
della ammissibilità del presente ricorso, va
premesso che l’iter previsto dall’art.
41-quater della l. n. 1150/1942 (ora art.
14 DPR 380/2001) prevede, come atto
terminale del procedimento azionato
dall’istante, la concessione edilizia (ora
permesso di costruire) in deroga, che è
accordata o negata previa deliberazione del
Consiglio Comunale. Quest’ultima si
configura, quindi, come atto interno del
procedimento, non immediatamente lesivo ed
impugnabile solo congiuntamente all’atto
finale, una volta che questo sia stato
emanato (TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
09.04.1998, n. 728).
Tale deliberazione preliminare costituisce,
quindi, un elemento necessario del
procedimento amministrativo destinato a
sfociare nel rilascio o diniego della
concessione in deroga, con la conseguenza
che la sua assenza vizia il procedimento
stesso .
La necessità della pronuncia del Consiglio
Comunale, sostenuta dalla giurisprudenza,
pone in rilievo il dato che la
determinazione negativa del Consiglio sulla
deroga precluda il prosieguo del
procedimento di concessione edilizia in
ordine alla deroga stessa (C.d.S., Sez. V, 01.03.1993, n. 302), specificando che, a
norma dell’art. 41-quater cit., è
illegittimo il rilascio di una concessione
edilizia in deroga quando la deroga non
consegua a deliberazione del Consiglio
Comunale (C.d.S., Sez. V, 28.06.2004, n.
4759).
L’atto di revoca del nulla osta positivo
nella specie determina quindi un arresto
procedimentale lesivo ed immediatamente
impugnabile.
---------------
Tanto
premesso in punto di fatto, va osservato
quanto segue in punto di diritto.
Come sopra
premesso, la revoca del nulla osta positivo
è motivata sulla scorta dell’accertata
effettuazione della modifica di destinazione
di uso prima della emissione del
provvedimento positivo, e quindi sulla
scorta della falsità dei presupposti per far
luogo alla deroga ritenendosi incompatibili
deroga e sanatoria. Ben vero, nel corso della
discussione consiliare, è emerso anche un
ulteriore aspetto, ossia la incompatibilità
del mutamento di uso con la destinazione di
zona, sì che la deroga investirebbe lo
strumento urbanistico e non singoli
parametri di legge. Tuttavia la
determinazione messa ai voti investe la
impossibilità di sanare una attività già in
essere, sì che il provvedimento di secondo
grado si è formato con riferimento alla
suindicata motivazione.
Pur investendo quindi l’esame del Collegio
tale stretto profilo di diritto, stante i
limiti del giudizio impugnatorio, si ritiene
di premettere una breve ricostruzione
normativa ed interpretativa dell’istituto
del permesso di costruire in deroga, ai fini
di un miglior inquadramento della
fattispecie, e dell’effetto conformativo-prescrittivo della presente sentenza, sulla
successiva attività della P.A., al di là del
mero effetto tipico caducatorio del giudizio
su atti.
A differenza degli altri titoli edilizi,
l’assenso in deroga presenta profili
marcatamente discrezionali in ordine
all’opportunità del rilascio, talché
l’esatta individuazione della specifica
finalità avuta di mira con la deroga è un
elemento aggiuntivo, ma decisamente
essenziale, del relativo provvedimento,
tanto da risultare talora finanche
consacrato in atti convenzionali ad hoc,
accessivi al provvedimento autorizzativo,
conclusi tra il richiedente e
l’Amministrazione procedente.
Il permesso di costruire in deroga consiste,
invero, al pari dell’omologa “vecchia”
concessione edilizia, in una disciplina
dell’uso del territorio che, sebbene
puntuale (ossia limitata al singolo
intervento), esorbita dall’ordinario regime
dei titoli costruttivi poiché spezza
l’uniformità giuridica delle regole
normalmente applicate nella zona urbanistica
di riferimento. L’esercizio del relativo
potere può quindi giustificarsi soltanto in
vista della soddisfazione di esigenze
straordinarie rispetto agli interessi
primari tutelati dalla disciplina
urbanistica generale. Si comprende allora
perché l’esatta perimetrazione dell’ambito
della deroga rappresenti, ancor oggi come in
passato, l’aspetto di maggiore
problematicità.
Al riguardo il Ministero dei lavori pubblici
ha offerto ai comuni, in più occasioni ed in
tempi diversi, alcuni criteri interpretativi
ai fini del corretto esercizio del potere in
questione, al duplice scopo di dare lumi
alle Amministrazioni locali e di impedirne
le prevedibili distonie applicative.
E’ stata dapprima emanata la circolare dell'01.03.1963, n. 518, recante «Istruzioni
per l’applicazione dell’art. 3 delle legge
21.12.1955 n. 1357. Esercizio dei
poteri comunali di deroga alle norme di
regolamento edilizio e di attuazione dei
piani regolatori», che, al punto 2, dopo
aver sottolineato, nell’impossibilità di
esporre una precisa casistica, l’esigenza di
verificare, caso per caso, l’esistenza delle
condizioni di fatto per l’assenso alla
deroga, puntualizzava che gli edifici di
interesse pubblico fossero tutti quelli che,
pur non costruiti da enti pubblici,
presentassero comunque un «chiaro e diretto
interesse pubblico».
Venne in seguito diramata la circolare Min.
LL.PP., Direzione Generale dell’Urbanistica
del 28.10.1967, n. 3210, contenente le
istruzioni per l’applicazione della
legge-ponte che, al capo 12, dilatò il
concetto di “interesse pubblico”.
Nell’opinione ministeriale dovevano
intendersi come edifici ed impianti
pubblici, quelli per i quali ricorressero le
due condizioni dell’appartenenza ad enti
pubblici (requisito soggettivo) e della
destinazione a finalità di carattere
pubblico (requisito oggettivo); mentre erano
considerati edifici ed impianti di interesse
pubblico, quelli oggettivamente destinati a
finalità di carattere generale (di natura
economica, culturale, industriale, igienica,
religiosa, ecc.), a nulla rilevando il
profilo soggettivo della relativa titolarità
giuridica e, quindi, «indipendentemente
dalla qualità dei soggetti che li
realizzano».
Alla stregua di siffatta distinzione vennero
esemplificativamente classificate come
pubbliche le sedi degli uffici pubblici, le
scuole, le caserme; e di interesse pubblico
molti altri beni immobili, di proprietà
pubblica o privata, quali i conventi, i
poliambulatori, gli alberghi, gli impianti
turistici, le biblioteche, i teatri ed i
silos portuali.
Infine merita menzione la successiva
circolare 25.02.1970, n. 25/M che, al
punto 3, rifacendosi espressamente ad un
parere reso dal Consiglio di Stato, ebbe a
valorizzare ampiamente il concetto di
interesse pubblico, evidenziando che
l’individuazione di esso «…non può essere
effettuata in base a criteri generali ed
astratti né è suscettibile di essere
precisata in ipotesi tassative, ma può
emergere esclusivamente dall’esame concreto
delle singole fattispecie … (L’interesse
pubblico) … va inteso nella sua accezione
tecnico-giuridica di interesse tipico, il
cui soddisfacimento e la cui tutela sono
assunti dalla P.A.; quindi non nel senso
lato di interesse collettivo o generale,
bensì in quello specifico di interesse
qualificato dalla sua rispondenza a fini
perseguiti dall’Amministrazione stessa».
Si è così affermato, in numerose decisioni,
che per l’individuazione dei fabbricati
suscettibili di derogare alle disposizioni
edilizie non fosse tanto rilevante la
qualità pubblica o privata dei soggetti
esecutori, ma che occorresse valutare, sotto
il profilo obiettivo, l’effettiva ricorrenza
di un nesso tra la destinazione
dell’edificio ed un interesse tipico
perseguito dalla Pubblica Amministrazione,
con specifico riferimento alla situazione
del singolo immobile.
Si è prodotto così l’effetto di un
ampliamento del campo di applicazione,
esteso fino al punto di comprendere i
tralicci per gli impianti televisivi «… in
ragione del carattere di preminente
interesse generale della diffusione di
programmi radiofonici o televisivi …
riconosciuto dall’art. 1 della legge n. 223
del 1990…» o, ancora, gli edifici destinati
all’ampliamento di una sede consolare di uno
Stato estero e, perfino, un impianto per il
tiro a volo,o le grandi strutture
commerciali di vendita.
Il nuovo testo della norma, come recepito
nell’art. 14 DPR 380/2001, non richiede più
che i poteri di deroga siano espressamente
«previsti da norme di piano regolatore e di
regolamento edilizio».
L’eliminazione di tale presupposto comporta
un’apprezzabile attenuazione della
tassatività dei casi in cui è consentito
ricorrere all’istituto. Per il resto la
norma, al pari della disciplina abrogata,
limita la possibilità di rilasciare titoli
edilizi in deroga per la sola realizzazione
di edifici ed impianti pubblici o di
interesse pubblico.
Un’altra questione controversa concerne
l’esatta portata dell’istituto circa
l’individuazione delle norme suscettibili di
deroga.
Con riguardo alla normativa statale, si sono
manifestati due differenti orientamenti: da
un lato, vi era chi riteneva derogabile
qualunque previsione di piano, ivi comprese
le destinazioni urbanistiche di zona;
dall’altro, la giurisprudenza amministrativa
assolutamente prevalente negava siffatta
possibilità ed, anzi, tendeva ad escludere
che attraverso la concessione in deroga si
potesse consentire la realizzazione di
volumi maggiori di quelli autorizzabili o
l’inosservanza degli standard di altezza,
distanza e densità edilizia fissati dal d.m.
02.04.1968, n. 444; questi ultimi, in
particolare, in quanto ritenuti funzionali
alla superiore salvaguardia di esigenze di
carattere igienico sanitarie collegate al
diritto alla buona qualità della vita di
tutti i cittadini, erano considerati come un
limite inderogabile anche per l’autonomia
regolamentare degli enti locali.
Si opinava inoltre che l’insuperabilità
delle norme fissate dal d.m. cit.
discendesse dal principio
dell’inderogabilità delle norme primarie:
muovendo dal presupposto che il d.m. n.
1444/1968 era stato emanato in attuazione
dell’art. 41-quinquies l. urb., si pensava
che una deroga al primo si concretasse anche
in un’inammissibile deroga al secondo.
In tal senso, del resto, si era espresso in
epoca risalente il medesimo Ministero dei
lavori pubblici che, con la circolare del 28.02.1956, n. 847, aveva suggerito ai
Comuni (capo III, punto 2), per evitare che
l’esercizio dei poteri derogatori aggravasse
la densità fabbricativa di una zona o
ingenerasse inconvenienti di natura igienica
o di traffico, l’adozione del criterio del
c.d. “compenso dei volumi” nel caso di
licenza rilasciata in deroga alle altezze o
ai distacchi o a qualsiasi altra misura
prevista dalla locale normativa urbanistico-
edilizia. In altre parole, per evitare lo
sviluppo di un volume edilizio
complessivamente maggiore di quello
astrattamente risultante dalla corrente
applicazione delle norme edilizie della zona
di insistenza, le Amministrazioni avrebbero
dovuto far luogo a congrue e contemporanee
riduzioni di altri elementi costruttivi
quali la superficie occupata o i ritiri di
fronte.
La giurisprudenza ha sempre sostenuto,
coerentemente con un’esegesi restrittiva
dell’art. 41-quater l.urb., che le deroghe
previste nelle singole concessioni non
potessero mai travolgere le direttive di
ordine urbanistico stabilite nel P.R.G., non
potendo configurare una variante puntuale
alla pianificazione, e che, pertanto, non
fossero derogabili le destinazioni di zona
ivi previste (cfr. TRGA-Trento 10.04.2008 n. 913, CdS sez. V
05.11.1999, n. 1841).
Con il nuovo testo dell’art. 14 DPR 380/2001,
commi 1 e 3, si sono fissati dei “paletti”
invalicabili al possibile oggetto della
deroga. In particolare, il permesso di
costruire non può essere rilasciato in
violazione:
- delle disposizioni contenute nel d.lg. 29.10.1999, n. 490, recante il testo unico
delle disposizioni in materia di beni
culturali ed ambientali; (ora d.lg. 22.01.2004, n. 41);
- delle altre «normative di settore» aventi
incidenza sulla disciplina dell’attività
edilizia;
- delle norme igieniche, sanitarie e di
sicurezza, se non limitatamente agli
standard di densità edilizia, di altezza e
di distanza tra i fabbricati di cui alle
norme di attuazione degli strumenti
urbanistici generali ed esecutivi;
- delle disposizioni di cui agli artt. 7, 8 e
9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444.
Dall’insieme delle esclusioni alla deroga
emerge il quadro di un complessivo
ridimensionamento rispetto al passato della
“eccezionalità” dell’istituto.
Il Legislatore si è premurato di indicare,
in particolare, quali siano le norme degli
strumenti urbanistici (ivi compresi quelli
esecutivi) derogabili: a questo novero non
appartengono quelle che abbiano natura
igienica, sanitaria o di sicurezza, ma
esclusivamente le norme di attuazione che
fissino limiti di densità edilizia, di
altezza e di distanza fra i fabbricati.
Tuttavia il successivo capoverso chiarisce
che la deroga non può comunque riguardare
gli artt. 7, 8 e 9 del d.m. n. 1444/1968 (cfr.
anche CdS sez. V, sentenza n. 46 dell'11.01.2006 secondo cui il rilascio del
permesso di costruire in deroga è possibile
solo qualora lo stesso non pregiudichi in
termini significativi gli standard
urbanistici dell'area interessata).
Pertanto, ancorché l’aspetto de quo
non investa l’esame del Tribunale che nella
specie deve scrutinare la legittimità della
revoca alla stregua delle motivazioni per le
quali la stessa è stata disposta, non appare
superfluo rilevare che in sede di emissione
del titolo in deroga, dovrà compiersi da
parte dell’amministrazione una attenta
valutazione della compatibilità della deroga
richiesta con le esclusioni indicate nella
disposizione normativa.
Infine, e per quanto qui interessa, si è
posto anche il problema della ammissibilità
di una deroga in sanatoria, risolvendolo
positivamente. L’emersione del principio si
ebbe in occasione delle note vicende del
«Palatrussardi» di Milano. La realizzazione
dell’edificio, destinata a sopperire
all’inagibilità del Palazzo dello Sport di
Milano danneggiato dagli agenti atmosferici,
fu originariamente assentita con due
autorizzazioni provvisorie per strutture
mobili. Tali autorizzazioni vennero però
successivamente annullate dal TAR Lombardia
in considerazione della loro ritenuta
inadeguatezza giuridica, trattandosi di una
tensostruttura di dimensioni notevoli,
costruita in metallo e cemento armato.
Per legittimare l’esistente fu così concessa
una deroga “in sanatoria”, previo nulla osta
regionale. In relazione al rilascio di
quest’ultimo atto il contenzioso è stato
definito dalla decisione del Consiglio di
Stato, sez. IV, 01.10.1997, n. 1057; con
tale pronuncia si è stabilito che la
costruzione in oggetto si inseriva
nell’esercizio delle funzioni amministrative
comunali di promozione di attività
ricreative e sportive ex art. 60, lett. a),
D.P.R. n. 616/1977 e che, pertanto,
rientrava nel novero degli edifici per i
quali poteva considerasi ammesso il rilascio
di concessioni in deroga.
---------------
Giusta
quanto sopra più diffusamente esposto, la
valutazione del Consiglio Comunale in ordine
alla possibilità di derogare ai parametri
dello strumento urbanistico, ha carattere di
valutazione discrezionale, e
l’amministrazione, nel porla in essere, ha
l’obbligo di dare puntuale motivazione della
scelta compiuta (C.d.S., Sez. V, n.
4759/2004 cit.).
Per contro, anche il provvedimento di
annullamento di ufficio di una concessione
edilizia deve essere adeguatamente motivato
in ordine all’esistenza dell’interesse
pubblico, specifico e concreto, che
giustifica il ricorso all’autotutela anche
in ordine alla prevalenza del predetto
interesse pubblico su quello antagonista del
privato (cfr. ex multis, Tar Sicilia,
Catania, sez. I, 03.10.2005, n.1529; Tar
Basilicata, 10.05.2005, n. 299; Tar
Calabria, Catanzaro, sez. II, 24.04.2006, n. 422; Tar Trentino Alto Adige,
Trento, 02.01.2007, n. 4; Cons. Stato,
sez. V, 01.03.2003, n. 1150; idem, sez. V,
12.10.2004, n. 6554).
Detto orientamento
ha trovato, tra l’altro, conferma nelle
recenti disposizioni della Legge n. 15 del
2005, che ha introdotto l’art. 21-nonies alla
Legge n. 241 del 1990, sotto la rubrica
annullamento di ufficio: ogni procedimento
deve essere espressione di una congrua
valutazione comparativa degli interessi in
conflitto, di cui si deve dare atto nel
proprio corredo motivazionale (cfr. Tar
Campania, Napoli, sez. II, 12.02.2007,
n. 1003; Tar Marche, sez. I, 14.02.2007, n. 34; Cons. Stato, sez. IV,
31.10.2006, n. 6465) (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 13.02.2009 n. 799 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il
provvedimento di annullamento di ufficio di
una concessione edilizia deve essere
adeguatamente motivato in ordine
all’esistenza dell’interesse pubblico,
specifico e concreto, che giustifica il
ricorso all’autotutela anche in ordine alla
prevalenza del predetto interesse pubblico
su quello antagonista del privato.
Detto orientamento
ha trovato, tra l’altro, conferma nelle
recenti disposizioni della Legge n. 15 del
2005, che ha introdotto l’art. 21-nonies alla
Legge n. 241 del 1990, sotto la rubrica
annullamento di ufficio: ogni procedimento
deve essere espressione di una congrua
valutazione comparativa degli interessi in
conflitto, di cui si deve dare atto nel
proprio corredo motivazionale.
Per contro, anche il provvedimento di
annullamento di ufficio di una concessione
edilizia deve essere adeguatamente motivato
in ordine all’esistenza dell’interesse
pubblico, specifico e concreto, che
giustifica il ricorso all’autotutela anche
in ordine alla prevalenza del predetto
interesse pubblico su quello antagonista del
privato (cfr. ex multis, Tar Sicilia,
Catania, sez. I, 03.10.2005, n.1529; Tar
Basilicata, 10.05.2005, n. 299; Tar
Calabria, Catanzaro, sez. II, 24.04.2006, n. 422; Tar Trentino Alto Adige,
Trento, 02.01.2007, n. 4; Cons. Stato,
sez. V, 01.03.2003, n. 1150; idem, sez. V,
12.10.2004, n. 6554).
Detto orientamento
ha trovato, tra l’altro, conferma nelle
recenti disposizioni della Legge n. 15 del
2005, che ha introdotto l’art. 21-nonies alla
Legge n. 241 del 1990, sotto la rubrica
annullamento di ufficio: ogni procedimento
deve essere espressione di una congrua
valutazione comparativa degli interessi in
conflitto, di cui si deve dare atto nel
proprio corredo motivazionale (cfr. Tar
Campania, Napoli, sez. II, 12.02.2007,
n. 1003; Tar Marche, sez. I, 14.02.2007, n. 34; Cons. Stato, sez. IV,
31.10.2006, n. 6465) (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 13.02.2009 n. 799 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
linea generale, la comminatoria della
decadenza del titolo edilizio in contrasto
col nuovo piano regolatore trova la sua
“ratio” nell'esigenza che le sopravvenute
previsioni urbanistiche devono trovare
indefettibile applicazione (salva la
possibilità per l'interessato di
impugnarle), in quanto volte -per
definizione- ad un più razionale assetto del
territorio, per soddisfare gli interessi
pubblici e privati coinvolti.
Infatti, quando un nuovo piano determina le
aree destinate all'edificazione e soddisfa
gli “standards”, eliminando la natura
edificatoria di alcune aree determinate nel
piano precedente, l’edificazione delle aree
indicate nel piano precedente, ma destinate
a servizi in quello successivo,
determinerebbe un'alterazione delle
previsioni urbanistiche ed un irrazionale
assetto del territorio, con violazione della
normativa sugli standards.
Per contemperare i contrapposti interessi
pubblici e privati coinvolti in queste
situazioni, l'art. 15, comma 4, del testo
unico n. 380 del 2001 (così come il
precedente art. 31 della legge n. 1150 del
1942) ha previsto una eccezione alla regola
generale, secondo cui i lavori
precedentemente assentiti -pur contrastando
col piano sopravvenuto in vigore- possano
continuare ad essere realizzati se già
cominciati nel vigore del piano precedente
(e se siano completati entro il termine di
tre anni dalla data di inizio).
In assenza del dato obiettivo dell'inizio
dei lavori nel vigore del piano in base al
quale è stato emesso il titolo edilizio, la
legge dispone che va dichiarata la sua
decadenza, con un atto dovuto di natura
ricognitiva, avente effetti “ex tunc”.
Per l'art. 15, comma 2, del testo unico n.
380 del 2001 (riproduttivo di un principio
desumibile già dall'art. 31 della legge n.
1150 del 1942), il termine per l'inizio e
quello di compimento dei lavori "possono
essere prorogati, con provvedimento
motivato, per fatti sopravvenuti estranei
alla volontà del titolare del permesso".
Per il legislatore, tali "fatti
sopravvenuti" (che possono consistere nel
“factum principis” o in altri casi di “forza
maggiore”) non hanno un rilievo automatico,
ma possono costituire oggetto di valutazione
in sede amministrativa quando l'interessato
proponga una domanda di proroga, il cui
accoglimento è indefettibile purché non vi
sia la pronuncia di decadenza.
---------------
Sussiste la violazione dell’art. 7 della
legge 07.08.1990 n. 241 per omessa
comunicazione dell’avvio del procedimento
inteso alla declaratoria di decadenza della
concessione edilizia n. 577 del 17.05.1995,
per mancato completamento dei lavori entro
il termine, di cui all'art. 4 della legge n.
10/1977.
L’istituto è fondato sull'oggettivo decorso
del tempo previsto, con possibilità di
sospensione solo per cause espressamente
previste dalla legge o per ragioni di forza
maggiore, fra cui il cosiddetto "factum
principis", ovvero il provvedimento
dell'Autorità, non imputabile al titolare
della concessione e oggettivamente ostativo
dei lavori.
La declaratoria di decadenza non può
prescindere da un momento accertativo e -ove
detti presupposti sussistano- deve tradursi
in un provvedimento, a contenuto vincolato
ma con carattere autoritativo, non sottratto
all'obbligo generale di motivazione, di cui
all'art. 3 della legge 07.08.1990 n. 241 né
alla comunicazione di avvio del
procedimento.
La soluzione della questione non può che
muovere dalla rassegna dei riferimenti
normativi che presiedono agli effetti della
successione nel tempo degli strumenti
urbanistici, con particolare riguardo
all'adozione dei piani e delle relative
varianti.
L'art. 31, comma 11, della legge 17.08.1942
n. 150, stabilisce: "L'entrata in vigore
di nuove previsioni urbanistiche comporta la
decadenza delle licenze in contrasto con le
previsioni stesse, salvo che i relativi
lavori siano stati iniziati e vengano
completati entro il termine di tre anni
dalla data di inizio".
Tale disposizione è stata trasfusa nell'art.
15, comma 4, del D.P.R. 06.06.2001 n. 380
(vigente alla data di emanazione
dell'impugnato atto di diniego della
concessione demaniale), il quale precisa: "il
permesso decade con l'entrata in vigore di
contrastanti previsioni urbanistiche, salvo
che i lavori siano già iniziati e vengano
completati entro il termine di tre anni
dalla data di inizio".
In linea generale, la comminatoria della
decadenza del titolo edilizio in contrasto
col nuovo piano regolatore trova la sua “ratio”
nell'esigenza che le sopravvenute previsioni
urbanistiche devono trovare indefettibile
applicazione (salva la possibilità per
l'interessato di impugnarle), in quanto
volte -per definizione- ad un più razionale
assetto del territorio, per soddisfare gli
interessi pubblici e privati coinvolti.
Infatti, quando un nuovo piano determina le
aree destinate all'edificazione e soddisfa
gli “standards”, eliminando la natura
edificatoria di alcune aree determinate nel
piano precedente, l’edificazione delle aree
indicate nel piano precedente, ma destinate
a servizi in quello successivo,
determinerebbe un'alterazione delle
previsioni urbanistiche ed un irrazionale
assetto del territorio, con violazione della
normativa sugli standards.
Per contemperare i contrapposti interessi
pubblici e privati coinvolti in queste
situazioni, l'art. 15, comma 4, del testo
unico n. 380 del 2001 (così come il
precedente art. 31 della legge n. 1150 del
1942) ha previsto una eccezione alla regola
generale, secondo cui i lavori
precedentemente assentiti -pur contrastando
col piano sopravvenuto in vigore- possano
continuare ad essere realizzati se già
cominciati nel vigore del piano precedente
(e se siano completati entro il termine di
tre anni dalla data di inizio).
In assenza del dato obiettivo dell'inizio
dei lavori nel vigore del piano in base al
quale è stato emesso il titolo edilizio, la
legge dispone che va dichiarata la sua
decadenza, con un atto dovuto di natura
ricognitiva, avente effetti “ex tunc”
(ex plurimis: Cons. Stato, Sez. V,
09.09.1985, n. 288).
Per l'art. 15, comma 2, del testo unico n.
380 del 2001 (riproduttivo di un principio
desumibile già dall'art. 31 della legge n.
1150 del 1942), il termine per l'inizio e
quello di compimento dei lavori "possono
essere prorogati, con provvedimento
motivato, per fatti sopravvenuti estranei
alla volontà del titolare del permesso".
Per il legislatore, tali "fatti
sopravvenuti" (che possono consistere
nel “factum principis” o in altri
casi di “forza maggiore”) non hanno
un rilievo automatico, ma possono costituire
oggetto di valutazione in sede
amministrativa quando l'interessato proponga
una domanda di proroga, il cui accoglimento
è indefettibile purché non vi sia la
pronuncia di decadenza.
---------------
Con il primo
dei motivi aggiunti, la ricorrente deduce
violazione dell’art. 7 della legge
07.08.1990 n. 241 per omessa comunicazione
dell’avvio del procedimento inteso alla
declaratoria di decadenza della concessione
edilizia n. 577 del 17.05.1995, per mancato
completamento dei lavori entro il termine,
di cui all'art. 4 della legge n. 10/1977.
L’istituto è fondato sull'oggettivo decorso
del tempo previsto, con possibilità di
sospensione solo per cause espressamente
previste dalla legge o per ragioni di forza
maggiore, fra cui il cosiddetto "factum
principis", ovvero il provvedimento
dell'Autorità, non imputabile al titolare
della concessione e oggettivamente ostativo
dei lavori (ex plurimis: Cons. Stato,
Sez. V: 30.07.1986 n. 374; 12.03.1996 n. 256
e 23.11.1996 n. 1414; TAR Lazio, Roma, Sez.
II, 07.04.1993. n. 424; TAR Lazio, Latina,
24.01.1989, n. 35; TAR Sicilia, Palermo
13.10.1997 n. 1589).
Proprio in considerazione dei presupposti
sopra indicati, la declaratoria di decadenza
non può prescindere da un momento
accertativo e -ove detti presupposti
sussistano- deve tradursi in un
provvedimento, a contenuto vincolato ma con
carattere autoritativo, non sottratto
all'obbligo generale di motivazione, di cui
all'art. 3 della legge 07.08.1990 n. 241 né
alla comunicazione di avvio del procedimento
(ex plurimis: TAR Toscana,
07.11.2000, n. 2216).
In conformità ai principi sopra enunciati,
una giurisprudenza largamente prevalente
ritiene superato l'indirizzo, secondo cui
gli effetti della decadenza opererebbero
automaticamente, senza necessità di un
provvedimento formale (per quest'ultimo
indirizzo cfr. Cons. St. Sez. V, 27.06.1983,
n. 283 e 18.02.1991, n. 139; TAR Lombardia,
Brescia, 04.09.1995, n. 880; TAR Lombardia,
Milano, 05.02.2002, n. 434; contra -ovvero a
favore della tesi, qui accolta,
dell'esigenza di esplicita pronuncia- TAR
Lazio Roma, sez. I, 02.01.2008 n. 1; TAR
Veneto Venezia Sez. II 15.06.2007 n. 1940;
Cons. St., Sez. V: 24.10.1980, n. 886;
09.05.1983 n. 141; 15.06.1998 n. 834 e
26.06.2000 n. 3612; TAR Lazio, Latina:
04.02.1986 n. 18 e 24.01.1989, n. 35; TAR
Marche, Ancona, 14.05.1999, n. 562; TAR
Valle d'Aosta, 16.12.1998 n. 156; TAR
Campania, Salerno, 12.05.1998 n. 238; TAR
Umbria 09.06.1994 n. 366; TAR Abruzzo,
L'Aquila 04.04.1984 n. 177 e 05.10.2000 n.
803; TAR Abruzzo, Pescara 28.06.2002 n. 595;
TAR Lazio, Sez. II 08.03.1984 n. 386; TAR
Lombardia, Milano 31.12.1983, n. 1615; TAR
Calabria, Catanzaro 26.10.1983 n. 242).
Né nella specie può trovare applicazione
l’art. 21–octies, comma 2, primo periodo,
della legge n. 241 del 1990, secondo cui “non
è annullabile il provvedimento adottato in
violazione di norme sul procedimento o sulla
forma degli atti qualora, per la natura
vincolata del provvedimento, sia palese che
il suo contenuto dispositivo non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto
adottato”, poiché la ricorrente ha
comprovato l’utilità che sarebbe derivata
all’Amministrazione dal proprio contributo
partecipativo mediante l’indicazione delle
argomentazioni svolte con le censure
proposte in questo giudizio, e, in
particolare, con quelle già positivamente
delibate in sede di disamina del quarto e
del quinto profilo di gravame del ricorso
principale.
Pertanto, la censura merita accoglimento
(TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 24.11.2008 n. 1500 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Anche
i titolari di diritti personali di godimento
sono legittimati alla richiesta di titoli
edilizi, compatibili con l’effettiva
disponibilità del bene e con l’entità della
trasformazione oggetto della richiesta
autorizzatoria.
Infatti, la richiesta del condominio è stata
presentata al comune nella sua veste di
comodatario dell’area. Si tratta di
stabilire, allora, se la titolarità di tale
diritto di godimento sia sufficiente per
radicare la legittimazione alla richiesta
del titolo autorizzatorio e se il rilascio
del provvedimento edilizio sia impedito
dall’indicato atto di asservimento.
...
Il condominio
appellante basa la propria legittimazione
alla richiesta autorizzazione edilizia
facendo riferimento a un contratto di
comodato con il proprietario.
...
Del resto, la
giurisprudenza di questa Sezione ha più
volte chiarito che anche i titolari di
diritti personali di godimento sono
legittimati alla richiesta di titoli
edilizi, compatibili con l’effettiva
disponibilità del bene e con l’entità della
trasformazione oggetto della richiesta
autorizzatoria
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 19.09.2008 n. 4518 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
è necessario essere proprietari del suolo
per domandare un titolo edilizio, in quanto
è sufficiente, in alternativa alla
proprietà, una situazione di diritto privato
a ciò abilitante, vale a dire –per usare le
espressioni testuali della legge– l’avere un
“titolo per richiederlo” (cfr. art. 4 l.
28.01.1977, n. 10, ora art. 11 d.P.R.
06.06.2001, n. 380, secondo cui “il permesso
di costruire è rilasciato al proprietario
dell'immobile o a chi abbia titolo per
richiederlo”).
Oltre questo, vale comunque il limite
formale, posto dalle medesime disposizioni,
ed intrinseco al provvedimento, della
salvezza dei diritti dei terzi: perché il
titolo edilizio non incide sulla proprietà e
gli altri diritti reali, ma solo sulla
abilitazione a costruire.
Ma anche ad esaminare la fattispecie da un
punto di vista più formale, non sfugge che
siffatti elementi convergono nel dare piena
concretezza all’applicazione del principio
di legge per cui non è necessario essere
proprietari del suolo per domandare un
titolo edilizio, in quanto è sufficiente, in
alternativa alla proprietà, una situazione
di diritto privato a ciò abilitante, vale a
dire –per usare le espressioni testuali
della legge– l’avere un “titolo per
richiederlo” (cfr. art. 4 l. 28.01.1977,
n. 10, ora art. 11 d.P.R. 06.06.2001, n.
380, secondo cui “il permesso di
costruire è rilasciato al proprietario
dell'immobile o a chi abbia titolo per
richiederlo”).
Oltre questo, vale comunque il limite
formale, posto dalle medesime disposizioni,
ed intrinseco al provvedimento, della
salvezza dei diritti dei terzi: perché il
titolo edilizio non incide sulla proprietà e
gli altri diritti reali, ma solo sulla
abilitazione a costruire. Sicché –ove mai
qui la appellante si fosse dimostrata
davvero titolare di un diritto reale sul
suolo ostativo alla realizzazione
dell’impianto– questo diritto non sarebbe
stato intaccato dal provvedimento in
questione.
Sicché non ha rilevanza il fatto che chi ha
chiesto la concessione edilizia (la SE.GE.CO.
s.a.s.) non corrisponda ai proprietari del
suolo (Forti e Paolucci)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 05.06.2008 n. 2642 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Circa l’ammissibilità del
rilascio di licenze, concessioni o permessi
di costruire in deroga, inizialmente la
giurisprudenza amministrativa interpretava
l’espressione “impianti di interesse
pubblico”, di cui all’art. 41-quater della
L. 17.8.1942, n. 1150 (trasfuso nell’attuale
art. 14 del t.u. sull’edilizia, approvato
con d.p.r. 06.06.2001, n. 380), facendovi
rientrare solo interventi corrispondenti a
compiti assunti direttamente dalla pubblica
amministrazione ed escludendo così gli
alberghi.
Successivamente, però, il diritto vivente è
andato evolvendosi, offrendo
un’interpretazione della norma nel senso che
anche le strutture alberghiere rientrino fra
gli impianti di interesse pubblico, per i
quali è consentito il rilascio di
concessione edilizia in deroga. Questo
interesse pubblico, in particolare, è stato
individuato nello sviluppo del turismo e
della cultura.
---------------
La concessione edilizia in deroga allo
strumento urbanistico generale è legittima a
condizione che essa contravvenga soltanto
alle norme del regolamento edilizio o alle
norme d'attuazione del piano regolatore, e
non ad altre disposizioni.
Nell’ordinamento statale, circa
l’ammissibilità del rilascio di licenze,
concessioni o permessi di costruire in
deroga, inizialmente la giurisprudenza
amministrativa interpretava l’espressione “impianti
di interesse pubblico”, di cui all’art.
41-quater della L. 17.8.1942, n. 1150
(trasfuso nell’attuale art. 14 del t.u.
sull’edilizia, approvato con d.p.r.
06.06.2001, n. 380), facendovi rientrare
solo interventi corrispondenti a compiti
assunti direttamente dalla pubblica
amministrazione ed escludendo così gli
alberghi (cfr. Cons. Stato, V, 11.12.1992,
n. 1428; IV, 25.11.1988, n. 774).
Successivamente, però, il diritto vivente è
andato evolvendosi, offrendo
un’interpretazione della norma nel senso che
anche le strutture alberghiere rientrino fra
gli impianti di interesse pubblico, per i
quali è consentito il rilascio di
concessione edilizia in deroga (cfr. Cons.
St., V, 11.1.2006, n. 46; IV, 12.1.2005, n.
7031; IV, 29.10.2002, n. 5913; IV,
28.10.1999, n. 1641; V, 15.7.1998, n. 1044).
Questo interesse pubblico, in particolare, è
stato individuato nello sviluppo del turismo
e della cultura.
---------------
La concessione edilizia in deroga allo
strumento urbanistico generale è legittima a
condizione che essa contravvenga soltanto
alle norme del regolamento edilizio o alle
norme d'attuazione del piano regolatore, e
non ad altre disposizioni (cfr.: Cons.
Stato, V, 05.11.1999, n. 1841) (TRGA Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza
10.04.2008 n. 91 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Concessione edilizia in deroga
solo per opere di interesse generale.
L’intervento in deroga
può ritenersi ammissibile solo se ed in
quanto le opere autorizzate sono risultate
per certo destinate a finalità di interesse
pubblico (nella specie, all’uso alberghiero
e, più precisamente, a casa albergo); solo
in tal caso, infatti, l’ordinamento consente
–in presenza della previsione di tale
specifico potere in seno allo strumento di
pianificazione comunale– di derogare alla
ordinaria disciplina pianificatoria.
Poiché spettava, nella specie, alla Regione
l’individuazione del carattere di interesse
pubblico presentato dall’edificio per il
quale era richiesto il nulla osta al
rilascio della concessione in deroga, ne
consegue che la regione stessa ben poteva e
doveva sindacare se effettivamente
sussistessero i presupposti
giuridico-fattuali attestanti, al di là di
ogni ragionevole dubbio, che effettivamente
le opere da realizzare fossero finalizzate
alla soddisfazione di un siffatto interesse
pubblico.
Confermando la sentenza del Tribunale
Amministrativo Regionale per il Molise (cfr.
sentenza 12.11.1999, n. 478), la Sezione V
del Consiglio di Stato ha acclarato la
legittimità di un diniego di concessione
edilizia, richiesta in deroga agli strumenti
urbanistici locali: nella fattispecie, si
trattava di un’istanza di privati volta ad
ottenere una concessione facendo eccezione
alle previsioni urbanistiche ed edilizie
locali per l’aumento di volumetria di un
immobile sito nel centro storico cittadino
(come ricorda il Collegio, si trattava
dell’elevazione, per tre piani, di un
edificio, comportante un aumento di
volumetria di quasi 5.600 mc., destinati
alla realizzazione di diciassette unità
abitative).
A ciò si aggiunga che la realizzazione di
questa “casa albergo” presentava non
poche anomalie (mancanza di locali adibiti a
lavanderia, di servizio bar etc. gestiti
dalla stessa società alberghiera; assenza
della previsione che gli acquirenti delle
singole unità abitative destinassero le
stesse alla società alberghiera), per cui la
Regione ha ben ritenuto che tale
sistemazione non avrebbe assicurato, di
fatto, «l’effettiva utilizzazione
ricettiva analoga a quella alberghiera che,
in ipotesi, avrebbe potuto giustificare
l’intervento in questione in quanto
intervento di interesse pubblico; inoltre,
la trasformazione edilizia avrebbe
comportato il mancato rispetto degli
standards urbanistici per ciò che atteneva
alla dotazione minima dei parcheggi», da
ultimo determinando il diniego di nulla-osta
per l’evidente e concreta mancanza di
interesse pubblico e di ogni pubblica
utilità (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.01.2006 n. 46 - link a
www.altalex.com). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 4 della legge n. 10 del
28.01.1977 “la concessione è data dal
sindaco al proprietario dell’area o a chi
abbia titolo per richiederla”; ma deve
trattarsi di un titolo fondato su un diritto
reale, anche di servitù, o almeno su un
diritto obbligatorio (es., locazione), che
accordi al richiedente disponibilità del
bene immobile e la potestà edificatoria,
mentre una semplice relazione di fatto,
ancorché tutelata, quale quella legata al
possesso nella specie riconosciuto, non
appare tale da conferire il diritto a
vedersi rilasciato il titolo concessorio o,
come nella specie, quello autorizzatorio;
tanto più che nella specie le potestà che si
riconnettono al rilascio del contestato
titolo edificatorio si scontrano con la
volontà del legittimo proprietario dei beni
di cui si tratta, pure richiedente il
rilascio di analogo titolo.
La tutela possessoria accordata dal Pretore
con la sentenza n. 63/1986 atteneva, invero,
essenzialmente all’uso del bene, specie in
taluni periodi dell’anno, per finalità
religiose, ma non accordava al possessore
alcun diritto reale o obbligatorio rispetto
al bene di cui si discute; con la
conseguenza che nei confronti di detto
possessore non era configurabile una
posizione legittimante la richiesta del
titolo edificatorio ai sensi dell’art. 4
della legge n. 10 del 28.01.1977.
Tale norma prevede, infatti, che “la
concessione è data dal sindaco al
proprietario dell’area o a chi abbia titolo
per richiederla”; ma deve trattarsi di
un titolo fondato su un diritto reale, anche
di servitù, o almeno su un diritto
obbligatorio (es., locazione), che accordi
al richiedente disponibilità del bene
immobile e la potestà edificatoria, mentre
una semplice relazione di fatto, ancorché
tutelata, quale quella legata al possesso
nella specie riconosciuto, non appare tale
da conferire il diritto a vedersi rilasciato
il titolo concessorio o, come nella specie,
quello autorizzatorio; tanto più che nella
specie le potestà che si riconnettono al
rilascio del contestato titolo edificatorio
si scontrano con la volontà del legittimo
proprietario dei beni di cui si tratta, pure
richiedente il rilascio di analogo titolo.
Donde l’illegittimità dell’autorizzazione
rilasciata dal Comune a favore della
Parrocchia appellata e del conseguenziale
ordine di sospensione lavori avviati
dall’originario ricorrente (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 28.05.2001 n. 2882 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il promissario acquirente di un terreno
edificabile,
che ne abbia il possesso incontestato e
pacifico in forza di
un’apposita clausola di un contratto
preliminare di compravendita, è legittimato ad ottenere il rilascio
della concessione edilizia
per un intervento costruttivo da realizzare
su quel determinato
terreno, giacché la norma dell’art. 4, L.
n. 10/1977 privilegia la
disponibilità titolata dell’area, anche di
natura non dominicale
(Consiglio di
Stato, Sez. V, sentenza 18.06.1996, n. 718). |
AGGIORNAMENTO AL
06.08.2012 |
ã |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
TFS-TFR trattenuta del 2,5%.
I DUBBI SULLA LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE
DELLA TRATTENUTA SOLLEVATI DAL TRIBUNALE DEL
LAVORO DI ROMA.
Il punto della situazione sull'iniziativa
della UIL PA per l'abolizione della
trattenuta.
La nostra iniziativa che da alcuni mesi
stiamo portando avanti attraverso le diffide
individuali e con azioni giudiziarie mirate,
con cause pilota su alcune città, comincia a
dare i primi segnali che qualcosa si muove.
Sono stati presentati ricorsi ai Tribunali
del Lavoro di Milano (presentato 15.06.2012
- fissata udienza il 02.10.2012), Roma
(presentato il 27.06.2012), Foggia
(presentato il 27.06.2012).
E’ in fase avanzata la predisposizione degli
atti per la presentazione del ricorso ai
Tribunali del lavoro di Venezia e Torino.
Intanto su questa materia, per un ricorso
già presentato da personale della scuola, il
TRIBUNALE di Roma, Sez. lavoro, accogliendo
parzialmente le argomentazioni dei
ricorrenti, con
ordinanza 09.05.2012 ha investito la
Corte Costituzionale perché sia valutata la
legittimità della persistenza della
trattenuta del 2,5%, dopo l’entrata in
vigore dell’art. 12, comma 10, del D.L.
78/2010, con riferimento agli artt. 3
(principio di uguaglianza) e 36 (giusta
retribuzione) della Costituzione (link a
www.http://www.uilpa.it). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Modifiche alla legge regionale
sull’amianto (ANCE Bergamo,
circolare 03.08.2012 n. 208). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Permessi legge 104/1992.
Il Ministero del lavoro e delle politiche
sociali con l'interpello
01.08.2012 n. 24/2012 si pronuncia sul riproporzionamento dei giorni di permesso ex
art. 33, comma 3, legge n. 104/1992. Lo
esclude nei casi in cui il dipendente, nel
corso del mese, fruisca di altri
permessi/assenze giustificate riconosciute
per legge come diritti spettanti al
lavoratore (ad esempio, in caso di: permesso
sindacale, maternità, malattia, ecc...).
Diversamente, nell'ipotesi in cui il
dipendente presenti istanza ex lege
104/1992 per la prima volta nel corso del
mese, ritiene possibile operare un riproporzionamento
del numero di giorni mensili di permesso
spettanti (vedasi circolare INPS n.
128/2003) (tratto da www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA
:
(link a www.giustizia-amministrativa.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - LAVORI
PUBBLICI: G.U.
03.08.2012 n. 180 "Testo
del decreto-legge 06.06.2012, n. 74,
coordinato con la legge di conversione
01.08.2012, n. 122, recante: «Interventi
urgenti in favore delle popolazioni colpite
dagli eventi sismici che hanno interessato
il territorio delle province di Bologna,
Modena, Ferrara, Mantova, Reggio Emilia e
Rovigo, il 20 e il 29.05.2012»". |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 31 del
03.08.2012, "Modifiche e integrazioni
alla legge regionale 29.04.2003, n. 17
(Norme per il risanamento dell’ambiente,
bonifica e smaltimento dell’amianto)"
(L.R.
31.07.2012 n. 14). |
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 31 del
03.08.2012, "Determinazione della
procedura di valutazione ambientale di piani
e programmi - VAS (art. 4, l.r. n. 12/2005;
d.c.r. n. 351/2007) - Approvazione allegato
1u - Modello metodologico procedurale e
organizzativo della valutazione ambientale
di piani e programmi (VAS) – Variante al
piano dei servizi e piano delle regole"
(deliberazione
G.R. 25.07.2012 n. 3836). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - LAVORI PUBBLICI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 31 del
02.08.2012:
● "Schede dell’iniziativa FRISL 2012/2013
AB) “Interventi strutturali negli oratori
lombardi” e dell’iniziativa FRISL 2012-2014
G) “Centri di raccolta comunali o
intercomunali dei rifiuti urbani e
assimilati (d.m. 08.04.2008 e s.m.i.)” (deliberazione
G.R. 25.07.2012 n. 3846);
● "Direzione centrale Programmazione
integrata - Modalità per l’accesso ai
contributi FRISL 2012/2013 iniziativa AB)
“Interventi strutturali negli oratori
lombardi” e FRISL 2012/2014 iniziativa G)
“Centri di raccolta comunali e intercomunali
dei rifiuti urbani e assimilati (d.m.
08.04.2008 e s.m.i)” (Fondo ricostituzione
infrastrutture sociali lombardia) (l.r.
33/91)" (circolare
regionale 26.07.2012 n. 6). |
LAVORI PUBBLICI: G.U.
30.07.2012 n. 176 "Testo
del decreto-legge 06.06.2012 , n. 73,
coordinato con la legge di conversione
23.07.2012, n. 119, recante:
«Disposizioni urgenti in materia di
qualificazione delle imprese e di garanzia
globale di esecuzione»". |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.U.E.
24.07.2012 n. L/197 "DIRETTIVA
2012/19/UE DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL
CONSIGLIO del 04.07.2012 sui rifiuti di
apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE)
(rifusione)" (link a http://eur-lex.europa.eu). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
PUBBLICO IMPIEGO:
A. Migliozzi,
Dall’etica del dovere al diritto delle
responsabilità
(link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
N. Durante,
I doveri di fedeltà alla Repubblica,
disciplina ed onore (link a
www.giustizia-amminiostrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L.
Bitto,
Le aree «non idonee»
all’installazione di impianti a fonti
rinnovabili sono aree vietate?
(link a www.ipsoa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
F. Vanetti,
In attesa del D.M. su terre e rocce da
scavo... (link a www.lexambiente.it). |
URBANISTICA:
A. Roccella,
Governo del territorio e tutela del
paesaggio tra Cedu, legislazione statale e
legislazione regionale (link a
www.lexambiente.it). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Gli incarichi ex art. 110 TUEL
fuori dai vincoli sul lavoro flessibile.
La Corte dei Conti, Sez. Autonomie, con
deliberazione 11.07.2012 n. 12/2012 ha
emanato alcuni principi di diritto in
riferimento alla disposizione di cui al
riscritto comma 6-quater dell'articolo 19
del d.lgs 165/2001, relativa al conferimento
degli incarichi dirigenziali con contratto a
tempo determinato ex art. 110, comma 1, del
TUEL.
La disposizione di cui al riscritto comma
6-quater dell’articolo 19 del d.lgs
165/2001, relativa al conferimento degli
incarichi dirigenziali con contratto a tempo
determinato ex art. 110, comma 1 del TUEL, è
norma assunzionale speciale e parzialmente
derogatoria rispetto al regime vigente.
Da ciò consegue che:
1.
gli incarichi conferibili (contingente) con
contratto a tempo determinato in
applicazione delle percentuali individuate
dal riscritto comma 6-quater dell’articolo
19, del d.lgs 165/2001, riguardano solo ed
esclusivamente le funzioni dirigenziali;
2.
a detti incarichi non si applica la
disciplina assunzionale vincolistica
prevista dall’articolo 9, comma 28 del d. l.
78/2010;
3.
gli enti che intendono conferire detti
incarichi (la cui spesa va considerata ai
sensi dell’art.1 comma 557 e 562 della L.
296/2006), oltre ad osservare gli obblighi
assunzionali (generali) previsti per tutte
le pubbliche amministrazioni (richiamati
nella presente deliberazione), devono essere
in linea con i vincoli di spesa ed
assunzionali per gli stessi previsti dalla
normativa in vigore e di seguito richiamati:
● rispetto del patto di stabilità interno, se tenuti;
● riduzione della spesa del personale rispetto a quella sostenuta
nell’anno precedente (art. 1, comma 557,
Legge 296/2006 per gli enti soggetti al
patto di stabilità) o contenimento della
stessa entro il valore di quella relativa
all’anno 2008 (art. 1, comma 562, primo
periodo, Legge 296/2006, per gli enti
minori);
● contenimento nella percentuale normativamente prevista del
rapporto tra spesa del personale e spesa
corrente (attualmente 50% articolo 76, comma
7, primo periodo, prima parte, d.l.
112/2008);
4.
gli incarichi conferibili in applicazione
della disposizione derogatoria di cui al
terzo periodo del richiamato comma 6–quater
relativa all’utilizzo dell’ulteriore
percentuale (3%) prevista e quelli
rinnovabili per una sola volta entro l’anno
2012 in applicazione delle previsioni del
quinto periodo del medesimo comma, non sono
soggetti al vincolo finanziario di cui
all’articolo 9, comma 28, del d.l. 78/2010
ma, restano comunque soggetti al vincolo
assunzionale di cui all’articolo 76, comma
7, primo periodo, seconda parte, del d.l.
112/2008) (entro il limite del 40% della
spesa per cessazioni dell’anno precedente)
(Corte dei Conti, Sez. autonomie,
deliberazione 11.07.2012 n. 12). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA: Semplificato
il percorso per i permessi edilizi. Niente
copie di documenti già in possesso
dell'amministrazione.
Le novità introdotte dal decreto sviluppo
incidono profondamente sull'attività
edilizia, liberalizzando le procedure
soprattutto se i lavori si svolgono
all'interno delle unità produttive.
Vediamole in sintesi.
Sportello unico
Lo sportello unico per l'edilizia diventa il
punto di riferimento obbligato per tutti gli
atti «riguardanti il titolo abitativo e
l'intervento edilizio oggetto dello stesso».
Lo sportello fornisce una risposta
tempestiva in luogo di tutte le Pa comunque
coinvolte.
Tutti gli atti dovranno essere gestiti da
questa struttura, e altri uffici comunali o
altre amministrazioni coinvolte dal
procedimento non potranno trasmettere
autonomamente «ai richiedenti» atti
autorizzatori, pareri, nulla osta o
consensi.
Dia e Scia
Viene stabilito che, nei casi in cui per la
Dia è prevista l'acquisizione di atti o
pareri di organi o enti, essi sono sempre
sostituiti dalle autocertificazioni o dalle
asseverazioni di tecnici abilitati che
potranno essere prodotte insieme alla
denuncia. Con alcune eccezioni, come i casi
di vincoli ambientali o di limiti dovuti
alla sismicità. Le amministrazioni avranno
la possibilità di effettuare le loro
verifiche in un secondo momento.
Permesso di costruire
Per il rilascio del permesso di costruire,
rientra nelle competenze dello sportello
unico l'acquisizione, diretta o tramite
conferenza di servizi, di pareri di
amministrazioni finora escluse. Tra queste,
Regione, Difesa e autorità sui vincoli
idrogeologici.
Il responsabile dello sportello unico ha
l'obbligo di indire la conferenza di servizi
se entro sessanta giorni dalla domanda manca
ancora qualche nulla osta o c'è il dissenso
di qualche amministrazione.
Documenti inutili
Scatta un taglio consistente della
documentazione richiesta per tutti gli
interventi, compresi quelli minori fatti in
casa, grazie all'acquisizione d'ufficio dei
documenti già in possesso degli uffici
pubblici, come documenti catastali o
variazioni di mappa.
In base alle nuove disposizioni contenute
nella versione definitiva del Dl Sviluppo le
amministrazioni «non possono richiedere
attestazioni, comunque denominate, o
perizie, sulla veridicità e l'autenticità di
tali documenti, informazioni e dati».
Lavori nelle imprese
Novità importanti nei fabbricati adibiti a
esercizio d'impresa, nei quali possono
essere realizzate modifiche interne di
carattere edilizio o mutamenti di
destinazione d'uso senza alcun titolo
abilitativo. Lo consente l'articolo 13-bis
del Dl Sviluppo.
Dal giugno 2012 tutti gli interventi edilizi
interni sono sottratti al passaggio
burocratico del Comune, perché sono
equiparati alle opere libere, che non
esigono titoli edilizi. Prima erano esclusi
solo manutenzione straordinaria, pannelli
solari e aree ludiche.
Cambi di destinazione d'uso
Vengono regolati anche i mutamenti di
destinazione d'uso dei locali adibiti a
esercizio di impresa: all'interno di un
immobile d'impresa i singoli locali (uffici,
magazzini, depositi, servizi) possono
trasmigrare da una destinazione all'altra.
Le nuove libertà riguardano non solo le aree
produttive, ma in generale tutte le
destinazioni a esercizio di impresa, quindi
anche qualsiasi intervento di tipo
produttivo purché interno all'attività (articolo Il
Sole 24 Ore del
04.08.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Edilizia.
Uno scatto procedurale nel nuovo accordo
Abi-Ance. Sconto dei crediti Pa: basta il
certificato lavori.
Le imprese appaltatrici
di lavori pubblici non avranno bisogno di
seguire la complessa procedura di
certificazione dei crediti con la Pa
prevista dalla legge per attivare presso gli
sportelli bancari gli strumenti di
smobilizzo o di anticipazione finanziaria
previsti dai protocolli Abi del 28 febbraio
e del 22.05.2012: sarà sufficiente
presentare invece il certificato lavori
emesso dall'amministrazione debitrice.
È quanto afferma l'addendum firmato ieri fra
Abi (associazione bancaria italiana) e Ance
(associazione nazionale costruttori edili)
per recepire le specificità del settore
edilizio nell'ambito degli accordi
sottoscritti nel corso dell'anno fra
l'associazione bancaria e il mondo
imprenditoriale. Di fatto, la procedura di
certificazione si azzera per le imprese
edili perché il certificato lavori è un
documento ordinario all'interno delle
procedure di appalto.
Le uniche integrazioni che le imprese di
costruzioni dovranno presentare sono un «estratto
conto elenco documenti di Equitalia relativo
alla presenza di inadempienze all'obbligo di
versamento derivante dalla notifica di una o
più cartelle di pagamento», le fatture
quietanzate per i subappalti, la
dichiarazione del l'amministrazione
debitrice in caso di anticipazione con
cessione del credito.
L'addendum Abi-Ance contiene una seconda
disposizione che prevede la possibilità per
l'impresa di ricevere dalla banca
un'anticipazione pari almeno al 70% del
credito certificato «al netto di eventuali
debiti verso la Pa». La condizione è
ovviamente che il fondo di garanzia per le
Pmi rilasci la propria copertura con
garanzia o controgaranzia, secondo quanto
previsto dall'accordo generale.
«L'addendum con l'Abi -commenta il
presidente del l'Ance, Paolo Buzzetti- è un
importante passo avanti ottenuto grazie al
forte appoggio dell'associazione bancaria.
Questa intesa non soltanto evita procedure
di certificazione che sarebbero state molto
lunghe e pesanti, ma consente, per la stessa
ragione, di anticipare l'applicazione degli
accordi, rendendola di fatto quasi immediata».
Anche questo passaggio, tuttavia, non basta
affatto rispetto a un problema generale che
per il 30-40% colpisce proprio le imprese di
costruzioni. «Anche questa intesa –dice
Buzzetti– non risolve il problema del
pagamento dei crediti che per il settore è
diventato drammatico» e l'Ance stima in
19 miliardi.
Per l'associazione dei costruttori «non è
con le anticipazioni bancarie che il
problema può essere risolto perché l'unica
vera soluzione è che lo Stato cominci a
pagare i suoi debiti. Il Governo non può
sfuggire questo passaggio obbligatorio».
Questo non soltanto perché «l'anticipazione
costa, andando quindi a ridurre i margini
dell'impresa sull'appalto, e perché
l'anticipazione andrà comunque restituita.
Ma anche perché –aggiunge il presidente
dell'Ance– l'anticipazione, così come i
decreti ingiuntivi che pure noi abbiamo
promosso, rischiano di risolversi in altri
palliativi in cui ci avvitiamo, se poi lo
Stato non paga».
Buzzetti lancia quindi un segnale chiaro al
Governo. «Sono state fatte cose
importanti –dice– con il decreto sviluppo e
noi lo abbiamo riconosciuto. Ma tutti devono
capire che senza una forte iniezione di
liquidità il settore non si rimette in moto.
Se lo Stato non paga i suoi debiti, anche le
misure positive del decreto sviluppo saranno
vanificate»
(articolo Il
Sole 24 Ore del
04.08.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Corte
conti: no a limiti di spesa sui dirigenti a
termine.
Negli enti locali da
oggi meno paletti sugli incarichi
dirigenziali con contratto a tempo
determinato.
La disposizione contenuta nei primi due
periodi dell'articolo 19, comma 6-quater,
del dlgs 165/2001, secondo cui negli enti
locali il limite massimo degli incarichi è
conferito in base alla dimensione
demografica dell'ente, è norma assunzionale
speciale e parzialmente derogatoria al
regime oggi vigente. ...
(articolo ItaliaOggi del
03.08.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: P.a.,
niente soldi dalle ferie residue. I giorni
di riposo non goduti non possono essere
monetizzati.
Dallo scorso 7 luglio le
ferie non fruite da parte dei dirigenti e
dei dipendenti delle amministrazioni
pubbliche non possono essere monetizzate.
Tale divieto sembra applicarsi anche alle
specifiche istanze avanzate prima di tale
data e che non hanno avuto una risposta
positiva. Si raccomanda ai dirigenti e ai
responsabili di prestare particolare
attenzione al rispetto di questa
disposizione. La sua violazione determina
infatti sia il maturare di responsabilità
disciplinare ed amministrativa sia l'obbligo
di restituzione da parte del dipendente.
Sono queste le principali indicazioni
contenute nel comma 8 dell'articolo 5 del dl
n. 95/2012, la cosiddetta spending review,
per come licenziato dal senato. Da
sottolineare che sul punto non si sono avute
variazioni di rilievo nel corso dell'esame
parlamentare.
Questa misura si inserisce nel quadro delle
iniziative per conseguire risparmi di spesa
nel pubblico impiego. Essa vuole inoltre
sanare una condizione di anomalia presente
in molte amministrazioni pubbliche in cui i
dipendenti e/o i dirigenti non godono dei
periodi di ferie fissati dai contratti
collettivi nazionali di lavoro. Ricordiamo
che le ferie sono un diritto «non
disponibile», che deve quindi essere
goduto da parte dei dipendenti perché
servono a garantirgli il recupero delle
energie psicofisiche: in questo senso vanno
i principi dettati nella nostra
Costituzione.
In applicazione di questi principi, i
dirigenti in quanto dotati dei poteri e
delle capacità del privato datore di lavoro
possono o, per molti aspetti, devono
collocare d'autorità in quiescenza i
dipendenti che non chiedono le ferie. La
normativa contrattuale, in particolare
quella del personale ...
(articolo ItaliaOggi del
03.08.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
APPALTI SERVIZI: Servizi
pubblici punto e a capo. La Corte
costituzionale ha spazzato via la stretta
sull'in house. La decisione porta a
riflettere sull'opportunità di continuare a
osteggiare gli affidamenti.
Merita un approfondimento particolare lo
scenario dei servizi pubblici a esito
dell'ennesimo accadimento che ha riguardato
la materia, ovvero la sentenza della Corte
costituzionale n. 199/2012. Il termine non è
utilizzato per errore, poiché di reali
accadimenti occorre ormai parlare in
relazione a una materia, quella dei servizi
pubblici locali, oggetto da ormai più di un
decennio, a più livelli e a più riprese, di
tentativi di riforme organiche, di
correttivi in grado di modificare il
precedente assetto, di una cospicua
evoluzione delle discipline settoriali e
regionali e, come nell'ipotesi di specie, di
interventi della stessa Corte
costituzionale.
Ciò che deriva è un quadro desolante.
Certamente non sono in dubbio i moduli
gestionali dei servizi. Infatti, al di là
del tentativo del nostro legislatore di
limitare il ricorso alle forme dell'in
house providing, non si può disconoscere
che tale modello gestionale, unitamente a
quelli della concessione a terzi con gara e
al partenariato pubblico-privato,
rappresentino tutti dei modelli la cui
validità e vigenza è un dato ormai
acquisito. Ciò che, tuttavia, appare dubbio
è il problematico contorno ...
(articolo ItaliaOggi del
03.08.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - EDILIZIA PRIVATA:
La pubblicità sulle gru si paga
se eccede i limiti. Un decreto del Mef fissa
i paletti.
L'imposta sulla
pubblicità non è dovuta per il marchio di
fabbrica apposto sulle gru mobili, sulle gru
a torre adoperate nei cantieri edili e sulle
macchine da cantiere, purché la superficie
complessiva non ecceda i limiti disposti da
un recente decreto dal ministero
dell'economia e delle finanze.
Il provvedimento datato 26.07.2012, in corso
di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e
anticipato ...
(articolo ItaliaOggi del
02.08.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Illegittimità provata allegando
l'atto. Agevolato il percorso del cittadino
contro la p.a..
Per dimostrare la colpa
dell'amministrazione, il privato,
danneggiato da un provvedimento illegittimo,
può anche limitarsi ad allegare la sola
illegittimità dell'atto:
è quanto si evince nella
sentenza 12.06.2012 n. 3444 della V Sez.
del Consiglio di Stato. ...
(articolo ItaliaOggi del
02.08.2012 - tratto da
www.ecostampa.it).
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Osserva la Sezione che la pronuncia in
scrutinio correla il sorgere della
responsabilità dell’Amministrazione
direttamente all’illegittimità
provvedimentale emersa, senza svolgere
particolari argomentazioni circa l’elemento
della colpa.
Una simile impostazione, peraltro, si
inserisce nell’alveo di un preciso ordine
concettuale più volte condiviso anche da
questa Sezione, la quale ha avuto modo di
osservare che ai fini della configurazione
del diritto al risarcimento del danno
derivante dalla lesione di interessi
legittimi l'illegittimità dell'atto
amministrativo costituisce un indice
presuntivo della colpa della P.A., sulla
quale semmai incombe l'onere di provare la
sussistenza di un proprio errore scusabile
(C.d.S., V, 31.10.2008, n. 5453).
Più ampiamente, la giurisprudenza ha
sottolineato (cfr. ad es. C.d.S., VI,
09.03.2007 n. 1114 e 09.06.2008 n. 2751) che
al privato danneggiato da un provvedimento
illegittimo non è richiesto un particolare
impegno probatorio per dimostrare la colpa
dell’Amministrazione. Il privato può
limitarsi ad allegare l'illegittimità
dell'atto, potendosi ben fare applicazione,
al fine della prova dell'elemento
soggettivo, delle regole di comune
esperienza e della presunzione semplice di
cui all'art. 2727 del codice civile. E
spetta a quel punto all'Amministrazione
dimostrare, se del caso, che si è verificato
un errore scusabile, il quale è
configurabile, ad esempio, in caso di
contrasti giurisprudenziali
sull'interpretazione di una norma, di
formulazione incerta di norme da poco
entrate in vigore, di rilevante complessità
del fatto, di influenza determinante di
comportamenti di altri soggetti, o di
illegittimità derivante da una successiva
dichiarazione di incostituzionalità della
norma applicata (cfr., tra le tante, C.d.S.,
IV, 12.02.2010, n. 785; V, 20.07. 2009, n.
4527).
Nel caso di specie, però, nessuno dei
predetti fattori giustificativi è stato
fatto riscontrare, non avendo la parte
onerata addotto alcuna precisa e
significativa incertezza interpretativa che
potesse giustificare il suo operato dannoso.
Senza dire che la Corte di Giustizia
dell’U.E. ha recentemente chiarito che la
direttiva 89/665 deve essere interpretata
nel senso che essa osta ad una normativa
nazionale la quale subordini il diritto ad
ottenere un risarcimento a motivo di una
violazione della disciplina sugli appalti
pubblici, da parte di un'Amministrazione
aggiudicatrice, al carattere colpevole di
tale violazione. E questo anche nel caso in
cui l'applicazione della normativa in
questione sia incentrata su una presunzione
di colpevolezza in capo all'Amministrazione
suddetta, nonché sull'impossibilità per
quest'ultima di far valere la mancanza di
proprie capacità individuali e, dunque, un
ipotetico difetto di imputabilità soggettiva
della violazione lamentata (Corte giustizia
CE, sez. III, 30.09.2010, proc. C-314/09)
(link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: P.a., i tagli non bloccano i concorsi.
Assunzioni ok anche negli enti oggetto di
riorganizzazione. Il maxiemendamento al dl
9.5 consente l'immissione in servizio dei
vincitori rimasti al palo.
Nonostante i tagli agli organici, la p.a.
non smetterà di assumere là dove necessario.
Il maxiemendamento alla spending review (dl
95/2012) introduce nell'articolo 14 un comma
4-bis, che consente alle amministrazioni
interessate ai processi di riorganizzazione
previsti dall'articolo 2 del medesimo
decreto di attivare l'immissione in servizio
dei vincitori di concorso rimasti al palo, a
causa dei vari blocchi e tetti delle
assunzioni, anche avvalendosi delle
graduatorie di altre amministrazioni,
utilizzando quanto prevede l'articolo 3,
comma 61, della legge 350/2003, previo
accordo tra le amministrazioni.
L'emendamento sblocca le assunzioni dei
vincitori di concorso per rispondere
«all'esigenza di ottimizzare l'allocazione
del personale presso le amministrazioni
soggette agli interventi di riduzione
organizzativa» nonché «al fine di consentire
ai vincitori di concorso una più rapida
immissione in servizio» e consente le
assunzioni per il triennio 2012-2014.
Dette assunzioni potranno essere effettuate
...
(articolo ItaliaOggi dell'01.08.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI:
SPENDING REVIEW VERSO IL
TRAGUARDO/ Sanità, statali, enti locali:
tutti i tagli. Estensione del modello Consip,
tasse universitarie, limiti ai compensi dei
manager.
Tasse universitarie, prescrizioni dei
farmaci e tagli alle Spa pubbliche sono le
novità che hanno contrassegnato il rush
finale dell'esame a Palazzo Madama. Ma
particolarmente intenso è stato tutto il
lavoro svolto nelle ultime due settimane in
Commissione Bilancio, dove sono stati
numerosi gli interventi di modifica al testo
del Governo.
A partire dall'aumento dell'addizionale
regionale Irpef nelle otto Regioni in
disavanzo sanitario, fino al tetto per gli
stipendi dei manager delle società non
quotate partecipate dallo Stato. O come la
mancata deroga al taglio delle province e il
salvataggio di Covip, del Centro
sperimentale di cinematografia e della
Cineteca nazionale. Modifiche che, come ha
sottolineato ieri il ministro della
Cooperazione e l'Integrazione, Andrea
Riccardi, «non mettono in discussione
l'architettura fondamentale del provvedimento».
Il decreto, che entra ora nella sua
complessa fase attuativa era nato con
l'obiettivo primario di scongiurare
l'aumento delle due aliquote principali
dell'Iva del 10 e del 21% garantendo minori
spese per 3,7 miliardi quest'anno, 10,23
l'anno venturo e 11,17 miliardi nel 2014. A
questo obiettivo s'è aggiunto l'intervento
per la salvaguardia di una seconda platea di
esodati (55mila con una maggiore spesa
prevista nei prossimi sette anni di 4,1
miliardi) e gli stanziamenti per la
ricostruzione nelle zone colpite dal
terremoto in Emilia.
Norme non previste nel primo disegno del
decreto alle quali, come detto, si sono poi
aggiunti gli interventi di riordino delle
province, che verranno dimezzate, il decreto
dismissioni (con il trasferimento alla Cassa
depositi e prestiti di Sace, Simest e
Fintecna), il riordino delle Agenzie fiscali
e, altro provvedimento aggiunto,
l'intervento straordinario del ministero
dell'Economia per il rafforzamento
patrimoniale del Monte del Paschi di Siena
(3,9 miliardi). ...
(articolo Il Sole 24
Ore dell'01.08.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI: Spa pubbliche, colpito solo l'in house.
Salta l'estensione della riduzione di cda e
personale a tutte le società controllate
dalla Pa.
LIMITI AL METODO CONSIP/
Gli acquisti della Pa non saranno vincolati
alle regole se i contratti saranno stati
conclusi con uno sconto del 20%.
Arriverà soltanto nella mattinata di oggi il
primo via libera dell'Aula del Senato al
decreto sulla spending review. Dopo una
giornata iniziata con la mancanza del numero
legale e proseguita in attesa che il Governo
mettesse a punto il maxiemendamento,
soltanto nella serata è giunta la richiesta
di fiducia da parte del ministro Piero
Giarda. Il che ha spinto la conferenza dei
capigruppo a far slittare a oggi il via
libera al provvedimento d'urgenza.
Nel maxiemendamento depositato ieri sono
state recepite le modifiche apportate dalla
commissione Bilancio del Senato e
soprattutto è stato "imbarcato" il
cosiddetto decreto legge sulle dismissioni
con l'accorpamento delle agenzie fiscali nel
testo licenziato dalle commissioni Finanze e
Bilancio sempre di Palazzo Madama.
Operazione che ha obbligato il Governo a
ritornare in commissione Bilancio per un
veloce esame e far iniziare
soltanto dopo le 20 di ieri la discussione
sulla fiducia. Soltanto alle 9,00 di questa
mattina si partirà con le dichiarazioni di
voto e dopo le 10,20 avranno inizio le
votazioni.
Il testo, ricomposto in forma di
maxi-emendamento, conferma innanzitutto il
via libera al contributo via convenzione con
Abi per l'attivazione di un plafond di 6
miliardi per la ricostruzione nella zone
colpite dal terremoto in Emilia. Avrà la
forma del credito d'imposta con un costo di
450 milioni l'anno per l'Erario; minori
entrate che, dal 2015, troveranno
compensazione con i tagli di spesa ai
ministeri. Sul fronte sanitario, confermati
gli sconti a carico delle farmacie e delle
aziende farmaceutiche, arriva la norma
composta con la mediazione del
sottosegretario alla presidenza del
Consiglio dei ministri, Antonio Catricalà,
che impone ai medici di indicare nella
ricetta del Servizio sanitario nazionale la
sola denominazione del principio attivo
contenuto nel farmaco. Il Tesoro ha
sottolineato che «non c'è alcun passo
indietro» visto che permane
«l'obbligatorietà» per il medico di indicare
il principio attivo. Mentre è una «facoltà»
quella di prescrivere il «medicinale
specifico».
Per una delle misure più importanti del
decreto, vale a dire il ricorso al metodo
Consip per gli acquisti di beni e servizi di
tutte le amministrazioni, fa discutere la
scelta di lasciare libertà dal vincolo in
caso di contratti sottoscritti direttamente
con i fornitori a sconto rispetto ai valori
Consip. «La riduzione dei costi della
Amministrazione Pubblica –ha segnalato ieri
in una nota il presidente di Confindustria
digitale, Stefano Parisi– non si ottiene
con il “massimo ribasso”, ma procedendo alla
digitalizzazione “end to end” dei servizi,
alla razionalizzazione e interoperabilità
delle banche dati fino all'erogazione dei
servizi al cittadino e alle imprese via
web». Confermate le misure sul pubblico
impiego (si veda articolo in pagina) con due
novità: l'estensione dell'esame congiunto
con i sindacati dei processi di mobilità che
si apriranno con i tagli sulle dotazioni
organiche e il rilancio dei piani di
valutazione delle performance di dirigenti e
dipendenti, cui legare la distribuzione
selettiva dei trattamenti accessori in vista
dei rinnovi dei contratti collettivi (2015).
Passo indietro, invece, sul l'estensione dei
tagli alle società pubbliche controllate
(riduzione dei Cda e interventi sul
personale). Il Governo ha infatti stralciato
dal maxiemendamento, con disappunto dei
relatori e dei senatori della Commissione
Bilancio, la norma che estendeva
l'intervento inizialmente previsto per le
sole società che nel 2011 avevano fatturato
oltre il 90% con prestazione e servizi
offerti alle sole pubbliche amministrazioni.
Novità dell'ultima ora anche per gli
studenti universitari con redditi familiari
ridotti. Per i prossimi tre anni accademici
a decorrere dall'anno accademico 2013/2014,
l'aumento della contribuzione per gli
studenti in regola con i rispettivi corsi di
studio di primo e secondo livello, il cui
Isee familiare non sia superiore a 40mila
euro, non potrà essere superiore all'indice
dei prezzi al consumo dell'intera
collettività. Scatterà invece il forte
incremento per tutti i fuori corso: più 25%
per i ragazzi con un Isee familiare fino a
90.000 Euro; più 50% per chi ha un Isee
familiare tra i 90.000 e i 150.000 euro;
addirittura il 100% per i redditi oltre i
150.000.
Nel testo coordinato entra, come detto,
l'articolato del decreto legge sulle
dismissioni e l'accorpamento delle agenzie
fiscali. Si prevede il passaggio di Sace,
Simest e Fintecna sotto il controllo della
Cassa depositi e prestiti. Un'operazione che
verrà perfezionata entro l'autunno e che
determinerà maggiori entrate per il bilanci
dello Stato dell'ordine di 9-10 miliardi di
euro, secondo le ultime stime della
Relazione tecnica. Confermata infine la
decorrenza della soppressione dell'Agenzia
del Territorio e dei Monopoli di Stato a
partire dall'01.12.2012, come indicato dalla
Commissione Finanze. Inoltre con il
maxi-emendamento viene confermata la
possibilità di attivare 380 nuove posizioni
non dirigenziali all'interno delle Agenzie
per garantirne la piena funzionalità dopo il
riordino
(articolo Il Sole 24
Ore del 31.07.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti
messi al bando nella p.a.. I manager
pubblici tagliati saranno rimpiazzati da
quadri. Gli emendamenti approvati al senato
riducono l'autonomia organizzativa in
materia di personale.
Stretta agli incarichi dirigenziali nelle
amministrazioni dello stato e nelle agenzie.
Gli emendamenti dei relatori all'articolo 2
della spending review (dl 95/2012),
approvati venerdì scorso in commissione al
senato, irrigidiscono ulteriormente la
possibilità delle amministrazioni di
assumere e incaricare i dirigenti.
Per le
amministrazioni dello stato, anche a
ordinamento autonomo, delle agenzie, degli
enti pubblici non economici, degli enti di
ricerca, nonché degli enti pubblici di cui
all'articolo 70, comma 4, del dLgs 165/2001,
si emenda l'articolo 2, nel quale si
inserisce un comma 10-bis, finalizzato a
sottrarre alle varie amministrazioni una
forte parte dell'autonomia organizzativa e
normativa.
Infatti, dette amministrazioni
non potranno più incrementare il numero
degli uffici di livello dirigenziale
generale e non generale con i regolamenti di
organizzazione, perché occorrerà, invece,
una -disposizione legislativa di rango
primario-. Il legislatore mostra poca
fiducia sull'autonomia organizzativa delle
amministrazioni anche con il nuovo comma
10-ter dell'articolo 2. Esso, allo scopo di
semplificare ed accelerare il riordino
organizzativo disposto dal comma 10, prevede
che i regolamenti di organizzazione dei
ministeri siano adottati con decreto del
presidente del consiglio dei ministri, su
proposta del ministro competente, di
concerto con il ministro per la pubblica
amministrazione e la semplificazione e con
il ministro dell'economia e delle finanze.
E
sui dpcm si impone il controllo preventivo
di legittimità della Corte dei conti. Una
volta vigenti i decreti del presidente del
consiglio, si disapplicheranno i regolamenti
di organizzazione vigenti. Per quanto ...
(articolo ItaliaOggi del 31.07.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI:
Gestione delle attività. La disciplina dei
casi in cui non si può ricorrere al mercato.
Società strumentali in salvo con l'ok
dell'Authority.
I CRITERI/
Le norme sullo scioglimento non riguardano
realtà che svolgono servizi pubblici o che
gestiscono banche dati strategiche.
Le amministrazioni pubbliche possono
mantenere le società per la gestione di
servizi strumentali, se particolari
condizioni non consentono il ricorso al
mercato, ma devono acquisire il parere
vincolante dell'Autorità garante della
concorrenza e del mercato (Agcm).
Il maxiemendamento alla legge di conversione
del Dl 95/2012 (spending review) introduce
importanti innovazioni e integrazioni alle
regole per lo scioglimento delle società che
realizzano, a favore delle amministrazioni
socie, almeno il 90% del proprio fatturato,
contenute nell'articolo 4 dello stesso
decreto sulla revisione della spesa.
La completa riformulazione del comma 3
precisa le esclusioni dall'ambito
applicativo della disposizione.
Le norme sullo scioglimento non riguardano
anzitutto le società che svolgono servizi di
interesse generale (quindi servizi pubblici)
sia con rilevanza economica che privi di
tale caratteristica. L'esclusione riguarda
anche le società che svolgono
prevalentemente attività di centrali di
committenza, la Consip e la Sogei, le
società finanziarie delle Regioni, nonché
quelle che gestiscono banche dati
strategiche per il conseguimento di
obiettivi economico-finanziari (e questa
formulazione dovrebbe finalmente determinare
la non sottoposizione alle norme di
scioglimento per le società di gestione
delle attività di accertamento e di
riscossione dei tributi).
Nel novero delle società strumentali escluse
sono destinate a rientrare anche molte
realtà che saranno individuate con un
apposito decreto interministeriale, sulla
base della necessità di mantenimento
determinata dalla gestione (da parte delle
stesse) di dati riservati.
Il profilo di maggiore innovazione è dato
dalla possibilità, per le amministrazioni
pubbliche, di sottrarre le società che
gestiscono per esse servizi strumentali
quando particolari caratteristiche del
contesto territoriale e socioeconomico di
riferimento non rendano possibile un
efficace e utile ricorso al mercato.
Tuttavia, queste situazioni dovranno essere
dimostrate mediante un'analisi del mercato,
che dovrà essere trasmessa all'Agcm per
l'acquisizione di un parere, da parte della
stessa autorità, definito come vincolante.
Una volta reso, il parere sarà trasmesso
alla presidenza del Consiglio dei ministri.
La stessa disposizione precisa, però, che
anche alle società escluse dalla disciplina
sullo scioglimento, al pari di tutte le
società a totale partecipazione pubblica
(indipendentemente dall'attività esercitata
e dai servizi gestititi) si applicano le
norme che regolano la composizione dei
consigli di amministrazione (contenute nel
comma 5).
Il maxiemendamento introduce novità
importanti anche in ordine al procedimento
alternativo allo scioglimento delle società,
che prevede (comma 1, lettera b
dell'articolo 4) l'alienazione delle
partecipazioni del l'amministrazione nel
l'organismo gestore dei servizi strumentali.
Le nuove disposizioni integrano il quadro
esistente, specificando che l'alienazione
deve riguardare l'intera partecipazione del
soggetto pubblico controllante: pertanto, un
ente locale che decida di vendere le proprie
quote o azioni (anche il 100%) della società
strumentale dovrà porle tutte sul mercato,
non potendo conservare nemmeno una
partecipazione simbolica.
Nella gara per l'alienazione il bando
considera, tra gli elementi di valutazione
dell'offerta, quello costituito dal
l'adozione di strumenti di tutela
dell'occupazione da parte del soggetto
privato acquirente. Il conseguente
affidamento del servizio alla società così
"privatizzata" viene mantenuto nel termine
di cinque anni, ma nella norma viene a
essere espressamente prevista l'esclusione
del rinnovo alla scadenza del quinquennio.
In relazione al comma 6 dell'articolo 4 del
decreto spending review, il maxiemendamento
alla legge di conversione precisa che i
limiti nei rapporti con organismi non
societari non si applicano alle relazioni
con le aziende speciali e le istituzioni che
gestiscono servizi sociali e culturali
oppure farmacie, nonché a un'ampia serie di
soggetti appartenenti all'area non profit
(vale a dire associazioni di promozione
sociale, cooperative sociali, associazioni
sportive dilettantistiche, associazioni
rappresentative degli enti locali, come Anci
e Upi) (articolo
Il Sole 24 Ore del 30.07.2012 -
tratto da www.corteconti.it). |
SEGRETARI COMUNALI:
Interrogazioni. Tra Unioni e municipi.
Niente segreteria in convenzione
IL DIVIETO/
Il ministro Giarda ha motivato la sua
risposta in base al Tuel, auspicando però un
ripensamento.
Non possono essere stipulate convenzioni di
segreteria tra i Comuni e le Unioni: è
quanto ha chiarito il ministro per i
Rapporti con il parlamento, Piero Giarda, in
risposta a una interrogazione che era stata
presentata dall'onorevole Daniela
Melchiorre.
Per il ministro è necessario ripensare tale
divieto per arrivare a risultati di
«razionalizzazione delle risorse e di
ottimizzazione dell'esercizio delle funzioni
degli enti locali». Questa esigenza è
ulteriormente rafforzata dall'accelerazione
impressa dal legislatore alla gestione
associata tra i piccoli Comuni e dalla
progressiva riduzione del numero dei
segretari in servizio. Tanto più che quasi
dappertutto, ai vertici delle Unioni, vi
sono proprio segretari dei Comuni aderenti,
sulla base di disposizioni dettate dagli
statuti e della possibilità offerta dalla ex
Agenzia di ricevere questo come un incarico
aggiuntivo.
Il ministro ha detto "no" alla stipula di
convenzioni di segreteria tra Unioni e
Comuni perché «il segretario comunale e
provinciale, come figura professionale,
esercita le proprie attribuzioni, in
conformità con quanto previsto dal proprio
ordinamento e dal testo unico degli enti
locali, solo presso i Comuni e le Province,
o presso le convenzioni di segreteria, le
quali tuttavia non riguardano né le Unioni
di Comuni né le Comunità montane. Queste
ultime, infatti, hanno facoltà di avvalersi
per i servizi di segreteria di personale non
iscritto all'apposito albo. Il quadro
normativo di riferimento non contempla
dunque la possibilità di stipulare una
convenzione con l'Unione per il servizio di
segreteria».
Giarda ha citato, a sostegno della propria
tesi, la deliberazione della soppressa
Agenzia nazionale dei segretari comunali e
provinciali del 02.05.2001.
Implicitamente ha confermato che queste
disposizioni continuano ad applicarsi anche
dopo che –con il Dl 95/2012, la cosiddetta
spending review– è stato previsto che i
Comuni possano stipulare in generale
convenzioni con le Unioni.
Ma il blocco alle convenzioni per la
segreteria non ha impedito che i segretari,
previa autorizzazione dei sindaci, possano
svolgere l'incarico di segretari
dell'Unione. Tale incarico è da considerare
(secondo la deliberazione 200/2001 della
disciolta Agenzia) come extra-istituzionale,
quindi disciplinato dall'articolo 53 del
Dlgs 165/2001, e remunerato come tale.
Con la gestione associata tra i piccoli
Comuni si viene a modificare in modo
significativo il ruolo dei segretari nei
piccoli centri, stimolando ulteriormente
l'utilizzazione dello strumento convenzioni.
Nella stessa direzione va anche la tendenza,
consacrata da ultimo dal Dl 95/2012 con il
tetto alle nuove assunzioni, alla
progressiva riduzione dei segretari in
servizio. Tutte queste ragioni spingono
verso l'utilizzazione delle convenzioni di
segreteria tra Comuni e Unioni.
Peraltro, sulla base della riscrittura delle
funzioni fondamentali dei Comuni contenuta
in tale provvedimento, non è più necessario
che esse siano inserite nelle forme
associate scelte dall'ente, potendo
continuare a mantenere la loro specificità,
anche per la individuazione dei Comuni (articolo
Il Sole 24 Ore del 30.07.2012 -
tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Personale. Intervento sul trattamento
accessorio.
Si ripresentano le fasce di merito.
Rispuntano le fasce di merito nel decreto
sulla spending review. In realtà, si tratta
di ben poca cosa rispetto all'idea
originaria, ma la filosofia è la stessa:
programmazione degli obiettivi, sistema di
misurazione e valutazione della performance
e sistema premiale selettivo e
meritocratico. Gli ingredienti di questa
ricetta, che potrà essere utilizzata fino
alla prossima tornata contrattuale, sono
due: il sistema di valutazione e la
differenziazione. Su questi due aspetti si
concentra il decreto 95/2012 (forse
dimenticando che manca l'ingrediente
principe: le risorse).
Per quanto attiene ai sistemi di misurazione
e valutazione della performance, vengono
ridefinite le direttrici per il
riconoscimento del relativo trattamento
accessorio. Per i dirigenti andranno
considerati due elementi: da una parte il
grado di raggiungimento degli obiettivi
individuali e dell'unità organizzativa di
diretta responsabilità nonché il contributo
alla performance complessiva, e dall'altra
il comportamento organizzativo e la capacità
di differenziare la valutazione dei propri
collaboratori. Per il restante personale si
considereranno, oltre al comportamento
organizzativo, il raggiungimento degli
obiettivi individuali, di gruppo e il
contributo alla performance dell'unità
organizzativa.
Nella sostanza, cambia poco o nulla. Il
quadro complessivo continua a basarsi su tre
fattori: obiettivi, comportamento e capacità
di valutare. Rimane confermato che non sono
considerati i periodi di congedo di
maternità, di paternità e parentale.
L'elemento, forse, più interessante sono le
nuove fasce di merito. Ai dipendenti
classificati ai vertici della graduatoria
della performance individuale dovrà essere
garantito un trattamento accessorio più
elevato di una percentuale tra il 10 e il
30% del trattamento accessorio medio
riconosciuto ai colleghi di pari categoria.
La percentuale dei dipendenti virtuosi che
attingeranno a questo "superpremio" non
potrà essere inferiore al 10% del totale dei
dipendenti oggetto di valutazione.
Quali risorse verranno destinate a questo
meccanismo? Si sta parlando di quelle
previste dall'articolo 6, comma 1, del Dl
141/2011, che richiama l'articolo 16, comma
5, del Dl 98/2011, ovvero dei «piani
triennali di razionalizzazione e
riqualificazione della spesa», i cui
risparmi devono essere destinati per almeno
il 50% a questo nuovo meccanismo premiale.
Norma che, secondo la Corte dei conti
Lombardia (deliberazione 299/2012/Par), non
troverebbe applicazione agli enti locali (articolo
Il Sole 24 Ore del 30.07.2012 -
tratto da www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
dies a quo per impugnare una delibera
comunale, per i soggetti terzi interessati,
decorre dal giorno in cui è scaduto il
termine di pubblicazione dell’atto nell’albo
pretorio, specificando che il termine
decorre dalla notificazione o dalla piena
conoscenza solo per i soggetti che sono
direttamente contemplati nell'atto o che
siano immediatamente incisi dagli effetti
dello stesso anche se non contemplati.
Pertanto, per i terzi interessati la
pubblicazione all'albo pretorio per quindici
giorni consecutivi di una deliberazione
comunale implica presunzione di conoscenza,
con la conseguenza che è dall'ultimo giorno
di pubblicazione che decorre il termine
decadenziale di sessanta giorni per proporre
impugnazione avverso detto atto.
La tardività del ricorso –per avvenuta
decorrenza del termine– deve essere rilevata
d’ufficio -quindi anche in carenza di
specifica eccezione delle controparti, che
nel caso non si sono costituite- in quanto
la perentorietà del termine d’impugnazione
(disposta dall’art. 21 della L. 06.12.1971
n. 1074 ed ora dagli artt. 29/41 c.p.a.)
risponde a ragioni di ordine pubblico,
sicché l’effetto decadenziale è
indisponibile per le parti.
Va previamente disaminata -alla stregua del
preavviso ex art. art. 73, 2° comma c.p.a.
dato dal Collegio alla pubblica udienza
dell'08.02.2012- la tempestività del
proposto ricorso nei riguardi delle delibere
consiliari comunale n. 32 del 21.11.2010 e
n. 38 del 23.12.2010, in quanto proposto ben
oltre il termine decadenziale decorrente
dall’avvenuta pubblicazione delle stesse
all’albo pretorio.
E’ noto che le regole del processo
amministrativo (dapprima l’art. 21 della L.
06.12.1971 n. 1074, ora l’art. 41 c.p.a.)
prevedono che il dies a quo per
impugnare una delibera comunale per i
soggetti terzi interessati, decorra dal
giorno in cui è scaduto il termine di
pubblicazione dell’atto nell’albo pretorio
(cfr. ex multis: Cons. St., Sez. VI,
06.04.2010, n. 1918; Sez. V, 21.12.2010, n.
9314), specificando che il termine decorre
dalla notificazione o dalla piena conoscenza
solo per i soggetti che sono direttamente
contemplati nell'atto o che siano
immediatamente incisi dagli effetti dello
stesso anche se non contemplati (cfr. Cons.
St., Sez. VI 03.10.2007 n. 5105, Sez. VI
13.07.2010 n. 4501)
Pertanto, per i terzi interessati la
pubblicazione all'albo pretorio per quindici
giorni consecutivi di una deliberazione
comunale implica presunzione di conoscenza,
con la conseguenza che è dall'ultimo giorno
di pubblicazione che decorre il termine
decadenziale di sessanta giorni per proporre
impugnazione avverso detto atto.
Va innanzitutto osservato che la tardività
del ricorso –per avvenuta decorrenza del
termine– deve essere rilevata d’ufficio
-quindi anche in carenza di specifica
eccezione delle controparti, che nel caso
non si sono costituite- in quanto la
perentorietà del termine d’impugnazione
(disposta dall’art. 21 della L. 06.12.1971
n. 1074 ed ora dagli artt. 29/41 c.p.a.)
risponde a ragioni di ordine pubblico,
sicché l’effetto decadenziale è
indisponibile per le parti (cfr. TAR Reggio
Calabria n. 64/1978; C.G.A., 28.09.2007 n.
872)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 03.08.2012 n. 1417 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Il
Comune rimane libero di dare una diversa
destinazione urbanistica alle aree acquisite
in sede di convenzioni urbanistiche al fine
della realizzazione di opere di
urbanizzazione.
---------------
I terreni destinati a verde pubblico dal
piano regolatore acquistano la condizione di
beni del patrimonio indisponibile dell'ente
pubblico (e, quindi, di beni strumentali al
perseguimento dei fini istituzionali
dell’ente stesso) solo dal momento in cui,
essendo stati acquistati da questo in
proprietà, sono trasformati ed in concreto
utilizzati secondo la propria destinazione,
non essendo all'uopo sufficiente né il piano
regolatore generale, che ha solo funzione
programmatoria e l'effetto di attribuire
alla zona, o anche ai terreni in esso
eventualmente indicati, una vocazione da
realizzare attraverso gli strumenti
urbanistici di secondo livello o ad essi
equiparati, e la successiva attività di
esecuzione di questi strumenti, né il
provvedimento di approvazione del piano di
lottizzazione, che individua solo il terreno
specificamente interessato dal progetto di
destinazione pubblica, né la convenzione di
lottizzazione, che si inserisce nella fase
organizzativa del processo di realizzazione
del programma urbanistico e non nella fase
della sua materiale esecuzione.
Va comunque
incidentalmente osservato che:
- la giurisprudenza ha avuto più volte
occasione di affermare che il Comune rimane
libero di dare una diversa destinazione
urbanistica alle aree acquisite in sede di
convenzioni urbanistiche al fine della
realizzazione di opere di urbanizzazione
(cfr. Cassazione civile, sez. II,
14.08.2007, n. 17698; Cassazione civile,
sez. II, 28.08.2000, n. 11208; Cassazione
civile, sez. II, 09.03.1990 n. 1917;
Cassazione civile, sez. II, 25.07.1980 n.
4833; TAR Abruzzo L'Aquila, 16.07.2004, n.
835);
- i terreni destinati a verde pubblico dal
piano regolatore acquistano la condizione di
beni del patrimonio indisponibile dell'ente
pubblico (e, quindi, di beni strumentali al
perseguimento dei fini istituzionali
dell’ente stesso) solo dal momento in cui,
essendo stati acquistati da questo in
proprietà, sono trasformati ed in concreto
utilizzati secondo la propria destinazione,
non essendo all'uopo sufficiente né il piano
regolatore generale, che ha solo funzione
programmatoria e l'effetto di attribuire
alla zona, o anche ai terreni in esso
eventualmente indicati, una vocazione da
realizzare attraverso gli strumenti
urbanistici di secondo livello o ad essi
equiparati, e la successiva attività di
esecuzione di questi strumenti, né il
provvedimento di approvazione del piano di
lottizzazione, che individua solo il terreno
specificamente interessato dal progetto di
destinazione pubblica, né la convenzione di
lottizzazione, che si inserisce nella fase
organizzativa del processo di realizzazione
del programma urbanistico e non nella fase
della sua materiale esecuzione (cfr.
Cassazione civile, sez. II, 09.09.1997, n.
8743) (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 03.08.2012 n. 1417 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
procedura di messa in vendita (diretta) di
aree a standard, acquisite gratuitamente
dall'attuazione di un piano attuativo,
escludendo uno o più proprietari dei lotti
facenti parte il piano medesimo è
illegittima poiché
la mancata
partecipazione di un soggetto che avrebbe
avuto titolo ad essere notiziato
dell’offerta di vendita determina il
travolgimento, a cascata, degli atti
successivi della procedura suddetta sino
all’aggiudicazione.
Il ricorrente
afferma che la vendita sarebbe stata
riservata agli ex lottizzanti e comprova di
rivestire tale qualifica mediante produzione
(cfr. doc. n. 4 del ric.) di copia della
convenzione di lottizzazione “PL Giardino”
in data 12.01.1984 n. 16340-10262 di rep.
Notaio Aldo Franco Rossi, ove –alla pag. 3–
è indicato come uno dei lottizzanti: Crippa
Eugenio nato a ... il ....
Va precisato che –come si evince dal
provvedimento n. 134 del 29.11.2010-
destinatari della lettera d’invita erano i
(“proprietari di immobili in via Moroni
ex p.l. Giardino”).
In ogni caso il Crippa ha affermato di
rivestire anche tale (parzialmente
differente) qualifica producendo (cfr. il
doc. 9/9-bis) il rogito notaio Giuseppe
Mangili atto di acquisto in data 09.01.1995
di appezzamento di terreno ricompreso nel PL
giardino di cui all’atto Notaio Aldo Franco
Rossi e (doc. n. 8) l’atto di permuta di
strisce di terreno nell’ambito del P.L. in
questione.
In assenza di contestazioni al riguardo da
parte dell’Amministrazione deve dunque
ritenersi comprovato il possesso della
qualifica di proprietario di immobili in via
Moroni ex P.L. Giardino, sicché il predetto
aveva titolo ad essere destinatario
dell’invito.
La mancata partecipazione di un soggetto che
avrebbe avuto titolo ad essere notiziato
dell’offerta di vendita determina il
travolgimento, a cascata, degli atti
successivi della procedura suddetta sino
all’aggiudicazione di cui alla
determinazione n. 4 del 2011 (terzo atto qui
impugnato) (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 03.08.2012 n. 1417 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
decadenza dei vincoli urbanistici
preordinati all'espropriazione o che
comportino l'inedificabilità assoluta
del suolo o che privino il diritto di
proprietà del suo valore economico,
determinata dall'inutile decorso del termine
quinquennale decorrente dall'approvazione
del P.R.G., obbliga il Comune a procedere
alla nuova pianificazione dell'area rimasta
non normata.
Né l’amministrazione può sottrarsi a tale
obbligo adducendo l’avvio del procedimento
di predisposizione del piano di governo del
territorio ed i limiti previsti, per
l’approvazione di varianti agli strumenti
urbanistici vigenti, dagli articoli 25 e 26,
l. Regione Lombardia n. 12/2005.
La p.a. ha, difatti, un obbligo immediato di
provvedere alla rideterminazione urbanistica
dell’area e non può quindi soprassedere ad
esso ove, come accade nel caso di specie,
non vi sia la certezza che l’approvazione
del nuovo strumento urbanistico generale
avverrà in tempi ravvicinati.
Nessun ostacolo, infine, può essere
ravvisato nelle citate previsioni della
l.reg. n. 12/2005; ciò in quanto il
potere-dovere dell’amministrazione di
conferire una disciplina urbanistica
all’area del ricorrente trova la propria
fonte nelle previsioni di cui all'art. 9
t.u. per l'edilizia ed all'art. 9 t.u. sugli
espropri.
La censura con cui viene affermata
l’illegittimità del provvedimento impugnato,
per violazione dell’obbligo di dare alle
aree in questione una nuova destinazione
urbanistica, è fondata.
Secondo il consolidato orientamento della
giurisprudenza, la decadenza dei vincoli
urbanistici preordinati all'espropriazione o
che comportino l'inedificabilità assoluta
del suolo o che privino il diritto di
proprietà del suo valore economico,
determinata dall'inutile decorso del termine
quinquennale decorrente dall'approvazione
del P.R.G., obbliga il Comune a procedere
alla nuova pianificazione dell'area rimasta
non normata (cfr., fra le tante, Consiglio
Stato, sez. II, 28.04.2010, n. 1405).
Né l’amministrazione può sottrarsi a tale
obbligo adducendo l’avvio del procedimento
di predisposizione del piano di governo del
territorio ed i limiti previsti, per
l’approvazione di varianti agli strumenti
urbanistici vigenti, dagli articoli 25 e 26,
l. Regione Lombardia n. 12/2005.
La p.a. ha, difatti, un obbligo immediato di
provvedere alla rideterminazione urbanistica
dell’area e non può quindi soprassedere ad
esso ove, come accade nel caso di specie,
non vi sia la certezza che l’approvazione
del nuovo strumento urbanistico generale
avverrà in tempi ravvicinati.
Nessun ostacolo, infine, può essere
ravvisato nelle citate previsioni della
l.reg. n. 12/2005; ciò in quanto il
potere-dovere dell’amministrazione di
conferire una disciplina urbanistica
all’area del ricorrente trova la propria
fonte nelle previsioni di cui all'art. 9 t.u. per l'edilizia ed all'art. 9 t.u. sugli
espropri (cfr. anche Tar Lombardia, Milano,
n. 2044 del 20.07.2012).
Il Collegio -vista l’istanza del
ricorrente, formulata con la memoria
depositata in data 11.06.2012- ritiene
di poter fissare, ai sensi dell’art. 34, cod.proc.amm.
c. 1, lett. e), il termine di 60 giorni
dalla notificazione o comunicazione in via
amministrativa della presente sentenza,
entro il quale l’amministrazione dovrà
provvedere
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
01.08.2012 n.
2171 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Mobilità volontaria e scorrimento
graduatoria di concorso.
Il Consiglio di Stato riforma la sentenza di
primo grado e conferma che in presenza di
graduatoria di concorso valida non è
legittimo determinarsi al reclutamento di
personale avviando, ex novo, procedura di
mobilità volontaria ex art. 30 d.lgs.
165/2001.
Le motivazioni, sinteticamente, sono le
seguenti:
- è principio generale che le graduatorie di
concorso rimangono efficaci per il termine
indicato nel bando, eventualmente prorogato
dalla legge, per eventuali coperture di
posti successivamente resisi disponibili;
- l'unico limite allo scorrimento della
graduatoria è che non si tratti di posti di
nuova istituzione o trasformazione;
- la prevalenza della mobilità esterna (ex
art. 30 d.lgs. 165/2001) è prevista dal
legislatore solo rispetto a nuove procedure
concorsuali;
- lo scorrimento della graduatoria è
soluzione più razionale ed economica
rispetto all'espletamento di una nuova ed
ulteriore procedura (avviso e selezione per
mobilità volontaria);
- procedere diversamente significherebbe
duplicare l'applicazione dell'istituto della
mobilità, dal momento che l'obbligo di legge
(preferenza per la mobilità) è già stato
soddisfatto prima di bandire il concorso;
- quindi, la modalità di assunzione per
scorrimento della graduatoria di concorso
già espletata è estranea alla fattispecie
delineata dal comma 2-bis dell'art. 30 del
d.lgs. 165/2001;
- in conformità ai principi enunciati
dall'Adunanza plenaria (sentenza n. 14 del
2011), lo scorrimento della graduatoria è
prioritario anche rispetto all'indizione di
nuovo concorso che necessita, eventualmente,
di puntuale motivazione (commento tratto da
www.publika.it - Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 31.07.2012 n.
4329 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
possibilità che ad un’aggiudicazione
provvisoria non segua quella definitiva del
contratto di appalto è un evento del tutto
fisiologico, disciplinato dagli artt. 11,
comma 11, 12 e 48, comma 2, del d.lgs. 163/2006, inidoneo di
per sé a ingenerare qualunque affidamento
tutelabile con conseguente obbligo
risarcitorio, qualora non sussista nessuna
illegittimità nell’operato della p.a..
Inoltre, in tal caso, non spetta nemmeno
l’indennizzo di cui all’art. 21-quinquies
della legge 241/1990 poiché si è di fronte al
mero ritiro di un’aggiudicazione provvisoria
(atto avente per sua natura efficacia
interinale e non idonea a creare
affidamenti) e non ad una revoca di un atto
amministrativo ad effetti durevoli come
previsto dalla predetta norma per l’indennizzabilità
della revoca.
Sovente, infatti, la
giurisprudenza amministrativa ha affrontato
il problema giuridico se spetti una
qualsiasi forma di risarcimento o di
indennizzo per un’aggiudicazione
provvisoria, successivamente annullata con
provvedimento ritenuto legittimo.
Al quesito viene data risposta negativa
(Cons. St., sez. VI, 27.07.2010, n.
4902; Cons. St., VI, 17.03.2010, n. 1554;
Consiglio Stato, sez. V, 15.02.2010,
n. 808).
Alla vicenda che si esamina possono
estendersi i principi elaborati in tema di
contratti pubblici, in relazione ai quali si
è sottolineato che la possibilità che ad
un’aggiudicazione provvisoria non segua
quella definitiva del contratto di appalto è
un evento del tutto fisiologico,
disciplinato dagli artt. 11, comma 11, 12 e
48, comma 2, del d.lgs. 163/2006, inidoneo di
per sé a ingenerare qualunque affidamento
tutelabile con conseguente obbligo
risarcitorio, qualora non sussista nessuna
illegittimità nell’operato della p.a..
Inoltre, in tal caso, non spetta nemmeno
l’indennizzo di cui all’art. 21-quinquies
della legge 241/1990 poiché si è di fronte al
mero ritiro di un’aggiudicazione provvisoria
(atto avente per sua natura efficacia
interinale e non idonea a creare
affidamenti) e non ad una revoca di un atto
amministrativo ad effetti durevoli come
previsto dalla predetta norma per l’indennizzabilità
della revoca ( C.d.s., sez. VI, 19.01.2012
n. 195)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
31.07.2012 n.
2158 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L'obbligo
di esame, ai sensi dell'art. 10, comma 1,
lett. b), l. n. 241 del 1990, delle memorie
procedimentali presentate dal privato non
impone un'analitica confutazione in merito
ad ogni argomento utilizzato dalle parti
stesse, essendo sufficiente un iter
motivazionale che renda nella sostanza
percepibile la ragione del mancato
adeguamento dell'azione amministrativa alle
deduzioni difensive del privato stesso.
La giurisprudenza è
costante nell’affermare che l'obbligo di
esame, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett.
b), l. n. 241 del 1990, delle memorie
procedimentali presentate dal privato non
impone un'analitica confutazione in merito
ad ogni argomento utilizzato dalle parti
stesse, essendo sufficiente un iter
motivazionale che renda nella sostanza
percepibile la ragione del mancato
adeguamento dell'azione amministrativa alle
deduzioni difensive del privato stesso
(Consiglio di Stato, sez. VI, 11.03.2010,
n. 1439).
Nel caso di specie l’amministrazione ha
adeguatamente motivato le ragioni poste a
fondamento della decisione di negare il
rilascio del titolo abilitativo in
sanatoria, qualificando l’abuso e
specificando le ragioni per le quali ha
ritenuto insussistente il presupposto della
doppia conformità, richiesto dall'art. 13,
l. n. 47/1985.
A fronte di un potere vincolato, qual’è
quello esercitato nel caso di specie, alcun
altro onere incombeva in capo alla p.a.
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
31.07.2012 n.
2157 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
decadenza del vincolo espropriativo per
decorso del quinquennio di efficacia
comporta la qualificazione dell’area come
“zona bianca” e l’assoggettamento alle
previsioni di cui all'art. 4 comma ultimo l.
n. 10 del 1977 (ora art. 9 t.u. n. 380 del
2001), sino all'adozione, da parte del
Comune, di nuove, specifiche prescrizioni.
È, invece, escluso che a seguito della
caducazione dei vincoli possa rivivere la
situazione anteriore all'imposizione degli
stessi ovvero che i vuoti di disciplina
possano essere colmati con l'espansione
delle destinazioni impresse alle aree
limitrofe.
In conseguenza del decadere del vincolo
espropriativo, l'area in questione risulta,
perciò, sprovvista di una regolamentazione
urbanistica -essendo abrogata quella
preesistente al vincolo stesso ed essendo
divenuta inefficace quella recata da
quest'ultimo- onde essa resta soggetta alla
disciplina di cui all'art. 4 comma ultimo l.
28.01.1977 n. 10, prevista per i comuni
sprovvisti di piano regolatore generale.
---------------
Ove si configurino piani regolatori che
abbiano in parte perduto la loro efficacia,
tale situazione va considerata equivalente a
quella di piani che in origine presentino
"zone bianche", piuttosto che a quella di
piani regolatori inesistenti. In forza di
tale principio è applicabile la previsione
di cui alla lett. a) anziché quella di cui
alla lett. d) dell'art. 49, comma 1, della
L.R. n. 51/1975.
L’art. 49, c. 1, lett. a), L.R. n. 51/1975
detta una disciplina di maggior rigore
rispetto a quanto previsto alla lett. d) e
dall’art. 4, comma 8, della legge n. 10 del
1977, ammettendo esclusivamente costruzioni
per la conduzione agricola e non con
destinazione residenziale o produttiva.
Il
provvedimento non è affatto contraddittorio
laddove afferma il contrasto con la
normativa che regola le zone bianche,
applicabile alle aree in questione in
conseguenza della decadenza del vincolo
espropriativo.
La decadenza del vincolo espropriativo per
decorso del quinquennio di efficacia
comporta, invero, per unanime
giurisprudenza, la qualificazione dell’area
come “zona bianca” e l’assoggettamento alle
previsioni di cui all'art. 4 comma ultimo l.
n. 10 del 1977 (ora art. 9 t.u. n. 380 del
2001), sino all'adozione, da parte del
Comune, di nuove, specifiche prescrizioni.
È, invece, escluso che a seguito della
caducazione dei vincoli possa rivivere la
situazione anteriore all'imposizione degli
stessi ovvero che i vuoti di disciplina
possano essere colmati con l'espansione
delle destinazioni impresse alle aree
limitrofe (fra le tante Consiglio di Stato,
sez. IV, 27.01.2011, n. 615; Tar
Campania, Napoli, sez. VIII, 09.12.2010, n. 27130; Tar Campania, Napoli,
sez. VII, 07.05.2010, n. 3082; Tar
Puglia, Lecce, sez. I, 12.02.2010, n.
564; Cons. Stato, sez. IV, 26.09.2008, n. 4661; TAR Lombardia, Milano,
sez. II, 05.11.2004, n. 5597).
Non può quindi condividersi quanto affermato
dal ricorrente circa l’applicabilità della
disciplina delle aree agricole circostanti:
né è stato, difatti, provato che il p.r.g.
prevedesse, per l’area in questione, una
duplice disciplina e, in particolare,
l’assoggettamento alla destinazione “E2”,
una volta decaduto il vincolo espropriativo.
In conseguenza del decadere del vincolo
espropriativo, l'area in questione risulta,
perciò, sprovvista di una regolamentazione
urbanistica -essendo abrogata quella
preesistente al vincolo stesso ed essendo
divenuta inefficace quella recata da
quest'ultimo- onde essa resta soggetta alla
disciplina di cui all'art. 4 comma ultimo l.
28.01.1977 n. 10, prevista per i comuni
sprovvisti di piano regolatore generale
(Consiglio di Stato, sez. V, 17.03.2001,
n. 1596).
---------------
Il
Collegio condivide, invero, l’orientamento
giurisprudenziale secondo cui, ove si
configurino piani regolatori che abbiano in
parte perduto la loro efficacia, tale
situazione va considerata equivalente a
quella di piani che in origine presentino "zone bianche", piuttosto che a quella di
piani regolatori inesistenti. In forza di
tale principio è applicabile la previsione
di cui alla lett. a) anziché quella di cui
alla lett. d) dell'art. 49, comma 1, della L.R. n. 51/1975 (cfr Tar Lombardia, Milano,
30.01.2007, n. 111; Cons. St., sez. V,
n. 720/ 2001 e n. 4275/ 2000).
L’art. 49, c. 1, lett. a), L.R. n. 51/1975
detta una disciplina di maggior rigore
rispetto a quanto previsto alla lett. d) e
dall’art. 4, comma 8, della legge n. 10 del
1977, ammettendo esclusivamente costruzioni
per la conduzione agricola e non con
destinazione residenziale o produttiva (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
31.07.2012 n.
2157 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: In
presenza di un provvedimento sostenuto da
più motivi, ciascuno autonomamente idoneo a
darne giustificazione, la giurisprudenza è,
difatti, concorde nel ritenere sufficiente
che sia verificata la legittimità di uno di
essi, per escludere che l’atto possa essere
annullato in sede giurisdizionale.
In presenza di
un provvedimento sostenuto da più motivi,
ciascuno autonomamente idoneo a darne
giustificazione, la giurisprudenza è,
difatti, concorde nel ritenere sufficiente
che sia verificata la legittimità di uno di
essi, per escludere che l’atto possa essere
annullato in sede giurisdizionale (Cons.
Stato, sez. V, 29.05.2006, n. 3259) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
31.07.2012 n.
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EDILIZIA PRIVATA: L’art.
36, d.P.R. n. 380/2001 prevede, quale
presupposto per il rilascio del titolo in
sanatoria, la conformità dell’opera alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente,
sia al momento della realizzazione dello
stesso, sia al momento della presentazione
della domanda.
Nel concetto di “disciplina urbanistica ed
edilizia vigente” è da ritenersi
indubbiamente ricompresa anche la disciplina
urbanistica solo adottata, le cui
disposizioni sono vigenti ai sensi dell’art.
12, d.P.R. n. 380/2001.
L’art.
36, d.P.R. n. 380/2001 prevede, quale
presupposto per il rilascio del titolo in
sanatoria, la conformità dell’opera alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente,
sia al momento della realizzazione dello
stesso, sia al momento della presentazione
della domanda.
Nel concetto di “disciplina urbanistica ed
edilizia vigente” è da ritenersi
indubbiamente ricompresa anche la disciplina
urbanistica solo adottata, le cui
disposizioni sono vigenti ai sensi dell’art.
12, d.P.R. n. 380/2001
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
31.07.2012 n.
2157 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’art. 46, comma 1-bis, del
D.L.vo 12.04.2006, n. 163, aggiunto
dall’art. 4, 2 comma, n. 2, lett. d) del
D.L. n. 70 del 2011, convertito con
modificazioni nella L. 12.07.2011, n. 106,
ha introdotto il principio della tassatività
delle cause di esclusione dei soggetti
partecipanti agli esperimenti indetti dalla
P.A, prevedendo la possibilità di comminare
l’esclusione solo “nei casi di incertezza
assoluta sul contenuto o sulla provenienza
dell’offerta, per difetto di sottoscrizione
o di altri elementi essenziali ovvero in
caso di non integrità del plico contenente
l’offerta o la domanda di partecipazione o
altre irregolarità relative alla chiusura
dei plichi, tali da far ritenere, secondo le
circostanze concrete, che sia stato violato
il principio di segretezza delle offerte”,
che “i bandi e le lettere di invito non
possono contenere ulteriori prescrizioni a
pena di esclusione” e che “dette
prescrizioni sono comunque nulle”.
In base a tale norma, è oggi possibile
comminare l’esclusione da una gara solo in
caso di violazione di una specifica
disposizione normativa e solo ove vi sia
incertezza in ordine alla provenienza della
domanda, al suo contenuto o alla
sigillazione dei plichi e che ogni altra
ragione di non partecipazione agli incanti
non può essere prevista, a pena di nullità
della disposizione del bando o della lettera
d’invito.
Tale nuova disciplina restringe la
possibilità di comminare l’esclusione da
tali procedure alle ipotesi di mancato
adempimento a specifiche prescrizioni di
legge previste dal codice degli appalti, dal
regolamento attuativo (D.P.R. n. 207 del
2010) e da altre disposizioni legislative
vigenti, e solo ove ci sia incertezza
relativamente alla provenienza della
domanda, al suo contenuto o alla
sigillazione dei plichi, sanzionando con la
nullità ogni altra previsione di impedimento
alla partecipazione.
In particolare, è già chiarito che, pur in
presenza di una specifica previsione
contenuta nel bando di gara, è illegittima
l’esclusione da una gara, ad esempio, per la
mancata presentazione delle referenze
bancarie, di una fotocopia del documento
d’identità del sottoscrittore, di una
cauzione provvisoria di importo inferiore a
quello richiesto dal bando di gara o di
irregolarità della polizza fideiussoria.
Va, invero, al riguardo, ricordato che
l’art. 46, comma 1-bis, del D.L.vo
12.04.2006, n. 163, aggiunto dall’art. 4, 2
comma, n. 2, lett. d) del D.L. n. 70 del
2011, convertito con modificazioni nella L.
12.07.2011, n. 106, ha introdotto il
principio della tassatività delle cause di
esclusione dei soggetti partecipanti agli
esperimenti indetti dalla P.A, prevedendo la
possibilità di comminare l’esclusione solo “nei
casi di incertezza assoluta sul contenuto o
sulla provenienza dell’offerta, per difetto
di sottoscrizione o di altri elementi
essenziali ovvero in caso di non integrità
del plico contenente l’offerta o la domanda
di partecipazione o altre irregolarità
relative alla chiusura dei plichi, tali da
far ritenere, secondo le circostanze
concrete, che sia stato violato il principio
di segretezza delle offerte”, che “i
bandi e le lettere di invito non possono
contenere ulteriori prescrizioni a pena di
esclusione” e che “dette prescrizioni sono
comunque nulle”.
In base a tale norma, in definitiva
-applicabile alla gara in questione, in
quanto il relativo bando è stato pubblicato
dopo l’entrata in vigore del predetto
decreto legge (TAR Puglia, sede Bari, Sez.
I, 11.01.2012)- è oggi possibile comminare
l’esclusione da una gara solo in caso di
violazione di una specifica disposizione
normativa e solo ove vi sia incertezza in
ordine alla provenienza della domanda, al
suo contenuto o alla sigillazione dei plichi
e che ogni altra ragione di non
partecipazione agli incanti non può essere
prevista, a pena di nullità della
disposizione del bando o della lettera
d’invito.
Ora, interpretando tale normativa, la
giurisprudenza (cfr. da ultimo TAR Sicilia,
sez. Catania, sez. IV, 09.02.2012, n. 348,
TAR Valle d’Aosta, 23.01.2012, n. 6, TAR
Liguria, sez. II, 22.09.2011, n. 1396, e TAR
Veneto, sez. I, 13.09.2011, n. 1376) ha già
avuto modo di chiarire che tale nuova
disciplina restringe la possibilità di
comminare l’esclusione da tali procedure
alle ipotesi di mancato adempimento a
specifiche prescrizioni di legge previste
dal codice degli appalti, dal regolamento
attuativo (D.P.R. n. 207 del 2010) e da
altre disposizioni legislative vigenti, e
solo ove ci sia incertezza relativamente
alla provenienza della domanda, al suo
contenuto o alla sigillazione dei plichi,
sanzionando con la nullità ogni altra
previsione di impedimento alla
partecipazione.
In particolare, è già chiarito, che, pur in
presenza di una specifica previsione
contenuta nel bando di gara, è illegittima
l’esclusione da una gara, ad esempio, per la
mancata presentazione delle referenze
bancarie (TAR Abruzzo, sede Pescara,
09.11.2011, n. 632), di una fotocopia del
documento d’identità del sottoscrittore (TAR
Lombardia, sede Milano, sez. III,
23.05.2012, n. 1397), di una cauzione
provvisoria di importo inferiore a quello
richiesto dal bando di gara (Cons. St., sez.
III, 01.02.2012, n. 493, e TAR Lombardia,
sede Milano, sez. I, 14.06.2012, n. 1658) o
di irregolarità della polizza fideiussoria
(TAR Lazio, sede Roma, Sez. I-bis
15.12.2011, n. 9791).
Ciò posto, ritiene il Collegio che la
Stazione appaltante non avrebbe potuto
inserire, in violazione del predetto
principio di tassatività, una clausola di
esclusione (cioè la mancata presentazione di
una copia del capitolato speciale di appalto
firmato in ogni pagina), che non è prevista
da alcuna previsione normativa e che non
crea alcuna incertezza “assoluta” sul
contenuto o sulla provenienza dell’offerta.
Va, invero, in merito osservato che
l’interesse della Stazione appaltante ad
acquisire l’impegno delle partecipanti alla
gara al pieno rispetto del capitolato
speciale era già pienamente soddisfatto con
l’acquisizione delle dichiarazioni
(puntualmente effettuate nel caso di specie)
delle partecipanti alla gara di aver preso
visione del capitolato speciale e di
accettarne “completamente ed
incondizionatamente” tutte le
prescrizioni in esso contenute; per cui non
avrebbe potuto imporsi alle partecipanti
alla gara anche di allegare all’offerta, a
pena di esclusione, una copia del capitolato
speciale di appalto firmato in ogni pagina,
in quanto tale previsione era contrastante
sia con il principio di tassatività delle
cause di esclusione, che con il principio di
proporzionalità, dato che l’interesse della
stazione appaltante era già adeguatamente
tutelato con la dichiarazione di
accettazione delle clausole contenute nel
capitolato speciale
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 31.07.2012 n. 366 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il rilascio della concessione
edilizia si configura come fatto costitutivo
dell’obbligo giuridico del concessionario di
corrispondere il relativo contributo per
oneri di urbanizzazione, ossia per gli oneri
affrontati dall’ente locale per le opere
indispensabili affinché l’area acquisti
attitudine al recepimento dell’insediamento
del tipo assentito e per le quali l’area
acquista un beneficio economicamente
rilevante, da calcolarsi secondo i parametri
vigenti a tale momento; il contributo per
oneri di urbanizzazione è quindi dovuto per
il solo rilascio della concessione, senza
che neanche rilevi, ad esclusione
dell’obbligo, la già intervenuta
realizzazione di opere di urbanizzazione.
Il contributo per il rilascio del permesso
di costruire ha natura di prestazione
patrimoniale imposta, di carattere non
tributario, ed ha carattere generale,
prescindendo totalmente o meno delle singole
opere di urbanizzazione, venendo altresì
determinato indipendentemente sia
dall’utilità che il concessionario ritrae
dal titolo edificatorio, sia dalle spese
effettivamente occorrenti per realizzare
dette opere.
Ne discende che, attesa la natura non
sinallagmatica e il regime interamente
pubblicistico che connota il contributo de
quo, la sua disciplina vincola anche il
giudice, al quale è impedito di configurare
autonomamente ipotesi di non debenza della
specifica prestazione patrimoniale diverse
da quelle autoritativamente individuate dal
legislatore.
Ed invero, ai sensi dell’art. 1 della legge
28.01.1977, nr. 10 (e, oggi, dell’art. 16
del d.P.R. 06.06.2001, nr. 380), il rilascio
della concessione edilizia si configura come
fatto costitutivo dell’obbligo giuridico del
concessionario di corrispondere il relativo
contributo per oneri di urbanizzazione,
ossia per gli oneri affrontati dall’ente
locale per le opere indispensabili affinché
l’area acquisti attitudine al recepimento
dell’insediamento del tipo assentito e per
le quali l’area acquista un beneficio
economicamente rilevante, da calcolarsi
secondo i parametri vigenti a tale momento;
il contributo per oneri di urbanizzazione è
quindi dovuto per il solo rilascio della
concessione, senza che neanche rilevi, ad
esclusione dell’obbligo, la già intervenuta
realizzazione di opere di urbanizzazione
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 22.02.2011, nr.
1108; Cons. Stato, sez. IV, 24.12.2009, nr.
8757).
Per altrettanto pacifica giurisprudenza, il
contributo per il rilascio del permesso di
costruire ha natura di prestazione
patrimoniale imposta, di carattere non
tributario, ed ha carattere generale,
prescindendo totalmente o meno delle singole
opere di urbanizzazione, venendo altresì
determinato indipendentemente sia
dall’utilità che il concessionario ritrae
dal titolo edificatorio, sia dalle spese
effettivamente occorrenti per realizzare
dette opere (cfr. Cons. Stato, sez. V,
15.12.2005, nr. 7140; id., 06.05.1997, nr.
462).
Ne discende che, attesa la natura non
sinallagmatica e il regime interamente
pubblicistico che connota il contributo
de quo, la sua disciplina vincola anche
il giudice, al quale è impedito di
configurare autonomamente ipotesi di non
debenza della specifica prestazione
patrimoniale diverse da quelle
autoritativamente individuate dal
legislatore (cfr. Cons. Stato, sez. V,
20.04.2009, nr. 2359) (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 30.07.2012 n. 4320 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il termine per l’impugnazione del
piano di zona per l’edilizia economica e
popolare decorre, nei confronti dei
proprietari di aree inserite nel piano
medesimo, dalla data di notificazione
dell’avviso dell’avvenuta sua approvazione,
di cui all’art. 8, comma 5, della legge
18.04.1962, nr. 167, indipendentemente dalla
circostanza che detti privati siano venuti a
conoscenza del precedente atto di adozione.
Ed invero, come più volte affermato dalla
Sezione, il termine per l’impugnazione del
piano di zona per l’edilizia economica e
popolare decorre, nei confronti dei
proprietari di aree inserite nel piano
medesimo, dalla data di notificazione
dell’avviso dell’avvenuta sua approvazione,
di cui all’art. 8, comma 5, della legge
18.04.1962, nr. 167, indipendentemente dalla
circostanza che detti privati siano venuti a
conoscenza del precedente atto di adozione
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 01.04.1999, nr.
493; id., 18.03.1999, nr. 308) (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 30.07.2012 n. 4313 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il procedimento per il rilascio
del permesso di costruire e quello per il
nulla-osta di compatibilità paesaggistica
dell’intervento, ancorché connessi, restano
due procedimenti ontologicamente e
logicamente distinti, avendo a oggetto la
tutela di beni diversi ed essendo articolati
sulla base di competenze diverse.
Ne consegue che il richiamato art. 5 del
d.P.R. nr. 380 del 2001, nell’assegnare allo
Sportello unico per l’edilizia
l’acquisizione di tutti gli “atti di
assenso, comunque denominati, necessari ai
fini della realizzazione dell’intervento
edilizio”, si riferisce certamente a tutti i
pareri e nulla-osta endoprocedimentali
intesi al rilascio del permesso di
costruire, ma non può estendersi anche a
un’autorizzazione diversa ed esterna
rispetto a tale procedimento, quale è
l’autorizzazione paesaggistica eventualmente
richiesta per l’esecuzione dell’intervento.
In estrema sintesi, assumono le appellanti
che illegittimamente il Comune avrebbe
ritenuto carente la pratica di sanatoria a
causa della mancata acquisizione del
nulla-osta della Soprintendenza, in quanto
tale acquisizione sarebbe stata a loro dire
a carico della stessa Amministrazione
comunale: ciò in forza del disposto
dell’art. 5 del d.P.R. nr. 380 del 2001, il
quale pone a carico dello Sportello unico
per l’edilizia “gli incombenti necessari
ai fini dell’acquisizione, anche mediante
Conferenza di servizi ai sensi degli
articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater della
legge 07.08.1990, n. 241, degli atti di
assenso, comunque denominati, necessari ai
fini della realizzazione dell’intervento
edilizio”.
Il primo giudice, condividendo sul punto le
difese dell’Amministrazione comunale, ha
ritenuto che quest’ultima disposizione si
applichi soltanto agli interventi di nuova
edificazione, e non anche a quelli a
sanatoria, con interpretazione che le
odierne appellanti contestano vivacemente.
Al riguardo, la Sezione reputa che le
conclusioni del TAR siano esatte, ancorché
sulla base di un diverso –e, forse,
assorbente– ordine di considerazioni.
Ed invero, nella specie l’autorizzazione
paesaggistica necessaria per le opere
realizzate sull’immobile per cui è causa
deve essere rilasciata ex post, e
pertanto trova applicazione l’art. 167 del
decreto legislativo 22.01.2004, nr. 42 (“Codice
dei beni culturali e del paesaggio”),
norma entrata in vigore in epoca successiva
al d.P.R. nr. 380 del 2001, la quale
manifestamente s’incentra sull’onere
dell’interessato di richiedere
l’autorizzazione alla competente
Soprintendenza.
Tale previsione, peraltro, conferma il
consolidato indirizzo giurisprudenziale
secondo cui il procedimento per il rilascio
del permesso di costruire e quello per il
nulla-osta di compatibilità paesaggistica
dell’intervento, ancorché connessi, restano
due procedimenti ontologicamente e
logicamente distinti, avendo a oggetto la
tutela di beni diversi ed essendo articolati
sulla base di competenze diverse (cfr. ex
multis Cons. Stato, sez. VI, 28.12.2011,
nr. 6878).
Ne consegue che il richiamato art. 5 del
d.P.R. nr. 380 del 2001, nell’assegnare allo
Sportello unico per l’edilizia
l’acquisizione di tutti gli “atti di
assenso, comunque denominati, necessari ai
fini della realizzazione dell’intervento
edilizio”, si riferisce certamente a
tutti i pareri e nulla-osta
endoprocedimentali intesi al rilascio del
permesso di costruire, ma non può estendersi
anche a un’autorizzazione diversa ed esterna
rispetto a tale procedimento, quale è
l’autorizzazione paesaggistica eventualmente
richiesta per l’esecuzione dell’intervento
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.07.2012 n. 4312 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
TAR Milano, che in un primo momento (con
ordinanza 11.05.2012 n. 664) aveva
dichiarato che "non appare irrilevante né
manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 17,
comma 1°, della l.r. n. 7/2012", ci
ripensa e non invia gli atti alla Consulta.
Nel caso in cui il
Comune rilasci il titolo edilizio in
applicazione di norme solo successivamente
dichiarate incostituzionali, è da escludere
che la declaratoria di incostituzionalità di
una norma di legge renda di per sé nulli i
provvedimenti amministrativi adottati in
base ad essa.
Ai fini dell’esatta
comprensione e decisione del primo mezzo di
ricorso, occorre prendere le mosse dalla
sentenza della Corte Costituzionale
23.11.2011, n. 309 (cfr. doc. 8 dei
ricorrenti), con la quale è stata dichiarata
l’illegittimità costituzionale di taluni
articoli della legge della Regione Lombardia
n. 12/2005 sul governo del territorio e
segnatamente degli articoli 27, comma 1,
lettera d), ultimo periodo e dell’art. 103,
oltre che dell’art. 22 della legge regionale
7/2010, laddove gli stessi annoveravano nel
concetto di “ristrutturazione edilizia”, gli
interventi di demolizione e ricostruzione
degli edifici, senza rispetto del limite
della sagoma.
In altri termini, le norme dichiarate
incostituzionali consentivano, almeno in
Lombardia, di qualificare come
“ristrutturazione edilizia” anche le ipotesi
di demolizione e ricostruzione di edifici,
senza rispettare la sagoma dello stabile
preesistente poi demolito.
La Corte ha ritenuto che le definizioni
delle categorie degli interventi edilizi,
contenute nella legge statale ed in
particolare nell’art. 3 del DPR 380/2001
(Testo Unico sull’edilizia), costituiscono
principi fondamentali della legislazione
statale in materia di “governo del
territorio” (materia riservata dall’art.
117, comma 3°, della Costituzione, alla
potestà legislativa concorrente
Stato-Regioni), che devono pertanto essere
rispettati da parte delle Regioni
nell’esercizio della loro funzione
legislativa.
La sentenza della Corte Costituzionale n.
309/2011 ha immediatamente posto il problema
della sua applicazione ai rapporti giuridici
pendenti al momento della sua pubblicazione
(23.11.2011), posto che, per espressa
disposizione dell’art. 136 della
Costituzione, le norme dichiarate
incostituzionali cessano <<di avere
efficacia dal giorno successivo alla
pubblicazione della decisione>>.
Con riguardo agli effetti delle sentenze
della Corte Costituzionale sui titoli
edilizi o –meglio– sui rapporti giuridici
nascenti dai titoli stessi (permesso di
costruire, oppure DIA o SCIA, anche se
questi ultimi non costituiscono
provvedimenti amministrativi), è opinione
diffusa, anche in dottrina, che le sentenze
come quella di cui è causa possano esplicare
effetti anche su titoli già rilasciati,
purché l’attività edilizia sia ancora in
corso e non siano ultimati i lavori
assentiti, trattandosi di rapporti giuridici
pendenti e non ancora esauriti o definiti
(giacché solo in tale ultima ipotesi le
sentenze del Giudice delle leggi non
potrebbero trovare applicazione).
In Lombardia, il legislatore regionale ha
ritenuto di dettare una specifica disciplina
sulla sorte dei titoli edilizi, a seguito
della sentenza della Corte Costituzionale n.
309/2011, attraverso l’art. 17 della legge
regionale 18.04.2012, n. 7 (sul Bollettino
Ufficiale della Regione Lombardia
20.04.2012).
Ai sensi del comma 1° del citato art. 17,
<<In relazione agli interventi di
ristrutturazione edilizia oggetto della
sentenza della Corte Costituzionale del 21.11.2011, n. 309, al fine di tutelare
il legittimo affidamento dei soggetti
interessati, i permessi di costruire
rilasciati alla data del 30.11.2011
nonché le denunce di inizio attività
esecutive alla medesima data devono
considerarsi titoli validi ed efficaci fino
al momento della dichiarazione di fine
lavori, a condizione che la comunicazione di
inizio lavori risulti protocollata entro il
30.04.2012>>.
Nella presente fattispecie, la domanda di
permesso di costruire indica espressamente
che l’intervento è di ristrutturazione
avverrà con modifica della sagoma (cfr. doc.
4 dei ricorrenti), ed il titolo edilizio è
stato rilasciato il 21.11.2011, vale a dire
due giorni prima del deposito della sentenza
n. 309/2011.
Ciò premesso, si rimarca come nel primo
mezzo di gravame si denuncia l’illegittimità
del titolo edilizio, in quanto con lo stesso
viene consentita una ristrutturazione senza
limite di sagoma, in contrasto con la citata
sentenza della Corte Costituzionale.
La difesa del controinteressato, dal canto
suo, ha invocato a proprio favore l’art. 17,
comma 1°, della legge regionale 7/2012,
ritenuto applicabile al caso di specie,
visto che il permesso di cui è causa è stato
rilasciato prima del 30.11.2011.
Gli esponenti, di conseguenza, sia nella
discussione orale all’udienza in camera di
consiglio sia nelle successive memorie
difensive, hanno chiesto al Tribunale di
sollevare questione di legittimità
costituzionale dell’art. 17 succitato, per
violazione dell’art. 136 della Costituzione,
avendo la norma regionale del 2012 di fatto
prorogato gli effetti di una serie di norme
dichiarate invece incostituzionali.
Il Collegio, nella propria ordinanza
cautelare n. 664/2012, aveva ritenuto,
seppure al termine di una cognizione
sommaria, che la questione di
costituzionalità dell’art. 17, comma 1°,
fosse sia rilevante sia non manifestamente
infondata, pur riservandosi un necessario
approfondimento in sede di merito.
Orbene, tale approfondimento, assolutamente
indispensabile vista la complessità della
questione, induce ora il Tribunale alla
conclusione che la questione di
costituzionalità sia però priva, nel caso di
specie, del necessario requisito della
rilevanza (si ricordi che, ai sensi
dell’art. 23 della legge 11.03.1953, n. 87,
la questione è rilevante <<qualora il
giudizio non possa essere definito
indipendentemente dalla risoluzione della
questione di legittimità costituzionale>>).
Infatti, il permesso di costruire di cui è
causa (cfr. doc. 1 dei ricorrenti), è stato
rilasciato il 21.11.2011, prima (anche se di
due soli giorni, ma ciò non rileva), del
deposito della sentenza della Corte
Costituzionale n. 309 del 23.11.2011, quindi
in vigenza della disciplina regionale poi
dichiarata incostituzionale.
Il Comune di Sondrio, in altri termini, non
ha dato certamente applicazione all’art. 17,
comma 1°, né al momento del rilascio del
titolo edilizio (non essendo allora ancora
intervenuta la pronuncia della Corte), né
successivamente, non risultando che
l’Amministrazione, d’ufficio o su istanza di
soggetti terzi, abbia mai adottato
provvedimenti di esecuzione del citato art.
17 (come sarebbe avvenuto, ad esempio, se il
Comune, a fronte di una diffida di soggetti
interessati, si fosse rifiutato di inibire
l’intervento edilizio richiamando la norma
dell’art. 17).
La questione di costituzionalità, pertanto,
seppure appare al Collegio non
manifestamente infondata (non essendo
possibile per il legislatore ordinario
assicurare una sorta di ulteriore vigenza di
norme dichiarate incostituzionali; cfr. fra
le tante, Corte Costituzionale, sentenze n.
350/2010 e n. 223/1983), non può però
reputarsi rilevante, visto che la
valutazione della legittimità di un permesso
di costruire rilasciato prima della sentenza
della Corte, può –almeno nel caso di specie– prescindere dalla norma dell’art. 17 della
LR 7/2012.
In conclusione, il primo mezzo di ricorso
deve respingersi, avendo il Comune
rilasciato il titolo in applicazione di
norme solo successivamente dichiarate
incostituzionali e dovendosi escludere che
la declaratoria di incostituzionalità di una
norma di legge renda di per sé nulli i
provvedimenti amministrativi adottati in
base ad essa (così la giurisprudenza
amministrativa, a partire dalla nota
decisione dell’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato, 08.04.1963, n. 8),
potendo semmai essere esercitato il potere
di autotutela amministrativa da parte del
Comune di Sondrio sul permesso di costruire
di cui è causa
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
27.07.2012 n.
2147 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
mutamento di destinazione d’uso, anche senza
opere edilizie, non può costituire una
operazione edilizia o urbanistica per così
dire “neutra”, da definirsi esclusivamente
attraverso il pagamento di una sanzione
pecuniaria, dovendo l’Amministrazione
verificare se il cambio d’uso non abbia
inciso anche sul carico urbanistico della
zona.
In questo senso appare orientata anche la
giurisprudenza amministrativa, per la quale
il mutamento di destinazione d’uso è
rilevante se avviene fra <<categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista
urbanistico>>, dovendosi in tal caso
verificare la variazione del carico
urbanistico; parimenti è
stato affermato che, indipendentemente
dall’esecuzione fisica di opere, rileva il
passaggio dell’immobile ad una categoria
funzionalmente autonoma dal punto di vista
urbanistico, con conseguente aumento del
carico; in altri termini si configura una
“trasformazione edilizia” quando la stessa
sia produttiva di vantaggi economici
connessi all’utilizzazione, anche senza
opere.
La specifica disciplina
regionale sul mutamento di destinazione
d’uso deve essere letta ed interpretata alla
luce dei principi fondamentali e delle
disposizioni più generali risultanti dalla
legislazione statale (DPR 380/2001) ed anche
dalla stessa legge regionale 12/2005.
Quest’ultima, in particolare, all’art. 51,
comma 1°, se da una parte ammette in via di
principio il passaggio da una destinazione
all’altra, fa espressamente salve le
esclusioni previste dallo strumento
urbanistico generale (<<…salvo quelle
eventualmente escluse dal PGT>>).
L’art. 52, comma 2°, del resto, prevede per
i mutamenti d’uso senza opere edilizie un
obbligo di semplice comunicazione
all’Amministrazione, purché i suddetti
mutamenti siano <<…conformi alle previsioni
urbanistiche comunali ed alla normativa
igienico-sanitaria>>.
Quanto alla normativa statale, l’art. 32,
comma 1°, del DPR 380/2001, qualifica come
“variazione essenziale” –sanzionata ai
sensi del precedente art. 31 del DPR
380/2001 con l’obbligo di demolizione e
riduzione in pristino– il mutamento di
destinazione d’uso (comunque realizzato,
anche senza opere edilizie), che implichi
una variazione degli standard previsti dal
DM 02.04.1968, n. 1444.
Appare quindi evidente che il mutamento di
destinazione d’uso, anche senza opere
edilizie, non può costituire una operazione
edilizia o urbanistica per così dire
“neutra”, da definirsi esclusivamente
attraverso il pagamento di una sanzione
pecuniaria, dovendo l’Amministrazione
verificare se il cambio d’uso non abbia
inciso anche sul carico urbanistico della
zona.
In questo senso appare orientata anche la
giurisprudenza amministrativa, per la quale
il mutamento di destinazione d’uso è
rilevante se avviene fra <<categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista
urbanistico>>, dovendosi in tal caso
verificare la variazione del carico
urbanistico (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 13.07.2010, n. 4546, con la
giurisprudenza ivi richiamata); parimenti è
stato affermato che, indipendentemente
dall’esecuzione fisica di opere, rileva il
passaggio dell’immobile ad una categoria
funzionalmente autonoma dal punto di vista
urbanistico, con conseguente aumento del
carico; in altri termini si configura una
“trasformazione edilizia” quando la stessa
sia produttiva di vantaggi economici
connessi all’utilizzazione, anche senza
opere (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV,
14.10.2011, n. 5539, con le pronunce in essa
richiamate ed anche TAR Lombardia, Milano,
sez. II, 11.02.2011, n. 468).
Nel caso di specie, la disciplina
urbanistica del PRG di Lissone esclude che
nella zona B3 di cui è causa sia possibile
la destinazione residenziale: in tal senso
si vedano l’art. 16.5.4 delle NTA che
individua le destinazioni compatibili con
quella principale produttiva, l’art. 20
delle NTA, che attribuisce alla zona B3 una
caratteristica essenzialmente produttiva
industriale e artigianale e l’art. 22 delle
NTA, che per la zona B3 ammette attività
compatibili e complementari con quella
primaria produttiva (cfr. doc. 3 del
resistente nel ricorso 1930/2011).
Dal combinato disposto delle norme tecniche
citate, è agevole concludere che la
destinazione residenziale non è possibile
nella zona B3, se non per la sola ipotesi
della residenza del custode in misura
massima del 16.67% della s.l.p. (superficie
lorda di pavimento).
Appare poi evidente che il passaggio dalla
destinazione produttiva a quella
residenziale implica il passaggio ad una
autonoma categoria funzionale, con
incremento del carico urbanistico dovuto
alla presenza di persone stabilmente
residenti nell’immobile.
Deve quindi riconoscersi in capo alle
Amministrazioni locali il potere, in caso di
mutamento d’uso senza opere edilizie in
contrasto con le previsioni urbanistiche, di
ordinare la rimessione in pristino, per
evitare un illecito ed irreversibile cambio
di destinazione urbanistica non accompagnato
da adeguate misure per fare fronte
all’aumentato carico urbanistico.
Alla luce di quanto sopra esposto,
devono respingersi le censure contenute nel
ricorso RG 1930/2011 contro la nota comunale
dell’11.4.2011, nella quale, pur dandosi
avviso dell’avvio del procedimento
sanzionatorio per gli abusi edilizi
riscontrati (interventi eseguiti in
difformità dalle DIA del 2007 e del 2010),
viene sostanzialmente negato il cambio di
destinazione d’uso dei locali, richiesto
dall’esponente con istanza del 28.03.2011
(cfr. doc. 6 della ricorrente).
In ordine all’accertamento dell’abuso, si
richiama il verbale di sopralluogo del
06.04.2011 con l’allegata documentazione
fotografica (cfr. doc. 15 del resistente nel
ricorso 1930/2011), dal quale risulta in
maniera inequivocabile che all’interno delle
unità immobiliari di cui è causa sono stati
realizzati bagni completi di sanitari e la
predisposizione per le cucine; si tratta di
interventi che rivelano con sufficiente
chiarezza il cambio d’uso intervenuto negli
ambienti, destinati senza dubbio alla
permanenza continua di persone ed alla
residenza e non certo all’attività
produttiva (sull’accertamento del cambio di
destinazione d’uso, che può essere desunto
anche da elementi indiziari, purché univoci,
si vedano: Cassazione penale, sez. III,
26.01.2011, n. 9282 e TAR Lombardia, Milano,
29.04.2011, n. 1105).
L’istruttoria svolta appare quindi adeguata,
così come non si ravvisa alcuna violazione
dell’obbligo di motivazione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
27.07.2012 n.
2146 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
legittimo il diniego del certificato di
agibilità, ai sensi degli articoli 24 e 25
del DPR 380/2001, in caso di violazioni
della normativa urbanistica ed edilizia.
Parimenti infondate sono le doglianze
contro la nota comunale del 21.04.2011 di
diniego dell’agibilità, sia alla luce di
quanto sin d’ora esposto, sia tenendo conto
dell’indirizzo giurisprudenziale, al quale
si ritiene di aderire, per il quale è
legittimo il diniego del certificato di
agibilità, ai sensi degli articoli 24 e 25
del DPR 380/2001, in caso di violazioni
della normativa urbanistica ed edilizia
(cfr. TAR Friuli Venezia Giulia, 30.04.2012,
n. 146, che richiama in motivazione, TAR
Lombardia, Milano, sez. II, n. 332 del
10.02.2010)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
27.07.2012 n.
2146 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza amministrativa, anteriore
all’entrata in vigore del codice delle
comunicazioni, risultava propensa a
ritenere necessaria l’acquisizione di un
titolo autorizzatorio edilizio, di regola la
concessione edilizia (o, in subordine, altro
atto di assenso previsto dalla legislazione
regionale o dai regolamenti comunali), nel
caso di impianti di telefonìa che
effettivamente comportassero una
trasformazione edilizia, evincibile,
quest’ultima, dalle dimensioni delle opere
realizzate, dai relativi ingombri, e dalla
visibilità dei manufatti dai luoghi
circostanti.
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 214
del 13.09.2001, con cui il responsabile del
settore edilizia del Comune di Bollate ha
ingiunto la demolizione di un impianto
realizzato in Via Magenta n. 27, intimando
altresì la rimessione in pristino dei
luoghi, nonché del provvedimento di
archiviazione del 05.09.2001, relativo al
procedimento edilizio avviato dalla stessa
società ricorrente in data 23.03.2000.
...
Ai fini di una più agevole esposizione il
Collegio ritiene opportuno premettere che:
A) la società ricorrente ha proposto una
domanda di concessione edilizia in data
23.03.2000, anteriormente, cioè, all’entrata
in vigore della legge regionale n. 11/2001,
che ha regolato la materia dell’elettrosmog
sul territorio lombardo, ma il provvedimento
impugnato, emesso in data 13.09.2001, e lo
stesso vale per l’archiviazione del
procedimento edilizio, disposta in data 05.09.2001, sono entrambi successivi a tale
normativa;
B) la giurisprudenza amministrativa
anteriore all’entrata in vigore del codice
delle comunicazioni –riferibile, quindi, a
fattispecie analoghe a quella oggetto del
presente giudizio– risultava propensa a
ritenere necessaria l’acquisizione di un
titolo autorizzatorio edilizio, di regola la
concessione edilizia (o, in subordine, altro
atto di assenso previsto dalla legislazione
regionale o dai regolamenti comunali), nel
caso di impianti di telefonìa che
effettivamente comportassero una
trasformazione edilizia, evincibile,
quest’ultima, dalle dimensioni delle opere
realizzate, dai relativi ingombri, e dalla
visibilità dei manufatti dai luoghi
circostanti (cfr., tra le prime pronunce,
Consiglio di Stato, sez. V, 06.04.1998,
n. 415; TAR Lombardia–Milano, sez. II,
07.04.1997, n. 430; TAR Puglia-Bari,
sez. II, 17.03.2000, n. 1041; TAR
Emilia Romagna–Parma, 20.04.2001, n.
226).
Tanto precisato, il Collegio ritiene
dirimenti le seguenti osservazioni:
1) è pregiudiziale stabilire quale sia
l’effettiva struttura oggetto dell’ordine di
demolizione. Ciò in quanto:
- dalla relazione di servizio della Polizia
municipale del 27.02.2001, atto di
accertamento costituente presupposto del
provvedimento impugnato, “risulta in opera
una installazione che si configura come un
traliccio portante, avente altezza di ca. mt.
4,50. Alla sommità di tale manufatto sono
installate n° 3 antenne ricetrasmittenti
aventi a loro volta altezza di mt. 1,30
cadauna”;
- in sede di delibazione cautelare, questo
Tribunale ha accertato trattarsi, invece, di
un “piccolo palo di altezza di circa 4 mt.,
recante antenna”.
Ora, pur non potendosi direttamente
applicare, alla fattispecie, il D.P.R. 06.06.2001, n. 380, “testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in
materia edilizia”, in quanto entrato in
vigore il 30.06.2003, quindi
successivamente all’adozione del
provvedimento impugnato, nondimeno è
opportuno considerare, come utile indice di
riferimento, che l’art. 3, comma 1 lett. e)
di tale normativa –che comunque ha
riprodotto, implicitamente abrogandola, la
disposizione di cui all’art. 31 della legge
05.08.1978, n. 457– ha qualificato come
“interventi di nuova costruzione”
l’installazione di “torri e tralicci per
impianti radio-ricetrasmittenti e di
ripetitori per i servizi di
telecomunicazione” (cfr. in particolare, la
lett. e.4, anche questa implicitamente
abrogata dal codice delle comunicazioni di
cui al d.lgs. 259/2003);
2) nel corso di giudizio non sono emersi
elementi tali da smentire quanto rilevato da
questo Tribunale in riferimento alle modeste
dimensioni del palo collocato sul lastrico
di Via Magenta n. 27, che dunque
confermerebbero l’assenza di una
trasformazione edilizia: pertanto, anche in
sede di merito il Collegio non ravvisa
alcuna ragione per discostarsi dalla
valutazione di non necessità del previo
conseguimento di una concessione edilizia,
espressa nell’ordinanza cautelare n.
168/2002;
3) né a diversa conclusione può pervenirsi
in ragione di quanto l’Amministrazione ha
opposto nei propri scritti difensivi,
affermando che “è la stessa società che
implicitamente ammette l’incidenza di tale
opera sul territorio; con la richiesta di
rilascio della concessione edilizia,
l’intervento veniva definito come “nuova
edificazione”” (cfr. pag. 4 della memoria
dell’08.06.2012).
Nulla, infatti, avrebbe potuto impedire
all’Amministrazione comunale –in esito ad
un’approfondita e puntuale verifica (ben
oltre i riferimenti, meramente letterali,
contenuti nella relazione di servizio della
polizia municipale) sull’effettiva
consistenza delle opere realizzate, esulanti
dall’ipotesi di una trasformazione edilizia– di assentire l’installazione dell’impianto
sulla scorta del regime amministrativo
semplificato, quello fondato su mera
denuncia di inizio di attività, già
previsto, al tempo, sia dalla legge 24.12.1993, n. 537 sia, ancor più
organicamente, dalla legge 23.12.1996,
n. 662;
4) è pacifico che nel provvedimento
impugnato l’Amministrazione resistente non
ha contestato la violazione dell’altezza
massima degli edifici, indirettamente
confermandosi le contenute dimensioni
dell’impianto realizzato dalla società
ricorrente; né tantomeno ha specificamente
contestato –limitandosi, piuttosto, ad un
generico richiamo nel preambolo del
provvedimento impugnato– la violazione
delle disposizioni del regolamento comunale,
quest’ultimo comunque approvato in epoca
notevolmente successiva (27.07.2001)
all’accertamento dello stato dei luoghi
(27.02.2001), e quindi inidoneo a costituire
disciplina utilmente applicabile;
5) risulta, altresì, pacificamente ai sensi
dell’art. 64, comma 4, del codice del
processo amministrativo, che la potenza
dell’impianto di che trattasi non fosse
superiore ai 7 watt: circostanza, questa,
oggetto di una disposizione della legge
regionale n. 11/2001 (segnatamente, l’art.
6, comma 1, lett. a) efficace al momento
dell’adozione dell’ordinanza di demolizione,
ma nondimeno ignorata nelle valutazioni
istruttorie esperite dall’Amministrazione
comunale;
6) è invece infondato il terzo motivo di
ricorso, con cui è stata dedotta la mancata
comunicazione del provvedimento di
archiviazione della pratica edilizia,
risultando in atti prova documentale della
trasmissione di tale provvedimento con nota
fax del 05.09.2001.
In conclusione il ricorso è fondato e va,
pertanto, accolto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza
27.07.2012 n.
2118 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Un
Comune non può adottare, mediante il formale
utilizzo di strumenti di carattere edilizio
o urbanistico, misure sostanzialmente
derogatorie dei limiti di esposizione ai
campi elettromagnetici, quali il divieto
generalizzato di installare stazioni
radio-base per telefonia cellulare “su tutto
il territorio comunale”.
---------------
Il potere comunale di stabilire, mediante
gli strumenti urbanistici, la specifica
destinazione d’uso in cui è consentita
l'installazione degli impianti di telefonia
è rinvenibile nella legge urbanistica
fondamentale (n. 1150/1942), in cui è
previsto che il piano regolatore generale
deve indicare, oltre alle localizzazioni
(art. 7, comma 2, n. 1), la “divisione in
zone del territorio comunale con la
precisazione delle zone destinate
all’espansione dell’aggregato urbano e la
determinazione dei vincoli e dei caratteri
da osservare in ciascuna zona”, nonché “le
aree da riservare ad edifici pubblici o di
uso pubblico nonché ad opere ed impianti di
interesse collettivo o sociale” (art. 7,
comma 2, n. 4).
Si tratta, con tutta evidenza, di
disposizioni pienamente applicabili alla
disciplina amministrativa sull’elettrosmog,
essendone stata, invece, dichiarata
l’illegittimità costituzionale solo in
riferimento alla reiterazione dei vincoli
preordinati all’esproprio.
Pertanto, il Comune è pienamente
legittimato, ai sensi dell'art. 8, comma 6,
della legge 36/2001, ad adottare delle
previsioni regolamentari volte ad assicurare
il corretto insediamento urbanistico e
territoriale degli impianti e minimizzare
l'esposizione della popolazione ai campi
elettromagnetici, in sintonìa con la
pianificazione urbanistica.
... per l'annullamento del provvedimento del
19.07.2001, con cui il Comune di San Giuliano
Milanese ha negato l’autorizzazione
all’installazione di una stazione radio base
in Via Milano 14, nonché ogni atto
presupposto, connesso e consequenziale, con
particolare riguardo al regolamento comunale
per la localizzazione degli impianti di telefonìa, approvato con deliberazione del
Consiglio comunale n. 16 del 21.02.2001.
...
Ritiene il Collegio che i
motivi siano fondati, e ciò sulla scorta
dell’analisi del fondamento e dei limiti di
esercizio del potere regolamentare
attribuito alle Amministrazioni comunali
dall’art. 8, comma 6, della legge 22.02.2001, n. 36, finalizzato a
garantire “il corretto insediamento
urbanistico e territoriale degli impianti e
minimizzare l'esposizione della popolazione
ai campi elettromagnetici”.
Sul punto, risulta da tempo consolidato, in
giurisprudenza, l’orientamento che considera
legittime soltanto le previsioni
regolamentari che non dissimulino intenti
differenti da quelli indicati dalla citata
disposizione.
Si è, in particolare, ritenuto che un Comune
non possa adottare, mediante il formale
utilizzo di strumenti di carattere edilizio
o urbanistico, misure sostanzialmente
derogatorie dei limiti di esposizione ai
campi elettromagnetici (la disciplina di
questi ultimi, come fondatamente dedotto da
parte ricorrente, è ascritta alle
prerogative legislative dello Stato), quali
–come nel caso della previsione di cui
all’art. 2, comma 1 del regolamento del
Comune di San Giuliano Milanese– il divieto
generalizzato di installare stazioni
radio-base per telefonia cellulare “su tutto
il territorio comunale” (non potendosi
ritenere che tale previsione possa ritenersi
legittima per effetto dell’individuazione,
operata al comma 2 del medesimo art. 2,
dell’area programmata per la futura
realizzazione di un impianto di
compostaggio), ovvero l’introduzione di
distanze fisse da osservare (una fascia di
duecento metri dalla vista area) (cfr., tra
le tante, Consiglio di Stato, sez. VI, 15.06.2006, n. 3534; TAR Abruzzo–Pescara,
03.04.2007, n. 376).
Ad avviso del Collegio, la disposizione di
cui all’art. 2 del regolamento comunale
(erroneamente indicata nell’art. 4 da parte
della Commissione edilizia) va quindi
ritenuta esulante dai profili urbanistici
riconducibili alla competenza dell’ente
locale, palesandosi in essa uno sviamento
dell’attività amministrativa dalla funzione
regolatoria insita nella previsione di cui
al citato art. 8 della legge n. 36/2001.
Con riferimento al perseguimento
dell’obiettivo di minimizzazione del
rischio, rileva inoltre il Collegio:
A) un evidente contrasto tra la
regolamentazione comunale e la disciplina di
cui al comma 8 dell’art. 4 della legge
regionale n. 11/2001. Tale disposizione (la
cui formulazione applicabile ratione
temporis, poi riformata dall’art. 3 della
legge regionale n. 4/2002, è stata
successivamente ripristinata per effetto
della sentenza della Corte costituzionale n.
331/2003) prevedeva, allora come oggi, che
“è comunque vietata l'installazione di
impianti per le telecomunicazioni e per la
radiotelevisione in corrispondenza di asili,
edifici scolastici nonché strutture di
accoglienza socio-assistenziali, ospedali,
carceri, oratori, parco giochi, orfanotrofi
e strutture similari, e relative pertinenze,
che ospitano soggetti minorenni”.
Sull’apparente rigore di tale disposizione
ha fatto chiarezza la circolare regionale n.
58/2001, nella quale si è precisato che “la
prescrizione è da ritenersi soddisfatta
quando gli impianti per le telecomunicazioni
e la radiodiffusione siano installati in
punti che non ricadano in pianta entro il
perimetro degli edifici e strutture di cui
al suddetto comma e delle loro pertinenze”
(cfr. punto n. 5, lett. b).
Di conseguenza, va ritenuta illegittima
qualsiasi disposizione che imponga, come si
ravvisa nell’art. 2 del regolamento
comunale, un divieto generalizzato su tutto
il territorio;
B) che sulla legittimità dei divieti di
installazione risulta dirimente un passaggio
della motivazione con cui la Corte
costituzionale ha dichiarato, con sentenza
27.10.2003, n. 331, l’illegittimità
costituzionale di una disposizione
legislativa, approvata dalla Regione
Lombardia, che aveva reintrodotto il
criterio della distanza dai recettori
sensibili come rimedio volto a conseguire la
minimizzazione del rischio, statuendosi che
alle prerogative regionali in materia di
criteri localizzativi “non possono infatti
ricondursi divieti (…) che, in particolari
condizioni di concentrazione urbanistica di
luoghi specialmente protetti, potrebbe
addirittura rendere impossibile la
realizzazione di una rete completa di
infrastrutture per le telecomunicazioni,
trasformandosi così da «criteri di
localizzazione» in «limitazioni alla
localizzazione», dunque in prescrizioni
aventi natura diversa da quella consentita
dalla citata norma della legge n. 36. Questa
interpretazione, d'altra parte, non è senza
una ragione di ordine generale,
corrispondendo a impegni di origine europea
e all'evidente nesso di strumentalità tra
impianti di ripetizione e diritti
costituzionali di comunicazione, attivi e
passivi”.
Alla luce di quanto rilevato, è da ritenersi
illegittimo, e va quindi annullato, il
regolamento comunale oggetto di impugnazione
e, in via derivata, il diniego opposto
dall’Amministrazione comunale.
Con il secondo motivo di ricorso la società
ricorrente ha, invece, dedotto che “il
regolamento impugnato non costituisce
variante del vigente p.r.g.” (cfr. pag. 11
del ricorso).
Trattasi però, ad avviso del Collegio, di
censura infondata, in quanto il potere
comunale di stabilire, mediante gli
strumenti urbanistici, la specifica
destinazione d’uso in cui è consentita
l'installazione degli impianti di telefonia
è rinvenibile nella legge urbanistica
fondamentale (n. 1150/1942), in cui è
previsto che il piano regolatore generale
deve indicare, oltre alle localizzazioni
(art. 7, comma 2, n. 1), la “divisione in
zone del territorio comunale con la
precisazione delle zone destinate
all’espansione dell’aggregato urbano e la
determinazione dei vincoli e dei caratteri
da osservare in ciascuna zona”, nonché “le
aree da riservare ad edifici pubblici o di
uso pubblico nonché ad opere ed impianti di
interesse collettivo o sociale” (art. 7,
comma 2, n. 4).
Si tratta, con tutta evidenza, di
disposizioni pienamente applicabili alla
disciplina amministrativa sull’elettrosmog,
essendone stata, invece, dichiarata
l’illegittimità costituzionale solo in
riferimento alla reiterazione dei vincoli
preordinati all’esproprio (cfr. Corte cost.,
20.05.1999, n. 179): profilo estraneo
all’odierna materia del contendere.
Pertanto, il Comune è pienamente
legittimato, ai sensi dell'art. 8, comma 6,
della legge 36/2001, ad adottare delle
previsioni regolamentari volte ad assicurare
il corretto insediamento urbanistico e
territoriale degli impianti e minimizzare
l'esposizione della popolazione ai campi
elettromagnetici, in sintonìa con la
pianificazione urbanistica.
In conclusione il ricorso è fondato e va,
pertanto, accolto, nei termini espressi in
motivazione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza
27.07.2012 n.
2117 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Volumetria
e sagoma, nei centri storici, si pongono
come limiti sia per gli interventi di
ristrutturazione che non comportino
demolizioni, sia nei casi di
ristrutturazioni attuate attraverso le
demolizioni: per mutare tali parametri non
basta la denuncia di inizio attività, ma
occorre il permesso di costruire.
In presenza di una specifica normativa delle
NTA che disciplinano -in senso più
restrittivo rispetto al legislatore statale-
le possibilità di intervento sugli edifici
preesistenti, le finalità di salvaguardia
dei centro storici territoriale di una zona
devono ritenersi prevalenti perché dirette
ad assicurare un regime di maggiore tutela
dell’area interessata.
In linea generale si deve ricordare che, ai
sensi dell'art. 22, t.u. 06.06.2001 n. 380
gli interventi sull’esistente realizzabili
con la d.i.a. –in sostituzione del permesso
di costruire- di cui alla lett. c) dell’art.
10 del cit. D.P.R, sono gli interventi di
ristrutturazione edilizia che portano ad un
organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente e che comportano
aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume, della sagoma, dei prospetti o delle
superfici, e se sono realizzate su immobili
compresi nelle zone omogenee A, comportano
mutamenti della destinazione d'uso.
Come specificato dal secondo comma, la
denuncia di inizio attività nei centri
storici concerne interventi che:
- non devono incidere sui parametri
urbanistici e sulle volumetrie;
- non devono modificare la destinazione
d'uso e la categoria edilizia;
- non devono alterare la sagoma
dell'edificio;
- non devono comunque violare le eventuali
prescrizioni contenute nell’originario
permesso di costruire.
Il permesso è invece sempre necessario in
caso di sostanziali variazioni di sagoma,
volumetria e destinazione d'uso (cfr.
Consiglio Stato, sez. IV, 21.05.2010, n.
3231).
L’applicazione dell'art. 3, comma 1, lett.
d), d.P.R. n. 380 del 2001 -con cui era
stata estesa la nozione di "ristrutturazione
edilizia" sì da ricomprendervi pure gli
interventi ricostruttivi consistenti nella
demolizione– resta condizionata al fatto in
tali ipotesi che "volumetria" e "sagoma"
debbano rimanere assolutamente identiche.
In altri termini, volumetria e sagoma, nei
centri storici, si pongono come limiti sia
per gli interventi di ristrutturazione che
non comportino demolizioni, sia nei casi di
ristrutturazioni attuate attraverso le
demolizioni: per mutare tali parametri non
basta la denuncia di inizio attività, ma
occorre il permesso di costruire (cfr.
Cassazione penale, sez. III, 17.02.2010, n.
16393).
Ciò premesso, danno poi logico fondamento
alla conclusione per cui si trattava di un
organismo edilizio differente la
realizzazione di:
- un tramezzo al livello primo di solo
m.0,12 al posto del precedente muro
trasversale portante di 0,50 sulla cui
corrispondenza al piano superiore si è posto
un tramezzo di 0,34 cm;
- un nuovo servizio igienico con nuove
divisioni interne;
- un vano chiuso al terzo livello coperto
con tetto a falda ad uso cucina;
- una terrazza praticabile al terzo livello;
- una camera da letto con il servizio
igienico;
- una terrazza praticabile in luogo
dell’originaria copertura a falde;
- una scala in conglomerato cementizio
armato per l’accesso al nuovo lastrico ed ad
un nuovo vano chiuso al terzo livello
coperto con tetto a falda con probabile
destinazione a cucina non risultando
l’indicazione di altri vani a ciò destinati.
Alla luce delle allegazioni ed anche della
documentazione fotografica versate in atti,
devono perciò integralmente condividersi le
conclusioni del primo giudice per cui nella
fattispecie la molteplicità e l’entità delle
trasformazioni dell’unità immobiliare
originaria, non solo sono state realizzate
in difformità rispetto agli elaborati in DIA
ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. n.
380/2001, ma hanno finito per modificare
radicalmente non solo la destinazione di
diversi vani e le superficie pertinenziali,
ma soprattutto i volumi edilizi totali e la
sagoma dell’edificio che è rimastra
stravolta dall’elevazione di mt. 2,44
rilevata dal piano di terrazza alla seconda
gronda del nuovo volume costruito per un
totale portato da ml. 9,26 a mt. 11,72 .
L’altezza totale non solo non è stata
ridotta, ma è stata addirittura portata ben
oltre i limiti di mt. 7,5 previsti dalla
normativa antisismica per le zone sismiche
di prima categoria (S=12).
Non ricorre quindi quel “processo alle
intenzioni” di cui parla l’appellante,
essendo al contrario evidente il suo
tentativo di confondere la situazione di
fatto. Contrariamente a quanto afferma il
ricorrente, l’alterazione della sagoma ha
comportato la conseguenza di creare nuovi
metri cubi ad un terzo piano, di non
precisata destinazione, che non potevano
esser considerati come meri “volumi
tecnici”.
Esattamente il primo giudice, condividendo
la CTU, ha affermato che il complesso degli
interventi realizzati comportava che l’opera
non potesse essere ricondotta agli
interventi c.d. “di ristrutturazione
leggera” che cioè non modificano il
carico urbanistico, ma finiva per
configurarsi come una c.d. “ristrutturazione
pesante”, assimilabile ad una nuova
costruzione, e quindi, come tale, non
assentibile nell’ambito del centro storico.
Inoltre del tutto inconferente è il richiamo
all’art. 49 della legge regionale Calabria
n. 19 del 16.04.2002 in quanto qui non vi è
stato alcun recupero del sottotetto perché
la copertura a falde è stata parzialmente
demolita.
Sotto altro profilo, nella fattispecie in
esame, non era poi applicabile il secondo
comma dell’art. 9 del d.p.r. n. 380/2001, il
cui precetto riguarda esclusivamente le
“aree bianche”, cioè quelle nelle quali il
rinvio ad un piano esecutivo è accompagnato
dalla mancanza di una qualsiasi disciplina
urbanistica; mentre nell'ambito del Comune
vi è una specifica disciplina –valida ed
efficace- concernente le opere eseguibili
nel centro storico.
Anche in considerazione della prevalenza del
ruolo dei Comuni in materia
urbanistico-edilizia, le prescrizioni del
Regolamento edilizio che contengono
specifiche disposizioni destinate al
mantenimento degli equilibri urbanistici e
territoriali devono essere considerate
prevalenti rispetto alla disposizione
dell’art. 9 del d.p.r. n. 380/2001, in
quanto destinate ad evitare che le modifiche
dell’esistente finiscano per pregiudicare
definitivamente proprio gli obiettivi
generali di tutela cui invece è giustamente
finalizzata la normativa urbanistica.
In presenza di una specifica normativa delle
NTA che disciplinano -in senso più
restrittivo rispetto al legislatore statale-
le possibilità di intervento sugli edifici
preesistenti, le finalità di salvaguardia
dei centro storici territoriale di una zona
devono ritenersi prevalenti perché dirette
ad assicurare un regime di maggiore tutela
dell’area interessata (cfr. Consiglio Stato.
Sez. IV 10.05.2012 n. 2707).
Al riguardo è dunque decisivo che, nel caso,
le opere eseguite sono state realizzate in
violazione delle norme edilizie e della
disciplina urbanistica vigente di cui
all’art. 10 del Regolamento Edilizio
Comunale (REC) adottato con Delibera n. 15
del 19/07/1989 ed approvato con Decreto
della Regione n.635 del 25/5/1992. del
Comune di S. Giovanni di Gerace in base al
quale, nella Zona A sono vietati gli aumenti
di volumetria e le demolizioni non sono
ammessi interventi edilizi di nuova
costruzione, a tutela del tessuto storico
del centro.
Di qui l’illegittimità del complessivo
intervento così come realizzato (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.07.2012 n. 4258 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Deve escludersi che eventuali
deroghe all’osservanza delle norme tecniche
antisismiche previste per i centri storici
possano essere automaticamente messi in atto
ad opera del privato.
La normativa per le costruzioni nelle zone
sismiche concerne tutti gli interventi
edilizi da realizzarsi sul territorio
comunale edificato e di nuovo impianto. Come
le numerose disgrazie intervenute negli
ultimi anni hanno dimostrato, sono proprio
gli interventi con tecniche moderne su
edificazioni a struttura tradizionale che
danno luogo a costruzioni di particolare
pericolosità a cagione dei diversi
comportamenti torsionali dei differenti
materiali e dell’incremento dei carichi
strutturali sul preesistente.
Inoltre del tutto erroneamente gli
appellanti assumono la non applicabilità
della normativa antisismica di cui al
D.M. lavori pubblici 16.01.1996.
Deve infatti escludersi che
eventuali deroghe all’osservanza delle norme
tecniche antisismiche previste per i centri
storici possano essere automaticamente messi
in atto ad opera del privato (cfr. Consiglio
Stato, sez. IV 12.06.2009 n. 3706).
La normativa per le costruzioni nelle zone
sismiche concerne tutti gli interventi
edilizi da realizzarsi sul territorio
comunale edificato e di nuovo impianto. Come
le numerose disgrazie intervenute negli
ultimi anni hanno dimostrato, sono proprio
gli interventi con tecniche moderne su
edificazioni a struttura tradizionale che
danno luogo a costruzioni di particolare
pericolosità a cagione dei diversi
comportamenti torsionali dei differenti
materiali e dell’incremento dei carichi
strutturali sul preesistente.
Solo se non
fosse stata toccata l’altezza preesistente
si sarebbe dovuto fare riferimento
all’allegato n. 3 della predetta circolare
del Ministerro LL.PP., ma nel momento in cui
si è andato a realizzare un edificio
strutturalmente differente doveva essere
rispettata la predetta normativa antisismica
ed operata una diagnosi del possibile
comportamento della struttura risultante
all’evento sismico in termini di
deformazione, resistenza, punti di fragilità
delle strutture.
Infine si deve osservare che la presenza di
uno strettissimo vicolo di soli mt. 1,5
soggetto al passaggio pubblico non fa venir
meno la generale disciplina sulle luci e le
vedute.
Di qui l’assoluta illegittimità
dell’intervento realizzato in violazione dei
limiti dell’altezza totale, della
realizzazione di una scala in c.a. su una
struttura in pietrisco e dell’indebolimento
delle originarie strutture portanti interne
al primo piano (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.07.2012 n. 4258 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il concetto di “piena conoscenza” dell’atto lesivo non deve
essere inteso quale “conoscenza piena ed
integrale” dei provvedimenti che si
intendono impugnare, ovvero di eventuali
atti endoprocedimentali, la cui
illegittimità infici, in via derivata, il
provvedimento finale.
Ciò che è invece sufficiente ad integrare il
concetto di “piena conoscenza” -il
verificarsi della quale determina il dies a
quo per il computo del termine decadenziale
per la proposizione del ricorso
giurisdizionale- è la percezione
dell’esistenza di un provvedimento
amministrativo e degli aspetti che ne
rendono evidente la lesività della sfera
giuridica del potenziale ricorrente, in modo
da rendere percepibile l’attualità
dell’interesse ad agire contro di esso.
Occorre aggiungere che la verifica della
“piena conoscenza” dell’atto lesivo da parte
del ricorrente, ai fini di individuare la
decorrenza del termine decadenziale per la
proposizione del ricorso giurisdizionale,
deve essere estremamente cauta e rigorosa,
non potendo basarsi su mere supposizioni
ovvero su deduzioni, pur sorrette da
apprezzabili argomentazioni logiche. Essa
deve risultare incontrovertibilmente da
elementi oggettivi, ai quali il giudice deve
riferirsi, nell’esercizio del suo potere di
verifica di ufficio della eventuale
irricevibilità del ricorso, o che devono
essere rigorosamente indicati dalla parte
che, in giudizio, eccepisca l’irricevibilità
del ricorso instaurativo del giudizio.
Come questo Consiglio di Stato ha avuto più volte modo di osservare (da
ultimo, le sentenze di questa Sezione –medio tempore pubblicate-
02.04.2012 nn.
1957 e 1958, dalle cui conclusioni non vi è
ragione di discostarsi), il concetto di
“piena conoscenza” dell’atto lesivo non deve
essere inteso quale “conoscenza piena ed
integrale” dei provvedimenti che si
intendono impugnare, ovvero di eventuali
atti endoprocedimentali, la cui
illegittimità infici, in via derivata, il
provvedimento finale.
Ciò che è invece sufficiente ad integrare il
concetto di “piena conoscenza” -il
verificarsi della quale determina il dies a
quo per il computo del termine decadenziale
per la proposizione del ricorso
giurisdizionale- è la percezione
dell’esistenza di un provvedimento
amministrativo e degli aspetti che ne
rendono evidente la lesività della sfera
giuridica del potenziale ricorrente, in modo
da rendere percepibile l’attualità
dell’interesse ad agire contro di esso.
Quanto sin qui esposto costituisce un dato
acquisito della giurisprudenza di questo
Consiglio di Stato (ex plurimis, sez. III,
19.09.2011 n. 5268; sez. VI, 28.04.2010 n. 2439; sez. IV, 19.07.2007
n. 4072 e 29.07.2008 n. 3750).
Occorre aggiungere che la verifica della
“piena conoscenza” dell’atto lesivo da parte
del ricorrente, ai fini di individuare la
decorrenza del termine decadenziale per la
proposizione del ricorso giurisdizionale,
deve essere estremamente cauta e rigorosa,
non potendo basarsi su mere supposizioni
ovvero su deduzioni, pur sorrette da
apprezzabili argomentazioni logiche. Essa
deve risultare incontrovertibilmente da
elementi oggettivi, ai quali il giudice deve
riferirsi, nell’esercizio del suo potere di
verifica di ufficio della eventuale
irricevibilità del ricorso, o che devono
essere rigorosamente indicati dalla parte
che, in giudizio, eccepisca l’irricevibilità
del ricorso instaurativo del giudizio (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.07.2012 n. 4255 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nessun dubbio può sussistere in
ordine alla impugnabilità della “DIA”.
Nessun
dubbio può sussistere in ordine alla
impugnabilità della “DIA”, nei sensi
precisati dalla giurisprudenza di questo
Consiglio di Stato (Cons. Stato, Ad. Plen.,
29.07.2011 n. 15; sez. IV, 15.12.2011 n. 6614).
Come è noto, l’Adunanza Plenaria ha, per un
verso, escluso che il privato che ritiene di
essere pregiudicato dai lavori effettuati
sulla base di DIA debba necessariamente
attivare il procedimento per la formazione
del silenzio-rifiuto sulla istanza volta
all’adozione di provvedimenti repressivi da
parte dell’amministrazione; per altro verso,
ha individuato nella fattispecie, quale
oggetto specifico dell’impugnazione, il
silenzio (avente valore di provvedimento
negativo implicito) in ordine all’esercizio
di poteri inibitori sulla dichiarazione di
inizio di attività.
Come precisa l’Adunanza Plenaria, nel caso
di specie, ricorre l’ipotesi “di un
provvedimento per silentium con cui la p.a.,
esercitando in senso negativo il potere
inibitorio, riscontra che l’attività è stata
dichiarata in presenza dei presupposti di
legge e, quindi, decide di non impedire
l’inizio o la protrazione dell’attività
dichiarata”. In questo caso, “venendo in
rilievo un provvedimento per silentium, la
tutela del terzo sarà affidata primariamente
all’esperimento di un’azione impugnatoria”.
La ricostruzione operata dalla
giurisprudenza (e dalla quale il Collegio
non ha ragione di discostarsi) si attaglia
al caso di specie, non potendosi
configurare, per le ragioni esposte, la
necessità –come invece sostenuto
dall’appellante Comune di Venezia– di
“mettere in mora l’amministrazione ad
adottare atti di inibizione all’esercizio
dell’attività prefigurata, ritenuta
illegittima”; dal che discende la
reiezione del motivo di appello sub b)
dell’esposizione in fatto
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.07.2012 n. 4255 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA:
In sede di rilascio del titolo
abilitativo edilizio sussiste l'obbligo per
il comune di verificare il rispetto da parte
dell'istante dei limiti privatistici, a
condizione che tali limiti siano
effettivamente conosciuti o immediatamente
conoscibili e/o non contestati, di modo che
il controllo da parte dell'ente locale si
traduca in una semplice presa d'atto dei
limiti medesimi senza necessità di procedere
ad un'accurata ed approfondita disanima dei
rapporti tra i condomini.
---------------
Dove i lavori consistono nel’apertura di una
porta sulla scala condominiale, con ciò
modificando l’uso della cosa comune da parte
dei condomini, il Comune deve verificare
l’esistenza del consenso del condominio
all’utilizzo della scala da parte di uno dei
condomini, in modo tale da alterare
stabilmente il normale ed originario uso
della cosa comune (escludendosi, dunque,
l’applicabilità dell’art. 1102 cod. civ., in
ordine alla ricorrenza del quale, peraltro,
non sussiste idonea valutazione e
motivazione da parte dell’amministrazione
comunale).
In altre parole, il Comune deve conseguire,
per il tramite della verifica resa
necessaria dalla evidente mancanza di
proprietà esclusiva della res, la prova
dell’esistenza del titolo a disporre del
bene e quindi a presentare la dichiarazione
di inizio attività.
Il Collegio condivide la considerazione,
formulata nella sentenza appellata, in
ordine alla necessità di accertamento, da
parte dell’amministrazione, della
sussistenza in capo al richiedente il
permesso di costruire (ovvero in capo al
presentatore della DIA), di un titolo idoneo
in relazione all’immobile sul quale deve
essere svolta l’attività edilizia.
L’art. 11, co. 1, DPR 06.06.2001 n. 380,
prevede che “il permesso di costruire è
rilasciato al proprietario dell'immobile o a
chi abbia titolo per richiederlo”; il
successivo art. 23, allo stesso modo, si
riferisce al “proprietario dell’immobile o
chi abbia titolo per presentare la denuncia
di inizio attività”.
Orbene, come questo Consiglio di Stato (sez.
IV, 04.05.2010 n. 2546; 10.12.2007
n. 6332), ha già avuto modo di affermare, “in sede di rilascio del titolo abilitativo
edilizio sussiste l'obbligo per il comune di
verificare il rispetto da parte dell'istante
dei limiti privatistici, a condizione che
tali limiti siano effettivamente conosciuti
o immediatamente conoscibili e/o non
contestati, di modo che il controllo da
parte dell'ente locale si traduca in una
semplice presa d'atto dei limiti medesimi
senza necessità di procedere ad un'accurata
ed approfondita disanima dei rapporti tra i
condomini”.
Orbene, nel caso di specie, dove i lavori
consistono nel’apertura di una porta sulla
scala condominiale, con ciò modificando
l’uso della cosa comune da parte dei
condomini, il Comune avrebbe dovuto
verificare l’esistenza del consenso del
condominio all’utilizzo della scala da parte
di uno dei condomini, in modo tale da
alterare stabilmente il normale ed
originario uso della cosa comune
(escludendosi, dunque, l’applicabilità
dell’art. 1102 cod. civ., in ordine alla
ricorrenza del quale, peraltro, non sussiste
idonea valutazione e motivazione da parte
dell’amministrazione comunale).
In altre parole, il Comune avrebbe dovuto
conseguire, per il tramite della verifica
resa necessaria dalla evidente mancanza di
proprietà esclusiva della res, la prova
dell’esistenza del titolo a disporre del
bene e quindi a presentare la dichiarazione
di inizio attività.
Quanto alla già citata applicazione
dell’art. 1102 cod. civ., occorre osservare
che ogni valutazione in ordine alla idoneità
del principio espresso dal medesimo a
sorreggere l’esistenza di un titolo
legittimante a richiedere il permesso di
costruire o a presentare la DIA, non compete
ex post al giudice, quanto ex ante
all’amministrazione comunale, la quale –proprio perché ha l’obbligo di verificare
l’esistenza di tale titolo legittimante–
ove ritenga che questo discenda (ancorché
non sia questo il caso di specie) dall’art.
1102 cod. civ., ha l’onere di valutare
motivatamente in ordine a tale aspetto.
Compete, successivamente, al giudice,
nell’esercizio dell’ordinario sindacato di
legittimità, verificare la correttezza e
congruità delle valutazioni effettuate
dall’amministrazione e l’esito
provvedimentale di queste
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.07.2012 n. 4255 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’istituto
dell’asservimento si è formato dopo
l’entrata in vigore del d.m. 02.04.1968, che ha fissato
gli standards di edificabilità delle aree e
ha introdotto una organica regolamentazione
della densità edilizia (territoriale e
fondiaria).
La nozione di densità costituisce il
parametro di riferimento per stabilire se
possa farsi luogo ad asservimento; la
densità territoriale, in particolare, è
riferita a ciascuna zona omogenea e
definisce il complessivo carico di
edificazione che può gravare sulla stessa,
con la conseguenza che il relativo indice è
rapportato sia all’intera superficie
sottoposta alla medesima vocazione
urbanistica sia alla concreta insistenza di
costruzioni.
Né può dubitarsi che qualsiasi costruzione,
anche se eretta senza il prescritto titolo,
concorra al computo complessivo della
densità territoriale.
L'asservimento di particelle contigue a
quella sulla quale viene posizionato il
progetto per la realizzazione di un
intervento edilizio nasce da una pratica
assai diffusa, che ha da sempre avuto
l'avallo della dottrina e della giurisprudenza che vi hanno
ravvisato uno strumento legittimo per
consentire lo sfruttamento di tutta la
potenzialità edificatoria delle aree a
disposizione di chi intende realizzare tale
intervento, con il quale, di solito, si pone
rimedio all'infelice esposizione ovvero alla
ridotta dimensione, dell'area di progetto.
Con l'asservimento le aree asservite
perdono, in tutto o in parte, ma
definitivamente, la loro attitudine
edificatoria in favore della particella di
progetto, e a tale effetto è richiesto,
normalmente, che il proprietario del
compendio interessato, debba sottoscrivere
un atto d'obbligo ovvero una dichiarazione
formale, con il quale, nei riguardi del
Comune, s'impegna per sé e per i propri
aventi causa a non utilizzare, in seguito, a
fini edificatori, le particelle asservite di
cui ha, insieme alla particella di progetto,
la proprietà o comunque la disponibilità
giuridica.
Tuttavia, ad onta della diffusione della
suddetta pratica edilizia, rimangono
tutt’ora incerti i profili che
caratterizzano l’atto costitutivo di tale
vincolo, il che sovente rende problematica
la sua effettiva individuazione.
In proposito, la giurisprudenza della Corte
di cassazione, seguendo un indirizzo
dottrinario, ha segnalato ripetutamente che
"la cessione di cubatura da parte del
proprietario del fondo confinante, onde
consentire il rilascio della concessione a
costruire nel rispetto del rapporto
area-volume, non necessita di atto negoziale
ad effetti obbligatori o reali, essendo
sufficiente l'adesione del cedente, che può
esser manifestata o sottoscrivendo l'istanza
e/o il progetto del cessionario; o
rinunciando alla propria cubatura a favore
di questi o notificando al comune tale sua
volontà, mentre il c.d. vincolo di
asservimento rispettivamente a carico e a
favore del fondo si costituisce, sia per le
parti che per i terzi, per effetto del
rilascio della concessione edilizia, che
legittima lo ius aedificandi del cessionario
sul suolo attiguo, sì che nessun
risarcimento è dovuto al cedente”.
La ricostruzione più attendibile della
fattispecie, dunque, è quella di un
contratto atipico ad effetti obbligatori
avente natura di atto preparatorio,
finalizzato al trasferimento di volumetria,
che si realizza soltanto con il
provvedimento amministrativo.
Anche la giurisprudenza amministrativa è
propensa a ritenere il c.d. contratto di
asservimento ben può costituire il
presupposto del rilascio di una concessione
edilizia che tenga conto del trasferimento
di volumetria e che per il trasferimento
della volumetria non sono necessarie forme
particolari.
... per l'annullamento:
● quanto al ricorso principale,
dell’ordinanza ingiunzione del 29.06.2010, prot. 23766, di demolizione e messa in
pristino delle opere edilizie eseguite con
variazioni essenziali dai titoli edilizi e
di ogni atto conseguente e connesso;
● quanto ai motivi aggiunti, della nota del
18.02.2011, prot. 6315 di diniego
all’istanza di riesame dell’ordine di
demolizione del 29.06.2010.
...
Il ricorso è fondato.
Infatti, l’ordinanza impugnata appare
viziata da eccesso di potere per difetto di
istruttoria.
Si consideri, preliminarmente che,
l’istituto dell’asservimento si è formato
dopo l’entrata in vigore del decreto
ministeriale 02.04.1968, che ha fissato
gli standards di edificabilità delle aree e
ha introdotto una organica regolamentazione
della densità edilizia (territoriale e
fondiaria).
La nozione di densità costituisce il
parametro di riferimento per stabilire se
possa farsi luogo ad asservimento; la
densità territoriale, in particolare, è
riferita a ciascuna zona omogenea e
definisce il complessivo carico di
edificazione che può gravare sulla stessa,
con la conseguenza che il relativo indice è
rapportato sia all’intera superficie
sottoposta alla medesima vocazione
urbanistica sia alla concreta insistenza di
costruzioni (C.D.S. Ad. Pl. n. 3 del
23.04.2009).
Né può dubitarsi che qualsiasi costruzione,
anche se eretta senza il prescritto titolo,
concorra al computo complessivo della
densità territoriale (C.d.S., IV, 26.09.2008, n. 4647; IV, 29.07.2008,
n. 3766; IV, 12.05.2008, n. 2177; IV, 11.12.2007, n. 6346; V, 27.06.2006,
n. 4117; V, 12.07.2005, n. 3777: V, 12.07.2004, n. 5039; IV,
06.09.1999,
n. 1402).
Ora è utile osservare in termini generali
che l'asservimento di particelle contigue a
quella sulla quale viene posizionato il
progetto per la realizzazione di un
intervento edilizio nasce da una pratica
assai diffusa, che ha da sempre avuto
l'avallo della dottrina e della
giurisprudenza (v. Corte Cass, Sez. II, n. 9081
del 12.09.1998) che vi hanno
ravvisato uno strumento legittimo per
consentire lo sfruttamento di tutta la
potenzialità edificatoria delle aree a
disposizione di chi intende realizzare tale
intervento, con il quale, di solito, si pone
rimedio all'infelice esposizione ovvero alla
ridotta dimensione, dell'area di progetto.
Con l'asservimento le aree asservite
perdono, in tutto o in parte, ma
definitivamente, la loro attitudine
edificatoria in favore della particella di
progetto, e a tale effetto è richiesto,
normalmente, che il proprietario del
compendio interessato, debba sottoscrivere
un atto d'obbligo ovvero una dichiarazione
formale, con il quale, nei riguardi del
Comune, s'impegna per sé e per i propri
aventi causa a non utilizzare, in seguito, a
fini edificatori, le particelle asservite di
cui ha, insieme alla particella di progetto,
la proprietà o comunque la disponibilità
giuridica.
Tuttavia, ad onta della diffusione della
suddetta pratica edilizia, rimangono
tutt’ora incerti i profili che
caratterizzano l’atto costitutivo di tale
vincolo, il che sovente rende problematica
la sua effettiva individuazione.
In proposito, la giurisprudenza della Corte
di cassazione, seguendo un indirizzo
dottrinario, ha segnalato ripetutamente che
"la cessione di cubatura da parte del
proprietario del fondo confinante, onde
consentire il rilascio della concessione a
costruire nel rispetto del rapporto
area-volume, non necessita di atto negoziale
ad effetti obbligatori o reali, essendo
sufficiente l'adesione del cedente, che può
esser manifestata o sottoscrivendo l'istanza
e/o il progetto del cessionario; o
rinunciando alla propria cubatura a favore
di questi o notificando al comune tale sua
volontà, mentre il c.d. vincolo di
asservimento rispettivamente a carico e a
favore del fondo si costituisce, sia per le
parti che per i terzi, per effetto del
rilascio della concessione edilizia, che
legittima lo ius aedificandi del cessionario
sul suolo attiguo, sì che nessun
risarcimento è dovuto al cedente” (Cass., 12.09.1998, n. 9081; in senso conforme,
22.02.1996, n. 1352; 29.06.1981,
n. 4245).
La ricostruzione più attendibile della
fattispecie, dunque, è quella di un
contratto atipico ad effetti obbligatori
avente natura di atto preparatorio,
finalizzato al trasferimento di volumetria,
che si realizza soltanto con il
provvedimento amministrativo.
Anche la giurisprudenza amministrativa è
propensa a ritenere il c.d. contratto di
asservimento ben può costituire il
presupposto del rilascio di una concessione
edilizia che tenga conto del trasferimento
di volumetria e che per il trasferimento
della volumetria non sono necessarie forme
particolari (C.D.S., sez. V, 26.11.1994, n. 1382; C.D.S.,
sez. V, 04.01.1993, n. 26)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
26.07.2012 n.
2097 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Nella
materia dei procedimenti di espropriazione
per pubblica utilità, ad eccezione delle
ipotesi in cui l’Amministrazione
espropriante abbia agito nell’assoluto
difetto di una potestà ablativa come
mancanza di qualunque facultas
agendi vincolata o discrezionale di elidere
o comprimere detto diritto –devolute come
tali alla giurisdizione ordinaria- sono
devolute alla giurisdizione amministrativa
esclusiva le controversie nelle quali si
faccia questione -anche ai fini
complementari della tutela risarcitoria- di
attività di occupazione e trasformazione di
un bene conseguenti ad una dichiarazione di
pubblica utilità e con essa congruenti,
anche se il procedimento all'interno del
quale sono state espletate non sia sfociato
in un tempestivo e formale atto traslativo
della proprietà ovvero sia caratterizzato
dalla presenza di atti poi dichiarati
illegittimi, purché vi sia un collegamento
all’esercizio della pubblica funzione.
---------------
Già a partire nella legge fondamentale sulle
espropriazioni n. 2359 del 1865, così come
nella successiva legislazione in materia di
lavori pubblici, si rinviene il principio
cardine secondo cui l’attività espropriativa
deve articolarsi in una pluralità di fasi,
le quali devono garantire la partecipazione
degli interessati ed il contraddittorio con
i soggetti coinvolti dall’azione
amministrativa.
Detti principi, di pubblicità e
partecipazione, -diretti non solo a scopo
difensivo, bensì in stretta correlazione con
i canoni di rango costituzionale
dell’imparzialità e del buon andamento
dell’azione amministrativa– sono stati
cristallizzati dalla legge n. 241 del 1990
per tutti i procedimenti amministrativi;
essi peraltro giocano un ruolo
particolarmente significativo nei
procedimenti espropriativi, essendo questi
ultimi, per definizione, quelli più
gravemente invasivi della sfera dei privati.
Questa premessa fa da sfondo
all’affermazione dell’indirizzo secondo cui
la dichiarazione di pubblica utilità, anche
ove implicita nell’approvazione di un
progetto di opera pubblica deve essere
preceduta da comunicazione di avvio del
procedimento rivolta ai soggetti
interessati.
In punto di giurisdizione, la
Sezione ritiene di non aver motivo per
discostarsi, nella circostanza, dall’ormai
consolidato indirizzo giurisprudenziale
secondo il quale, nella materia dei
procedimenti di espropriazione per pubblica
utilità, ad eccezione delle ipotesi in cui
l’Amministrazione espropriante abbia agito
nell’assoluto difetto di una potestà
ablativa come mancanza di qualunque facultas
agendi vincolata o discrezionale di elidere
o comprimere detto diritto –devolute come
tali alla giurisdizione ordinaria- sono
devolute alla giurisdizione amministrativa
esclusiva le controversie nelle quali si
faccia questione -anche ai fini
complementari della tutela risarcitoria- di
attività di occupazione e trasformazione di
un bene conseguenti ad una dichiarazione di
pubblica utilità e con essa congruenti,
anche se il procedimento all'interno del
quale sono state espletate non sia sfociato
in un tempestivo e formale atto traslativo
della proprietà ovvero sia caratterizzato
dalla presenza di atti poi dichiarati
illegittimi, purché vi sia un collegamento
all’esercizio della pubblica funzione (C.D.S.,
sez. IV, del 04.04.2011, n.2113; C.D.S.,
Ad.Pl. del 30.07.2007, n. 9 e 22.10.2007, n.
12; Tar Lombardia, Brescia, sez. I, del
18.12.2008, n.1796; 01.06.2007, n. 466; Tar
Basilicata, 22.02.2007, n. 75; Tar. Puglia,
Bari, sez. III, del 09.02.2007, n. 404; Tar
Lombardia, Milano, sez. II, del 18.12.2007,
n. 6676; Tar Lazio, Roma, sez. II, del
03.07.2007, n. 5985; Tar Toscana, I, del
14.09.2006, n. 3976; Cass., SS.UU.,
20.12.2006, nn. 27190, 27191 e 27193).
Inoltre, mentre le domande risarcitorie e
restitutorie relative a fattispecie di
occupazione usurpativa rientrano nella
giurisdizione ordinaria, viceversa sussiste
la giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo in caso di danni conseguenti
all’annullamento della dichiarazione di
pubblica utilità e, in generale, di un
provvedimento amministrativo in tema di
espropriazione per pubblica utilità.
---------------
Nel
merito, occorre evidenziare come, già a
partire nella legge fondamentale sulle
espropriazioni n. 2359 del 1865, così come
nella successiva legislazione in materia di
lavori pubblici, si rinviene il principio
cardine secondo cui l’attività espropriativa
deve articolarsi in una pluralità di fasi,
le quali devono garantire la partecipazione
degli interessati ed il contraddittorio con
i soggetti coinvolti dall’azione
amministrativa.
Detti principi, di
pubblicità e partecipazione, -diretti non
solo a scopo difensivo, bensì in stretta
correlazione con i canoni di rango
costituzionale dell’imparzialità e del buon
andamento dell’azione amministrativa– sono
stati cristallizzati dalla legge n. 241 del
1990 per tutti i procedimenti
amministrativi; essi peraltro giocano un
ruolo particolarmente significativo nei
procedimenti espropriativi, essendo questi
ultimi, per definizione, quelli più
gravemente invasivi della sfera dei privati.
Questa premessa fa da sfondo
all’affermazione dell’indirizzo secondo cui
la dichiarazione di pubblica utilità, anche
ove implicita nell’approvazione di un
progetto di opera pubblica deve essere
preceduta da comunicazione di avvio del
procedimento rivolta ai soggetti interessati
(C.D.S., Ad.Pl. 14/1999; C.D.S., sez. IV,
n. 1668/2007; C.D.S. n. 8259/2006; C.D.S.
n. 5352/2005; C.D.S., sez. VI, n. 736/2003)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
26.07.2012 n.
2096 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'attività
di spargimento di ghiaia, su di un'area che
ne era precedentemente priva, è da
qualificarsi quale nuova costruzione ed è
pertanto soggetta a concessione edilizia,
allorché sia preordinata, come è avvenuto
nel caso di specie, alla modifica della
precedente destinazione d'uso.
Questi principi giurisprudenziali sono stati
recepiti dal testo unico in materia
edilizia, il D.P.R. n. 380/2001, il quale
all’art. 3 ascrive al genus delle nuove
costruzioni ed assoggetta a permesso di
costruire, "la realizzazione di
infrastrutture e di impianti, anche per
pubblici servizi, che comporti la
trasformazione in via permanente di suolo
inedificato" (lett. e. 3) e "la
realizzazione di depositi di merci o di
materiali, la realizzazione di impianti per
attività produttive all'aperto ove
comportino l'esecuzione di lavori cui
consegua la trasformazione permanente del
suolo inedificato" (e. 7).
Le opere di spargimento di ghiaia non
possono, quindi, in alcun modo, essere
qualificate quale intervento di manutenzione
ordinaria, straordinaria, consolidamento
statico o restauro conservativo.
Una parte degli abusi in
questione è stata realizzata su un’area
vincolata ai sensi dell’art. 142, c. 1,
lett. c, d.lgs. n. 42/2004 -essendo
ricompresa nella fascia di 150 metri da un
corso d’acqua– ed in assenza del parere
dell’autorità preposta alla tutela del
vincolo.
Tali opere non sono condonabili, ai sensi
dell’art. 33, l. n. 47/1985 e dell’art. 32,
c. 27, lett. d), d.lgs. n. 269/2003, norme
che non prevedono alcuna possibilità di
sanatoria ex post, mediante l'accertamento
sulla compatibilità dell'intervento rispetto
al vincolo (cfr. Consiglio Stato, sez. IV,
19.03.2009, n. 1646).
Né il Collegio condivide la tesi della
ricorrente secondo cui l’intervento di
spargimento di ghiaia rientrerebbe
nell’ambito di applicazione dell’art. 1, c.
8, d.l. n. 312/1985, conv. dalla l. n.
431/2985.
Tale norma -oltre a non essere più vigente
in quanto abrogata dall'articolo 166, comma
1, del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490– non
trova applicazione nel caso di specie.
L’opera in questione non è difatti
qualificabile quale manutenzione ordinaria,
straordinaria, consolidamento statico o
restauro conservativo bensì quale nuova
costruzione.
Il Collegio non ritiene difatti di doversi
discostare dal condivisibile e risalente
indirizzo giurisprudenziale secondo cui
l'attività di spargimento di ghiaia, su di
un'area che ne era precedentemente priva, è
da qualificarsi quale nuova costruzione ed è
pertanto soggetta a concessione edilizia,
allorché sia preordinata, come è avvenuto
nel caso di specie, alla modifica della
precedente destinazione d'uso (cfr. Cass.
pen., 09/06/1982; Cons. Stato, sez. II,
15/02/1989, n. 18/89; C.d.S., sez. V, 22
dicembre 2005, n. 7343; 11.11.2004, n.
7324; Consiglio di Stato sez. V, 27.04.2012, n. 2450).
Questi principi giurisprudenziali sono stati
recepiti dal testo unico in materia
edilizia, il D.P.R. n. 380/2001, il quale
all’art. 3 ascrive al genus delle nuove
costruzioni ed assoggetta a permesso di
costruire, "la realizzazione di
infrastrutture e di impianti, anche per
pubblici servizi, che comporti la
trasformazione in via permanente di suolo inedificato" (lett. e. 3) e "la
realizzazione di depositi di merci o di
materiali, la realizzazione di impianti per
attività produttive all'aperto ove
comportino l'esecuzione di lavori cui
consegua la trasformazione permanente del
suolo inedificato" (e. 7).
Le opere di spargimento di ghiaia non
possono, quindi, in alcun modo, essere
qualificate quale intervento di manutenzione
ordinaria, straordinaria, consolidamento
statico o restauro conservativo
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
25.07.2012 n.
2086 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'attività
di spargimento di ghiaia, su di un'area che
ne era precedentemente priva, allorché
appaia preordinata, alla modifica della
precedente destinazione d'uso, è da
qualificarsi quale nuova costruzione e
rientra pertanto nell’ambito di applicazione
del d.l. n. 269/2003.
Essa va, quindi, ricondotta nella tipologia
1 di cui all’allegato 2 al d.l. n. 269/2003
(ove non sussista la conformità alle norme
urbanistiche) ma non, come vorrebbe la
ricorrente, nella tipologia 6, cioè opere
non valutabili in termini di superficie e
volume.
Con il terzo motivo viene contesta
l’illegittimità del provvedimento nella
parte in cui afferma che lo spargimento di
ghiaia non rientra nell'ambito applicativo
dell'art. 32, d.l. n. 269/2003 -non
ricadendo in nessuna delle tipologie di
abuso ivi previste- e dell'art. 2, l. reg.
Lombardia n. 31/2004, per violazione
dell'art. 32, d.l. n. 269/2003.
La ricorrente sostiene, invece, la
condonabilità di tali opere in quanto
rientranti nella tipologia n. 6 di cui
all’allegato 1, d.l. n. 269/2003 “opere o
modalità di esecuzione non valutabili in
termini di superficie o di volume”.
Il Collegio, pur non ritenendo corretta la
qualificazione operata dall’amministrazione
comunale sulle opere in questione, non
condivide la tesi del ricorrente.
Come si è già affermato l'attività di
spargimento di ghiaia, su di un'area che ne
era precedentemente priva, allorché appaia
preordinata, alla modifica della precedente
destinazione d'uso, è da qualificarsi quale
nuova costruzione e rientra pertanto
nell’ambito di applicazione del d.l. n.
269/2003.
Essa va, quindi, ricondotta nella tipologia
1 di cui all’allegato 2 al d.l. n. 269/2003
(ove non sussista la conformità alle norme
urbanistiche) ma non, come vorrebbe la
ricorrente, nella tipologia 6, cioè opere
non valutabili in termini di superficie e
volume.
L’erroneità della qualificazione operata
dalla p.a. non inficia però la legittimità
del provvedimento, non potendo condividersi
la tesi della ricorrente secondo cui
andrebbero applicate le previsioni della l.
reg. Lombardia n. 31/2004 relative alla
tipologia di illecito numero 6 di cui
all'allegato 1 al d.l. 269/2003, convertito
dalla 1. 326/2003.
Per le ragioni esposte il ricorso è, dunque,
in questa parte, infondato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
25.07.2012 n.
2086 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Il
decorso di 5 anni comporta la decadenza del
vincolo F1 “zone per servizi, attrezzature
pubbliche e di interesse generale”,
esistente su una parte dell’area in
questione.
Il Collegio condivide quanto affermato dalla
ricorrente in merito alla natura
espropriativa del vincolo ed alla
conseguente decadenza dello stesso.
Non trova, difatti applicazione, nel caso di
specie, il principio giurisprudenziale
invocato dalla difesa dell’amministrazione
resistente secondo cui esulano dalla
categoria espropriativa i vincoli implicanti
una destinazione, anche specifica,
realizzabile ad iniziativa privata o
promiscua pubblico-privata, ovvero non
richiedenti l'esclusivo intervento pubblico
e quindi attuabili dal soggetto privato
senza necessità della previa ablazione del
bene.
Il piano regolatore del Comune prevede,
invero, per le aree F1 –ad eccezione di
quelle destinate ad attrezzature religiose-
l'acquisizione delle aree al patrimonio
comunale.
Il vincolo è dunque da qualificarsi come
espropriativo.
Conseguenza della intervenuta decadenza del
vincolo è l’applicazione all’area in
questione della disciplina prevista all'art.
9, c. 1, d.P.R. n. 380/2001 e non, come
afferma la ricorrente, la previgente
normativa dettata all'art. 4, l. n. 10/1977.
Si esamina ora il primo motivo di
ricorso.
Con esso viene contestata la mancata
applicazione della disciplina prevista per
le zone bianche dall'art. 4, l. n. 10/1977,
in conseguenza della decadenza del vincolo
F1 “zone per servizi, attrezzature pubbliche
e di interesse generale”, esistente su una
parte dell’area in questione.
Il Collegio condivide quanto affermato dalla
ricorrente in merito alla natura
espropriativa del vincolo ed alla
conseguente decadenza dello stesso.
Non trova, difatti applicazione, nel caso di
specie, il principio giurisprudenziale
invocato dalla difesa dell’amministrazione
resistente secondo cui esulano dalla
categoria espropriativa i vincoli implicanti
una destinazione, anche specifica,
realizzabile ad iniziativa privata o
promiscua pubblico-privata, ovvero non
richiedenti l'esclusivo intervento pubblico
e quindi attuabili dal soggetto privato
senza necessità della previa ablazione del
bene.
Il piano regolatore del Comune di Molteno
prevede, invero, per le aree F1 –ad
eccezione di quelle destinate ad
attrezzature religiose- l'acquisizione
delle aree al patrimonio comunale.
Il vincolo è dunque da qualificarsi come
espropriativo.
Conseguenza della intervenuta decadenza del
vincolo è l’applicazione all’area in
questione della disciplina prevista all'art.
9, c. 1, d.P.R. n. 380/2001 e non, come
afferma la ricorrente, la previgente
normativa dettata all'art. 4, l. n. 10/1977.
In forza del generale principio tempus regit
actum, invero, l’amministrazione deve
applicare la normativa vigente al momento
dell'adozione del provvedimento
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
25.07.2012 n.
2086 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
nuovo testo dell’art. 20 del Testo Unico
dell’edilizia, laddove prevede il silenzio-assenso sulla domanda di
permesso di costruire, rappresenta un
principio fondamentale della legislazione
statale nella materia del governo del
territorio; di conseguenza esso prevale
sulle norme regionali di dettaglio, tenendo
conto sia dell’art. 2, commi 1° e 3°, del
DPR 380/2001 sia dell’art. 10 della legge n.
62 del 10.02.1953, per il quale le norme
statali di principio sopravvenute prevalgono
sulle vigenti norme regionali di dettaglio,
che devono reputarsi abrogate.
L’esponente sostiene che
sulla domanda di permesso di costruire in
variante, presentata il 12.08.2011 (cfr. doc.
2 del ricorrente), si sarebbe formato
silenzio-assenso per decorso del termine
complessivo di novanta giorni, previsto
dall’art. 20 del DPR 380/2001 (Testo Unico
dell’edilizia), nel testo introdotto
dall’art. 5 del decreto legge n. 70 del
13.05.2011, convertito con legge n. 106 del
12.07.2011 (legge pubblicata sulla Gazzetta
Ufficiale n. 160 del 12.07.2011 ed in vigore
dal giorno successivo).
Il provvedimento di rigetto dell’istanza di
permesso di costruire è stato adottato dal
Comune il 16.11.2011 e trasmesso al
ricorrente il 17.11.2011 (cfr. doc. 1 del
ricorrente), mentre il termine di legge di
90 giorni, decorrente dal 12.08.2011, era
ormai scaduto il 10.11.2011, per cui –si
continua nel gravame– il diniego sarebbe
tardivo, essendo intervenuto dopo la
formazione tacita del titolo abilitativo,
essendo già in vigore il nuovo testo
dell’art. 20 del Testo Unico dell’edilizia.
L’Amministrazione resistente si oppone a
tali argomenti, sostenendo che le novità
legislative del DL 70/2011 non sarebbero
state immediatamente applicabili nella
Regione Lombardia, nella quale la legge
regionale n. 12/2005, all’art. 38, escludeva
–perlomeno al momento di presentazione
della domanda dell’esponente– la formazione
tacita del permesso di costruire.
Il problema posto all’attenzione del
Collegio riguarda quindi il rapporto fra la
legislazione statale –e segnatamente l’art.
20 del DPR 380/2001, come modificato dalla
legge 106/2011- e la legislazione
regionale, nel caso di specie l’art. 38
della LR 12/2005, nel testo vigente
nell’anno 2011, che escludeva il rilascio
del permesso di costruire attraverso il
meccanismo procedimentale del silenzio
assenso.
Sul punto, preme ricordare come la
disciplina dell’edilizia e dell’urbanistica
rientra nella materia del “governo del
territorio”, che l’art. 117, comma 3°, della
Costituzione attribuisce alla potestà
legislativa concorrente dello Stato e della
Regione.
Quest’ultima, di conseguenza, può dettare in
materia norme legislative di dettaglio, nel
rispetto dei principi fondamentali della
legislazione statale (cfr. art. 117, comma
3°, ultimo periodo, della Costituzione).
La Corte Costituzionale, con la fondamentale
pronuncia n. 303 del 01.10.2003, dopo avere
confermato che la disciplina dell’edilizia
rientra nella materia del “governo del
territorio”, ha stabilito che la disciplina
dei titoli abilitativi ad edificare –fra
cui si annovera il permesso di costruire–
costituisce principio fondamentale della
legislazione statale (cfr. il punto 11 della
narrativa in “diritto” della citata sentenza
della Corte).
Inoltre, attraverso la riforma dell’art. 20
del DPR 380/2001, il nuovo procedimento di
rilascio del permesso di costruire rientra
senza dubbio fra i procedimenti di
formazione tacita degli atti autorizzativi,
come previsti e disciplinati in via generale
dall’art. 20 della legge 241/1990 (rubricato
“Silenzio-assenso”).
Orbene, l’art. 29, comma 2-ter della legge
241/1990, stabilisce che le disposizioni
delle legge stessa concernenti, fra l’altro,
il silenzio-assenso, attengono ai livelli
essenziali delle prestazioni di cui
all’articolo 117, secondo comma, lettera m),
della Costituzione, quindi addirittura ad
una materia oggetto di potestà legislativa
esclusiva dello Stato.
Lo stesso decreto legge 70/2011 (cfr.
l’epigrafe del medesimo), è stato emanato
per favorire lo sviluppo e la ripresa
dell’economia, da realizzarsi anche
attraverso la semplificazione dei
procedimenti in materia edilizia, sicché
l’intervento normativo di riforma dell’art.
20 del DPR 380/2001 appare obbedire a
finalità che trascendono gli ambiti di
intervento delle singole Regioni.
Ciò premesso, il nuovo testo dell’art. 20
del Testo Unico dell’edilizia, laddove
prevede il silenzio-assenso sulla domanda di
permesso di costruire, rappresenta un
principio fondamentale della legislazione
statale nella materia del governo del
territorio; di conseguenza esso prevale
sulle norme regionali di dettaglio, tenendo
conto sia dell’art. 2, commi 1° e 3°, del
DPR 380/2001 sia dell’art. 10 della legge n.
62 del 10.02.1953, per il quale le norme
statali di principio sopravvenute prevalgono
sulle vigenti norme regionali di dettaglio,
che devono reputarsi abrogate (sulla
perdurante vigenza del citato art. 10, si
vedano: TAR Veneto, sez. III, 28.11.2011, n.
1786; TAR Liguria, sez. I, 12.06.2010, n.
4666 e Cassazione, sez. lavoro, 05.05.2010, n.
10829).
Sulla domanda di permesso di costruire,
presentata dall’esponente il 12.08.2011, si è
pertanto formato il titolo edilizio per
effetto del silenzio-assenso, per cui il
diniego ivi impugnato deve reputarsi
illegittimo, essendo sopravvenuto
all’intervenuta formazione del titolo
tacito.
Neppure l’atto impugnato potrebbe
qualificarsi come un valido atto di
autotutela amministrativa (sempre possibile
anche in caso di intervenuto silenzio
assenso, stante l’espressa previsione
dell’art. 20, comma 3° della legge
241/1990), in quanto esso risulta adottato
al di fuori dei presupposti di legge
(articoli 21-quinquies e 21-nonies della
legge 241/1990), per l’esercizio del potere
di autotutela, mancando nel provvedimento
qualsivoglia comparazione degli interessi
pubblici e privati coinvolti
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
25.07.2012 n.
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EDILIZIA PRIVATA: L’art.
17, co. 3, lett. b), del d.P.R. 380/2001 stabilisce che il contributo di
costruzione non è dovuto "per gli interventi
di ristrutturazione e di ampliamento, in
misura non superiore al 20%, di edifici
unifamiliari”.
La norma in questione non stabilisce le
caratteristiche dell’edificio unifamiliare,
per cui la giurisprudenza è unanime
nell'affermare che la ratio di tale
disposizione è quella di favorire l'edificio
unifamiliare in quanto tale ossia come
immobile destinato ad un solo nucleo
familiare, situazione ritenuta dal
legislatore meritevole, per gli interventi
di ristrutturazione, di un trattamento
economico differenziato rispetto alle altre
tipologie edilizie.
Pertanto, per fruire dell'esenzione, stando
alla lettera della norma l'immobile deve
essere in toto destinato ad esclusiva
residenza abitativa di un unico nucleo
familiare.
La giurisprudenza ha anche precisato che, ai
fini dell'esonero dall'obbligo contributivo,
la destinazione ad esclusiva residenza
abitativa di un solo nucleo familiare deve
preesistere rispetto all'intervento di
ristrutturazione, e deve permanere anche
dopo tale intervento: il manufatto oggetto
dell'intervento deve essere, inoltre, ante
opera, unifamiliare.
La circostanza che l’immobile sia stato reso
unifamiliare pressoché coevamente alla
richiesta di ampliamento e ristrutturazione,
e che il Comune ritiene operazione in frode
alla legge, non è tale per il Collegio, in
quanto ciò che rileva ai fini
dell’applicazione della norma in questione
non è, come ritiene il Comune intimato, che
l’immobile sia nato come edificio
unifamiliare quanto che lo sia al momento in
cui viene richiesto il beneficio previsto
dalla norma che esenta dal pagamento degli
oneri concessori.
Il ricorso, come chiarito
in fatto, verte sull’applicazione dell’art.
17, co. 3, lett. b), del d.P.R. 380/2001, norma
che stabilisce che il contributo di
costruzione non è dovuto "per gli interventi
di ristrutturazione e di ampliamento, in
misura non superiore al 20%, di edifici
unifamiliari”.
La ricorrente, che si è assoggetta al
pagamento degli oneri con riserva di
ripetizione, assume, infatti, di trovarsi
nella condizione di fatto e di diritto per
beneficiare di detta norma, mentre
l’amministrazione nega tale diritto
ritenendo che nella specie difetterebbe il
requisito /presupposto della unifamiliarità
dell’edificio, posto che per tali devono
intendersi gli edifici non solo
funzionalmente ma anche strutturalmente
unifamiliari, ossia tali ab origine e non
per effetto dell’intervento programmato.
Intervento nella specie identificabile con
l’operazione complessa costituita, secondo
l’amministrazione, dall’artificiosa
scissione di un unico titolo in due distinti
e pressoché contestuali titoli edilizi.
L’edificio in questione, infatti, in origine
composto da due unità abitative è stato reso
dapprima unifamiliare e poi, senza soluzione
di continuità, ampliato e ristrutturato, al
fine di eludere la norma che regola
l’onerosità del titolo edilizio.
Il Collegio non ritiene tuttavia che la tesi
del Comune meriti di essere condivisa, per
le ragioni che seguono.
La norma in questione, innanzitutto, non
stabilisce le caratteristiche dell’edificio
unifamiliare, per cui la giurisprudenza è
unanime nell'affermare che la ratio di tale
disposizione è quella di favorire l'edificio
unifamiliare in quanto tale ossia come
immobile destinato ad un solo nucleo
familiare, situazione ritenuta dal
legislatore meritevole, per gli interventi
di ristrutturazione, di un trattamento
economico differenziato rispetto alle altre
tipologie edilizie (Tar Lombardia, sez. II,
10.10.1996 n. 1480).
Pertanto, per fruire dell'esenzione, stando
alla lettera della norma l'immobile deve
essere in toto destinato ad esclusiva
residenza abitativa di un unico nucleo
familiare (Tar Lombardia, Brescia, 27.08.2004
n. 939).
La giurisprudenza ha anche precisato che, ai
fini dell'esonero dall'obbligo contributivo,
la destinazione ad esclusiva residenza
abitativa di un solo nucleo familiare deve
preesistere rispetto all'intervento di
ristrutturazione, e deve permanere anche
dopo tale intervento: il manufatto oggetto
dell'intervento deve essere, inoltre, ante
opera, unifamiliare (Tar Marche, 12.02.1998
n. 250).
Ebbene, nel caso di specie tali presupposti
ricorrevano tutti in favore della
richiedente, poiché prima dell’intervento di
ampliamento e ristrutturazione l’immobile
era stato reso unifamiliare in forza della
d.i.a. del 22.01.2008, con cui era
stata attuata l’aggregazione delle due
preesistenti unità immobiliari e creato
l’edificio unifamiliare destinato alla
residenza della ricorrente, che all’uopo ha
provveduto alle necessarie variazioni
catastali e, come sopra rilevato, al
contestuale trasferimento della propria
residenza.
L’assunto del Comune, che tale intervento,
in quanto realizzato attraverso l’artificio
della scissione, pressoché contestuale,
dell’unica autorizzazione edilizia in due
distinti titoli edilizi, deve ritenersi
elusivo della legge (nella specie dell’art.
17, comma 3, lett. b), del d.P.R. 380/2001) e
quindi inidoneo ad avvalersi del relativo
beneficio è destituito di giuridico
fondamento.
La tesi del comune di Casciago sarebbe,
infatti condivisibile se il legislatore
avesse dato una definizione di edificio
unifamiliare basata su elementi oggettivi
(limite di superficie o di volume o di vani
o di quant’altro possa definire
oggettivamente il concetto di piccola
proprietà, escludendo tipologie di lusso o
comunque immobili di grandi dimensioni) e
tale non fosse, perché eccedente detti
limiti, l’immobile della ricorrente, posto
che altrimenti per unifamiliare deve
intendersi l’immobile catastalmente
allibrato come unica unità immobiliare
destinata alla residenza di un solo nucleo
familiare.
Ogni altra distinzione, compresa quella
della destinazione “strutturale” che il
Comune intimato pretende di applicare alla
fattispecie, senza spiegare quali concreti
elementi l’immobile debba possedere per
appartenere a tale categoria, è, infatti,
non solo arbitraria ma, proprio perché
indefinita nei suoi elementi
costitutivi, inapplicabile a fattispecie
concrete.
La circostanza che l’immobile sia stato reso
unifamiliare pressoché coevamente alla
richiesta di ampliamento e ristrutturazione,
e che il Comune ritiene operazione in frode
alla legge, non è tale per il Collegio, in
quanto ciò che rileva ai fini
dell’applicazione della norma in questione
non è, come ritiene il Comune intimato, che
l’immobile sia nato come edificio
unifamiliare quanto che lo sia al momento in
cui viene richiesto il beneficio previsto
dalla norma che esenta dal pagamento degli
oneri concessori.
E questa situazione di fatto e di diritto
sussisteva, nella specie, proprio sulla base
di un intervento non solo edilizio ma anche
catastale e di modifica della residenza che
la ricorrente aveva posto in essere prima di
avviare l’intervento di cui alla d.i.a. del
22.01.2008
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
24.07.2012 n.
2070 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
mancata indicazione nel provvedimento
impugnato dei termini e dell'autorità cui
ricorrere (a cui si appella la difesa
ricorrente per ottenere la suddetta
rimessione in termini), comporti la mera
possibilità (e non l'obbligo) della
rimessione medesima, per errore scusabile
del ricorrente.
Ciò in quanto, secondo l'orientamento prevalente, la mancanza delle
indicazioni de quibus può integrare l’errore
scusabile non automaticamente, ma solo in
relazione alle circostanze concrete, da
esaminarsi caso per caso, laddove tali
circostanze rivelino la sussistenza di una
giustificata incertezza sugli strumenti di
tutela utilizzabili da parte del
destinatario.
Altrimenti opinando, infatti,
l'inadempimento da parte
dell'amministrazione si tradurrebbe, in
maniera del tutto illogica, in una
sottrazione indiscriminata e generalizzata
dall'onere di ottemperare alle prescrizioni
vincolanti che disciplinano l’impugnazione
dei provvedimenti amministrativi.
A favore di tale soluzione, è bene notare
come si siano pronunciate anche le Sezioni
Unite della Corte di Cassazione che, con la
sentenza 21.01.2010, n. 969, hanno distinto
il caso della radicale mancanza dell'
indicazione del termine e dell' autorità cui
ricorrere, da quello dell'indicazione
erronea (indicazione di un termine inesatto
e/o di un giudice privo di giurisdizione),
specificando che, nel primo caso, la
remissione in termini deve essere valutata
caso per caso e non, appunto, concessa
automaticamente.
Occorre rilevare, al
riguardo, come la mancata indicazione nel
provvedimento impugnato dei termini e dell'autorità cui ricorrere (a cui si appella la
difesa ricorrente per ottenere la suddetta
rimessione in termini), comporti la mera
possibilità (e non l'obbligo) della
rimessione medesima, per errore scusabile
del ricorrente (cfr., da ultimo, Consiglio
di Stato, sez. VI, 16.04.2012, n. 2139).
Ciò, in quanto secondo l'orientamento
prevalente (cfr., ancora, tra le tante,
Cons. Stato, VI, 30.07.2010, n. 5055; 16.05.2006, n. 2673), da cui il Collegio
non ha motivo di discostarsi in relazione al
caso che qui ci occupa, la mancanza delle
indicazioni de quibus può integrare l’errore
scusabile non automaticamente, ma solo in
relazione alle circostanze concrete, da
esaminarsi caso per caso, laddove tali
circostanze rivelino la sussistenza di una
giustificata incertezza sugli strumenti di
tutela utilizzabili da parte del
destinatario.
Altrimenti opinando, infatti,
l'inadempimento da parte
dell'amministrazione si tradurrebbe, in
maniera del tutto illogica, in una
sottrazione indiscriminata e generalizzata
dall'onere di ottemperare alle prescrizioni
vincolanti che disciplinano l’impugnazione
dei provvedimenti amministrativi (cfr. così,
ancora, Cons. Stato n. 2139/2012 cit.).
A favore di tale soluzione, è bene notare
come si siano pronunciate anche le Sezioni
Unite della Corte di Cassazione che, con la
sentenza 21.01.2010, n. 969, hanno distinto
il caso della radicale mancanza dell'
indicazione del termine e dell' autorità cui
ricorrere, da quello dell'indicazione
erronea (indicazione di un termine inesatto
e/o di un giudice privo di giurisdizione),
specificando che, nel primo caso, la
remissione in termini deve essere valutata
caso per caso e non, appunto, concessa
automaticamente
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
24.07.2012 n.
2060 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sussiste
la necessità di procedere ad una valutazione
dell'abuso
edilizio mediante “una visione complessiva e
non atomistica dell'intervento giacché il
pregiudizio recato al regolare assetto del
territorio deriva non dal singolo intervento
ma dall'insieme delle opere realizzate nel
loro contestuale impatto edilizio.
---------------
In ogni caso, la precarietà di un manufatto
non dipende dal suo sistema di ancoraggio al
terreno, ma dalla sua inidoneità a
determinare una stabile trasformazione del
territorio, con la conseguente necessità del
titolo edilizio allorquando, come nel caso
di specie, la struttura, ancorché
rimuovibile, sia destinata a dare un'utilità
prolungata nel tempo e non meramente
occasionale.
Più in generale, giova osservare
come correttamente l’amministrazione abbia
proceduto ad una puntuale rilevazione e
indicazione delle difformità riscontrate
rispetto al progetto assentito (in
conformità alla richiamata sentenza n. 6897
di questo TAR), onde ricavare da essa la
corretta qualificazione dell'intervento
realizzato e la conseguente identificazione
del titolo edilizio che sarebbe stato
necessario (cfr. proprio sulla necessità di
procedere ad una valutazione dell'abuso
edilizio mediante “una visione complessiva e
non atomistica dell'intervento giacché il
pregiudizio recato al regolare assetto del
territorio deriva non dal singolo intervento
ma dall'insieme delle opere realizzate nel
loro contestuale impatto edilizio”:
Consiglio di Stato, VI, 06.06.2012 n. 3330).
In tal senso, non rileva la circostanza che
il manufatto sia stabilmente ancorato al
suolo mediante imbullonatura, come tale
rimuovibile, dovendosi rammentare che, in
ogni caso, la precarietà di un manufatto
non dipende dal suo sistema di ancoraggio al
terreno, ma dalla sua inidoneità a
determinare una stabile trasformazione del
territorio, con la conseguente necessità del
titolo edilizio allorquando, come nel caso
di specie, la struttura, ancorché
rimuovibile, sia destinata a dare un'utilità
prolungata nel tempo e non meramente
occasionale (cfr. Consiglio di Stato, V,
27.04.2012, n. 2450; id. 15.06.2000, n.
3321; id. 03.04.1990, n. 317).
Anche la pavimentazione a secco
dell’antistante giardino (mediante lastre di
pietra) non può essere considerata in modo
avulso dal contesto di riferimento,
concorrendo la stessa, che pure non risulta
riportata in progetto, alla valutazione
complessiva dell’intervento in questione, ai
fini della sua riconducibilità fra quelli
necessitanti un idoneo titolo edilizio
(cfr., in ogni caso, sulla necessità di
siffatto titolo edilizio per ogni intervento
che determini una perdurante modifica dello
stato dei luoghi con materiale posto sul
suolo, pur in assenza di opera in muratura,
ancora Cons. Stato 2450/2012, a proposito
dello spargimento di ghiaia, nonché, Cons.
Stato, sez. V, 21.10.2003, n. 6519)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
24.07.2012 n.
2058 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Lo
spargimento di ghiaia su un'area che ne era
in precedenza priva richiede la concessione
edilizia allorché appaia preordinata alla
modifica della precedente destinazione
d'uso.
---------------
Quanto al box ad uso ufficio, non è
determinante la circostanza che lo stesso
sia soltanto materialmente appoggiato al
suolo e non infisso ad esso, giacché il
carattere di provvisorietà di una
costruzione edilizia, ai fini dell'esenzione
dal titolo autorizzatorio, dipende dall'uso
realmente precario e temporaneo per fini
specifici e cronologicamente delimitati.
Quanto alla stesura della
ghiaia, si osserva che, secondo la
prevalente giurisprudenza –che il collegio
condivide– lo spargimento di ghiaia su
un'area che ne era in precedenza priva
richiede la concessione edilizia allorché
appaia preordinata alla modifica della
precedente destinazione d'uso (Cons. di St.,
V, 22.12.2005, n. 7343; id., 11.11.2004, n.
7325; Cass. Pen., III, 09.06.1982).
Nel caso di specie, lo spargimento di ghiaia
è funzionale all’utilizzo del terreno per il
parcheggio e la sosta di container ed altri
materiali (così l’istanza in data
19.11.1986, doc. 1 delle produzioni
30.06.1987 di parte ricorrente), onde
necessitava di concessione edilizia ex art.
1 L. n. 10/1977.
Quanto al box ad uso ufficio, non è
determinante la circostanza che lo stesso
sia soltanto materialmente appoggiato al
suolo e non infisso ad esso, giacché il
carattere di provvisorietà di una
costruzione edilizia, ai fini dell'esenzione
dal titolo autorizzatorio, dipende dall'uso
realmente precario e temporaneo per fini
specifici e cronologicamente delimitati
(Cons. di St., V, 24.02.2003, n. 986).
Nel caso di specie, l’utilizzo del box in
funzione dell’attività commerciale svolta
dal ricorrente ne fa invece presumere una
utilizzazione perdurante nel tempo,
rafforzata dalla mancanza di allegazioni di
segno contrario
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza
24.07.2012 n.
1076 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
inammissibile il ricorso proposto avverso il
provvedimento di accertamento
dell’inottemperanza all’ordine di
demolizione e di acquisizione al patrimonio
comunale della costruzione abusiva e
dell’area di sedime nel caso di mancata
impugnazione dell’ingiunzione a demolire, a
meno che non si facciano valere vizi propri
degli atti in questione.
Giova premettere
che, per costante giurisprudenza, è
inammissibile il ricorso proposto avverso il
provvedimento di accertamento
dell’inottemperanza all’ordine di
demolizione e di acquisizione al patrimonio
comunale della costruzione abusiva e
dell’area di sedime nel caso di mancata
impugnazione dell’ingiunzione a demolire, a
meno che non si facciano valere vizi propri
degli atti in questione (Cons. di St., V,
24.03.2011, n. 1793; id., IV, 08.11.2010, n.
7914; TAR Liguria, I, 18.05.2012, n. 706)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza
24.07.2012 n.
1075 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Gli
atti sanzionatori in materia edilizia, tra
cui l'ordine di demolizione di costruzione
abusiva, non devono essere preceduti dalla
comunicazione di avvio del relativo
procedimento.
Analogamente -e per lo stesso motivo-
l’ordine di demolizione di opere abusive non
richiede una specifica motivazione che dia
conto della valutazione delle ragioni di
interesse pubblico alla demolizione o della
comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati,
senza che sussista alcuna violazione
dell'art. 3, l. n. 241 del 1990; il
presupposto per l'adozione dell'ordine di
demolizione è costituito, infatti,
esclusivamente dalla constatata esecuzione
dell'opera in assenza del titolo
abilitativo, con la conseguenza che il
provvedimento, ove ricorrano i predetti
requisiti, è sufficientemente motivato con
l'affermazione dell'accertata abusività
dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse
pubblico alla sua rimozione.
Per costante giurisprudenza, in
ragione del contenuto rigidamente vincolato
che li caratterizza, gli atti sanzionatori
in materia edilizia, tra cui l'ordine di
demolizione di costruzione abusiva, non
devono essere preceduti dalla comunicazione
di avvio del relativo procedimento (TAR
Liguria, I, 22.04.2011, n. 666).
Analogamente -e per lo stesso motivo-
l’ordine di demolizione di opere abusive non
richiede una specifica motivazione che dia
conto della valutazione delle ragioni di
interesse pubblico alla demolizione o della
comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati,
senza che sussista alcuna violazione
dell'art. 3, l. n. 241 del 1990; il
presupposto per l'adozione dell'ordine di
demolizione è costituito, infatti,
esclusivamente dalla constatata esecuzione
dell'opera in assenza del titolo
abilitativo, con la conseguenza che il
provvedimento, ove ricorrano i predetti
requisiti, è sufficientemente motivato con
l'affermazione dell'accertata abusività
dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse
pubblico alla sua rimozione (TAR Campania-Salerno, II, 13.04.2011,
n. 702)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza
24.07.2012 n.
1073 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: A tutela del bene di
interesse storico-artistico, qualora
sussista l’esigenza che lo stesso sia
valorizzato nella sua complessiva
prospettiva e cornice ambientale, la legge
prevede l’imposizione del “vincolo
indiretto” disciplinato dall’art. 45 del
D.lgs. n. 42 del 2004, onde possono essere
interessati dai relativi divieti e
limitazioni anche immobili non adiacenti a
quello tutelato purché allo stesso
accomunati dall’appartenenza ad un unitario
e inscindibile contesto territoriale.
Il
“vincolo indiretto”, inoltre, non ha
contenuto prescrittivo tipico, essendo
rimessa all’autonomo apprezzamento
dell’Amministrazione la determinazione delle
disposizioni utili all’ottimale protezione
del bene –fino alla inedificabilità
assoluta–, se e nei limiti in cui tanto sia
richiesto dalla necessità di scongiurare un
vulnus ai valori oggetto di salvaguardia
(integrità dei beni protetti, difesa della
prospettiva e della luce degli stessi, cura
delle relative condizioni di ambiente e
decoro), in un ambito territoriale che si
estende fino a ricomprendere ogni immobile,
anche non contiguo, la cui manomissione si
valuti capace di alterare il complesso delle
condizioni e caratteristiche fisiche e
culturali che connotano lo spazio
circostante.
A tutela del bene di
interesse storico-artistico, qualora
sussista l’esigenza che lo stesso sia
valorizzato nella sua complessiva
prospettiva e cornice ambientale, la legge
prevede l’imposizione del “vincolo
indiretto” disciplinato dall’art. 45 del
D.lgs. n. 42 del 2004, onde possono essere
interessati dai relativi divieti e
limitazioni anche immobili non adiacenti a
quello tutelato purché allo stesso
accomunati dall’appartenenza ad un unitario
e inscindibile contesto territoriale.
Il
“vincolo indiretto”, inoltre, non ha
contenuto prescrittivo tipico, essendo
rimessa all’autonomo apprezzamento
dell’Amministrazione la determinazione delle
disposizioni utili all’ottimale protezione
del bene –fino alla inedificabilità
assoluta–, se e nei limiti in cui tanto sia
richiesto dalla necessità di scongiurare un
vulnus ai valori oggetto di salvaguardia
(integrità dei beni protetti, difesa della
prospettiva e della luce degli stessi, cura
delle relative condizioni di ambiente e
decoro), in un ambito territoriale che si
estende fino a ricomprendere ogni immobile,
anche non contiguo, la cui manomissione si
valuti capace di alterare il complesso delle
condizioni e caratteristiche fisiche e
culturali che connotano lo spazio
circostante (TAR Emilia Romagna, Parma,
sent. 20 del 14.01.2010).
Solo in presenza di un vincolo di tal fatta,
che insiste sulle aree adiacenti il bene
storico artistico primario, può ritenersi
che l’impatto visivo di un’antenna del tipo
di quella oggetto del presente giudizio
debba essere valutata esclusivamente
dall’immobile principale, con la conseguenza
che in mancanza del vincolo prospettico il
proprietario dell’immobile non può piegare
il vincolo paesistico che grava sul centro
storico di Vigevano a svolgere la funzione
di vincolo indiretto a tutela del chiostro
di sua proprietà, in quanto il primo ha per
oggetto una bellezza d’insieme, mentre il
secondo ha per oggetto una bellezza
individua
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza
23.07.2012 n.
2052 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
disciplina statale e regionale volta ad
agevolare il perseguimento del risparmio
energetico negli interventi edilizi (cfr.
art. 11 d.lgs. n. 115/2008; legge regionale
n. 26/1995 e relativa circolare regionale di
cui al d.dirett. reg. 07.08.2008 n. 8935), non si
presta ad essere interpretata alla stregua
di una disciplina di sanatoria di interventi
edilizi già realizzati.
In essa, infatti, è chiaramente richiesto
agli interessati di allegare al progetto
originario apposita relazione tecnica,
corredata da calcoli e grafici dimostrativi
della riduzione del fabbisogno energetico e
della trasmittanza termica, che costituisce
parte integrante del progetto medesimo (cfr.
circolare regionale cit.).
Per la deroga alle distanze minime e alle
altezze massime di cui all’art. 11 cit.,
quindi, è necessario che l’amministrazione
si esprima sulla base del progetto e dei
dati tecnici richiesti ai sensi della
ridetta normativa, prima che l’intervento
medesimo abbia luogo.
---------------
Il permesso in sanatoria postula
imprescindibilmente una sostanziale
conformità dell'opera abusiva alla vigente
disciplina urbanistica, sia al momento della
perpetrazione di detto abuso che al tempo
della presentazione della pertinente istanza
di sanatoria, “nella prospettiva di una più
solida salvaguardia degli interessi pubblici
connessi alla tutela delle esigenze
urbanistiche”.
Come già
evidenziato in sede cautelare, gli
accertamenti effettuati dal Comune non
lasciano dubbi sull’entità delle modifiche
apportate dagli istanti, che, anche soltanto
per ciò che attiene all’incremento delle
altezze di colmo e di gronda, sono
ricavabili anche dalla Tavola 3 (già cit. e
agli atti) allegata alla dia in variante e
che risultano idonee a decretare una
modifica extra-sagoma dell’intervento, non
assentibile con dia in variante ex art. 22, co. II T.U. (per cui sono realizzabili
mediante denuncia di inizio attività “le
varianti a permessi di costruire che non
incidono sui parametri urbanistici e sulle
volumetrie, che non modificano la
destinazione d'uso e la categoria edilizia,
non alterano la sagoma dell'edificio e non
violano le eventuali prescrizioni contenute
nel permesso di costruire”).
Con il terzo motivo, si afferma che le
ridette modifiche non rivestirebbero i
caratteri della variazione essenziale
rilevante ex art. 31 TU, tenendo conto dell’ult.
co. dell’art. 54 L.R. cit. per cui: Non sono
comunque da considerarsi variazioni
essenziali quelle che incidono sull'entità
delle cubature dei volumi tecnici ed
impianti tecnologici, sulla distribuzione
interna delle singole unità abitative e
produttive, per l'adeguamento alle norme di
risparmio energetico, per l'adeguamento alle
norme per la rimozione delle barriere
architettoniche, nonché le modifiche che
variano il numero delle unità immobiliari.
Sul punto, il Comune nega
l’applicabilità ex post, in sede di variante
(e/o di sanatoria), della disciplina sul
contenimento del consumo energetico di cui
al d.lgs. n. 115/2008.
Il motivo è infondato.
Ritiene il Collegio che
l’impostazione comunale debba essere
condivisa, nel senso che, la disciplina
statale e regionale volta ad agevolare il
perseguimento del risparmio energetico negli
interventi edilizi (cfr. art. 11 d.lgs. n.
115/2008; legge regionale n. 26/1995 e
relativa circolare regionale di cui al d.dirett. reg.
07.08.2008 n. 8935), non si
presta ad essere interpretata alla stregua
di una disciplina di sanatoria di interventi
edilizi già realizzati.
In essa, infatti, è chiaramente richiesto
agli interessati di allegare al progetto
originario apposita relazione tecnica,
corredata da calcoli e grafici dimostrativi
della riduzione del fabbisogno energetico e
della trasmittanza termica, che costituisce
parte integrante del progetto medesimo (cfr.
circolare regionale cit.).
Per la deroga alle distanze minime e alle
altezze massime di cui all’art. 11 cit.,
quindi, è necessario che l’amministrazione
si esprima sulla base del progetto e dei
dati tecnici richiesti ai sensi della
ridetta normativa, prima che l’intervento
medesimo abbia luogo.
Nel caso di specie, al contrario, nel
progetto originario di cui alla dia D33/2008
non v’era alcuna traccia della volontà delle
parti di avvalersi della disciplina sul
contenimento energetico, essendo stato, il
ricorso a detta disciplina, prospettato
dalla difesa ricorrente soltanto dopo la
realizzazione delle difformità e
l’intervento sanzionatorio comunale.
In siffatte evenienze, deve essere, quindi,
ribadita la legittimità dell’operato
comunale, che ha ritenuto inammissibile la
dia in variante a fronte delle riscontrate
difformità rispetto al progetto originario,
non superabili neppure con l’applicazione
postuma della cit. disciplina sul risparmio
energetico.
---------------
Come
chiarito dalla resistente amministrazione,
la normativa di cui agli artt. 11 d.lgs.
115/2008 e 1 e ss. legge reg. n. 26/1995 e
ss. m. e i., non si applica al permesso di
costruire in sanatoria, postulando la stessa
una valutazione ex ante da parte
dell’amministrazione, da esprimersi prima
della realizzazione dell’intervento e previa
presentazione di apposita relazione di
certificazione del contenimento del consumo
energetico conseguito con l’intervento
medesimo.
Nel caso di specie, giova ribadire, i
ricorrenti hanno dapprima presentato una
D.I.A. per ristrutturazione, senza prevedere
le misure di contenimento energetico, anzi
impegnandosi al rispetto della sagoma e
delle altezze preesistenti; indi, hanno
posto in essere delle rilevanti variazioni,
pretendendo di sminuirne l’essenzialità
mediante l’applicazione in sanatoria della
normativa sul risparmio energetico.
In siffatte evenienze, il Collegio
deve ribadire quanto già evidenziato sub n.
4.3.3., dovendosi condividere l’impostazione
comunale che, valorizzando la vera ratio
della disciplina statale e regionale di cui
agli artt. 11 d.lgs. n. 115/2008; 1 e ss.
legge regionale n. 26/1995 e s.m. e i. (e
relativa circolare di cui al d.dirett. reg.
07.08.2008 n. 8935) tesa ad agevolare il
perseguimento del risparmio energetico negli
interventi edilizi, ne esclude
un’applicazione ex post, alla stregua di una
disciplina di sanatoria di interventi
edilizi già realizzati. Si richiamano, per
il resto, le valutazioni già espresse in
precedenza, richiamandosi alle relative
conclusioni.
A corroborare quanto sin qui
evidenziato, si può solo accennare alla
circostanza che, in sede di permesso di
costruire in sanatoria, un ulteriore
ostacolo all’applicazione della normativa da
ultimo cit. è rappresentato dalla mancanza
della cd. doppia conformità.
Il permesso in sanatoria, infatti, postula
imprescindibilmente una sostanziale
conformità dell'opera abusiva alla vigente
disciplina urbanistica, sia al momento della
perpetrazione di detto abuso che al tempo
della presentazione della pertinente istanza
di sanatoria, “nella prospettiva di una più
solida salvaguardia degli interessi pubblici
connessi alla tutela delle esigenze
urbanistiche” (così Consiglio Stato, sez. V,
08.09.2011, n. 5056; TAR Milano,
sez. II, 08.09.2011, n. 2195).
Qui, per vero, al momento della
realizzazione dell’abuso, e, quindi, al
momento della presentazione del progetto
originario, l’intervento non era conforme
alla disciplina urbanistica esistente
(mentre nessuna deroga era stata richiesta
ai fini dell’attuazione delle misure di
contenimento energetico), sicché l’eventuale
conformità all’attuale disciplina
urbanistica dell’intervento in questione non
sarebbe comunque sufficiente a decretarne la
sanatoria ex art. 36 TU (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
20.07.2012 n.
2046 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Il
Comune ha l’obbligo di assegnare una
destinazione urbanistica alle c.d. zone
bianche, dopo la scadenza dei vincoli
espropriativi.
Ai fini della definizione
del presente gravame, appare ormai provato
che sul terreno di cui è causa era stato
apposto un vincolo di carattere
espropriativo, per cui, avendo quest’ultimo
perso efficacia, l’area deve essere
considerata quale “zona bianca”, soggetta
alla disciplina dell’art. 9 del DPR 380/2001
(cfr. l’art. 9, comma 3°, del DPR 327/2001,
recante espressa previsione in tal senso).
La giurisprudenza amministrativa è concorde
nell’affermare che il Comune ha l’obbligo di
assegnare una destinazione urbanistica alle
c.d. zone bianche, dopo la scadenza dei
vincoli espropriativi (cfr., fra le tante,
TAR Abruzzo, L’Aquila, 14.02.2012, n. 93;
Consiglio di Stato, sez. IV, 05.12.2006, n.
7131 e 21.02.2005, n. 585).
Ciò premesso, deve ritenersi sussistente
l’obbligo del Comune di Buccinasco di
provvedere all’attribuzione di una
destinazione urbanistica all’area dei
ricorrenti, attraverso un provvedimento ad
hoc relativo all’area stessa, non ostando a
tale soluzione la disciplina regionale sulle
varianti urbanistiche invocata dal
resistente (art. 26 LR 12/2005), non
trattandosi –infatti– di adottare un
provvedimento di variante allo strumento
urbanistico vigente (l’area degli esponenti
è infatti “zona bianca”, quindi priva di
disciplina comunale di piano), quanto
piuttosto di ottemperare all’obbligo di
assegnazione di una specifica destinazione
urbanistica ad un fondo, ora soggetto
all’art. 9 del DPR 380/2001 (cfr. per
analoga fattispecie, TAR Sicilia, Palermo,
sez. II, 18.06.2012, n. 1245).
L’Amministrazione dovrà provvedere entro 60
(sessanta) giorni dalla notificazione o
dalla comunicazione in via amministrativa
della presente sentenza
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
20.07.2012 n.
2044 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La fideiussione prestata per il
pagamento degli oneri di urbanizzazione
conseguenti al rilascio della concessione
edilizia non si estende, ai sensi dell'art.
1942 c.c., al pagamento della sanzione
amministrativa posta dall'art. 3 l. 28.02.1985 n. 47, direttamente a carico
del concessionario in caso di ritardato od
omesso versamento del contributo afferente
alla concessione, stante il difetto di
accessorietà della seconda rispetto ai
primi.
A conferma di ciò, giova
osservare come la stessa decisione della
Corte di Cassazione civile, sez. I, 12.06.2001, n. 7885, richiamata nel ricorso
(per cui: <<La fideiussione prestata per il
pagamento degli oneri di urbanizzazione
conseguenti al rilascio della concessione
edilizia non si estende, ai sensi dell'art.
1942 c.c., al pagamento della sanzione
amministrativa posta dall'art. 3 l. 28.02.1985 n. 47, direttamente a carico
del concessionario in caso di ritardato od
omesso versamento del contributo afferente
alla concessione, stante il difetto di
accessorietà della seconda rispetto ai
primi>>), è stata resa proprio nell’ambito
dello stesso giudizio civile intercorso fra
il Comune di Porto San Giorgio e la Zurich
International Italia SpA nel quale è
intervenuta la pronuncia delle S.U. sulla
giurisdizione sopra citata (ovvero, avverso
la sentenza n. 41-98 della Corte d'Appello
di Ancona, di riforma della sentenza del
Tribunale di Fermo del 19.11.1996), e non in
un giudizio amministrativo.
E, del resto, ad ulteriore riprova di quanto
assunto, giova osservare come proprio in
sede civile, nella causa che ha avuto il suo
epilogo nella sentenza versata in atti da
parte ricorrente (Tribunale di Milano
03.09.2005 n. 9824), è stato accertato il
carattere “autonomo” della garanzia prestata
dalla Zurigo a favore del Comune di Limbiate
(polizza n.109E7619 del 9.3.1994), destinata
a coprire soltanto l’adempimento delle
obbligazioni assunte dalla Coop. in
dipendenza della c.e. datata 16.02.1994 per
il pagamento degli oneri di urbanizzazione
primaria e secondaria (con conseguente
estraneità all’oggetto di tale polizza della
somma, pretesa dal Comune con l’ingiunzione
in epigrafe specificata, a titolo di
sanzione ex art. 3 L.n. 47/1985 e interessi
per ritardato pagamento della II^ rata degli
oneri di urbanizzazione)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
20.07.2012 n.
2043 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L’art. 25 della legge 241/1990
esige che la domanda di accesso agli atti
sia “motivata”, visto che l’accesso ai
documenti non è riconosciuto al quisque de
populo ma soltanto a chi vanta un interesse
diretto, concreto ed attuale, corrispondente
ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata con i documenti dei quali è
domandata l’ostensione, non potendosi
ammettere una sorta di controllo
generalizzato sull’attività
dell’Amministrazione.
L’art. 25 della legge 241/1990
esige che la domanda di accesso agli atti
sia “motivata”, visto che l’accesso ai
documenti non è riconosciuto al quisque de
populo ma soltanto a chi vanta un interesse
diretto, concreto ed attuale, corrispondente
ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata con i documenti dei quali è
domandata l’ostensione, non potendosi
ammettere una sorta di controllo
generalizzato sull’attività
dell’Amministrazione (cfr. l’art. 22, comma
1, lett. b, della legge 241/1990 e, in
giurisprudenza, TAR Puglia, Bari, sez. II,
16.05.2102, n. 935).
Nel caso di specie l’esponente si qualifica
semplicemente come <<proprietaria del
mappale 1064>>, oltre a far riferimento ad
una nota trasmessa da un –non meglio
identificato– <<studio legale dei signori
sopraindicati>>, nota peraltro non allegata
alla richiesta di accesso, la quale ultima
non menziona nessun nominativo di persone
(cfr. doc. 1 della ricorrente).
Si aggiunga ancora che, dall’esame della
planimetria versata in giudizio dalla
ricorrente (cfr. il doc. 2 di quest’ultima),
il mappale n. 1064 (colorato in giallo), non
confina neppure con i mappali di cui ai
permessi di costruire (colorati in azzurro),
per cui anche sotto tale profilo la
richiesta di accesso appare generica e non
supportata da idonea motivazione.
Tale genericità non può essere neppure “sanata”
dagli argomenti difensivi contenuti in
ricorso, potendo semmai l’esponente
presentare una ulteriore ed argomentata
domanda di accesso
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
20.07.2012 n.
2041 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
opere edilizie abusive oggetto della istanza
di sanatoria respinta con il provvedimento
impugnato (cambio di destinazione d’uso con
realizzazione di opere interne –segnatamente: bagno e angolo cottura,
impianto elettrico ed idraulico,
pavimentazione, tinteggiature– e
installazione di due serramenti di chiusura
del locale esistente), essendo
specificamente volte a trasformare
l’organismo edilizio preesistente da
magazzino-autorimessa ad abitazione,
piuttosto che a conservarlo assicurandone la
funzionalità, integrano propriamente un
intervento di ristrutturazione (nel senso
che gli interventi di cambio di destinazione
strutturale o con opere sono di regola
sussumibili nel genere della
ristrutturazione).
In realtà, le opere
edilizie abusive oggetto della istanza di
sanatoria respinta con il provvedimento
impugnato (cambio di destinazione d’uso con
realizzazione di opere interne –segnatamente: bagno e angolo cottura,
impianto elettrico ed idraulico,
pavimentazione, tinteggiature– e
installazione di due serramenti di chiusura
del locale esistente), essendo
specificamente volte a trasformare
l’organismo edilizio preesistente da
magazzino-autorimessa ad abitazione,
piuttosto che a conservarlo assicurandone la
funzionalità, integrano propriamente un
intervento di ristrutturazione (nel senso
che gli interventi di cambio di destinazione
strutturale o con opere sono di regola
sussumibili nel genere della
ristrutturazione, cfr. TAR Liguria, I,
29.11.2007, n. 1988; TAR Lombardia, II,
14.05.2007, n. 3070)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza
20.07.2012 n.
1045 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI -
VARI: La
distribuzione di volantini a mano lungo le
strade e in generale nei luoghi pubblici,
anche in prossimità degli edifici (ove sono
collocate le bussole che ospitano la posta
ed il materiale pubblicitario) è un’attività
essenzialmente libera, e l’amministrazione
non vanta poteri regolatori suscettibili di
incidere direttamente nel rapporto tra gli
operatori commerciali e i potenziali
clienti.
Rispetto alle esigenze di salvaguardia
dell’ambiente e di tutela del decoro
cittadino, va osservato che contro taluni
comportamenti gravi e deprecabili (che
producono sporcizia) già esiste il presidio
di specifiche norme incriminatrici (le quali
descrivono figure di reato) ovvero sono
contemplate conseguenze sul piano
amministrativo (ad es. art. 639 del c.p.
sull’imbrattamento e deturpamento di cose
altrui; sanzioni amministrative comminate
dal Codice della Strada nel caso di
intralcio alla circolazione; art. 660 del
c.p. sulle molestie e il disturbo alle
persone).
Rilevato:
- che il gravame è fondato e il Collegio
richiama in proposito la recente sentenza di
questa Sezione 17/04/2012 n. 641, dalla quale
non ha motivo per discostarsi;
- che in tale pronuncia si è statuito che la
distribuzione di volantini a mano lungo le
strade e in generale nei luoghi pubblici,
anche in prossimità degli edifici (ove sono
collocate le bussole che ospitano la posta
ed il materiale pubblicitario) è un’attività
essenzialmente libera, e l’amministrazione
non vanta poteri regolatori suscettibili di
incidere direttamente nel rapporto tra gli
operatori commerciali e i potenziali clienti
(cfr. anche punto 8.8 sentenza Sezione
25/06/2012 n. 1184);
- che rispetto alle esigenze di salvaguardia
dell’ambiente e di tutela del decoro
cittadino, va osservato che contro taluni
comportamenti gravi e deprecabili (che
producono sporcizia) già esiste il presidio
di specifiche norme incriminatrici (le quali
descrivono figure di reato) ovvero sono
contemplate conseguenze sul piano
amministrativo (ad es. art. 639 del c.p.
sull’imbrattamento e deturpamento di cose
altrui; sanzioni amministrative comminate
dal Codice della Strada nel caso di
intralcio alla circolazione; art. 660 del
c.p. sulle molestie e il disturbo alle
persone);
Atteso:
- che anche nel caso di specie non vi sono
elementi che permettano di affermare con
certezza (o elevata probabilità) che
l’ambiente ed il decoro cittadino ricevano
pregiudizio dall’attività posta in essere
dagli esercenti la pubblicità a domicilio,
piuttosto che dall’incuria o dalla
disattenzione dei privati cittadini o
dall’influenza di eventi esterni (ad es. gli
agenti atmosferici, che possono favorire la
caduta a terra di depliants inseriti solo in
parte nella bussola);
- che in materia va altresì richiamato il
precedente del TAR Puglia Lecce, sez. I –
05/10/2011 n. 1730 nonché la recentissima
sentenza breve della Sezione 21/06/2012 n.
1133 (punti 8.8 e 8.9);
- che la “preferenza” nei fatti accordata
alla normale distribuzione postale
interferisce con il libero esercizio della
concorrenza nel settore pubblicitario;
- che la scelta del miglior sistema di
organizzazione dell’attività economica di
cui si discorre rientra nel libero
apprezzamento delle imprese –inerendo
espressamente alla strategia aziendale– sul
quale l’autorità pubblica non può incidere
con regole (anticipata comunicazione
dell’itinerario e del personale incaricato)
che privilegiano una determinata opzione (la
consegna per posta) soltanto perché ritenuta
meno invasiva per i privati cittadini;
Tenuto conto:
- che, quanto alla prima e alla seconda
censura, non risulta comprovata né
l’esistenza del pericolo di un danno grave
alla salute dell’uomo, né il sopravvenire di
una situazione eccezionale ed imprevedibile
tale da incidere in modo straordinario sulla
sicurezza pubblica, ossia delle sole
condizioni che giustificano l’intervento –di natura contingibile ed urgente– del
Sindaco (cfr. propria sentenza breve
20/01/2012 n. 87; TAR Sicilia Palermo,
sez. III – 15/02/2011 n. 2177; si veda anche
Consiglio di Stato, sez. VI – 13/06/2012 n.
3490);
- che sussiste altresì la lesione del
principio di proporzionalità, in base al
quale il sacrificio imposto al privato non
deve eccedere le esigenze di tutela che si
devono garantire nell’immediatezza, dato che
il rimedio “extra ordinem” adottato assume
efficacia “sine die”;
- che in conclusione il gravame è fondato e
deve essere accolto
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza
19.07.2012 n.
1375 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Consiglio di Stato: le sanzioni
dell'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici.
Il Consiglio di Stato fa luce, nella
pronuncia in commento, sul potere
sanzionatorio dell'Autorità per la vigilanza
sui contratti pubblici di lavori, servizi e
fornitura ex art. 48, c. 2, del d.lgs. n.
163 del 2006, in sede di controlli sul
possesso dei requisiti di partecipazione.
L'art. 48, c. 2, del d.lgs. n. 163 del 2006,
spiegano i giudici di Palazzo Spada, prevede
che le stazioni appaltanti richiedano, tra
gli altri, all'aggiudicatario e al
concorrente che segue in graduatoria di
comprovare il possesso dei requisiti di
capacità economico-finanziaria e tecnico
organizzativa eventualmente richiesti nel
bando di gara, presentando la documentazione
indicata in detto bando o nella lettera di
invito.
Qualora tale prova non sia fornita
ovvero non confermi le dichiarazioni
contenute nella domanda di partecipazione o
nell'offerta l'Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici di lavori, servizi e
fornitura può adottare determinati
provvedimenti sanzionatori. In particolare,
può disporre la sospensione dell'impresa,
per un periodo da uno a dodici mesi, dalla
partecipazione alle procedure di
affidamento, nonché irrogare una sanzione
amministrativa fino ad euro 25.822,00
ovvero, in presenza di informazioni o
documenti falsi, fino ad euro 51.545,00.
La
suddetta normativa non impone all'Autorità,
concludono gli stessi giudici, di svolgere
accertamenti ulteriori, rispetto alla
falsità della dichiarazione, volti a
verificare la sussistenza del requisito
oggettivo della gravità della violazione e a
prendere in esame la "situazione soggettiva
del dichiarante", ma può soltanto accertare
se la notizia comunicata dalla stazione
appaltante sia inconferente ovvero se la
falsità sia innocua o se la stessa abbia ad
oggetto fatti e circostanze irrilevanti ai
fini della aggiudicazione della gara (commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 16.07.2012 n. 4160 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Può
rinvenirsi anche nel settore dei servizi
pubblici la regola consolidata dell’obbligo
di gara.
L’apertura delle
commesse pubbliche alla concorrenza mediante
l’espletamento di procedure di
aggiudicazione è per la verità assai
risalente. Al riguardo la giurisprudenza
interna è da tempo uniforme nel ritenere
illegittima la scelta di procedere a
trattativa privata per l’individuazione del
concessionario di un servizio, per contrasto
con le norme ed i principi desumibili
dall’ordinamento comunitario, ed in
particolare con i principi di non
discriminazione territoriale e di libera
prestazione dei servizi sanciti dal Trattato
CEE, aventi diretta applicabilità nel
territorio nazionale.
Anche per i contratti esclusi dal raggio di
applicazione delle direttive sugli appalti
pubblici, gli Enti aggiudicatori che li
stipulano sono comunque tenuti a rispettare
i principi fondamentali del Trattato in
generale, ed il principio di non
discriminazione in base alla nazionalità in
particolare: si è da tempo affermato cioè il
principio per cui in tema di affidamento,
mediante concessione, di servizi pubblici,
le regole fondamentali dell’ordinamento
comunitario ed i principi generali che
governano la materia dei contratti impongono
all’amministrazione procedente di dare
adeguata pubblicità agli affidamenti e di
evitare la discriminazione delle imprese,
attivando procedure competitive selettive.
In buona sostanza, i canoni guida in materia
di affidamento delle commesse pubbliche
esigono, a fini di trasparenza e di
salvaguardia della concorrenza, la
diffusione delle informazioni relative ai
contratti da stipulare per consentire sia
l’eguale possibilità di accesso delle
imprese alle gare sia l’obiettiva ed
imparziale selezione dei candidati.
In ossequio ai principi comunitari, con
l’art. 23 della L. 23/2005 è stata eliminata
la possibilità –dapprima espressamente
contemplata– di provvedere al rinnovo dei
contratti di appalto scaduti: alla scelta
legislativa è stata riconosciuta una valenza
generale ed una portata preclusiva di
opzioni ermeneutiche di altre disposizioni
dell’ordinamento che si potrebbero
risolvere, di fatto, nell’elusione del
predetto divieto.
Per assicurare l’effettiva
conformazione dell’ordinamento interno a
quello comunitario, dunque, l’intervento
normativo di cui sopra “dev’essere letto ed
applicato in modo da escludere ed impedire,
in via generale ed incondizionata, la
rinnovazione di contratti di appalto
scaduti, ma anche l’esegesi di altre
disposizioni dell’ordinamento che
consentirebbero –in deroga alle procedure
ordinarie di affidamento degli appalti
pubblici– l’affidamento senza gara degli
stessi servizi per ulteriori periodi, dev’essere
condotta alla stregua del vincolante
criterio che vieta (con valenza imperativa
ed inderogabile) il rinnovo dei contratti”.
L’apertura delle commesse
pubbliche alla concorrenza mediante
l’espletamento di procedure di
aggiudicazione è per la verità assai
risalente. Al riguardo la giurisprudenza
interna è da tempo uniforme nel ritenere
illegittima la scelta di procedere a
trattativa privata per l’individuazione del
concessionario di un servizio, per contrasto
con le norme ed i principi desumibili
dall’ordinamento comunitario, ed in
particolare con i principi di non
discriminazione territoriale e di libera
prestazione dei servizi sanciti dal Trattato
CEE, aventi diretta applicabilità nel
territorio nazionale (TAR Sicilia
Palermo, sez. III – 21/06/2007 n. 1683;
TAR Molise – 02/07/2008 n. 677).
Anche per i contratti esclusi dal raggio di
applicazione delle direttive sugli appalti
pubblici, gli Enti aggiudicatori che li
stipulano sono comunque tenuti a rispettare
i principi fondamentali del Trattato in
generale, ed il principio di non
discriminazione in base alla nazionalità in
particolare (Corte di Giustizia – 07/12/2000,
causa C-324/98): si è da tempo affermato
cioè il principio per cui in tema di
affidamento, mediante concessione, di
servizi pubblici, le regole fondamentali
dell’ordinamento comunitario ed i principi
generali che governano la materia dei
contratti impongono all’amministrazione
procedente di dare adeguata pubblicità agli
affidamenti e di evitare la discriminazione
delle imprese, attivando procedure
competitive selettive (cfr. Consiglio di
Stato, sez. V – 21/09/2010 n. 7024).
In buona
sostanza, i canoni guida in materia di
affidamento delle commesse pubbliche
esigono, a fini di trasparenza e di
salvaguardia della concorrenza, la
diffusione delle informazioni relative ai
contratti da stipulare per consentire sia
l’eguale possibilità di accesso delle
imprese alle gare sia l’obiettiva ed
imparziale selezione dei candidati (TAR
Sardegna, sez. I – 23/02/2007 n. 109;
Consiglio di Stato, sez. VI – 30/01/2007 n.
362).
Sempre sull’argomento rileva il Collegio
che, in ossequio ai principi comunitari, con
l’art. 23 della L. 23/2005 è stata eliminata
la possibilità –dapprima espressamente
contemplata– di provvedere al rinnovo dei
contratti di appalto scaduti: alla scelta
legislativa è stata riconosciuta una valenza
generale ed una portata preclusiva di
opzioni ermeneutiche di altre disposizioni
dell’ordinamento che si potrebbero
risolvere, di fatto, nell’elusione del
predetto divieto.
Per assicurare l’effettiva
conformazione dell’ordinamento interno a
quello comunitario, dunque, l’intervento
normativo di cui sopra “dev’essere letto ed
applicato in modo da escludere ed impedire,
in via generale ed incondizionata, la
rinnovazione di contratti di appalto
scaduti, ma anche l’esegesi di altre
disposizioni dell’ordinamento che
consentirebbero –in deroga alle procedure
ordinarie di affidamento degli appalti
pubblici– l’affidamento senza gara degli
stessi servizi per ulteriori periodi, dev’essere
condotta alla stregua del vincolante
criterio che vieta (con valenza imperativa
ed inderogabile) il rinnovo dei contratti”
(Consiglio di Stato, sez. IV – 31/10/2006 n.
6462; TAR Sicilia Catania, sez. III –
22/06/2007 n. 1086; Sentenza sezione
11/03/2011 n. 419).
In definitiva può rinvenirsi anche nel
settore dei servizi pubblici la regola
consolidata dell’obbligo di gara
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza
16.07.2012 n.
1353 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In caso di
dubbio circa la collocazione temporale (ndr:
di un fabbricato) in
periodo anteriore alla legge 765/1967 si
dovrebbe normalmente propendere per la tesi
più favorevole al privato.
Sia l'amministrazione
sia il privato sono tenuti a fornire
elementi a sostegno delle rispettive
affermazioni circa l'inesistenza o al
contrario la presenza del manufatto prima
della data di riferimento (entrata in vigore
della c.d. legge-ponte: 01.09.1967),
in quanto non sarebbe ragionevole imporre ai
privati un onere di prova esclusivo,
subordinando la difesa della proprietà a una
dimostrazione di fatto impossibile vista la
difficoltà di reperire documentazione utile
a così grande distanza di tempo. Nelle
situazioni dubbie, quando il privato abbia
offerto un principio di prova, la sua
posizione può quindi essere tutelata se
l'amministrazione non abbia offerto
argomenti contrari di maggiore spessore o
verosimiglianza.
Il Collegio rileva che i precedenti resi
in subiecta materia da questo TAR
inducono ad un positivo scrutinio della tesi
fondamentale svolta dal ricorrente, e cioè:
insussistenza del carattere abusivo delle
opere, stante la loro realizzazione in epoca
(ante adozione PdF e ante legge 765/1967) in
cui non era richiesta la licenza edilizia,
essendo le stesse ubicate in zona agricola.
Invero e in ordine cronologico:
i) con la sentenza richiamata nella memoria
conclusiva del ricorrente (n. 363/2006),
questo TAR ha ritenuto –in una fattispecie
identica alla presente, pure relativa al
Comune di Provaglio d’Iseo– che il riscontro
del manufatto nel rilievo
aerofotogrammetrico comunale del 1973
costituisce idoneo principio di prova
dell’esistenza dello stesso in epoca
anteriore all’entrata in vigore della
suddetta “legge-ponte”;
ii) con sentenza 22.11.2010 n. 4664, la Sez. I di questo TAR ha,
poi, affermato (par. 13) che -in caso di
dubbio circa la collocazione temporale in
periodo anteriore alla legge 765/1967- si
dovrebbe normalmente propendere per la tesi
più favorevole al privato;
iii) infine, nella decisione del ricorso n.
210/2002, introitato all’udienza pubblica
del 09.02.2012, la Sez. II ha affermato
-richiamandosi espressamente al citato
precedente di cui a Sez. I n. 4664/2010- il
principio per cui <<sia l'amministrazione
sia il privato sono tenuti a fornire
elementi a sostegno delle rispettive
affermazioni circa l'inesistenza o al
contrario la presenza del manufatto prima
della data di riferimento (entrata in vigore
della c.d. legge-ponte: 01.09.1967),
in quanto non sarebbe ragionevole imporre ai
privati un onere di prova esclusivo,
subordinando la difesa della proprietà a una
dimostrazione di fatto impossibile vista la
difficoltà di reperire documentazione utile
a così grande distanza di tempo. Nelle
situazioni dubbie, quando il privato abbia
offerto un principio di prova, la sua
posizione può quindi essere tutelata se
l'amministrazione non abbia offerto
argomenti contrari di maggiore spessore o
verosimiglianza>>
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza
16.07.2012 n.
1349 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La motivazione sull’interesse ad
ottenere il rilascio di documentazione
amministrativa deve essere espressa nella
domanda di accesso ai fini della
dimostrazione della legittimazione da parte
del richiedente. Essa, in sostanza, serve a
chiarire, all’ufficio destinatario della
richiesta, che il richiedente ha un concreto
interesse meritevole di tutela e che,
quindi, l’istanza non è volta ad perseguire
improprie finalità di controllo
generalizzato sulla legittimità degli atti
della P.A.
La motivazione non occorre però ove non ci
sia nulla da chiarire ed in particolare
nelle ipotesi in cui la
documentazione richiesta riguardi un
procedimento amministrativo definito con un
provvedimento che ha come destinatario il
richiedente l’accesso o nelle ipotesi in cui
l’interesse emerga chiaramente dai rapporti
intercorsi o intercorrenti tra
amministrazione e richiedente.
La motivazione sull’interesse ad
ottenere il rilascio di documentazione
amministrativa deve essere espressa nella
domanda di accesso ai fini della
dimostrazione della legittimazione da parte
del richiedente. Essa, in sostanza, serve a
chiarire, all’ufficio destinatario della
richiesta, che il richiedente ha un concreto
interesse meritevole di tutela e che,
quindi, l’istanza non è volta ad perseguire
improprie finalità di controllo
generalizzato sulla legittimità degli atti
della P.A.
La motivazione non occorre però ove non ci
sia nulla da chiarire ed in particolare
nelle ipotesi in cui, come nella specie, la
documentazione richiesta riguardi un
procedimento amministrativo definito con un
provvedimento che ha come destinatario il
richiedente l’accesso o nelle ipotesi in cui
l’interesse emerga chiaramente dai rapporti
intercorsi o intercorrenti tra
amministrazione e richiedente.
Con l’impugnato diniego è stato rifiutato
l’accesso nonostante l’atto richiesto
contenesse la motivazione, per relationem,
del citato provvedimento del 13.02.2012 e
che, peraltro, l’Amministrazione avrebbe
dovuto spontaneamente consegnare al Comune
in osservanza dell’articolo 3 della legge 07.08.1990 n. 241 che, al comma 3 così
dispone: “Se le ragioni della decisione
risultano da altro atto dell'amministrazione
richiamato dalla decisione stessa, insieme
alla comunicazione di quest'ultima deve
essere indicato e reso disponibile, a norma
della presente legge, anche l'atto cui essa
si richiama.”
Il diniego opposto, oltre a non essere in
alcun modo giustificabile per l’evidenza
dell’interesse vantato dal Comune,
rappresenta nella sostanza una reiterazione
della violazione della riportata
disposizione, che impone all’Amministrazione
di rendere disponibile al destinatario del
provvedimento gli atti che contengono la
motivazione posta a suo fondamento
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza
16.07.2012 n.
703 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
potere del Sindaco di adottare provvedimenti extra ordinem presuppone l’urgente necessità
di reagire con efficacia ed immediatezza ad
uno stato di grave pericolo, attuale o
imminente, per l’incolumità pubblica, non
fronteggiabile con gli ordinari strumenti
messi a disposizione dall’ordinamento.
Pertanto, le ordinanze di tal fatta
presentano il carattere della provvisorietà,
intesa nel duplice senso di imposizione di
misure non definitive e ad efficacia
temporalmente limitata, con la conseguenza
che le stesse non possono essere emanate per
regolare stabilmente una situazione od
assetto di interessi permanente.
Alla luce dei principi sopra esposti
l’impugnata ordinanza risulta illegittima
atteso che è stata adottata:
1) in parte per prevenire intralci alla
circolazione stradale e non per tutelare
“l’incolumità dei cittadini”;
2) senza evidenziare uno stato di grave
pericolo attuale o imminente da
fronteggiare;
3) con l’intento di regolare stabilmente
l’accesso ad una strada privata.
Considerato:
a) che con l’impugnata ordinanza 06/08/2003 n.
58, emessa ai sensi dell'art. 54, comma 2,
del D.Lgs. 18/08/2000 n. 267, il Sindaco di
Olbia ha ordinato all’amministratore del
ricorrente condomino di rimuovere, a propria
cura e spese, una sbarra metallica
installata all'ingresso del medesimo
condominio;
b) che l’ordinanza risulta motivata con
riguardo:
1) alla necessità di evitare che in caso di
sbarra chiusa, le autovetture in attesa
dell’apertura della stessa, in sosta nella
strada principale, creino intralcio e
pericolo alla circolazione stradale;
2) all’esigenza di evitare pericoli per la
pubblica incolumità derivanti
dall’impossibilità, per i mezzi di soccorso
e le forze dell’ordine, di accedere con
immediatezza ai luoghi laddove se ne
verificasse la necessità;
c) che avverso la citata ordinanza è stato
proposto l’odierno ricorso notificato anche
al Ministero dell’Interno;
d) che, in accoglimento dell’eccezione
proposta dalla difesa erariale, va
dichiarato il difetto di legittimazione
passiva del suddetto Ministero, atteso che,
per consolidata giurisprudenza, nelle
controversie concernenti l’impugnazione di
ordinanze contingibili e urgenti, emesse dal
Sindaco quale ufficiale di Governo, la
legittimazione a contraddire spetta solo
all’autorità comunale (cfr. TAR Sardegna,
I Sez., 19/2/2010 n. 204; TAR Lombardia –
Milano, III Sez., 01/08/2011 n. 2064; Cons.
Stato, V Sez., 13/08/2007 n. 4448);
e) che ai sensi dell’art. 54, comma 2, del D.Lgs. 18/08/2000 n. 67, nel testo vigente
all’epoca dell’adozione dell’avversata
ordinanza, il sindaco, quale ufficiale del
Governo, poteva adottare, “con atto motivato
e nel rispetto dei principi generali
dell'ordinamento giuridico, provvedimenti contingibili e urgenti al fine di prevenire
ed eliminare gravi pericoli che minacciano
l'incolumità dei cittadini …”;
f) che per consolidata giurisprudenza il
potere del Sindaco di adottare provvedimenti
extra ordinem presuppone l’urgente necessità
di reagire con efficacia ed immediatezza ad
uno stato di grave pericolo, attuale o
imminente, per l’incolumità pubblica, non
fronteggiabile con gli ordinari strumenti
messi a disposizione dall’ordinamento (Cons.
Stato, V Sez., 16/02/2010 n. 868);
g) che, pertanto, le ordinanze di tal fatta
presentano il carattere della provvisorietà,
intesa nel duplice senso di imposizione di
misure non definitive e ad efficacia
temporalmente limitata, con la conseguenza
che le stesse non possono essere emanate per
regolare stabilmente una situazione od
assetto di interessi permanente (cfr. TAR
Campania–Napoli, V Sez., 29/12/2010 n.
28169; Cons. Stato, VI Sez., 24/12/2009 n.
8681);
h) che alla luce dei principi sopra esposti
l’impugnata ordinanza risulta illegittima
atteso che è stata adottata:
1) in parte per prevenire intralci alla
circolazione stradale e non per tutelare
“l’incolumità dei cittadini”;
2) senza evidenziare uno stato di grave
pericolo attuale o imminente da
fronteggiare;
3) con l’intento di regolare stabilmente
l’accesso ad una strada privata;
i) che in definitiva il ricorso va accolto
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza
16.07.2012 n.
701 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI: Il
potere di adozione di un'ordinanza contingibile ed urgente di
cui all'art. 54, d.lg. n. 267 del 2000
presuppone la necessità di provvedere in via
d'urgenza con strumenti extra ordinem per
far fronte a situazioni di natura
eccezionale ed imprevedibile di pericolo
attuale ed imminente per l'incolumità
pubblica, cui non si può provvedere con gli
strumenti ordinari apprestati
dall'ordinamento.
Nel caso di specie l’ostacolo alla
circolazione di una strada di limitato
utilizzo, come emerge dalla documentazione
attestante lo stato dei luoghi, senza
indicazione di alcun pericolo concreto per
l’incolumità pubblica, appare difficilmente
qualificabile nei termini predetti, anche in
considerazione della pacifica esistenza
nell’ordinamento di mezzi ordinari in
materia.
---------------
E' incompetente il sindaco ad
emettere ordinanze in tema di limitazioni
della circolazione, essendo la materia
attratta nella competenza propria del
dirigente di settore, in quanto si tratta di
funzioni di gestione ordinaria.
Né, peraltro, nel caso di specie
l’amministrazione ha fatto alcun riferimento
al distinto potere sindacale di autotutela
possessoria delle strade; in proposito, va
ribadito che il potere sindacale di
ordinanza contingibile urgente ex art. 54
cit. e quello attribuito allo stesso Sindaco
dall'art. 15, d.l.lgt. 01.09.1918 n.
1446 differiscono profondamente per le
funzioni e il contenuto atteso che, mentre
il primo è atipico, il secondo, nel
consentire al Sindaco di ordinare che siano
rimossi gli impedimenti all'uso delle
strade, mira ad assicurare la fluidità della
circolazione, è espressione di autotutela
possessoria delle stesse ed ha natura ripristinatoria.
Come noto, il potere di adozione
di un'ordinanza contingibile ed urgente di
cui all'art. 54, d.lg. n. 267 del 2000
presuppone la necessità di provvedere in via
d'urgenza con strumenti extra ordinem per
far fronte a situazioni di natura
eccezionale ed imprevedibile di pericolo
attuale ed imminente per l'incolumità
pubblica, cui non si può provvedere con gli
strumenti ordinari apprestati
dall'ordinamento.
Nel caso di specie
l’ostacolo alla circolazione di una strada
di limitato utilizzo, come emerge dalla
documentazione attestante lo stato dei
luoghi, senza indicazione di alcun pericolo
concreto per l’incolumità pubblica, appare
difficilmente qualificabile nei termini
predetti, anche in considerazione della
pacifica esistenza nell’ordinamento di mezzi
ordinari in materia (come peraltro ammesso
dalla stessa attenta difesa comunale in sede
di memoria conclusiva).
A quest’ultimo proposito, e parallelamente,
costituisce principio parimenti consolidato
quello per cui è incompetente il sindaco ad
emettere ordinanze in tema di limitazioni
della circolazione, essendo la materia
attratta nella competenza propria del
dirigente di settore, in quanto si tratta di
funzioni di gestione ordinaria.
Né, peraltro, nel caso di specie
l’amministrazione ha fatto alcun riferimento
al distinto potere sindacale di autotutela
possessoria delle strade; in proposito, va
ribadito che il potere sindacale di
ordinanza contingibile urgente ex art. 54
cit. e quello attribuito allo stesso Sindaco
dall'art. 15, d.l.lgt. 01.09.1918 n.
1446 differiscono profondamente per le
funzioni e il contenuto atteso che, mentre
il primo è atipico, il secondo, nel
consentire al Sindaco di ordinare che siano
rimossi gli impedimenti all'uso delle
strade, mira ad assicurare la fluidità della
circolazione, è espressione di autotutela
possessoria delle stesse ed ha natura ripristinatoria (cfr. ad es. Tar Piemonte n.
376/2011)
(TAR Liguria, Sez. II,
sentenza
13.07.2012 n. 1016 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Appalti: la comunicazione via fax
è idonea alla decorrenza dei termini.
La comunicazione via fax rappresenta una
modalità tipica di comunicazione di notizie
e informazioni ai partecipanti alle gare
d'appalto ed è uno strumento idoneo ai fini
della decorrenza del termine di decadenza.
La comunicazione via fax è espressamente
contemplata dall'art. 77 del d.lgs. n.
163/2006 quale modalità tipica di
comunicazione di notizie e informazioni ai
partecipanti alle gare d'appalto e
rappresenta uno dei modi in cui può
concretamente svolgersi la cooperazione tra
i soggetti, in quanto essa viene attuata
mediante l'utilizzo di un sistema basato su
linee di trasmissione di dati ed
apparecchiature che consentono di poter
documentare sia la partenza del messaggio
dall'apparato trasmittente che, attraverso
il cosiddetto rapporto di trasmissione, la
ricezione del medesimo in quello ricevente.
Tali modalità, garantite da protocolli
universalmente accettati, indubbiamente ne
fanno uno strumento idoneo a garantire
l'effettività della comunicazione. Posto,
quindi, che gli accorgimenti tecnici che
caratterizzano il sistema garantiscono, in
via generale, una sufficiente certezza circa
la ricezione del messaggio, ne consegue non
solo l'idoneità del mezzo a far decorrere
termini perentori, ma anche che un fax deve
presumersi giunto al destinatario quando il
rapporto di trasmissione indica che questa è
avvenuta regolarmente, senza che colui che
ha inviato il messaggio debba fornire alcuna
ulteriore prova. Semmai la prova contraria
può solo concernere la funzionalità
dell'apparecchio ricevente; ma questa non
può che essere fornita da chi afferma la
mancata ricezione del messaggio (commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 11.07.2012 n. 4116 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
scelte sottese alla pianificazione
urbanistica costituiscono la risultante di
apprezzamenti tendenzialmente di merito,
sindacabili in sede giurisdizionale nei soli
casi di arbitrarietà, irrazionalità o
irragionevolezza, ovvero di palese
travisamento dei fatti quali l’incoerenza
con l'impostazione di fondo del nuovo
intervento pianificatorio o la manifesta
incompatibilità con le caratteristiche
oggettive del territorio, ed ancora, per
gravi carenze nell’istruttoria e nelle
conclusioni del procedimento.
Se nelle singole scelte urbanistiche -che
inevitabilmente valorizzano alcune aree
mortificando le prospettive di utilizzazione
e il valore di scambio di altre- non sono
ravvisabili contrasti con l'impostazione
tecnica dello strumento generale, o non si
evidenzino patenti vizi logici, è da
escludere che le stesse possano ritenersi
viziate: esse sottostanno, infatti, solo al
superiore criterio di razionalità nella
definizione delle linee dell'assetto
territoriale, nell'interesse pubblico alla
sicurezza delle persone e dell'ambiente, ma
non anche a criteri di proporzionalità
distributiva degli oneri e dei vincoli.
In capo ai privati interessati dalle nuove
previsioni urbanistiche non è mai
configurabile un’aspettativa qualificata
alla destinazione edificatoria prevista da
precedenti determinazioni
dell'Amministrazione, ma soltanto
un’aspettativa generica sia al mantenimento
della destinazione urbanistica "gradita" sia
ad una "reformatio in melius", analogamente
a quanto si aspetta ogni altro proprietario
di aree che comunque aspira a utilizzare più
proficuamente i propri immobili. Il generico
affidamento alla "non reformatio in pejus"
della precedente destinazione richiede solo
che una motivazione possa agevolmente
evincersi dai criteri di ordine
tecnico-urbanistico seguiti per la redazione
del nuovo strumento pianificatorio, in modo
che siano chiari ed esplicitati le finalità
e gli obiettivi che hanno indotto il
pianificatore comunale a disattendere
precedenti scelte.
In definitiva, le nuove scelte urbanistiche
non richiedono argomentazioni particolari e
dettagliate bensì una motivazione evincibile
dai criteri e dai principi generali che
ispirano il novello strumento urbanistico.
Deroghe a tale regola sono previste solo in
presenza di specifiche situazioni di
affidamento qualificato del privato ad una
specifica destinazione (derivanti, ad
esempio, da convenzioni di lottizzazione, da
accordi di diritto privato intercorsi fra il
Comune e i proprietari delle aree; da
aspettative nascenti da giudicati di
annullamento di concessioni edilizie).
All’opposto, costituisce affidamento
generico quello relativo alla non reformatio
in pejus di precedenti previsioni
urbanistiche con nuove previsioni che
permettono una meno proficua utilizzazione
dell'area.
In
linea generale, il Collegio deve
innanzitutto rammentare che, per nota e
consolidata giurisprudenza amministrativa,
le scelte sottese alla pianificazione
urbanistica costituiscono la risultante di
apprezzamenti tendenzialmente di merito,
sindacabili in sede giurisdizionale nei soli
casi di arbitrarietà, irrazionalità o
irragionevolezza, ovvero di palese
travisamento dei fatti quali l’incoerenza
con l'impostazione di fondo del nuovo
intervento pianificatorio o la manifesta
incompatibilità con le caratteristiche
oggettive del territorio, ed ancora, per
gravi carenze nell’istruttoria e nelle
conclusioni del procedimento (cfr., C.d.S.,
sez. IV, 24.02.2011, n. 1222 e 13.02.2009,
n. 811).
Va poi ulteriormente ricordato che se nelle
singole scelte urbanistiche -che
inevitabilmente valorizzano alcune aree
mortificando le prospettive di utilizzazione
e il valore di scambio di altre- non sono
ravvisabili contrasti con l'impostazione
tecnica dello strumento generale, o non si
evidenzino patenti vizi logici, è da
escludere che le stesse possano ritenersi
viziate: esse sottostanno, infatti, solo al
superiore criterio di razionalità nella
definizione delle linee dell'assetto
territoriale, nell'interesse pubblico alla
sicurezza delle persone e dell'ambiente, ma
non anche a criteri di proporzionalità
distributiva degli oneri e dei vincoli
(cfr., in termini, da ultimo C.d.S., sez, IV,
16.01.2012, n. 119; 07.07.2008, n. 3358 e
09.06.2008, n. 2837).
È stato anche chiarito che in capo ai
privati interessati dalle nuove previsioni
urbanistiche non è mai configurabile
un’aspettativa qualificata alla destinazione
edificatoria prevista da precedenti
determinazioni dell'Amministrazione, ma
soltanto un’aspettativa generica sia al
mantenimento della destinazione urbanistica
"gradita" sia ad una "reformatio
in melius", analogamente a quanto si
aspetta ogni altro proprietario di aree che
comunque aspira a utilizzare più
proficuamente i propri immobili (cfr., da
ultimo, C.d.S., sez. IV, 12.05.2010, n.
2843). Il generico affidamento alla "non
reformatio in pejus" della precedente
destinazione richiede solo che una
motivazione possa agevolmente evincersi dai
criteri di ordine tecnico-urbanistico
seguiti per la redazione del nuovo strumento
pianificatorio, in modo che siano chiari ed
esplicitati le finalità e gli obiettivi che
hanno indotto il pianificatore comunale a
disattendere precedenti scelte.
In definitiva, le nuove scelte urbanistiche
non richiedono argomentazioni particolari e
dettagliate bensì una motivazione evincibile
dai criteri e dai principi generali che
ispirano il novello strumento urbanistico.
Deroghe a tale regola sono previste solo in
presenza di specifiche situazioni di
affidamento qualificato del privato ad una
specifica destinazione (derivanti, ad
esempio, da convenzioni di lottizzazione, da
accordi di diritto privato intercorsi fra il
Comune e i proprietari delle aree; da
aspettative nascenti da giudicati di
annullamento di concessioni edilizie) (cfr.,
C.d.S., sez. IV, 16.11.2011, n. 6049 e
09.12.2010, n. 8682). All’opposto,
costituisce affidamento generico quello
relativo alla non reformatio in pejus
di precedenti previsioni urbanistiche con
nuove previsioni che permettono una meno
proficua utilizzazione dell'area (cfr.,
C.d.S., sez. IV, 15.07.2008, n. 3552) (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 11.07.2012 n. 219 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel rendere il giudizio
di valutazione d’impatto ambientale e
nell’effettuare la verifica preliminare,
l’Amministrazione esercita un’amplissima
discrezionalità tecnica, censurabile solo in
presenza di macroscopici vizi logici o di
travisamento dei presupposti.
Ed in ogni caso, la valutazione d’impatto
ambientale non costituisce un mero giudizio
tecnico, suscettibile in quanto tale di
verificazione sulla base di oggettivi
criteri di misurazione, ma presenta al
contempo profili particolarmente intensi di
discrezionalità amministrativa, sul piano
dell’apprezzamento degli interessi pubblici
in rilievo e della loro ponderazione
rispetto all’interesse all’esecuzione
dell’opera, apprezzamento che è sindacabile
dal giudice amministrativo soltanto in
ipotesi di manifesta illogicità o
travisamento dei fatti, nel caso in cui
l’istruttoria sia mancata, o sia stata
svolta in modo inadeguato, e sia perciò
evidente lo sconfinamento del potere
discrezionale riconosciuto
all’Amministrazione.
La giurisprudenza ha ripetutamente chiarito
che, nel rendere il giudizio di valutazione
d’impatto ambientale e nell’effettuare la
verifica preliminare, l’Amministrazione
esercita un’amplissima discrezionalità
tecnica, censurabile solo in presenza di
macroscopici vizi logici o di travisamento
dei presupposti (cfr. Trib. Sup. acque
pubbliche, 11.03.2009, n. 35; Cons. Stato,
Sez. VI, 19.02.2008 n. 561; Id., Sez. IV,
05.07.2010 n. 4246).
Ed in ogni caso, la valutazione d’impatto
ambientale non costituisce un mero giudizio
tecnico, suscettibile in quanto tale di
verificazione sulla base di oggettivi
criteri di misurazione, ma presenta al
contempo profili particolarmente intensi di
discrezionalità amministrativa, sul piano
dell’apprezzamento degli interessi pubblici
in rilievo e della loro ponderazione
rispetto all’interesse all’esecuzione
dell’opera, apprezzamento che è sindacabile
dal giudice amministrativo soltanto in
ipotesi di manifesta illogicità o
travisamento dei fatti, nel caso in cui
l’istruttoria sia mancata, o sia stata
svolta in modo inadeguato, e sia perciò
evidente lo sconfinamento del potere
discrezionale riconosciuto
all’Amministrazione (cfr. Cons. Stato, Sez.
V, 22.06.2009 n. 4206; Id., Sez. V,
21.11.2007 n. 5910; Id., Sez. VI, 17.05.2006
n. 2851; Id., Sez. IV, 22.07.2005 n. 3917;
cfr. da ultimo TAR Puglia, Bari, Sez. I,
14.05.2010, n. 1897) (TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 10.07.2012 n. 1395 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Devono
essere demoliti, se abusivi, container,
roulotte e camper non effettivamente
destinati alla circolazione, prefabbricati
in qualsiasi materiale, verande ecc. a meno
che non abbiano dimensioni sostanzialmente
insignificanti.
Con il provvedimento impugnato
viene ordinata la demolizione di una veranda
in ferro e in legno, coperta da una tenda
retrattile, tamponata con teli avvolgibili
trasparenti e corredata da una fioriera
lungo un lato della struttura.
Questa, fissata all'edificio cui aderisce e
appoggiata su piastre di ferro non ancorate
al terreno, è stata ritenuta una costruzione
soggetta a titolo abilitativo.
Nel ricorso si formulano articolate censure
di violazione di legge ed eccesso di potere
di seguito riassunte ed esaminate.
Il Collegio, in limine, ritiene, in base
agli atti del processo e segnatamente alla
documentazione fotografica, che il manufatto
costituisca, alla luce della comune
esperienza, un volume edilizio rilevante sia
per dimensioni (m. 6,90 x 4,48 con altezza max. m. 3,81 ca.), sia per caratteristiche
intrinseche, fra le quali il fatto che poggi
su di una pavimentazione in legno costruita
appositamente (pag. 1, 4° cpv. relazione
tecnica del geometra Possati, depositato
agli atti del processo).
Difatti, ancorché realizzato con materiali
smontabili, retrattili ed avvolgibili, il
manufatto incide apprezzabilmente sul
contesto ed è destinato alla permanenza del
punto di vista funzionale, atteggiandosi
come un locale aggiuntivo rispetto al
bar-pasticceria cui inerisce.
Inoltre, si rammenta che il differente
grado di stabilità non determina, in sé, la
riconducibilità o meno dei manufatti fra
quelli di libera realizzazione.
Sia sufficiente ricordare che da anni la
giurisprudenza si è consolidata nel senso
che debbano essere demoliti, ad esempio,
anche container, roulotte e camper non
effettivamente destinati alla circolazione,
prefabbricati in qualsiasi materiale,
verande ecc. a meno che non abbiano
dimensioni sostanzialmente insignificanti il
che, all’evidenza, qui non accade (fra le
tante: Cons. Stato Sez. V, n. 415/1998;
TT.AA.RR. Emilia Romagna, Bologna, Sez. II
n. 1922/2009; Parma Sez. I n. 18/2009;
Umbria n. 812/2009)
(TAR Umbria,
sentenza
10.07.2012 n.
271 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ove
la strumentazione urbanistica vieti in
radice l'edificazione, il rigetto dell'istanza di
sanatoria ed i conseguenti provvedimenti
demolitori hanno natura vincolata.
Ne consegue che non occorre né l’avviso
d’avvio del procedimento né, segnatamente,
il parere della Commissione Edilizia.
Difatti, ove la
strumentazione urbanistica vieti in radice
l'edificazione, come qui accade (art. 6 N.T.A.), il rigetto dell'istanza di
sanatoria ed i conseguenti provvedimenti
demolitori hanno natura vincolata.
Ne consegue che non occorre né l’avviso
d’avvio del procedimento né, segnatamente,
il parere della Commissione Edilizia (fra le
tante, arg. da: Cons. Stato Sez. IV, 10.08.2011 n. 4764; id. Sez. IV,
24.09.2010 n. 7129; id. 10.04.2009 n. 227;
TAR Umbria 28.10.2010 n. 499)
(TAR Umbria,
sentenza
10.07.2012 n. 270 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'attività repressiva
dell'abuso edilizio è sostanzialmente
vincolata dal che
discende che:
- non occorre l’avviso d’avvio del
procedimento né il parere della Commissione
Edilizia;
- non necessita una particolare motivazione;
- soccorre comunque l’art. 21-octies L. n.
241/1990.
---------------
L'installazione di container, roulotte e
camper non effettivamente destinati alla
circolazione, prefabbricati in qualsiasi
materiale ecc., costituisce modificazione
rilevante dell'assetto territoriale, a meno
che detti manufatti non abbiano dimensioni
effettivamente insignificanti.
L'attività repressiva
dell'abuso edilizio è sostanzialmente
vincolata (giurisprudenza pacifica) dal che
discende che:
- non occorre l’avviso d’avvio del
procedimento né il parere della Commissione
Edilizia (fra le tante: Cons. Stato Sez. IV,
10.08.2011 n. 4764; 24.09.2010 n.
7129; id. 10.04.2009 n. 227; TAR Umbria
28.10.2010 n. 499);
- non necessita una particolare motivazione
(ex pluribus: Cons. Stato, Sez. V, 27.04.2011 n. 2497; id. 11.01.2011 n. 79;
Sez. IV, 12.04.2011 n. 2266);
- soccorre comunque l’art. 21-octies L. n.
241/1990 (ex multis: Cons. Stato, Sez. VI
03.12.2009 n. 7575; Sez. IV, 20.07.2009 n. 4567; id. 15.05.2009 n. 3029;
id. 10.04.2009 n. 2227).
Orbene, il container è collocato sotto
una tettoia a suo tempo autorizzata per uso
agricolo.
E’ dunque evidente, ove si legga il testo
del provvedimento prescindendo da sterili
cavilli, che vengono sanzionate sia la posa
in opera del manufatto, sia la difformità
dell'uso della tettoia giacché impiegata per
il ricovero di attrezzature e materiali
edili anziché agricoli.
E’ poi giurisprudenza consolidata, cui si
aderisce, quella per la quale
l'installazione di container, roulotte e
camper non effettivamente destinati alla
circolazione, prefabbricati in qualsiasi
materiale ecc. costituisce modificazione
rilevante dell'assetto territoriale, a meno
che detti manufatti non abbiano dimensioni
effettivamente insignificanti il che non
accade in questo caso (fra le tante: Cons.
Stato Sez. V, n. 415/1998; TAR Emilia
Romagna, Bologna, Sez. II n. 1922/2009;
Parma Sez. I n. 18/2009; TAR Umbria n.
812/2009)
(TAR Umbria,
sentenza
10.07.2012 n.
269 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le scelte effettuate
dall'Amministrazione all'atto
dell'approvazione del P.R.G. costituiscono
apprezzamenti di merito e sono sottratte al
sindacato di legittimità del giudice
amministrativo, salvo che siano inficiate da
errori di fatto, da grave illogicità o da
contraddittorietà; tali scelte -è stato
anche chiarito- non necessitano di apposita
motivazione, oltre quella che possa
evincersi dai criteri generali di ordine
tecnico discrezionale seguiti per
l'impostazione del piano stesso.
---------------
Le osservazioni dei privati, in sede
d'adozione e di approvazione del P.R.G.,
hanno un carattere meramente collaborativo
per la formazione di tale strumento
urbanistico, sicché esse non fondano
peculiari aspettative ed il loro rigetto non
richiede una motivazione analitica; la
motivazione, sebbene sintetica o espressa
per relationem, deve comunque risultare
congrua rispetto agli elementi di fatto e di
diritto posti alla base delle osservazioni
stesse.
Secondo il costante orientamento della
giurisprudenza amministrativa, le scelte
effettuate dall'Amministrazione all'atto
dell'approvazione del P.R.G. costituiscono
apprezzamenti di merito e sono sottratte al
sindacato di legittimità del giudice
amministrativo, salvo che siano inficiate da
errori di fatto, da grave illogicità o da
contraddittorietà; tali scelte -è stato
anche chiarito- non necessitano di apposita
motivazione, oltre quella che possa
evincersi dai criteri generali di ordine
tecnico discrezionale seguiti per
l'impostazione del piano stesso (ex
multis: Cons. St., IV, 26.04.2006, n.
2297 e 2315).
---------------
Secondo
giurisprudenza consolidata, le osservazioni
dei privati, in sede d'adozione e di
approvazione del P.R.G., hanno un carattere
meramente collaborativo per la formazione di
tale strumento urbanistico, sicché esse non
fondano peculiari aspettative ed il loro
rigetto non richiede una motivazione
analitica (TAR Lazio Roma, II, 09.06.2008,
n. 5662); la motivazione, sebbene sintetica
o espressa per relationem, deve
comunque risultare congrua rispetto agli
elementi di fatto e di diritto posti alla
base delle osservazioni stesse (cfr. Cons.
Stato, IV, 07.06.2004, n. 3559 e TAR
Catania, I, 06.09.2007, n. 1395)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 09.07.2012 n. 1774 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
specialità del procedimento di condono
edilizio rispetto all'ordinario procedimento
di rilascio della concessione ad edificare e
l'assenza di una specifica previsione in
ordine alla sua necessità rendono, per il
rilascio della concessione in sanatoria c.d.
straordinaria (o condono), il parere della
Commissione edilizia non obbligatorio, ma,
tutt'al più, facoltativo, in quelle
specifiche ipotesi in cui l'amministrazione
ritenga discrezionalmente di acquisire
eventuali informazioni e valutazioni con
riguardo a particolari e sporadici casi
incerti e complessi.
---------------
L'art. 32, comma 25, del d.l. 269/2003 (nel
testo risultante dalla legge di conversione
n. 326/2003) -detto 3° condono edilizio-
individua soltanto due tipologie di abusi
condonabili:
a) ampliamenti di edifici, senza differenza
tra destinazione residenziale o non
residenziale, ma con il limite del 30% della
volumetria delle costruzioni originaria o,
in alternativa, del limite massimo di 750
metri cubi);
b) nuove costruzioni a uso residenziale (a
condizione che la costruzione nel complesso
non superi i 3.000 metri cubi e che le
singole richieste di sanatoria non superino
i 750 metri cubi).
Il semplice tenore letterale della
disposizione esclude la possibilità di
configurare la sanabilità di nuove
costruzioni a uso non residenziale, e
l'interpretazione rigorosa delle norme sulla
sanatoria è sempre stata affermata dalla
Corte Costituzionale, in ragione del
carattere eccezionale di tali disposizioni.
La predetta rigorosa interpretazione della
norma in questione è stata, inoltre,
costantemente affermata dalla giurisprudenza
penale che ha espressamente escluso la
possibilità di ammettere il condono degli
immobili non aventi destinazione
residenziale, poiché "per le nuove
costruzioni il beneficio è limitato alle
sole costruzioni non residenziali".
Con un quarto motivo di ricorso –rubricato “violazione
e falsa applicazione, sotto altro profilo,
dell’art. 35 L. 47/1985”– il Marsalone
lamenta che il diniego non è stato preceduto
dal parere della Commissione edilizia.
La censura non può essere condivisa dal
momento che “la specialità del
procedimento di condono edilizio rispetto
all'ordinario procedimento di rilascio della
concessione ad edificare e l'assenza di una
specifica previsione in ordine alla sua
necessità rendono, per il rilascio della
concessione in sanatoria c.d. straordinaria
(o condono), il parere della Commissione
edilizia non obbligatorio, ma, tutt'al più,
facoltativo, in quelle specifiche ipotesi in
cui l'amministrazione ritenga
discrezionalmente di acquisire eventuali
informazioni e valutazioni con riguardo a
particolari e sporadici casi incerti e
complessi” (TAR Torino Piemonte, Sez. II,
11.04.2012, n. 438; TAR Bari Puglia, Sez. II,
02.04.201, n. 636; TAR Napoli Campania, Sez.
VII, 01.09.2011, n. 4259; TAR Napoli
Campania, Sez. VIII, 10.09.2010, n. 17398;
Consiglio Stato, Sez. IV, 02.11.2009, n.
6784).
---------------
Con un unico
motivo di censura –rubricato “violazione
e falsa applicazione dell’art. 32, comma 25,
D. Lg.vo 269/2003, convertito con
modificazioni in L. 24.11.2003 n. 326;
eccesso di potere per violazione di
circolare”- il ricorrente lamenta
l’illegittimità dell’ultimo diniego di
sanatoria impugnato, sostenendo che la
normativa sul condono edilizio di cui al
D.Lg.vo 269/2003 ed alla L.R. 15/2004 si
applicherebbe anche agli immobili non
residenziali, come si ricaverebbe anche
dalla circolare del Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti del 7
dicembre 2005.
L’assunto non può essere condiviso.
L'art. 32, comma 25, del d.l. 269/2003 (nel
testo risultante dalla legge di conversione
n. 326/2003) dispone che "le disposizioni
di cui ai capi IV e V della legge
28.02.1985, n. 47, e successive
modificazioni e integrazioni, come
ulteriormente modificate dall'art. 39 della
legge 23.12.2004, n. 724, e successive
modificazioni e integrazioni, nonché dal
presente articolo si applicano alle opere
abusive che risultino ultimate entro il
31.03.2003 e che non abbiano comportato
ampliamento del manufatto superiore al 30
per cento della volumetria della costruzione
originaria o, in alternativa, un ampliamento
superiore a 750 metri cubi. Le suddette
disposizioni trovano, altresì, applicazione
alle opere abusive realizzate nei termini di
cui sopra relative a nuove costruzioni
residenziali non superiori a 750 metri cubi
per singola richiesta di titolo abilitativo
edilizio in sanatoria, a condizione che la
nuova costruzione non superi
complessivamente i 3.000 metri cubi".
La norma, quindi, individua soltanto due
tipologie di abusi condonabili:
a) ampliamenti di edifici, senza differenza
tra destinazione residenziale o non
residenziale, ma con il limite del 30% della
volumetria delle costruzioni originaria o,
in alternativa, del limite massimo di 750
metri cubi);
b) nuove costruzioni a uso residenziale (a
condizione che la costruzione nel complesso
non superi i 3.000 metri cubi e che le
singole richieste di sanatoria non superino
i 750 metri cubi).
“Il semplice tenore letterale della
disposizione esclude la possibilità di
configurare la sanabilità di nuove
costruzioni a uso non residenziale, e
l'interpretazione rigorosa delle norme sulla
sanatoria è sempre stata affermata dalla
Corte Costituzionale, in ragione del
carattere eccezionale di tali disposizioni
(sentenze n. 427/1995 e 416/1995; ordinanze
n. 174/2002, e n. 45/2001). La predetta
rigorosa interpretazione della norma in
questione è stata, inoltre, costantemente
affermata dalla giurisprudenza penale che ha
espressamente escluso la possibilità di
ammettere il condono degli immobili non
aventi destinazione residenziale, poiché
"per le nuove costruzioni il beneficio è
limitato alle sole costruzioni non
residenziali" (cfr. Cassazione, III
Sezione Penale, n. 25197 del 20.06.2008;
19.01.2007, n. 8067; 06.09.2006, n. 29764).
Ancora, la questione della possibile
condonabilità delle nuove costruzioni a uso
non residenziale è stata esaminata
dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato n. 4/2009. Tale decisione -sebbene
concernente la diversa ipotesi della non
condonabilità delle nuove costruzioni non
residenziali realizzate sulla base di
regolari concessioni edilizie, poi,
annullate in sede giurisdizionale a
costruzione già ultimata- contiene tuttavia
una serie di principi di carattere generale
in base ai quali non è possibile
l'individuazione di ulteriori ipotesi di
sanatoria al di fuori di quelle
espressamente e tassativamente previste dal
legislatore "...atteso che lo stesso
legislatore qualifica le ipotesi elencate
nell'allegato come "tipologie di illecito" e
che, quindi, data la loro natura di illecito
amministrativo a rilevanza penale, vanno
tassativamente individuate, sia al fine di
farle diventare oggetto di ipotesi di
illecito amministrativo o di reato e sia,
all'opposto fine, di escluderne la
punibilità e la conseguente possibilità di
sanatoria, che costituiscono gli effetti
fondamentali dell'eccezionale provvedimento
di condono ...".
Quindi, la mancanza di una disposizione
espressa da una parte e il carattere
assolutamente eccezionale delle norme in
tema di condono dall'altra, non possono
consentire ulteriori e non previste ipotesi
di sanatoria (come ingiustificatamente fatto
con la circolare 2699/2005, citata da parte
ricorrente che oltre a non poter derogare
alla legge, in ogni caso è stato oggetto di
atto di sindacato ispettivo contenendo
un'interpretazione contra legem
dell'articolo 32 del decreto-legge, nel
quale la sanabilità di immobili nuovi non
residenziali non è contemplata).” (TAR
Catania, 14.04.2011, n. 932)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 09.07.2012 n. 1443 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ordinanza
di sospensione dei lavori è un provvedimento
eccezionale, con efficacia strettamente
limitata nel tempo ed avente il solo scopo
(cautelare) di impedire il procedere della
costruzione, in modo da consentire alla P.A.
di potersi determinare con una misura
sanzionatoria, con la conseguenza che, a
seguito dello spirare del termine di 45
giorni, ove l’Amministrazione non abbia
emanato alcun provvedimento sanzionatorio
definitivo, l’ordine in questione perde ogni
efficacia. Tale ordinanza di sospensione dei
lavori, proprio per il suo carattere
temporaneo e provvisorio, si fonda,
pertanto, su di un’istruttoria sommaria.
Quanto, invero,
all’impugnativa dell’ordinanza di
sospensione dei lavori, va ricordato che, in
base all’art. 27, comma 3, del T.U.
dell’edilizia, l’Amministrazione, quando
accerti “l’inosservanza delle norme,
prescrizioni e modalità” costruttive,
“ordina l’immediata sospensione dei lavori,
che ha effetto fino all’adozione dei
provvedimenti definitivi di cui ai
successivi articoli, da adottare e
notificare entro quarantacinque giorni
dall’ordine di sospensione dei lavori”.
Ora, interpretando tale normativa, la
giurisprudenza amministrativa ha già
precisato che l’ordinanza di sospensione dei
lavori è un provvedimento eccezionale, con
efficacia strettamente limitata nel tempo ed
avente il solo scopo (cautelare) di impedire
il procedere della costruzione, in modo da
consentire alla P.A. di potersi determinare
con una misura sanzionatoria, con la
conseguenza che, a seguito dello spirare del
termine di 45 giorni, ove l’Amministrazione
non abbia emanato alcun provvedimento
sanzionatorio definitivo, l’ordine in
questione perde ogni efficacia. Tale
ordinanza di sospensione dei lavori, proprio
per il suo carattere temporaneo e
provvisorio, si fonda, pertanto, su di
un’istruttoria sommaria (Cons. St., sez. IV,
24.12.2008, n. 6550)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 09.07.2012 n. 342 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: L'art.
17, della L. 17.08.1942 n. 1150, prevede,
nel caso di scadenza per decorso del
termine, la sola decadenza dei vincoli e
degli speciali poteri che la legge
urbanistica attribuisce all'Amministrazione
per consentire la realizzazione del
programma urbanistico, mentre rimangono "ultrattive"
quelle disposizioni del piano scaduto,
disciplinanti l'edificazione ed, in
particolare, delle prescrizioni di zona e di
quelle relative agli allineamenti, stante
l'esigenza di evitare che, a fronte di un
programma urbanistico in parte già
realizzato, i nuovi interventi edilizi non
si coordinino con il disegno urbanistico
sino ad allora seguito, così alterandolo.
A tale riguardo, in sostanza, il citato art.
17, legge 17.08.1942 n. 1150, nel
dettare che il piano particolareggiato
«diventa inefficace per la parte in cui non
abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto
fermo a tempo indeterminato l'obbligo di
osservare nella costruzione di nuovi edifici
e nella modificazione di quelli esistenti
gli allineamenti e le prescrizioni di zona
stabiliti dal piano stesso», comporta una
scissione tra le prescrizioni ulteriormente
vigenti, che hanno carattere meramente conformativo, e quelle che vanno invece
incluse nella nozione di attuazione, che
hanno un contenuto pregnante più forte,
tanto da comprendere non solo possibilità
espropriative, ma anche veri e propri
obblighi di fare in capo ai soggetti
destinatari.
Mentre le prime, quelle di carattere
conformativo, sono ultrattive rispetto alla
decadenza del termine di validità, le
seconde, quelle di carattere maggiormente
cogente, vengono invece travolte dallo
spirare del termine massimo.
Quanto alla seconda questione -l’esistenza di un piano particolareggiato
con riferimento alla previsione
dell’inapplicabilità dell’art. 44 ai “piani
attuativi in corso di validità”- il
Collegio osserva quanto segue.
La possibilità di effettuare la
ristrutturazione era effettivamente stata
prevista nel piano particolareggiato di cui
alla delibera n. 112 del 05.08.1994, che ne
disciplinava le specifiche modalità.
Al momento dell’entrata in vigore della
legge regionale 11.08.1999, n. 23 non erano
decorsi i termini di validità del medesimo
piano.
Il piano, però, in conformità all’art. 16,
legge n. 1150 del 1942 e in mancanza di
diverse previsioni, aveva validità decennale
e, pertanto, risultava essere già scaduto
alla data di richiesta del permesso di
costruire e alle condizioni esistenti a tale
data deve essere riferita la valutazione di
legittimità di quest’ultimo.
Ora, con lo cadere del termine di validità
del piano particolareggiato è
automaticamente venuta meno la causa di
esclusione delle limitazioni
dell’edificabilità delle aree previste
dall’art. 44 della legge regionale per la
presenza di piani attuativi.
Ciò per un duplice ordine di ragioni.
La prima ragione è di carattere testuale, in
quanto la norma in questione esclude
espressamente le limitazioni in questione
solo in presenza di “piani attuativi in
corso di validità”, negando quindi
esplicitamente la sua applicabilità ai piani
attuativi scaduti come quello in questione.
Tale motivo di carattere letterale è però
sostenuto anche da una ragione di carattere
sostanziale, da ravvisare nella ratio
dell’esenzione prevista dalla norma di
salvaguardia ovverosia quella di limitare
l’operatività delle prescrizioni limitative
solo a specifici interventi, in vista della
loro concreta esecuzione (come i permessi di
costruire già rilasciati e appunto i piani
attuativi validi).
Ora, ben conosce il Collegio che l'art. 17,
della L. 17.08.1942 n. 1150, prevede,
nel caso di scadenza per decorso del
termine, la sola decadenza dei vincoli e
degli speciali poteri che la legge
urbanistica attribuisce all'Amministrazione
per consentire la realizzazione del
programma urbanistico, mentre rimangono "ultrattive"
quelle disposizioni del piano scaduto,
disciplinanti l'edificazione ed, in
particolare, delle prescrizioni di zona e di
quelle relative agli allineamenti, stante
l'esigenza di evitare che, a fronte di un
programma urbanistico in parte già
realizzato, i nuovi interventi edilizi non
si coordinino con il disegno urbanistico
sino ad allora seguito, così alterandolo
(cfr. TAR Lazio Latina, 10.06.2006,
n. 367).
A tale riguardo, in sostanza, il citato art.
17, legge 17.08.1942 n. 1150, nel
dettare che il piano particolareggiato
«diventa inefficace per la parte in cui non
abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto
fermo a tempo indeterminato l'obbligo di
osservare nella costruzione di nuovi edifici
e nella modificazione di quelli esistenti
gli allineamenti e le prescrizioni di zona
stabiliti dal piano stesso», comporta una
scissione tra le prescrizioni ulteriormente
vigenti, che hanno carattere meramente conformativo, e quelle che vanno invece
incluse nella nozione di attuazione, che
hanno un contenuto pregnante più forte,
tanto da comprendere non solo possibilità
espropriative, ma anche veri e propri
obblighi di fare in capo ai soggetti
destinatari.
Mentre le prime, quelle di carattere
conformativo, sono ultrattive rispetto alla
decadenza del termine di validità, le
seconde, quelle di carattere maggiormente
cogente, vengono invece travolte dallo
spirare del termine massimo (TAR Campania
Napoli, sez. VIII, 11.01.2008, n. 158)
(TAR Basilicata,
sentenza 06.07.2012 n.
330 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Natura pertinenziale di un
manufatto.
La natura pertinenziale di un manufatto non
può essere astrattamente desunta
esclusivamente dalla destinazione (peraltro,
nella fattispecie, soltanto dichiarata e
pure incerta: «lavanderia o legnaia»)
o dalle caratteristiche costruttive, ma deve
risultare dalla oggettiva compresenza dei
requisiti richiesti (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 03.07.2012 n. 25669 - tratto
da www.lexambiente.it). |
URBANISTICA: E'
legittima l’adozione di un piano regolatore
o di una sua variante operata mediante
delibere separate -relative a singole zone
del territorio comunale- per l’assunzione
delle quali si sono astenuti quei
consiglieri che risultano incompatibili ai
sensi dell’art. 78 del D.Lgs. 18.08.2000 n.
267, purché alle suddette votazioni
frazionate di singoli segmenti della nuova
disciplina urbanistica segua poi un’analisi
complessiva ed un’approvazione finale del
suo inscindibile contenuto globale.
Tale votazione separata e frazionata su
singole componenti del piano è anche
ragionevole e realistica, tenuto conto della
situazione dei piccoli comuni, nei quali
gran parte dei consiglieri e dei loro
parenti e affini sono proprietari di terreni
incisi dalle previsioni urbanistiche.
---------------
Il Consiglio comunale ben può raggruppare e
decidere congiuntamente con un’unica
votazione, per ragioni di economia
procedimentale, più osservazioni formulate
avverso un piano urbanistico.
Tale esame congiunto può, invero,
pacificamente e normalmente riguardare
osservazioni “omogenee”, cioè per quelle a
contenuto sostanzialmente identico o quanto
meno similare, attinenti ad una stessa
previsione urbanistica, tutte le volte in
cui il Consiglio comunale ritenga di dover
respingerle o accoglierle “in blocco” con
una stessa motivazione all’evidente scopo di
evitare una disparità di trattamento;
tuttavia, è stato anche evidenziato che la
votazione in blocco con “accoglimento” di
alcune e, nel contempo, di “rigetto” di
altre, ove assunta dalla “sola” maggioranza
consigliare e non all’unanimità, può
costituire in astratto una indebita
limitazione del diritto di ogni singolo
consigliere di poter esprimere il proprio
voto su ciascuna di esse in modo
eventualmente diverso rispetto a quello già
rispettivamente “predefinito” nella proposta
agli atti del Consiglio.
Va ricordato che nei confronti della
deliberazione di adozione del piano (ndr:
regolatore) il ricorrente con il primo
motivo di ricorso si è lamentato del fatto
che il Consiglio aveva proceduto alle
votazioni frazionate (128) di ogni singola
scheda del piano con l’astensione dei
singoli consiglieri interessati, ma che a
tali votazioni non era poi seguita
un’approvazione finale ed unitaria del
piano.
Va sul punto ricordato che la giurisprudenza
amministrativa ha già ritenuta legittima
l’adozione di un piano regolatore o di una
sua variante operata mediante delibere
separate -relative a singole zone del
territorio comunale- per l’assunzione delle
quali si erano astenuti quei consiglieri che
risultavano incompatibili ai sensi dell’art.
78 del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267, purché alle
suddette votazioni frazionate di singoli
segmenti della nuova disciplina urbanistica
fosse poi seguita da un’analisi complessiva
ed un’approvazione finale del suo
inscindibile contenuto globale.
Tale votazione separata e frazionata su
singole componenti del piano -si è, inoltre,
affermato- è anche ragionevole e realistica,
tenuto conto della situazione dei piccoli
comuni, nei quali gran parte dei consiglieri
e dei loro parenti e affini sono proprietari
di terreni incisi dalle previsioni
urbanistiche (Cons. St., sez. IV,
22.06.2004, n. 4429, e TAR Veneto, sez. I,
06.08.2003, n. 4159).
---------------
Quanto alla
prima va evidenziato che il Consiglio
comunale ben può raggruppare e decidere
congiuntamente con un’unica votazione, per
ragioni di economia procedimentale, più
osservazioni formulate avverso un piano
urbanistico.
Tale esame congiunto può, invero,
pacificamente e normalmente riguardare
osservazioni “omogenee”, cioè per
quelle a contenuto sostanzialmente identico
o quanto meno similare, attinenti ad una
stessa previsione urbanistica, tutte le
volte in cui il Consiglio comunale ritenga
di dover respingerle o accoglierle “in
blocco” con una stessa motivazione
all’evidente scopo di evitare una disparità
di trattamento (Cons. St., Sez. IV,
06.06.2008, n. 2681); tuttavia, è stato
anche evidenziato che la votazione in blocco
con “accoglimento” di alcune e, nel
contempo, di “rigetto” di altre, ove
assunta dalla “sola” maggioranza
consigliare e non all’unanimità, può
costituire in astratto una indebita
limitazione del diritto di ogni singolo
consigliere di poter esprimere il proprio
voto su ciascuna di esse in modo
eventualmente diverso rispetto a quello già
rispettivamente “predefinito” nella
proposta agli atti del Consiglio
(TAR
Abruzzo-Pescara,
sentenza 03.07.2012 n. 333 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
deliberazione comunale di esame delle
controdeduzioni del privato alla delibera di
adozione di variante di piano regolatore non
è autonomamente impugnabile, in quanto,
trattandosi di atto endoprocedimentale, tale
deliberazione è insuscettibile ex se di
determinare una lesione di interessi,
riconducibile solo all’adozione e/o
all’approvazione dello strumento
urbanistico.
Come è noto, infatti, la deliberazione
comunale di esame delle controdeduzioni del
privato alla delibera di adozione di
variante di piano regolatore non è
autonomamente impugnabile, in quanto,
trattandosi di atto endoprocedimentale, tale
deliberazione è insuscettibile ex se di
determinare una lesione di interessi,
riconducibile solo all’adozione e/o
all’approvazione dello strumento urbanistico
(Cons. St., sez. IV, 21.08.2009, n. 5002,
TAR Lombardia, sede Milano, sez. II,
15.12.2009, n. 5336, e TAR Umbria,
31.08.2010, n. 440)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 03.07.2012 n. 331 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
d.m. 02.04.1968 n. 1444, che fissa i limiti
“inderogabili” di distanza fra i fabbricati,
prevede all’art. 9 che tra i fabbricati
debba rispettata “in tutti i casi” la
distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti,
con possibilità di ammettere distanze
inferiori, solo relativamente alle ipotesi
di ristrutturazione in zone A e “nel caso di
gruppi di edifici che formino oggetto di
piani particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate con previsioni plano
volumetriche”.
La ratio di tale normativa, come sembra
evidente, è quella non di tutela del diritto
alla riservatezza, bensì di salvaguardia di
imprescindibili esigenze igienico-sanitarie:
trattasi cioè di norma volta ad impedire la
formazione di intercapedini nocive sotto il
profilo igienico-sanitario. Tali distanze
tra costruzioni sono, cioè, predeterminate
con carattere cogente in via generale ed
astratta, in considerazione delle esigenze
collettive connesse ai bisogni di igiene e
di sicurezza, di modo che al giudice non è
lasciato alcun margine di discrezionalità
nell’applicazione della disciplina in
materia di equo contemperamento degli
opposti interessi.
Va, invero, rilevato che il decreto del
Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968 n.
1444, che fissa i limiti “inderogabili”
di distanza fra i fabbricati, prevede
all’art. 9 che tra i fabbricati debba
rispettata “in tutti i casi” la
distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti,
con possibilità di ammettere distanze
inferiori, solo relativamente alle ipotesi
di ristrutturazione in zone A e “nel caso di
gruppi di edifici che formino oggetto di
piani particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate con previsioni plano
volumetriche”.
La ratio di tale normativa, come
sembra evidente, è quella non di tutela del
diritto alla riservatezza, bensì di
salvaguardia di imprescindibili esigenze
igienico-sanitarie: trattasi cioè di norma
volta ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario. Tali distanze tra
costruzioni sono, cioè, predeterminate con
carattere cogente in via generale ed
astratta, in considerazione delle esigenze
collettive connesse ai bisogni di igiene e
di sicurezza, di modo che al giudice non è
lasciato alcun margine di discrezionalità
nell’applicazione della disciplina in
materia di equo contemperamento degli
opposti interessi (Cons. St., sez. IV,
12.06.2007, n. 3094, e 05.12.2005, n. 6909)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 03.07.2012 n. 328 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Pneumatici usati e fuori
uso.
Gli pneumatici «usati», intendendosi
come tali quelli ricostruibili o
utilizzabili direttamente e rispetto ai
quali non risulti l'obiettiva volontà di
disfarsene da parte del detentore, non
rientrano nel novero dei rifiuti a
differenza degli pneumatici «fuori uso», che
invece il legislatore espressamente
individua come tali e che, per degrado o
altre condizioni , abbiano perso la loro
funzione originaria (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 27.06.2012 n. 25358 - tratto
da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Sull'esatta
portata dell'art. 21, co. 5, l.r. lombarda
n. 26/2003, il quale
riconosce:
a) che gli interventi di bonifica o di messa
in sicurezza permanente costituiscono opere
di urbanizzazione secondaria;
b) che tali opere “esclusivamente se
insistenti nei siti di interesse nazionale”,
se eseguite da particolari soggetti, “sono
da considerare a scomputo degli oneri di
urbanizzazione secondaria per l’importo
corrispondente al 50 per cento del relativo
ammontare”.
In linea generale, occorre osservare che
l’art. 16 DPR 06.06.2001 n. 380 prevede
che “il rilascio del permesso di
costruire comporta la corresponsione di un
contributo commisurato all’incidenza degli
oneri di urbanizzazione nonché al costo di
costruzione..." (comma 1).
Il successivo comma 2 prevede che “a
scomputo totale o parziale della quota
dovuta, il titolare del permesso di
costruire può obbligarsi a realizzare
direttamente le opere di urbanizzazione”
nel rispetto dell’art. 2, co. 5, l. n.
109/1994 (ora art. 32 d. lgs. n. 163/2006).
Dal pur rapido richiamo delle disposizioni
suddette, si evince che, nel nostro
ordinamento, il principio generale è
l’onerosità del permesso di costruire,
costituendo sia l’esenzione dal contributo,
sia la realizzazione di opere a scomputo
degli oneri di urbanizzazione una eccezione,
nei modi e termini indicati dal legislatore.
E’ in tale quadro normativo che si iscrive
l’art. 21, co. 5, l. reg. lombarda 26/2003, il quale
riconosce:
a) che gli interventi di bonifica o di messa
in sicurezza permanente costituiscono opere
di urbanizzazione secondaria;
b) che tali opere “esclusivamente se
insistenti nei siti di interesse nazionale”,
se eseguite da particolari soggetti, “sono
da considerare a scomputo degli oneri di
urbanizzazione secondaria per l’importo
corrispondente al 50 per cento del relativo
ammontare”;
c) che i comuni hanno facoltà di aumentare
la misura dello scomputo, in considerazione
della rilevanza della bonifica.
Come è evidente, ricorre, nel caso di
specie, una norma eccezionale, la quale, in
primo luogo, introduce una deroga alla norma
generale sulla onerosità del permesso di
costruire; in secondo luogo qualifica
determinati interventi di bonifica e di
messa in sicurezza come opere di
urbanizzazione secondaria, così precisando
quanto indicato nell’art. 16, co. 8, DPR n.
380/2001, il quale include, tra dette opere,
quelle destinate “alla bonifica di aree
inquinate”.
Peraltro, l’effetto agevolativo introdotto
dalla norma regionale concerne, oltre alla
chiara individuazione delle opere come
rientranti nella categoria di quelle “di
urbanizzazione secondaria”, anche nella
“doverosità” dello scomputo di quanto
sostenuto per la loro realizzazione dagli
oneri di urbanizzazione (non residuando in
capo al Comune alcun margine di
discrezionalità, se non –in talune ipotesi–
in melius nell’applicazione
dell’aliquota-base), e la misura dello
scomputo.
Tale effetto agevolativo è, per quel che qui
interessa, limitato agli interventi nei
“siti di interesse nazionale”.
Il successivo comma 7 dell’art. 21 rende
applicabili, tra le altre, le agevolazioni
di cui al comma 5, ora descritte,
“integralmente”, in favore di soggetti che
acquisiscono la proprietà delle aree
nell’ambito di procedure concorsuali.
Orbene, occorre innanzi tutto escludere
(unica interpretazione “letterale”
dell’avverbio “integralmente” non offerta in
causa), che tale avverbio intenda disporre
una applicazione appunto “integrale”,
“totale” del comma richiamato, poiché il
significato rafforzativo non avrebbe senso,
bastando a tali fini meramente disporre
l’applicazione della norma richiamata.
L’avverbio è stato dunque interpretato
(innanzi tutto dal Comune di Milano), come
riferito alla “misura” dell’agevolazione, di
modo che il limite di scomputo, indicato nel
50% degli oneri di urbanizzazione, deve
intendersi riferito al 100% (cioè nella sua
misura integrale), qualora il sito inquinato
è acquisito nell’ambito di procedure
concorsuali.
Il legislatore, dunque, procede “per
addizione” di condizioni: semplificando,
mentre la agevolazione dello scomputo pari
al 50% riguarda i “siti di interesse
nazionale”, la agevolazione “maggiorata”
(cioè nella misura integrale, pari al 100%),
riguarda quei medesimi sirti di interesse
nazionale acquisiti nell’ambito delle ora
citate procedure, e non certo “tutti” i
siti, purché acquistati nell’ambito di
procedure concorsuali,
Dunque, sia per effetto del rinvio
effettuato al comma 5 (che non può che
riguardare la fattispecie agevolata, e non
solo la misura dell’agevolazione), sia
perché una “maggiorazione” della misura
dell’agevolazione non può che presupporre
una agevolazione–base (e complessivamente
intesa) da maggiorare, appare evidente come
già l’interpretazione letterale conduca a
condividere l’interpretazione offerta dalla
sentenza appellata.
A ciò occorre aggiungere (condividendo una
argomentazione del Comune di Milano: v. pag.
9 memoria 06.02.2012), che,
trattandosi, nel caso di specie, di norme
eccezionali, in quanto derogatorie all’art.
16 DPR n. 380/2001, esse sono di “stretta
interpretazione”, di modo che –di fronte a
due possibili interpretazioni ambedue
astrattamente plausibili– occorre
prescegliere quella che realizza il minor
ampliamento dell’ambito di applicazione
della norma derogatoria, e quindi evitando
correlativamente più ampie “compressioni”
della norma generale.
D’altra parte, come evidenziato dalla
sentenza appellata, la stessa ratio della
disciplina di cui all’art. 21 l. reg. n.
26/2003 conduce alla plausibilità
dell’interpretazione ora offerta,
Infatti, sono i “siti di interesse
nazionale” ad essere “caratterizzati da
fenomeni di inquinamento di particolare
gravità e di rilevante allarme per la salute
pubblica”, di modo che ben si giustifica la
previsione di particolari e più incisive
agevolazioni per gli interventi in essi
realizzati.
Tale previsione –lungi dal costituire “disparità
di trattamento”, come lamentato
dall’appellante– si giustifica proprio in
ragione delle differenti (e più gravi)
condizioni entro le quali si pone
l’intervento.
Allo steso modo, si giustifica anche
l’ulteriore agevolazione per quei siti (di
interesse nazionale) acquisiti nell’ambito
di procedure concorsuali, intendendo il
legislatore invogliare –come sostenuto dal I
giudice– “gli operatori economici a
comprare immobili e compendi inseriti nelle
suddette procedure”.
D’altra parte, a voler ritenere che il
rinvio operato dal comma 7 al comma 5, si
riferisca solo alla misura dell’agevolazione
e non anche alle condizioni per
l’applicazione della medesima, si
perverrebbe (anche qui concordando con la
sentenza appellata) al paradossale risultato
che gli interventi effettuati in siti
inquinati di qualsiasi livello, purché
acquisiti nell’ambito di procedure
concorsuali, sarebbero meglio considerati,
sul piano delle agevolazioni, rispetto agli
interventi effettuati in siti di massima
compromissione, quali sono i siti di
interesse nazionale.
Proprio seguendo l’interpretazione
dell’appellante, dunque, si perverrebbe ad
una irragionevolezza della norma, tale da
far dubitare della sua legittimità
costituzionale
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza IV,
sentenza 15.05.2012 n. 2754 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
(i) in base alla norma sulla competenza
professionale, i geometri devono astenersi
dalla progettazione e dalla direzione lavori
che riguardino opere in cemento armato, con
la sola eccezione delle piccole costruzioni
accessorie in ambito agricolo. Dunque le
costruzioni civili che comportano l’uso di
cemento armato fuoriescono dalla competenza
dei geometri, anche se si mantengono nei
limiti delle “modeste costruzioni”.
(ii) la severità della norma è attenuata
dalla prassi di suddividere la progettazione
e la direzione lavori in due parti, una
riferita alle opere in cemento armato e una
incentrata sugli aspetti architettonici.
Questa soluzione si muove lungo un confine
incerto, e potrebbe facilmente prestarsi a
comportamenti elusivi della norma. Sono
considerati comportamenti elusivi la
controfirma o il visto del progetto da parte
di un ingegnere o architetto e l’affidamento
a questi ultimi dei calcoli relativi al
cemento armato.
(iii) tuttavia, se la separazione delle
attività di progettazione e direzione lavori
è effettiva e non simulata, e a ciascun
professionista è riservata nel suo ambito
piena responsabilità, questa appare una via
praticabile per coordinare le due parti che
qui interessano dell’art. 16 del RD
274/1929, quella che esclude il cemento
armato dalla competenza professionale dei
geometri in relazione alle costruzioni
civili (lett. l) e quella che estende ai
geometri la progettazione e la direzione
lavori con riferimento alle costruzioni
civili di modesta importanza (lett. m).
Poiché anche le costruzioni civili di
modesta importanza possono richiedere
l’impiego di cemento armato, non sarebbe
corretto interdire in questi casi ai
geometri una porzione rilevante della loro
competenza professionale, quando sia invece
possibile scorporare in modo chiaro ed
effettivo dalla progettazione e dalla
direzione lavori tutta l’attività riferibile
al cemento armato. Lo scorporo appare la
soluzione preferibile alla luce del
principio di proporzionalità (non devono
essere inflitte alla competenza
professionale dei geometri limitazioni
maggiori di quelle strettamente necessarie a
garantire la sicurezza delle persone).
---------------
(iv) gli ordini e i collegi professionali
hanno interesse e legittimazione a tutelare
le prerogative delle rispettive categorie di
professionisti, tanto in sede
giurisdizionale quanto davanti all’autorità
amministrativa. Non vi sono però norme
puntuali che consentano agli ordini e ai
collegi professionali di agire direttamente
in autotutela contro i professionisti della
categoria concorrente che effettuano
un’invasione di campo, né un simile potere è
desumibile in via generale dalle funzioni di
interesse pubblico svolte da questi
organismi.
(v) nello specifico, quindi, l’Ordine degli
Architetti non è legittimato a bloccare la
procedura di collaudo statico rifiutandosi
di designare la terna di nomi per la scelta
del collaudatore. In questo modo infatti
verrebbe interrotto l’iter che porta al
rilascio del certificato di agibilità (v.
art. 25, comma 3, e art. 67, comma 8, del
DPR 380/2001) e vi sarebbe un’intromissione
nei poteri di controllo dell’amministrazione
comunale, la quale è l’unico soggetto
titolato a decidere delle condizioni di
utilizzabilità di un edificio.
(vi) l’Ordine degli Architetti può invece
intervenire a difesa della categoria con
altri strumenti: (1) all’inizio del percorso
di edificazione, impugnando il titolo
edilizio che approva il progetto redatto dal
professionista non competente, o invitando
l’amministrazione comunale a effettuare un
annullamento in autotutela; (2) alla fine,
segnalando all’amministrazione comunale che
dal collaudo emerge il mancato rispetto
della riserva sul cemento armato, o
impugnando il certificato di agibilità che
non tenga conto della violazione della
suddetta riserva. Questi profili sono però,
come è evidente, estranei al presente
giudizio.
Il presente ricorso, promosso dal
Collegio dei Geometri e dei Geometri
Laureati di Bergamo, riguarda il rifiuto
dell’Ordine degli Architetti Pianificatori
Paesaggisti e Conservatori di Bergamo di
designare la terna di nomi per la scelta del
collaudatore ai fini del collaudo statico
delle opere in cemento armato (v. art. 67,
comma 4, del DPR 06.06.2001 n. 380) quando
alla realizzazione abbiano prestato la loro
attività professionale dei geometri. Nei
casi portati all’attenzione del TAR le
prestazioni professionali consistono nella
progettazione architettonica e nella
direzione lavori per il progetto
architettonico.
La vicenda è stata marginalmente
esaminata da questo TAR nella sentenza non
definitiva n. 635 del 17.04.2012 in
relazione a un’istanza di accesso.
La tesi dell’Ordine degli Architetti si
può così riassumere:
(a) la competenza professionale dei geometri
(v. art. 16 del RD 11.02.1929 n. 274)
consiste in “progetto, direzione,
sorveglianza e liquidazione di costruzioni
rurali e di edifici per uso d'industrie
agricole, di limitata importanza, di
struttura ordinaria, comprese piccole
costruzioni accessorie in cemento armato,
che non richiedono particolari operazioni di
calcolo e per la loro destinazione non
possono comunque implicare pericolo per la
incolumità delle persone” (lett. l), nonché
in “progetto, direzione e vigilanza di
modeste costruzioni civili” (lett. m);
(b) non sono ricomprese in tali elenchi le
attività di progettazione e direzione lavori
riguardanti le costruzioni civili in cemento
armato, che restano pertanto affidate in via
esclusiva a ingegneri e architetti;
(c) la necessità del rispetto delle
competenze professionali è ribadita,
rispettivamente per la progettazione e la
direzione lavori relative a opere in cemento
armato, dall’art. 64, commi 2 e 3, del DPR
380/2001;
(d) di conseguenza non è possibile per gli
architetti partecipare al collaudo di opere
in cemento armato in relazione alle quali i
geometri, non attenendosi alle proprie
competenze professionali, abbiano svolto
attività di progettazione architettonica e
di direzione lavori per il progetto
architettonico (sarebbe come chiedere di
avallare un abuso edilizio).
Sulla vicenda così sintetizzata si
possono svolgere le seguenti considerazioni:
(i) in base alla norma sulla competenza
professionale, i geometri devono astenersi
dalla progettazione e dalla direzione lavori
che riguardino opere in cemento armato, con
la sola eccezione delle piccole costruzioni
accessorie in ambito agricolo. Dunque le
costruzioni civili che comportano l’uso di
cemento armato fuoriescono dalla competenza
dei geometri, anche se si mantengono nei
limiti delle “modeste costruzioni” (v. Cass.
civ. Sez. II 14.02.2012 n. 2153);
(ii) la severità della norma è attenuata
dalla prassi di suddividere la progettazione
e la direzione lavori in due parti, una
riferita alle opere in cemento armato e una
incentrata sugli aspetti architettonici.
Questa soluzione si muove lungo un confine
incerto, e potrebbe facilmente prestarsi a
comportamenti elusivi della norma. Sono
considerati comportamenti elusivi la
controfirma o il visto del progetto da parte
di un ingegnere o architetto e l’affidamento
a questi ultimi dei calcoli relativi al
cemento armato (v. Cass. civ. Sez. II 02.09.2011 n. 18038);
(iii) tuttavia, se la separazione delle
attività di progettazione e direzione lavori
è effettiva e non simulata, e a ciascun
professionista è riservata nel suo ambito
piena responsabilità, questa appare una via
praticabile per coordinare le due parti che
qui interessano dell’art. 16 del RD
274/1929, quella che esclude il cemento
armato dalla competenza professionale dei
geometri in relazione alle costruzioni
civili (lett. l) e quella che estende ai
geometri la progettazione e la direzione
lavori con riferimento alle costruzioni
civili di modesta importanza (lett. m).
Poiché anche le costruzioni civili di
modesta importanza possono richiedere
l’impiego di cemento armato, non sarebbe
corretto interdire in questi casi ai
geometri una porzione rilevante della loro
competenza professionale, quando sia invece
possibile scorporare in modo chiaro ed
effettivo dalla progettazione e dalla
direzione lavori tutta l’attività riferibile
al cemento armato. Lo scorporo appare la
soluzione preferibile alla luce del
principio di proporzionalità (non devono
essere inflitte alla competenza
professionale dei geometri limitazioni
maggiori di quelle strettamente necessarie a
garantire la sicurezza delle persone);
(iv) gli ordini e i collegi professionali
hanno interesse e legittimazione a tutelare
le prerogative delle rispettive categorie di
professionisti, tanto in sede
giurisdizionale quanto davanti all’autorità
amministrativa. Non vi sono però norme
puntuali che consentano agli ordini e ai
collegi professionali di agire direttamente
in autotutela contro i professionisti della
categoria concorrente che effettuano
un’invasione di campo, né un simile potere è
desumibile in via generale dalle funzioni di
interesse pubblico svolte da questi
organismi;
(v) nello specifico quindi l’Ordine degli
Architetti non è legittimato a bloccare la
procedura di collaudo statico rifiutandosi
di designare la terna di nomi per la scelta
del collaudatore. In questo modo infatti
verrebbe interrotto l’iter che porta al
rilascio del certificato di agibilità (v.
art. 25, comma 3, e art. 67, comma 8, del DPR
380/2001) e vi sarebbe un’intromissione nei
poteri di controllo dell’amministrazione
comunale, la quale è l’unico soggetto
titolato a decidere delle condizioni di
utilizzabilità di un edificio;
(vi) l’Ordine degli Architetti può invece
intervenire a difesa della categoria con
altri strumenti: (1) all’inizio del percorso
di edificazione, impugnando il titolo
edilizio che approva il progetto redatto dal
professionista non competente, o invitando
l’amministrazione comunale a effettuare un
annullamento in autotutela; (2) alla fine,
segnalando all’amministrazione comunale che
dal collaudo emerge il mancato rispetto
della riserva sul cemento armato, o
impugnando il certificato di agibilità che
non tenga conto della violazione della
suddetta riserva. Questi profili sono però,
come è evidente, estranei al presente
giudizio.
Sussistono pertanto i presupposti per
l’accoglimento della domanda cautelare.
L’Ordine degli Architetti è tenuto a
procedere, nel termine di 30 giorni dal
deposito della presente ordinanza, alla
designazione delle terne per la scelta dei
collaudatori in risposta alle richieste già
pervenute, e a effettuare sollecitamente le
designazioni con riguardo alle richieste che
arriveranno in futuro (TAR Lombardia-Brescia,
Sez. II,
ordinanza 10.05.2012 n. 207 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'impugnazione dei
titoli edilizi è consentita in capo a
chiunque si trovi in una situazione di
stabile collegamento con la zona interessata
dalla costruzione assentita, a prescindere
da ogni indagine sulla sussistenza di un
ulteriore specifico interesse, essendo
sufficiente la cd. vicinitas, quale elemento
che distingue la posizione giuridica del
ricorrente da quella della generalità dei
consociati, di talché è corretto
riconoscere, a chi si trovi in tale
situazione, un interesse tutelato a ché il
provvedimento dell'Amministrazione sia
procedimentalmente e sostanzialmente
ossequioso delle norme vigenti in materia.
Deve essere infatti riconosciuta la
posizione di interesse che consente
l'impugnativa a chi si trovi in una
situazione di stabile collegamento con la
zona, senza che sia necessaria la prova di
un danno specifico, essendo questo insito
nella violazione edilizia. Consegue che la
stessa posizione della società ricorrente di
confinaria con l’area oggetto degli
interventi contestati ne qualifica
l’interesse sostanziale dedotto in giudizio,
senza che in proposito siano necessari
ulteriori verifiche dei possibili vantaggi
correlati alla declaratoria giudiziale
d’illegittimità degli eventi lesivi.
---------------
Il soggetto legittimato all’impugnativa
incorre nella decadenza solo se abbia avuto
la possibilità di rendersi conto della
concreta lesività del provvedimento, tenuto
conto che in materia edilizia ai fini
dell’inizio della decorrenza del termine per
impugnare i titoli legittimanti non basta la
semplice notizia del rilascio dell’atto o la
vaga cognizione del suo contenuto.
Di per sé la pubblicità di fatto, attuata
mediante cartello di cantiere, non è
rilevante per provocare la piena conoscenza,
anche se indica gli estremi del
provvedimento, così come il mero inizio o lo
svolgimento dei lavori di costruzione, o la
pubblicazione del progetto all’albo
pretorio.
Viceversa la giurisprudenza si è consolidata
nel ritenere che possono trarsi decisivi
elementi presuntivi qualora le opere
rivelino, in modo certo e univoco, le loro
caratteristiche e, quindi, l'entità delle
violazioni urbanistiche e della lesione
eventualmente derivante dal provvedimento,
poiché solo in tale momento possono essere
apprezzate le dimensioni e le
caratteristiche delle opere realizzate,
spettando comunque al resistente la prova
certa della piena conoscenza da parte del
ricorrente del contenuto del progetto
approvato.
Invero, se quanto convenuto dalla
giurisprudenza in tema di impugnazione dei
titoli edificatori corrisponde alla
necessità di temperare i rigidi principi
letterali normativi con la logica, sottesa
alla disciplina della decadenza processuale
nel giudizio amministrativo, di correlare
l’azione alla conoscenza effettiva della
lesività riveniente da irregolarità nel
rilascio dei provvedimenti, non va
trascurata la corrispondente necessità di
garantire la certezza delle situazioni ai
titolari dei permessi di costruire, già
concessioni edificatorie, onde evitare che
permanga in perpetuo incertezza sulla sorte
dei titoli stessi e degli impegni e obblighi
assunti sul presupposto della loro validità;
resta pertanto in capo a coloro che vedono
le proprie posizioni soggettive coinvolte
dai titoli che ritengano illegittimi l’onere
di adoprarsi con la massima diligenza per
tutelare senza indugio i propri interessi.
Sul tema dell’ammissibilità del ricorso in
ragione dell’interesse azionato la
giurisprudenza è attestata nel riconoscere
che l'impugnazione dei titoli edilizi è
consentita in capo a chiunque si trovi in
una situazione di stabile collegamento con
la zona interessata dalla costruzione
assentita, a prescindere da ogni indagine
sulla sussistenza di un ulteriore specifico
interesse, essendo sufficiente la cd.
vicinitas, quale elemento che distingue
la posizione giuridica del ricorrente da
quella della generalità dei consociati, di
talché è corretto riconoscere, a chi si
trovi in tale situazione, un interesse
tutelato a ché il provvedimento
dell'Amministrazione sia procedimentalmente
e sostanzialmente ossequioso delle norme
vigenti in materia (Cons. St., IV,
23.01.2012 n. 284; TAR Campania, Napoli, VI,
02.02.2012 n. 526).
Deve essere infatti riconosciuta la
posizione di interesse che consente
l'impugnativa a chi si trovi in una
situazione di stabile collegamento con la
zona, senza che sia necessaria la prova di
un danno specifico, essendo questo insito
nella violazione edilizia. Consegue che la
stessa posizione della società ricorrente di
confinaria con l’area oggetto degli
interventi contestati ne qualifica
l’interesse sostanziale dedotto in giudizio,
senza che in proposito siano necessari
ulteriori verifiche dei possibili vantaggi
correlati alla declaratoria giudiziale
d’illegittimità degli eventi lesivi.
--------------
Per quanto riguarda la corretta proposizione
del ricorso nei tempi utili a evitarne la
decadenza va richiamata la giurisprudenza
costante del Giudice Amministrativo, secondo
la quale il soggetto legittimato
all’impugnativa incorre nella decadenza solo
se abbia avuto la possibilità di rendersi
conto della concreta lesività del
provvedimento, tenuto conto che in materia
edilizia ai fini dell’inizio della
decorrenza del termine per impugnare i
titoli legittimanti non basta la semplice
notizia del rilascio dell’atto o la vaga
cognizione del suo contenuto (Cons. St., IV,
18.06.2009 n. 4015).
Di per sé la pubblicità di fatto, attuata
mediante cartello di cantiere, non è
rilevante per provocare la piena conoscenza,
anche se indica gli estremi del
provvedimento, così come il mero inizio o lo
svolgimento dei lavori di costruzione, o la
pubblicazione del progetto all’albo pretorio
(Cons. St., IV, n. 4015/2009 cit.; id., V,
19.05.1998 n. 616)
Viceversa la giurisprudenza si è consolidata
nel ritenere che possono trarsi decisivi
elementi presuntivi qualora le opere
rivelino, in modo certo e univoco, le loro
caratteristiche e, quindi, l'entità delle
violazioni urbanistiche e della lesione
eventualmente derivante dal provvedimento
(TAR Lazio, II, 11.04.2011 n. 3193), poiché
solo in tale momento possono essere
apprezzate le dimensioni e le
caratteristiche delle opere realizzate,
spettando comunque al resistente la prova
certa della piena conoscenza da parte del
ricorrente del contenuto del progetto
approvato.
Invero, se quanto convenuto dalla
giurisprudenza in tema di impugnazione dei
titoli edificatori corrisponde alla
necessità di temperare i rigidi principi
letterali normativi con la logica, sottesa
alla disciplina della decadenza processuale
nel giudizio amministrativo, di correlare
l’azione alla conoscenza effettiva della
lesività riveniente da irregolarità nel
rilascio dei provvedimenti, non va
trascurata la corrispondente necessità di
garantire la certezza delle situazioni ai
titolari dei permessi di costruire, già
concessioni edificatorie, onde evitare che
permanga in perpetuo incertezza sulla sorte
dei titoli stessi e degli impegni e obblighi
assunti sul presupposto della loro validità;
resta pertanto in capo a coloro che vedono
le proprie posizioni soggettive coinvolte
dai titoli che ritengano illegittimi l’onere
di adoprarsi con la massima diligenza per
tutelare senza indugio i propri interessi (Cons.St.,
IV, 13.06.2011 n. 3583)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 04.05.2012 n. 4007 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel caso di ricorsi
proposti avverso d.i.a. e s.c.i.a.
anteriormente all'esercizio del potere
inibitorio da parte dell’amministrazione, in
virtù del principio di economia processuale,
l'azione di accertamento, una volta maturato
il termine per la definizione del
procedimento amministrativo, si converte
automaticamente in domanda di impugnazione
del provvedimento sopravvenuto in ragione
del fatto che la portata sostanziale del
ricorso iniziale finisce per investire sia
sul piano del petitum che della causa
petendi la decisione della p.a. di non
adottare il provvedimento inibitorio.
Dunque, è riconosciuta la possibilità di
un’azione giurisdizionale di accertamento
della illegittimità di d.i.a. e s.c.i.a.
presentate dai privati, prima dell’esercizio
da parte dell’amministrazione competente
dell’azione inibitoria di divieto di
prosecuzione dell’attività e di rimozione
degli eventuali effetti dannosi di essa nel
caso in cui accerti la mancanza dei
requisiti e dei presupposti per la validità
delle dichiarazioni e delle segnalazioni
sostitutive. Questo nella logica della
garanzia di tutela giurisdizionale, che
verrebbe meno laddove non fosse possibile
riconoscere agli interessati la tutela in
giudizio a fronte di dichiarazioni di
privati sostitutive di titoli abilitanti
all’esercizio di attività, nel caso di
inerzia o rifiuto delle amministrazioni
competenti a inibirne gli effetti a fronte
della carenza dei presupposti di
legittimità.
Per quanto
riguarda la contestabilità in giudizio della
s.c.i.a., va preliminarmente ricordato come
l’istituto sia nuovo nel nostro ordinamento.
Introdotte con modifica all’art. 19 della L.
07.08.1990 n. 241 dalla L. 30.07.2010 n.
122, le s.c.i.a. (segnalazioni certificate
d’inizio attività edilizia) insieme alle
d.i.a. s’inseriscono tra le modalità di
semplificazione dell’azione amministrativa
con effetto sostitutivo, a mezzo
dichiarazione, di provvedimenti pubblici di
autorizzazione, licenza, concessione non
costitutiva, permesso o nulla osta comunque
denominati, comprese le domande per le
iscrizioni in albi o ruoli richieste per
l'esercizio di attività imprenditoriale,
commerciale o artigianale il cui rilascio
dipenda esclusivamente dall'accertamento dei
requisiti e presupposti di legge o di atti
amministrativi a contenuto generale (art.
19, comma 1, della L. n. 241/1990).
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato,
con decisione 29.7.2011 n. 15, ha statuito
che nel caso di ricorsi proposti avverso
d.i.a. e s.c.i.a. anteriormente
all'esercizio del potere inibitorio da parte
dell’amministrazione, in virtù del principio
di economia processuale, l'azione di
accertamento, una volta maturato il termine
per la definizione del procedimento
amministrativo, si converte automaticamente
in domanda di impugnazione del provvedimento
sopravvenuto in ragione del fatto che la
portata sostanziale del ricorso iniziale
finisce per investire sia sul piano del
petitum che della causa petendi la
decisione della p.a. di non adottare il
provvedimento inibitorio.
La pronuncia, dunque, riconosce la
possibilità di un’azione giurisdizionale di
accertamento della illegittimità di d.i.a. e
s.c.i.a. presentate dai privati, prima
dell’esercizio da parte dell’amministrazione
competente dell’azione inibitoria di divieto
di prosecuzione dell’attività e di rimozione
degli eventuali effetti dannosi di essa nel
caso in cui accerti la mancanza dei
requisiti e dei presupposti per la validità
delle dichiarazioni e delle segnalazioni
sostitutive. Questo nella logica della
garanzia di tutela giurisdizionale, che
verrebbe meno laddove non fosse possibile
riconoscere agli interessati la tutela in
giudizio a fronte di dichiarazioni di
privati sostitutive di titoli abilitanti
all’esercizio di attività, nel caso di
inerzia o rifiuto delle amministrazioni
competenti a inibirne gli effetti a fronte
della carenza dei presupposti di legittimità
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 04.05.2012 n. 4007 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per le attività di
costruzione in aree interessate da vincoli
archeologici l’autorizzazione paesaggistica
è d’obbligo e deve precedere il rilascio del
permesso di costruire e degli altri titoli
legittimanti l’intervento
urbanistico-edilizio, ai sensi dell’art.
146, commi 2 e 4, del codice dei beni
culturali e del paesaggio, approvato con
D.Lgs. 22.1.2004 n. 42; così come, ai sensi
del comma 5 dell’art. 146 cit., è necessario
il preliminare parere della soprintendenza.
L’autorizzazione paesaggistica è richiesta,
ai sensi dell’art. 142 lett. m) e dell’art.
146 del codice, indipendentemente dal tipo
di costruzione e dall’incidenza
dell’attività costruttiva sui reperti, dato
che la tutela prevista è di carattere
generale, occorrendo perciò valutare
l’impatto ambientale della costruzione nella
fruibilità e nella godibilità del bene
protetto. Il citato art. 142, lett. m),
include infatti le zone d’interesse
archeologico tra i territori d’interesse
paesaggistico, e ciò nel territorio laziale
è confermato dal p.t.p.r. del 2007.
La mancanza dei nulla osta paesistici rende
perciò illegittimi i titoli edificatori in
questa sede contestati.
Per le attività
di costruzione in aree interessate da
vincoli archeologici l’autorizzazione
paesaggistica è dunque d’obbligo e deve
precedere il rilascio del permesso di
costruire e degli altri titoli legittimanti
l’intervento urbanistico-edilizio, ai sensi
dell’art. 146, commi 2 e 4, del codice dei
beni culturali e del paesaggio, approvato
con D.Lgs. 22.1.2004 n. 42; così come, ai
sensi del comma 5 dell’art. 146 cit., è
necessario il preliminare parere della
soprintendenza.
L’autorizzazione paesaggistica è richiesta,
ai sensi dell’art. 142 lett. m) e dell’art.
146 del codice, indipendentemente dal tipo
di costruzione e dall’incidenza
dell’attività costruttiva sui reperti, dato
che la tutela prevista è di carattere
generale, occorrendo perciò valutare
l’impatto ambientale della costruzione nella
fruibilità e nella godibilità del bene
protetto. Il citato art. 142, lett. m),
include infatti le zone d’interesse
archeologico tra i territori d’interesse
paesaggistico, e ciò nel territorio laziale
è confermato dal p.t.p.r. del 2007.
La mancanza dei nulla osta paesistici rende
perciò illegittimi i titoli edificatori in
questa sede contestati
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 04.05.2012 n. 4007 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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