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AGGIORNAMENTO AL 29.02.2020 (ore 23,59) |
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BONUS FACCIATE:
tutto quello che c'è da saperne ... anche, e
soprattutto, sulla questione della corretta
individuazione delle zone "A" e "B" che, in
Lombardia, col P.G.T. non esistono più. |
La risposta è riscontrabile in un passaggio della
nota 19.02.2020 n. 4961 di prot.
emanata dal MIBACT laddove si legge quanto segue: |
"... Per usufruire del beneficio fiscale,
occorre semplicemente che gli edifici si trovino in
aree che, indipendentemente dalla loro
denominazione, siano riconducibili o comunque
equipollenti a quelle A o B descritte dal d.m. n.
1444 del, 1968: una informazione ricavabile
proprio come quando le amministrazioni debbono
applicare i limiti di densità edilizia, le altezze o
le distanze, anche nei casi in cui intendano o
debbano derogarli mediante gli strumenti di
pianificazione.
Sulla base di queste considerazioni, è evidente che
nella maggior parte dei centri abitati per i
cittadini non sarà necessario rivolgersi
all'amministrazione locale per sapere in quale zona
si trova un immobile, potendo ricavare agevolmente
tale informazioni dagli strumenti urbanistici ed
edilizi comunali. Nei casi in cui l'amministrazione
locale sia invece interpellata, essa potrà fare
riferimento al d.m. n. 1444 del 1968 nello stesso
modo in cui ha già dovuto, o deve farlo, in sede di
redazione degli strumenti urbanistici.
Peraltro, la certificazione dell'assimilazione
alle zone A o B dell'area nella quale ricade
l'edificio oggetto dell'intervento, che la guida
dell'Agenzia delle entrate richiede sia rilasciata
dagli enti competenti, andrebbe riferita ai
soli casi, verosimilmente limitati, in
cui un Comune mai ha adottato un qualsiasi atto che
abbia implicato l'applicazione del d.m. n. 1444 del
1968 nel proprio territorio.
In tutte le altre ipotesi, infatti,
la stessa guida non richiede specifici
adempimenti e la ubicazione dell'immobile in area A
o B, o equipollente in base agli strumenti
urbanistici ed edilizi del Comune, può facilmente
essere accertata dai soggetti interessati.
...". |
Detto altrimenti, ed in estrema sintesi, tenuto
conto che prima del P.G.T. tutti i comuni della
Lombardia avevano approvato il P.R.G. (con la
classificazione delle aree territoriali secondo il
Dm 1444/1968)
è auspicabile che i vari UTC non siano intasati di
richieste (inutili) laddove
ben possono
provvedere (all'individuazione dell'immobile in zona
"A" oppure "B") i progettisti all'uopo incaricati. |
EDILIZIA PRIVATA:
Bonus facciate senza comunicazione alle Entrate. È stato superato
l'avviso al Centro operativo di Pescara.
Anche per il bonus facciate, come per gli interventi di recupero del
patrimonio edilizio, non è necessario, alla fine dei lavori, inviare al
Centro operativo di Pescara, la «dichiarazione di esecuzione» degli
stessi, se questi sono di importo superiore a 5.645,69 euro. La norma
istitutiva della nuova detrazione Irpef e Ires del 90% a sulle facciate
esterne degli edifici prevede che si applichino le disposizioni del decreto
del ministro delle Finanze 41/1998.
Pertanto, tutti i contribuenti (anche se imprese) devono indicare nella
propria dichiarazione (730 o Redditi) i dati catastali dell'immobile e gli
eventuali estremi di registrazione dell'atto di detenzione (locazione o
comodato). Questo adempimento ha sostituito dal 14.05.2011 la comunicazione
che doveva essere effettuata al Centro di Pescara, prima dell'inizio degli
interventi di recupero del patrimonio edilizio (articolo 7, comma 2, lettera
q, decreto legge 70/2011); in ogni caso, i dati catastali non vanno
riportati se gli interventi sono influenti dal punto di vista termico o
interessano oltre il 10% dell'intonaco della superficie disperdente lorda
dell'edificio (circolare 2/E/2020).
Ancora oggi l'articolo 1, comma 1, lettera d), del decreto 41/1998 prevede
che, per gli interventi oltre 51.645,69 euro, si debba inviare al Centro di
Pescara, al termine dei lavori, una dichiarazione di esecuzione lavori,
sottoscritta da un soggetto iscritto all'albo ingegneri, architetti e
geometri o altro soggetto abilitato all'esecuzione degli stessi. Anche per
il bonus facciate, però, dovrebbe valere il chiarimento della circolare
13/E/2013, secondo la quale, dall'01.01.2012, questa dichiarazione non è più
necessaria ai fini dei controlli, considerando che il provvedimento delle
Entrate 149646/2011, relativo ai documenti da conservare, dall'01.01.2012,
ai fini della detrazione per gli interventi sul recupero del patrimonio
edilizio non ha citato questa comunicazione.
Una conferma di ciò deriva anche dal silenzio su questo adempimento da parte
della circolare del 2/E/2020.
Anche per il bonus facciate, invece, i contribuenti devono conservare ed
esibire, in caso di controllo, i documenti indicati nel citato provvedimento
del 02.11.2011:
• le abilitazioni amministrative richieste (Scia, Cila o altro) o
l'autocertificazione relativa al non obbligo di alcun titolo abilitativo
(come per la manutenzione ordinaria) e della data di inizio lavori;
• l'eventuale accatastamento per gli immobili non censiti;
• le ricevute di pagamento dell'Imu, se dovuta;
• le ricevute di pagamento degli altri «tributi locali sugli
immobili» (adempimento aggiunto dalla circolare 2/E/2020);
• l'eventuale delibera di approvazione di esecuzione lavori per
parti comuni e tabella millesimale;
• l'eventuale dichiarazione di consenso del possessore
all'esecuzione dei lavori, se gli stessi sono effettuati dal detentore del
bene che non è un convivente;
• l'eventuale comunicazione preventiva all'Asl, se prevista
dall'articolo 99, comma 1, Dlgs 81/2008;
• fatture e ricevute fiscali della spesa e ricevute dei bonifici «parlanti».
La mancata effettuazione dei predetti adempimenti non consente la fruizione
del bonus facciate
(articolo
Il Sole 24 Ore 29.02.2020 - tratto da www.fondazionecni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Bonus Facciate: il MEF risponde a una interrogazione sulle zone A
e B.
“L’emanazione di tavole di raccordo finalizzate ad
individuare le equipollenze delle zone A e B a quelle attualmente
classificate con sigle differenti da parte degli enti locali esula dalle
competenze dell’Amministrazione finanziaria. Sarà cura dell’Amministrazione
finanziaria valutare la spettanza dell’agevolazione in argomento sulla base
delle peculiarità del caso concreto”.
Interrogazione a risposta immediata in commissione 5-03670 - risposta
26.02.2020 in Commissione VI (Finanze) Camera dei Deputati (On.
Gian Mario Fragomeli).
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INTERROGAZIONE
Per sapere –premesso che:
- l'articolo 1, commi da 219 a 224, della legge 27.12.2019, n. 160,
recante la legge di bilancio 2020, ha introdotto l'agevolazione fiscale per
gli interventi finalizzati al recupero o al restauro degli edifici esistenti
che, nello specifico, consente una detrazione dall'imposta lorda pari al 90
per cento delle spese sostenute per gli interventi finalizzati al recupero o
al restauro della facciata esterna degli edifici esistenti ubicati in zona A
o B, ai sensi del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, cosiddetto «bonus
facciate»;
- in particolare, la parte corrispondente alla zona A è spesso
identificata con l'ambito storico del comune e la parte corrispondente alla
zona B è associata agli ambiti residenziali; la legge esclude invece
dall'agevolazione i proprietari di immobili situati nelle Zona C, le
cosiddette «aree di espansione urbanistica»;
- la guida dell'Agenzia delle entrate afferma che è possibile
riferirsi a zone assimilabili alle categorie A o B, specificando che: «L'assimilazione
alle zone A o B della zona territoriale nella quale ricade l'edificio
oggetto dell'intervento dovrà risultare dalle certificazioni urbanistiche
rilasciate dagli enti competenti»;
- in alcuni piani urbanistici predisposti dalle amministrazioni
comunali non vi è alcun riferimento alle zone A o B sostituite, invece, da
altre sigle;
- nella regione Lombardia, ad esempio, i piani delle regole (Pdr)
più recenti, utilizzano il concetto di tessuto urbano consolidato (Tuc) del
territorio che ha sostituito il lessico originario della zonizzazione; in
questo caso si parla di aree P1, considerate non completate e quindi escluse
dal «bonus facciate» e di aree P2 coincidenti con le zone che in
altre regioni danno diritto al bonus;
- è necessario, al fine di applicare il «bonus facciate» in
maniera omogenea su tutto il territorio nazionale, predisporre una
ricognizione urbanistica per individuare in maniera ufficiale le
equipollenze–:
●
se non ritenga necessario assumere le iniziative di competenza per definire
quanto prima, le tavole di raccordo, anche a seguito di un intervento di
ricognizione urbanistica, in particolare nella regione Lombardia, volte ad
individuare in maniera ufficiale le equipollenze delle zone che attualmente
sono individuate in maniera differente ma che risultano comunque
compatibili, al fine di applicare il «bonus facciate» in maniera
omogenea su tutto il territorio nazionale.
RISPOSTA
Con il documento in esame gli Onorevoli interroganti fanno riferimento
all'agevolazione fiscale introdotta dall'articolo 1, commi da 219 a 224,
della legge n. 160 del 2019, per gli interventi finalizzati al recupero o
restauro degli edifici esistenti ubicati nelle zone A o B ai sensi del
decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444 (c.d. bonus facciate).
In relazione a detta agevolazione la Guida predisposta dall'Agenzia delle
entrate afferma che è possibile riferirsi a zone assimilabili alle categorie
A o B in base alle risultanze delle certificazioni urbanistiche rilasciate
dagli enti competenti.
Gli Onorevoli interroganti, evidenziano tuttavia che «in alcuni piani
urbanistici predisposti dalle amministrazioni comunali non vi è alcun
riferimento alle zone A o B sostituite invece da altre sigle», e, pertanto,
chiedono di sapere se non si ritiene necessario «emanare quanto prima le
tavole di raccordo, anche a seguito di un intervento di ricognizione
urbanistica, in particolare nella regione Lombardia, volte ad individuare in
maniera ufficiale le equipollenze delle zone che attualmente sono
individuate in maniera differente ma che risultano comunque compatibili al
fine di applicare il bonus facciate in maniera omogenea su tutto il
territorio nazionale».
Al riguardo, si precisa che l'emanazione di tavole di raccordo finalizzate
ad individuare le equipollenze delle zone A e B a quelle attualmente
classificate con sigle differenti da parte degli enti locali esula dalle
competenze dell'Amministrazione finanziaria.
Sarà cura dell'Amministrazione finanziaria valutare la spettanza
dell'agevolazione in argomento sulla base delle peculiarità del caso
concreto. |
EDILIZIA PRIVATA: Facciate,
agevolazione estesa ai titolari di reddito d’impresa.
I chiarimenti delle Entrate sulla detrazione per la riqualificazione
esterna degli edifici.
Detrazione del 90% in dieci quote annuali costanti per chi, nel 2020, decida
di riqualificare la facciata esterna del proprio edificio. Platea ampia
inoltre tra i soggetti beneficiari dell'agevolazione vista l'estensione,
oltre che alle persone fisiche e ai lavoratori autonomi, anche al mondo
delle imprese. Agevolabili infine non solo la semplice pulitura o
tinteggiatura della facciata ma anche interventi su balconi, su grondaie,
sui cornicioni nonché sui cappotti termici.
Sono questi i principali aspetti presenti nella
circolare 14.02.2020 n. 2/E
dell'Agenzia delle entrate.
L'agevolazione.
Pubblicate le istruzioni dell'Agenzia delle entrate per usufruire del
cosiddetto bonus facciate. La detrazione, da ripartire in dieci quote
annuali costanti, è pari al 90% della spesa sostenuta senza limiti di tetto
massimo detraibile e di spesa ammissibile. Gli edifici sui quali si
eseguiranno interventi finalizzati al recupero della struttura opaca del
perimetro esterno (vale a dire tutti gli elementi che compongono l'involucro
esterno dell'edificio esclusi infissi e vetrate) dovranno però interessare
gli immobili (di qualsiasi categoria catastale) che si trovino nelle zone A
e B del
decreto ministeriale 1444/1968.
L'art. 2 di tale decreto definisce la zona A come quella parte del
territorio interessata da agglomerati urbani che rivestano carattere
storico, artistico e di particolare pregio ambientale. La zona B invece
comprende le parti del territorio urbano edificato ove la superficie coperta
dagli edifici esistenti non sia inferiore al 12,5% della superficie
fondiaria della zona. Ciò detto, sarà comunque fondamentale farsi rilasciare
un certificato da parte del comune competente che attesti la localizzazione
dell'immobile in una delle due zone descritte.
Veniamo ora alle modalità di fruizione: a differenza se i beneficiari siano
persone fisiche (o esercenti arti e professioni) o titolari di reddito
d'impresa (imprese individuali, società di persone, società di capitali o
enti commerciali) il criterio da seguire varierà. Nel primo caso infatti
varrà il principio di cassa: si terrà dunque conto della data dell'effettivo
pagamento a prescindere da quando siano effettivamente iniziati gli
interventi cui i pagamenti si riferiscono: l'intervento per esempio iniziato
nel 2019 ma con pagamenti nel 2020 beneficerà pienamente del bonus.
Viceversa, pagamenti avvenuti in parte nel 2019 e in parte nel 2020,
renderanno ammissibile il bonus facciate solo rispetto a questi ultimi.
Discorso ben diverso va fatto rispetto ai titolari di reddito di impresa per
cui varrà il principio di competenza: il riferimento è ai lavori effettuati
durante l'arco 2020 a prescindere dalla data dei pagamenti e dalla data di
avvio degli interventi.
I beneficiari e i titoli abilitativi.
La platea, rispetto alle altre agevolazioni fiscali, è estremamente amplia
coinvolgendo tutti i contribuenti residenti e non che sostengono spese per
l'esecuzione degli interventi agevolati a prescindere dalla tipologia di
reddito di cui sono titolari. Gli unici esclusi sono i redditi assoggettati
a tassazione separata o a imposta sostitutiva (come per esempio le attività
che aderiscono al regime forfettario) a meno che gli stessi non posseggano
altri redditi che concorrano alla formazione del reddito complessivo.
Volendo dare un elenco esaustivo, rientrano nell'agevolazione le persone
fisiche (includendo tra queste gli esercenti arti e professioni), gli enti
pubblici e privati che non svolgono attività commerciale, le società
semplici, le associazioni tra professionisti e i soggetti che conseguono
reddito d'impresa (includiamo in tale categoria le ditte individuali, gli
enti commerciali, le società di persone e le società di capitali). Il bonus
spetta infine ai possessori o ai detentori dell'immobile in base a un titolo
idoneo al momento dell'avvio dei lavori o al sostenimento della spesa se
antecedente l'avvio.
Ai fini del possesso, varrà la qualifica di proprietario, di nudo
proprietario o di titolare di diritto reale di godimento (usufrutto, uso,
abitazione o superficie). Nel caso di detenzione invece, bisognerà disporre
di regolare contratto di affitto o di comodato registrato oltre ad avere il
consenso all'esecuzione dei lavori da parte del proprietario.
I lavori agevolabili.
La ratio dell'agevolazione è quella di incentivare interventi che
vadano a migliorare il decoro urbano pur conservando l'organismo edilizio
nel rispetto della forma e della struttura. Oltre dunque al classico
intervento di pulitura e tinteggiatura esterna sulle strutture opache della
facciata, la circolare ha chiarito che vi rientrano anche quelli su balconi,
ornamenti e fregi.
Ancora, sono agevolabili lavori riferiti alle grondaie, ai pluviali, ai
parapetti, ai cornicioni e alla sistemazione di tutte le parti
impiantistiche che insistono sulla parte opaca della facciata oltre
all'acquisto di materiali (utile nel caso di lavori in economia o di
utilizzo di sola manodopera). Vi sono inoltre una serie di spese «collaterali»
che beneficiano comunque del 90% come per esempio la progettazione e le
prestazioni professionali connesse, l'effettuazione di perizie e il rilascio
di eventuali attestati di prestazione energetica, l'installazione di
ponteggi, lo smaltimento di materiali rimossi e l'Iva qualora non vi siano
le condizioni per poterla detrarre.
In ultimo (si veda l'approfondimento nella pagina seguente), accedono al
beneficio del 90% anche gli interventi sulla facciata influenti da un punto
di vista termico (i cosiddetti cappotti termici) o che interessino oltre il
10% dell'intonaco della superficie disperdente lorda complessiva
dell'edificio.
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Per le società vale la competenza.
La grande novità del bonus
facciate riguarda il diverso principio applicativo nel caso di
ristrutturazione della facciata esterna da parte di persone fisiche e in
quello di reddito d'impresa. Mentre per le prime varrà, come siamo abituati
oramai anche per gli altri bonus casa, il principio di cassa, per le società
bisognerà invece guardare alla competenza economica.
Ciò sarà valido, non solo per le società in contabilità ordinaria ma, in
generale, per tutti i soggetti titolari di reddito d'impresa (non vien fatta
eccezione per i soggetti che applichino il principio di cassa pura né per
quelli che applichino il principio di cassa con presunzione di incassi e
pagamenti delle fatture registrate): la circolare, prevede infatti che la
competenza si applichi «a prescindere dalla circostanza che il soggetto
beneficiario applichi tale regola per la determinazione del proprio reddito
imponibile ai fini delle imposte sul reddito».
Diverrà dunque fondamentale la data di ultimazione lavori: trattandosi
infatti di servizi, in base all'art. 109 del Tuir, comma 2, lett. b), la
spesa si intenderà sostenuta alla data di ultimazione della prestazione.
Soprattutto nelle ipotesi di chiusura lavori a cavallo tra due esercizi
dunque, il suggerimento, onde evitare che venga disconosciuto il primo
decimo di detrazione, sarà proprio quello di ultimare i lavori entro il
31/12 (questo anche da un punto di vista formale mediante le relative
comunicazioni da fare ai competenti enti).
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L’iter per non fare passi falsi. Fondamentali alcuni
adempimenti per evitare il futuro disconoscimento del bonus.
Pagamenti mediante bonifico dal quale risultino causale,
codice fiscale del beneficiario e numero di partita Iva del fornitore,
indicazione in dichiarazione dei redditi dei dati catastali identificativi
dell'immobile oggetto dell'agevolazione, conservazione delle ricevute di
pagamento dei tributi locali sugli immobili e copia della delibera
assembleare qualora gli interventi riguardino parti comuni di edifici
residenziali.
Sono questi, in breve, alcuni degli adempimenti da porre in essere per
evitare un possibile disconoscimento del bonus facciate da parte del fisco.
Adempimenti delle persone fisiche.
Le persone fisiche (compresi gli esercenti arti e professioni) sono chiamate
a porre estrema attenzione nelle procedure da seguire per ottenere il
riconoscimento fiscale. Innanzitutto le modalità di pagamento: come per l'ecobonus
e per il bonus casa è previsto, anche in questo caso, il cosiddetto bonifico
parlante (cui la banca applicherà la ritenuta di acconto dell'8%).
La circolare prevede espressamente che il bonifico, bancario o postale,
debba contenere la causale del versamento, il codice fiscale del
beneficiario e il numero di partita Iva del soggetto a favore del quale è
effettuato. Considerando che la modulistica non è ancora adeguata con la
nuova causale relativa al «bonus facciate», sarà comunque possibile
utilizzare i bonifici parlanti utilizzati per l'ecobonus o per gli
interventi di recupero del patrimonio edilizio.
Altro aspetto formale su cui bisogna porre attenzione è la compilazione del
modello unico. Andranno infatti indicati non solo i dati catastali
identificativi dell'immobile ma anche, qualora i lavori fossero eseguiti dal
detentore, gli estremi di registrazione dell'atto che ne costituisce titolo.
Ancora, andrà comunicato da un lato alla Asl competente, in maniera
preventiva, l'inizio lavori qualora tale comunicazione sia obbligatoria in
base alle disposizioni in materia di sicurezza dei cantieri e, dall'altro,
andranno richieste (sempre prima dell'inizio lavori) al comune le
abilitazioni necessarie sulla base della tipologia dei lavori da realizzare.
Infine, in caso di lavori effettuati dal detentore dell'immobile, sarà
necessaria una dichiarazione di consenso del proprietario all'esecuzione dei
lavori. Veniamo ora alla documentazione che va conservata e, se del caso,
esibita in seguito a controlli. Innanzitutto andranno conservate tutte le
fatture e le relative ricevute del bonifico di pagamento (bonifici eseguiti
con le modalità descritte sopra).
Nel caso in cui l'agevolazione si riferisca ad immobili non ancora censiti,
andrà conservata copia della domanda di accatastamento. Qualora invece
oggetto del bonus facciate sia una parte comune di edifici residenziali,
andrà conservata copia della delibera assembleare di approvazione
dell'esecuzione dei lavori e tabella millesimale di ripartizione delle spese
valida in quel momento. Infine, la circolare precisa espressamente che
andranno conservate le ricevute di pagamento dei tributi locali sugli
immobili qualora dovute.
Adempimenti in caso di interventi di efficienza energetica.
Nel caso in cui l'intervento sulla facciata esterna sia influente da un
punto di vista termico o interessi più del 10% dell'intonaco, oltre agli
adempimenti sopra descritti se ne aggiungeranno degli altri tipici della
riqualificazione energetica. Stiamo parlando, nello specifico, di due
ulteriori adempimenti e di una comunicazione.
Il primo adempimento si riferisce all'acquisizione e alla conservazione
dell'asseverazione di un tecnico abilitato che certifichi la corrispondenza
degli interventi effettuati rispetto ai requisiti tecnici richiesti. Tale
asseverazione può anche essere sostituita con quella resa dal direttore
lavori sulla conformità al progetto.
Il secondo riguarda invece l'attestato di prestazione energetica (Ape) che
dovrà essere redatto da un tecnico non coinvolto nei lavori e per ogni
singola unità immobiliare per cui si richiedono le detrazioni fiscali. Per
quanto riguarda invece la comunicazione, così come previsto per gli
interventi da ecobonus, dovrà essere inviata all'Enea, entro i successivi 90
giorni dall'ultimazione dei lavori, la scheda descrittiva relativa agli
interventi realizzati.
Adempimenti dei titolari di reddito d'impresa.
Tutti gli adempimenti previsti per le persone fisiche e tutta la
documentazione da conservare sono validi anche per i titolari di reddito
d'impresa con un'unica differenza: non è obbligatorio il pagamento mediante
bonifico in quanto il momento dell'effettivo pagamento è irrilevante
valendo, per tale categoria di contribuenti, il principio di competenza
economica e non quello di cassa. Andranno inoltre rispettati gli ulteriori
adempimenti descritti nel precedente paragrafo qualora l'intervento sia
influente da un punto di vista termico o interessi più del 10% dell'intonaco
del bene.
---------------
Anche il cappotto termico è agevolabile.
Gli interventi di efficienza energetica sulla facciata
esterna dell'edificio seguono il bonus del 90%. Da un lato il cappotto
termico, dall'altro tutti gli interventi che interessano oltre il 10%
dell'intonaco della superficie disperdente lorda complessiva dell'edificio
sono infatti agevolabili con il vantaggioso bonus facciate invece del 65%.
È quanto chiarito dalle Entrate sia nella guida fiscale sia nella
circolare 14.02.2020 n. 2/E, emanate la scorsa settimana.
Affinché ciò sia dunque possibile, occorre che i suddetti lavori soddisfino
contemporaneamente due requisiti: da un lato i requisiti indicati dal Mise
nel decreto del 26.06.2015 e dall'altro i valori limite di trasmittanza
termica delle strutture componenti l'involucro edilizio. Gli unici immobili
esclusi da tale agevolazione sarebbero quelli di notevole interesse pubblico
quando, il rispetto delle suddette prescrizioni, implichi un'alterazione
sostanziale del loro carattere o aspetto (si pensi ai profili storici,
artistici o paesaggistici).
Viene chiarito inoltre come approcciare al calcolo del 10% dell'intonaco: in
sostanza l'intervento dovrà interessare l'intonaco per oltre il 10% della
superficie lorda complessiva disperdente (pareti verticali, pavimenti,
tetti, infissi) confinanti con l'esterno, vani freddi o terreno. Se
l'intervento dovesse riferirsi ad una facciata rivestita di piastrelle o
altri materiali che impossibilitano interventi termicamente influenti (se
non mutando l'aspetto dell'edificio), il limite del 10% andrà calcolato
rapportando la superficie della facciata interessata dall'intervento e la
superficie totale della superficie disperdente.
La circolare ricorda infine che per gli interventi di efficienza energetica
sulle facciate, ai fini delle verifiche e dei controlli, si applicano le
stesse procedure previste per la riqualificazione energetica degli edifici
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.02.2020). |
EDILIZIA PRIVATA: Bonus
facciate, cosa fare se si pensa che il Comune sbagli. Esistono tre strade.
Sul bonus facciate c’è ancora da chiarire. Ovviamente non per chi è
palesemente in zona A e B e quindi ha accesso al bonus del 90 per cento.
Stiamo parlando invece di chi va in Comune e gli viene detto che l’immobile
è in zona è C e quindi escluso dall’agevolazione. Ma se il cittadino non
fosse pienamente convinto?
Il quesito
Il tema odierno è quindi il seguente: se un privato cittadino/amministratore
di condominio si reca all’ufficio tecnico del Comune A dove un geometra gli
fa vedere la planimetria dove sorge l’edificio dicendo: «Guardi, essendo
la sua area classificata “Ambito urbano consolidato (R1)“ per quanto mi
riguarda è zona C. Quindi non ha diritto all’esenzione» cosa può fare se
non è convinto?
La dicitura "ambito urbano consolidato" gli sembra lessicalmente
idonea per avere il bonus del 90% ma di fronte alla sicurezza del dipendente
comunale non gli resta che incassare e informarsi per vedere se tante le
volte il giudizio del Comune è in qualche modo modificabile.
Anche un professore universitario, interpellato, ha espresso perplessità
sulla risposta del tecnico comunale.
E anche un collega del geometra del Comune A gli dice che è probabile che si
stia sbagliando. Quindi? Mettiamo i primi punti fermi.
La certificazione ai fini del bonus
L’agenzia delle Entrate la considera obbligatoria mentre il ministero no.
Comunque sia, questo il contenuto della mail dell’ufficio tecnico del Comune
B.
«Le certificazioni di ordine urbanistico emesse da questo ufficio,
assimilabili a quella indicata nella circolare che cita (la
circolare 14.02.2020 n. 2/E),
genericamente riportano la zona urbanistica in cui ricade il mappale di cui
si richiede, appunto, la certificazione oltre ogni altro vincolo posto
all’attività edilizia.
Di norma nella certificazione non riportiamo gli indicatori planivolumetrici
previsti dal piano urbanistico (indici di fabbricazione, rapporto di
copertura e così via), perché riportati nelle norme tecniche, tra l’altro
non utili per la finalità fiscale di cui chiede; ciò non toglie che se ne
avesse bisogno, basterà specificarlo nella domanda di certificato di
destinazione urbanistica e l’ufficio li espliciterà nel testo del
provvedimento.
Debbo però rammentarle che questo ufficio non si occupa di incentivi e di
sgravi fiscali applicabili alle opere edilizie, quindi per ogni
approfondimento in merito le converrà sentire dei commercialisti o
fiscalisti».
Prima presunta certezza
Per avere nel certificato gli indicatori planivolumetrici -cioè per
verificare se la superficie coperta dall’edificio sia superiore al 12,5% (un
ottavo) della superficie fondiaria della zona e nelle quali la densità
territoriale sia superiore a 1,5 m3/m2- bisogna chiederli appositamente.
Zone A, B e C a macchia di leopardo
Con il Comune B c’è stata anche una conversazione telefonica al termine
della quale si è saputo che:
1) ci sono Comuni della Lombardia dove i documenti urbanistici
fanno ancora riferimento alle zone A, B e C;
2) che nel caso di specie è possibile che il Comune A, in cui è
utilizzato un piano del governo del territorio con la nuova terminologia
(R1, R2 e così via), per sapere se l’edificio dove si trova l’edificio vada
a vedere il vecchio piano regolatore, per esempio degli anni 80, e dica cosa
risulta lì. «Ma -sempre per il Comune B- sarebbe sbagliato fare così
perché la zonizzazione degli anni ’80 va sostituita con quella attuale
tramite un’interpretazione e un’attualizzazione della norma».
Cosa fare/1
Bisogna cercare sul sito del Comune A il piano delle regole e vedere cosa
dice la relazione illustrativa a proposito della zonizzazione dell’edificio.
Nel caso in questione l’“Ambito consolidato urbano” R1 viene
definitivo «la categoria caratterizzata da un’edificazione con tipologia
edilizia mista. Tale ambito connota la gran parte del terreno edificato e
rappresenta la crescita storica e recente del paese nella sua complessità».
Poi va preso il
decreto 1444/1968 in cui come zona B viene definita quella «composta
dalle parti del territorio totalmente o parzialmente edificate, diverse
dalle zone A, cioè quella a carattere storico, artistico e di particolare
pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree circostanti, che
possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli
agglomerati stessi».
Sempre nel decreto 1444/1968 si definiscono parzialmente edificate le zone
in cui la superficie coperta degli edifici esistenti non sia inferiore al
12,5% (un ottavo) della superficie fondiaria della zona e nelle quali la
densità territoriale sia superiore a 1,5 mc/mq;
In conclusione
Il Comune B -che peraltro come detto ha ancora planimetrie indicanti le zone
A, B e C- suggerisce di convincere il Comune A che bisogna andare al di là
degli indicatori planivolumetrici ma non è così facile. Ecco l’ultima
risposta:
«Purtroppo il nostro mandato è fornire un supporto nell’interpretazione
delle norme urbanistiche vigenti nel nostro comune, mentre lei necessita di
un professionista di parte che analizzi il suo caso e controbatta
l’interpretazione del collega del lecchese.
Potrebbe
1) contattare l’estensore del Piano per chiedergli
un’interpretazione univoca della corrispondenza fra azzonamento vigente e
zone ex Dm 1444/1968, oltre
2) a sollecitare un confronto con il tecnico comunale -il tema, del
resto, non interessa solo lei, ma tutti i cittadini nella stessa condizione.
Detto questo, le rammento comunque che:
a) le Zone C sono di espansione, qui ciò che è già costruito
all’approvazione del piano dovrebbe essere o B o A;
b) se si prendessero a riferimento solo i parametri urbanistici per definire
le zone di appartenenza,
3) basta verificare se le zone edificate classificate come R1 e
simili hanno residui volumetrici oppure no; nel secondo caso,
indipendentemente dai parametri stabiliti dal Dm, i lotti saranno da
considerarsi “saturi” (cioè senza ulteriore possibilità di ampliarsi) e
conseguentemente non posso essere classificati come zone C (zone di
espansione)».
Il problema è che un amministratore di condominio non ha tempo per aspettare
la risposta (articolo Il Sole 24 Ore del 24.02.2020). |
EDILIZIA PRIVATA: Bonus
Facciate: le modalità e gli adempimenti necessari per ottenere le
agevolazioni.
Uno degli adempimenti previsti consiste nell'obbligo per le persone fisiche
non titolari di reddito di impresa di effettuare il pagamento con bonifico
bancario o postale, utilizzando la stessa tipologia di bonifico predisposto
da banche e Poste Spa per il pagamento delle spese che danno diritto al
bonus ristrutturazioni o all'ecobonus (...continua) (24.02.2020 - link a
www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA: Bonus
facciate, il Mibact «corregge» le Entrate sulle zone. Il documento
servirebbe solo se il Comune non ha mai applicato il Dm 1444/1968.
La nebbia si va diradando sulla questione delle zone A e B, nelle quali deve
trovarsi l’edificio per beneficiare del bonus facciate con la detrazione del
90% delle spese.
Mentre passano i giorni (i pagamenti devono essere effettuati nel 2020) la
circolare 14.02.2020 n. 2/E delle Entrate ha già chiarito molti aspetti importanti (si veda il
Sole 24 Ore del 15 e 16 febbraio) ma rimane un aspetto centrale, legato
all’ubicazione degli edifici su cui effettuare i lavori. La legge 160/2019
parla infatti delle sole zone A e B indicate nel
Dm 1444/1968.
Nel concreto, l’individuazione delle zone non sembra semplice, perché nei
Piani di governo del territorio o nei Prgc (ma si tratta solo di due sigle
tra molte) le denominazioni A e B non esistono più, sostituite a volte da
“R” o “AC-R” o altre ancora, dove la lettera R di solito indica la
destinazione residenziale di un'area o una zona di riqualificazione.
Insomma, a poco a che fare con le zone da A a F indicate nel decreto del
1968 e avere un piano regolatore con la zonizzazione da A a F, a quanto
risulta al Sole 24 Ore, sembra piuttosto raro.
Il Mibact, con la lettera del Capo di gabinetto Lorenzo Casini (nota
19.02.2020 n. 4961 di prot.) inviata a una serie di sindaci piemontesi, ha però
spiegato che il
decreto 1444/1968 non imponeva ai Comuni «di applicare
meccanicamente la suddivisione in zone e la conseguente denominazione ivi
previste. Il decreto, invece, identifica zone omogenee al fine di stabilire
le dotazioni urbanistiche, i limiti di densità edilizia, le altezze e le
distanze tra gli edifici».
Per ottenere il beneficio, quindi, basta «che gli edifici si trovino in
aree che, indipendentemente dalla loro denominazione, siano riconducibili o
comunque equipollenti a quelle A o B descritte dal Dm 1444/1968:
un’informazione ricavabile proprio come quando le amministrazioni debbono
applicare i limiti di densità edilizia (...)».
Quindi, prosegue il Mibact, «è evidente che nella maggior parte dei
centri abitati per i cittadini non sarà necessario rivolgersi
all’amministrazione locale per sapere in quale zone si trova l’immobile,
potendo ricavare agevolmente tale informazione dagli strumenti urbanistici
ed edilizi comunali».
Anzi, il Mibact si spinge anche più in là, affermando che la certificazione
urbanistica, che per la guida delle Entrate (e per la
circolare 14.02.2020 n. 2/E,
pagina 7) è indispensabile per l’assimilazione alle zone A e B della zone in
cui sorge l’edificio, va richiesta solo nei casi «verosimilmente
limitati, in cui un Comune mai ha adottato un qualsiasi atto che abbia
implicato l’applicazione del
Dm 1444/1968 nel proprio territorio. In tutte
le altre ipotesi, infatti, la stessa guida non richiede specifici
adempimenti e la ubicazione dell’immobile in area A o B, o equipollente in
base agli strumenti urbanistici ed edilizi del Comune, può facilmente essere
accertata dai soggetti interessati».
Ogni comune interessato, su richiesta dei cittadini e dei condomìni, dovrà
quindi fare una ricognizione sul proprio territorio e individuare le «equipollenze»
ed eventualmente rilasciare la certificazione urbanistica indicata dalle
Entrate (articolo Il Sole 24 Ore del 21.02.2020). |
EDILIZIA PRIVATA: Bonus
Facciate, dal Mibact chiarimenti sulle zone A e B.
Diversamente dal parere dell'Agenzia delle Entrate, il Mibact ritiene che la
certificazione urbanistica deve essere richiesta solamente nei casi in cui
un Comune non ha mai adottato un qualsiasi atto che abbia implicato
l’applicazione del Dm 1444/1968 nel proprio territorio (...continua) (21.02.2020
- link a www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA: Chiedo
chiarimenti su modalità e adempimenti necessari per ottenere le agevolazioni
previste per il bonus facciate.
I primi chiarimenti sul bonus facciate sono arrivati con la
circolare 14.02.2020 n. 2/E
dell’Agenzia delle entrate, che illustra tutte le regole e gli adempimenti
da osservare per usufruire dell’agevolazione fiscale introdotta dalla legge
di bilancio 2020.
Anzitutto, vi è l’obbligo per le persone fisiche non titolari di reddito di
impresa di effettuare il pagamento con bonifico bancario o postale,
utilizzando la stessa tipologia di bonifico predisposto da banche e Poste
Spa per il pagamento delle spese che danno diritto alla detrazione per il
recupero del patrimonio edilizio o per la riqualificazione energetica degli
edifici (ecobonus).
Tra gli altri principali adempimenti:
• l’invio all’Enea, entro 90 giorni dal termine dei lavori, di una
scheda descrittiva, solo per gli interventi influenti dal punto di vista
termico o che interessano oltre il 10% dell’intonaco della superficie
disperdente lorda complessiva dell’edificio;
• la comunicazione preventiva all’Asl di competenza, se prevista
dalla normativa sulla sicurezza dei cantieri;
• l’indicazione in dichiarazione dei redditi dei dati catastali
identificativi dell’immobile.
Occorre poi conservare una serie di documenti inerenti gli interventi
realizzati: fatture, ricevute del bonifico, abilitazioni amministrative,
delibera assembleare e tabella millesimale per i lavori condominiali,
asseverazione di un tecnico abilitato e attestazione di prestazione
energetica (Ape) per gli interventi per i quali va fatta comunicazione
all’Enea.
Per maggiori informazioni e approfondimenti si consiglia di consultare la
citata circolare dall’Agenzia delle entrate e la guida pubblicata nella
sezione l’Agenzia informa del suo sito internet
(21.02.2020 - tratto da e link a
www.fiscooggi.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Bonus
facciate, cappotto termico limitato da piastrelle e rivestimenti. Se la
copertura è integrale non scatta l’obbligo dei lavori «termici». In caso di
interventi solo su una parte «trasmittanza» calcolata in proporzione.
Poche righe in una circolare di venti pagine, ed ecco il
risparmio energetico previsto nel bonus facciate molto ridimensionato.
Nonostante le battaglie di chi, in fase di predisposizione della norma,
aveva chiesto di incentivare in maniera robusta, oltre al decoro urbano,
anche la realizzazione dei cappotti termici.
La
circolare 14.02.2020 n. 2/E delle Entrate, dedicata al
bonus facciate, afferma infatti che, a differenza di quanto indicato nella
legge 160/2019 (dove di fatto si rende obbligatorio il cappotto termico per
gli edifici quando si rifanno gli intonaci per oltre il 10% della superficie
opaca), quando le facciate sono rivestite in piastrelle o con altri
materiali «che non rendono possibile realizzare interventi influenti dal
punto di vista termico se non mutando completamente l’aspetto dell’edificio»,
bisogna fare un conto diverso.
È necessario, cioè, eseguire «il rapporto tra la restante superficie
della facciata interessata dall’intervento e la superficie totale lorda
complessiva della superficie disperdente». Quindi, se la superficie
opaca della facciata è di mille metri quadrati, ma di questi sono coperti di
piastrelle (in genere il “klinker”), il 20% risulta essere la parte
da considerare.
Ma se le piastrelle ricoprono tutto l’edificio, allora non c’è alcun obbligo
di fare lavori per il risparmio energetico. In pratica, i lavori di
rifacimento delle parti ammalorate beneficeranno della detrazione del 90%
senza investimenti ulteriori.
In questo modo, allora, si limitano moltissimo i casi nei quali sarà
obbligatorio investire in un cappotto termico.
Per non parlare degli edifici dove siano presenti anche gli «altri
materiali» di cui parla la circolare delle Entrate. Si tratta di una
definizione parecchio ampia che include praticamente tutti gli edifici di un
certo pregio realizzati tra l’inizio del Novecento e gli anni Venti: in
tutti questi casi, niente lavori di risparmio energetico.
C’è poi da considerare che tutte queste esclusioni avranno un impatto molto
significativo sul calcolo dell’efficienza energetica dell’edificio.
Sarà, cioè, molto frequente il caso di facciate nelle quali alcune parti non
saranno considerate nella misurazione di quella che tecnicamente viene
definita “trasmittanza”.
Un vero e proprio slalom per i tecnici, che dovranno capire come verificare
il rispetto dei parametri fissati dal ministero dello Sviluppo economico e
richiamati dalla circolare dell’agenzia delle Entrate.
Per Diego Zoppi, consigliere nazionale degli architetti, la soluzione è
semplice: «La trasmittanza si misura su singole sezioni murarie omogenee
e si moltiplica per la superficie di riferimento. Cioè, ogni volta che c’è
un certo tipo di muro si calcola la trasmittanza e poi si applica quel
valore all’area della parete verticale». In base a questo principio è
allora possibile misurare la trasmittanza anche su superfici disomogenee.
All’atto pratico, per Zoppi, questo calcolo «non dovrebbe creare problemi».
Nel caso di chi interviene su facciate storiche o che comunque non possono
essere modificate, sarà però possibile -conclude Zoppi- usufruire «delle
agevolazioni anche non soddisfacendo i parametri di legge sul risparmio
energetico».
---------------
IN SINTESI
1. Le piastrelle - Se la facciata è ricoperta da piastrelle o altri
materiali per cui gli interventi “termici” non si potrebbero
realizzare senza cambiare l’aspetto dell’edificio, scompare l’obbligo di
effettuare questi interventi, che negli altri casi scatta quando i lavori
sulle parti ammalorate superano il 10% delle superfici opache
2. La trasmittanza - Anche quando si interviene solo su una parte
della facciata, quella priva di piastrelle o di materiali particolari, il
rispetto dei requisiti di trasmittanza per i lavori termici (qualora
obbligatori) è possibile perché il calcolo verrà fatto sulla parte
interessata (articolo Il Sole
24 Ore del
20.02.2020). |
EDILIZIA PRIVATA: Bonus
Facciate 2020: come avere la detrazione del 90%
(20.02.2020 - link a
www.lavoripubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Bonus facciate, Italia divisa in due sulle aree ammesse al
credito d’imposta. Alcune Regioni (come la Lombardia) nelle planimetrie non
usano la divisione in zone A, B e C. Serve una tabella di corrispondenza tra
le definizioni.
Il bonus facciate presenta un
punto critico in merito all’ubicazione dell’edificio ammesso al credito
d’imposta del 90% delle spese sostenute. Una problematica che accomuna le
facciate esterne tanto degli edifici condominiali quanto di quelli con un
unico proprietario. I riferimenti generali sono la legge di Bilancio 2020,
la
circolare 14.02.2020 n. 2/E
e il
decreto ministeriale 1444/1968.
Il problema si pone perché in regioni come, per esempio, la Lombardia e la
Liguria ci sono Comuni che non usano più, nei propri strumenti urbanistici,
le definizioni zona A, B e C come invece, a titolo esemplificativo fanno
ancora oggi la Puglia e la Sicilia, ma utilizzano nuovi termini. Come ambito
storico, ambiti residenziali -con sigle da R1 a R4- e ambiti di
trasformazione .
Un problema di «traduzione»
Definizioni su cui si è cimentato un cattedratico di urbanistica da noi
sentito per il quale -anche se guardando solo una legenda e non la relativa
planimetria di un Comune lombardo- «è sicuramente zona omogenea A
l’ambito storico ed è quasi sicuramente zona omogenea B l’ambito
residenziale consolidato mentre non si evince se gli altri ambiti
residenziali R2 e R3 e soprattutto gli ambiti di trasformazione abbiano i
requisiti previsti dal
Dm
1444/1968 per essere considerati zona omogenea B oppure zona
omogenea C».
Questa l’opinione di Roberto Mascarucci, professore ordinario di urbanistica
all’università d’Annunzio di Chieti-Pescara e presidente dell'Inu (Istituto
nazionale di urbanistica), sezione Abruzzo e Molise.
Invece, a detta dell’ufficio tecnico del Comune in oggetto, all’interno
dell’ambito residenziale, quello consolidato (R1) è invece assimilato
all’area C e quindi escluso dal bonus. Dietro al parere del Comune -l’ente
competente citato dalle Entrate per il rilascio della certificazione- non
c’è una delibera in cui ogni nuova definizione è stata ricondotta alle zone
A, B e C ma il rinvio al vecchio piano regolatore che andrebbe però
interpretato e attualizzato.
Altra cosa è farsi domande sulla praticabilità di un’istanza di un cittadino
che, a seguito di una relazione tecnica, riuscisse a provare al Comune che
nella planimetria c’è un errore e che il proprio immobile soddisfa i
requisiti dell’area B e ha diritto alla certificazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2020). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
richiesta di chiarimenti in merito all'applicazione del c.d. "bonus
facciate"
(MIBACT, Ufficio di Gabinetto,
nota 19.02.2020 n. 4961 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA: Bonus
facciate 2020: gli interventi che accedono alla detrazione fiscale del 90%
(18.02.2020 - link a www.lavoripubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Bonus
facciate 2020 escluso per i cortili chiusi. Detrazione del 90% anche sui
cappotti termici. Sono inclusi i costi dei progetti, dei ponteggi, dei
balconi e delle grondaie.
Sono state pubblicate le
indicazioni dell’agenzia delle Entrate per usufruire del «bonus facciate»,
la detrazione fiscale del 90% delle spese sostenute per gli interventi di
recupero o restauro della facciata esterna degli edifici esistenti, prevista
dalla legge di Bilancio 2020.
Nel testo si ricorda che la super detrazione fiscale si recupera in dieci
rate annuali di pari importo e che è esclusa la formula della cessione del
credito/sconto in fattura prevista per gli ecobonus.
Solo sul perimetro esterno
La
circolare 14.02.2020 n. 2/E spiega che l’agevolazione riguarda
gli interventi effettuati sull’involucro esterno visibile dell’edificio,
vale a dire sia sulla parte anteriore, frontale e principale dell’edificio,
sia sugli altri lati dello stabile (intero perimetro esterno).
Tra i lavori agevolabili rientrano quelli per il rinnovo e consolidamento
della facciata esterna dell’edificio, inclusa la mera tinteggiatura o
pulitura della superficie, e lo stesso vale per i balconi o per eventuali
fregi esterni. E ancora, lavori sulle grondaie, sui pluviali, sui parapetti,
sui cornicioni e su tutte le parti impiantistiche coinvolte perché parte
della facciata dell’edificio.
Il cappotto in facciata è al 90%
Anche le spese per perizie, sopralluoghi, progettazione dei lavori,
installazioni di ponteggi sono comprese nell’agevolazione. Inoltre anche gli
interventi influenti dal punto di vista termico, o che interessino oltre il
10% dell'intonaco della superficie disperdente lorda complessiva
dell'edificio, rientrano nel campo del bonus facciate.
Inquilini tra i beneficiari
I soggetti beneficiari devono possedere o detenere l’immobile oggetto
dell’intervento in qualità di proprietario, nudo proprietario o di titolare
di altro diritto reale di godimento (usufrutto, uso, abitazione o
superficie) oppure detenere l’immobile in base a un contratto di locazione,
anche finanziaria, o di comodato, regolarmente registrato, ed essere in
possesso del consenso all’esecuzione dei lavori da parte del proprietario.
Per i privati bonifici entro il 2020
Per il calcolo del «bonus facciate», per le persone fisiche, compresi
gli esercenti arti e professioni, e per gli enti non commerciali, si deve
far riferimento al criterio di cassa, ovvero, alla data dell’effettivo
pagamento, indipendentemente dalla data di avvio degli interventi. Ad
esempio, un intervento ammissibile iniziato a luglio 2019, ma con pagamenti
effettuati sia nel 2019 che nel 2020, consentirà sì la fruizione del “bonus
facciate” ma solo con riferimento alle spese sostenute nel 2020.
Per le imprese individuali, le società e gli enti commerciali, si guarderà
al “criterio di competenza” e, quindi, alle spese da imputare al
periodo di imposta in corso al 31.12.2020, indipendentemente dalla data di
avvio degli interventi cui le spese si riferiscono e indipendentemente dalla
data dei pagamenti
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.02.2020). |
EDILIZIA PRIVATA: Bonus
facciate 2020: on-line circolare attuativa e guida dell’Agenzia delle Entrate (14.02.2020 - link a
www.lavoripubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Bonus
facciata - Documento di approfondimento tecnico (ANIT -
Associazione Nazionale per l’Isolamento Termico e acustico, 14.02.2020). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Detrazione per gli interventi finalizzati al recupero o restauro della
facciata esterna degli edifici esistenti prevista dall’articolo 1, commi da
219 a 224 della legge 27.12.2019 n. 160 (Legge di bilancio 2020)
(Agenzia delle Entrate,
circolare 14.02.2020 n. 2/E). |
EDILIZIA PRIVATA: Bonus
facciate (ANCE, 12.02.2020). |
EDILIZIA PRIVATA:
Bonus facciate
(Agenzia delle Entrate, febbraio 2020). |
EDILIZIA PRIVATA:
Bonus facciate in stand-by. Cosa fare senza istruzioni.
Lo sconto fiscale c'è, le istruzioni no. Il bonus facciate del 90% è in
vigore dallo scorso 1° gennaio. Ma il ritardo del Fisco nel fornire le
indicazioni applicative -unito a un testo di legge poco comprensibile- sta
bloccando molti cantieri. Partendo dalle istruzioni emanate dalle Entrate in
oltre 20 anni di bonus casa, comunque, si può tentare di mettere qualche
punto fermo. (...continua)
(articolo
Il Sole 24 Ore 10.02.2020
- tratto da www.fondazionecni.it). |
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IN EVIDENZA |
COMPETENZE PROGETTUALI: Secondo
l’art. 16 del r.d. 11.02.1929 n. 274 la competenza professionale dei
geometri riguarda “progetto, direzione, sorveglianza e liquidazione di
costruzioni rurali e di edifici per uso d'industrie agricole, di limitata
importanza, di struttura ordinaria, comprese piccole costruzioni accessorie
in cemento armato, che non richiedono particolari operazioni di calcolo e
per la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo per la
incolumità delle persone” (lett. l), nonché “progetto, direzione e vigilanza
di modeste costruzioni civili” (lett. m).
Il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta e,
quindi, se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei
geometri, consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione
e l’esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle;
a questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben
potendo anche una costruzione “non modesta” essere realizzata senza di
esso), assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in
zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio
alla normativa di cui alla l. 02.02.1974 n. 64, la quale impone calcoli
complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri.
Peraltro, in caso di complessiva modestia dell’opera, la circostanza che
comunque i calcoli relativi alle opere in cemento armato siano stati curati
da un professionista abilitato consente di considerare legittimo il titolo
abilitativo rilasciato su progetto redatto da un geometra.
In base al principio generale della collaborazione tra titolari di diverse
competenze professionali, nulla impedisce che la progettazione e direzione
dei lavori relativi alle opere in cemento armato sia affidata al tecnico in
grado di eseguire i calcoli necessari e di valutare i pericoli per la
pubblica incolumità, e che l’attività di progettazione e direzione dei
lavori, incentrata sugli aspetti architettonici della “modesta” costruzione
civile, sia affidata, invece, al geometra.
Non si tratta, quindi, di assicurare la mera presenza di un ingegnere
progettista delle opere in cemento armato, che controfirmi o si limiti ad
eseguire i calcoli.
Il professionista, che svolge la progettazione con l’uso del cemento armato,
deve pertanto essere competente a progettare e ad assumersi la
responsabilità del segmento del progetto complessivo riferito alle opere in
cemento armato, nel senso appunto che l’incarico non può essere affidato al
geometra, che si avvarrà della collaborazione dell’ingegnere, ma deve essere
sin dall’inizio affidato anche a quest’ultimo per la parte di sua competenza
e sotto la sua responsabilità.
---------------
9.2. Anche il motivo con cui si contesta la competenza professionale del
geometra, direttore dei lavori, è infondato.
Le opere in contestazione consistono nella “realizzazione di una
fondazione in cls. armato per la successiva posa in opera dei capannoni da
allevamento a tunnel prefabbricati. Le sovrastrutture saranno realizzate in
acciaio, con tamponature e copertura in pannelli ‘sandwich’”.
Al riguardo, sono stati gli stessi originari ricorrenti ad evidenziare, nel
corpo del ricorso introduttivo che “il progetto c.d. strutturale è stato
–correttamente– redatto da un Ingegnere, che ha proceduto al deposito ai
fini dell’ottenimento dell’autorizzazione sismica” (pag. 16).
Essi hanno contestato, invece, che il geometra De Ca. sia stato designato “Direttore
dei Lavori” e abbia firmato il “progetto architettonico”.
9.2.1. Secondo l’art. 16 del r.d. 11.02.1929 n. 274 la competenza
professionale dei geometri riguarda “progetto, direzione, sorveglianza e
liquidazione di costruzioni rurali e di edifici per uso d'industrie
agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria, comprese piccole
costruzioni accessorie in cemento armato, che non richiedono particolari
operazioni di calcolo e per la loro destinazione non possono comunque
implicare pericolo per la incolumità delle persone” (lett. l), nonché “progetto,
direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili” (lett. m).
Il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta e,
quindi, se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei
geometri, consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione
e l’esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle;
a questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben
potendo anche una costruzione “non modesta” essere realizzata senza
di esso), assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga
in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio
alla normativa di cui alla l. 02.02.1974 n. 64, la quale impone calcoli
complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri (cfr.
Cons. Stato, sez. V, 23.02.2015, n. 883).
Peraltro, in caso di complessiva modestia dell’opera, la circostanza che
comunque i calcoli relativi alle opere in cemento armato siano stati curati
da un professionista abilitato consente di considerare legittimo il titolo
abilitativo rilasciato su progetto redatto da un geometra (Cons. Stato, sez.
IV, 28.11.2012, n. 6036).
Giova altresì richiamare quanto argomentato nel parere della Sez. II di
questo Consiglio, n. 2539 del 04.09.2015.
In base al principio generale della collaborazione tra titolari di diverse
competenze professionali, nulla impedisce che la progettazione e direzione
dei lavori relativi alle opere in cemento armato sia affidata al tecnico in
grado di eseguire i calcoli necessari e di valutare i pericoli per la
pubblica incolumità, e che l’attività di progettazione e direzione dei
lavori, incentrata sugli aspetti architettonici della “modesta”
costruzione civile, sia affidata, invece, al geometra.
Non si tratta, quindi, di assicurare la mera presenza di un ingegnere
progettista delle opere in cemento armato, che controfirmi o si limiti ad
eseguire i calcoli (Cass. civ., Sez. II, 02.09.2011, n. 18038).
Il professionista, che svolge la progettazione con l’uso del cemento armato,
deve pertanto essere competente a progettare e ad assumersi la
responsabilità del segmento del progetto complessivo riferito alle opere in
cemento armato (TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, 18.04.2013, n. 361, ed
implicitamente TAR Marche, Ancona, 11.07.2013, n. 559), nel senso appunto
che l’incarico non può essere affidato al geometra, che si avvarrà della
collaborazione dell’ingegnere, ma deve essere sin dall’inizio affidato anche
a quest’ultimo per la parte di sua competenza e sotto la sua responsabilità
(Cass. Civ. Sez. II, 30.08.2013, n. 19989).
Nel caso di specie risulta, per come ammesso dagli stessi ricorrenti, che il
“progetto c.d. strutturale è stato –correttamente– redatto da un
Ingegnere, che ha proceduto al deposito ai fini dell’ottenimento
dell’autorizzazione sismica”.
Si deve pertanto ritenere che lo stesso abbia redatto anche il segmento del
progetto complessivo riferito alle opere in cemento armato, assumendosene la
responsabilità
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.02.2020 n. 1341 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
COMPETENZE PROFESSIONALI: E'
legittima la possibilità per un geometra di svolgere consulenze tecniche
d'ufficio (CTU) per la valutazione di opere che incidono sulla statica degli
edifici.
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2. Con il secondo motivo si lamenta violazione degli artt. 16, 17, 18
del r.d. 11.02.1929, n. 274 nonché omessa valutazione di un punto decisivo
della controversia, rilevando che solo ingegneri e architetti hanno la
competenza a valutare opere che incidono sulla statica degli edifici, con la
conseguenza che il parere espresso dal semplice geometra non potrebbe essere
posto a fondamento di alcuna decisione.
La ricorrente aggiunge che la Corte d'appello e, prima ancora, il Tribunale
ben avrebbero potuto disporre una consulenza tecnica d'ufficio.
La doglianza è infondata.
Secondo il costante orientamento di questa Corte, dal quale non vi è motivo
di discostarsi, le norme relative alla scelta del consulente tecnico
d'ufficio hanno natura e finalità esclusivamente direttive, essendo la
scelta riservata, anche per quanto riguarda la categoria professionale di
appartenenza del consulente e la competenza del medesimo a svolgere le
indagini richieste, all'apprezzamento discrezionale del giudice di merito.
Ne consegue che la decisione di affidare l'incarico ad un professionista
(nella specie, geometra) iscritto ad un albo diverso da quello pertinente
alla materia al quale si riferisce la consulenza (nella specie, ingegneri),
ovvero non iscritto in alcun albo professionale, non è censurabile in sede
di legittimità e non richiede specifica motivazione (Cass. 12.03.2010, n.
6050; per la riaffermazione del principio generale, v., di recente, Cass.
28.09.2015, n. 19173).
Alla luce di tali rilievi, la doglianza che investe la mancata nomina di un
diverso consulente tecnico è priva di qualunque fondamento (Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 20.02.2020 n. 4439). |
COMPETENZE PROGETTUALI: L’attività
professionale dei geometri è disciplinata dal R.D. 11.02.1929, n. 274
“Regolamento per la professione di geometra”.
Afferma a tal riguardo consolidata giurisprudenza che è estranea alla
competenza dei geometri la progettazione di costruzioni civili con strutture
in cemento armato, atteso che si tratta di attività che, qualunque ne sia
l'importanza, è riservata solo agli ingegneri ed agli architetti iscritti
nei relativi albi professionali.
Solo in via di eccezione la competenza dei geometri si estende, a norma
della lett. l) dell'art. 16 del R.D. n. 274 del 1929, anche alle strutture
in cemento armato, purché si tratti di piccole costruzioni accessorie
nell'ambito di edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non
richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione
non comportino pericolo per le persone.
Per il resto, la suddetta competenza è comunque esclusa nel campo delle
costruzioni civili ove si adottino strutture in cemento armato, la cui
progettazione e direzione, qualunque ne sia l'importanza, è riservata solo
agli ingegneri e agli architetti iscritti nei relativi albi professionali.
Pertanto, la progettazione e la direzione di opere da parte di un geometra
in materia riservata alla competenza professionale degli ingegneri o degli
architetti sono illegittime, a nulla rilevando in proposito che un progetto
redatto da un geometra sia controfirmato o vistato da un ingegnere o da un
architetto ovvero che un ingegnere o un architetto esegua i calcoli in
cemento armato, atteso che il professionista competente deve essere altresì
titolare della progettazione, trattandosi di competenze inderogabilmente
affidate dal committente al professionista abilitato secondo il proprio
statuto professionale, sul quale gravano le relative responsabilità.
---------------
Tra quelli formulati nel ricorso ritiene il Collegio che sia fondato, con
portata assorbente di ogni altra censura, quello che attiene al dedotto
difetto di competenza in capo al professionista (geometra) che ha elaborato
il progetto posto a base dell’impugnata concessione edilizia, con
conseguente illegittimità della stessa.
L’attività professionale dei geometri è disciplinata dal R.D. 11.02.1929, n.
274 “Regolamento per la professione di geometra”.
Afferma a tal riguardo consolidata giurisprudenza che è estranea alla
competenza dei geometri la progettazione di costruzioni civili con strutture
in cemento armato, atteso che si tratta di attività che, qualunque ne sia
l'importanza, è riservata solo agli ingegneri ed agli architetti iscritti
nei relativi albi professionali.
Solo in via di eccezione la competenza dei geometri si estende, a norma
della lett. l) dell'art. 16 del R.D. n. 274 del 1929, anche alle strutture
in cemento armato, purché si tratti -diversamente dal caso di specie- di
piccole costruzioni accessorie nell'ambito di edifici rurali o destinati
alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di
calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le
persone.
Per il resto, la suddetta competenza è comunque esclusa nel campo delle
costruzioni civili ove si adottino strutture in cemento armato, la cui
progettazione e direzione, qualunque ne sia l'importanza, è riservata solo
agli ingegneri e agli architetti iscritti nei relativi albi professionali (cfr.
ex multis, Cons. Stato, sez. V, 13.01.1999, n. 25; Cass., sez. II,
07.09.2009, n. 19292).
Pertanto, la progettazione e la direzione di opere da parte di un geometra
in materia riservata alla competenza professionale degli ingegneri o degli
architetti sono illegittime, a nulla rilevando in proposito che un progetto
redatto da un geometra sia controfirmato o vistato da un ingegnere o da un
architetto ovvero che un ingegnere o un architetto esegua i calcoli in
cemento armato, atteso che il professionista competente deve essere altresì
titolare della progettazione, trattandosi di competenze inderogabilmente
affidate dal committente al professionista abilitato secondo il proprio
statuto professionale, sul quale gravano le relative responsabilità (cfr.
Cass., sez. 2, 26.07.2006, n. 17028; Cass., sez. 2, 21.03.2011, n. 6402;
Cass., sez. 2, 02.09.2011, n. 18038).
Tenuto conto del quadro normativo e giurisprudenziale così sintetizzato, il
Collegio rileva come l’impugnata concessione edilizia consenta al
controinteressato di eseguire l’ampliamento qualitativo e quantitativo del “Residence
Si.”, mediante la realizzazione di opere che esulano dalla competenza
dei geometri, come sopra definita.
Non è sufficiente a superare il dedotto vizio di incompetenza l’apposizione
sul progetto medesimo, in un secondo tempo e a seguito di rimostranze, anche
del timbro e della firma di un ingegnere, quest’ultimo dotato di competenza,
atteso che difettano chiari e incontrovertibili elementi dai quali potersi
desumere la riferibilità della progettazione in questione a tale figura
professionale
(TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano,
sentenza 13.02.2020 n. 45 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
E' nullo il contratto di affidamento della direzione dei lavori
di costruzioni civili ad un geometra, ove la progettazione richieda
l'esecuzione, anche parziale, dei calcoli in cemento armato, attività
demandata agli ingegneri, attese le limitate competenze attribuite ai
geometri dall'art. 16 del r.d. n. 274 del 1929.
Il criterio per accertare se una costruzione sia da
considerare modesta, e quindi se la sua progettazione rientri nella
competenza professionale dei geometri, ai sensi dell'art. 16, lett. m), r.d.
n. 274 del 1929, consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la
progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti
per superarle; a questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del
cemento armato (ben potendo anche una costruzione non modesta essere
realizzata senza di esso), assume significativa rilevanza il fatto che la
costruzione sorga in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni
intervento edilizio alla normativa di cui alla l. 64 del 1974, la quale
impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei
geometri.
La corte di merito, ha verificato che la costruzione
sorgeva in zona sismica (tanto bastava per affermare l'esclusiva competenza
professionale degli ingegneri e degli architetti ed escludere la competenza
del geometra) e riguardava una casa rurale a due piani fuori terra con
struttura portante in cemento armato, costituita da travi e pilastri, e
quindi di una struttura architettonica particolarmente complessa, che
comportava l'esecuzione, di complicati calcoli.
Ne consegue che, correttamente, la corte ha ritenuto
che la prestazione professionale del Ri. fosse contra legem ed ha dichiarato
la nullità del contratto, ai sensi degli artt. 1418 c.c. e 2229 c.c.,
trattandosi di prestazioni non rientranti tra quelle consentite ai geometri.
---------------
Con il secondo motivo
di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 16 del
R.D. 274/1929, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c, per avere la
Corte d'appello dichiarato nullo il contratto intercorso tra la committente
ed il geometra Ri., in qualità di progettista della costruzione e direttore
delle opere murarie, nonostante si trattasse della progettazione di un
edificio rurale e destinato all'azienda agricola, che non richiedeva
operazioni di calcolo o pericolo per l'incolumità delle persone.
In ogni caso -afferma il ricorrente- si tratterebbe di una "semplice
costruzione civile" e non di un'opere in cemento armato, per la quale
non sussiste il divieto per i geometri di redigere progetti esecutivi e di
massima.
Il motivo non è fondato.
Le competenze del geometra, ai sensi dell'art. 16 del R.D. 274/1929 sono le
seguenti:
l) progetto, direzione, sorveglianza e liquidazione di costruzioni
rurali e di edifici per uso d'industrie agricole, di limitata importanza, di
struttura ordinaria, comprese piccole costruzioni accessorie in cemento
armato, che non richiedono particolari operazioni di calcolo e per la loro
destinazione non possono comunque implicare pericolo per la incolumità delle
persone; nonché di piccole opere inerenti alle aziende agrarie, come strade
vicinali senza rilevanti opere d'arte, lavori d'irrigazione e di bonifica,
provvista d'acqua per le stesse aziende e riparto della spesa per opere
consorziali relative, esclusa, comunque, la redazione di progetti generali
di bonifica idraulica ed agraria e
relativa direzione;
m) progetto, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili.
Questa Corte ha pacificamente affermato che è nullo il contratto di
affidamento della direzione dei lavori di costruzioni civili ad un geometra,
ove la progettazione richieda l'esecuzione, anche parziale, dei calcoli in
cemento armato, attività demandata agli ingegneri, attese le limitate
competenze attribuite ai geometri dall'art. 16 del r.d. n. 274 del 1929
(Cassazione civile sez. II, 24/03/2016, n. 5871, Cass. Civ., sez. 02, del
26/07/2006, n. 17028, Cass. Civ., sez. 02, del 21/03/2011, n. 6402).
Il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta, e
quindi se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei
geometri, ai sensi dell'art. 16, lett. m), r.d. n. 274 del 1929, consiste
nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione
dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle; a questo fine,
mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben potendo anche
una costruzione non modesta essere realizzata senza di esso), assume
significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona sismica,
con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa
di cui alla l. 64 del 1974, la quale impone calcoli complessi che esulano
dalle competenze professionali dei geometri (Cassazione civile sez. II,
17/11/2015, n. 23510).
La corte di merito, con accertamento di fatto incensurabile in sede di
legittimità, ha verificato che la costruzione sorgeva in zona sismica (tanto
bastava per affermare l'esclusiva competenza professionale degli ingegneri e
degli architetti ed escludere la competenza del geometra) e riguardava una
casa rurale a due piani fuori terra con struttura portante in cemento
armato, costituita da travi e pilastri, e quindi di una struttura
architettonica particolarmente complessa, che comportava l'esecuzione, di
complicati calcoli (pag. 9-10 della sentenza impugnata).
Ne consegue che, correttamente, la corte ha ritenuto che la prestazione
professionale del Ri. fosse contra legem ed ha dichiarato la nullità
del contratto, ai sensi degli artt. 1418 c.c. e 2229 c.c., trattandosi di
prestazioni non rientranti tra quelle consentite ai geometri
(Corte di Cassazione, Sez. II
civile,
ordinanza 07.02.2020 n. 2913). |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso
ai documenti amministrativi e detenzione degli atti di cui si chiede
l’ostensione.
L’Amministrazione, in sede di istanza di accesso ai
documenti amministrativi, è tenuta unicamente a rendere gli atti di cui
abbia la disponibilità giuridica e materiale e non anche a compiere
un’attività di ricerca degli stessi presso terzi, anche se soggetti
pubblici, ciò al fine di coniugare il diritto alla trasparenza con
l’esigenza di non pregiudicare, attraverso l'esercizio del diritto di
accesso, il buon andamento dell’Amministrazione, non potendosi azionare il
rimedio di cui all’art. 25 della l. n. 241/1990 allo scopo di riversare su
quest’ultima l’onere di reperire la documentazione richiesta bensì
esclusivamente al fine di ottenere il rilascio di copie di documenti già in
possesso della stessa.
---------------
Il ricorso non è meritevole di accoglimento risultando dagli atti di causa
che, come rappresentato in atti dall’Ateneo resistente, il competente
ufficio dell’Area Risorse Umane dell’Università abbia già l’08.08.2019
consentito al legale di parte ricorrente di accedere al fascicolo personale
del ricorrente e di estrarne copia di tutta la documentazione ivi contenuta,
per un totale di “374 fogli”, come da relativo verbale redatto in
pari data, richiamato anche nella contestata nota del 15.11.2019, in cui,
con riferimento a “l’ulteriore richiesta di acquisizione atti …inerente
l’attività assistenziale del Prof. Vi.Al. nella sua qualità di docente
medico strutturato presso l’Azienda Ospedaliera Policlinico Umberto I”,
si evidenziava “la necessità di rivolgere analoga richiesta ai competenti
Uffici dell’A.O.U. Policlinico Umberto I”.
Ne discende come risulti incontestato che l’Ateneo intimato, già nel
riscontrare la prima richiesta di accesso avanzata dal ricorrente, abbia già
messo a disposizione del ricorrente tutta la documentazione di cui dispone e
che è tenuta a detenere, residuando rispetto ad essa i soli atti relativi
all’attività assistenziale da costui svolta presso un diverso ente
(l’Azienda Ospedaliero Universitaria Policlinico Umberto I) -avente autonoma
personalità giuridica ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 517/1999- al quale
egli afferma di aver, tra l’altro, già avanzato la relativa richiesta.
La giurisprudenza amministrativa è, infatti, consolidata nell’affermare come
l’Amministrazione, in sede di istanza di accesso ai documenti
amministrativi, sia tenuta unicamente a rendere gli atti di cui abbia la
disponibilità giuridica e materiale e non anche a compiere un’attività di
ricerca degli stessi presso terzi, anche se soggetti pubblici, ciò al fine
di coniugare il diritto alla trasparenza con l’esigenza di non pregiudicare,
attraverso l'esercizio del diritto di accesso, il buon andamento
dell’Amministrazione, non potendosi azionare il rimedio di cui all’art. 25
della l. n. 241/1990 allo scopo di riversare su quest’ultima l’onere di
reperire la documentazione richiesta bensì esclusivamente al fine di
ottenere il rilascio di copie di documenti già in possesso della stessa (in
tal senso, ex multis, questo TAR Lazio, Roma, Sezione I, n.
4695/2018, e Sezione III, n. 11291/2017) (TAR Lazio-Roma, Sez. III,
sentenza 19.02.2020 n. 2189 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
presupposto necessario perché sia ammissibile l'istanza di accesso civico
generalizzato è che sia strumentale alla tutela di un interesse generale.
Uno solo è il presupposto imprescindibile di
ammissibilità dell'istanza di accesso civico generalizzato, ossia la sua
strumentalità alla tutela di un interesse generale. La relativa istanza,
dunque, andrà in ogni caso disattesa ove tale interesse generale della
collettività non emerga in modo evidente, oltre che, a maggior ragione, nel
caso in cui la stessa sia stata proposta per finalità di carattere privato
ed individuale.
Lo strumento in esame può pertanto essere utilizzato solo per evidenti ed
esclusive ragioni di tutela di interessi propri della collettività generale
dei cittadini, non anche a favore di interessi riferibili, nel caso
concreto, a singoli individui od enti associativi particolari: al riguardo,
il giudice amministrativo è tenuto a verificare in concreto l'effettività di
ciò, a nulla rilevando tanto meno in termini presuntivi- la
circostanza che tali soggetti eventualmente auto-dichiarino di agire quali
enti esponenziali di (più o meno precisati) interessi generali.
Pertanto, sebbene il legislatore non chieda all'interessato di formalmente
motivare la richiesta di accesso generalizzato, la stessa vada disattesa,
ove non risulti in modo chiaro ed inequivoco l'esclusiva rispondenza di
detta richiesta al soddisfacimento di un interesse che presenti una valenza
pubblica, essendo del tutto estraneo al perimetro normativo della
fattispecie la strumentalità (anche solo concorrente) ad un bisogno
conoscitivo privato.
In tal caso, invero, non si tratterebbe di imporre per via ermeneutica un
onere non previsto dal legislatore, bensì di verificare se il soggetto
agente sia o meno legittimato a proporre la relativa istanza
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.02.2020 n. 1121 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Sul diritto all'accesso civico generalizzato.
Il "diritto all'accesso civico generalizzato" riguarda
la possibilità di accedere a dati, documenti e informazioni detenuti dalle
pubbliche amministrazioni ulteriori rispetto a quelli oggetto di
pubblicazione obbligatoria previsti dal d.lgs. n. 33/2013. La legittimazione
a esercitare il diritto è riconosciuta a chiunque, a prescindere da un
particolare requisito di qualificazione.
La richiesta deve consentire all'amministrazione di individuare il dato, il
documento o l'informazione; sono pertanto ritenute inammissibili richieste
generiche. Nel caso di richiesta relativa a un numero manifestamente
irragionevole di documenti, tale da imporre un carico di lavoro in grado di
compromettere il buon funzionamento dell'amministrazione, la stessa può
ponderare, da un lato, l'interesse all'accesso ai documenti, dall'altro,
l'interesse al buon andamento dell'attività amministrativa (Linee guida
Agenzia Nazionale Anticorruzione-ANAC su accesso civico generalizzato, par.
4.2).
L'esercizio di tale diritto deve svolgersi nel rispetto delle eccezioni e
dei limiti relativi alla tutela di interessi pubblici e privati
giuridicamente rilevanti (articolo 5-bis, comma 2, lettera a), del d.lgs. n.
33/2013) (TAR Valle d'Aosta,
sentenza 05.02.2020 n. 3 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Differenza
tra i presupposti dell'accesso normale e quelli dell'accesso civico
generalizzato, in relazione all'impugnativa di un diniego di permesso di
costruire.
---------------
●
Accesso ai documenti – Istanza – Reiterazione – Possibilità – Condizione.
●
Accesso ai documenti – Accesso generalizzato – Ambito di applicazione –
Individuazione.
●
La reiterazione di una domanda di accesso agli atti è ammissibile se
articolata su fatti nuovi non rappresentati nell'originaria istanza ed a
fronte di diversa prospettazione dell'interesse giuridicamente rilevante
(1).
●
Il diritto all'accesso civico generalizzato riguarda la
possibilità di accedere a dati, documenti e informazioni detenuti dalle
Pubbliche amministrazioni ulteriori rispetto a quelli oggetto di
pubblicazione obbligatoria previsti dal d.lgs. n. 33 del 2013; la
legittimazione a esercitare tale diritto è riconosciuta a chiunque, a
prescindere da un particolare requisito di qualificazione (2).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che tale conclusione discende, nonostante la
qualificazione dell'accesso come diritto, dalla natura impugnatoria del
processo in materia di accesso ai documenti amministrativi; sicché deve
ritenersi inammissibile il ricorso nella sola ipotesi avente ad oggetto la
medesima domanda di accesso a suo tempo già proposta e sulla quale si era
già formata una preclusione procedimentale-processuale.
Nel caso di specie (ove dalla conoscenza di alcuni atti -segnatamente il
citato preavviso di diniego– si ritiene scaturire l'esigenza di ulteriori
acquisizioni documentali, senza che possa configurarsi un utilizzo
frazionato e protratto nel tempo dello strumento procedurale e processuale
del diritto di accesso) non viene in rilievo una ripetuta reiterazione delle
istanze di accesso che si rivela di per sé non conforme alle finalità della
normativa in materia, circa la consentita conoscenza di tutta la
documentazione che l'interessato può ritenere utile per l'accertamento di
fatti che lo riguardano.
(2) Ha chiarito il Tar che la richiesta deve consentire
all’amministrazione di individuare il dato, il documento o l'informazione;
sono pertanto ritenute inammissibili richieste generiche. Nel caso di
richiesta relativa a un numero manifestamente irragionevole di documenti,
tale da imporre un carico di lavoro in grado di compromettere il buon
funzionamento dell’amministrazione, la stessa può ponderare, da un lato,
l’interesse all’accesso ai documenti, dall’altro, l’interesse al buon
andamento dell’attività amministrativa (Linee guida Autorità Nazionale
Anticorruzione-ANAC n. 1309/2016 su accesso civico generalizzato, paragrafo
4.2).
L’esercizio di tale diritto deve svolgersi nel rispetto delle eccezioni e
dei limiti relativi alla tutela di interessi pubblici e privati
giuridicamente rilevanti (art. 5-bis, comma 2, lett. a), d.lgs. n. 33 del
2013) (TAR
Valle d'Aosta,
sentenza 05.02.2020 n. 3 - commento tratto da e link
a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
Con il ricorso in epigrafe, ex art. 166 D.Lgs. 104/2010, il ricorrente,
il Sig.re Gu.Pe., ha impugnato il provvedimento negativo rilasciato dal
Comune di Courmayeur in data 10.06.2019, nell’ambito di un procedimento
avviato presso lo Sportello Unico Enti Locali (la domanda presenta il
04.03.2019; il preavviso di diniego di rilascio di permesso di costruire
emesso il 18.06.2019) per la realizzazione di dortoirs (strutture
ricettive di basso impatto ambientale) ivi asserendosi che l’intervento in
oggetto non è ammissibile in quanto in contrasto con le norme urbanistiche
di cui all’art. 14.4 delle N.T.A. del vigente PRGC, riguardante una zona
specifica la sottozona Ec.
Viene precisato fin da subito che il Comune ha immediatamente rappresentato,
nei colloqui con i tecnici della proprietà e nel parere reso allo Sportello
Unico, che a suo avviso, nelle zone E del Territorio Comunale sarebbe
preclusa l’edificazione; l’opposto da quanto rappresentato dalla famiglia
dell’odierno ricorrente, titolare di una struttura alberghiera nel Comune di
Courmayeur, e che secondo quanto asserito in atti, le aree destinate
all’intervento si trovano in zona E sottozona Ec09 di cui alle N.T.A. del
Piano Regolatore Generale del Comune di Courmayeur, nelle quali, sulla base
dell’art. 14.1 delle stesse, è ammessa la realizzazione di tali strutture.
Infatti, tale norma prevede che nelle zone E entro cui ricade l’area del
ricorrente è ammessa “la realizzazione di [...] bivacchi e posti di tappa
escursionistici o dortoirs, ai sensi di legge ad esclusione delle sottozone
Ed, Ee, Eg, ed Ei”. Ergo, nelle zone Ec quale quella de qua, non
indicate nell’elenco di quelle ove è inibita la realizzazione di dortoirs.
Si è costituito il Comune intimato concludendo per l’inammissibilità ed il
rigetto del ricorso.
Ciò detto, il ricorso è parzialmente fondato e va accolto in parte per le
ragioni e nei limiti (segnatamente temporali ove riferiti alla data della
documentazione richiesta) che seguono, non potendosi condividere le
eccezioni in rito formulate dall’Amministrazione resistente.
Ed, invero, l’eccepita inammissibilità del ricorso per tardività dello
stesso in ragione della mera reiterazione di identiche istanze di accesso
non appare condivisibile nella misura in cui, per un verso, rilevano tra le
stesse significative differenze soggettive ed oggettive; e, per altro verso
e soprattutto, vengono in rilievo sopravvenienze giuridiche e fattuali
(favorevole responso del Difensore Civico interpellato il 20.06.2019 che ha
ritenuto ammissibile l’istanza avanzata dall’odierno ricorrente; preavviso
di diniego di rilascio di permesso di costruire emesso il 18.06.2019, cui,
da un lato, si correla un’autonoma e ulteriore esigenza
conoscitivo-ostensiva in ragione, da un lato, del conseguente esercizio di
poteri partecipativo-procedimentali in punto di osservazione varianti
progettuali; e, dall’altro, in quanto oggetto di distinto ricorso
giurisdizionale presso questo Tribunale, del conseguente, effettivo
esercizio del diritto di difesa); per altro verso, il nuovo ed odiernamente
impugnato atto di riscontro anche alla prima istanza di accesso (nota del
Comune di Courmayeur 29.08.2019).
La reiterazione di una domanda di accesso agli atti, nel caso di specie
quindi, è ammissibile in quanto articolata su fatti nuovi non rappresentati
nell'originaria istanza ed a fronte di diversa prospettazione dell'interesse
giuridicamente rilevante. Tale conclusione discende, nonostante la
qualificazione dell'accesso come diritto, dalla natura impugnatoria del
processo in materia di accesso ai documenti amministrativi; sicché deve
ritenersi inammissibile il ricorso nella sola ipotesi, qui non verificatasi,
avente ad oggetto la medesima domanda di accesso a suo tempo già proposta e
sulla quale si era già formata una preclusione procedimentale-processuale.
Conclusivamente sul punto, appare sì condivisibile in astratto il principio
di diritto per cui la ripetuta reiterazione delle istanze di accesso si
rivela di per sé non conforme alle finalità della normativa in materia,
circa la consentita conoscenza di tutta la documentazione che l'interessato
può ritenere utile per l'accertamento di fatti che lo riguardano, ma non è
questo il caso che ci occupa.
Invero, in ragione dei fatti che hanno connotato l’origine e il successivo
sviluppo della vicenda in contestazione è ragionevole ritenere che dalla
conoscenza di alcuni atti (segnatamente il citato preavviso di diniego), può
dimostratamente scaturire l'esigenza di ulteriori acquisizioni documentali;
senza che possa configurarsi nella specie un utilizzo frazionato e protratto
nel tempo dello strumento procedurale e processuale del diritto di accesso,
comportamento, questo sì idoneo ad introdurre una sorta di mera indagine
sull’attività amministrativa che certamente non può trovare legittimazione
per l’attivazione della relativa azione giurisdizionale, ipotesi che qui,
appunto, non ricorre.
Così definiti i profili di ammissibilità, nel merito si rileva che
l’interesse che muove la domanda d’accesso agli atti –e che è altresì misura
della genericità o meno dell’istanza ostensiva, rispetto alla quale viene in
rilievo l’ulteriore eccezione in rito dell’amministrazione comunale,
parimenti da disattendere- si concretizza nel presupposto di tutela di
proprie situazioni e interessi giuridici di parte in un procedimento
edilizio, così qualificandosi in termine di interesse diretto, concreto e
attuale: l’istante viene, dunque, in rilievo quale portatore di una
posizione giuridica soggettiva tutelata, qualificata e differenziata;
l’esigenza di tutela non è quindi astratta o meramente ipotetica ed, ancora,
vi sono riflessi attuali del documento sulla posizione giuridica tutelata
(l’interesse non è meramente storico documentativo).
Nel caso di specie, infatti, l’interesse è diretto, in quanto il Sig. Pe. è
il titolare della domanda di permesso di costruire -insieme alla sorella- in
esito alla successione dal padre deceduto il 26.03.2019; è altresì concreto
in quanto non volto a una tutela meramente astratta e ipotetica, ma la
documentazione attiene direttamente le questioni relative alla domanda di
permesso di costruire agli atti; ed infine vi è l’attualità dell’interesse
in quanto rileva al fine di evitare un provvedimento di diniego di titolo
edilizio e far valere le posizioni in sede di procedimento (o in denegata
ipotesi in sede giurisdizionale).
Ciò posto quanto all’interesse all’accesso, per quel che attiene l’oggetto
della richiesta, la domanda attiene documenti riconosciuti come accessibili
anche dalla giurisprudenza di questo Tribunale (Tar Valle d’Aosta, sentenza
n. 12/2017).
Il ricorrente ha infatti evidenziato la possibilità e la disponibilità di
voler e poter apportare delle modifiche al progetto, rispetto alle
prescrizioni impartite, esortando il Comune a rivedere la sua posizione
negatoria e a rilasciare parere positivo. Inoltre, al ricorrente risulta che
nelle zone E, sottozone EC09, del territorio Comunale di cui alle Norme
Tecniche di Attuazione, del Piano Regolatore Generale di Courmayeur,
esistono e sono stati assentiti diversi interventi di edificazione;
pertanto, non risulta preclusa l’oggetto di intervento di domanda di
permesso di costruire. Si fa presente, inoltre per completezza, che i
dortoirs sono a basso impatto ambientale e sono in sostanza rifugi di
montagna, ideati per soste brevi.
Per verificare tali aspetti la famiglia Pe. ha inviato ed invitato l’arch.
Ma., a presentare il 05.03.del 2019, con procura speciale rilasciata dalla
famiglia Pe. prima della morte del padre avvenuta il 26.03.2019, una propria
istanza di accesso agli atti per ottenere i titoli relativi agli interventi
realizzati nelle zone E, con possibilità anche di presa di visione del
registro cronologico relativo alle medesime zone delle relative pratiche
edilizie, al fine di verificare come prevedere l’edificazione dell’area,
motivando l’istanza in relazione alle proprie esigenze professionali,
accludendone parere legale a riprova delle ragioni che legittimavano la sua
richiesta, rimasta senza riscontro.
Allora, il Sig.re Gu.Pe. ha presentato il progetto edilizio presso gli
Uffici comunali il 12.03.2019, difatti, in data 21.03.2019 richiedeva alla
medesima Amministrazione di avere accesso a tutto quanto già detto in
epigrafe del ricorso. È evidente che l’interesse all’accesso, risulta essere
essenziale per la cura dei propri interessi giuridici (ex art. 24, comma 7,
l. n. 241/1990 “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso
ai documenti amministrativi, la cui conoscenza sia necessaria per curare o
per difendere i propri interessi giuridici”.
E la giurisprudenza è uniformemente orientata nell’affermare che “- è jus
receptum il principio (cfr., per tutti, Cons. St., IV, 19.04.2017 n. 1832)
per cui, di regola, il diritto di accesso non soffre limitazioni se non
quelle espressamente previste con legge o in base, comunque, a norme
evincibili da ordinamenti di settore” (Cons. Stato, sez. VI, 06.09.2018,
n. 5257).
Ovviamente, tale interesse è rivolto a far valere in sede procedimentale le
ragioni del ricorrente, ragioni per le quali il procedimento di rilascio del
permesso di costruire è, ancora, in corso e in quella sede, si puntualizza
la disponibilità asseveratrice e servizievole del ricorrente medesimo, alla
revisione di alcuni degli aspetti progettuali presentati e valutati in
maniera favorevole anche alle Amministrazioni coinvolte nel Procedimento
Unico in parola, per permettere di apportare con le dovute modifiche “a
compimento” il progetto, in concerto con gli Enti emittenti, previo
rilascio del permesso.
Anche questa richiesta, però, veniva palesemente archiviata e respinta
ritenendola inammissibile, il 12.04.2019 da parte dell’Amministrazione, in
quanto ritenuta “non ammissibile” ai sensi degli artt. 40, c. 2; 41,
c. 2; 43, c. 3 e 4 della Legge Regionale Valle d’Aosta 06.08.2007, n. 19.
A seguito di apposito sollecito presentato dal Sig.re Pe. in data
14.05.2019, il ricorrente il 03.06.2019 invitava ed ammoniva ancora una
volta l’Amministrazione ed pungolava il Difensore Civico della Regione Valle
d’Aosta ad esercitare funzioni d’intervento nei confronti del Comune in
indirizzo, in forza della vigente Convenzione stipulata tra
l’Amministrazione Comunale e il Consiglio regionale il 03.08.2018, in
combinato disposto con l’art. 11, c. 2, della Legge Regionale Valle d’Aosta
n. 17/2001.
A questo punto, il Difensore Civico interpellato il 20.06.2019 ha ritenuto
ammissibile l’istanza avanzata dallo scrivente disponendo che: “le
concessioni edilizie sono atti pubblicati all’Albo Pretorio, non solo, non
si fa luogo, come nel caso di specie, a scrutinio in ordine alla protezione
di dati personali, ai sensi dell’art. 5-bis, comma 2, lett. a), d.lgs. n.
33/2013”. Non è questo il caso di opporre il diritto alla riservatezza
dei dati, “poiché il titolo abilitativo non attiene alla sfera privata
del titolare, ma ad un atto di gestione del territorio”. Ha riconosciuto
il diritto di accesso del ricorrente, seppure qualificando la posizione come
“accesso civico generalizzato”, trattandosi di atti pubblici esposti
per estratto all’albo.
Sul punto appare utile precisare che il “diritto all'accesso civico
generalizzato” riguarda la possibilità di accedere a dati, documenti e
informazioni detenuti dalle pubbliche amministrazioni ulteriori rispetto a
quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria previsti dal d.lgs. n. 33/2013.
La legittimazione a esercitare il diritto è riconosciuta a chiunque, a
prescindere da un particolare requisito di qualificazione.
La richiesta deve consentire all’amministrazione di individuare il dato, il
documento o l'informazione; sono pertanto ritenute inammissibili richieste
generiche. Nel caso di richiesta relativa a un numero manifestamente
irragionevole di documenti, tale da imporre un carico di lavoro in grado di
compromettere il buon funzionamento dell’amministrazione, la stessa può
ponderare, da un lato, l’interesse all’accesso ai documenti, dall’altro,
l’interesse al buon andamento dell’attività amministrativa (Linee guida
Agenzia Nazionale Anticorruzione-ANAC su accesso civico generalizzato,
paragrafo 4.2).
L’esercizio di tale diritto deve svolgersi nel rispetto delle eccezioni e
dei limiti relativi alla tutela di interessi pubblici e privati
giuridicamente rilevanti (articolo 5-bis, comma 2, lett. a), del d.lgs. n.
33/2013).
Nel caso di specie, pur coesistendo diversi livelli di esercizio del diritto
di accesso, non appare necessario procedere in astratto alla perimetrazione
dei rispettivi ambiti di operatività ed ai reciproci rapporti di
interferenza.
Sul punto, come noto, recentemente (Cons. St., sez. III, ord., 16.12.2019,
n. 8501), sono state rimesse al vaglio dell’Adunanza Plenaria del Consiglio
di Stato, tre progressive questioni ermeneutiche scaturenti dal complesso
intreccio normativo sulla materia de qua e rispettivamente volte a chiarire,
al di là dello specifico riferimento al settore dei contratti pubblici,
per un verso, se, in presenza di un’istanza di accesso ai documenti
espressamente motivata con esclusivo riferimento alla disciplina generale di
cui alla l. n. 241 del 1990, o ai suoi elementi sostanziali,
l’amministrazione, una volta accertata la carenza del necessario presupposto
legittimante della titolarità di un interesse differenziato in capo al
richiedente, ai sensi dell’art. 22, l. n. 241 del 1990, sia comunque tenuta
ad accogliere la richiesta, qualora sussistano le condizioni dell’accesso
civico generalizzato di cui al d.lgs. n. 33 del 2013; per altro verso,
se, di conseguenza, il giudice, in sede di esame del ricorso avverso il
diniego di una istanza di accesso motivata con riferimento alla disciplina
ordinaria di cui alla l. n. 241 del 1990 o ai suoi presupposti sostanziali,
abbia il potere-dovere di accertare la sussistenza del diritto del
richiedente, secondo i più ampi parametri di legittimazione attiva stabiliti
dalla disciplina dell’accesso civico generalizzato.
Nella odierna vicenda, come sopra argomentato e con la precisazione
temporale di cui si dirà, non emerge un problema di previa qualificazione in
ragione della riscontrata sussistenza dei presupposti normativi di
riferimento.
Ed, invero, deve aggiungersi, per questo caso, che, a far data dall’entrata
in vigore della legge 10/1977, che operò la separazione tra diritto di
proprietà e diritto a costruire, o ad edificare, sottratto alla privata
disponibilità in quanto ritenuto afferente a preminente interesse collettivo
(TAR Valle d’Aosta, Sez. I, sent. n. 12/2017), sussiste il diritto di
accedere ai titoli abilitativi rilasciati per atti progettuali
interventistici, risultando per tanto allo stato della controversia attuale
illegittimo il diniego all’ostensione dei documenti. Nel caso di specie, il
difensore civico ha chiaramente rappresentato l’ammissibilità della
richiesta, senza riscontro alcuno del Comune, con ciò contravvenendo al
disposto dell’art. 12, c. II, l.r. 17/2001, in forza del quale “qualora
l'amministrazione non intenda uniformarsi alle osservazioni, deve fornire
adeguata motivazione scritta del dissenso al Difensore civico”. La
domanda d’accesso deve essere evasa alla luce del pronunciamento del
difensore civico, la cui mancata ottemperanza profila l’omissione ai propri
doveri d’ufficio riconosciuti tali dal difensore civico regionale.
Inoltre, al fine di contestare il preavviso di diniego e il provvedimento di
diniego del permesso di costruire, il ricorrente ha necessità della
documentazione richiesta, atteso che riguarda titoli edilizi rilasciati su
aree aventi la medesima destinazione urbanistica di quella del ricorrente e
perché risulta essere essenziale ai fini di un corretto esercizio di difesa
e che sussistono fatti nuovi su cui si fonda.
Non vi è inoltre ragione per pretese difficoltà di reperimento della
documentazione, sia perché si riferisce ad alcune aree specifiche, sia
perché l’accesso potrà essere esercitato progressivamente, senza nessuna
altra procrastinazione.
Deve invece osservarsi, in ciò condividendosi il rilievo comunale, che,
proprio in ragione della complessiva tipologia di bisogno conoscitivo che
sorregge l’istanza ostensiva, non possa consentirsi il suo esercizio con
riferimento all’intero intervallo di tempo richiesto (01.01.2008/31.12.2018,
come da istanza dell’08/07/2019), trattandosi di un’estensione cronologica
della domanda di accesso ultronea rispetto all’interesse fatto valere e che,
come detto, si concentra sulla portata ermeneutica n.t.a. de quibus
(che, non prevedendo indici per le zone E, avrebbero con ciò inteso
precludere interventi su di esse) e ad appurare a tal fine l’orientamento
espresso in precedenza dal medesimo Comune in aree con la stessa
destinazione.
Ne consegue che –posto che, per un verso, il testo definitivo delle N.T.A. è
stato approvato con deliberazione del Consiglio comunale del 22/02/2013, n.
8 ed è divenuto efficace in data 19/03/2013; e, per altro verso, le norme di
carattere generale dettate per le zone di tipo E paragrafo 14.1, lett. e)
confermano “le destinazioni d’uso in atto al 31.03.2012”, ancorché
diverse da quelle previste nelle rispettive sottozone-, l’istanza di accesso
non può operare nei confronti dei titoli rilasciati dopo il 2008 e prima
dell’entrata in vigore delle N.T.A. (19.3.2013), così come per quelli
rilasciati dopo il 2008 e relativi a destinazioni d’uso diverse ma in atto
al 31/03/2012: ed, invero, non potendo le N.T.A. costituire rispetto a tali
atti valido parametro giuridico di riferimento, difetta un interesse
giuridicamente rilevante alla loro acquisizione documentale.
Non appare invece parimenti condivisibile l’ulteriore limitazione tipologica
invocata dal Comune resistente e relativa ad interventi post. 19.03.2013 ed
sottozone diverse dalla Ec: ed, invero, operando per talli interventi
edilizi il medesimo regime tecnico-giuridico, sussiste comunque un
qualificato interesse all’acquisizione della relativa documentazione onde
verificare, sia pure in diverse sottozone, ma assoggettate alla medesima
regula juris, quale ne sia stata l’interpretazione del comune per
differentiam.
Analoghi rilievi, anche in ragione della identità di tipologia edilizia,
concernono la piena ammissibilità dell’istanza di accesso rispetto ai
segnalati ai titoli edilizi rilasciati per le aree relative agli edifici
Rifugio Bertone, Rifugio Elisabetta, Cabane du ombal, Le Randonneur.
In conclusione il ricorso va in parte accolto, ordinando, nei limiti
sopradescritti, l’esibizione ed il rilascio della documentazione richiesta
con riferimento ai titoli successivi al 19.03.2013. |
ATTI AMMINISTRATIVI: L’accesso ai documenti amministrativi è oggi regolamentato da
tre sistemi
generali, ognuno caratterizzato da propri limiti e presupposti:
a) il tradizionale accesso documentale (artt. 22 ss. l. n. 241/1990), che
consente ai (soli) soggetti portatori di un “interesse diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata” di
accedere ai dati incorporati in supporti documentali formati o, comunque,
detenuti da soggetti pubblici;
b) l'accesso civico, concesso a “chiunque” per ottenere “documenti,
informazioni o dati” di cui sia stata omessa la pubblicazione normativamente
imposta (art. 5, comma 1, d.lgs. n. 33/2013);
c) l’accesso civico generalizzato, concesso “senza alcuna limitazione quanto
alla legittimazione soggettiva” e, perciò, senza necessità di apposita
“motivazione” giustificativa in relazione a “dati, informazioni o documenti”
ancorché non assoggettati all’obbligo di pubblicazione (art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33/2013).
Si tratta di istituti a carattere generale ma ognuno con oggetto diverso, e
sono applicabili ognuno a diverse e specifiche fattispecie: ne segue che
ognuno di essi opera nel proprio ambito di azione senza assorbimento della
fattispecie in un’altra, e senza abrogazione tacita o implicita ad opera
della disposizione successiva poiché diverso è l’ambito di applicazione di
ciascuno di essi. Ognuno di questi presenta caratteri di specialità rispetto
all’altro. Di conseguenza, come ritenuto in tale arresto che il Collegio
condivide, laddove il richiedente abbia espressamente optato per un modello
è precluso all’Amministrazione qualificare diversamente l’istanza, al fine
di individuare la disciplina applicabile.
Correlativamente il richiedente, una volta effettuata la propria istanza
motivata dai presupposti di una specifica forma di accesso, non potrà
effettuare una conversione della stessa in corso di causa. Questa infatti si
radica su una specifica richiesta e sulla relativa risposta negativa
dell’Amministrazione che concorrono a formare l’oggetto del contendere. Non
può quindi ammettersi un mutamento del titolo giuridico dell’accesso in
corso di controversia poiché il rapporto tra richiedente ed Amministrazione
(o soggetto equiparato) si è formato non attorno ad un generico (asserito)
diritto del primo di accedere a una determinata documentazione ma su una
richiesta precisamente connotata nei suoi presupposti giuridici e fattuali.
È su questo rapporto che la controversia verte, ed è questo l’oggetto del
contendere.
La coesistenza di tre diverse specie di accesso agli atti, ciascuna
distintamente regolata nei suoi presupposti, induce a ritenere che non
esista, nel nostro ordinamento, un unico e generale diritto del privato ad
accedere agli atti amministrativi che possa farsi valere a titolo diverso.
Esistono invece specifiche situazioni nei rapporti di pubblico all’interno
delle quali, al venire in essere di determinati presupposti (diversi in
ognuna di esse), il privato assume titolo ad accedere alla documentazione
amministrativa, con limiti e modalità diversificate nelle varie ipotesi. È
onere del richiedente individuare quale sia la sua situazione e, pertanto,
quale tipologia di accesso azionare, eventualmente in via cumulativa. Una
volta effettuata la scelta, è su tale rapporto che si incardina la
controversia e lo stesso non può dunque essere riqualificato in sede
giudiziaria.
---------------
Ai fini della qualificazione della sua natura l'atto amministrativo va
interpretato in base al suo specifico contenuto risalendo al potere
concretamente esercitato dall'amministrazione, prescindendo dal nomen iuris
che gli è stato assegnato.
---------------
2. La domanda di accesso è stata formulata dalla ricorrente ai sensi
della legge n. 241/1990 assumendo di avere un interesse “diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento” richiesto, come prevede l’articolo 22, comma 1,
lett. b), della citata normativa.
Nel ricorso chiede però che la sua domanda
venga accolta non solo ai sensi di questa normativa, ma anche a titolo di
accesso civico generalizzato e, inoltre, in quanto avrebbe ad oggetto
informazioni ambientali ai sensi del d.lgs. n. 195/2005.
La difesa di ARPAT replica che tale riqualificazione della domanda di
accesso in sede processuale non sarebbe possibile.
Ai fini della trattazione della controversia occorre quindi, in via
preliminare, stabilire se tale riqualificazione sia legittima ed individuare
dunque se alla fattispecie sia applicabile la sola legge n. 241/1990 o,
invece, anche le altre normative invocate dalla ricorrente. A tal fine il
Collegio reputa di ripercorrere le considerazioni contenute nella sentenza
del Consiglio di Stato, Sez. V, 02.08.2019 n. 5503 la quale, se pure resa
in tema di accesso agli atti di una gara d’appalto, contiene principi
applicabili in via generale e quindi anche al caso di specie.
L’accesso ai documenti amministrativi è oggi regolamentato da tre sistemi
generali, ognuno caratterizzato da propri limiti e presupposti:
a) il tradizionale accesso documentale (artt. 22 ss. l. n. 241/1990), che
consente ai (soli) soggetti portatori di un “interesse diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata” di
accedere ai dati incorporati in supporti documentali formati o, comunque,
detenuti da soggetti pubblici;
b) l'accesso civico, concesso a “chiunque” per ottenere “documenti,
informazioni o dati” di cui sia stata omessa la pubblicazione normativamente
imposta (art. 5, comma 1, d.lgs. n. 33/2013);
c) l’accesso civico generalizzato, concesso “senza alcuna limitazione quanto
alla legittimazione soggettiva” e, perciò, senza necessità di apposita
“motivazione” giustificativa in relazione a “dati, informazioni o documenti”
ancorché non assoggettati all’obbligo di pubblicazione (art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33/2013).
Si tratta di istituti a carattere generale ma ognuno con oggetto diverso, e
sono applicabili ognuno a diverse e specifiche fattispecie: ne segue che
ognuno di essi opera nel proprio ambito di azione senza assorbimento della
fattispecie in un’altra, e senza abrogazione tacita o implicita ad opera
della disposizione successiva poiché diverso è l’ambito di applicazione di
ciascuno di essi. Ognuno di questi presenta caratteri di specialità rispetto
all’altro. Di conseguenza, come ritenuto in tale arresto che il Collegio
condivide, laddove il richiedente abbia espressamente optato per un modello
è precluso all’Amministrazione qualificare diversamente l’istanza, al fine
di individuare la disciplina applicabile.
Correlativamente il richiedente, una volta effettuata la propria istanza
motivata dai presupposti di una specifica forma di accesso, non potrà
effettuare una conversione della stessa in corso di causa. Questa infatti si
radica su una specifica richiesta e sulla relativa risposta negativa
dell’Amministrazione che concorrono a formare l’oggetto del contendere. Non
può quindi ammettersi un mutamento del titolo giuridico dell’accesso in
corso di controversia poiché il rapporto tra richiedente ed Amministrazione
(o soggetto equiparato) si è formato non attorno ad un generico (asserito)
diritto del primo di accedere a una determinata documentazione ma su una
richiesta precisamente connotata nei suoi presupposti giuridici e fattuali.
È su questo rapporto che la controversia verte, ed è questo l’oggetto del
contendere.
La coesistenza di tre diverse specie di accesso agli atti, ciascuna
distintamente regolata nei suoi presupposti, induce a ritenere che non
esista, nel nostro ordinamento, un unico e generale diritto del privato ad
accedere agli atti amministrativi che possa farsi valere a titolo diverso.
Esistono invece specifiche situazioni nei rapporti di pubblico all’interno
delle quali, al venire in essere di determinati presupposti (diversi in
ognuna di esse), il privato assume titolo ad accedere alla documentazione
amministrativa, con limiti e modalità diversificate nelle varie ipotesi. È
onere del richiedente individuare quale sia la sua situazione e, pertanto,
quale tipologia di accesso azionare, eventualmente in via cumulativa. Una
volta effettuata la scelta, è su tale rapporto che si incardina la
controversia e lo stesso non può dunque essere riqualificato in sede
giudiziaria.
La richiesta della ricorrente, effettuata ai sensi della legge n. 241/1990,
non può quindi essere (ri)esaminata alla luce del d.lgs. n. 33/2013.
Le medesime considerazioni valgono con riferimento alla richiesta
qualificazione dell’istanza di accesso della ricorrente alla stregua di una
domanda di informazioni ambientali ex d.lgs. n. 195/2005, poiché questa a
sua volta costituisce un sottosistema normativo disciplinante una
fattispecie specifica di accesso ed operante solo nel proprio ambito.
Non si tratta di lettura formalistica della normativa, ma di individuare
l’ambito preciso della presente controversia e del rapporto su cui verte.
ARPAT ha fornito risposta negativa ad un’istanza di accesso formulata ai
sensi della legge n. 241/1990 e ove il giudizio venisse esteso alla verifica
della sua fondatezza ai sensi di normative non richiamate nella stessa, e
sulle quali quindi la stessa ARPAT non ha fornito alcuna risposta (e non
doveva farlo), sarebbe violato il divieto a carico di questo Giudice di
pronunciarsi con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati
posto dall’articolo 34, comma 2, del codice di rito.
A prescindere dalla
qualificazione della posizione dell’accedente in termini di diritto
soggettivo o di interesse legittimo, questione ancora irrisolta, è certo che
la decisione sulla richiesta di ostensione di un documento deve essere
preceduta da un’attività amministrativa volta a verificare la sua
corrispondenza allo schema normativamente prefigurato e alla tutela
normativamente stabilita dei contrapposti interessi, in primo luogo quello
alla riservatezza dei soggetti i cui dati sono rappresentati nei documenti
oggetto di domanda. Al Giudice, ex art. 34, comma 2, c.p.a. non può quindi
che essere interdetta la riqualificazione dell’istanza presentata dalla
ricorrente poiché si sostituirebbe inammissibilmente all’Amministrazione in
poteri non ancora esercitati.
Sotto tale profilo appare irrilevante il regolamento dell’ARPAT richiamato
dalla ricorrente in memoria, così come irrilevante è la circostanza che le
premesse del provvedimento negativo impugnato contengano un riferimento
all’art. 5, comma 3, del d.lgs. 33/2013 in tema di accesso civico
generalizzato poiché questo appare frutto di refuso e comunque non è
vincolante ai fini del decidere, in base al principio secondo il quale ai
fini della qualificazione della sua natura l'atto amministrativo va
interpretato in base al suo specifico contenuto risalendo al potere
concretamente esercitato dall'amministrazione, prescindendo dal nomen iuris
che gli è stato assegnato (C.d.S. II, 30.09.2019 n. 6534).
L’ARPAT ha
inteso negare l’accesso in base alla legge n. 241/1990 come mostra il
contenuto del dispositivo, nel quale si respinge l’istanza della ricorrente
“ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. b, L. 241/1990” poiché essa “non
risulta titolare di un interesse diretto, concreto ed attuale corrispondente
ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata ai documenti
richiesti”.
ARPAT ha esaminato e statuito sull’istanza della ricorrente
valutando la sussistenza dei presupposti stabiliti, ai fini dell’accesso,
dalla legge n. 241/1990 e in base a questa sarà deciso la controversia.
Questa si è infatti formata in ordine ad un rapporto giuridico con una sua
precisa qualificazione, attribuita dalla ricorrente stessa alla propria
istanza, ed è su tale tipo di rapporto, con tale specifica qualificazione,
che questo Giudice deve statuire.
3. Venendo quindi alle conclusioni, in applicazione delle coordinate
normative desumibili dalla legge n. 241/1990 ai sensi della quale, si
ripete, l’istanza è stata formulata, il ricorso deve essere respinto. ARPAT
nel provvedimento di diniego ha infatti chiarito che le terre movimentate
dall’impresa Au. vengono depositate su un terreno distante da quello
della ricorrente e, pertanto, in alcun modo potrebbero apportarle danni.
La ricorrente valorizza, a sostegno delle proprie posizioni, il suo
interesse a verificare se i lavori nel fondo confinante avvengano nel
rispetto della normativa ambientale. Una volta però appurato che, con
riferimento alle terre movimentate, alcun danno può derivare al fondo di sua
proprietà, tale interesse legittimo sfuma in interesse di mero fatto poiché
se l’attività della controinteressata non è in grado di incidere in alcun
modo su posizioni giuridicamente tutelate della ricorrente (almeno per
quanto concerne l’oggetto della presente controversia, ovvero le terre di
risulta dei lavori effettuati), ebbene detto interesse in nulla si
differenzia dall’interesse non qualificato né differenziato facente capo al
quivis de populo ad esercitare un controllo generalizzato sulla legittimità
dell’operato amministrativo, e non costituisce pertanto “situazione
giuridicamente tutelata” che legittimi l’accesso alla dichiarazione di
utilizzo delle terre e rocce di scavo inoltrata dalla controinteressata.
Non è conferente il parallelo effettuato della ricorrente con l’accesso alla
documentazione riguardante il rispetto, da parte del confinante, della
normativa edilizia ed urbanistica nell’esecuzione di interventi edificatori
poiché le modalità di questi possono sempre incidere sulle caratteristiche
del fondo confinante e, in particolare, sul suo valore, stante il
collegamento materiale stabile fra i terreni, collegamento che deve comunque
sempre essere oggetto di dimostrazione (C.d.S. V, 27.03.2019 n. 2025).
Il
rispetto della normativa ambientale, una volta appurato che non esiste alcun
collegamento fra il materiale potenzialmente inquinante e il fondo vicino a
quello oggetto di intervento, rappresenta un interesse che non si
differenzia da quello generale, proprio della collettività indifferenziata,
al rispetto della legge da parte della pubblica amministrazione.
Per queste ragioni il ricorso deve essere respinto
(TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 20.12.2019 n. 1748 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI: Sul
potere che l'amministrazione esercita quando concede provvedimenti
attributivi di vantaggi economici.
L’art. 12 L. 07.08.1990, n. 241 (provvedimenti
attributivi di vantaggi economici) esprime un principio di carattere
generale dell’azione amministrativa in forza del quale l’erogazione di somme
di denaro da parte di un’amministrazione pubblica, in qualsiasi forma
avvenga, e, dunque, anche a prescindere dalla comparazione tra diverse
domande nell’ambito di uno stanziamento contingentato, non può considerarsi
completamente libera, essendo necessario che la discrezionalità che connota
tale attività sia incanalata mediante la preventiva predisposizione di
criteri e modalità di scelta del progetto o dell’attività da beneficiare.
La preventiva predisposizione dei suddetti criteri e il correlativo richiamo
ad essi nel provvedimento di concessione costituisce condizione di validità
del provvedimento.
Il carattere necessariamente limitato delle risorse a disposizione
dell’amministrazione impone che sia possibile il controllo e la verifica
delle ragioni dell’impegno di spesa, affinché l’erogazione non dia luogo ad
ingiusti favoritismi, cosa che può avvenire solamente mediante la preventiva
predisposizione di una griglia di criteri cui l’amministrazione debba
attenersi nella scelta del beneficiario.
In questo modo l’art. 12 esprime il principio della necessaria
predeterminazione del contenuto delle decisioni amministrative da attuare
mediante la tecnica del c.d. autolimite.
---------------
... per la riforma della
sentenza 15.01.2016 n. 19
del TAR SARDEGNA, Sez. I, resa tra le parti, concernente l’annullamento
della determinazione n. 272 del 02.12.2014 del Commissario straordinario
dell’Agenzia governativa Sardegna promozione, con la quale è stato annullato
in autotutela il finanziamento concesso alla ricorrente per l’evento “tnatura
italy Sardegna 2014”.
...
8. Il motivo di appello è infondato.
8.1. L’art. 12 l. 07.08.1990 n. 241, rubricato “Provvedimenti attributivi
di vantaggi economici” stabilisce che “La concessione di sovvenzioni,
contributi, sussidi ed ausili finanziari di qualunque genere a persone ed
enti pubblici e privati sono subordinati alla predeterminazione da parte
delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi
ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse
devono attenersi”. Il secondo comma, poi, specifica che “L’effettiva
osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve risultare dai
singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1”.
8.2. La giurisprudenza amministrativa ha da tempo assunto una posizione
rigorosa nell’interpretazione della riportata disposizione; si è affermato,
infatti, che l’art. 12 esprime un principio di carattere generale
dell’azione amministrativa in forza del quale l’erogazione di somme di
denaro da parte di un’amministrazione pubblica, in qualsiasi forma avvenga,
e, dunque, anche a prescindere dalla comparazione tra diverse domande
nell’ambito di uno stanziamento contingentato, non può considerarsi
completamente libera, essendo, invece, necessario che la discrezionalità che
connota tale attività sia incanalata mediante la preventiva predisposizione
di criteri e modalità di scelta del progetto o dell’attività da beneficiare.
La preventiva predisposizione dei suddetti criteri e il correlativo richiamo
ad essi nel provvedimento di concessione costituisce, dunque, condizione di
validità del provvedimento (cfr. Cons. Stato, sez V, 14.06.2017 n. 2914,
Cons. Stato, sez. V, 23.03.2015, n. 1552).
8.3. Si tratta di orientamento da cui non vi è motivo per discostarsi: il
carattere necessariamente limitato delle risorse a disposizione
dell’amministrazione impone che sia possibile il controllo e la verifica
delle ragioni dell’impegno di spesa, affinché l’erogazione non dia luogo ad
ingiusti favoritismi, cosa che può avvenire solamente mediante la preventiva
predisposizione di una griglia di criteri cui l’amministrazione debba
attenersi nella scelta del beneficiario.
In questo modo l’art. 12 esprime il principio della necessaria
predeterminazione del contenuto delle decisioni amministrative da attuare
mediante la tecnica del c.d. autolimite (per una prima enunciazione, cfr.
Cons. Stato, sez. VI, 06.06.1984 n. 365)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 08.11.2017 n. 5149 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Secondo
consolidati principi elaborati in materia di esercizio del potere di autotutela su provvedimenti di
illegittima erogazione di denaro pubblico, non è necessario, in
queste ipotesi, motivare specificamente in ordine alla sussistenza di un
interesse pubblico specifico né tener conto dell’interesse del privato e
dell’affidamento maturato, nonché di quanto previsto, sul piano del diritto
positivo, dall’art. 1, comma 136, della legge 30.12.2004, n. 311,
applicabile ratione temporis, nella parte in cui prevede che
l’annullamento di ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi,
finalizzato al conseguimento di risparmi o minori oneri finanziari, «può
sempre essere disposto».
---------------
7. – Come anticipato, nel contestare che nella vicenda in esame potesse
essere legittimamente esercitato il potere di annullamento d’ufficio, la
società ricorrente sostiene che non sussistessero le illegittimità rilevate
dall’Agenzia regionale.
E in particolare rileva come non corrisponda al vero che la decisione di
inserire l’evento tra le azioni programmate per la BI. 2014 abbia preceduto
la presentazione del progetto da parte di Is.Gr.; decisione che sarebbe
dipesa esclusivamente dal fatto che si trattava di evento già finanziato
dall’Agenzia nel 2013 (e dall’Assessorato regionale al Turismo nel 2001 e
2012) e che, per gli ottimi risultati conseguiti, l’Agenzia ha provveduto a
inserire nella programmazione del 2014.
7.1. - La censura non è fondata.
In primo luogo, occorre rilevare che dalle note del 12.12.2013, n. 3609, e
del 19.12.2013, n. 3814, con le quali il Direttore Centrale dell’Agenzia
comunicava alla società ricorrente la concessione del contributo (cfr. doc.
5 e 9, di parte ricorrente), non emergono richiami a precedenti
determinazioni dalle quali evincere la predeterminazione dei criteri e
modalità per la selezione dei progetti e l’erogazione dei finanziamenti,
come prescritto dall’art. 12 della legge n. 241 del 1990.
Anche la determinazione del 16.12.2013, n. 428, con la quale il direttore
centrale dell’Agenzia assumeva l’impegno di spesa relativo al contributo,
non contiene alcun riferimento ai criteri in base ai quali è stata
effettuata la scelta di finanziare l’evento, né richiama precedenti
provvedimenti che abbiano disposto in tal senso.
E d’altronde non sarebbe stato sufficiente nemmeno il rinvio agli atti di
approvazione delle linee programmatiche e degli obiettivi e degli scopi che
l’Agenzia intendeva perseguire nel corso del 2013, posto che –come già
sottolineato- l’art. 12 della legge n. 241/1990 prescrive la specifica
indicazione di criteri e modalità per operare la selezione dei soggetti
(proponenti i progetti conformi agli obiettivi approvati con l’atto
programmatico) destinatari dei finanziamenti.
7.2. - Le considerazioni appena svolte implicano l’accertamento della
fondatezza di (almeno) uno dei vizi di legittimità posti
dall’amministrazione a base dell’annullamento d’ufficio; sufficiente,
peraltro, per giustificare l’esercizio del potere contemplato dall’art.
21-nonies della legge n. 241 del 1990. Ne deriva come ulteriore conseguenza
la irrilevanza delle restanti censure con le quali parte ricorrente intende
confutare gli altri vizi individuati dall’Agenzia; censure che, quindi,
possono ritenersi assorbite.
8. - Conservano rilevanza, invece, le critiche (sempre basate sulla
violazione dell’art. 21-nonies cit.) volte a inficiare, sotto altri profili,
la legittimità della determinazione impugnata dalla ricorrente.
8.1. - In particolare, la ricorrente deduce:
- l’omessa valutazione degli interessi della Is.Gr., che ha fatto
legittimo affidamento sulla certezza e stabilità dei vantaggi derivanti
dalla concessione del contributo, anche in considerazione del tempo
trascorso dalla concessione all’annullamento in autotutela;
- omessa valutazione comparativa tra l’interesse pubblico
all’annullamento e l’interesse del privato alla conservazione dell’atto;
- violazione del termine ragionevole entro il quale
l’amministrazione avrebbe dovuto procedere all’annullamento d’ufficio, posto
che dalla concessione del contributo (12 e 19.12.2013) alla adozione della
determinazione impugnata è trascorso quasi un anno;
- conseguente difetto di motivazione su ciascuno degli elementi
contestati.
8.2. - Anche le censure sopra riassunte non sono suscettibili di favorevole
apprezzamento, ove si tenga conto dei consolidati principi elaborati in
materia di esercizio del potere di autotutela su provvedimenti di
illegittima erogazione di denaro pubblico, secondo cui non è necessario, in
queste ipotesi, motivare specificamente in ordine alla sussistenza di un
interesse pubblico specifico né tener conto dell’interesse del privato e
dell’affidamento maturato (cfr., ex multis, Cons. St., sez. III,
11.11.2014, n. 5539), nonché di quanto previsto, sul piano del diritto
positivo, dall’art. 1, comma 136, della legge 30.12.2004, n. 311,
applicabile ratione temporis, nella parte in cui prevede che
l’annullamento di ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi,
finalizzato al conseguimento di risparmi o minori oneri finanziari, «può
sempre essere disposto».
Il che consente di ritenere irrilevante anche il dedotto difetto di
motivazione per la mancata considerazione dell’interesse della società
ricorrente sotto il profilo dell’affidamento suscitato dalla concessione del
contributo, anche in relazione al tempo trascorso
(TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 15.01.2016 n. 19 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA - CONDOMINIO: L'abc
del condominio Un elenco, in ordine alfabetico, dei principali termini
utilizzati
in ambito condominiale e delle più importanti questioni
che possono coinvolgere i condomini.
Da cani e gatti in condominio all'installazione di impianti di
videosorveglianza: le principali questioni, proposte in ordine alfabetico,
che riguardano la vita condominiale e le ultime novità in materia. (...continua)
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.02.2020). |
EDILIZIA PRIVATA: FISCO
E RIGENERAZIONE URBANA - Un processo sostenibile
(ANCE, febbraio 2020). |
EDILIZIA PRIVATA: Sismabonus
sull’acquisto di unità immobiliari antisismiche
(ANCE, febbraio 2020).
----------------
L’ANCE aggiorna
la Guida alla luce delle ultime modifiche intervenute in relazione alle
modalità applicative della disciplina (Legge di Bilancio 2020; Risposte
dell’Agenzia delle Entrate n. 5 del 16.01.2020, n. 70 del 20.02.2020; DM n.
24 del 09.01.2020). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Guida ANCE al “Sismabonus sull’acquisto di unità immobiliari
antisismiche” (ANCE di Bergamo,
circolare 28.02.2020 n. 70). |
APPALTI:
Oggetto: Ritenute e compensazioni negli appalti e subappalti -
Chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate - Circolare n. 1/E del 12.02.2020
(ANCE di Bergamo,
circolare 14.02.2020 n. 58).
---------------
ALLEGATI: 1.
Circolare n. 1/E del 12.02.2019 - 2.
Fac-simile autocertificazione - 3.
Schema di sintesi dei controlli. |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Compendio di normativa ambientale. Edizione num. 10 – anno 2020
(ANCE di Bergamo,
circolare 14.02.2020 n. 53). |
APPALTI:
Oggetto: Ritenute e compensazioni negli appalti e subappalti - Dossier
aggiornato di ANCE - Certificato per esonero dall’applicazione della
normativa (ANCE di Bergamo,
circolare 07.02.2020 n. 43).
---------------
ALLEGATI:
1.
Dossier ANCE - 2.
Provvedimento Agenzia delle Entrate 06.02.2020 n. 54730 di prot.
- 3.
Schema del certificato fiscale - 4.
Tabella delle ritenute. |
LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: Prescrizione per i crediti di lavoro – Diffida accertativa –
Nota I.N.L. (ANCE di Bergamo,
circolare 07.02.2020 n. 41). |
APPALTI:
Oggetto: Impianti di distribuzione ad uso privato – nuovi obblighi
(ANCE di Bergamo,
circolare 07.02.2020 n. 40). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: “Sismabonus acquisti” – i chiarimenti forniti dall’Agenzia delle
Entrate con la risposta n. 5 del 16.01.2020 (ANCE di Bergamo,
circolare 31.01.2020 n. 37). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Aliquota IVA opere finalizzate al superamento delle barriere
architettoniche - Risposta n. 3 del 13.01.2020 dell’Agenzia delle Entrate
(ANCE di Bergamo,
circolare 31.01.2020 n. 35). |
APPALTI:
Oggetto: Nuove soglie comunitarie per gli appalti pubblici dal 01.01.2020
(ANCE di Bergamo,
circolare 31.01.2020 n. 32). |
VARI:
Oggetto: Variazione del tasso di interesse legale per l’anno 2020
(ANCE di Bergamo,
circolare 31.01.2020 n. 31). |
APPALTI:
Oggetto: Ritenute e compensazioni negli appalti e subappalti -
Chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate - Circolare n. 1/E del 12.02.2020
(ANCE di Bergamo,
circolare 21.02.2020 n. 63). |
APPALTI:
Oggetto: Ritenute e compensazioni negli appalti – alcuni chiarimenti
dell’Agenzia delle Entrate (ANCE di Bergamo,
circolare 17.01.2020 n. 16). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
Oggetto: Legge di bilancio 2020 (L. 160/2019) - Principali misure di natura
fiscale (ANCE di Bergamo,
circolare 10.01.2020 n. 12). |
A.N.AC. |
APPALTI: Se
non conviene alla p.a la gara non si aggiudica. Anac:
facoltà esercitabile anche se c’è un solo concorrente.
La facoltà di non aggiudicare una gara di appalto risponde a un'immanente
valutazione dell'interesse pubblico attuale da parte del committente che
trova fondamento nel principio generale di buon andamento dell'azione
amministrativa; da verificare i concetti di non convenienza dell'offerta e
di inidoneità; la facoltà è esercitabile anche in presenza di una sola
offerta da aggiudicarsi con il criterio del prezzo più basso.
È quanto ha precisato l'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) con il
Parere di Precontenzioso 29.01.2020 n. 79 - rif. PREC 201/19/S-PB in
tema di esercizio della facoltà di non procedere all'aggiudicazione di una
gara di appalto pubblico.
La delibera ricorda preliminarmente che secondo consolidata giurisprudenza,
la facoltà di non aggiudicare una gara, in caso di ritenuta non convenienza
economica o di idoneità tecnica dell'offerta, risponde ad un'immanente
valutazione dell'interesse pubblico attuale da parte del committente. Tale
interesse trova fondamento nel principio generale di buon andamento, che
impegna le pubbliche amministrazioni all'adozione di atti quanto più
possibile coerenti e proporzionali alle esigenze effettive di provvista per
i loro compiti.
La delibera rammenta che è stato di recente precisato che, nonostante il
dlgs n. 50/2016 non abbia riprodotto l'art. 55, comma 4, del dlgs n.
163/2006 (che consentiva alla stazione appaltante di prevedere nella legge
di gara che non si sarebbe proceduto all'aggiudicazione nel caso di unica
offerta valida), la facoltà di non aggiudicare, contemplata dal citato comma
12 dell'art. 95 del vigente Codice, si applica anche in caso di unica
offerta purché ricorrano i presupposti ivi previsti.
In sostanza, si tratta di un potere che ha «carattere amplissimo» ed
altamente discrezionale, sindacabile solo qualora sia manifestamente
illogico o viziato da travisamento dei fatti, in quanto è conseguenza di un
apprezzamento di merito riservato alla stazione appaltante.
Venendo ai due presupposti alternativi richiesti dall'art. 95, comma 12, del
codice dei contratti pubblici, si evidenzia che ai fini dell'esercizio del
potere di non aggiudicare («non convenienza» o «inidoneità» dell'offerta in
relazione all'oggetto del contratto), il concetto di non convenienza
dell'offerta va riferito a elementi di tipo prettamente economico, mentre
quello della non idoneità ha una portata più ampia, in quanto attiene alla
non conformità dell'offerta rispetto alla soddisfazione delle esigenze per
le quali la procedura era stata bandita.
L'Anac ha chiarito che anche nel caso di gara da aggiudicarsi secondo il
criterio più basso (come quella oggetto della delibera), la stazione
appaltante ha sempre il potere discrezionale di effettuare una valutazione
di convenienza economica dell'unica offerta rimasta in gara.
Infatti, nonostante il potere dell'amministrazione sia sensibilmente più
ampio nel caso di criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, non
può a priori escludersi, si legge nella delibera, che, a prescindere dal
giudizio di anomalia o di congruità dell'offerta presentata dall'unico
operatore rimasto in gara, la stazione appaltante possa pervenire a una
valutazione di non convenienza dell'offerta nonostante questa presenti un
ribasso rispetto all'importo posto a base di gara
(articolo ItaliaOggi del 21.02.2020).
---------------
MASSIMA
Provvedimento di mancata aggiudicazione – potere discrezionale della
stazione appaltante – sindacato – limiti.
Provvedimento di mancata aggiudicazione - criterio di aggiudicazione del
prezzo più basso – valutazione di non convenienza dell’unica offerta rimasta
in gara – motivazione – confronto con i prezzi di mercato e con il prezzo
offerto dallo stesso operatore in altra gara - legittimità.
Ai sensi dell’art. 95, comma 12, del D.Lgs. n. 50/2016, la stazione
appaltante ha la facoltà discrezionale di non aggiudicare la gara (anche in
caso di unica offerta) quando nessuna offerta sia ritenuta conveniente o
idonea in relazione all’oggetto del contratto, purché tale facoltà sia
indicata espressamente nel bando di gara o nella lettera di invito (tale
ultimo inciso è stato introdotto dal nuovo Codice, in un’ottica di maggiore
trasparenza e di valorizzazione della lex specialis).
Tale potere ha carattere amplissimo ed altamente discrezionale, sindacabile
solo qualora sia manifestamente illogico o viziato da travisamento dei
fatti, in quanto è conseguenza di un apprezzamento riservato alla stazione
appaltante.
Anche nel caso di gara da aggiudicarsi secondo il criterio del prezzo più
basso, la stazione appaltante ha il potere discrezionale di effettuare una
valutazione di convenienza economica dell’unica offerta rimasta in gara.
Infatti, nonostante tale potere sia sensibilmente più ampio nel caso di
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, non può a priori
escludersi che, a prescindere dal giudizio di anomalia o di congruità
dell’offerta, la stazione appaltante possa pervenire ad una valutazione di
non convenienza dell’offerta nonostante il ribasso formulato sull’importo
posto a base di gara.
Nell’ambito di tale giudizio, è legittimo che la stazione appaltante
effettui un’indagine di mercato per comparare l’offerta con i prezzi medi di
mercato, nonché con quelli praticati dallo stesso operatore nell’ambito di
altra gara relativa all’affidamento di prestazioni analoghe. |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Anac,
stop incarichi pubblici anche ai condannati per danno erariale.
L'Autorità pubblica una guida sull'applicazione delle regole di
inconferibilità per chi si macchia di reati contro la Pa chiedendo al
Governo di estenderne il raggio di azione
Niente incarichi pubblici ai condannati per danno erariale, estensione delle
regole di inconferibilità anche ai presidenti di amministrazioni pubbliche
privi di deleghe gestionali, aggiunta di nuovi reati come la «turbata
liberta di scelta del contraente» e il «traffico di influenze illecite» tra
le fattispecie che fanno scattare il cartellino rosso dai ruoli di vertice
pubblici, applicazione dei divieti anche ai casi in cui la condanna riguarda
anche il solo tentativo (non riuscito) di corruzione.
Sono alcune delle richieste che l'Autorità Anticorruzione, ora guidata da
Francesco Merloni, rivolge al Governo attraverso un provvedimento (delibera
18.12.2019 n. 1201 - Indicazioni per l'applicazione della
disciplina delle inconferibilità di incarichi presso le pubbliche
amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico in caso di
condanna per reati contro la pubblica amministrazione - art. 3 d.lgs. n.
39/2013 e art. 35 bis d.lgs. n. 165/2001) mirato a guidare le amministrazioni nell'applicazione delle
non semplicissime regole che riguardano l'inconferibilità degli incarichi (e
la conseguente espulsione dai ruoli pubblici di vertice) ai condannati anche
in via non definitiva per i reati commessi contro la Pa, da chi riveste il
ruolo di «pubblico ufficiale» (peculato, malversazione, concussione,
corruzione, abuso d'ufficio ecc.).
Il documento non è però solo una bussola per l'applicazione di norme che
sono ormai in vigore da qualche anno (le norme di riferimento sono contenute
nei decreti legislativi 165/2001 e 39/2013). La delibera, oltre a
ricostruire il quadro normativo e a dare gli indirizzi per la sua
applicazione, fa tesoro delle richieste di chiarimenti arrivate nel tempo
per chiedere al Governo e al Parlamento di sciogliere i nodi insuperabili
per via interpretativa e di estendere l'applicazione dei divieti di
attribuzione degli incarichi anche a figure apicali delle Pa e a fattispecie
di reato che l'Autorità giudica ingiustificatamente esclusi.
Due le richieste di maggiore impatto. La prima riguarda l'estensione dell'inconferibilità
degli incarichi di vertice delle Pa e delle società controllate
(amministratore, dirigente , direttore generale, amministrativo e sanitario
delle Asl) non solo ai condannati in sede penale, ma anche a chi si vede
sanzionare dalla Corte dei Conti per danno erariale. Secondo l'Anac,
infatti, le condanne della Corte dei Conti al risarcimento del danno «si
portano dietro un giudizio di disvalore», «analogo a quello delle sentenze
di condanna emesse all'esito del giudizio penale».
Sempre per motivi di analogia, l'Anac chiede di estendere l'applicazione dei
divieti di incarico anche ai presidenti delle amministrazioni che non
abbiano espresse deleghe gestionali, nonostante la norme facciano
riferimento soltanto ai presidenti «con deleghe gestionali dirette». Anche i
presidenti «tout court», si legge nel documento, svolgono il ruolo di
rappresentanti verso l'esterno dell'immagine dell'amministrazione, «immagine
che risulta senz'altro intaccata dalla condanna penale che abbia interessato
proprio il soggetto posto al vertice di quell'amministrazione,
indipendentemente dalla tipologia delle funzioni esercitate».
Da segnalare anche la richiesta di includere i nuovi reati di «traffico di
influenze illecite», «turbata libertà degli incanti» e «turbata libertà di
scelta del contraente» nel raggio d'azione delle regole di inconferibilità e
di commisurare il periodo di applicazione del cartellino rosso all'entità
della pena di reclusione piuttosto che a quella di applicazione della pena
accessoria di interdizione di pubblici uffici che risulta spesso di
difficile applicazione e rischia di condurre a casi di disparità di
trattamento (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
15.01.2020). |
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(e anteprima) |
ENTI LOCALI - PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI - TRIBUTI: G.U.
29.02.2020 n. 51, suppl. ord, n. 10/L, "Testo
del decreto-legge 30.12.2019, n. 162, coordinato con la legge di conversione
28.02.2020, n. 8, recante: «Disposizioni urgenti in materia
di proroga di termini legislativi, di organizzazione delle pubbliche
amministrazioni, nonché di innovazione tecnologica»".
---------------
Di particolare interesse si leggano:
● Articolo 1, commi 1 e 1-bis (Stabilizzazione di personale
nelle pubbliche amministrazioni)
Viene modificata la
disciplina transitoria che consente l'assunzione a tempo indeterminato di
soggetti che abbiano rapporti di lavoro dipendente a termine con pubbliche
amministrazioni. In particolare, la novella di cui al comma 1 proroga il
termine di applicazione dal 31.12.2020 al 31.12.2021, consentendo, dunque,
le assunzioni, in base alla normativa specifica in oggetto, entro quest’ultima
data. La novella di cui al comma 1-bis differisce dal 31.12.2017 al
31.12.2020 il termine temporale entro cui si deve conseguire il requisito
relativo all'anzianità di servizio - che è uno dei requisiti stabiliti per
l'applicazione della disciplina.
● Articolo 1, comma 1-ter (Procedure selettive per la
progressione tra le aree riservate al personale di ruolo)
Viene prorogata fino al
2022 la possibilità riconosciuta alle pubbliche amministrazioni di attivare
procedure selettive per la progressione tra le aree riservate al personale
di ruolo; la percentuale dei posti per tali procedure selettive riservate è
elevata (dal 2020) al 30 per cento dei posti previsti nei piani dei
fabbisogni come nuove assunzioni consentite per la relativa area o
categoria.
● Articolo 1, commi da 7 a 7-quater (Pubblicazione dei
compensi e dei redditi dei dirigenti pubblici)
Si dispone che, fino al
31.12.2020, non costituisce causa di responsabilità dirigenziale e non si
applicano le relative sanzioni per la mancata pubblicazione da parte delle
pubbliche amministrazioni dei compensi e dei dati reddituali e patrimoniali
dei dirigenti pubblici, come stabilito dal D.Lgs. 33/2013. Fanno eccezione i
dirigenti di cui all’art. 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo 165 del
2001 (segretario generale, capo dipartimento, dirigente con incarichi di
funzione dirigenziale di livello generale) per i quali continua a trovare
applicazione la disciplina vigente relativa agli obblighi di pubblicazione
(ex art. 14 D.Lgs. 33/2013).
● Articolo 1, comma 8 (Proroga in materia di piattaforma
digitale per i pagamenti verso le pubbliche amministrazioni)
Viene prorogato al
30.06.2020 il termine di decorrenza dell'obbligo, per i prestatori di
servizi di pagamento abilitati, di avvalersi esclusivamente della apposita
piattaforma per i pagamenti verso le pubbliche amministrazioni (PagoPA).
Viene disposto, inoltre, un obbligo per le amministrazioni
pubbliche di avvalersi della medesima piattaforma.
● Articolo 1, comma 10-septies (Contributi agli enti locali
per la progettazione definitiva ed esecutiva per la messa in sicurezza del
territorio)
Viene differito, dal
15.01.2020 al 15.05.2020, il termine (previsto dall’art. 1, comma 52, della
legge di bilancio 2020) per la richiesta del contributo da parte degli enti
locali, a copertura della spesa di progettazione definitiva ed esecutiva per
interventi di messa in sicurezza del territorio, e proroga, altresì, dal
28.02.2020 al 30.06.2020, il termine (previsto dall’art. 1, comma 53, della
legge di bilancio 2020) per la definizione dell’ammontare del previsto
contributo, attribuito a ciascun ente locale.
● Articolo 1, comma 10-octies (Pubblicazione bandi mobilità
tra amministrazioni)
Si stabilisce che, a
decorrere dal 01.03.2020, le amministrazioni pubblichino i bandi di mobilità
relativi al passaggio diretto di personale tra amministrazioni diverse sul
Portale del Dipartimento per la funzione pubblica di cui all’articolo 30,
comma 1, del d.lgs. 165/2001.
● Articolo 1, commi 10-novies e 10-decies (Disposizioni in
materia di personale delle società a partecipazione pubblica)
Viene disciplinata la
ricognizione del personale delle società controllate da enti pubblici per
gli anni 2020-2022 al fine di individuare eventuali eccedenze (comma 10-bis)
estendendola anche al personale dei consorzi e delle aziende degli enti
locali (comma 10-ter).
● Articolo 3, comma 5 (Adeguamento antincendio strutture
ricettive)
Si interviene sul termine
per il completamento dell’adeguamento alle disposizioni di prevenzione
incendi per alcune categorie di strutture ricettive turistico-alberghiere,
modificando a tal fine.
● Articolo 4, commi 1 e 2 (Assunzioni Agenzia dogane e
monopoli - Blocco degli adeguamenti ISTAT dei canoni dovuti dalla PA)
Il comma 2 estende
all'anno 2020 il blocco degli adeguamenti dell'ISTAT relativi ai canoni
dovuti sia dalle pubbliche amministrazioni sia dalle autorità indipendenti,
inclusa la CONSOB.
● Articolo 6, comma 4 (Proroghe di termini in materia di
edilizia scolastica)
Viene prorogato (dal
31.12.2019) al 31.12.2020 il termine per alcuni pagamenti in materia di
edilizia scolastica. In particolare, la proroga riguarda il termine per i
pagamenti da parte degli enti locali, secondo gli stati di avanzamento,
debitamente certificati, di lavori di riqualificazione e messa in sicurezza
degli istituti scolastici statali, di cui all’art. 18, commi da 8-ter a
8-sexies, del D.L. 69/2013 (L. 98/2013). A tal fine, novella il termine
contenuto nel co. 8-quinquies, ultimo periodo, del citato art. 18, fissato
inizialmente al 31 dicembre 2014 e successivamente prorogato, di anno in
anno, fino al 31.12.2019.
● Articolo 6, commi 5-novies e 5-decies (Verifica di
vulnerabilità sismica degli edifici scolastici, degli edifici di interesse
strategico e delle opere infrastrutturali)
Viene differito, al
31.12.2021, il termine entro il quale deve essere sottoposto a verifica di
vulnerabilità sismica ogni immobile adibito ad uso scolastico situato nelle
zone a rischio sismico classificate 1 e 2, con priorità per quelli situati
nei comuni compresi negli allegati del D.L. 189/2016, relativo alle regioni
del centro Italia colpite dagli eventi sismici 2016 e 2017 (Abruzzo, Lazio,
Marche ed Umbria).
Il comma 5-decies differisce al 31.12.2021 il termine, per la
verifica di vulnerabilità sismica sia degli edifici di interesse strategico
e delle opere infrastrutturali la cui funzionalità durante gli eventi
sismici assume rilievo fondamentale per le finalità di protezione civile,
sia degli edifici e delle opere infrastrutturali che possono assumere
rilevanza in relazione alle conseguenze di un eventuale collasso.
● Articolo 13, commi 5-quinquies e 5-sexies (Utilizzo dei
proventi da oneri di urbanizzazione e sanzioni in materia edilizia)
Il comma 5-quinquies prevede che a decorrere dal 01.04.2020 le
risorse provenienti dal rilascio dei titoli abilitativi edilizi e dalle
sanzioni previste dal Testo unico sull’edilizia di cui al D.P.R. n.
380/2001, da destinare, ai sensi dell’art. 1, comma 460, della legge di
bilancio 2017, alle finalità ivi previste e non utilizzate, possono essere
altresì utilizzate per promuovere la formazione di programmi diretti al
completamento delle infrastrutture e delle opere di urbanizzazione primaria
e secondaria dei piani di zona esistenti, fermo restando l’obbligo per i
comuni di porre in essere le iniziative necessarie per l’adempimento da
parte degli operatori coinvolti nei piani di zona delle obbligazioni
convenzionali in materia.
Il comma 5-sexies dispone, inoltre, che in relazione agli immobili
costruiti secondo la normativa sull'edilizia agevolata, può essere disposta
dall’autorità giudiziaria la sospensione del procedimento di sfratto a
partire dall'avvio del procedimento di decadenza dalla convenzione da parte
del comune, ovvero di revoca del finanziamento pubblico da parte della
regione, ovvero dalla richiesta di rinvio a giudizio in procedimenti penali.
● Articolo 16-ter (Disposizioni urgenti in materia di
reclutamento dei segretari comunali e provinciali)
Si riduce la durata del corso-concorso di formazione e del
tirocinio pratico per i segretari comunali e provinciali e introduce una
verifica da effettuare durante il corso e obblighi formativi suppletivi dopo
la prima nomina. Inoltre:
► viene prevista poi la possibilità di riservare ai dipendenti
delle pubbliche amministrazioni il 30 per cento dei posti al concorso
pubblico per esami che consente l’accesso al corso-concorso per segretari
comunali e provinciali;
► si istituisce una sessione aggiuntiva al corso-concorso bandito
nel 2018 finalizzata all’iscrizione di ulteriori 172 segretari comunali
nella fascia iniziale;
► si prevede la possibilità di conferire, in via transitoria, le
funzioni di vicesegretario a funzionari di ruolo del comune con determinati
requisiti;
► si interviene sulla disciplina relativa alle classi demografiche
dei comuni ai fini dell’assegnazione dei segretari comunali, prevedendo che
esse siano determinate, in caso di convenzione, dalla sommatoria degli
abitanti di tutti i comuni.
● Articolo 18, commi 1, 2 e 2-bis (Misure per il ricambio
generazionale e la funzionalità della PA nei piccoli comuni)
► si prevedono di misure procedimentali che consentono al
Dipartimento per la funzione pubblica di accelerare la capacità assunzionale
delle P.A. nel triennio 2020-2022 (comma 1);
► si autorizza Formez PA, in via sperimentale, a fornire adeguate
forme di assistenza ai comuni fino a 5.000 abitanti e dei comuni in dissesto
per il sostegno delle attività fondamentali (comma 2),
► si autorizzano i comuni con ipotesi di bilancio stabilmente
riequilibrato o con piano di riequilibrio pluriennale approvato ad assumere
personale di livello apicale (comma 2-bis).
● Articolo 18-bis (Modifiche in materia di funzioni
fondamentali dei comuni)
Viene differito al 31.12.2020 il termine a partire dal quale
diventa obbligatoria la gestione in forma associata delle funzioni
fondamentali per i piccoli comuni, nelle more dell’attuazione della sentenza
della Corte costituzionale n. 33 del 2019.
● Articolo 18-ter (Durata del contratto del personale degli
uffici di diretta collaborazione negli enti locali)
Si tratta di una norma di
interpretazione autentica dell’articolo 90 del Testo unico degli enti locali
nella parte in cui dispone, relativamente agli uffici di supporto agli
organi di direzione politica, che il personale è assunto con contratto di
lavoro subordinato a tempo determinato. Tale previsione si interpreta nel
senso che il contratto stesso non può avere in ogni caso durata superiore al
mandato elettivo del sindaco o del presidente della provincia in carica. |
ENTI LOCALI: G.U.
28.02.2020 n. 50 "Ulteriore differimento del termine per la deliberazione
del bilancio di previsione 2020/2022 degli enti locali dal 31.03.2020 al
30.04.2020" (Ministero dell'Interno,
decreto 28.02.2020). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
28.02.2020 n. 50 "Proroga delle scadenze in materia di prevenzione
incendi per le strutture sanitarie, previste dal decreto del Ministro
dell’interno del 19.03.2015" (Ministero dell'Interno,
decreto 20.02.2020). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 9 del 26.02.2020, "Trasmissione
informatizzata della scheda per la registrazione al catasto comunale delle
torri di raffreddamento-condensatori evaporativi (art 61-bis l.r. 33/2009
s.m.i.)" (decreto
D.S. 20.02.2020 n. 2097).
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Per saperne di più
qui la pagina web della Regione Lombardia. |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 9 del 25.02.2020, "Aggiornamento
della modulistica edilizia unificata e standardizzata approvata con
deliberazione n. XI/784 del 12.11.2018" (decreto
D.S. 19.02.2020 n. 2018).
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ATTENZIONE:
l'aggiornata modulistica, qui sotto elencata, è da applicarsi
dal 25.02.2020:
• Allegato 1 - Modulo unico titolare
• Allegato 2 - Relazione tecnica asseverazione unica
• Allegato 3 - Comunicazione inizio lavori – CIL
• Allegato 4 - Comunicazione fine lavori – CFL
• Allegato 5 - Segnalazione certificata agibilità
• Allegato 6 - Relazione tecnica asseverazione agibilità
la quale, in formato editabile, è consultabile nella nostra pagina
MODULISTICA.
OBBLIGHI PER I COMUNI
I Comuni senza sistemi informativi per la gestione delle procedure edilizie
devono:
• esporre con libero accesso (senza registrazione) sul proprio
portale il link a questa piattaforma su cui sono pubblicati i nuovi moduli
approvati con Decreto n. 2018 del 19/02/2020;
• far utilizzare i moduli edilizi unificati in formato pdf
compilabile pubblicati su questa piattaforma, per la presentazione delle
segnalazioni, comunicazioni e istanze in materia di attività edilizia.
I Comuni con sistemi informativi per la gestione delle procedure edilizie
dovranno garantire l'integrazione, nei propri sistemi informativi, dei nuovi
moduli unici edilizi standardizzati e dei relativi schemi dati XSD, non
appena saranno ripubblicati sulla pagina istituzionale "Moduli
edilizi unificati e specifiche di interoperabilità". |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
25.02.2020 n. 47 "Misure urgenti in materia di contenimento e gestione
dell’emergenza epidemiologica da COVID-19. Regione Lombardia" (Ministero
della Salute,
ordinanza 23.02.2020). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARI: G.U.
23.02.2020 n. 45 "Misure urgenti in materia di contenimento e gestione
dell’emergenza epidemiologica da COVID-19" (D.L.
23.02.2020 n. 6). |
APPALTI: G.U.
13.02.2020 n. 36 "Saggio
degli interessi da applicare a favore del creditore nei casi di ritardo nei
pagamenti nelle transazioni commerciali" (Ministero
dell'Economia ed elle Finanze). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI SERVIZI:
Affidamento in concessione di spazio per la distribuzione di coffe
(27.02.2020 - link a www.mauriziolucca.com). |
URBANISTICA:
Vicinitas, dimostrazione del pregiudizio e interesse ad agire in
ambito urbanistico (25.02.2020 - link a
www.mauriziolucca.com). |
EDILIZIA PRIVATA: F.
D'Angelo,
Il permesso di costruire: la giurisprudenza recente (20.02.2020
- link a www.quotidianogiuridico.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: M.
Mazzon,
È illecito
mantenere attivo l’account di posta dell’ex dipendente (19.02.2020
– link a www.filodiritto.com).
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Commette un illecito il datore di lavoro che mantiene attivo l’account di
posta aziendale di un dipendente dopo l’interruzione del rapporto di lavoro
e accede alle mail contenute nella sua casella di posta elettronica. La
protezione della vita privata si estende anche all’ambito lavorativo. (...continua). |
SEGRETARI COMUNALI:
A. Mitrotti,
Considerazioni sulla tormentata figura del Segretario comunale dopo la
sentenza n. 23/2019 della Corte costituzionale (19.02.2020
- tratto da www.federalismi.it).
---------------
Abstract: Mai come prima della sentenza n. 23 del 22.02.2019 la
giurisprudenza costituzionale si era trovata a ricostruire i complessi
profili della poliedrica figura del Segretario comunale e le sue relazioni
con il meccanismo dello spoils system.
Con il presente lavoro si vuole offrire un’essenziale chiave di lettura
nella complessità delle argomentazioni esposte nel Considerato in diritto
della decisione della Consulta: ancorché sviluppando i termini del
ragionamento fatto dal Collegio il presente contributo perviene a soluzioni
del tutto differenti, ravvisando nel ruolo e nelle funzioni del Segretario
comunale una figura necessariamente espressione della ‘effettiva’ garanzia
costituzionale del principio di legalità, di trasparenza, imparzialità e
buon andamento delle Pubbliche Amministrazioni comunali e delle discendenti
attività di ‘amministrazione attiva'.
Da qui l’impossibilità di poter ammettere la legittima applicazione dello
spoils system anche alla figura del Segretario comunale.
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Sommario: 1. Il caso all’attenzione della Corte. - 2. Un Approccio
alla figura del segretario comunale. - 3. Conclusioni. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
A. Paiano,
I casi speciali di accesso: le interazioni con l’accesso civico
generalizzato (19.02.2020 - tratto da www.federalismi.it).
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Abstract: A tre anni dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 97/2016,
è necessaria una riflessione sull’interazione fra le forme speciali di
accesso esistenti nell’ordinamento e l’istituto dell’accesso civico
generalizzato.
Poiché, infatti, il legislatore non ha proceduto ad una revisione delle
disposizioni previgenti, si è posto il problema di comprendere in che modo
il nuovo diritto di accesso interagisse con quelli precedenti, all’interno
di un sistema di norme stratificato e caotico. Il saggio si propone di
analizzare tali rapporti, con specifico riferimento all’informazione
ambientale, all’accesso negli enti locali e nelle procedure di evidenza
pubblica. Si tratta di discipline settoriali, che presentano propri
presupposti e finalità.
Tali specificità hanno determinato una scarsa attenzione da parte dei primi
commentatori della riforma, concentrati soprattutto sullo studio dei
rapporti fra accesso tradizionale e accesso civico. Tuttavia, l’analisi
della casistica giurisprudenziale dimostra come stiano diventando oggetto di
crescente interesse e meritino un maggior grado di approfondimento.
---------------
Sommario: 1. L’accesso all’informazione ambientale alla luce del
Decreto Trasparenza. - 2. I diritti informativi nell’ordinamento degli Enti
locali: analogie e differenze con l’accesso civico generalizzato. - 3. La
trasparenza nelle procedure di evidenza pubblica: l’applicabilità
dell’accesso civico generalizzato agli atti di gara. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L. Previti,
Riflessioni sull’ambito soggettivo di applicazione della responsabilità
amministrativa: tra esigenze di prevedibilità e tentativi di correzione
della mala gestio pubblica (19.02.2020 - tratto da
www.federalismi.it).
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Abstract: L’articolo cerca di mettere in luce le principali implicazioni
di carattere sistematico che derivano dall’eccessiva elasticità del campo
soggettivo di applicazione dell’istituto della responsabilità
amministrativa.
Dopo aver brevemente richiamato il concetto di rapporto di servizio, oggetto
di frequenti riletture giurisprudenziali negli ultimi anni, il contributo
prende in esame alcune significative categorie di soggetti nei cui confronti
è oggi possibile instaurare un giudizio di responsabilità davanti alla Corte
dei Conti.
Nell’analizzare le ragioni sottese ai più rilevanti approdi interpretativi
della giurisprudenza in materia, viene dedicata particolare attenzione alla
possibilità di configurare ipotesi di responsabilità erariale in relazione
al fenomeno delle società pubbliche, anche alla luce del recente d.lgs.
19.08.2016, n. 175.
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Sommario: 1. Premessa. - 2. L’ambito soggettivo di applicazione della
responsabilità amministrativa: il rapporto di servizio. - 3. La
responsabilità amministrativa come tentativo di correzione della mala gestio
pubblica. - 4. L’elasticità dei confini giurisdizionali nel contesto
societario. - 5. Segue. Giurisdizione contabile e società in house. 6.
Considerazioni conclusive |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
E. Romani,
La responsabilità civile della p.a. per il fatto penalmente illecito
commesso da un proprio dipendente alla luce delle Sezioni Unite n.
13246/2019 (19.02.2020 - tratto da www.federalismi.it).
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Abstract: Con la recente pronuncia n. 13246/2019, le Sezioni Unite
hanno innovato il sistema previgente della responsabilità civile della p.a.,
introducendo un regime di responsabilità a doppio binario, in cui coesistono
due diverse forme di responsabilità a seconda del carattere della finalità
perseguita dal dipendente pubblico nella commissione dell’illecito.
Si avrà, infatti, la responsabilità diretta della p.a. ex art. 2043 c.c.
laddove sussista un interesse istituzionale e, quindi, il rapporto di
immedesimazione organica; al contrario, ogni qual volta l’autore
dell’illecito sia mosso soltanto da un interesse strettamente personale ed
egoistico, la p.a. sarà chiamata a rispondere a titolo di responsabilità
indiretta ex art. 2049 c.c..
Dopo aver ricostruito i diversi orientamenti dottrinali e giurisprudenziali
che si sono espressi in tema di responsabilità civile della p.a., il lavoro
si propone di verificare se la ricostruzione accolta dalle Sezioni Unite sia
condivisibile o se, piuttosto, sarebbe preferibile introdurre alcuni
correttivi che tengano conto delle peculiarità della persona giuridica
pubblica e dell’esigenza di tutelare le finanze pubbliche.
---------------
Sommario: 1. La responsabilità civile della p.a. e l’art. 28 Cost. -
2. Il carattere istituzionale o personale del fine perseguito dal
funzionario. Gli opposti orientamenti che si sono formati in giurisprudenza.
- 3. La recente posizione assunta dalle Sezioni Unite. - 4. Considerazioni
critiche: dalla visione vittimologica alla tutela delle finanze pubbliche. -
5. Riflessioni conclusive. |
APPALTI:
Immutabilità dell’offerta: niente soccorso istruttorio (17.02.2020
- link a www.mauriziolucca.com). |
ENTI LOCALI:
Volontariato, erogazione contributi e rimborsi spesa, trattamento fiscale
(13.02.2020 - link a www.mauriziolucca.com). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
A. Sola,
La giurisprudenza e
la sfida dell’utilizzo di algoritmi nel procedimento amministrativo. Nota a
sentenza a CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI - 13.12.2019, n. 8472 (11.02.2020
- link
a www.giustamm.it).
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Indice: 1. Il recentissimo caso all’attenzione del Consiglio di
Stato. Una nuova conferma dell’ammissibilità di decisioni amministrative
automatizzate tramite l’utilizzo di algoritmi. - 2. L’utilizzo delle nuove
tecnologie e l’intelligenza artificiale quali sfide globali. - 3. L’utilizzo
delle nuove tecnologie da parte delle Pubbliche Amministrazioni. Il caso
degli algoritmi. – 4. Brevi considerazioni a margine. |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Violazioni
privacy e PA, il dirigente rischia di tasca propria: ecco perché
(10.02.2020 - link a www.agendadigitale.eu). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Dieci regole per l'affidamento degli incarichi legali
(U.N.A.A.,
comunicazione 09.01.2020 n. 1/2020). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - TRIBUTI: T.
Tessaro,
PROFILI DI RESPONSABILITÀ CONTABILE: LIMITI DI SCOMPUTO ONERI PER INTERVENTI
DI RECUPERO URBANO E PER CESSIONE IMMOBILI PUBBLICI IN CAMBIO DI OPERE (artt.
189-190-191 D.Lgs. 50/2016 c.d. Cod. contratti)
(03.12.2019 - tratto da
www.amministrativistiveneti.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: L’affidamento
degli incarichi relativi ai servizi legali. Note di indirizzo a
cura della Commissione Incarichi della Pubblica Amministrazione, costituita
presso il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Verona
(29.11.2019 - tratto da www.amministrativistiveneti.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
P. Vitullo,
Procedura semplificata di autorizzazione per impianti di produzione di
energie rinnovabili (minieolico), tutela indiretta anche inibitoria delle
aree contermini a quelle vincolate e rilevanza in materia paesaggistica del
silenzio-assenso. Profili sostanziali e processuali - Consiglio
di Stato, Sez. IV, sentenza 04.09.2018 n. 5181 - Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.03.2019 n. 1729
(Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 2/2019).
---------------
Sommario: 1. Premessa ricostruttiva - 1.1. la questione
controversa - 2. l’approccio giurisprudenziale alla tematica - 3.
Conclusioni: 3.1. Profili processuali - 3.2. l’insopprimibilità del
contributo partecipativo dell’Amm.ne b.A.C.t. al procedimento autorizzatorio
semplificato per impianti “minori” - 3.3. (continua) insussistenza di
conflitto tra linee guida e normativa statale di riferimento (art. 152
d.lgs. 42/2004, art. 6 l. 28/2011) - 3.4. Potere di vigilanza dell’Amm.ne
b.A.C.t. e tutela inibitoria - 3.5. inconfigurabilità del silenzio-assenso
in materia specifica. |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI:
G. Natale e A. Grumetto,
Recenti sviluppi dell’innovazione tecnologica nel mondo del diritto
(Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 2/2019).
----------------
Sommario: 1. il processo di digitalizzazione e i suoi riflessi nel
diritto - 2. Vantaggi e criticità delle nuove tecnologie - 3. responsabilità
amministrativa nei casi in cui le decisioni vengano adottate da un algoritmo
- 4. Vantaggi della blockchain in materia di contratti pubblici. |
ENTI LOCALI:
M. Gerardo,
Soggetti pubblici operanti nell’economia
(Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 2/2019).
---------------
Sommario: 1. Soggetti operanti nell’economia: aspetti generali -
2. Pubblica amministrazione che esercita direttamente attività economica
(cd. impresa di diritto pubblico o impresa- organo) - 3. Enti pubblici
economici (cd. impresa pubblica di diritto comune) - 4. Enti privati
partecipati da enti pubblici - 5. (segue) Enti privati partecipati da enti
pubblici. in specie associazioni e fondazioni - 6. (segue) Enti privati
partecipati da enti pubblici. in specie le società - 7. (segue) Enti privati
partecipati da enti pubblici. in specie le società in house - 8. imprese che
agiscono in settori di rilevante interesse per la collettività (cd. public
utilities) - 9. Enti “funzionalizzati”: organismi di diritto pubblico - 10.
Conclusioni. |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Niente
incentivi per funzioni tecniche con il project financing.
Gli incentivi per funzioni tecniche non spettano nel caso di contratti di
locazione finanziaria.
Lo ha affermato la Corte dei conti, Sezione di controllo del Veneto, con il
parere 22.01.2020 n. 20.
Il sindaco di un Comune ha chiesto se fosse possibile riconoscere gli
incentivi per funzioni tecniche (articolo 113 del Codice dei contratti
pubblici) svolte dal personale dipendente nel caso della locazione
finanziaria per la realizzazione di un'opera pubblica, qualora:
a) nel quadro economico del progetto esecutivo dedotto nel
contratto di locazione finanziaria sia allocata anche la quota per gli
incentivi per funzioni tecniche, quantificata, nel rispetto del regolamento
dell'ente, sull'importo dei lavori affidati al soggetto realizzatore;
b) la quota, a fronte dello svolgimento da parte del personale
comunale delle funzioni tecniche previste dall'articolo 113 (verifica e
validazione del progetto, funzioni di responsabile unico del procedimento,
direzione lavori, eccetera) venga poi effettivamente trasferita al Comune da
parte del soggetto finanziatore;
c) sia rispettata la condizione prevista dall'articoli 187, comma
1, del Codice dei contratti pubblici, ossia che i lavori non abbiano un
carattere meramente accessorio rispetto all'oggetto del contratto
principale.
Gli incentivi per le funzioni tecniche sono compensi previsti in favore dei
dipendenti delle Pa aggiudicatrici, a fronte dello svolgimento di
determinate attività finalizzate alla conclusione di appalti di lavori,
servizi e forniture, che operano in deroga al principio di onnicomprensività
della retribuzione (articolo 24 del Dlgs 165/2001) e per questo oggetto di
stretta interpretazione.
Il comma 5-bis dell'articolo 113 precisa che le spese per gli incentivi
fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori,
servizi e forniture.
C'è, dunque, una diretta corrispondenza tra incentivo e attività compensate
in termini di prestazioni sinallagmatiche, nell'ambito dello svolgimento di
attività tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla
realizzazione di specifiche procedure. La correlazione normativa tra la
provvista delle risorse e la singola opera con riferimento all'importo a
base di gara commisurato al costo preventivato, consente l'allocazione della
spesa al di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale.
La deliberazione della Sezione Veneto, in primo luogo, analizza in modo
egregio il rapporto fra appalto, concessione e locazione finanziaria
(contratto di partnership pubblico-privata/Ppp a causa variabile), per
inquadrare il problema dell'ammissibilità o meno dell'incentivo. Si segnala
che appalti e concessioni sono trattati in parti diverse del codice. Il
legislatore, quando ha voluto, ha specificamente richiamato insieme le due
tipologie oppure ha fatto genericamente riferimento alla nozione di
contratti pubblici.
Sotto il profilo contabile, nel caso delle concessioni manca uno specifico
stanziamento. Gli incentivi sono stati individuati in forma tipica dal
legislatore nell'articolo 113, comma 5-bis, che, riferendosi ai capitoli di
spesa per contratti d'appalto, ha escluso l'assoggettabilità degli incentivi
medesimi ai vincoli di spesa in materia di personale.
Appalti e concessioni sono tipologie di contratti differenti per cui nel
primo caso la determinazione del fondo per i compensi incentivanti è da
individuarsi nell'importo a base di gara, mentre per le concessioni si
dovrebbe fare ricorso ad uno stanziamento di spesa specifico non previsto
per legge, la cui copertura, essendo legata alla riscossione dei canoni
concessori, è connotata da margini di aleatorietà.
L'articolo 187 del codice, tuttavia, equipara, per molti aspetti, la
locazione finanziaria (Ppp) all'appalto pubblico di lavori. La Sezione,
entrando nel merito, afferma che, in base all'articolo articolo 187 del
codice «se in conformità alla causa variabile che caratterizza in
generale il contratto di PPP, la locazione finanziaria può, in concreto,
avere causa prevalente di appalto, potrebbe sostenersi la sua
incentivabilità in base al fatto che a tale fattispecie si riferisce
espressamente l'art. 113».
Ma questo aspetto non è sufficiente. Dirimenti, secondo i magistrati veneti,
sono invece le altre circostanze per cui la Sezione delle Autonomie
(deliberazione
25.06.2019 n. 15) ha negato l'incentivabilità delle funzioni
connesse alle concessioni, e, in particolare, l'assenza di uno specifico
stanziamento riconducibile ai capitoli dei singoli lavori, servizi e
forniture. Mentre nei contratti di appalto gli incentivi gravano sul
capitolo di spesa previsto per i singoli lavori/servizi/forniture, con
accantonamento di una parte per la specifica finalità dell'erogazione del
compenso incentivante, tale meccanismo non opera né nelle concessioni né nei
contratti di locazione finanziaria.
L'ostacolo al riconoscimento dell'incentivabilità delle funzioni connesse
alla locazione finanziaria di opere pubbliche o di pubblica utilità consiste
nella funzione (anche) di finanziamento del contratto. Questo implica che
manchi nel bilancio della Pa lo specifico stanziamento di spesa cui
parametrare la misura del fondo incentivante, determinando oneri non
aleatori e su cui pertanto sono fondate tanto la mancata assoggettabilità
alla normativa vincolistica di spesa per il personale, quanto la legittima
erogazione degli incentivi per funzioni tecniche.
Questa problematica non può essere superata dal fatto che il bene oggetto
della locazione finanziaria venga poi trasferito dal finanziatore al
patrimonio della Pa, dato che questo non solo non risolve il problema della
aleatorietà della copertura, ma rende evidente come non si possa affermare
che le risorse eventualmente destinabili alla copertura dell'onere
troverebbero capienza in uno stanziamento specificamente previsto a questo
fine.
Non si può nemmeno parametrare l'incentivo sulla spesa per il riscatto,
poiché in tal caso si sarebbe fuori dell'ambito applicativo della norma
incentivante; se si parametrasse, invece, l'incentivo alla spesa per
l'appalto, si farebbe riferimento ad una spesa che non compare nel bilancio
della Pa.
La Sezione conclude che, pur essendo teoricamente ipotizzabile un approccio
estensivo in favore di un loro riconoscimento anche in relazione a contratti
diversi dall'appalto, il quadro normativo vigente non consenta di
riconoscere gli incentivi per funzioni tecniche svolte dal personale del
Comune per la realizzazione di un contratto di locazione finanziaria per
opere pubbliche o di pubblica utilità.
In definitiva, l'equiparazione della locazione finanziaria al contratto
d'appalto prevista dall'articolo 187 del Codice non trova applicazione per
il riconoscimento degli incentivi di dell'articolo 113, comma 2, del Codice
stesso (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
26.02.2020). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Ai
fini della liquidazione dell’incentivo occorre, quanto meno, la previa
pubblicazione del bando o la spedizione delle lettere d’invito.
La Corte dei conti, nell’esercizio della funzione consultiva, ha chiarito
come l’incentivo vada erogato solo a seguito della pubblicazione del bando o
della spedizione delle lettere d’invito.
Invero, “Perché maturi il diritto all’incentivo non basta, peraltro, che l’attività
progettuale sia stata compiuta. Occorre, anche, che il progetto sia stato
formalmente approvato e posto a base di gara. Del resto, se così non fosse,
l’Ente si troverebbe a dover impegnare risorse ordinarie del proprio
bilancio per fronteggiare oneri che, invece, la norma intende porre soltanto
a carico degli stanziamenti complessivi previsti per la realizzazione
dell’opera o del lavoro. In questo senso depone sia l’originaria
formulazione del comma 5 dell’art. 92, sia, seppure con la prevista
costituzione del fondo, il comma 7-bis dell’art. 93 del Codice”.
---------------
Nel merito la vicenda riguarda l’erogazione dell’incentivo previsto
dall’art. 92, comma 5, del D.lgs. n. 163/2006 vigente all’epoca dei fatti,
con particolare riferimento alla tempistica per la sua corresponsione.
La suddetta norma così recitava: “Una somma non superiore al due per cento
dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva
anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell'amministrazione, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui
all'articolo 93, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con
le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e
assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile
del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano
della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per
cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità
dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle responsabilità
professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere. La
corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla
struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività
svolte dai predetti dipendenti; limitatamente alle attività di
progettazione, l'incentivo corrisposto al singolo dipendente non può
superare l'importo del rispettivo trattamento economico complessivo annuo
lordo; le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte
dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento,
costituiscono economie. I soggetti di cui all'articolo 32, comma 1, lettere
b) e c), possono adottare con proprio provvedimento analoghi criteri”.
Alla luce della suddetta norma l’incentivo in questione non può essere
superiore al 2 per cento dell’importo posto a base di gara.
Per quanto riguarda il regolamento attuativo, applicabile alla fattispecie
in esame, esso va identificato in quello emanato con il D.M. Giustizia n.
139/2008, come correttamente rilevato dalla difesa e come ammesso dalla
stessa Procura in sede di udienza.
L’esame dell’art. 3, comma 1, del suddetto D.M. Giustizia, peraltro,
attuativo del citato d.leg.vo, aggiunge solo che si consenta di ripartire
l’incentivo anche nell’ipotesi in cui le procedure di affidamento non
abbiano avuto seguito per ragioni non derivanti da errori od omissioni
progettuali, il che presuppone, comunque, che vi sia stato l’avvio delle
procedure stesse.
Tanto esclude che, dal mancato riferimento in citazione di tale norma, possa
derivare un effetto invalidante della domanda attrice, infatti, con
riferimento alla problematica in esame la Corte dei conti, nell’esercizio
della funzione consultiva, ha chiarito come l’incentivo vada erogato solo a
seguito della pubblicazione del bando o della spedizione delle lettere
d’invito; si è espressa, in tal senso, la Sezione regionale di controllo per
il Piemonte (parere
17.03.2014 n. 44) e la Sezione regionale di controllo per la
Basilicata, con la
parere 12.02.2015 n. 3, che ha precisato quanto segue:
“Perché maturi il diritto all’incentivo non basta, peraltro, che l’attività
progettuale sia stata compiuta. Occorre, anche, che il progetto sia stato
formalmente approvato e posto a base di gara. Del resto, se così non fosse,
l’Ente si troverebbe a dover impegnare risorse ordinarie del proprio
bilancio per fronteggiare oneri che, invece, la norma intende porre soltanto
a carico degli stanziamenti complessivi previsti per la realizzazione
dell’opera o del lavoro. In questo senso depone sia l’originaria
formulazione del comma 5 dell’art. 92, sia, seppure con la prevista
costituzione del fondo, il comma 7-bis dell’art. 93 del Codice”.
Nel caso in esame è pacifico che l’incentivo sia stato erogato a prescindere
dalla fase di gara; inoltre è stato quantificato in assenza di un preciso
importo da porre a base di gara, come risulta, inequivocabilmente, dalla
Relazione sulla realizzazione degli interventi delegati al 31.07.2014 e
dall’allegata scheda n. 45.
Pertanto, il Collegio ritiene sia stato violato l’art. 92 del D.lgs. n.
163/2006 e l’art. 3 del D.M. Giustizia, in quanto, ai fini della
liquidazione dell’incentivo in questione, occorre, quanto meno, la previa
pubblicazione del bando o la spedizione delle lettere d’invito.
Sussiste, quindi, il danno erariale derivante dall’indebita erogazione
dell’incentivo, danno imputabile in parti eguali ai convenuti, la cui
condotta è connotata da colpa grave in ragione del chiaro quadro normativo e
della loro elevata professionalità.
Con riferimento alla quantificazione del danno, il Collegio è dell’avviso
che debba tenersi conto anche degli oneri previdenziali e delle ritenute
fiscali, trattandosi di somme indebitamente erogate dall’amministrazione
(negli stessi termini Corte conti, Sezione di Appello per la Sicilia, sent.
n. 108/2017 e la giurisprudenza ivi richiamata).
Ciò precisato, il Collegio ritiene di esercitare il potere riduttivo, tenuto
conto di una serie di elementi oggettivi desumibili dalla documentazione in
atti, così riducendo il danno da € 217.662,33 alla somma di € 140.000,00,
comprensiva di rivalutazione monetaria, ripartita in parti eguali (€
70.000,00 per ciascun convenuto), oltre interessi nella misura legale
decorrenti dal deposito della sentenza e fino al soddisfo, in favore del
Ministero della Giustizia.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come da
dispositivo a favore dello Stato.
P.Q.M.
La Corte dei Conti – Sezione Giurisdizionale per la Regione Lazio,
definitivamente pronunciando:
· respinge l’eccezione di nullità;
· condanna i convenuti al pagamento della somma di € 140.000,00, comprensiva
di rivalutazione monetaria, ripartita in parti eguali (€ 70.000,00 per
ciascun convenuto), oltre interessi nella misura legale decorrenti dal
deposito della sentenza e fino al soddisfo, in favore del Ministero della
Giustizia
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lazio,
sentenza 11.01.2019 n. 5). |
QUESITI & PARERI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assenze
per provvedimenti Coronavirus.
Domanda
A seguito dell’emissione delle ordinanze ministeriali/regionali recanti “Misure
urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica
da COVID-2019“, abbiamo sospeso il servizio dell’asilo nido e della
biblioteca civica.
Come devono essere trattate le assenze dal servizio dei questi dipendenti?
Risposta
Le misure urgenti adottate nelle ordinanze di cui al quesito, riguardano
interventi volti a contenere la diffusione del COVID-19 più noto come
Coronavirus. Allo scopo di evitare il diffondersi del virus è stata disposta
la chiusura dei servizi educativi dell’infanzia e delle scuole di ogni
ordine e grado, nonché la sospensione dei servizi di apertura al pubblico
dei musei e degli altri istituti e luoghi della cultura fino al 1° marzo
compreso.
Tale sospensione configura un caso di impossibilità di rendere la
prestazione lavorativa non imputabile ad alcuna delle parti del rapporto di
lavoro: né al datore di lavoro né al lavoratore.
L’autorità che è intervenuta e ha deciso la sospensione dei servizi non ha
infatti agito come datore di lavoro ma come ufficiale di governo.
Peraltro va aggiunto che esistono due diversi tipi di situazioni
riconducibili l’una alle ordinanze regionali, le altre alle ordinanze dei
sindaci dei comuni sede dei principali focolai del virus.
Le ordinanze regionali sospendono il servizio degli asili nido e delle
biblioteche nei rispettivi territori.
Le ordinanze dei sindaci vietano ai residenti nei comuni sedi dei principali
focolai, di uscire dal territorio comunale, impedendo quindi al lavoratore
di prestare il proprio servizio presso un datore di lavoro al di fuori del
territorio comunale oggetto della restrizione.
Non sono rinvenibili nei CCNL vigenti, disposizioni che trattino in modo
specifico la complessiva fattispecie e gli effetti che ne possono derivare
sul rapporto di lavoro.
Ad oggi, pertanto, possono essere fatte valere le istruzioni fornite dall’ARAN
nei casi di eventi calamitosi o eventi atmosferici avversi.
Le indicazioni dell’Agenzia sono quelle di un datore di lavoro che, pur non
essendo tenuto a corrispondere la retribuzione per i periodi oggetto di
assenza, potrà certamente applicare tutta una serie di istituti e discipline
contrattuali che consentono di tutelare la posizione del dipendente.
Le assenze possono pertanto essere giustificate ricorrendo ad istituti
contrattuali e di legge come ferie e permessi retribuiti oppure anche
concordando con il lavoratore interessato, su un più ampio arco temporale,
l’eventuale recupero delle ore non lavorate.
Per quanto riguarda i lavoratori dipendenti degli asili nido e delle
biblioteche, agli stessi, potranno essere chieste mansioni da essi esigibili
in aree diverse da quelle oggetto di sospensione.
Stessa previsione non è evidentemente applicabile ai lavoratori ai quali
sono rivolte le misure restrittive di tipo territoriale.
L’eccezionalità della contingenza in continuo divenire conduce a ritenere
che verrà adottata una soluzione per colmare, nell’emergenza, il vuoto
normativo che incide negativamente sulla sfera del lavoratore e che si
colloca come elemento di differenziazione tra mondo del lavoro privato e
pubblico (27.02.2020 - link a www.publika.it). |
PATRIMONIO: L'ufficio
patrimonio di questa Regione chiede di conoscere se, relativamente a
contratti di locazione di immobili di proprietà, debba procedere ai sensi
del codice degli appalti (anche in relazione agli obblighi di tracciabilità)
o se l'ente possa procedere in autonomia applicando le norme del Codice
Civile.
L'art. 17 del Codice degli appalti (D.Lgs. 18.04.2016, n. 50) "Esclusioni
specifiche per contratti di appalto e concessione di servizi" dopo le
modifiche apportate dal D.Lgs. 19.04.2017, n. 56 esclude dal proprio campo
di applicazione i contratti "a) aventi ad oggetto l'acquisto o la
locazione, quali che siano le relative modalità finanziarie, di terreni,
fabbricati esistenti o altri beni immobili o riguardanti diritti su tali
beni".
Tale esclusione non determina in automatico la piena libertà di azione
dell'Amministrazione in quanto, come riconosciuto dalla giurisprudenza "Gli
artt. 4 e 17, lett. a), del codice dei contratti vanno interpretati nel
senso che per i contratti attivi e passivi della P.A., ad oggetto l'acquisto
o la locazione di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili, si
devono rispettare i principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità
di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela
dell'ambiente ed efficienza energetica previsti dall'art. 4 per tutti i
contratti pubblici esclusi, in tutto o in parte, dall'ambito di applicazione
oggettiva del codice, e spetta all'ANAC la relativa vigilanza e il controllo
ai sensi dell'art. 213 del D.Lgs. n. 50/2016".
In tale ottica l'ANAC con Comunicato 16.10.2019 del Presidente "Indicazioni
relative all'obbligo di acquisizione del CIG e di pagamento del contributo
in favore dell'Autorità per le fattispecie escluse dall'ambito di
applicazione del codice dei contratti pubblici" ha previsto
l'applicazione a tali contratti degli obblighi di tracciabilità mediante
acquisizione del codice identificativo gara (smart-cig) a prescindere
dall'importo.
Pertanto, allo stato attuale, pur fuori dal campo di applicazione del codice
degli appalti, la disciplina applicabile ai contratti di locazione vede
comunque l'applicazione di taluni principi e del vincolo di tracciabilità
propri della disciplina generale in materia di contratti pubblici.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, art. 17
- D.Lgs. 19.04.2017, n. 56 - Comunicato 16.10.2019 del Presidente ANAC
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. V, 29.01.2020, n. 720 - Cons. Stato Sez. comm. spec.
Parere, 10.05.2018, n. 1241
(26.02.2020 - tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI: I
poteri del RUP non dirigente/responsabile del servizio.
Domanda
Nel nostro ente (un comune) privo di dirigenti, si sta ponendo la questione
dei poteri del RUP (normalmente una categoria D a volte non coincidente con
il responsabile del servizio con funzioni gestionali), alla luce di quanto
viene espresso in giurisprudenza secondo cui, a titolo esemplificativo, il
provvedimento di esclusione dall’appalto compete al responsabile unico del
procedimento anche se questo soggetto non coincide con il titolare dei
poteri dirigenziali (nel nostro ente assegnati con provvedimento del sindaco
ex art. 109 del TUEL).
In tale contesto, è possibile specificare nel bando di gara che i
provvedimenti di esclusione verranno adottati direttamente dal responsabile
del servizio su proposta del RUP? Oppure in che modo l’ente potrebbe
disciplinare questi aspetti nella legge di gara?
Risposta
La tematica prende spunto, evidentemente, dalla recente giurisprudenza e
dalla posizione espressa dall’ANAC (finanche nei bandi tipo oltre che nelle
linee guida n. 3) di cui si è già parlato. E sul tema, chi scrive, ha avuto
modo già di evidenziare la particolarità di un preteso potere attribuito
anche al RUP non dirigente e non responsabile del servizio di adottare atti
a valenza esterna pur non avendo la competenza esplicita e nonostante il
chiaro dettato normativo di cui all’articolo 6 della legge 241/1990 ex art.
6, comma 1, lett. e) che –testualmente– puntualizza che nel caso in cui il
responsabile del procedimento non abbia la competenza ad adottare il
provvedimento a valenza esterna deve limitarsi a predisporre la proposta per
il proprio responsabile di servizio.
Quest’ultimo, sempre in base alla norma in commento, potrà finanche
discostarsi dalla proposta ma motivando adeguatamente le ragioni anche per
un problema di responsabilità. È chiaro che la decisione di agire
diversamente rispetto a quanto proposto dal responsabile del procedimento
deve avere una adeguata “tracciatura” per evitare che quest’ultimo
risponda per una decisione (contraria alla propria proposta) assunta dal
proprio responsabile di servizio.
In tempi recentissimi sul tema dei poteri del RUP a valenza esterna a
prescindere dalla circostanza che sia o meno un responsabile di servizio e/o
dirigente si è espresso il Consiglio di Stato, sez. V, con la sentenza n.
1104/2020.
Il giudice di Palazzo Spada non manifesta alcuna perplessità nel ritenere
che i provvedimenti di esclusione debbano essere adottati dal RUP a
prescindere dalla qualifica/categoria di appartenenza. Ad esempio, nel caso
di specie il RUP era un istruttore direttivo (cat. D) neanche responsabile
del servizio visto che lo stesso è rimesso ad un dirigente.
Ciò nonostante, come da giurisprudenza costante (e, si ripete, secondo la
prassi dell’ANAC) la statuizione è stata nel senso che i provvedimenti in
parola sono di competenza del RUP.
È chiaro che, nell’ambito di una stazione appaltante priva di dirigenti e
nel caso in cui il RUP non coincida neppure con il responsabile del servizio
con poteri a valenza esterna, la questione può determinare non poche
problematiche soprattutto per la “scarsa” propensione del RUP ad
adottare provvedimenti a valenza esterna che, evidentemente, implicano
gravose responsabilità.
Fermo restando che la posizione giurisprudenziale è quella appena espressa
ovvero che il RUP è tenuto ad adottare i provvedimenti a valenza esterna
(ammissioni, esclusioni, aggiudicazioni senza impegno di spesa), si può
ritenere –a parere di chi scrive– che probabilmente la legge di gara
potrebbe chiarire questo passaggio rimettendo il potere di adottare il
provvedimento esterno direttamente in capo al responsabile del servizio
piuttosto che al RUP.
La circostanza che ciò risulti esplicitamente chiarito
potrebbe essere valutata nell’interpretazione secondo cui la responsabilità
del RUP è di tipo residuale ovvero si estende ad una serie di atti (quelli
appena sintetizzati) solo quando non sia stati espressamente attribuiti ad
altri soggetti (art. 31 del codice dei contratti).
Rimane fermo che –a fronte della giurisprudenza che rimette le incombenze
estromissive al RUP (ritenendo, ad esempio, come nel caso della sentenza
ultima citata del CdS che l’esclusione comminata dalla commissione di gara
–dal presidente– sia illegittima)– è necessario un chiaro intervento del
legislatore o dell’ANAC per chiarire il passaggio anzidetto ovvero: se il
RUP non è dirigente/responsabile del servizio può adottare atti a valenza
esterna? Soprattutto negli enti locali (26.02.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
tutela della privacy nei concorso riservati alle categorie protette.
Domanda
Quali accortezze occorre avere nella gestione di un concorso riservato alle
categorie protette, per la parte di pubblicazione dei dati via web?
Risposta
Gli enti che bandiscono procedure concorsuali, riservate alla categorie
protette, devono prestare la massima attenzione alla diffusione dei dati dei
partecipanti, dal momento che in ballo c’è il trattamento del dato per il
quale il legislatore europeo e nazionale hanno previsto il massimo della
tutela: lo stato di salute.
La salute, tra tutti i dati sensibili di una persona fisica (il Regolamento
UE 2016/679, all’articolo 9, li definisce “particolari”), è
certamente quello che deve essere maggiormente protetto, soprattutto nelle
comunicazioni via web che l’ente che bandisce il concorso è tenuto a
pubblicare, nello svolgimento della selezione.
Qui di seguito, per rispondere al quesito, vengono tracciati una serie di
suggerimenti legati alle singole fasi procedimentali del concorso.
Fase 1
Pubblicazione elenco degli ammessi e degli esclusi al concorso.
È possibile convocare i candidati ammessi al concorso (o alla preselezione,
se prevista) con un semplice comunicato a firma del presidente della
Commissione che recita più o meno così.
AVVISO
Tutti i candidati che hanno presentato domanda di partecipazione al concorso
riservato alle categorie protette, per la copertura del posto di ……………….
Categoria …………, come da bando pubblicato in data ………….che NON hanno ricevuto
lettera di esclusione, sono convocati il giorno……., alle ore…… presso………..
per sostenere la prima prova scritta del concorso.
Sin qui, il problema dei dati, non si pone.
Fase 2
Per la comunicazione dei candidati ammessi alla seconda prova si può
procedere con un comunicato del presidente della Commissione, in cui compare
solamente l’elenco degli ammessi, con, a fianco, il relativo punteggio. I
nominativi dei candidati dovranno essere sostituiti dall’uso delle iniziali
o, meglio ancora, da dei codici identificati sostitutivi, attribuiti dalla
commissione ad ogni candidato ammesso. Tramite e-mail o telefono, ad ogni
candidato verrà comunicato il proprio codice identificativo. Esempio:
Posizione Candidato
Punteggio prova scritta
01.
Candidato 014-2020 28/30
02.
Candidato 006-2020 27/30
03.
Candidato 003-2020 26/30
Fase 3
Approvazione graduatoria finale. Anche in questo caso il nominativo del
vincitore e dei candidati risultati idonei deve essere sostituito dall’uso
di un codice identificativo che sarà lo stesso utilizzato per la
comunicazione di ammissione alla seconda prova. Esempio:
Posizione Candidato
Punteggio prova scritta Punteggio prova orale
Punteggio totale Vincitore / idoneo
01.
Candidato 014-2020 28/30
27/30
55
Vincitore
02.
Candidato 006-2020 27/30
27/30
54
Idoneo
03.
Candidato 003-2020 26/30
26/30
52
Idoneo
Fase 4
Approvazione verbali del concorso e della graduatoria di merito, di norma,
con determinazione del responsabile del servizio personale. Anche in questo
caso, dovranno essere oscurati tutti i nominativi e sostituiti con dei
Codici identificati, già utilizzati in sede concorsuale. Prestare molta
attenzione anche al contenuto dei verbali della Commissione che verranno
allegati alla determinazione dirigenziale, provvedendo, eventualmente,
all’oscuramento di alcuni dati.
Fase 5
Determinazione di assunzione in servizio del vincitore e approvazione schema
di contratto individuale.
Nel testo della determinazione e nello schema di contratto individuale,
verrà utilizzato il Codice matricola, attribuito preventivamente alla presa
in servizio, al neo-dipendente dal servizio personale.
Ricapitolando: sull’argomento occorre prendere a riferimento le seguenti
norme:
• regolamento (UE) 2016/679, in particolare l’articolo 9, Paragrafo
4;
• decreto legislativo 30.06.2003, n. 196, articolo 2-septies, nel
testo inserito dall’art. 2, comma 1, lett. f), del d.lgs. 10.08.2018, n.
101;
• indicazioni del Garante privacy contenute nel documento del
15.05.2014, recante “Linee guida in materia di trattamento di dati
personali, contenuti anche in atti e documenti amministrativi, effettuato
per finalità di pubblicità e trasparenza sul web da soggetti pubblici e da
altri enti obbligati”, in particolare il Paragrafo 3. rubricato:
Fattispecie esemplificative, Parte 3.b – Graduatorie, laddove si specifica
che:
Non possono quindi formare oggetto di pubblicazione dati concernenti i
recapiti degli interessati (si pensi alle utenze di telefonia fissa o
mobile, l’indirizzo di residenza o di posta elettronica, il codice fiscale,
l’indicatore ISEE, il numero di figli disabili, i risultati di test
psicoattitudinali o i titoli di studio), né quelli concernenti le condizioni
di salute degli interessati (cfr. art. 22, comma 8, del Codice), ivi
compresi i riferimenti a condizioni di invalidità, disabilità o handicap
fisici e/o psichici.
L’insieme di tali disposizioni impedisce, pertanto, agli enti di divulgare i
dati sullo stato di salute delle persone fisiche, anche se partecipano a una
procedura concorsuale, riservata a soggetti in condizioni di disabilità,
compresi i richiami alla legge 12.03.1999, n. 68, recante “Norme per il
diritto al lavoro dei disabili”.
Il divieto risulta ancora più stringente se i dati vengono pubblicati nei
siti web, sia nella sezione dedicata all’Albo pretorio on-line che sulla
sezione Amministrazione trasparente > Bandi di concorso. La violazione del
divieto comporta l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da
parte del Garante privacy, come è possibile verificare consultando il
seguente link.
Il provvedimento sanzionatorio, nella sua parte narrativa, illustra con
precisione le motivazioni che hanno indotto l’Autorità Garante a emanare una
ordinanza-ingiunzione, datata 14.03.2019, dell’importo di euro 10mila, nei
confronti di un comune del centro Italia, per aver effettuato un trattamento
illecito di dati personali mediante la diffusione di dati idonei a rilevare
lo stato di salute.
La sanzione –per la quale è stata anche concessa una rateizzazione di 25
rate mensili, da 400 euro ciascuna– rappresenta il minimo edittale previsto,
dal momento che la misura della sanzione era stata stabilita (con il “vecchio”
Codice privacy) da un minimo di 10.000 a un massimo di 120.000 euro (25.02.2020 - link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Consigli, parla lo statuto. Un consigliere non può restare senza
gruppo. Se non ci sono le condizioni per costituirne uno, deve confluire nel
misto.
Un consigliere può essere espulso dal proprio gruppo consiliare?
Un consigliere comunale è stato espulso dal gruppo consiliare di
appartenenza essendo «venuto meno il necessario rapporto di fiducia»,
e lo stesso amministratore non ha aderito ad alcun altro gruppo compreso il
gruppo misto. Nell'ambito dei consigli comunali, i gruppi non sono
configurabili quali organi dei partiti e, pertanto, non sembra sussistere in
capo a questi ultimi una potestà direttamente vincolante sia per un membro
del gruppo di riferimento, che per gli organi assembleari dell'ente.
Si richiama la sentenza n. 16240/2004 con la quale il Tar Lazio ha precisato
che i gruppi consiliari hanno una duplice natura; essi rappresentano, per un
verso, la proiezione dei partiti all'interno delle assemblee, e, per altro
verso, costituiscono parte dell'ordinamento assembleare, in quanto
articolazioni interne di un organo istituzionale. Nella citata pronuncia, si
legge che «è dunque possibile distinguere due piani di attività dei
gruppi: uno, più strettamente politico, che concerne il rapporto del singolo
gruppo con il partito politico di riferimento, l'altro, gravitante
nell'ambito pubblicistico, in relazione al quale i gruppi costituiscono
strumenti necessari per lo svolgimento delle funzioni proprie degli organi
assembleari, contribuendo ad assicurare l'elaborazione di proposte e il
confronto dialettico tra le diverse posizioni politiche e programmatiche».
L'art. 38, comma 2, del Tuel demanda al regolamento, «nel quadro dei
principi stabiliti dallo statuto», la disciplina del funzionamento dei
consigli; pertanto, le problematiche relative alla costituzione e al
funzionamento dei gruppi consiliari devono essere valutate alla stregua
delle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l'ente locale si è
dotato.
Dalla lettura dello statuto e del regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale, emerge che i consiglieri possono costituire gruppi
monopersonali solamente nel caso in cui sia stato eletto un solo consigliere
nell'ambito di una lista, oppure, «in corrispondenza della nascita di
nuovi movimenti politici a livello nazionale». Dall'esame delle norme
citate emerge, altresì, che, qualora i consiglieri nel corso della
consiliatura abbiano abbandonato il proprio gruppo originario, ove non
abbiano diritto a costituire un gruppo di un solo componente, «vanno
assegnati al gruppo misto».
Tali disposizioni, nel prevedere l'iscrizione d'ufficio al gruppo misto in
assenza dei presupposti previsti a giustificazione del gruppo monopersonale,
sembrerebbero escludere la possibilità che il consigliere possa decidere di
non appartenere ad alcun gruppo. Nell'ambito delle surriferite fonti di
autonomia locale non sembra potersi rinvenire una specifica normativa che
preveda l'ipotesi della espulsione di un consigliere dal proprio gruppo di
appartenenza originario.
Tanto premesso, nel ribadire che la materia dei gruppi consiliari è
interamente demandata allo statuto e al regolamento sul funzionamento del
consiglio, si rappresenta che è in tale ambito che dovrebbero trovare
adeguata soluzione le relative problematiche applicative. Spetta, infatti,
alle decisioni del consiglio comunale, valutare l'opportunità di indicare,
con apposita modifica regolamentare, anche le ipotesi in argomento (articolo ItaliaOggi del 21.02.2020). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Partecipazione impresa famigliare.
Domanda
È possibile per un dipendente
pubblico partecipare attivamente alla gestione di un’attività del figlio in
qualità di collaboratrice familiare?
Risposta
L’impresa familiare alla quale pare fare riferimento il quesito posto– è
disciplinata, nel nostro ordinamento, dall’art. 230 bis del codice civile
[1], ed indica –per
definizione– una tipologia di impresa caratterizzata dal lavoro dei
familiari nella gestione della stessa, le cui caratteristiche principali
sono riconducibili alle seguenti:
• la presenza di un unico imprenditore;
• la collaborazione di uno o più familiari nella gestione
dell’attività.
I familiari possono lavorare nell’impresa con un contratto di lavoro
dipendente, oppure prestare la propria opera in qualità di collaboratori
familiari, ed, in tal caso, hanno diritto al mantenimento, alla
partecipazione agli utili di impresa, alla gestione dell’attività,
limitatamente alla gestione straordinaria, alla destinazione degli utili,
alla produzione e alla cessazione dell’impresa. Si tratta, pertanto di una
collaborazione attiva alla vita dell’impresa ed anche ai guadagni della
stessa.
L’articolo 53, comma 1, del d.lgs. 165/2001, attraverso il richiamo espresso
all’articolo 60 del Testo Unico n. 3/1957, sancisce il cosiddetto dovere di
esclusività per i pubblici dipendenti, i quali “non possono esercitare il
commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle
dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di
lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la
nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione
del Ministro competente.”
Tale divieto assoluto risulta mitigato dai successivi commi del citato
articolo che prevede che:
• le pubbliche amministrazioni non possono conferire ai dipendenti
incarichi, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, che non siano
espressamente previsti o disciplinati da legge o altre fonti normative, o
che non siano espressamente autorizzati (comma 2);
• il conferimento operato direttamente dall’amministrazione, nonché
l’autorizzazione all’esercizio di incarichi che provengano da
amministrazione pubblica diversa da quella di appartenenza, ovvero da
società o persone fisiche, che svolgano attività d’impresa o commerciale,
sono disposti dai rispettivi organi competenti secondo criteri oggettivi e
predeterminati, che tengano conto della specifica professionalità, tali da
escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto,
nell’interesse del buon andamento della pubblica amministrazione o
situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi, che pregiudichino
l’esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente (comma 5).
Al fine di supportare le amministrazioni nell’applicazione della normativa
in materia di svolgimento di incarichi da parte dei dipendenti e di
orientare le scelte in sede di elaborazione dei propri regolamenti e nella
definizione dei “criteri oggettivi e predeterminati”, il tavolo
tecnico (a cui hanno partecipato il Dipartimento della funzione pubblica, la
Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, l’ANCI e l’UPI, avviato
ad ottobre 2013, in attuazione di quanto previsto dall’intesa sancita in
Conferenza unificata il 24.07.2013) ha formalmente approvato il documento
contenente “Criteri generali in materia di incarichi vietati ai pubblici
dipendenti”.
In tale documento, è scritto che sono da considerare vietati ai dipendenti
delle amministrazioni pubbliche –con percentuale di tempo superiore al 50%–
gli incarichi, sia retribuiti che a titolo gratuito, che presentano la
caratteristica della abitualità e professionalità, e si precisa che “l’incarico
presenta i caratteri della professionalità laddove si svolga con i caratteri
della abitualità, sistematicità/non occasionalità e continuità, senza
necessariamente comportare che tale attività sia svolta in modo permanente
ed esclusivo.”
D’altra parte, già la Circolare n. 6 del 1997 del Dipartimento della
Funzione Pubblica citava il caso partecipazione del dipendente pubblico in
società agricole a conduzione familiare, ritenendo che tale attività fosse
compatibile solo se l’impegno richiesto è modesto e non abituale o
continuato durante l’anno, spettando all’amministrazione di appartenenza –in
sede di istruttoria della domanda di autorizzazione– valutare che le
modalità di svolgimento siano tali da non interferire sull’attività
ordinaria.
Alla luce di quanto sopra esposto, si esclude che la dipendente pubblica di
cui al quesito possa partecipare attivamente alla gestione dell’attività di
tabaccheria del figlio in qualità di collaboratrice familiare, non
rinvenendosi le caratteristiche di saltuarietà ed occasionalità previste per
poter legittimamente rilasciare apposita autorizzazione.
---------------
[1] Art. 230-bis Codice Civile: “Salvo che sia configurabile un diverso
rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di
lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento
secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili
dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi, nonché agli
incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla
quantità e qualità del lavoro prestato.
Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché
quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e
alla cessazione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che
partecipano all’impresa stessa. I familiari partecipanti all’impresa che non
hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita
la responsabilità genitoriale su di essi.
Il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo" (20.02.2020 - link a www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA: A
fronte di verifiche antimafia "positive" (con riscontro di interdittive)
questa Amministrazione statale operante nella pubblica sicurezza procede a
adottare i conseguenti provvedimenti di autotutela o cautelari.
Spesso gli interessati contestano che le informazioni antimafia siano state
emesse senza contraddittorio o avvio del procedimento e ne chiedono
l’annullamento.
Vi sono margini per accogliere queste lamentele?
La disciplina delle "informazioni antimafia") è contenuta nel D.Lgs.
06.09.2011, n. 159 il quale delinea un procedimento peculiare (rispetto agli
ordinari procedimenti amministrativi), di natura cautelare e urgente che
deroga, secondo la costante e consolidata giurisprudenza, alla disciplina
della L. 07.08.1990, n. 241.
Infatti si sottolinea in modo costante come "Ai fini delle informazioni
antimafia non occorre la comunicazione di avvio del procedimento, previsto
dall'art. 7 della L. n. 241 e il preavviso di rigetto, previsto dall'art.
10-bis della stessa legge. L'informazione antimafia non richiede la
necessaria osservanza del contraddittorio procedimentale, meramente
eventuale in questa materia ai sensi dell'art. 93, comma 7, del D.Lgs. n.
159 del 2011". Ciò in quanto procedimento "intrinsecamente
caratterizzato da profili di urgenza".
Ciò detto, se non è possibile dare rilievo a eventuali osservazioni
concernenti le modalità di rilascio dell’informativa antimafia
l’amministrazione procedente deve tuttavia valutare la necessità,
nell’ambito del proprio procedimento (es. concessione di contributi, appalti
ecc..) di procedere comunque tramite le garanzie previste dalla L.
07.08.1990, n. 241 in quanto, nel caso concreto, potrebbero non sussistere
le ragioni di urgenza che legittimano l’omissione del contraddittorio.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
L.
07.08.1990, n. 241, art. 7 - D.Lgs. 06.09.2011, n. 159, art. 93
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. III,
31.01.2020, n. 820 - TAR Piemonte-Torino Sez. I, 18.11.2019, n. 1152 - TAR
Campania-Napoli Sez. I, 07.11.2018, n. 6465 - TAR Sicilia-Catania Sez. I,
20.08.2018, n. 1718 - Cons. Stato Sez. III Sent., 27.03.2017, n. 1378 -
Cons. Stato Sez. III Sent., 28.10.2016, n. 4555 - Cons. Stato Sez. III Sent.,
28.10.2016, n. 4550 - Cons. Stato Sez. III, 01.09.2014, n. 4447
(19.02.2020 - tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI FORNITURE: Nuove
categorie merceologiche soggette ad obbligo di centralizzazione.
Domanda
È possibile acquistare un’autovettura da destinare ai vari settori comunali
mediante richiesta di preventivi alle concessionarie di zona?
Risposta
Con riferimento al quesito in premessa occorre richiamare il comma 581 della
legge finanziaria 2020, che intervenire sull’art. 1, co. 7, del d.l.
95/2012, con l’obiettivo di rafforzare la centralizzazione e aggregazione di
quelle committenze che presentano caratteristiche standardizzabili e
rilevanti economicamente.
Il citato art. 1, co. 7, prevede l’obbligo di
approvvigionamento attraverso le convenzioni o gli accordi quadro messi a
disposizione da Consip S.p.A. e dalle centrali di committenza regionali di
riferimento costituite ai sensi dell’articolo 1, comma 455, della legge
27.12.2006, n. 296, ovvero mediante autonome procedure nel rispetto della
normativa vigente, utilizzando i sistemi telematici di negoziazione messi a
disposizione dai soggetti sopra indicati.
Autonomia di acquisto che presuppone il rispetto del benchmark, ovvero i
parametri di qualità-prezzo delle convenzioni quadro come limiti massimi per
l’acquisto di beni e servizi comparabili (art. 26, l 488/1999, art. 1, co.
449-455-456, l. 296/2006).
Obbligo inizialmente previsto per alcune categorie merceologiche, quali,
energia elettrica e gas, carburanti rete ed extra rete, combustibili per
riscaldamento, telefonia fissa e mobile, buoni pasto (D.M. 22.12.2015),
viene con la finanziaria 2020 esteso alle seguenti categorie di veicoli:
• Autovetture (art. 54, co. 1, lett. a) del d.lgs. 285/1992 C.d.S.
(veicoli destinati al trasporto di persone, aventi al massimo nove posti,
compreso quello del conducente);
• Autobus (art. 54, co. 1, lett. b) del d.lgs. 285/1992, (veicoli
destinati al trasporto di persone equipaggiati con più di nove posti
compreso quello del conducente), ad eccezione di quelli per il servizio di
linea per trasporto di persone;
• Autoveicoli per trasporto promiscuo (art. 54, co. 1, lett. c) del
d.lgs. 285/1992, (veicoli aventi una massa complessiva a pieno carico non
superiore a 3,5 t. o 4,5 t. se a trazione elettrica o a batteria, destinati
al trasporto di persone e di cose e capaci di contenere al massimo nove
posti compreso quello del conducente);
• Autoveicoli e motoveicoli per le forze di polizia e autoveicoli
blindati (altre tipologie di veicoli non sono state ritenute
standardizzabili in quanto soggette a specifiche personalizzazioni da parte
delle PA).
In presenza di queste tipologie merceologiche l’Amministrazione,
indipendentemente dall’importo, potrà:
• Aderire ad una Convenzione/Accordo quadro Consip/Centrale di
committenza regionale
• Utilizzare il Mepa o altro Strumento telematico di negoziazione
della Centrale di Committenza Regionale.
Nel caso di specie qualora presente una convenzione attiva la stazione
appaltante avrà la possibilità, almeno nell’infra 40.000,00 euro, di
affidare direttamente, previa richiesta di preventivi alle concessionarie
locali, a condizione che si rispetti il benchmark della convenzione, e che
si utilizzino comunque gli strumenti telematici di negoziazione messi a
disposizione da Consip o dalla Centrale di Committenza Regionale (19.02.2020 - link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pubblicazione
provvedimenti organi indirizzo e dirigenti.
Domanda
Quali sono i provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo e dai
dirigenti, oggetto degli specifici obblighi di pubblicazione, di cui
all’art. 23, del d.lgs. n. 33/2013?
Risposta
L’articolo 23, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, nella sua versione
iniziale, prevedeva l’obbligo di pubblicare e aggiornare ogni sei mesi, in
distinte partizioni della sezione «Amministrazione trasparente», gli
elenchi dei provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo politico e dai
dirigenti, con particolare riferimento ai provvedimenti finali dei
procedimenti di:
a) autorizzazione o concessione;
b) scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e
servizi, anche con riferimento alla modalità di selezione prescelta ai sensi
del codice dei contratti pubblici, relativi a lavori, servizi e forniture,
di cui al d.lgs. n. 163/2006;
c) concorsi e prove selettive per l’assunzione del personale e
progressioni di carriera di cui all’art. 24 del d.lgs. n. 150/2009;
d) accordi stipulati dall’amministrazione con soggetti privati o
con altre amministrazioni pubbliche.
Il successivo comma 2, stabiliva, invece, che per ciascuno dei provvedimenti
compresi negli elenchi di cui al comma 1 doveva essere pubblicato:
• il contenuto;
• l’oggetto;
• l’eventuale spesa prevista;
• gli estremi relativi ai principali documenti contenuti nel
fascicolo relativo al procedimento.
La pubblicazione doveva avvenire nella forma di una scheda sintetica,
prodotta automaticamente in sede di formazione del documento che contiene
l’atto.
La norma originaria –peraltro non cristallina nella sua formulazione, in
virtù della presenza della locuzione “con particolare riferimento”–
ha subito delle sostanziali modifiche da parte dell’articolo 22, comma 1,
del decreto legislativo 25.05.2016, n. 97, che ha abrogato le lettere a) e
c), del comma 1 e l’intero comma 2.
Alla luce delle modifiche intervenute, il testo dell’art. 23, del d.lgs.
33/2013, risulta, oggi, così strutturato:
Art. 23 Obblighi di pubblicazione concernenti i provvedimenti
amministrativi
1. Le pubbliche amministrazioni pubblicano e aggiornano ogni sei
mesi, in distinte partizioni della sezione «Amministrazione trasparente»,
gli elenchi dei provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo politico e
dai dirigenti, con particolare riferimento ai provvedimenti finali dei
procedimenti di:
[a) autorizzazione o concessione;]
b) scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e servizi,
anche con riferimento alla modalità di selezione prescelta ai sensi del
codice dei contratti pubblici, relativi a lavori, servizi e forniture, di
cui al d.lgs. 18.04.2016, n. 50, fermo restando quanto previsto
dall’articolo 9-bis;
[c) concorsi e prove selettive per l’assunzione del personale e
progressioni di carriera di cui all’art. 24 del d.lgs. 150/2009;]
d) accordi stipulati dall’amministrazione con soggetti privati o con altre
amministrazioni pubbliche, ai sensi degli artt. 11 e 15 della legge
07.08.1990, n. 241.
[2. Per ciascuno dei provvedimenti compresi negli elenchi
di cui al comma 1 sono pubblicati il contenuto, l’oggetto, la eventuale
spesa prevista e gli estremi relativi ai principali documenti contenuti nel
fascicolo relativo al procedimento. La pubblicazione avviene nella forma di
una scheda sintetica, prodotta automaticamente in sede di formazione del
documento che contiene l’atto.]
Alla luce di quanto sopra, la risposta al quesito può essere formulata
come di seguito riportato:
– ogni sei mesi e per la durata di anni cinque, occorre pubblicare
su Amministrazione trasparente > Provvedimenti, un elenco con i principali
provvedimenti degli organi di indirizzo che, nei comuni, sono il Sindaco, la
Giunta e il Consiglio comunale [1],
pertanto, andranno pubblicati i seguenti elenchi:
• deliberazioni di Consiglio comunale;
• deliberazione di Giunta comunale;
• ordinanze del sindaco, ex art. 50 del TUEL 267/2000;
• ordinanze del sindaco, ex art. 54 TUEL 267/2000;
• decreti del sindaco.
Per ciò che concerne i dirigenti (o posizioni organizzative, in enti senza
la dirigenza) occorre pubblicare degli elenchi semestrali di:
• determinazioni dirigenziali;
• ordinanze dirigenziali.
La tempistica degli obblighi di pubblicazione può essere indicata nella
sezione Trasparenza, del Piano Anticorruzione, prevedendo –ma è solo una
nostra indicazione– che gli elenchi del primo semestre dell’anno vengano
pubblicati entro il 30 settembre del medesimo anno e gli elenchi del secondo
semestre, entro il 31 marzo dell’anno successivo.
Per quanto riguarda, invece, gli atti per la scelta del contraente per
l’affidamento di lavori, forniture e servizi, si ritiene che l’obbligo possa
ritenersi già assolto, pubblicando tutti gli atti nella sottosezione Bandi
di gara e contratti, come scrupolosamente previsto dall’articolo 37, del
d.lgs. 33/2013 [2],
mentre per gli accordi con altri soggetti, stipulati ai sensi degli artt. 11
e 15 della legge 241/1990, l’obbligo sarà già assolto con la pubblicazione
degli elenchi delle deliberazioni di Giunta e di Consiglio o, in caso di
accordi di rilevante impatto sull’organizzazione e sulle funzioni dell’ente,
nella sottosezione Disposizioni generali > Atti generali.
L’elenco, in assenza di specifiche indicazioni della legge e dell’ANAC
[3], si ritiene che possa
essere formato come da tabella sotto riportata, prestando la massima
attenzione e cautela al contenuto dell’oggetto dell’atto, soprattutto alla
luce delle vigenti disposizioni in materia di tutela dei dati personali (si
pensi, a titolo di esempio per tutti, alle ordinanze sindacali di TSO e ASO
[4]).
ATTO
NUM. DATA
OGGETTO
Delibera consiliare 01
07.01.2020 Approvazione …
Contrariamente a ciò che si trova pubblicato in alcuni siti web di qualche
ente locale, chi scrive, ritiene che non sia più pubblicabile il contenuto
(cioè il testo integrale) degli atti adottati dagli amministratori e dai
dirigenti. Ciò in virtù dell’introduzione, nella legislazione italiana,
proprio dal d.lgs. 97/2016, dell’innovativo (e per certi versi
rivoluzionario) istituto dell’accesso civico generalizzato (cosiddetto: FOIA)
[5].
Istituto attraverso il quale, qualsiasi cittadino del mondo, potrà avanzare
richiesta di accesso ai dati e documenti detenuti dalle pubbliche
amministrazioni, in forma totalmente gratuita e senza necessità di
motivazione. Una volta consultati gli elenchi e avuto contezza dell’oggetto
dell’atto, sarà estremamente agevole presentare istanza di accesso con il
FOIA o con la legge 241/1990 (Titolo V, motivando la richiesta ex art. 22,
comma 1, lettera b [6]).
I relativi modelli per garantire l’accesso (FOIA o legge 241), dovranno
essere pubblicati e resi facilmente scaricabili e compilabili, dagli enti
nella sottosezione Altri contenuti > Accesso civico.
---------------
[1] Si veda articolo 36, comma 1, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267;
[2] Si veda Allegato 1, delibera ANAC n. 1310 del 28/12/2016, sottosezione
“Provvedimenti”;
[3] Si veda Paragrafo 5.5, della delibera ANAC n. 1310 del 28/12/2016,
recante “Prime linee guida recanti indicazioni sull’attuazione degli
obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni contenute
nel d.lgs. 33/2013 come modificato dal d.lgs. 97/2016”;
[4] TSO = Trattamento Sanitario Obbligatorio; ASO = Assistenza Sanitaria
Obbligatoria;
[5] Si veda articolo 5, comma 2 e seguenti e articolo 5-bis, d.lgs. 33/2013;
[6] Legge 241/1990, art. 22, co. 1, lettera b): per “interessati”, tutti i
soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi,
che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l’accesso (18.02.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI: Nuove
regole per la nomina dei revisori dei conti: già in vigore, ma solo a metà.
Domanda
Il revisore del mio Ente scadrà a
metà marzo. Si applicano già le nuove regole introdotte dal decreto fiscale
oppure no?
Risposta
Il quadro normativo che disciplina la nomina degli organi di revisione degli
enti locali è stato profondamente modificato dall’art. 57-ter del decreto
fiscale 2020 (d.l. 124/2019).
La norma ha infatti modificato il comma 25 dell’articolo 16 del decreto
legge n. 138/2011, sostituendo alle parole: “a livello regionale” le
parole: “a livello provinciale” ed inserito ex novo il comma
25-bis del medesimo articolo. Le novità principali che il Legislatore ha
introdotto sono pertanto essenzialmente due:
1) i nuovi revisori sono estratti a sorte da un elenco costituito
su base provinciale e non più su base regionale come avveniva in passato;
2) negli enti in cui l’organo di revisione non è monocratico bensì
collegiale ai sensi dell’art. 234 del TUEL, i consigli comunali, provinciali
e delle città metropolitane e le unioni di comuni che esercitano in forma
associata tutte le funzioni fondamentali eleggono, a maggioranza assoluta
dei membri, il componente dell’organo di revisione che ricoprirà il ruolo di
presidente del collegio.
Questi è scelto tra i soggetti validamente inseriti nella fascia tre formata
ai sensi del regolamento di cui al decreto del Ministro dell’Interno
15/02/2012, n. 23, o comunque nella fascia di più elevata qualificazione
professionale in caso di modifiche a tale regolamento. Il comma 2 dell’art.
57-ter prevede poi che Il Governo modifichi il suddetto decreto prevedendo
che l’inserimento nell’elenco dei revisori dei conti degli enti locali
avvenga a livello provinciale e non più a livello regionale.
I dubbi emersi fra gli operatori degli enti locali è se tale nuovo quadro
normativo sia di immediata applicazione oppure sia necessario attendere
l’adeguamento del suddetto decreto ministeriale. La risposta è stata fornita
dallo stesso Ministero dell’Interno con un parere reso ad una prefettura e
pubblicato sul sito web dello stesso Ministero (il testo integrale è
reperibile al seguente link:
https://dait.interno.gov.it/pareri/98126).
In esso si afferma che il riferimento dell’articolo 57-ter, comma 2 alla
modifica del regolamento menzionato, vale esclusivamente per la formazione
dell’elenco dei revisori su base provinciale, al fine di permettere le
modifiche tecniche ed i correttivi all’attuale sistema della banca dati su
base regionale. A contrario, la disposizione di cui alla lettera b) del
medesimo art. 57-ter (ovvero il nuovo comma 25-bis del d.l. 138/2011),
esplica i suoi effetti in via diretta dall’entrata in vigore della legge di
conversione del decreto legge in oggetto e non è subordinata alla modifica
del decreto ministeriale n. 23 del 15/02/2012.
Pertanto, gli enti con organo collegiale a far data dal 25.12.2019 (data di
entrata in vigore della legge di conversione n. 157 del 19/12/2019 del
decreto fiscale), hanno la facoltà di applicare la nuova disposizione
relativa alla scelta del presidente. Ciò vale anche per quegli enti per i
quali si è proceduto ad estrazione dei nominativi prima dell’entrata in
vigore della disposizione in esame, ovvero anche dopo la sua entrata in
vigore, senza che siano ancora intervenute le relative nomine da parte del
consiglio dell’ente. Viceversa, gli enti che hanno un organo di revisione
monocratico, nelle more dell’adozione delle necessarie modifiche al d.m.
15/02/2012 n. 23, dovranno fare ancora riferimento agli elenchi su base
regionale.
Ciò trova conferma nel parere ministeriale, laddove si afferma che “(…)
il riferimento territoriale alla provincia, non sia immediatamente
applicabile. Infatti, al fine di realizzare tale modifica, il successivo
comma 2, demanda al Governo la modifica del decreto del Ministero
dell’Interno 15.02.2012, n. 23, prevedendo l’inserimento nell’elenco dei
revisori a livello provinciale”.
Siamo pertanto di fronte ad una norma che al momento è già applicabile ma
solo parzialmente, essendone una parte subordinata alla modifica prevista
dal comma 2 dell’art. 57-ter del decreto fiscale. Una norma un po’
pasticciata che se da un lato ha il vantaggio di ridurre i costi dell’organo
di revisione degli enti locali, con riguardo al rimborso spese di trasferta
dei revisori, dall’altro ripropone il tema del controllo politico
sull’organo di controllo esterno. Almeno laddove tale organo non è
monocratico.
Non a caso la norma è stata fin da subito fortemente osteggiata da Ancrel
che, con apposito emendamento al decreto milleproroghe, ne ha chiesto il
rinvio al 2021.
Infine, cogliamo l’occasione per segnalare che lo scorso 4 febbraio il
Ministero dell’Interno ha pubblicato sul proprio sito un decreto
direttoriale di modifica dell’algoritmo di estrazione dei revisori. Esso ha
lo scopo di garantire una maggiore probabilità di estrazione per i
nominativi che non sono mai stati estratti (17.02.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Convezione art. 14 per utilizzo P.O..
Domanda
Potreste spiegare meglio come funziona una convenzione tra enti per
l’utilizzo congiunto di un dipendente incaricato di posizione organizzativa?
Risposta
L’articolo 14 del CCNL 22/01/2004 ha introdotto la possibilità di utilizzo
congiunto di un dipendente tra più enti locali, chiarendo che esso deve
essere disciplinato da idoneo accordo tra le amministrazioni interessate,
che disponga innanzitutto in merito alla percentuale di ripartizione della
prestazione lavorativa del dipendente in favore dell’ente di appartenenza
(cui rimane organicamente legato) e in favore dell’ente utilizzatore (dal
quale dipenderà funzionalmente per la quota parte ad esso assegnata).
Già tale originaria disposizione pattizia, ripresa nella stessa direzione
dall’articolo 17, comma 6, del CCNL 21/05/2018, aveva chiarito che nulla
osta a che il dipendente in questione sia titolare di un incarico di
posizione organizzativa presso uno o tutti e due gli enti coinvolti: ciascun
ente, però, dovrà riproporzionare il valore dell’indennità di posizione
attribuita presso di sé e derivante dal processo di pesatura effettuato
secondo le proprie regole, in funzione della percentuale di attribuzione
della prestazione lavorativa spettante; e ciascun ente si farà carico della
propria quota di indennità, dovendo l’ente utilizzatore rimborsare all’ente
di provenienza solo le normali voci retributive del dipendente e non certo
la quota di indennità di posizione attribuita presso l’altra
amministrazione.
Per essere ancora più espliciti, se presso l’ente A (ente di appartenenza),
il dipendente è titolare di un incarico di posizione organizzativa cui è
attribuita una indennità di posizione di euro 10.000,00/annui, e la
convenzione per l’utilizzo congiunto del dipendente prevede una ripartizione
della prestazione lavorativa al 50% (18 h/settimanali per ciascun ente),
ecco che l’ente di appartenenza dovrà riproporzionare tale indennità al 50%,
corrispondendo al dipendente una posizione pari ad euro 5.000,00 annui.
Nulla dovrà l’ente utilizzatore, che chiameremo B, in relazione a tale
somma, che resta di esclusiva competenza e interesse dell’ente A.
Ove lo ritenga, e secondo il proprio regolamento in materia, l’ente B potrà
certamente attribuire altro incarico di posizione organizzativa allo stesso
dipendente, procedendo, quanto alla sua pesatura, esattamente come A, ovvero
seguendo il proprio disciplinare in materia e riproporzionandola al 50%.
L’art. 16, comma 6, del CCNL 21/05/2018, all’ultimo capoverso, aggiunge solo
che “al fine di compensare la maggiore gravosità della prestazione svolta
in diverse sedi di lavoro, i soggetti di cui al precedente alinea possono
altresì corrispondere con oneri a proprio carico, una maggiorazione della
retribuzione di posizione attribuita ai sensi del precedente alinea, di
importo non superiore al 30% della stessa”, intendendo che il solo ente
utilizzatore, ovvero B, può riconoscere, se lo ritiene, una maggiorazione
della posizione eventualmente attribuita presso di sé (e riproporzionata
come illustrato sopra) fino al 30% della stessa. Tale facoltà non è concessa
all’ente di provenienza.
Nell’esempio (con cifre puramente indicative) proposto, perciò:
• Ente A è posizione euro 10.000,00 – utilizzo 50% è nuovo importo
posizione euro 5.000,00 (interamente a carico di A)
• Ente B è posizione euro 9.000,00 – utilizzo 50% è nuovo importo
4.500,00 + (eventualmente) maggiorazione 30% pari a euro 1.350,00, per un
totale di euro 5.850,00 (interamente a carico di B) (13.02.2020 -
link a www.publika.it). |
APPALTI:
La gara nell’ambito dei 40mila euro e l’esigenza di rispettare l’evidenza
pubblica.
Domanda
Con numerosi quesiti, spesso, viene posta la questione dell’affidamento
diretto entro i 40mila euro e della necessità (o meno) di una particolare
motivazione soprattutto ora alla luce delle drastiche modifiche apportate
all’articolo 36 del codice ed alla introduzione delle fattispecie di
affidamento diretto previa consultazione di preventivi, per i servizi e per
le forniture, fino al sopra soglia comunitaria che legittimerebbero il RUP
ad agire discrezionalmente sugli inviti.
Risposta
Come si è rilevato in altre circostanze, la previsione dell’affidamento
diretto “puro” entro i 40mila euro, tanto per
forniture/servizi/lavori è una fattispecie introdotta dal legislatore che ha
cercato –in questo modo– di conciliare i principi classici della
trasparenza/oggettività con l’esigenza di assicurare l’assegnazione del
micro-appalto in modo tempestivo.
In sostanza, in relazione ad affidamenti di importo contenuto, il
legislatore ha effettuato una “prevalutazione” ritenendo preferibile
far “retrocedere” –come importanza/intensità– i principi classici
dell’evidenza pubblica (rigorosissimi) facendo prevalere il fattore “tempo
di esperimento della procedura”. In certi casi, evidentemente, la
celerità della procedura e, soprattutto, l’utilizzo di
contenuti/contingentati strumenti istruttori rappresenta un valore aggiunto.
Soprattutto, come detto, in relazione ai micro-appalti.
Non può sfuggire, anche ad un RUP inesperto, che avviare una autentica gara
(ad esempio con bando pubblico) per aggiudicare una commessa di importi
contenuti (es. 20mila) rappresenta sicuramente un aggravio di procedura. Non
si può negare che l’obiettivo dell’assegnazione della commessa verrebbe
raggiunto con un “costo” della stazione appaltante, in termini di
tempo e di risorse finanziarie, inaccettabile/spropositato.
Per contemperare, quindi, le diverse esigenze il legislatore ha ipotizzato
il c.d. affidamento diretto “puro”. Puro nel senso che –come
esplicitato con il decreto correttivo 56/2017– il RUP non ha alcuna
necessità di far competere più operatori e/o di richiedere più preventivi.
E, a ben vedere, neppure l’obbligo di effettuare una indagine di mercato
(peraltro sempre consigliabile).
Nel caso di specie, pertanto, di affidamento nell’ambito dei 40mila euro, la
motivazione può essere esplicitata, in primo luogo con riferimento al dato
normativo, in secondo luogo con le sottolineature che lo strumento
dell’affidamento diretto appare congeniale alle necessità di speditezza
dell’affidamento e che lo stesso avviene nel rigoroso rispetto della
rotazione.
Come già ampiamente ribadito, il RUP non può prescindere –soprattutto
nell’affidamento diretto– dal rispetto rigoroso della rotazione. Il riaffido
diretto dell’appalto al precedente affidatario richiede una motivazione
talmente circostanziata che, oggettivamente, il riaffido deve essere
limitato ad ipotesi realmente necessarie in assenza di ogni alternativa.
Un problema di motivazione e di strutturazione corretta del procedimento
amministrativo si impone, evidentemente, qualora il RUP decidesse –pur
nell’ambito dei 40mila euro– di utilizzare un procedimento diverso
dall’affidamento diretto valutando l’opportunità di richiedere e confrontare
più preventivi.
In questo caso, il RUP non si può esimere dal rispetto massimo dei principi
classici riconducibili all’evidenza pubblica a pena di illegittimità degli
atti compiuti.
In tema si può citare la recentissima sentenza del Tar Basilicata, Potenza,
sez. I, n. 79/2020 in cui –testualmente– si legge che “nelle gare (…)”
ovvero nel caso di utilizzo di una gara vera e propria piuttosto che
dell’affidamento diretto, “relative agli appalti di importo inferiore a €
40.000,00, devono essere garantiti i principi di non discriminazione e di
trasparenza di cui all’art. 30, comma 1, D.Lg.vo n. 50/2016, espressamente
richiamati dall’art. 36, comma 1, dello stesso D.Lg.vo n. 50/2016, che
disciplina i contratti di appalto sotto soglia (...)” (12.02.2020
- link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Questa
Amministrazione (Azienda partecipata da Enti Locali) si trova a dover
bandire alcuni concorsi per l'assunzione di personale di vari profili.
Quali sono i limiti legittimi per la previsione di concorsi non solo per
esami ma anche per titoli volendo selezionare per alcuni di questi personale
particolarmente qualificato?
Le Amministrazioni pubbliche possono prevedere, nell'ambito della propria
autonomia organizzativa e discrezionalità di procedere a bandi di concorso
per soli esami o per titoli ed esami. Tale scelta non è sindacabile nel
merito dal giudice amministrativo anche se l'individuazione dei titoli
valutabili e del peso da attribuire agli stessi incontra qualche
limitazione.
Il DPR 09.05.1994, n. 487, art. 8 "Regolamento recante norme sull'accesso
agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento
dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei
pubblici impieghi" detta all'art. 8 alcuni vincoli di carattere generale
che sono:
- la valutazione dei titoli va effettuata previa individuazione dei
criteri (da inserire nel bando)
- la valutazione è effettuata dopo le prove scritte e prima che si
proceda alla correzione dei relativi elaborati
- ai titoli non può essere attribuito un punteggio complessivo
superiore ad un terzo del massimo (10/30 o equivalente)
- il bando indica i titoli valutabili ed il punteggio massimo agli
stessi attribuibile singolarmente e per categorie di titoli.
- la votazione complessiva è determinata sommando il voto
conseguito nella valutazione dei titoli al voto complessivo riportato nelle
prove d'esame.
Entro questi limiti la giurisprudenza consolidata e costante (anche recente)
riconosce un ampio potere discrezionale nell'individuazione della tipologia
dei titoli richiesti per la partecipazione da esercitare tenendo conto della
professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da
ricoprire, suscettibile di sindacato giurisdizionale esclusivamente sotto i
profili della illogicità, arbitrarietà e contraddittorietà e ciò sia in fase
di predeterminazione (bando) che di valutazione.
Infatti "la Commissione esaminatrice di un pubblico concorso è titolare
di ampia discrezionalità nel catalogare i titoli valutabili in seno alle
categorie generali predeterminate dal bando, nell'attribuire rilevanza ai
titoli e nell'individuare i criteri per attribuire i punteggi ai titoli
nell'ambito del punteggio massimo stabilito, senza che l'esercizio di tale
discrezionalità possa essere oggetto di censura in sede di giudizio di
legittimità, a meno che non venga dedotto l'eccesso di potere per manifesta
irragionevolezza e arbitrarietà".
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.R. 09.05.1994, n. 487, art. 8
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. VI, 24.01.2020, n. 590 - TAR Campania-Napoli Sez. II,
07.01.2020, n. 47 - TAR Campania-Salerno Sez. I, 07.01.2020, n. 5 - TAR
Basilicata Sez. I, 05.12.2019, n. 879 - TAR Sicilia-Catania Sez. I,
15.11.2019, n. 2737 - Cons. Stato Sez. VI, 14.10.2019, n. 6971 - TAR
Lazio-Roma Sez. III-bis, 30.09.2019, n. 11420 - TAR Campania-Napoli Sez. II,
25.09.2019, n. 4571 - TAR Lazio-Roma Sez. III-ter, 24.09.2019, n. 11306 -
TAR Sardegna Sez. I, 11.12.2018, n. 1015 - TAR Lazio-Roma Sez. II-quater,
05.06.2018, n. 6227
(12.02.2020 - tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
VARI:
Rinuncia al diritto di proprietà immobiliare. L’eventuale esperimento
dell’actio nullitatis (parere
14.03.2018 - 137948-137949, AL 37243/2017 - Rassegna Avvocatura
dello Stato n. 3/2019). |
NEWS |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Graduatorie,
non c'è pace.
Possibile scorrere le graduatorie vigenti anche nel caso di posti istituiti
ex novo, successivamente alle graduatorie stesse.
Non c'è pace per le norme che regolano il rapporto di lavoro pubblico, in
particolare per gli enti locali. La legge di conversione del d.l. 162/2019
lo testimonia, con un nuovo colpo di scena. Si tratta dell'articolo 17,
comma 1-bis, della legge di conversione, ai sensi del quale «per
l'attuazione del piano triennale dei fabbisogni di personale di cui
all'articolo 6 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, gli enti
locali possono procedere allo scorrimento delle graduatorie ancora valide
per la copertura dei posti previsti nel medesimo piano, anche in deroga a
quanto previsto dal comma 4 dell'articolo 91 del testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo
18.08.2000, n. 267».
Si tratta di una vera e propria abolizione non manifesta della previsione
contenuta nell'articolo 91, comma 4, del Tuel, che prevede: «per gli enti
locali le graduatorie concorsuali rimangono efficaci per un termine di tre
anni dalla data di pubblicazione per l'eventuale copertura dei posti che si
venissero a rendere successivamente vacanti e disponibili, fatta eccezione
per i posti istituiti o trasformati successivamente all'indizione del
concorso medesimo».
Una misura tesa a scongiurare il pericolo di scorrimenti «ad personam»,
finalizzati, cioè, ad assumere persone gradite alla politica. L'articolo 17,
comma 1-ter, della legge di conversione del d.l. 162/2019, consente agli
enti di disapplicare la previsione dell'articolo 91, comma 4. Lo scopo è
consentire un'attuazione più semplice della programmazione dei fabbisogni.
Tuttavia, non è dato riscontrare la correlazione tra attuazione del piano
dei fabbisogni e possibilità di ampliare o modificare la dotazione organica
(articolo ItaliaOggi del 21.02.2020). |
VARI: Bonus mobili, sconti vincolati.
Sì alle detrazioni per interventi iniziati dall’01/01/2019. Le Entrate
aggiornano la guida fiscale sull’agevolazione, prorogata fino al
31 dicembre.
Agevolazione
da bonus mobili anche per gli acquisti effettuati nel 2020 ma usufruibile
solo per chi realizza un intervento di ristrutturazione edilizia iniziato a
partire dal 01.01.2019. Necessario inoltre che la data di inizio lavori
sia precedente l'acquisto dei mobili stessi seppur sia irrilevante che le
spese di ristrutturazione (impresa edile, elettricista ecc.) si sostengano
prima o dopo quelle sostenute per l'arredo.
Sono questi i principali aspetti
presenti nell'aggiornata guida fiscale sul bonus mobili ed elettrodomestici
pubblicata sul sito dell'Agenzia delle entrate.
Si tratta della detrazione Irpef al 50% prevista per l'acquisto di mobili e
di elettrodomestici di classe non inferiore ad A+ (A per i forni), per le
apparecchiature per le quali sia prevista l'etichetta energetica, destinati
ad arredare un immobile oggetto di ristrutturazione. La misura è concessa
per ogni unità abitativa.
Le condizioni del nuovo bonus.
È un bonus mobili in chiaro scuro quello prorogato dalla recente legge di
bilancio, dato lo stringente vincolo imposto sulla data inizio lavori che,
nella fattispecie, non può essere anteriore al primo gennaio 2019 qualora si
vogliano detrarre spese per mobili ed elettrodomestici durante l'anno 2020.
D'altronde, questo meccanismo riduttivo era già presente lo scorso anno
quando si diceva che le spese per arredo sostenute nel 2019 erano detraibili
solo se legate a una ristrutturazione iniziata non prima del 2018. Ancora,
stesso leitmotiv si era ripetuto due anni prima.
A questo punto diventa
dunque fondamentale individuare con certezza la data inizio lavori vista la
sua importanza rispetto alla detrazione in questione. La guida precisa, in
prima battuta, che la stessa può essere dimostrata dalla richiesta di
abilitazioni amministrative presentate al comune e necessarie per l'avvio di
determinati interventi. In seconda battuta, si può far riferimento alla
comunicazione preventiva alla Asl quando la stessa sia obbligatoria per la
particolare fattispecie (per esempio se è prevista la presenza di più
imprese esecutrici). In ultimo, laddove ci trovassimo nell'ambito di
edilizia libera, sarà sufficiente una dichiarazione sostitutiva di atto
notorio.
Resta inteso che mai i mobili e gli elettrodomestici potranno
essere acquistati prima della data di inizio lavori onde evitare di perdere
il diritto alla detrazione. Non è fondamentale invece che le spese inerenti
la ristrutturazione edilizia siano sostenute prima o dopo quelle relative
all'arredo dell'immobile. In altri termini, non ha importanza se dovessi
pagare prima il fornitore degli elettrodomestici rispetto all'impresa edile
o all'elettricista che hanno contribuito alla ristrutturazione dell'unità
immobiliare.
Gli interventi edilizi che fanno scattare il bonus.
Seppur la formula del bonus mobili sia oramai invariata da anni, con il
solito tetto massimo di 10 mila euro da ripartire in dieci rate costanti, è
fondamentale comprendere quali siano gli interventi a monte che fanno da
apripista all'agevolazione in questione.
A seconda infatti che l'intervento
avvenga su singola abitazione, su parti comuni di edifici o riguardi la
ricostruzione o il ripristino di un immobile, cambieranno i lavori con i
quali si potrà ottenere anche il bonus mobili. Nel caso di singoli
appartamenti per esempio, parliamo di manutenzione straordinaria come
qualifica di intervento minimo per poi godere del bonus mobili: la
sostituzione di infissi esterni con modifica di materiale, il rifacimento di
scale e rampe o la realizzazione di muri di cinta e recinzioni ne sono degli
esempi. La semplice tinteggiatura di pareti o il rifacimento di intonaci
(manutenzione ordinaria) non darebbe dunque diritto all'ulteriore bonus
mobili.
Nel caso invece di parti comuni di edifici residenziali la qualifica
di intervento sarà meno stringente in quanto sarà sufficiente una semplice
manutenzione ordinaria per beneficiare dell'ulteriore agevolazione sugli
arredi. Ancora, scatterà il bonus laddove vi sia una ricostruzione o il
ripristino di un immobile in seguito a danneggiamento da eventi calamitosi o
laddove vi sia un restauro, un risanamento conservativo o una
ristrutturazione edilizia riguardanti interi fabbricati eseguiti da imprese
che nei successivi 18 mesi dal termine dei lavori vendono o assegnano
l'immobile.
Gli acquisti agevolabili.
La detrazione spetta per due categorie di beni: i mobili nuovi e gli
elettrodomestici nuovi. Nel primo caso, la guida da un elenco esaustivo dei
beni che rientrano in tale categoria vale a dire letti, armadi, cassettiere,
librerie, scrivanie, tavoli, sedie, comodini, divani, poltrone, credenze,
materassi, apparecchi di illuminazione escludendo unicamente l'acquisto di
porte, di pavimentazioni, di tende e tendaggi e di altri complementi di
arredo.
Nel caso invece di elettrodomestici nuovi, parliamo di frigoriferi,
congelatori, lavatrici, lavasciuga e asciugatrici, lavastoviglie, apparecchi
per la cottura, stufe elettriche, forni a microonde, piastre riscaldanti
elettriche, apparecchi elettrici di riscaldamento, radiatori elettrici,
ventilatori elettrici, apparecchi per il condizionamento. In tal caso, la
classe energetica rilevabile dall'etichetta energetica non deve essere
inferiore alla A+ (nel caso di forni e lavasciuga A o superiore). Se alcuni
elettrodomestici non abbiano l'etichetta in quanto non ne sia previsto
l'obbligo, l'acquisto sarà comunque agevolabile.
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Beneficio non trasferibile.
Per le detrazioni da ristrutturazione edilizia o da riqualificazione
energetica, in caso di cessione dell'immobile o di morte del contribuente, è
possibile il trasferimento del beneficio. Se, infatti, l'immobile sul quale
è stato eseguito l'intervento di recupero edilizio è venduto prima del
termine per fruire dell'agevolazione, il diritto alla detrazione delle quote
non utilizzate è trasferito, salvo diverso accordo tra le parti,
all'acquirente dell'unità immobiliare (se persona fisica).
Il venditore ha
dunque la possibilità di scegliere se continuare a usufruire delle
detrazioni non ancora utilizzate o trasferire il diritto all'acquirente
dell'immobile. In caso di decesso dell'avente diritto, ugualmente, la
detrazione non fruita in tutto o in parte è trasferita, per i rimanenti
periodi d'imposta, all'erede o agli eredi che conservano la «detenzione
materiale e diretta dell'immobile».
Tale condizione andrà mantenuta non soltanto per l'anno di accettazione
dell'eredità ma anche per ciascun anno per il quale si vuole fruire delle
residue rate di detrazione (in altri termini l'immobile non potrà essere
concesso per esempio in comodato o locazione per tutta la durata dei
rimanenti periodi di imposta).
Stessa cosa non può essere affermata invece
per il bonus mobili. La guida prevede, infatti, espressamente
l'intrasferibilità sia in caso di decesso sia in caso di cessione
dell'immobile oggetto di intervento del recupero edilizio. Questo anche
quando, in seguito a cessione dell'immobile, vengono trasferite le restanti
rate della detrazione edilizia (o riqualificazione energetica)
all'acquirente. Il contribuente continuerebbe dunque a usufruire delle quote
di detrazione da bonus mobili non utilizzate anche se l'abitazione
ristrutturata sia ceduta prima che sia trascorso l'intero periodo per
usufruire del bonus
(articolo ItaliaOggi Sette del 17.02.2020). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: P.a., è stretta sui mediatori.
L’intermediazione è a rischio di responsabilità penale.
La fattispecie rinnovata dalla Spazzacorrotti: sta ai giudici distinguere caso
per caso.
Ogni
attività di intermediazione tra privati (o imprese) con la pubblica
amministrazione è potenzialmente fonte di responsabilità penale. Il
cosiddetto mediatore (o faccendiere nella sua accezione negativa) e il
soggetto che lo incarica, infatti, possono rispondere di traffico di
influenze illecite (art. 346-bis, c.p.), delitto punito con la reclusione da
un anno a quattro anni e sei mesi. E sta ai giudici distinguere, non senza
difficoltà, le intermediazioni illecite da quelle lecite, per esempio di
lobbying.
La fattispecie, introdotta con la legge Severino (la legge n. 190 del
06/11/2012) e poi modificata con la legge n. 3 del 09.01.2019 (la
cosiddetta Spazzacorrotti), punisce innanzitutto la condotta di chi
«sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite» con un pubblico
ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, riceve denaro o altra
utilità per remunerarlo in relazione all'esercizio delle sue funzioni o dei
suoi poteri.
La norma prevede anche la responsabilità penale del soggetto
(persona fisica, persona giuridica, privato, pubblico, oppure gruppo di
persone associate in varie forme) che «… indebitamente dà o promette denaro
o altra utilità» proprio per entrare in contatto diretto con la pubblica
amministrazione. In buona sostanza, per rientrare nella fattispecie di
reato, l'intermediario organizza e condivide con il proprio interlocutore un
preciso meccanismo corruttivo finalizzato ad alterare il fisiologico
processo decisionale in ambito pubblico.
Le pene sono poi aumentate ove ricorra una delle seguenti circostanze: il
mediatore rivesta, lui stesso, un ruolo pubblico, i fatti siano commessi in
ambito giudiziario, la remunerazione del pubblico funzionario sia
finalizzata al compimento di un atto contrario ai doveri d'ufficio o
all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio.
Il disvalore penale delle condotte sopra richiamate è evidente: per queste
ragioni, il legislatore ha voluto stigmatizzare ogni attività anticipatoria
di futuri scambi corruttivi, con l'attribuzione della responsabilità penale,
a titolo di traffico di influenze illecite, all'intermediario che non abbia
concorso negli eventuali successivi fatti di corruzione.
La formulazione dell'art. 346-bis prevede poi la responsabilità dei medesimi
soggetti, il venditore e il compratore di influenze illecite, nel caso in
cui il primo «… indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro
o altra utilità, come prezzo della propria mediazione illecita verso un
pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio».
La descrizione di questa seconda condotta differisce, in termini
significativi, da quella richiamata in precedenza: il corrispettivo («denaro
o altra utilità»), in questo caso, non costituisce la remunerazione da
destinare al pubblico ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio, bensì
rappresenta il prezzo per l'attività di intermediazione con il
rappresentante della pubblica amministrazione con cui il mediatore sostiene
di avere relazioni o rapporti di conoscenza (veri o presunti non è
importante).
La lettera della norma, nella descrizione di questa specifica condotta,
attribuisce, senza alcuna distinzione, una connotazione negativa al prezzo
(indebito) corrisposto per l'attività dell'intermediario, nonché alla stessa
attività di mediazione (illecita), attraverso una sorta di automatismo che
assegna potenziale rilevanza penale a un ventaglio di situazioni e
operatività tra loro diversissime: dalle intermediazioni realmente
distorsive del potere decisionale statale a quelle fisiologiche e
addirittura antitetiche a qualsivoglia finalità corruttiva o comunque
illecita.
Un modello punitivo formulato in questi termini presenta una serie
eterogenea di criticità, con particolare riferimento alla stessa portata
offensiva della norma al bene giuridico tutelato (il buon andamento e
l'imparzialità della pubblica amministrazione) con inevitabili riflessi che
si traducono nella eccessiva anticipazione della soglia punitiva, dal
momento che vengono punite anche quelle intermediazioni che potrebbero
essere, ma che non sono ancora e forse non saranno mai, strumentali a
eventuali condotte illecite (per esempio, corruzioni), con il rischio
concreto di consentire troppa discrezionalità alla iniziativa giudiziaria.
La scarsa applicazione giurisprudenziale del delitto in esame, anche dopo la
riforma del gennaio 2019, origina proprio dalle oggettive difficoltà di
distinguere, con sufficiente precisione e determinatezza, le intermediazioni
illecite da quelle lecite, operazione che risulta ancora più complessa ove
vengano considerate tutte quelle fisiologiche iniziative di lobbying che non
trovano, ancora oggi, una efficace e adeguata regolamentazione.
Il delitto in esame, come altre fattispecie introdotte nel nostro
ordinamento, ha una derivazione di matrice sovranazionale.
La convenzione di Strasburgo del 1999 e la convenzione Onu di Merida del
2003 (entrambe ratificate in Italia), infatti, hanno chiesto agli stati
membri di valutare tutti i possibili strumenti normativi, compreso quello
penale («Party shall consider adopting such legislative and other measures
as may be necessary to establish as criminal offences…», Cfr. Convenzione
Onu di Merida), per contrastare il fenomeno di «trading in influence».
Nel 2012, il legislatore nazionale, a differenza di altri Paesi firmatari
della convenzione di Strasburgo (per esempio, Danimarca, Germania, Regno
Unito e Svezia) ha introdotto, direttamente nel codice penale, il nuovo
reato di «traffico di influenze illecite» (art. 346-bis, c.p.) con
l'intenzione di reprimere tutte quelle intermediazioni che venivano
prevalentemente ricondotte, prima della riforma del 2012, al paradigma
punitivo della corruzione o del cosiddetto millantato credito (art. 346 c.p.),
fattispecie, quest'ultima, che si integrava anche qualora la relazione
vantata dal mediatore con il pubblico funzionario fosse reale, ma
amplificata a tal punto da ingannare il soggetto che pagava il prezzo della
mediazione (e, per questo motivo, non rispondeva penalmente in quanto
vittima del reato).
Anche dopo l'intervento del 2012, la giurisprudenza
penale ha dovuto spesso riqualificare fatti di traffico di influenze
illecite in reati più tradizionali (corruzione, concussione, induzione
indebita, millantato credito), con le inevitabili difficoltà di collocare
queste particolarissime condotte commesse contro la pubblica amministrazione
in modelli delittuosi, in un certo senso, molto diversi. Il legislatore del
2019, da una parte, ha abrogato il millantato credito (art. 346, c.p.),
dall'altra, ha riformulato l'art. 346-bis c.p., prevedendo la consumazione
del reato anche qualora il rapporto vantato dal mediatore con il pubblico
funzionario sia, in realtà, inesistente e nel caso in cui il «denaro o altra
utilità» vengano destinati al pubblico funzionario in relazione
all'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri.
Significativa, infine, la previsione della responsabilità amministrativa (ex
dlgs 231/2001) nei confronti delle persone giuridiche nell'ipotesi di
traffico di influenze illecite realizzato, nel loro interesse o vantaggio,
da coloro che rivestono posizioni apicali o da soggetti sottoposti alla
direzione o vigilanza di questi.
Nonostante le modifiche strutturali intervenute, però, rimangono invariate
quelle criticità profonde, di cui si è già accennato, che sembrano proprio
connotare anche l'attuale «art. 346-bis», norma che, va detto, negli ultimi
mesi è stata spesso evocata dagli organi di informazione che hanno riportato
l'esistenza di indagini preliminari nel cui ambito viene ipotizzato, a
carico di alcuni indagati, proprio il delitto in esame (articolo ItaliaOggi Sette del 17.02.2020). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Mud, istruzioni via internet.
Siti web da monitorare per compilare l’ecodichiarazione.
Il
ministero conferma data e modulistica per i rifi uti, annunciando
indicazioni on-line.
Presentazione
entro la scadenza istituzionale del 30 aprile utilizzando modulistica e
regole previste dalla normativa dello scorso anno, ma con istruzioni
aggiuntive (da seguire) che arriveranno solo via internet. Queste le
coordinate per non mancare all'appuntamento con la prossima edizione della
dichiarazione verde «Mud», l'annuale comunicazione alla P.a. cui sono tenuti
(fino alla piena operatività del nuovo sistema di tracciabilità rifiuti)
produttori e gestori di rifiuti nonché fabbricanti di beni a potenziale
impatto ambientale in relazione ai residui/materiali generati o trattati nel
corso dell'anno precedente.
Con un comunicato on-line del 09.01.2020 il
ministero dell'ambiente ha infatti confermato il termine finale di
presentazione previsto dalla legge 70/1994 e il modello unico di
dichiarazione ambientale (Mud) introdotto dal dpcm 24.12.2018; il
tutto annunciando però informazioni integrative che saranno pubblicizzate
tramite i portali web delle istituzioni competenti.
Termine. La legge 70/1994 fissa il termine di presentazione del Mud nel 30
aprile di ogni anno. In base alla stessa legge, eventuali modifiche al
modello unico in vigore possono essere introdotte anche nello stesso anno
della sua presentazione (nella fattispecie, il corrente 2020), ma solo
mediante decreto da pubblicarsi in G.U. entro il 1° marzo e con l'effetto di
spostare in avanti la dead-line dell'adempimento di 120 giorni a decorrere da
tale pubblicazione. Per l'edizione 2020, diversamente da quanto accaduto per
l'edizione 2019, la comunicazione ministeriale del 09.01.2020 appare
però escludere ipotesi di (modifiche normative e quindi di) slittamento del
termine finale di inoltro della dichiarazione.
Soggetti obbligati. La platea dei soggetti obbligati alla presentazione del Mud ruota intorno alle sei rituali sezioni previste dal modello unico di
dichiarazione, ossia: «comunicazione rifiuti», «veicoli fuori uso»,
«imballaggi», «Raee», «rifiuti urbani», «Aee» (si veda la tabella).
Obbligati alla «comunicazione rifiuti» sono i produttori e i gestori di
rifiuti individuati dall'art. 189, comma 3 del dlgs 152/2006, i titolari di
impianti portuali di raccolta, i gestori del servizio di raccolta dei
rifiuti prodotti dalle navi ex dlgs 182/2003. Esentati, invece, gli
imprenditori agricoli e gli operatori del settore servizi alla persona (come
tatuatori e parrucchieri) identificati dai codici Ateco richiamati
dall'articolo 69 della legge 221/2015.
Tenuti alla «comunicazione veicoli fuori uso» sono i soggetti che gestiscono
rifiuti di mezzi di trasporto rientranti nel campo di applicazione del dlgs
209/2003 (mentre i residui degli analoghi beni rientranti nel dlgs 152/2006
sono oggetto della «comunicazione rifiuti»). Chiamati alla «comunicazione
imballaggi» il relativo sistema consortile ed i gestori di impianti dei
relativi rifiuti ex dlgs 152/2006. Interessati alla «comunicazione Raee»
sono invece gli impianti di trattamento rifiuti di apparecchiature
elettriche ed elettroniche ex dlgs 49/2014 (mentre i tecno-residui da tale
decreto esclusi rientrano nella diversa «comunicazione rifiuti»).
Obbligati alla «comunicazione rifiuti urbani, assimilati e raccolti in
convenzione» sono i soggetti istituzionali responsabili ex articolo 189,
comma 5 del dlgs 152/2006 del servizio di gestione integrata.
Interessati, infine, alla «comunicazione Aee» sono i produttori e venditori
di apparecchiature elettriche ed elettroniche con proprio marchio, nonché i
rivenditori con proprio marchio di Aee altrui ex dlgs 49/2014. Ferme
restando informazioni da comunicare, modalità di trasmissione ed istruzioni
per la compilazione del modello, si apprende dal comunicato ministeriale del
09.01.2020, «informazioni aggiuntive alle istruzioni riportate in
allegato» al dpcm 24.12.2018 saranno però rese disponibili sui
seguenti siti internet: www.mise.gov.it; www.isprambiente.gov.it;
www.unioncamere.gov.it; www.infocamere.it; www.ecocerved.it.
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Sistema di tracciabilità, lavori in corso.
Il dl 135/2018 di soppressione del Sistri e istituzione del nuovo «Registro
elettronico nazionale per la tracciabilità dei rifiuti» ha stabilito che il
sistema di tracciabilità dei rifiuti costituito da registri di
carico/scarico, formulario di trasporto e Mud previsto dal dlgs 152/2006
continui ad applicarsi fino alla «piena operatività» del neo strumento, il
cui funzionamento è affidato a un emanando decreto. Dettagli sulla funzione
del Registro emergono dalla legge di delegazione Ue 2018.
La legge 117/2019 ha affidato al governo il compito di «consentire, anche
attraverso l'istituzione di un Registro elettronico nazionale, la
trasmissione, da parte degli enti e delle imprese che producono, trasportano
e gestiscono rifiuti a titolo professionale, dei dati ambientali inerenti
alle quantità, alla natura e all'origine dei rifiuti prodotti e gestiti e
dei materiali ottenuti dalle operazioni di preparazione per il riutilizzo,
dalle operazioni di riciclaggio e da altre operazioni di recupero».
In base a quello che emerge dai lavori istituzionali in corso, il futuro
Registro potrebbe essere alimentato dai dati provenienti da registri di
carico e scarico e formulari di trasporto rifiuti e tecnicamente appoggiato
sulla piattaforma telematica dell'Albo nazionale dei gestori ambientali.
Almeno in una prima fase, il Registro si affiancherà ai noti strumenti di
tracciamento dei rifiuti
(articolo ItaliaOggi Sette del 03.02.2020). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Dipendenti p.a., galateo social. Regole estese anche a
collaboratori e consulenti esterni. Restyling in corso da parte dell’Anac
delle Linee guida in materia di codici di comportamento.
Regole di comportamento ad hoc per l'accesso dei
dipendenti pubblici ai social network.
Il mondo virtuale della socializzazione on-line è un teatro in cui
l'impiegato dello stato e delle altre pubbliche amministrazioni deve
muoversi facendo attenzione alla deontologia professionale e alle regole di
buon comportamento. Sono in fase di lancio nuove norme per accedere ai
social network nel rispetto delle regole interne che dettano permessi e
divieti di utilizzo delle piattaforme social.
A prevederle sono le nuove Linee guida in materia di codici di comportamento
delle amministrazioni pubbliche, in pieno restyling da parte dell'Anac,
Autorità nazionale anti corruzione, e rese necessarie da una diffusa
difficoltà degli enti pubblici, centrali e locali, a elaborare propri codici
di buone prassi dettagliati e su misura. Da qui la necessità di rifondare i
codici di comportamento, che costituiscono regole di condotta violando le
quali si rischia una sanzione disciplinare. E un altro aspetto cui dedicare
particolare cura è se e come estendere le regole di comportamento anche a
collaboratori e consulenti esterni, a pena di risoluzione del contratto di
consulenza.
Ecco l'identikit del buon dipendente pubblico, mettendo in evidenza i tratti
delle novità delle Linee guida Anac in itinere.
Codici etici. I
codici di comportamento sono stati disciplinati dalla legge n. 190 del 2012.
In particolare l'articolo 1, comma 44, della legge n. 190 del 2012 ha
previsto, da un lato, un codice di comportamento generale, nazionale, valido
per tutte le amministrazioni pubbliche e, dall'altro, un codice per ciascuna
amministrazione, obbligatorio, che integra e specifica il predetto codice
generale. Il codice nazionale è stato emanato con dpr 62/2013: prevede i
doveri minimi di diligenza, lealtà, imparzialità e buona condotta per i
dipendenti pubblici e codice rinvia alle integrazioni e specificazioni dei
codici di comportamento adottati dalle singole amministrazioni. Per quanto
riguarda i codici delle singole amministrazioni l'Anac solleva il problema
che, a oggi, pur se generalmente adottati, sono un «copia e incolla» del
codice generale. Salvo eccezioni, le singole amministrazioni non hanno
svolto quel lavoro richiesto di integrazione e specificazione dei doveri
minimi posti dal dpr n. 62 del 2013.
L'Anac è già intervenuta con la delibera n. 75 del 24.10.2013, recante le
prime Linee guida in materia, rivolte a tutte le amministrazioni.
Ma ora occorre aggiornare quel lavoro e ha emanato nuove Linee guida di
carattere generale, in pubblica consultazione, al fine di promuovere un
sostanziale rilancio dei codici di comportamento presso le amministrazioni.
Chi desidera mandare osservazioni e contributi può farlo fino al 15.01.2020.
Conflitto di interesse.
I dipendenti pubblici devono dichiarare al proprio dirigente, al momento
dell'assegnazione all'ufficio, i rapporti di collaborazione, diretti o
indiretti, in qualunque modo retribuiti, intrattenuti con soggetti privati
nel triennio precedente all'instaurazione del rapporto di lavoro, nonché i
rapporti finanziari che presentemente leghino loro medesimi, o i parenti e
gli affini entro il secondo grado, al soggetto privato con cui nel triennio
precedente avevano collaborato. Il codice etico vigente chiede inoltre che
il dipendente stesso dichiari se il soggetto privato con cui intrattiene o
ha intrattenuto precedentemente rapporti finanziari o di collaborazione
retribuita abbia interessi in attività dell'ufficio che rientrino nelle sue
attribuzioni.
Queste disposizioni potrebbero, per esempio, essere integrate nel codice
delle singole amministrazioni con: la definizione dei modi con cui rendere
le dichiarazioni; l'indicazione di una soglia minima di rilevanza delle
attività di collaborazione retribuita pregressa o degli interessi attuali da
ricomprendere nella dichiarazione; la previsione della possibilità di
operare verifiche; il dovere di comunicare tempestivamente eventuali
variazioni delle dichiarazioni già presentate; misure che possono essere
adottate, con l'eventuale coinvolgimento del Responsabile Anticorruzione,
per rimuovere il conflitto di interessi, quando assume un carattere
strutturale.
Rapporti con i media.
Nell'ambito dei comportamenti da assumere nei rapporti con il pubblico,
soprattutto negli enti di media/grande dimensione, L'Anac propone di
valutare l'utilità di disciplinare i rapporti con gli organi di informazione
sugli argomenti istituzionali individuando i soggetti cui spetta curare i
rapporti con i media e le agenzie di stampa e quindi definire il
comportamento che deve essere assunto dai dipendenti.
Correttezza.
Nell'ambito dei doveri di correttezza e di buon andamento del servizio
rientrano le prescrizioni generiche riguardanti gli adempimenti richiesti
dalle norme sul procedimento amministrativo, l'utilizzo corretto della
possibilità di essere esonerati dalla prestazione lavorativa, l'uso dei
materiali e delle attrezzature dell'ufficio. L'Anac constata che, atteso il
rilievo che oggi riveste l'utilizzo di social network, le amministrazioni
possono valutare di integrare questo ambito, per esempio, con il dovere di
accedere ai social network nel rispetto delle regole interne che dettano
permessi e divieti di utilizzo delle piattaforme social.
Collaboratori o consulenti.
Anche a collaboratori e consulenti esterni e collaboratori delle imprese
fornitrici possono estendersi le regole di comportamento previste, in prima
battuta, per i dipendenti pubblici.
Con riferimento a questi soggetti l'Anac ritiene necessario che le
amministrazioni individuino attentamente, ex ante, le categorie di
collaboratori e consulenti esterni nonché i collaboratori delle imprese
fornitrici ai quali estendere i doveri fissati per i propri dipendenti nel
codice di comportamento. La fonte che prevede tale estensione, secondo il
criterio di compatibilità, può essere un atto interno di regolazione per
l'organizzazione e il funzionamento degli uffici oppure lo stesso codice
della singola amministrazione.
In tale atto devono, a questo fine, essere disciplinati i criteri e le
modalità con cui sono estesi i doveri di comportamento del codice di
amministrazione a tali soggetti nonché il procedimento di accertamento delle
violazioni dotato delle necessarie garanzie di contraddittorio. Tale
operazione consente alle Amministrazioni di elaborare e definire codici
coerenti e contestualizzati rispetto alla propria organizzazione, escludendo
per tali soggetti alcuni doveri, comuni a tutti i dipendenti, ma
includendone altri legati al tipo di consulenza o collaborazione prestata.
È opportuno che i codici di comportamento dedichino una sezione apposita.
Inoltre nei contratti di collaborazione o di consulenza nonché di quelli per
l'acquisizione di beni e servizi le amministrazioni è bene che inseriscano
apposite disposizioni o clausole di risoluzione e decadenza del rapporto di
lavoro in caso di violazione degli obblighi previsti dal codice. Una
previsione di questo tipo conferisce natura contrattuale all'applicazione
degli obblighi del Codice a persone esterne alle pubbliche amministrazione,
evitando così ogni possibile contestazione.
Seguendo questa impostazione, è necessario che gli schemi tipo di incarico a
collaboratori e fornitori siano predisposti inserendo la condizione del
rispetto degli obblighi di condotta previsti per i dipendenti, se e in
quanto compatibili (articolo ItaliaOggi Sette del 30.12.2019). |
GIURISPRUDENZA |
URBANISTICA: La
sezione, richiamando anche la previsione contenuta nell’articolo 4-bis della
L.r. 02.02.2010, n. 6, evidenzia come la liberalizzazione del commercio, in
conformità alla direttiva 2006/123/CE, non comporti l’impossibilità per il
Comune di impedire nuovi insediamenti commerciali, purché i dinieghi siano
sorretti da ragioni urbanistiche e non economiche.
Pertanto, pur dovendosi prendere atto che la disciplina, nazionale e
sovranazionale, relativa all’insediamento delle attività commerciali esplica
un rilevante impatto anche sugli atti di programmazione territoriale, va,
comunque, considerato che questi ultimi, adottati nell’esercizio del
differente potere in materia di pianificazione urbanistica, sono da
considerarsi legittimi ove perseguano finalità di tutela dell’ambiente
urbano e siano riconducibili all’obiettivo di dare ordine e razionalità
all’assetto del territorio.
La previsione di cui all’art. 11 del D.Lgs. n. 59 del 2010 (Attuazione della
direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno) stabilisce,
difatti, che l’accesso ad un’attività di servizi o il suo esercizio può
essere subordinato al rispetto dei requisiti di programmazione che non
perseguono obiettivi economici, ma che sono dettati da motivi imperativi
d’interesse generale (cfr.: comma 1, lett. e).
Ugualmente le disposizioni di cui agli articoli 31 e 34 del decreto legge n.
201 del 2011 prevedono la possibilità di porre limitazioni all’insediamento
di attività produttive e commerciali in determinate aree allorquando emerga
la necessità di garantire la tutela della salute, dei lavoratori,
dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali,
trattandosi di esigenze imperative di interesse generale, costituzionalmente
rilevanti e compatibili con l’ordinamento comunitario, che possono
giustificare l’introduzione, nel rispetto del principio di proporzionalità,
di atti limitativi della libera iniziativa privata.
In tal modo si cerca di contemperare il principio generale della
liberalizzazione delle attività economiche con le dovute necessarie
limitazioni alla libera iniziativa economica, laddove queste trovino
puntuale giustificazione in interessi di rango costituzionale o negli
ulteriori interessi che il legislatore ha individuato.
In definitiva, deve considerarsi legittima la scelta comunale che, nel
perseguimento di interessi attinenti alla tutela dell’ambiente, della
vivibilità e dell’ordinato assetto del territorio, impone dei limiti
all’insediamento di attività commerciali.
---------------
18. Passando alla disamina del ricorso R.G. n. 226 del 2018, osserva il
Collegio come l’operatore economico censuri la deliberazione n. 42 del
13.10.2017 (pubblicata dal 26.10.2017 al 10.11.2017), introduttiva della
variante puntuale al P.G.T. per la modifica della scheda d’ambito n. 16 del
Documento di Piano nonché dell’articolo 5.2 delle N.T.A. del P.d.R. del
P.G.T.
In sostanza, la ricorrente nota come la variante miri ad escludere ogni
possibilità di insediamento dell’attività di Pe. al fine di tutelare
indebitamente le attività commerciali già presenti violando, pertanto, la
normativa eurounitaria e le previsioni interne di trasposizione della stessa
che, al contrario, liberalizzano l’insediamento delle attività economiche.
Inoltre, la ricorrente lamenta la violazione del principio di
proporzionalità e buon andamento dell’azione amministrativa.
19. La questione centrale posta dal ricorso riguarda la compatibilità della
variante con la normativa eurounitaria contenuta nella direttiva 2006/123/CE
(relativa ai servizi nel mercato interno), recepita dal legislatore italiano
con il d.lgs. n. 59 del 2010. La previsione di cui all’articolo 10 di tale
atto normativo dispone che “nei limiti del presente decreto, l’accesso e
l’esercizio delle attività di servizi costituiscono espressione della
libertà di iniziativa economica e non possono essere sottoposti a
limitazioni non giustificate e discriminatorie”.
Successivamente, il D.L. n. 138/2011 stabilisce che l’obbligo di adeguamento
degli ordinamenti degli Enti locali “al principio secondo cui l’iniziativa e
l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è
espressamente vietato dalla legge” non operi “nei soli casi di: a)
vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali; b) contrasto con i principi fondamentali della Costituzione;
c) danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e contrasto con
l’utilità sociale; d) disposizioni indispensabili per la protezione della
salute umana, la conservazione delle specie animali e vegetali,
dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale; e) disposizioni
relative alle attività di raccolta di giochi pubblici ovvero che comunque
comportano effetti sulla finanza pubblica”.
Inoltre, il successivo D.L. n. 201/2011 prevede la libertà di insediamento
di nuovi esercizi commerciali senza limiti, “esclusi quelli connessi alla
tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi compreso l’ambiente
urbano e dei beni culturali”. In ultimo, il D.L. 1/2012 prevede
l’abrogazione, ex aliis, di “norme che impongono divieti e
restrizioni alle attività economiche”, nonché delle “disposizioni di
pianificazione e programmazione territoriale […] che pongano limiti,
programmi e controlli non ragionevoli ovvero non adeguati […] e che
impediscono, condizionano o ritardano l’avvio di nuove attività economiche o
l’ingresso di nuovi operatori economici […]”.
19.1. La sezione, richiamando anche la previsione contenuta nell’articolo
4-bis della L.r. 02.02.2010, n. 6, evidenzia come la liberalizzazione del
commercio, in conformità alla direttiva 2006/123/CE, non comporti
l’impossibilità per il Comune di impedire nuovi insediamenti commerciali,
purché i dinieghi siano sorretti da ragioni urbanistiche e non economiche
(TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 03.04.2019, n. 743).
Nel caso di specie, la variante impugnata muove dall’esigenza di delineare
le attività commerciali insediabili stante i dubbi ingenerati dalla
precedente versione della scheda che possono condurre a ritenere assentibili
attività commerciali in sostanziale contrasto con la pianificazione
urbanistica relativa all’area. E, invero, già la versione originaria della
scheda d’ambito n. 16 chiarisce come “massima attenzione andrà riposta
nello studio dell'inserimento paesaggistico dei manufatti, in relazione alla
percezione sia dal fondovalle, sia dal versante” (foglio 1 della
scheda). Inoltre, la scheda pone l’esigenza primaria di “salvaguardia
della connessione ecologica prevista dal PTCP sul confine con Grosotto”.
Le limitazioni agli insediamenti commerciali di media o grande struttura non
sono sorrette da ragioni meramente economiche (neppure di stampo
sostanzialmente protezionistico) ma muovono dall’esigenza di evitare, in
primo luogo, le ricadute sia sul traffico che sulla necessità di
predisposizione di apposite aree di parcheggio che simili strutture
comportano. Inoltre, risultano funzionali alla tutela paesaggistica e, in
particolare, al fine di evitare che strutture di notevoli dimensioni possano
incidere sulla complessiva veduta del limitrofo Castello Visconti Venosta.
Ancora, la variante allinea la previsione d’ambito alle previsioni del
P.T.C.P. e, in particolare, all’esigenza di coniugare lo sviluppo dell’area
“con il rispetto dell’equilibrio territoriale e paesaggistico e con le
caratteristiche storiche e tradizionali degli abitati” (articolo 64 del
P.T.C.P.). Non si tratta, quindi, di una previsione incidente sulla sola
programmazione economica ma di una regola che mira a coniugare l’iniziativa
economica con ulteriori esigenze, parimenti rilevanti, del contesto del
territorio comunale.
19.2. Pertanto, pur dovendosi prendere atto che la disciplina, nazionale e
sovranazionale, relativa all’insediamento delle attività commerciali esplica
un rilevante impatto anche sugli atti di programmazione territoriale, va,
comunque, considerato che questi ultimi, adottati nell’esercizio del
differente potere in materia di pianificazione urbanistica, sono da
considerarsi legittimi ove perseguano, come nel caso di specie, finalità di
tutela dell’ambiente urbano e siano riconducibili all’obiettivo di dare
ordine e razionalità all’assetto del territorio (cfr. TAR per l’Emilia
Romagna – sede di Parma, Sez. I, 17.03.2016, n. 110; TAR per la Lombardia –
sede di Milano, Sez. I, 10.10.2013, n. 2271; Id., Sez. II, 10.12.2019, n.
2636).
La previsione di cui all’articolo 11 del D.Lgs. n. 59 del 2010 (Attuazione
della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno)
stabilisce, difatti, che l’accesso ad un’attività di servizi o il suo
esercizio può essere subordinato al rispetto dei requisiti di programmazione
che non perseguono obiettivi economici, ma che sono dettati da motivi
imperativi d’interesse generale (cfr.: comma 1, lettera e).
Ugualmente le disposizioni di cui agli articoli 31 e 34 del decreto legge n.
201 del 2011 prevedono la possibilità di porre limitazioni all’insediamento
di attività produttive e commerciali in determinate aree allorquando emerga
la necessità di garantire la tutela della salute, dei lavoratori,
dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali,
trattandosi di esigenze imperative di interesse generale, costituzionalmente
rilevanti e compatibili con l’ordinamento comunitario, che possono
giustificare l’introduzione, nel rispetto del principio di proporzionalità,
di atti limitativi della libera iniziativa privata (Corte costituzionale,
sentenza n. 239 dell’11.11.2016).
In tal modo si cerca di contemperare il principio generale della
liberalizzazione delle attività economiche con le dovute necessarie
limitazioni alla libera iniziativa economica, laddove queste trovino
puntuale giustificazione in interessi di rango costituzionale o negli
ulteriori interessi che il legislatore ha individuato (cfr. Corte
costituzionale, sentenza n. 200 del 12.07.2012; cfr., inoltre, Consiglio di
Stato, Sez. IV, 24.05.2019, n. 3419; Id., 01.06.2018, n. 3314; Id., Sez. V,
13.02.2017, n. 603).
19.3. In definitiva, deve considerarsi legittima la scelta comunale che, nel
perseguimento di interessi attinenti alla tutela dell’ambiente, della
vivibilità e dell’ordinato assetto del territorio, impone dei limiti
all’insediamento di attività commerciali (cfr.: Corte costituzionale,
sentenza n. 239 dell’11.11.2016; cfr., altresì, TAR per la Lombardia – sede
di Milano, Sez. II, 25.05.2017, n. 1166)
(TAR Lombardia-Milano Sez. II,
sentenza 26.02.2020 n. 375 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
PATRIMONIO: Concessioni
di spazi pubblici a soggetti che dichiarino
“di riconoscersi nei principi e nelle
norme della Costituzione italiana e di
ripudiare il fascismo e il nazismo”.
E' legittima una
delibera comunale con la quale si stabilisce
che, per ottenere la concessione e
l’utilizzo di spazi pubblici da parte dei
privati, è obbligatorio allegare alla
domanda una dichiarazione esplicita che
contenga, oltre a una pluralità di impegni
del richiedente, l’affermazione “di
riconoscersi nei principi e nelle norme
della Costituzione italiana e di ripudiare
il fascismo e il nazismo”
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 26.02.2020 n. 166 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
Il provvedimento impugnato con il ricorso in
esame è rappresentato dall’atto di indirizzo
con cui la Giunta comunale ha dettato
prescrizioni da ottemperare ai fini della
concessione di spazi ed aree pubbliche, sale
ed altri luoghi di riunione di proprietà
comunale, della cui legittimità
l’associazione ricorrente dubita in quanto
esso prescrive che ai soggetti richiedenti
la concessione di uno spazio pubblico per lo
svolgimento della propria attività sia
imposto di dichiarare di “ripudiare il
fascismo e il nazismo”.
La definizione della controversia necessita,
però, il preliminare esame delle eccezioni
in rito, introdotte dal Comune.
In primo luogo non può trovare accoglimento
l’eccezione di inammissibilità del ricorso
che il Comune collega al fatto che Ca. non
sarebbe diretta portatrice dei disvalori
sintetizzati nel concetto di “fascismo”
accolto nella deliberazione oggetto di
ricorso e derivante dai tratti qualificanti
del fascismo descritti dall’art. 1 della L.
n. 645/1952 (perseguimento di finalità
antidemocratiche proprie del partito
fascista, valorizzazione della violenza
quale metodo di lotta politica, contrasto
alle libertà garantite dalla Costituzione,
spregio dell’ordinamento democratico, delle
sue istituzioni e dei valori della
Resistenza accolti nella Costituzione,
propaganda razzista ed esaltazione di
esponenti, principi, fatti e metodi propri
del partito fascista) e, dunque, di fronte a
tale provvedimento, non potrebbe rivestire
una posizione differenziata che la
legittimerebbe ad agire per chiederne
l’annullamento.
Invero, Ca. nasce e si sviluppa come un
movimento di destra, teso principalmente
alla lotta per il riconoscimento del diritto
alla proprietà della casa e della pratica
del mutuo sociale.
Nella pagina web dedicata a descrivere
l’origine e il programma del movimento non
sono rinvenibili chiari riferimenti agli
elementi sopra riportati, ritenuti
indicatori della volontà di restaurazione
del fascismo.
Ciononostante il Comune opera un salto
logico laddove ritiene che ciò escluda in
radice l’interesse a ricorrere
dell’Associazione di promozione sociale.
Al contrario, limitando l’indagine a quella
che è la realtà dei fatti, è il legale
rappresentante di Ca. che si duole
dell’imposizione del preciso obbligo di
rendere una dichiarazione ritenuta lesiva
della libertà di pensiero dell’Associazione
rappresentata e dei suoi aderenti. La
lesione deve, dunque, presumersi, salvo
verificarne l’effettiva sussistenza. Il
soggetto che si sente leso nella propria
libertà, anche se non persona fisica, ma
portatore di interessi collettivi, infatti,
deve ritenersi legittimato alla proposizione
di un ricorso preordinato all’accertamento
dell’effettiva lesività della libertà
imputata al provvedimento censurato: lesione
la cui sussistenza deve essere indagata in
concreto.
Né può ritenersi che il provvedimento
impugnato sia privo di lesività attuale,
perché atto di indirizzo, dal momento che
esso reca l’indicazione del contenuto minimo
delle dichiarazioni che le singole strutture
comunali dovranno richiedere in tutti i casi
di istanze volte ad ottenere la concessione
per l’occupazione del suolo pubblico.
E, ancora, l’interesse all’impugnazione non
può ritenersi venuto meno per il fatto che,
al fine di ottenere la disponibilità di
spazi pubblici, Ca. abbia più volte
dichiarato quanto richiesto, ancorché ciò
lasci dubitare dell’effettiva portata della
lesione denunciata.
Così respinte le eccezioni in rito, la sopra
riportata delimitazione dell’ambito di
applicazione della dichiarazione del cui
contenuto obbligatorio si duole parte
ricorrente risulta essere determinante al
fine della definizione della controversia
nel merito: definizione che, peraltro, non
può prescindere nemmeno dal fatto che, come
già evidenziato in sede cautelare, la
deliberazione censurata, nella sua
formulazione integrale, richiede agli
interessi di dichiarare di “riconoscersi
nei principi e nelle norme della
Costituzione italiana e di ripudiare il
fascismo e il nazismo”, facendo ricorso,
nella sostanza, a una vera e propria
endiadi, nel senso che l’adesione ai
principi e alle norme costituzionali non è
scindibile rispetto al ripudio del fascismo
e del nazismo.
Partendo da tale premessa, il provvedimento
adottato non incorre nella dedotta
violazione del principio di uguaglianza e
dei diritti di riunione e associazione,
anche in partiti politici.
Improprio, prima ancora che privo di
fondamento, risulta essere il richiamo al
diritto di associazione in partiti politici.
Appare piuttosto chiaro, infatti, che la
produzione della dichiarazione richiesta dal
Comune non pregiudica in alcun modo la
costituzione dell’associazione, ma solo,
eventualmente, la possibilità per la stessa
di utilizzare gli spazi pubblici del Comune
di Brescia.
E il fatto che sia di questo che si sta
trattando è determinante anche per escludere
una potenziale violazione dei diritti di
uguaglianza e riunione, in quanto tutti i
soggetti utilizzatori dei beni pubblici sono
chiamati alla stessa dichiarazione avente a
oggetto il rispetto della Costituzione, con
la già più volte ricordata specificazione
avversata da parte ricorrente e non risulta
comunque preclusa la possibilità per il
movimento di riunirsi, potendolo fare in
qualsiasi luogo privato ovvero in luoghi
pubblici non appartenenti al Comune di
Brescia (quali, a mero titolo
esemplificativo, sale provinciali o
regionali, ecc.) o non comportanti
l’occupazione temporanea di spazi pubblici.
Concentrando, quindi, l’attenzione
sull’oggetto del contendere come sin qui
delimitato e cioè correlato al
condizionamento dell’utilizzo a scopi
privati di beni pubblici, si deve ricordare
che i beni demaniali (sia quelli facenti
parte del demanio necessario sia di quello
accidentale) sono caratterizzati
dall'appartenenza a enti territoriali,
perché essi sono preordinati alla
soddisfazione di interessi imputati alla
collettività stanziata sul territorio e
rappresentata dagli enti territoriali. Essi
sono assoggettati alla disciplina posta
dall'art. 823 codice civile, secondo cui "sono
inalienabili e non possono formare oggetto
di diritti a favore dei terzi, se non nei
modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che
li riguardano".
L’utilità pubblica cui sono destinati i beni
demaniali può essere perseguita mediante un
uso esclusivo (o diretto) da parte della
stessa PA, un uso generale, da parte di
qualsiasi soggetto pubblico o privato,
ovvero ancora un uso particolare da parte di
soggetti pubblici o privati, che
rappresentano, però, l’eccezione alla
regola.
Quando l’uso di un bene pubblico,
normalmente fruito dalla collettività, è
temporaneamente sottratto ad essa, per
consentire un uso particolare del medesimo,
il soggetto utilizzatore è tenuto al
pagamento di un apposito canone,
espressamente disciplinato dall’art. 63 del
D.Lgs. 15/12/1997, n. 446.
Da tutto ciò emerge, dunque, che non vi è,
per un qualsiasi soggetto privato, un vero e
proprio “diritto” all’uso esclusivo,
anche temporaneo, del bene pubblico.
Quanto al “se” concedere o
meno un uso particolare del bene demaniale,
la giurisprudenza è costante nel riconoscere
un’ampia discrezionalità
dell’Amministrazione
(Cons. Stato Sez. IV, 28/02/2012. n. 1137),
che addirittura, deve ritenersi non
limitata ai soli casi dei divieti
preliminarmente individuati in sede di
approvazione, da parte del Consiglio
comunale, del piano delle occupazioni di
suolo pubblico. Pertanto, i divieti al
rilascio delle occupazioni di suolo pubblico
nel territorio comunale imposti da un atto
generale (quale lo specifico piano delle
occupazioni pubbliche) non esauriscono i
casi in cui possono non essere rilasciate le
concessioni di che trattasi, “residuando
comunque all'amministrazione l'esercizio del
potere discrezionale in relazione a concrete
situazioni, pur non direttamente contemplate
dalla predetta deliberazione, che
necessitano di una valutazione comparativa
tra le diverse esigenze pubbliche e private”
(TAR del Lazio, 18.02.2011, n. 1560).
Se, dunque, l’utilizzazione di un bene
pubblico può essere negata ogni volta che
sussistano motivi imperativi di interesse
generale, anche a fronte di una richiesta
per favorire l’iniziativa economica privata
e, dunque, incidente sulla correlata
libertà, non pare possa ritenersi in
contrasto con i principi costituzionali la
limitazione all’uso di suolo pubblico per il
perseguimento dello scopo di un’associazione
quando questa si rifiuti di dichiarare la
volontà di rispettare la Costituzione e i
suoi corollari.
Se, infatti, il Comune è il soggetto
preposto al perseguimento dell’interesse
pubblico sotteso all’utilizzazione dei beni
demaniali pubblici che gli appartengono,
allo stesso deve ritenersi attribuita la
potestà di valutare se l’interesse pubblico
possa essere perseguito anche concedendo un
uso pubblico specifico a un determinato
soggetto privato, che, rifiutandosi di
dichiarare il contrario, implicitamente
dichiari l’adesione a un’ideologia (quella
fascista) in contrasto con la Costituzione e
i suoi principi.
Il Collegio ritiene, alla luce di ciò, che
nella fattispecie non sia stata in alcun
modo integrata la violazione della libertà
di pensiero.
Come condivisibilmente ritenuto da altro
Tribunale amministrativo “i
valori dell'antifascismo e della Resistenza
e il ripudio dell'ideologia autoritaria
propria del ventennio fascista sono valori
fondanti la Costituzione repubblicana del
1948, non solo perché sottesi implicitamente
all'affermazione del carattere democratico
della Repubblica italiana e alla
proclamazione solenne dei diritti e delle
libertà fondamentali dell'individuo, ma
anche perché affermati esplicitamente sia
nella XII disposizione transitoria e finale
della Costituzione, che vieta la
riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del
disciolto partito fascista, sia nell'art. 1
della legge "Scelba" n. 645 del 20.06.1952…”
(TAR Piemonte, sez. II, 18/04/2019, n. 447).
Scrutinando censure analoghe a quelle
oggetto del presente gravame (peraltro in
una controversia promossa da
un’articolazione territoriale dell’odierna
ricorrente) il TAR ha altresì rilevato che “allorquando
si richieda di esercitare attività di
propaganda politica ed elettorale in spazi
pubblici, sottraendoli, sia pure
temporaneamente, all'uso pubblico per
destinarli all'utilizzo privato, non appare
irragionevole che l'amministrazione
richieda, al fine di valutare la
meritevolezza dell'interesse dedotto, una
dichiarazione di impegno al rispetto dei
valori costituzionali e, in particolare, dei
limiti costituzionali alla libera
manifestazione del pensiero connessi al
ripudio dell'ideologia autoritaria fascista
e all'adesione ai valori fondanti l'assetto
democratico della Repubblica italiana, quali
quelli dell'antifascismo e della Resistenza”
(TAR Piemonte, n. 447/2019, cit.)
Contrariamente a quanto ritenuto
nell’ordinanza del CGARS n. 797/2019,
secondo cui <<le
limitazioni alla libertà di cui all’art. 21
Cost. che discendono dall’ordinamento
costituzionale e, in particolare, dalla XII
disp. trans. della Cost. non si riverberano
sulla libertà di formazione del pensiero nel
cosiddetto “foro interno”, dal momento che,
in disparte ogni considerazione in ordine
all’assoluta impossibilità di controllare
quest’ultimo, è la connotazione pubblica
della manifestazione del pensiero a
delineare la rilevanza penale delle condotte
tipizzate dalla legge Scelba (n. 645 del
20.06.1952) secondo l’interpretazione del
giudice costituzionale (Corte cost.
25.11.1958 n. 74)>>,
è proprio di questo che si controverte nella
fattispecie. Cioè della possibilità di
subordinare l’utilizzo di spazi pubblici per
l’esercizio di un’attività alla produzione
di una manifestazione esterna di volontà che
garantisca l’impegno dell’occupante di farlo
nel pieno rispetto della Costituzione e per
il perseguimento di obiettivi con essa
compatibili.
Obbligo dichiarativo tanto più facilmente
accettabile, quanto, come nel caso di
specie, la declaratoria delle finalità
proprie dell’associazione non evidenzi
un’esplicita propensione al fascismo o ai
suoi metodi, tanto da indurre a ritenere,
così come ipotizzato dal Comune, che la
reticenza alla dichiarazione risieda solo
nel legale rappresentante dell’associazione
e/o in singoli associati della stessa.
E, infatti, delle due l’una: o
l’Associazione ricorrente condivide, come
mostra di affermare, i valori costituzionali
cui fa riferimento la dichiarazione
richiesta dal Comune e allora non vi è
motivo di dolersi dell’obbligo da quest’ultimo
imposto; oppure tale adesione riveste natura
meramente labiale e, conseguentemente, si
palesa legittima la richiesta
dell’amministrazione volta ad assicurarsi
che il soggetto cui viene concessa la
fruizione dello spazio pubblico abbia
realmente compreso il carattere inscindibile
(l’endiadi, come in precedenza argomentato)
tra il rispetto della Costituzione e i
valori che vi hanno dato origine e che sono
ad essa sottesi, implicitamente ed
esplicitamente, in difetto di che sarebbe
vanificato il senso stesso dell'adesione,
svuotandola di contenuto e privandola di
ogni valenza sostanziale e simbolica.
La violazione della libertà di pensiero non
appare ravvisabile nemmeno con riferimento
alla sua manifestazione mediante il
silenzio. Il Comune, infatti, non impone
all’Associazione ricorrente una generica
proclamazione del pensiero che unisce i suoi
associati e di cui essa si fa portatrice, ma
impone una condizione specifica all’utilizzo
da parte dei privati dei beni pubblici,
rappresentata dall’impegno a non destinarli
a scopi non in contrasto con la
Costituzione, quali quelli propri di un
soggetto che non prenda le distanze dal
pensiero fascista.
Del resto, l’esatto significato del verbo
ripudiare, correlato a un’ideologia, è
quello di “respingere decisamente” e,
dunque, appare ragionevole precludere
l’utilizzo di beni pubblici a soggetti che
non intendano “respingere decisamente”
il fascismo e il nazismo e cioè due
ideologie i cui ideali e principi si pongono
in reciso contrasto con i valori
costituzionali, tra cui, in primo luogo la
libertà di pensiero e di parola.
Né la pretesa della produzione di
dichiarazioni che hanno ad oggetto, nella
sostanza, l’impegno a non commettere il
reato di apologia del fascismo, ancorché
possa risultare pleonastica e tautologica,
può per ciò stesso ritenersi illegittima.
Essa non lede il principio di non
aggravamento del procedimento
amministrativo, in quanto sebbene la sua
produzione condizioni la conclusione del
procedimento, non può essere qualificata
come un aggravio, non richiedendo, la
stessa, alcuna ulteriore attività se non il
completamento della proposizione attinente
il rispetto della Costituzione con l’inciso
“e di ripudiare il fascismo e il nazismo”.
Non è ravvisabile nemmeno la violazione del
principio di proporzionalità, posto che la
specificazione richiesta non “conculca la
libertà di pensiero in vista di obiettivi
pubblici” (l’espressione è sempre
ripresa dall’ordinanza del Consiglio di
Giustizia Amministrativa per la Regione
Siciliana, riportata da parte ricorrente
nella propria memoria), posto che nella
richiesta di dichiarazione avversata da
parte ricorrente non è preordinata al
diretto perseguimento di “obiettivi
pubblici”, bensì all’acquisizione di
garanzie atte ad assicurare che l’uso del
bene pubblico non sia strumentale
all’esercizio di attività non rispettose dei
principi costituzionali e, in particolare,
del divieto di ricostituzione del partita
fascista e di fare propaganda filo-fascista.
Nulla di illegittimo può, dunque ravvisarsi,
nell’adozione di un indirizzo, destinato
alle strutture comunali, affinché esse,
nell’esercizio della discrezionalità che gli
è propria, abbiano cura di evitare che i
beni pubblici possano essere utilizzati per
scopi non conformi alla Costituzione, a
prescindere dall’innegabile e aggiuntiva
possibilità di intervenire, in esito
all’esercizio dell’attività di controllo,
con provvedimenti dichiarativi della
decadenza immediata dalla concessione nel
caso di turbativa dell’ordine pubblico
legata a condotte del concessionario.
Non è in questione, come mostra di ritenere
la citata ordinanza del CGARS n. 797/2019,
la rilevanza penale di condotte
riconducibili alla connotazione pubblica
della manifestazione del pensiero, bensì il
significato da attribuire al “silenzio”
che l’Associazione ricorrente vorrebbe
serbare sul tema, rifiutandosi di
sottoscrivere le dichiarazioni richieste
dall’atto di indirizzo del Comune di
Brescia.
In buona sostanza, con tale provvedimento
non si richiedono né abiure, né professioni
di fede che non si traducano nella mera
riaffermazione dei valori fondanti della
Carta costituzionale e del nostro
Ordinamento.
D’altra parte non può non rilevarsi che la
stessa pronuncia n. 168/1971 della Corte
costituzionale, evocata nella citata
ordinanza del CGARS, in senso contrario a
quello da quest’ultimo ritenuto, si limita
(peraltro nel giudizio sulla legittimità
costituzionale dell’art. 650 cod. pen.) ad
affermare che “anche diritti primari e
fondamentali (come il più alto, forse,
quello sancito nell'art. 21 della
Costituzione) debbono venir contemperati con
le esigenze” che scaturiscono
dall’esercizio di altri diritti
costituzionalmente protetti, tra i quali,
pare ultroneo rilevare, i principi fondanti
della Carta costituiscono un prius
logico e giuridico.
Pertanto, se non può essere limitata la
libertà di pensiero, che peraltro non può
giustificare comportamenti contrari alla
Costituzione e alla legge, nemmeno può
limitarsi il potere dell’ente pubblico di
perseguire l’interesse collettivo alla cui
tutela è preposto escludendo da un uso
esclusivo dei beni pubblici soggetti che si
facciano portatori del pensiero fascista e
che per la sua tutela e diffusione
potrebbero avvalersi degli stessi beni
sottratti all’uso della collettività.
Sul piano formale, escluso che vi fosse un
obbligo per il Comune di adottare uno
specifico regolamento, parte ricorrente non
ha chiarito le ragioni per cui l’adozione di
un atto di indirizzo dell’attività degli
Uffici dovrebbe ritenersi illegittimo.
Nemmeno può ravvisarsi la violazione
dell’art. 11 della legge n. 65/1986, che
impone la trasmissione al Ministero
dell’Interno solo del Regolamento di polizia
municipale e di quello relativo allo stato
giuridico del personale della polizia
municipale, con cui l’avversato atto di
indirizzo non ha alcuna interferenza.
Infine, la deliberazione impugnata è
regolarmente divenuta esecutiva decorso il
decimo giorno dalla sua pubblicazione.
Così respinto il ricorso, le spese del
giudizio debbono seguire l’ordinaria regola
della soccombenza. |
APPALTI SERVIZI: Sulla
natura pubblica della società in house.
L'art. 5, d.lgs. n. 50 del 2016, è una formulazione che
rimanda ad una successiva norma di legge che espressamente prescriva la
partecipazione dei privati alla società in house e, soprattutto, che ne
stabilisca le modalità di partecipazione e di scelta del socio.
Tale norma pone una previsione di carattere generale e, dunque,
nell'ordinamento interno, fino a quando non ci sarà una legge che attui tale
previsione, deve ritenersi preclusa ai privati la partecipazione alla
società in house dato che, diversamente opinando, non sapremmo né in che
percentuale possano partecipare, né come debbano essere scelti.
Questo è ciò che porta a distinguere le società in house dalle società
miste, per le quali è disciplinata una partecipazione mista di capitale
pubblico-privato. Pertanto, non è erroneo sostenere che la società in house
è sempre pubblica
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 25.02.2020 n. 1385 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI: Posizione
soggettiva del ricorrente a fronte di un subentro nel contratto con la P.A.
conseguente a sentenza passata in giudicato.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Contratto – Subentro –
Disposto con sentenza passata in giudicato - Posizione soggettiva del
ricorrente - Individuazione.
Quando una sentenza (passata in giudicato) accoglie
il ricorso avverso l’aggiudicazione ad altro soggetto e conseguentemente
dichiara l’inefficacia del contratto nel frattempo stipulato e dispone il
subentro del ricorrente nel medesimo contratto, non si realizza il
perfezionamento del nuovo vincolo contrattuale e la posizione soggettiva del
ricorrente si configura come un interesse legittimo alla stipulazione del
contratto, come normalmente accade a seguito dell’aggiudicazione della gara
(1)
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(1) Nel caso di specie, dopo l’annullamento di una aggiudicazione
con conseguente dichiarazione di subentro nel contratto, il ricorrente ha
impugnato la successiva delibera con cui l’amministrazione ha revocato la
gara originaria a causa di sopravvenienze che rendevano inutile l’esecuzione
dell’appalto, sostenendo che, invece, l’amministrazione avrebbe dovuto
procedere al recesso dal contratto ormai perfezionatosi in forza della
precedente sentenza.
Il Tar ha chiarito che la sentenza non aveva prodotto effetti costitutivi
del vincolo negoziale, ma aveva attribuito al ricorrente la posizione
corrispondente a quella di un aggiudicatario. Conseguentemente ha ritenuto
legittima la decisione dell’amministrazione di optare per l’esercizio del
potere autoritativo di revoca, anziché del diritto di recesso, salvo, per il
ricorrente, il diritto all’indennizzo di cui all’art. 21-quinquies, l. n.
241 del 1990 (TAR Molise,
sentenza 24.02.2020 n. 64 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
---------------
MASSIMA
8.1. I motivi sub I e IV poggiano sul comune presupposto secondo cui la
sentenza del Consiglio di Stato n. 3626/2018 avrebbe prodotto effetti
costitutivi ai fini del perfezionamento del vincolo contrattuale tra DB
Costruzioni e l’amministrazione comunale.
In senso contrario si osserva che il dispositivo della sentenza deve essere
letto ed interpretato alla luce delle presupposte motivazioni.
Ora, nella parte motiva della sentenza il Consiglio di Stato ha ritenuto la
fondatezza della domanda di annullamento dell’aggiudicazione in ragione del
fatto che “l’aggiudicataria C. era priva dei requisiti di capacità
tecnica previsti dal disciplinare di gara” ed ha quindi conclusivamente
ritenuto che “va accolto l’appello principale della DB Co., nei sensi
sopra specificati. Per l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado,
il ricorso di quest’ultima deve essere accolto negli stessi sensi e deve
conseguentemente essere annullata l’aggiudicazione della gara in favore
della controinteressata C..
Del pari va accolta la domanda dell’originaria ricorrente di subentro nel
contratto stipulato (nelle more del presente giudizio d’appello) tra il
Comune di San Giuliano di Puglia e la medesima controinteressata, previa
dichiarazione di inefficacia dello stesso. Al riguardo non si ravvisa alcuna
circostanza ostativa ai sensi dell’art. 122 cod. proc. amm., tenuto in
particolare conto che, come risulta dagli atti di causa, al momento della
presente decisione la C. ha eseguito la sola progettazione”.
Dalla piana interpretazione dei predetti assunti motivazionali si evince che
il Consiglio di Stato ha accolto la domanda di subentro nel contratto quale
conseguenza, per così dire immediata e “riflessa”, dell’annullamento
della aggiudicazione e dell’accertamento dell’inefficacia dell’originario
contratto concluso con C.S.E., senza peraltro rendere alcuna statuizione, in
positivo, in ordine alla sussistenza dei presupposti e delle condizioni per
il perfezionamento del vincolo contrattuale.
Se ne deve dedurre che l’accoglimento della domanda di subentro nel
contratto, se per un verso presuppone implicitamente il riconoscimento in
capo alla ricorrente della qualità di ditta aggiudicataria, per altro verso
non vale ad accertare i presupposti e le condizioni, sul piano paritetico e
negoziale, per il perfezionamento del vincolo contrattuale, ma vale
semplicemente ad esplicitare la sussistenza di una posizione soggettiva
qualificata al subentro, che non può che coincidere con la posizione di
interesse legittimo alla stipulazione del contratto che normalmente consegue
all’aggiudicazione della gara.
Ciò stante, non essendo ravvisabile il perfezionamento del vincolo
contrattuale, deve ritenersi che la stazione appaltante abbia correttamente
optato per l’esercizio del potere autoritativo di revoca, anziché del
diritto di recesso: “le controversie concernenti la
legittimità di atti o comportamenti afferenti a procedure di evidenza
pubblica assunti non solo prima dell'aggiudicazione, ma anche nel successivo
spazio temporale compreso tra l'aggiudicazione e la stipula del contratto
rientrano nella giurisdizione amministrativa perché attengono all'esercizio
di potestà amministrativa sottoposto a norme di carattere pubblicistico, a
fronte del quale la posizione giuridica dell'interessato ha consistenza di
interesse legittimo e non di diritto soggettivo in quanto la stazione
appaltante, sia pure intervenuta l'aggiudicazione, conserva sempre il potere
di non procedere alla stipulazione del contratto in ragione di valide e
motivate ragioni di interesse pubblico”
(TAR Campania, Salerno, Sez. I, 18.07.2019 n. 1342).
...
8.7. La legittimità degli atti impugnati e la correttezza del comportamento
delle amministrazioni intimate nulla tolgono al diritto della ricorrente di
essere indennizzata a seguito dell’esercizio del potere di revoca ai sensi
dell’art. 21-quinquies della legge n. 241/1990.
In tal senso è decisivo osservare che la sentenza del Consiglio di Stato n.
3626/2018 ha univocamente riconosciuto la qualità di ditta aggiudicataria in
capo alla ricorrente, ciò che vale a radicare in capo ad essa una posizione
di vantaggio stabile e duratura, su cui è intervenuta, con effetti caducanti,
la successiva decisione di revoca dell’amministrazione.
Ai fini della quantificazione dell’indennizzo la giurisprudenza
pronunciatasi in materia ha chiarito che possono essere riconosciute a tale
titolo soltanto le spese sopportate per partecipare alla gara, con
conseguente esclusione di ogni ulteriore pregiudizio: “si
appalesa innanzitutto fondata la richiesta di indennizzo ai sensi del citato
art. 21-quinquies … Venendo alla quantificazione dell’indennizzo, lo stesso
deve essere limitato alle spese inutilmente sopportate dalla … per
partecipare alla gara, con esclusione di qualsiasi altro pregiudizio dalla
stessa lamentato nella presente impugnativa. Ciò in base ad un duplice
ordine di rilievi. In primo luogo perché si tratta di un rimedio posto a
protezione di interessi lesi da atti legittimi, come sopra accertato, e
dunque leciti. Conseguentemente con esso non possono essere reintegrate
tutte le conseguenze patrimoniali negative risentite dai relativi
destinatari, come invece nel risarcimento del danno per fatti che
l’ordinamento giuridico riprova, e dunque illeciti … L’indennizzo è per
contro un istituto di giustizia distributiva, che impone una condivisione
sul piano economico di tali negative conseguenze di carattere patrimoniale,
secondo un bilanciamento rimesso all’equo componimento delle parti
interessate o, in caso di disaccordo, al giudice amministrativo. In secondo
luogo, si trae conferma di quanto ora osservato dal comma 1-bis dell’art.
21-quinquies, il quale, nello specifico caso di revoca di atti
amministrativi incidenti su rapporti negoziali circoscrive l’indennizzo «al
solo danno emergente». La previsione in questione è applicabile a fortiori
al caso, oggetto del presente giudizio, in cui la revoca non incida su tali
rapporti, essendo i contrapposti affidamenti privati evidentemente meno
meritevoli di tutela rispetto a coloro che vedano vanificate le aspettative
di integrale esecuzione di un contratto ormai stipulato”
(Consiglio di Stato, Sez. V, 21/04/2015 n. 2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Zona
di divieto di esercizio dell’attività venatoria istituita con ordinanza
contingibile e urgente.
---------------
Caccia – Attività venatoria – Divieto – Ordinanza contingibile e urgente
- Possibilità
Pur a fronte di una disciplina settoriale che non
riconosce in capo al Comune alcuna competenza in materia di attività
venatoria, è applicabile la normativa generale, espressione di un potere
atipico e residuale, in materia di ordinanze contingibili e urgenti, come
stabilita dagli artt. 50, comma 5, e 54, comma 4, d.lgs. n. 267 del 2000 (T.U.E.L.),
allorquando se ne configurino i relativi presupposti; è pertanto legittima
l’ordinanza contingibile e urgente con la quale è istituita una zona di
divieto di esercizio dell’attività venatoria (1).
---------------
(1)
Cons. St., sez. V, 29.05.2019, n. 3580; id. 12.06.2009, n. 3765;
Tar Milano, sez. IV, 08.06.2010, n. 1758.
Ha ricordato il Tar che la competenza in materia di caccia spetta, ai sensi
della legge n. 157 del 1992, allo Stato e alle Regioni (cfr., per queste
ultime, in particolare gli artt. 9 e 14), mentre nessuna competenza
ordinaria è attribuita sul punto ai Comuni.
Pur essendo, quindi, astrattamente utilizzabile, anche nella materia de
qua, lo strumento dell’ordinanza contingibile e urgente, è comunque
necessario che ne ricorrano i presupposti giustificativi in grado di
supportare il legittimo esercizio di tale potere (Cons.
St., sez. V, 22.05.2019, n. 3316).
Difatti, secondo la consolidata giurisprudenza, «il potere sindacale di
emanare ordinanze contingibili ed urgenti ai sensi degli articoli 50 e 54
D.Lgs. n. 267 del 2000 richiede la sussistenza di una situazione di
effettivo pericolo di danno grave ed imminente per l’incolumità pubblica,
non fronteggiabile con gli ordinari strumenti di amministrazione attiva,
debitamente motivata a seguito di approfondita istruttoria. In altri
termini, presupposto per l’adozione dell’ordinanza extra ordinem è il
pericolo per l’incolumità pubblica dotato del carattere di eccezionalità
tale da rendere indispensabile interventi immediati ed indilazionabili,
consistenti nell’imposizione di obblighi di fare o di non fare a carico del
privato» (Cons. St., sez. V, 16.02.2010, n. 868).
Nel caso di specie, dal preambolo del provvedimento impugnato –come pure
dalla pregressa ordinanza n. 7/2019, gravata con il ricorso introduttivo–
emerge che l’urgenza e la necessità di provvedere sono state rinvenute dal
Sindaco in generiche ragioni di pericolo connesse alla tipologia di attività
esercitata, ossia la caccia, e agli strumenti che vengono utilizzati per il
suo svolgimento, ossia le armi da fuoco (o, comunque, gli strumenti atti a
sopprimere la fauna cacciata); tuttavia, il pericolo paventato non
rappresenta altro che una conseguenza ordinaria e affatto eccezionale
dell’attività venatoria («non è legittimo adottare ordinanze contingibili
ed urgenti per fronteggiare situazioni prevedibili e permanenti»:
Cons. St., sez. V, 26.07.2016, n. 3369), che proprio in ragione
delle peculiari modalità di svolgimento è oggetto di minuziosa disciplina da
parte del legislatore statale (cfr. in particolare gli artt. 12 e 13 della
legge n. 157 del 1992).
Peraltro a fondamento del provvedimento impugnato, nemmeno risulta essere
stata posta una adeguata attività istruttoria, attraverso la quale sarebbero
dovuti emergere gli elementi di fatto rilevanti e in grado di giustificare
l’intervento comunale di urgenza, risultando nella specie del tutto
insufficiente la circostanza, nemmeno documentata, che vi sarebbero state
numerose segnalazioni attestanti la presenza di cacciatori nella zona della
Diga di Beauregard (si veda il preambolo dell’ordinanza n. 7/2019).
Ne discende che l’assoluta carenza di istruttoria e la generica e apodittica
esigenza di tutelare la pubblica incolumità, unitamente alla necessità di
garantire un ipotetico ordine pubblico, non possono rappresentare
presupposti idonei a fondare l’adozione di una ordinanza contingibile e
urgente (Cons.
St., sez. V, 29.05.2019, n. 3580;
21.02.2017, n. 774;
22.03.2016, n. 1189).
Del resto, se può ammettersi, come già evidenziato in precedenza, un potere
di intervento extra ordinem del Sindaco, pur in presenza di una
competenza di altro ente, i presupposti di un tale intervento straordinario
devono essere individuati e verificati, nella loro esistenza, in modo
rigoroso, rischiandosi altrimenti di derogare all’ordine legale delle
competenze in aperta violazione di legge.
Con riguardo alle ordinanze sindacali, in generale, è stato osservato che le
stesse possono incidere, per la natura delle loro finalità (incolumità
pubblica e sicurezza urbana) e per i loro destinatari (le persone presenti
in un dato territorio), sulla sfera generale di libertà dei singoli e delle
comunità amministrate, ponendo prescrizioni di comportamento, divieti,
obblighi di fare e di non fare, che, pur indirizzati alla tutela di beni
pubblici importanti, impongono comunque, in maggiore o minore misura,
restrizioni ai soggetti considerati, determinando una compressione della
libertà e della proprietà individuale, che pure costituiscono principi
tutelati dalla Carta costituzionale (Corte costituzionale, sentenza n. 115
del 2011).
Pertanto, il ricorso allo strumento delle ordinanze contingibili e urgenti
deve essere riservato alle sole fattispecie in cui ne ricorrono i
presupposti giustificativi, da riscontrare in maniera rigorosa e di cui deve
essere data una interpretazione fortemente restrittiva.
3.2. Inoltre, appare illegittimo anche il contemporaneo richiamo all’art. 50
e all’art. 54, d.lgs. n. 267 del 2000 (Testo unico degli Enti locali),
trattandosi di due disposizioni aventi un differente spettro di applicazione
ed espressione di poteri, sebbene assimilabili, comunque diversi.
L’art. 50, in particolare il comma 5, ammette un intervento, connotato dai
caratteri della contingibilità e dell’urgenza, del Sindaco, quale
rappresentante della comunità locale, in presenza di «emergenze sanitarie
o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale [oppure] in relazione
all’urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave
incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o
di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare
riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei
residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita, anche per
asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche».
Diversamente, l’art. 54, comma 4, prevede che «il sindaco, quale
ufficiale del Governo, adotta, con atto motivato provvedimenti contingibili
e urgenti nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, al fine di
prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica
e la sicurezza urbana».
Come risulta dalla semplice esegesi dei predetti testi normativi, in un caso
–quello dell’art. 50– il Sindaco agisce in qualità di rappresentante della
comunità locale e si occupa di ambiti in cui vengono in rilievo interessi di
tipo territoriale e riguardano materie di competenza (anche) comunale,
mentre nell’altro –quello di cui all’art. 54– il Sindaco agisce in qualità
di ufficiale di Governo e in settori, quali l’incolumità pubblica e la
sicurezza urbana, che sono di competenza dello Stato, essendo tali materie
finalizzate alla prevenzione dei reati e al mantenimento dell’ordine
pubblico, inteso quest’ultimo quale «complesso dei beni giuridici
fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge
l’ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale» (Corte cost.,
sentenze n. 129 del 2009; n. 290 del 2001)
(TAR Valle d’Aosta,
sentenza 20.02.2020 n. 7 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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MASSIMA
3.1. Le doglianze sono complessivamente fondate.
Appare opportuno premettere che la competenza in materia di caccia spetta,
ai sensi della legge n. 157 del 1992, allo Stato e alle Regioni (cfr., per
queste ultime, in particolare gli artt. 9 e 14), mentre nessuna competenza
ordinaria è attribuita sul punto ai Comuni (si veda anche la legge regionale
n. 64 del 1994).
Tuttavia, in linea generale e astratta, pur a fronte di una
disciplina settoriale che non riconosce in capo al Comune alcuna competenza
in materia di attività venatoria, si deve ritenere applicabile la normativa
generale, espressione di un potere atipico e residuale, in materia di
ordinanze contingibili e urgenti, come stabilita dall’art. 50, comma 5, e
dall’art. 54, comma 4, del D.Lgs. n. 267 del 2000 (T.U.E.L.), allorquando se
ne configurino i relativi presupposti
(cfr. Consiglio di Stato, V, 29.05.2019, n. 3580; 12 giugno 2009, n. 3765;
TAR Lombardia, Milano, IV, 08.06.2010, n. 1758).
Pur essendo, quindi, astrattamente utilizzabile, anche
nella materia de qua, lo strumento dell’ordinanza contingibile e
urgente, è comunque necessario che ne ricorrano i presupposti giustificativi
in grado di supportare il legittimo esercizio di tale potere
(Consiglio di Stato, V, 22.05.2019, n. 3316).
Difatti, secondo la consolidata giurisprudenza, «il
potere sindacale di emanare ordinanze contingibili ed urgenti ai sensi degli
articoli 50 e 54 D.Lgs. n. 267 del 2000 richiede la sussistenza di una
situazione di effettivo pericolo di danno grave ed imminente per
l’incolumità pubblica, non fronteggiabile con gli ordinari strumenti di
amministrazione attiva, debitamente motivata a seguito di approfondita
istruttoria. In altri termini, presupposto per l’adozione dell’ordinanza
extra ordinem è il pericolo per l’incolumità pubblica dotato del carattere
di eccezionalità tale da rendere indispensabile interventi immediati ed
indilazionabili, consistenti nell’imposizione di obblighi di fare o di non
fare a carico del privato»
(Consiglio di Stato, V, 16.02.2010, n. 868).
Nel caso di specie, dal preambolo del provvedimento impugnato –come pure
dalla pregressa ordinanza n. 7/2019, gravata con il ricorso introduttivo–
emerge che l’urgenza e la necessità di provvedere sono state rinvenute dal
Sindaco in generiche ragioni di pericolo connesse alla tipologia di attività
esercitata, ossia la caccia, e agli strumenti che vengono utilizzati per il
suo svolgimento, ossia le armi da fuoco (o, comunque, gli strumenti atti a
sopprimere la fauna cacciata); tuttavia, il pericolo paventato non
rappresenta altro che una conseguenza ordinaria e affatto eccezionale
dell’attività venatoria («non è legittimo adottare
ordinanze contingibili ed urgenti per fronteggiare situazioni prevedibili e
permanenti»: Consiglio di
Stato, V, 26.07.2016, n. 3369), che proprio in ragione delle peculiari
modalità di svolgimento è oggetto di minuziosa disciplina da parte del
legislatore statale (cfr. in particolare gli artt. 12 e 13 della legge n.
157 del 1992).
Peraltro a fondamento del provvedimento impugnato, nemmeno risulta essere
stata posta una adeguata attività istruttoria, attraverso la quale sarebbero
dovuti emergere gli elementi di fatto rilevanti e in grado di giustificare
l’intervento comunale di urgenza, risultando nella specie del tutto
insufficiente la circostanza, nemmeno documentata, che vi sarebbero state
numerose segnalazioni attestanti la presenza di cacciatori nella zona della
Diga di Beauregard (si veda il preambolo dell’ordinanza n. 7/2019).
Ne discende che l’assoluta carenza di istruttoria e la
generica e apodittica esigenza di tutelare la pubblica incolumità,
unitamente alla necessità di garantire un ipotetico ordine pubblico, non
possono rappresentare presupposti idonei a fondare l’adozione di una
ordinanza contingibile e urgente
(Consiglio di Stato, V, 29.05.2019, n. 3580; 21.02.2017, n. 774; 22.03.2016,
n. 1189).
Del resto, se può ammettersi, come già evidenziato in
precedenza, un potere di intervento extra ordinem del Sindaco, pur in
presenza di una competenza di altro ente, i presupposti di un tale
intervento straordinario devono essere individuati e verificati, nella loro
esistenza, in modo rigoroso, rischiandosi altrimenti di derogare all’ordine
legale delle competenze in aperta violazione di legge.
Con riguardo alle ordinanze sindacali, in generale, è stato
osservato che le stesse possono incidere, per la natura delle loro finalità
(incolumità pubblica e sicurezza urbana) e per i loro destinatari (le
persone presenti in un dato territorio), sulla sfera generale di libertà dei
singoli e delle comunità amministrate, ponendo prescrizioni di
comportamento, divieti, obblighi di fare e di non fare, che, pur indirizzati
alla tutela di beni pubblici importanti, impongono comunque, in maggiore o
minore misura, restrizioni ai soggetti considerati, determinando una
compressione della libertà e della proprietà individuale, che pure
costituiscono principi tutelati dalla Carta costituzionale
(Corte costituzionale, sentenza n. 115 del 2011).
Pertanto, il ricorso allo strumento delle ordinanze
contingibili e urgenti deve essere riservato alle sole fattispecie in cui ne
ricorrono i presupposti giustificativi, da riscontrare in maniera rigorosa e
di cui deve essere data una interpretazione fortemente restrittiva.
3.2. Inoltre, appare illegittimo anche il contemporaneo
richiamo all’art. 50 e all’art. 54 del D.Lgs. n. 267 del 2000 (Testo unico
degli Enti locali), trattandosi di due disposizioni aventi un differente
spettro di applicazione ed espressione di poteri, sebbene assimilabili,
comunque diversi.
L’art. 50, in particolare il comma 5, ammette un
intervento, connotato dai caratteri della contingibilità e dell’urgenza, del
Sindaco, quale rappresentante della comunità locale, in presenza di «emergenze
sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale [oppure] in
relazione all’urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di
grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio
culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con
particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del
riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita,
anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e
superalcoliche».
Diversamente, l’art. 54, comma 4, prevede che «il
sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta, con atto motivato
provvedimenti contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali
dell’ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che
minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana».
Come risulta dalla semplice esegesi dei predetti testi normativi,
in un caso –quello dell’art. 50– il Sindaco agisce in qualità di
rappresentante della comunità locale e si occupa di ambiti in cui vengono in
rilievo interessi di tipo territoriale e riguardano materie di competenza
(anche) comunale, mentre nell’altro –quello di cui all’art. 54– il Sindaco
agisce in qualità di ufficiale di Governo e in settori, quali l’incolumità
pubblica e la sicurezza urbana, che sono di competenza dello Stato, essendo
tali materie finalizzate alla prevenzione dei reati e al mantenimento
dell’ordine pubblico, inteso quest’ultimo quale «complesso dei beni
giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge
l’ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale»
(Corte costituzionale, sentenze n. 129 del 2009; n. 290 del 2001).
3.3. Da ciò discende l’accoglimento delle scrutinate censure. |
ATTI AMMINISTRATIVI: L'Adunanza
Plenaria pronuncia sulla legittimazione a ricorrere delle associazioni fuori
dai casi previsti dalla legge.
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Processo amministrativo – Legittimazione attiva - Associazioni
rappresentative di utenti o consumatori - Tutela degli interessi legittimi
collettivi – Espressa previsione di legge – Non necessita.
Gli enti associativi esponenziali, iscritti nello
speciale elenco delle associazioni rappresentative di utenti o consumatori
oppure in possesso dei requisiti individuati dalla giurisprudenza, sono
legittimati ad esperire azioni a tutela degli interessi legittimi collettivi
di determinate comunità o categorie, e in particolare l’azione generale di
annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità,
indipendentemente da un’espressa previsione di legge in tal senso (1).
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(1) Tali norme di settore, secondo la sentenza del
Consiglio di Stato, sez. VI, 21.07.2016, n. 3303, più volte
citata quale caposaldo dell’orientamento contrario a quello prevalente,
escluderebbero l’esperibilità dell’azione di annullamento.
L’art. 32-bis, d.lgs. 24.02.1998, n. 58 (Testo unico della finanza) prevede
testualmente che “Le associazioni dei consumatori inserite nell'elenco di
cui all'articolo 137 del decreto legislativo 06.09.2005, n. 206, sono
legittimate ad agire per la tutela degli interessi collettivi degli
investitori, connessi alla prestazione di servizi e attività di investimento
e di servizi accessori e di gestione collettiva del risparmio, nelle forme
previste dagli articoli 139 e 140 del predetto decreto legislativo”.
Dallo specifico riferimento alle “forme previste dagli articoli 139 e 140”
deriverebbe –secondo la ricostruzione giurisprudenziale citata- che le
uniche azioni possibili sono quelle proponibili dinanzi al giudice
ordinario, tese a:
a) inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei
consumatori e degli utenti;
b) adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti
dannosi delle violazioni accertate;
c) ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o più
quotidiani a diffusione nazionale oppure locale nei casi in cui la
pubblicità del provvedimento può contribuire a correggere o eliminare gli
effetti delle violazioni accertate (così l’art. 140 cit.).
Dunque mancherebbe, nell’attuale ordinamento, nella materia de qua,
una norma che abiliti le associazioni ad agire dinanzi al giudice
amministrativo a mezzo dell’azione di annullamento.
Ritiene questa Adunanza plenaria che nemmeno questo argomento,
specificatamente riferito alla tutela consumeristica, sia in grado di
incidere sull’attualità e validità della lunga elaborazione
giurisprudenziale assolutamente prevalente, e in effetti consolidata.
Le disposizioni citate, a ben vedere, riguardano il diritto civile e il
relativo processo. La circostanza che il legislatore sia intervenuto
espressamente a disciplinare, in ambito processual-civilistico, un caso di
legittimazione straordinaria per la tutela di interessi collettivi non può
certamente leggersi come l’epilogo di un generale percorso di delimitazione
soggettiva della legittimazione degli enti associativi e di tipizzazione
delle azioni esperibili in ogni e qualsiasi altro ambito processuale, come,
nello specifico, quello amministrativo.
Piuttosto essa rappresenta il definitivo riconoscimento della rilevanza
giuridica degli interessi nella loro dimensione collettiva, persino in un
ambito, quello civilistico, in cui non viene in rilievo l’esercizio di un
potere suscettibile di concretizzarsi in atti autoritativi generali lesivi,
impugnabili a mezzo dell’azione demolitoria secondo la traiettoria già
tracciata dalla giurisprudenza amministrativa, ma in cui piuttosto assumono
importanza anche i temi della disparità di forza contrattuale,
dell’asimmetria informativa, dell’abuso di posizione dominante.
Temi, questi ultimi, connotati da una dimensione eccedente la sfera
giuridica del singolo e da situazioni giuridiche omogenee e seriali di una
vasta platea di consumatori, espressamente qualificate come “diritti
fondamentali” dalla legge, anche nella loro dimensione collettiva (art.
2 codice dei consumatori).
Questo processo di espansione delle posizioni giuridiche verso una
dimensione collettiva in ambito civilistico consente di spostare avanti la
soglia di tutela, affrancandola dal vincolo contrattuale individuale, e di
conferire alla stessa una caratteristica inibitoria idonea a paralizzare, ad
un livello generale, gli atti e i comportamenti del soggetto privato “forte”
suscettibili di ripercuotersi pregiudizievolemente sui diritti collettivi
fondamentali dei consumatori.
Interessando posizioni giuridiche paritarie, seppur asimmetriche, è chiaro
che tale processo non avrebbe potuto inverarsi senza l’emersione positiva di
situazioni giuridiche collettive e la tipizzazione delle azioni giuridiche
esperibili da parte di un soggetto –quello a base associativa e con funzioni
rappresentative, come anche il Codancos incluso nell’elenco citato– che non
sia parte dei rapporti giuridici instaurandi e instauratisi tra il soggetto
“forte” e i singoli consumatori.
Non è così nei rapporti di diritto pubblico, in cui le posizioni non sono
connesse a negozi giuridici, e trovano piuttosto genesi nell’esercizio non
corretto del potere amministrativo, tutte le volte che esso impatti su
interessi sostanziali (cd. “beni della vita”) meritevoli di
protezione secondo l’apprezzamento che ne fa il giudice amministrativo sulla
base dell’ordinamento positivo.
La cura dell’interesse pubblico, cui l’attribuzione del potere è
strumentale, non solo caratterizza, qualifica e giustifica, nel diritto
amministrativo, la dimensione unilaterale e autoritativa del potere rispetto
agli atti e ai comportamenti dell’imprenditore o del professionista -nel
diritto civile invece subordinati al principio consensualistico- ma vale
anche a dare rilievo, a prescindere da espliciti riconoscimenti normativi, a
posizioni giuridiche che eccedono la sfera del singolo e attengono invece a
beni della vita a fruizione collettiva della cui tutela un’associazione si
faccia promotrice sulla base dei criteri giurisprudenziali della
rappresentatività, del collegamento territoriale e della non occasionalità.
8. In conclusione, la tenuta del diritto vivente sulla tutela degli
interessi diffusi non è messa in dubbio nemmeno dagli artt. 139 e 140 del
codice del consumo (oggi trasposti nel nuovo titolo VIII-bis del libro
quarto del codice di procedura civile, in materia di azione di classe dalla
l. 12.04.2019, n. 31), che riguardano altro ambito processuale, e che di
certo non possono essere letti nell’ottica di un ridimensionamento della
tutela degli interessi collettivi nel giudizio amministrativo, nei termini
sin qui chiariti dalla giurisprudenza amministrativa.
Deve quindi ritenersi che un’associazione di utenti o consumatori, iscritta
nello speciale elenco previsto dal codice del consumo oppure che sia munita
dei requisiti individuati dalla giurisprudenza per riconoscere la
legittimazione delle associazioni non iscritte, sia abilitata a ricorrere
dinanzi al giudice amministrativo in sede di giurisdizione di legittimità.
La legittimazione, in altri termini, si ricava o dal riconoscimento del
legislatore quale deriva dall’iscrizione negli speciali elenchi o dal
possesso dei requisiti a tal fine individuati dalla giurisprudenza. Una
volta “legittimata”, l’associazione è abilitata a esperire tutte le
azioni eventualmente indicate nel disposto legislativo e comunque l’azione
generale di annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di
legittimità.
Alla luce di quanto sino ad ora argomentato può pertanto formularsi il
seguente principio di diritto, in relazione al quesito prospettato:
“Gli enti associativi esponenziali, iscritti nello
speciale elenco delle associazioni rappresentative di utenti o consumatori
oppure in possesso dei requisiti individuati dalla giurisprudenza, sono
legittimati ad esperire azioni a tutela degli interessi legittimi collettivi
di determinate comunità o categorie, e in particolare l’azione generale di
annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità,
indipendentemente da un’espressa previsione di legge in tal senso”
(Consiglio di Stato, A.P.,
sentenza 20.02.2020 n. 6 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
irrilevante lo stato di necessità ai fini della sanatoria edilizia.
Il provvedimento di sanatoria edilizia, ai sensi
dell’art. 36 D.P.R. 380 del 2001, presuppone la (doppia) conformità
urbanistica dell’intervento, compresa la valutazione dei vincoli esistenti
sull’area, senza alcuna rilevanza delle ragioni che abbiano portato alla
realizzazione dell’opera abusiva o di altri elementi relativi al
comportamento posto in essere dalla parte ai fini della realizzazione
dell’opera.
---------------
Ritiene, altresì, il Collegio di evidenziare che la presente vicenda, come
risulta dalla ricostruzione in fatto emergente dagli atti di causa, riguarda
la realizzazione da parte dei titolari della azienda agricola Fo. di opere
costituite dalla trasformazione di una pista sterrata in strada carrabile,
in assenza di titolo abilitativo, intervento effettuato prima del
23.01.2007, data in cui l’intervento è stato oggetto di un provvedimento di
sospensione comunale.
Solo dopo tale ordinanza è emersa la circostanza dedotta dagli odierni
appellanti che la realizzazione della strada si era resa necessaria per
garantire interventi su un masso roccioso, la cui pericolosità sarebbe era
emersa durante i lavori dei titoli edilizi rilasciati nel 2006.
La circostanza delle pericolosità del masso è stata, peraltro, espressamente
presa in considerazione dal Comune di Novafeltria nella ordinanza di
ripristino dello stato dei luoghi dell’08.03.2007 (oggetto del ricorso
davanti al Tribunale amministrativo delle Marche n. -OMISSIS- definito con
sentenza di rigetto n. -OMISSIS-), che ha ordinato la riduzione in pristino
con riferimento alla effettuata trasformazione della strada, rinviando ad
ulteriori accertamenti istruttori per le valutazioni circa la messa in
sicurezza del masso.
Sul punto la Provincia si è espressa con il parere del 10.10.2007, in cui ha
precisato che “la strada di accesso potrà essere utilizzata solamente
temporaneamente per la demolizione dell’ammasso roccioso”; sulla base di
tale parere è stato adottato il provvedimento contingibile e urgente del
31.10.2007, che ha ordinato (e quindi allo stesso tempo autorizzato) la
rimozione del masso a tutela della pubblica incolumità.
Su tale questione relativa alla rimozione del masso si è, quindi, inserita
la domanda di sanatoria delle opere abusivamente realizzate relative alla
trasformazione della strada da carraia agricola sterrata a carrabile con lo
sbancamento e l’abbattimento di numerose piante, presentata dagli appellanti
il 05.06.2007.
La domanda di sanatoria, anche ammesso che l’intervento fosse stato
realizzato per le esigenze di sicurezza derivanti dal pericolo della masso
roccioso, è comunque finalizzata al mantenimento in futuro come legittima
dell’opera abusivamente realizzata, essendo, inoltre, consentito l’utilizzo
di tale tracciato per la rimozione del sasso ai sensi dell’ordinanza del
31.10.2007 e del presupposto parere della Provincia del 10.10.2007.
Essendo l’area boscata sottoposta a vincolo idrogeologico, ai sensi
dell’art. 11 della legge regionale Marche n. 6 del 2005, ai fini della
sanatoria edilizia era necessario il parere della Provincia, che si è
espressa in senso negativo, avendo ritenuto l’intervento realizzato estraneo
alle ipotesi tassative di disboscamento previste dell’art. 12 della legge
regionale n. 6/2005, escludendo espressamente la natura di pista tagliafuoco
della strada concretamente realizzata.
Da tali circostanze di fatto emerge con chiarezza che le esigenze di
sicurezza derivanti dalla pericolosità del masso incombente sull’azienda
sono del tutto ininfluenti rispetto al provvedimento impugnato nel presente
giudizio ovvero il parere negativo della Provincia che ha impedito
l’ulteriore corso della domanda di sanatoria.
Infatti, il provvedimento di sanatoria edilizia, ai sensi dell’art. 36 del
D.P.R. 380 del 2001, presuppone la conformità urbanistica dell’intervento,
compresa quindi la valutazione dei vincoli esistenti sull’area, senza alcuna
rilevanza delle ragioni che abbiano portato alla realizzazione dell’opera
abusiva o di altri elementi relativi al “comportamento” posto in
essere dalla parte ai fini della realizzazione dell’opera.
Ne deriva che la esigenza di sicurezza derivante dal pericolo della caduta
del masso- che la parte appellante riporta alla sussistenza della esimente
dello stato di necessità- non può avere alcuna rilevanza rispetto alla
valutazione relativa al rilascio di un titolo edilizio anche se in
sanatoria.
Il titolo edilizio anche in sanatoria ha, infatti, presupposti propri
specificamente individuati dalla legge e dalla disciplina urbanistica
comunale nonché da quella paesaggistica e, nel caso di specie,
dall’esistenza di un vincolo idrogeologico sull’area, che prescindono sia
dai motivi per cui è stata realizzata la opera edilizia sia dalla
sussistenza di un eventuale stato di necessità.
Tale circostanza della pericolosità del masso avrebbe potuto rilevare- così
come effettivamente è stato- al solo al fine di consentire il mantenimento
della strada fino alla esecuzione delle opere di messa in sicurezza; non a
legittimare un opera edilizia abusiva in mancanza dei presupposti per la
sanatoria.
Sotto tale profilo, ritiene dunque il Collegio la irrilevanza nel presente
giudizio dell’assoluzione in sede penale pronunciata dalla sentenza del
Tribunale di Pesaro, depositata nel presente giudizio, che ha riconosciuto
sussistente la scriminante dello stato di necessità.
Se, infatti, la scriminante dello stato di necessità ha potuto rilevare
ex post al fine di giustificare il comportamento -in astratto penalmente
rilevante- posto in essere dagli appellanti nella realizzazione della strada
in mancanza del titolo edilizio e della autorizzazione paesaggistica, non
può trovare alcuna considerazione nel presente giudizio ai fini della
legittimità di provvedimenti (la sanatoria edilizia e il preordinato nulla
osta idrogeologico), che hanno autonomi presupposti previsti dalla legge e
del tutto differenti dalle valutazioni di un “comportamento” operate
dal giudice penale.
La totale estraneità alla fattispecie della sanatoria edilizia delle
circostanze in cui è stata realizzata l’opera edilizia rende inutile l’esame
della questione circa la rilevanza del giudicato penale rispetto ai giudizi
amministrativi, ai sensi dell’art. 654 c.p.p., proposta dalla parte
appellante come primo motivo di appello.
In ogni caso, ritiene il Collegio sul punto di richiamare i consolidati
orientamenti giurisprudenziali di questo Consiglio, per cui nei rapporti tra
giudizio penale e giudizio amministrativo la regola generale è costituita
dall’autonomia e della separazione (Cons. Stato Sez. II, 24.10.2019, n.
7245).
Inoltre, sotto il profilo soggettivo, il giudicato è vincolante solo nei
confronti dell’imputato, della parte civile e del responsabile civile che si
sia costituito o che sia intervenuto nel processo penale; non, quindi, nei
confronti di altri soggetti che siano rimasti estranei al processo penale,
pur essendo in qualche misura collegati alla vicenda penale (Cons. Stato
Sez. VI, 02.12.2016, n. 5069; id. 31.01.2017, n. 407).
Sotto il profilo oggettivo, il vincolo copre solo l’accertamento dei “fatti
materiali” e non anche la loro qualificazione o valutazione giuridica,
che rimane circoscritta al processo penale e non può condizionare l’autonoma
valutazione da parte del giudice amministrativo o civile (Cons. Stato Sez.
VI, 11.01.2018, n. 145; id. 16.07.2015, n. 3556)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 19.02.2020 n. 1262 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’istituto
della c.d. ‘sanatoria giurisprudenziale’ non trova fondamento alcuno
nell’ordinamento positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità
dell’azione amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri
esercitati dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti
poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono essere
creati in via giurisprudenziale, pena la violazione di quello di separazione
dei poteri e l’invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla
pubblica amministrazione.
Anche la Corte Costituzionale, peraltro, ha più volte ribadito al riguardo
la natura di principio, tra l’altro vincolante per la legislazione
regionale, della previsione della “doppia conformità” seppur con precipuo
riferimento inizialmente ai soli profili penalistici.
Il giudice delle leggi ha dunque affermato che il rigore insito in tale
principio trova la propria ratio ispiratrice nella “natura preventiva e
deterrente” della sanatoria , finalizzata a frenare l’abusivismo edilizio,
in modo da escludere letture “sostanzialiste” della norma che consentano la
possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina
urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione ovvero
con essa conformi solo al momento della presentazione dell’istanza per
l’accertamento di conformità.
---------------
Nella specie, il rilascio del permesso di costruire in sanatoria è stato
negato giustamente, in assenza della cd. “doppia conformità” ex art. 36,
d.P.R. n. 380/2001 da intendersi nel senso a più riprese affermato dalla
costante giurisprudenza di primo grado:
●
«il permesso in sanatoria,
previsto dall'art. 36 d.P.R. n. 380/2001, può essere concesso solo nel caso
in cui l'intervento risulti conforme sia alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigente al momento della realizzazione del manufatto, che alla
disciplina vigente al momento della presentazione della domanda.
La doppia conformità condicio sine qua non della sanatoria, ed investe
entrambi i segmenti temporali, cioè il tempo della realizzazione
dell'illecito ed il tempo della presentazione dell'istanza.
Nel caso di specie il provvedimento, in maniera sintetica ma esaustiva,
evidenzia l'assenza totale della richiesta doppia conformità, stante che il
manufatto realizzato è in contrasto con la destinazione d'uso dei locali, il
che è sufficiente a precludere il rilascio del permesso di costruire in
sanatoria.
Tale rilievo prescinde del tutto dalla valutazione a posteriori della natura
o della consistenza dell'abuso, sollecitata dall'interessato, dovendosi
considerare, specie in ragione del carattere rigidamente vincolato del
potere esercitato dall'amministrazione, che la contrarietà originaria
dell'intervento, rispetto alla strumentazione urbanistica, esclude il
prescritto requisito della doppia conformità»,
e che, per ormai costante orientamento giurisprudenziale, l’appellante non
può invocare in proprio favore l’istituto della cd. “sanatoria
giurisprudenziale”.
---------------
L’assunto è infondato.
In primo luogo, si palesa corretta l’affermazione del giudice di prime cure
che rileva la mancata prova dell’effettiva conformità delle opere al nuovo
strumento urbanistico: la richiamata disposizione, infatti, prevede la
redazione di un piano urbanistico operativo (P.u.o.) esteso all’intero
distretto di trasformazione in cui si articola la zona costiera del piano
regolatore generale del 1983, nel caso di specie mancante.
Indi non appare neppure invocabile, secondo l’ormai consolidato orientamento
giurisprudenziale del Consiglio Stato (cfr., ex multis, Cons. Stato,
Sez. VI, 24.04.2018, n. 2496, e 20.02.2018, n. 1087), pienamente condiviso
da questo Collegio, l’istituto della c.d. ‘sanatoria giurisprudenziale’.
Tale istituto non trova, infatti, fondamento alcuno nell’ordinamento
positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell’azione
amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla
pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di
espressa previsione legislativa, non possono essere creati in via
giurisprudenziale, pena la violazione di quello di separazione dei poteri e
l’invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla pubblica
amministrazione.
Anche la Corte Costituzionale, peraltro, ha più volte ribadito al riguardo
la natura di principio, tra l’altro vincolante per la legislazione
regionale, della previsione della “doppia conformità” (Corte Cost.,
31.03.1998, n. 370; 13.05.1993, n. 231; 27.02.2013, n. 101) seppur con
precipuo riferimento inizialmente ai soli profili penalistici.
Il giudice delle leggi ha dunque affermato che il rigore insito in tale
principio trova la propria ratio ispiratrice nella “natura preventiva e
deterrente” della sanatoria , finalizzata a frenare l’abusivismo
edilizio, in modo da escludere letture “sostanzialiste” della norma
che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la
disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro
realizzazione ovvero con essa conformi solo al momento della presentazione
dell’istanza per l’accertamento di conformità.
In definitiva, nella specie, si deve concludere che il rilascio del permesso
di costruire in sanatoria è stato negato giustamente, in assenza della cd. “doppia
conformità” ex art. 36, d.P.R. n. 380/2001 (da intendersi nel senso a
più riprese affermato dalla costante giurisprudenza di primo grado: ex
aliis cfr. TAR Reggio Calabria, -Calabria- sez. I, 11/01/2019, n. 15,
ove si legge che «il permesso in sanatoria, previsto dall'art. 36 d.P.R.
n. 380/2001, può essere concesso solo nel caso in cui l'intervento risulti
conforme sia alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento
della realizzazione del manufatto, che alla disciplina vigente al momento
della presentazione della domanda. La doppia conformità condicio sine qua
non della sanatoria, ed investe entrambi i segmenti temporali, cioè il tempo
della realizzazione dell'illecito ed il tempo della presentazione
dell'istanza. Nel caso di specie il provvedimento, in maniera sintetica ma
esaustiva, evidenzia l'assenza totale della richiesta doppia conformità,
stante che il manufatto realizzato è in contrasto con la destinazione d'uso
dei locali, il che è sufficiente a precludere il rilascio del permesso di
costruire in sanatoria. Tale rilievo prescinde del tutto dalla valutazione a
posteriori della natura o della consistenza dell'abuso, sollecitata
dall'interessato, dovendosi considerare, specie in ragione del carattere
rigidamente vincolato del potere esercitato dall'amministrazione, che la
contrarietà originaria dell'intervento, rispetto alla strumentazione
urbanistica, esclude il prescritto requisito della doppia conformità») e
che, per ormai costante orientamento giurisprudenziale, l’appellante non può
invocare in proprio favore l’istituto della cd. “sanatoria
giurisprudenziale”, cui peraltro non aveva fatto alcun riferimento nel
corso del procedimento, cui ha attivamente preso parte (cfr. Cons. Stato,
sez. VI, 11.09.2018, n. 5319; nonché id. 24.04.2018, n. 2496, nella quale
peraltro si controverte, come nel caso di specie, di una domanda di
sanatoria presentata prima dell’entrata in vigore del T.U.E., ma definita
dopo)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 18.02.2020 n. 1240 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA: Domanda
di annullamento di una convenzione urbanistica per dolo della parte
pubblica.
Il TAR Milano, a fronte di una domanda di annullamento
di una convenzione urbanistica per dolo della parte pubblica, osserva
preliminarmente che non sussistono regole preclusive alla possibilità di
inserire impegni aggiuntivi che sono, quindi, rimessi alla volontà delle
parti e alla verifica di meritevolezza rispetto all’intesse pubblico che si
intende perseguire.
Il TAR rigetta poi nel merito la domanda annullamento degli atti negoziali
esaminando l’istituto del dolo omissivo e del silenzio relativo ad
informazioni di cui si impone la comunicazione secondo il canone di buona
fede precontrattuale ex articolo 1337 c.c. nonché valutando il nesso di
causalità tra il silenzio di una parte e l’errore in cui l’altra asserisce
di essere incorsa anche tenendo conto delle condizioni soggettive delle
stesse (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 18.02.2020 n. 323 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
17.1. Osserva il Collegio come il punto dirimente della
controversia risiede nell’idoneità delle convenzioni a stabilire eventuali
impegni aggiuntivi a carico della parte privata. Idoneità affermata da
costante giurisprudenza amministrativa secondo cui risultano legittime
convenzioni di lottizzazione che contengano impegni negoziali aggiuntivi a
carico del privato stipulante, quando ne sia dimostrata la finalizzazione al
perseguimento degli interessi pubblici e perciò, in termini privatistici, la
meritevolezza della causa (cfr., ex aliis, Consiglio di Stato, Sez. V, 10.01.2003 n. 33; TAR per la Lombardia – sede di Brescia, Sez. I,
03.07.2019, n. 624).
Osserva altra parte della giurisprudenza come “se la funzione propria della
convenzione urbanistica è la realizzazione di uno scopo tipizzato e lecito,
che è quello di incidere sull’assetto territoriale modificando il carico
urbanistico, non viene meno la causa dell’accordo, né può invocarsene la
nullità, solo perché vi siano inseriti elementi accessori ed atipici che non
giungano ad alterare, nel suo complesso, la causa negoziale, purché tali
elementi non risultino contrari a norme imperative o d’ordine pubblico,
ovvero non siano in frode alla legge o frutto di un motivo illecito comune
ad entrambe le parti” (TAR per il Piemonte, 15.01.2016, n. 10).
Conseguentemente, “le prestazioni corrispettive aggiuntive, quando non
esorbitino le finalità della convenzione, sono ammissibili in quanto
comunque riconducibili alla funzione pubblicistica propria dell’accordo,
ossia di consentire la realizzazione dell’intervento pianificatorio e di
urbanizzazione di un’area. In questa prospettiva, le condizioni accessorie
non sono predeterminate dalla legge ma lasciate alla libera valutazione
delle parti, nell’esercizio della loro autonomia negoziale ex art. 1322 cod.
civ., soggette al limite della necessaria rispondenza dell’opera alla
tipologia prevista dallo strumento urbanistico ed ai parametri della
ragionevolezza e della proporzionalità tra l’onere imposto e l’entità e le
caratteristiche degli insediamenti” (cfr., ancora, TAR per il Piemonte,
15.01.2016, n. 10).
17.2. Simile teorica costituisce, del resto, corollario della specifica
natura delle convenzioni urbanistiche, ricomprese tra gli accordi
sostitutivi di provvedimenti amministrativi, ai sensi dell’articolo 11 della
Legge n. 241 del 1990, in materia urbanistica ed edilizia (cfr., Cassazione,
sezioni unite, 09.03.2015, n. 4683, che conferma Consiglio di Stato,
Adunanza plenaria, 20.07.2012, n. 28; TAR per la Lombardia – sede di
Milano, sez. II, 25.11.2019, n. 2495; TAR per il Veneto, Sez. II,
30.12.2016, n. 1439; TAR per la Lombardia – sede di Brescia, I, 26.03.2014, n. 298).
A tali accordi si applicano, “ove non diversamente previsto, i princìpi del
codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili”
(articolo 11, comma 2, secondo periodo, della L. n. 241 del 1990). Il
legislatore impone, pertanto, l’applicazione dei principi dettati dal codice
civile in materia di obbligazioni e contratti pur ponendo due limiti: il
primo di questi risiede nella sussistenza di una previsione derogatrice
della regola di matrice civilistica; il secondo nella compatibilità del
principio civilistico con il peculiare strumento dell’accordo sostitutivo.
17.3. Incentrando la disamina sugli aspetti di rilievo per la vicenda
all’attenzione del Collegio si osserva come non sussistano regole preclusive
alla possibilità di inserire impegni aggiuntivi che sono, quindi, rimessi
alla volontà delle parti e alla verifica di meritevolezza rispetto
all’intesse pubblico che si intende perseguire (cfr., ancora, TAR per la
Lombardia – sede di Brescia, Sez. I, 03.07.2019, n. 624).
Nel caso in esame la parte privata contesta la genuinità del consenso
espresso deducendo la sussistenza di una condotta fraudolenta
dell’Amministrazione che inserisce nelle convenzioni prestazioni aggiuntive
non previste nel documento di inquadramento pur ivi richiamato.
17.4. Simile prospettazione non può, tuttavia, essere condivisa.
17.5. Osserva, infatti, il Collegio come “il dolo, quale vizio del consenso
e causa di annullamento del contratto, assume rilevanza quando incida sul
processo formativo del consenso, dando origine ad una falsa o distorta
rappresentazione della realtà all'esito della quale il contraente si sia
determinato a stipulare; ne consegue che l'effetto invalidante dell'errore
frutto di dolo è subordinato alla circostanza, della cui prova è onerata la
parte che lo deduce, che la volontà negoziale sia stata manifestata in
presenza od in costanza di questa falsa rappresentazione” (Cassazione
civile, Sez. II, 25.10.2019, n. 27406).
17.6. Con specifico riferimento al dolo omissivo che assumerebbe rilievo nel
caso di specie si osserva come la giurisprudenza ritenga lo stesso rilevante
solo laddove “l’inerzia della parte si inserisca in un complesso
comportamento adeguatamente preordinato, con malizia o astuzia, a realizzare
l'inganno perseguito; pertanto, il semplice silenzio e la reticenza, anche
su situazioni di interesse della controparte, non immutando la
rappresentazione della realtà, ma limitandosi a non contrastare la
percezione di essa alla quale sia pervenuto l'altro contraente, non
costituiscono causa invalidante del contratto” (Cassazione civile, Sez. VI,
08.05.2018, n. 11009).
17.7. Come osservato in dottrina,
una simile configurazione del dolo
omissivo lo muta più propriamente in un comportamento di tipo commissivo
consistente in condotte ulteriori rispetto al mero silenzio (c.d. “machinatio”).
Non pare, quindi, irragionevole la diversa prospettiva che mira ad
attribuire rilievo anche al mero silenzio relativo ad informazioni di cui si
impone la comunicazione secondo il canone di buona fede precontrattuale ex
articolo 1337 c.c. pur con la precisazione che la mera violazione di tali
doveri non è in se sufficiente a dar luogo all’annullamento del contratto
dovendosi, comunque, accertare, il requisito della forza determinativa sulla
volontà della parte contrattuale secondo il modello del dolus causam dans.
Tale prospettiva interpretativa trova conferma nel confronto con
l’ordinamento francese, recentemente riformato, sul punto, dall’Ordonnance
n. 2016-131 del 10.02.2016 che lega la “dissimulation intentionelle”
(articolo 1137 del Code civil riformato) all’obbligo di informazione
precontrattuale secondo il canone di buona fede e correttezza e richiedendo
l’accertamento del carattere determinante dell’informazione.
Nella stessa
direzione si muovono sia il P.E.C.L. (articolo 4:107) che il D.C.F.R.
(articolo II. – 7.205) enfatizzando il rilievo da conferire alla varie
circostanze ritenute necessarie per fondare un dovere comunicativo tra cui
la competenza della parte, il costo per l’acquisizione dell’informazione, la
capacità di conseguirla, l’importanza della stessa.
17.8. Esaminando la vicenda pur secondo i meno restrittivi presupposti
delineati si osserva come non sia configurabile la figura della reticenza
rilevante per decretare l’annullamento delle convenzione.
Nel caso di
specie, il Comune occulterebbe il diverso contenuto del documento di
inquadramento “per trarre il massimo vantaggio” (foglio 15 del ricorso
introduttivo del giudizio R.G. 432/2017). Ma, invero, la portata del
documento sul processo di formazione della volontà negoziale risulta
necessariamente ridimensionata dalla già decretata possibilità di inserire
prestazioni aggiuntive all’interno delle convenzioni di lottizzazioni.
Possibilità rimessa alla volontà delle parti nell’ambito della loro
negoziazione.
Non è, quindi, asseribile la sussistenza di un inganno idoneo
a determinare l’errore del “deceptus” derivante dalla mera inserzione di
prestazioni aggiuntive anche tenuto conto che, “sia nell'ipotesi di dolo commissivo che in quella di dolo omissivo, gli artifici o raggiri, la
reticenza o il silenzio devono essere valutati in relazione alle particolari
circostanze di fatto ed alle qualità e condizioni soggettive dell'altra
parte, onde stabilire se erano idonei a sorprendere una personale di normale
diligenza, giacché l'affidamento non può ricevere tutela giuridica se
fondato su negligenza”
(Cassazione civile, Sez. II, 31.05.2018, n.
13872).
E, invero, anche aderendo alla più ampia e moderna prospettiva
tracciata dalla dottrina si osserva come sia, comunque, necessario
verificare il nesso di causalità tra il silenzio di una parte e l’errore in
cui l’altra asserisce di essere incorsa anche tenendo conto delle condizioni
soggettive delle stesse. Nel caso di specie, si tratta di un operatore
qualificato che, della concreta portata delle convenzioni, avrebbe potuto
certamente rendersi conto con uno sforzo contenuto nei limiti dell’ordinaria
diligenza.
17.9. Né, invero, risultano sussistenti i presupposti per dichiarare il
vizio del consenso derivante da errore. Prescindendo dalle questioni
processuali relative ai limiti della domanda (cfr. Cassazione civile, Sez.
II, 19.04.2012, n. 6136, anteriore, comunque, alle rilevanti
affermazioni di Cassazione civile, Sezioni unite, 13.09.2018, n.
22404), si osserva, in ogni caso, come nel caso di specie non risulti
ipotizzabile la riconoscibilità dell’errore in relazione al contenuto, alle
circostanze del contratto ovvero alla qualità dei contraenti.
E’ agevole
notare, infatti, come l’Amministrazione comunale non poteva rendersi conto
della ritenuta erroneità della volontà espressa dalla parte privata essendo
chiaro dal documento contrattuale l’impegno alla corresponsione degli oneri
perequativi e non risultando circostanze diverse che potevano far desumere
una diversa volontà
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.02.2020 n. 323 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ESPROPRIAZIONE: L’Adunanza
plenaria pronuncia sulla possibilità di emanare un atto di imposizione di
una servitù di passaggio in caso di giudicato restitutorio civile del bene
occupato sine titulo dalla P.A..
---------------
●
Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione - Sine titulo – Art.
42-bis, d.P.R. n. 327 del 2001 – Applicabilità.
●
Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione - Sine titulo – Obbligo di
restituzione derivante da giudicato civile - Imposizione servitù di
passaggio – Preclusione per giudicato civile o amministrativo – Esclusione.
●
L’art. 42-bis, d.P.R. 08.06.2001, n. 327 si applica a tutte le ipotesi in
cui un bene immobile altrui sia utilizzato e modificato dall’amministrazione
per scopi di interesse pubblico, in assenza di un valido ed efficace
provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, e dunque
quale che sia la ragione che abbia determinato l’assenza di titolo che
legittima alla disponibilità del bene (1).
●
Il giudicato restitutorio (amministrativo o civile), inerente
all’obbligo di restituire un’area al proprietario da parte
dell’Amministrazione occupante sine titulo, non preclude l’emanazione di un
atto di imposizione di una servitù, in esercizio del potere ex art. 42-bis,
comma 6, DPR 08.06.2001 n. 327, poiché questo presuppone il mantenimento del
diritto di proprietà in capo al suo titolare (2).
---------------
Le questioni sono state rimesse dalla
sez. IV con ord. 15.07.2019, n. 4950.
(1) Ha chiarito a Sezione che la verifica della “compatibilità” del
decreto di acquisizione ex art. 42-bis, d.P.R. 08.06.2001, n. 327 con un
giudicato restitutorio, in specie formatosi su sentenza del giudice civile
dichiarativa della nullità di un contratto di compravendita (o, se si
preferisce, la possibilità di esercizio del potere ex art. 42-bis pur in
presenza di una sentenza passata in giudicato che ordina la restituzione del
bene), presuppone la previa risoluzione del problema costituito dall’ambito
di applicazione del medesimo art. 42-bis (se esso possa, cioè, applicarsi
anche in ipotesi diverse da quelle ritenute dalla sentenza impugnata) di
modo che:
- se si considera tale disposizione applicabile (come vuole
l’ordinanza) “ad ogni caso in cui –per qualsiasi ragione– un bene
immobile altrui sia utilizzato dall’amministrazione per scopi di interesse
pubblico”, allora (e solo allora) potrà verificarsi se, più
specificamente, il potere conferito dall’art. 42-bis potrà essere esercitato
anche in presenza di un giudicato restitutorio (e, ancor più specificamente,
come nel caso di specie, in presenza di una sentenza declaratoria della
nullità di un contratto di compravendita);
- se, invece, si considera l’art. 42-bis limitato “solo a
vicende in cui la P.A. agisce nella sua veste di autorità” (come
sostiene la sentenza impugnata), allora appare evidente come nessuno dei
quesiti posti dall’ordinanza di rimessione potrebbe essere esaminato nel
merito (e tanto meno ricevere risposta nei sensi prospettati
dall’ordinanza).
In definitiva, la prospettazione dei quesiti così come articolata si fonda
su un presupposto (l’ambito “ampio” di applicazione dell’art.
42-bis), assunto come “acquisito”, mentre esso deve essere oggetto di
necessaria verifica nella presente sede.
E ciò anche al fine di evitare che –non esaminando tale presupposto
logico-giuridico dei quesiti espressamente formulati- si possa pervenire ad
una implicita (e dunque non chiara) adesione, da parte della Adunanza
Plenaria, alla tesi della positiva sussistenza di quello che si è definito
l’ambito “ampio” di applicazione dell’art. 42-bis (la cui
applicabilità potrebbe essere eventualmente esclusa per ragioni specifiche,
ma non per una sua propria limitazione ontologica).
In conclusione, occorre, innanzi tutto, definire l’ambito di applicazione
dell’art. 42-bis DPR n. 327 del 2001, anche al fine, come si è detto, di
scrutinare il primo motivo di appello (sub lett. a) dell’esposizione in
fatto.
Così impostata la questione sottoposta a giudizio, l’Adunanza Plenaria
ritiene che l’art. 42-bis DPR 08.06.2001 n. 327 (Testo Unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per
pubblica utilità) trovi applicazione in tutti i casi in cui un bene immobile
altrui sia nella disponibilità e sia stato utilizzato dall’amministrazione
pubblica per finalità di pubblico interesse, pur in assenza di titolo.
Adunanza Plenaria (sent. 09.02.2016 n. 2) ha già affermato come l’art.
42-bis “introduce una norma di natura eccezionale” e che
l’acquisizione ivi prevista “costituisce una delle possibili cause legali
di estinzione di un fatto illecito”.
Tale articolo “configura un procedimento ablatorio sui generis,
caratterizzato da una precisa base legale, semplificato nella struttura (uno
actu perficitur), complesso negli effetti (che si producono sempre e
comunque ex nunc), il cui scopo non è (e non può essere) quello di sanatoria
di un precedente illecito perpetrato dall'Amministrazione (perché altrimenti
integrerebbe una espropriazione indiretta per ciò solo vietata), bensì
quello autonomo, rispetto alle ragioni che hanno ispirato la pregressa
occupazione contra ius, consistente nella soddisfazione di imperiose
esigenze pubbliche, redimibili esclusivamente attraverso il mantenimento e
la gestione di qualsiasi opera dell'infrastruttura realizzata sine titulo”.
La natura di “norma di chiusura”, propria dell’art. 42-bis
–desumibile anche dai principi (ora riportati) già espressi da questa
Adunanza Plenaria- rende evidente la finalità di ricondurre nell’alveo
legale del sistema tutte le situazioni in cui l’amministrazione, quale che
ne sia la causa, si trovi ad avere utilizzato la proprietà privata per
ragioni di pubblico interesse, ma in difetto di un valido titolo
legittimante.
Ne consegue che il dato letterale della norma non osta all’applicazione
dell’art. 42-bis nelle ipotesi in cui il difetto di titolo si manifesti per
intervenuta declaratoria di nullità ovvero per annullamento del contratto di
compravendita.
La possibilità di consentire l’applicazione dell’art. 42-bis (e, quindi, del
decreto di acquisizione) in tutte le ipotesi in cui –come sostenuto
dall’ordinanza di rimessione- “per qualsiasi ragione un bene immobile
altrui sia utilizzato dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico”,
oltre a non essere impedita dal dato letterale della disposizione, risulta
coerente anche con un inquadramento logico-sistematico della disposizione
medesima, nell’ambito di una più generale riflessione sull’attività
amministrativa e sugli strumenti ad essa inerenti.
A fronte del testo dell’art. 42-bis che richiede che l’utilizzazione sine
titulo del bene deve essere comunque intervenuta “per scopi di
interesse pubblico”, giova ricordare che l’attività della pubblica
amministrazione risulta costantemente funzionalizzata alla cura, tutela,
perseguimento dell’interesse pubblico, sia che a tali fini vengano
esercitati poteri pubblicistici ad essa conferiti –e dei quali l’interesse
pubblico costituisce, al tempo stesso, la causa dell’attribuzione e la
giustificazione dell’esercizio in concreto– sia che vengano utilizzati
strumenti propri del diritto privato, in un contesto generale già delineato
attraverso l’esercizio di potestà pubbliche.
Tale affermazione, che può essere ritenuta ormai principio acquisito
dall’ordinamento, trova il suo riscontro nell’art. 1, l. 07.08.1990 n. 241,
che, nell’enunciare i “principi generali dell’attività amministrativa”,
prevede che la stessa si effettui sia mediante l’esercizio di poteri
autoritativi, sia ricorrendo ad istituti di diritto privato (“salvo che
la legge non disponga diversamente”).
L’azione amministrativa che si concretizza nell’emanazione di provvedimenti
amministrativi, ovvero quella che si svolge, in forma paritetica, attraverso
la sottoscrizione di accordi con i soggetti privati (art. 11, l. n. 241 del
1990, in particolare attraverso gli accordi sostitutivi di provvedimento),
così come la stessa azione che utilizza direttamente strumenti disciplinati
dal diritto privato (in specie, contratti), partecipa dell’unica (ed
unificante) ragione di interesse pubblico, che la sorregge e giustifica,
rappresentandone la causa in senso giuridico.
Con la precisazione che, mentre nelle prime due ipotesi le finalità di
pubblico interesse sono implicite nello stesso ricorso ad atti “tipici”,
quali il provvedimento amministrativo o l’accordo (procedimentale o
sostitutivo), nella terza ipotesi il ricorso ad atti di diritto privato (e,
segnatamente, contratti tipici e nominati previsti dal codice civile) in
tanto può essere ricondotta all’ambito di una azione amministrativa
funzionalizzata, in quanto essa si iscriva, anche in ossequio al principio
di legalità dell’azione amministrativa, in un contesto di finalità di
interesse pubblico, previamente definito mediante l’esercizio dei poteri
all’uopo occorrenti e obiettivamente accertabile.
Proprio tale più generale immanenza dell’interesse pubblico, anche in
ipotesi ulteriori rispetto a quella di natura provvedimentale, ha già fatto
più volte affermare alla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (Cons.
Stato, sez. IV, 15.05.2017 n. 2256, 19.08.2016 n. 3653, 03.12.2015 n. 5510;
sez. V, 05.12.2013 n. 5786; sez. V, 14.10.2013 n. 5000), la irriducibilità
degli accordi di cui all’art. 11 della l. n. 241/1990 a meri “strumenti
di matrice civilistica”.
Si è a tal fine osservato che “fermi i casi di contratti di diritto
privato (per i quali trovano certamente applicazione le disposizioni del
codice civile), nei casi invece di contratto ad oggetto pubblico
l’amministrazione mantiene comunque la sua tradizionale posizione di
supremazia; tali contratti non sono disciplinati dalle regole proprie del
diritto privato, ma meramente dai “principi del codice civile in materia di
obbligazioni e contratti”, sempre “in quanto compatibili” e salvo che “non
diversamente previsto”.
Orbene, alle ipotesi costituite da accordi tra amministrazione e privati -e
specificamente accordi sostitutivi aventi contenuto patrimoniale (cui,
secondo una definizione comunemente invalsa, può attribuirsi il nomen
di “contratti ad oggetto pubblico”, in quanto disciplinanti aspetti
patrimoniali connessi all’esercizio di potestà: v. Cons. Stato, sez. IV, n.
2256/2017 cit.)- ben possono affiancarsi le ipotesi in cui l’amministrazione
stipuli contratti di diritto privato in un quadro che –pur non
caratterizzato dallo svolgimento di un procedimento amministrativo o in
sostituzione di questo– risulta tuttavia già delineato dal precedente
esercizio di poteri pubblici, con i quali si è già provveduto ad individuare
le finalità di pubblico interesse da perseguire.
Con riguardo ai cd. contratti ad oggetto pubblico ed ai cd. contratti ad
evidenza pubblica, la giurisprudenza amministrativa ha già avuto modo di
osservare (Cons. Stato, sez. IV, n. 2256/2017 cit.) come la finalità di
pubblico interesse ne determini diversamente il contenuto.
Nei primi (contratti ad oggetto pubblico), la predetta finalità “non
costituisce (né lo potrebbe) una “immanenza” esterna alla
convenzione/contratto, ma essa –in quanto la Pubblica Amministrazione
persegue sempre nella sua azione interessi pubblici, in conformità al
principio di legalità, quale che sia il modulo utilizzato- conforma il
contratto medesimo, ed in particolare –proprio in ragione delle definizioni
che il diritto privato ne offre– gli elementi essenziali della causa e
dell’oggetto”.
Nei secondi (contratti ad evidenza pubblica) -laddove non è presente una
regolazione degli aspetti patrimoniali dell’esercizio della potestà, ma sono
presenti solo procedimenti antecedenti al contratto, volti ad individuare il
soggetto contraente con la pubblica amministrazione- tuttavia “una volta
scelto il contraente, il contratto stipulato successivamente alla fase di
evidenza pubblica non rifluisce “immediatamente” nella più generale
disciplina del codice civile e delle ulteriori disposizioni che
eventualmente regolano il rapporto patrimoniale consensualmente instaurato
tra privati. Ciò è a tutta evidenza negato dalla stessa presenza di una
(copiosa) disciplina speciale che normalmente assiste il momento genetico e
quello funzionale del contratto, e che non può che giustificarsi se non in
ragione della “particolare natura” dello stesso; laddove tale “particolare”
natura non è costituita dall’esservi la pubblica amministrazione quale
soggetto contraente, bensì dall’essere la causa e l’oggetto del contratto
differentemente conformati, in ragione delle finalità di interesse pubblico
perseguite con il contratto, e dunque con l’adempimento delle obbligazioni
assunte per il tramite delle rispettive prestazioni (a seconda dei casi, l’opus
o il servizio)”.
In definitiva, nei casi in cui la pubblica amministrazione –dopo avere
individuato per il tramite di un generale e preventivo atto di esercizio di
potestà, anche in ossequio al principio di legalità, la finalità di pubblico
interesse– decida di perseguire quest’ultima non già attraverso procedimenti
amministrativi tipici ed esercizio di poteri provvedimentali, bensì
ricorrendo a ordinari modelli privatistici (nei limiti consentiti
dall’ordinamento), la predetta finalità di interesse pubblico resta
immanente al contratto ed al rapporto così posto in essere.
Ciò comporta, di conseguenza, che, laddove la finalità di pubblico interesse
non risulta (o non risulta più) essere perseguita (o perseguibile) per il
tramite del contratto, non può escludersi, in generale, che
l’amministrazione possa intervenire sul rapporto insorto (ovvero sulle
conseguenze di fatto di un rapporto comunque cessato) per il tramite
dell’esercizio di poteri pubblicistici.
Non può, dunque, condividersi la sentenza impugnata laddove essa afferma che
sarebbe contrario “ai principi costituzionali e sovranazionali consentire
alla P.A. che agisce in veste di contraente privato di mutare in corso di
rapporto la natura del potere speso, perché ciò attribuirebbe alla parte
pubblica un privilegio confliggente quantomeno con gli artt. 3 e 42 Cost.”.
(2) Ha chiarito l’Alto consesso che perché possa prodursi l’effetto
preclusivo derivante dal giudicato restitutorio, occorre che la sentenza
preveda espressamente, in accoglimento di una specifica domanda avanzata in
tal senso dal ricorrente o dall’attore, la condanna dell’amministrazione
alla restituzione del bene; per altro verso, l’effetto preclusivo, in quanto
derivante, come si è detto, da una espressa condanna alla restituzione del
bene, si realizza con riguardo al provvedimento ex art. 42-bis, comma 2,
comportante l’acquisizione dello stesso alla proprietà pubblica (in
particolare, al patrimonio indisponibile della medesima) e non può, quindi,
inibire anche l’adozione del diverso provvedimento di imposizione di
servitù, di cui al successivo comma 6.
Quanto a questo secondo aspetto, la sentenza coperta da giudicato in senso
sostanziale, ex art. 2909 c.c., fa stato tra le parti, i loro eredi ed
aventi causa, nei limiti oggettivi costituiti dai suoi elementi costitutivi,
ovvero il titolo della stessa azione (causa petendi) e il bene della
vita che ne forma oggetto (cd. petitum mediato).
Appare, dunque, evidente come, se oggetto del petitum è il recupero
del bene alla piena proprietà e disponibilità del soggetto privato
originariamente proprietario, non rientra nell’ambito oggettivo del
giudicato, e dunque non si pone in contrasto con lo stesso, un provvedimento
che, senza incidere sulla titolarità del bene, imponga sullo stesso ex
novo (e, quindi, ex nunc) una servitù, trattandosi di ipotesi
affatto diversa da quella inibita dal giudicato e assolutamente coerente
con, e anzi presupponente, il mantenimento della proprietà in capo al
privato
(Consiglio
di Stato, A.P.,
sentenza 18.02.2020 n. 5 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’utilizzo
seppur temporaneo ad attività di culto di un immobile avente una
destinazione ad ambiti industriali, artigianali, commerciali, direzionali palesa un utilizzo dello stesso non
compatibile con l’attuale destinazione, visto che in assenza di un conforme
titolo edilizio (permesso di costruire ai sensi dell’art. 52, comma 3-bis,
della legge regionale n. 12 del 2005), che consenta il cambio d’uso, non si
può accertare l’idoneità dell’immobile a sostenere il significativo aggravio
di carico urbanistico.
Invero, la destinazione funzionale a luogo di culto può dirsi
impressa allorché l’edificio costituisca un forte centro di aggregazione
umana e richieda quindi, attraverso l’acquisizione del permesso di
costruire, la verifica delle dotazioni di attrezzature pubbliche rapportate
a detta destinazione.
La necessità del titolo edilizio per cambio di destinazione discende dalla
diversità funzionale tra le attività commerciali o industriali/artigianali e
quelle culturali e di culto, che rappresentano categorie urbanistiche
autonome, cui si correla un differente carico insediativo, certamente
maggiore per le seconde.
Difatti, il fondamento di quanto in precedenza sostenuto è quello di
consentire all’Amministrazione comunale poter controllare (ex ante) la
conformità alla disciplina urbanistica delle strutture che, essendo
suscettibili di richiamare un notevole afflusso di persone, comportano un
conseguente notevole aggravio di carico urbanistico sul territorio.
---------------
3. Quanto alla regolazione della spese di giudizio, in assenza di
un accordo delle parti sul punto e al fine di verificare la soccombenza
virtuale, va sottolineato come nella fattispecie de qua sia stato chiesto al
Comune l’assenso ad adibire temporaneamente ad attività di culto un immobile
avente una destinazione, ancora attuale, ad ambiti industriali, artigianali,
commerciali, direzionali.
L’utilizzazione di tale immobile quale luogo di
preghiera, seppure in via temporanea, palesa un utilizzo dello stesso non
compatibile con l’attuale destinazione, visto che in assenza di un conforme
titolo edilizio (permesso di costruire ai sensi dell’art. 52, comma 3-bis,
della legge regionale n. 12 del 2005), che consenta il cambio d’uso, non si
può accertare l’idoneità dell’immobile a sostenere il significativo aggravio
di carico urbanistico (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 08.11.2013,
n. 2486, secondo cui la destinazione funzionale a luogo di culto può dirsi
impressa allorché l’edificio costituisca un forte centro di aggregazione
umana e richieda quindi, attraverso l’acquisizione del permesso di
costruire, la verifica delle dotazioni di attrezzature pubbliche rapportate
a detta destinazione).
La necessità del titolo edilizio per cambio di destinazione discende dalla
diversità funzionale tra le attività commerciali o industriali/artigianali e
quelle culturali e di culto, che rappresentano categorie urbanistiche
autonome, cui si correla un differente carico insediativo, certamente
maggiore per le seconde (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 30.09.2019, n. 2053; 18.06.2019, n. 1411).
Difatti, il fondamento di quanto in precedenza sostenuto è quello di
consentire all’Amministrazione comunale poter controllare (ex ante) la
conformità alla disciplina urbanistica delle strutture che, essendo
suscettibili di richiamare un notevole afflusso di persone, comportano un
conseguente notevole aggravio di carico urbanistico sul territorio
(Consiglio di Stato, VI, 05.07.2019, n. 4681)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.02.2020 n. 317 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: L’art.
97 d.lgs. n. 50/2016 attribuisce la competenza ad effettuare la verifica
dell’anomalia dell’offerta, alla “stazione appaltante”, senza specificare a
quale organo della stessa.
L'art. 31 d.lgs. n. 50/2016, oltre a indicare alcuni specifici compiti del
R.U.P., ne delinea la competenza in termini residuali, precisando che "quest'ultimo,
svolge tutti i compiti relativi alle procedure di programmazione,
progettazione, affidamento ed esecuzione previste dal presente codice, che
non siano specificatamente attribuiti ad altri organi o soggetti";
Tra i compiti espressamente attribuiti alla commissione giudicatrice di cui
all'art. 77 d.lgs. n. 50/2016 non figura la verifica dell'anomalia
dell'offerta, ragione per cui tale attività deve essere ricompresa nella
competenza del R.U.P..
---------------
Per giurisprudenza consolidata, il giudizio circa l'anomalia o l'incongruità
dell'offerta è tipica espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile
dal giudice amministrativo solo in caso di macroscopica illogicità o di
erroneità fattuale.
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Con il primo motivo la ricorrente ha contestato la legittimità del
provvedimento di esclusione –e in via subordinata del bando di gara- in
quanto la verifica di congruità dell’offerta non è stata effettuata dalla
commissione giudicatrice, ma da due tecnici i quali non sarebbero “esperti
nello specifico settore cui afferisce l’oggetto del contratto”, in
violazione dell’art. 77, d.lgs. n. 50/2016: trattandosi di un geometra e un
architetto sarebbe preclusa loro ogni valutazione che riguardi opere
idrauliche.
La censura è infondata.
L’art. 97 d.lgs. n. 50/2016 attribuisce la competenza ad effettuare la
verifica dell’anomalia dell’offerta, alla “stazione appaltante”,
senza specificare a quale organo della stessa.
L'art. 31 d.lgs. n. 50/2016, oltre a indicare alcuni specifici compiti del
R.U.P., ne delinea la competenza in termini residuali, precisando che "quest'ultimo,
svolge tutti i compiti relativi alle procedure di programmazione,
progettazione, affidamento ed esecuzione previste dal presente codice, che
non siano specificatamente attribuiti ad altri organi o soggetti";
Tra i compiti espressamente attribuiti alla commissione giudicatrice di cui
all'art. 77 d.lgs. n. 50/2016 non figura la verifica dell'anomalia
dell'offerta, ragione per cui tale attività deve essere ricompresa nella
competenza del R.U.P. (cfr. Tar Campania, Napoli, sez. I, 11/03/2019, n.
1382; Cons. Stato, sez. V, 19.11.2018, n. 6522).
Nel caso di specie, in cui la valutazione di anomalia è stata effettuata dal
RUP, con l’ausilio di due dipendenti del Consorzio (un geometra e un
architetto) il provvedimento impugnato non è pertanto affetto dai vizi
dedotti.
In particolare, non viene in rilievo il divieto -invocato dalla ricorrente-
per geometri e architetti di svolgere attività professionale implicante
valutazioni in materia di opere idrauliche, con riferimento a un giudizio
che ha ad oggetto la congruità dell’offerta e che, in forza di quanto si è
affermato, è attribuito dalla legge alla competenza del responsabile unico
del procedimento.
Con il secondo motivo viene contestato che:
- l’amministrazione avrebbe espresso un giudizio avente ad oggetto
non già l’offerta nel suo complesso, bensì singoli elementi della stessa: il
Consorzio avrebbe analizzato soltanto 50 categorie della lista di 125
categorie di lavorazioni e solamente una delle 50 (la tempistica del
trasporto o l’utilizzo di mezzi d’opera) sarebbe stata ritenuta non congrua;
- la valutazione di congruità sarebbe poi viziata per difetto di
motivazione poiché non sarebbe dato comprendere quanto la peculiarità delle
lavorazioni di cui alle voci D24, D25, D26, D29, D30 e D33, relative alla
fornitura e posa in opera e collaudo di paratoia (legata alla circostanza
che la fornitura è stata effettuata da una precedente impresa) abbia inciso
sul giudizio di congruità compiuto dal Consorzio; né sarebbe l’indicato
l’esito della verifica di tali voci;
- l’incidenza dei maggiori costi calcolati dall’amministrazione
sarebbe minima rispetto all’ammontare complessivo dell’offerta di gara. Non
sarebbero stati, poi, specificati, in maniera puntuale, gli elementi e il
criterio di calcolo che hanno condotto il Consorzio alla quantificazione di
tali costi;
- l’amministrazione non avrebbe tenuto conto del fatto che i costi
complessivi dell’appalto, sulla base dell’offerta della ricorrente,
sarebbero diminuiti in relazione alla riduzione dei tempi di utilizzo della
manodopera, mentre sarebbe incongruo il costo della manodopera stimato dal
Consorzio nel capitolato;
- i maggiori costi contestati, nell’economia generale dell’appalto,
verrebbero assorbiti nell’utile di impresa, valutato nella misura pari al
10% dell’offerta complessiva;
- quanto ai tempi di esecuzione di alcune lavorazioni, essi
troverebbero giustificazione nell’utilizzo di operai specializzati; la
sostenibilità del livello realizzativo proposto dalla ricorrente sarebbe
comprovata anche da una comunicazione del fornitore delle condotte, che ha
preventivato la posa di n. 10 barre da 12,00 ml cadauna al giorno per le
condotte in PRFV, per un totale quindi di 120 ml di barra al giorno (e non
di 133 ml, come affermato dal Consorzio).
La censura è infondata.
Per giurisprudenza consolidata, il giudizio circa l'anomalia o l'incongruità
dell'offerta è tipica espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile
dal giudice amministrativo solo in caso di macroscopica illogicità o di
erroneità fattuale (cfr., tra le tante, Cons. Stato, sez. V, 17.05.2018, n.
2953; 24.08.2018, n. 5047; sez. III, 18.09.2018, n. 5444
(TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 17.02.2020 n. 130 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Impugnazione
con atto di motivi aggiunti dell’aggiudicazione se l’ammissione di altro
concorrente è stato impugnato con rito super accelerato.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Aggiudicazione – impugnazione –
Con motivi aggiunti – Impugnazione ammissione con rito super accelerato -
Ammissibilità dei motivi aggiunti.
E’ ammissibile l’atto di motivi aggiunti proposto
per gravare l’aggiudicazione intervenuta nelle more del giudizio iniziato
con l’impugnazione dell’ammissione di altro concorrente con rito super
accelerato ai sensi dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. (1).
---------------
(1) Ha ricordato il C.g.a. che comma 7 ratione temporis vigente
dell’art. 120 c.p.a. dispone, con riferimento al primo grado di giudizio,
che “i nuovi atti attinenti la medesima procedura di gara devono essere
impugnati con ricorso per motivi aggiunti” e ciò “ad eccezione dei casi di
cui al comma 2-bis” (deroga inserita proprio dalla fonte che ha
introdotto i commi 2-bis e 6-bis nell’articolo in esame).
La regola dettata dal comma 7 si compone di due prescrizioni.
La prima stabilisce l’obbligo di impugnazione con motivo aggiunti degli atti
successivi a quelli già impugnati nell’ambito delle procedure di affidamento
di cui all’art. 120, comma 1, c.p.a.. Posto che gli atti successivi (lesivi)
debbono essere impugnati pena il venir meno dell’interesse a ricorrere
avverso i primi, il gravame deve essere disposto, in ragione del principio
di concentrazione, davanti al medesimo giudice al fine di assicurare il
simultaneus processus. D’altro canto la legittimazione a impugnare gli
atti successivi, aggiudicazione inclusa, deriva dalla proposizione del
giudizio relativo alla fase antecedente.
La concentrazione processuale garantita dal comma 7 dell’art. 120 c.p.a. è
il portato di siffatta relazione bidirezionale che collega le condizioni
dell’azione esercitata con l’impugnazione degli atti precedenti rispetto
alle condizioni di ammissibilità del gravame avente ad oggetto i
provvedimenti successivi.
La seconda prescrizione stabilisce la mancanza dell’obbligo (di impugnazione
con motivi aggiunti) in relazione agli atti che seguono i provvedimenti di
ammissione ed esclusione impugnati ai sensi dell’art. 120, comma 2-bis,
c.p.a..
Il tenore letterale del comma 7 non si spinge oltre. L’unica indicazione che
stabilisce è quella relativa all’eccezione rispetto all’obbligo di impugnare
con motivi aggiunti gli atti successivi delle procedure di affidamento. Dal
che deriva l’assenza dell’imposizione di gravare con motivi aggiunti i
provvedimenti posteriori (con conseguente perdurante facoltà di presentare
motivi aggiunti verso tali atti), che è cosa diversa dal divieto di
impugnarli con motivi aggiunti.
Il tenore letterale del comma 7 non supporta pertanto, dal punto di vista
letterale, la previsione del divieto di presentazione di motivi aggiunti
successivi a un ricorso presentato ai sensi del comma 2-bis.
Né la ratio dell’istituto introdotto con il comma 2-bis depone nel senso di
interpretarlo quale divieto di impugnare i provvedimenti posteriori con
motivi aggiunti.
La suddetta previsione (l’eccezione contenuta nel comma 7), infatti, si
inscrive e si giustifica in relazione al rito superaccelerato introdotto con
il comma 2-bis, che muove da una concezione bifasica della gara, in cui la
fase preliminare dell’ammissione, all’esito dell’accertamento dei requisiti
di partecipazione, precede quella della valutazione delle offerte.
Specularmente è stato introdotto, con il comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a.,
un meccanismo processuale che riproduce e assicura la biforcazione del
procedimento ad evidenza pubblica, distinguendo fra impugnazione dei
provvedimenti che individuano i soggetti idonei a parteciparvi e gravame
relativo agli atti successivi.
L’obiettivo della legge 28.01.2016, n. 11, art. 1, comma 1, lett. bbb),
attuato dall’art. 204, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 50 del 2016 con
l’introduzione dei commi 2-bis e 6-bis nell’art. 120 c.p.a., è la
cristallizzazione definitiva della platea dei concorrenti prima
dell’aggiudicazione. In particolare, con esso il Governo è stato delegato a
introdurre “un rito speciale in camera di consiglio che consente
l’immediata risoluzione del contenzioso relativo all’impugnazione dei
provvedimenti di esclusione dalla gara o di ammissione alla gara per carenza
dei requisiti di partecipazione”, laddove immediata sta per anteriore al
successivo svolgimento della procedura di gara, ossia alla (fase della
valutazione delle offerte che culmina con il provvedimento di)
aggiudicazione.
L’istituto processuale immesso nel codice per il raggiungimento
dell’obiettivo di cristallizzare in via definitiva la platea dei concorrenti
prima dell’aggiudicazione si basa sull’onere d’immediata impugnazione della
(propria) esclusione e delle (altrui) ammissioni (art. 120, comma 2-bis, c.p.a.), con annessa preclusione della deduzione di vizi attinenti alla fase
preliminare dell’ammissione in sede di impugnazione dei successivi
provvedimenti di aggiudicazione (“L’omessa impugnazione preclude la
facoltà di far valere l’illegittimità derivata dei successivi atti delle
procedure di affidamento anche con ricorso incidentale”). Esso è
accompagnato dall’introduzione, al comma 6 bis dell’art. 120 c.p.a., di
termini acceleratori del giudizio riguardante la fase preliminare della gara
(da cui l’appellativo di giudizio superaccelerato), finalizzati a coadiuvare
il raggiungimento dell’obiettivo.
Il suddetto schema processuale comporta, almeno nella fisiologia del suo
atteggiarsi, che la legittimazione all’impugnazione dell’aggiudicazione si
fondi non sulla mera proposizione del gravame (così come invece succede
nelle altre fattispecie nella quale interviene la regola generale di cui al
comma 7) ma sulla definizione giurisdizionale dell’ammissione del
concorrente.
Viene pertanto meno quella correlazione che spiega il simultaneus
processus in relazione alla regola generale contenuta nel comma 7
dell’art. 120 c.p.a.: non si pone un problema di impugnazione degli atti
successivi al fine di evitare il sopravvenuto difetto di interesse, né si
prospetta una legittimazione fondata sulla proposizione del primo ricorso,
posto che il giudizio introdotto da quest’ultimo si è ormai definito.
A fronte della regola generale che chiede l’impugnazione con motivi aggiunti
degli atti successivi delle procedure di affidamento rispetto a quelli già
gravati, l’eccezione dettata nel comma 7 è funzionale a non intralciare lo
scopo del rito superaccelerato, che vuole la predefinizione, anche
giurisdizionale, della platea dei partecipanti alla gara.
La finalità del giudizio superaccelerato ne segna la ragion d’essere e
influenza i limiti applicativi
(CGARS,
sentenza 14.02.2020 n. 123 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Danno
da ritardo nel rilascio di una concessione demaniale marittima.
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Risarcimento danni – Danno da ritardo - Concessione demaniale marittima –
Rilascio – Ritardo – Colpa del Comune - Oscurità e contraddittorietà della
normativa di settore sui porti turistici - Inconfigurabilità del danno da
ritardo.
In tema di risarcimento danni da ritardo nel
rilascio della concessione demaniale marittima e specchio acqueo finalizzati
alla realizzazione di un complesso turistico ricettivo e porto turistico non
è configurabile la colpa di un Comune error iuris scusabile per oscurità e
contraddittorietà della normativa di settore sui porti turistici (1).
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(1) Si veda ad
esempio la sovrapposizione e la confusione tra accordo di programma ex
d.P.R. n. 447 del 1998 e conferenza di servizi ex d.P.R. n. 509 del 1997. Il
che, ponendo le amministrazioni, anche loro malgrado, in condizione di non
poter identificare con certezza i procedimenti e le modalità procedimentali
del loro doveroso agire, e prima ancora le loro competenze al riguardo, è
ragionevolmente a base del risultato lesivo da ritardo
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.02.2020 n. 1181 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Il
soccorso istruttorio non è applicabile per le offerte tecniche.
Nelle gare pubbliche per l’affidamento di un contratto,
la stazione appaltante non può consentire ad un partecipante, tramite
soccorso istruttorio, di sostituire ovvero completare l’originaria offerta,
carente di alcune essenziali specifiche, prescritte a pena di esclusione dal
capitolato speciale di appalto, con una successiva offerta, perché in questo
modo si avrebbe incertezza assoluta o indeterminatezza del contenuto della
proposta contrattuale in violazione della par condicio competitorum.
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E’ dunque accaduto –e sul punto nulla contesta l’A.- che l’originaria
offerta tecnica proposta da OE.GR., in tutta evidenza carente di talune
specifiche essenziali prescritte dal capitolato speciale di appalto, sia
stata sostituita da una successiva (anch’essa parzialmente incompleta) il
che contrasta chiaramente col principio di immutabilità dell’offerta
tecnica, in quanto la stazione appaltante non può consentire di modificare o
integrare il contenuto dell'offerta tecnica di gara con il cd. soccorso
istruttorio e così determinare incertezza assoluta o indeterminatezza del
suo contenuto in violazione della par condicio competitorum
(Consiglio di Stato sez. V, 03/04/2018, n. 2069; 04/04/2019, n. 2219) .
Il ricorso è pertanto fondato e va accolto col conseguente annullamento
dell’impugnata aggiudicazione e la declaratoria di inefficacia del contratto
di appalto, ove effettivamente stipulato. In considerazione di ciò non si fa
luogo all'esame della domanda di risarcimento del danno per equivalente,
proposta solo in via subordinata (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 14.02.2020 n. 359 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Barriere
architettoniche, il Comune che non le elimina discrimina indirettamente il
consigliere disabile.
Il Comune attua una forma di «discriminazione indiretta» contro il
consigliere disabile se non rimuove le barriere architettoniche che gli
impediscono di accedere "in via autonoma" alla sala consiliare. L'ente
locale è tenuto a risarcirgli i danni subiti in relazione a tutto il periodo
in cui il suo diritto di accesso è stato impedito a meno dell'aiuto di
terzi, per quanto messi a disposizione dall'ente stesso. E, la successiva
installazione di un'ascensore per disabili non cancella i disagi subiti che
sono appunto il danno ingiusto risarcibile in termini di responsabilità
aquiliana.
La Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la
sentenza 13.02.2020 n. 3691 conferma -a carico del Comune- il
risarcimento del danno, quantificato in via equitativa, in favore del
consigliere penalizzato dalla mancata predisposizione di modifiche
architettoniche o di sistemi ad hoc per rendere accessibili i luoghi
pubblici di sua appartenenti a chi sia portatore di disabilità.
A nulla rilevando che in alternativa al sostegno fisico del personale
comunale di servizio il Comune avesse anche deciso di tenere le assemblee
consiliari nella palestra elementare proprio per favorire il consigliere in
difficoltà. Si tratta, comunque di quella discriminazione indiretta -a norma
del comma 3 dell'articolo 2 della legge 67/2006- che non è mirata contro una
singola persona concretamente danneggiata dallo stato dei luoghi, ma rileva
per la sua potenzialità lesiva dei diritti dei disabili coinvolti dalla
situazione di fatto.
Quindi la mancanza di volontà di discriminare una specifica persona non fa
venir meno la violazione dei diritti costituzionalmente garantiti ai
portatori di handicap fisico.
L'elemento soggettivo che rileva non è l'intenzione volontaria o colpevole
di arrecare un danno, ma la negligenza e la mera inerzia del soggetto
chiamato ad adempiere al dovere di rimuovere le barriere architettoniche per
consentire il corrispondente esercizio del diritto all'accessibilità. Come
dice la Cassazione la discriminazione indiretta si realizza anche con «comportamenti
neutri». Mentre non è elemento neutro, bensì fonte di responsabilità
aquiliana, la mancata predisposizione di mezzi tesi a migliorare l'accesso
dei disabili agli edifici già costruiti, in attesa di interventi definitivi
maggiormente migliorativi per l'esercizio del relativo diritto.
Infatti, per tale motivo la Cassazione ha confermato il ragionamento dei
giudici di appello che avevano respinto la lamentela del Comune sul proprio
obbligo di risarcire, in quanto aveva predisposto un mezzo ("trattorino")
che seppur non adeguato a garantire l'accesso autonomo del disabile
dimostrava l'intenzione di superamento delle barriere architettoniche.
Invece, nelle more dell'intervento edilizio risolutivo sussiste la
responsabilità anche per la misura provvisoria inadeguata allo scopo.
Ovviamente tale qualità di adeguatezza (in questo caso, di un montascale
piuttosto che di un trattorino) è valutazione di merito non ridiscutibile in
sede di legittimità.
Infine il Comune contestava la liquidazione del danno in via equitativa
facendo rilevare il proprio sforzo di contemperare i limiti fisici di un
edificio anni '50 con l'esigenza di accedere da parte del consigliere
disabile. La Cassazione fa notare che è l'inadeguatezza dell'azione messa in
campo a tutela della persona disabile a determinare il vulnus
risarcibile. In questo caso si è trattato della predisposizione di un mezzo
insicuro e non utilizzabile in via autonoma da parte del fruitore.
Conclude la Cassazione che in sede di legittimità è insindacabile il
giudizio del giudice di merito che ravvisa i presupposti del risarcimento in
via equitativa, mentre deve essere percepibile e quindi ricorribile in
Cassazione l'eventuale carenza motivazionale sul calcolo del quantum (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
14.02.2020).
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MASSIMA
6. Il ricorso va rigettato.
6.1. In particolare, il primo motivo è in parte non fondato e in
parte inammissibile.
6.1.1. La censura è, in particolare, non fondata, laddove pretende di
attribuire natura programmatica alle norme che impongono l'eliminazione
delle barriere architettoniche.
Giova premettere, al riguardo, come questa Corte abbia già affermato che
l'esistenza di "ampia definizione legislativa e regolamentare di
barriere architettoniche e di accessibilità rende la normativa sull'obbligo
dell'eliminazione delle prime, e sul diritto alla seconda per le persone con
disabilità, immediatamente precettiva ed idonea a far ritenere prive di
qualsivoglia legittima giustificazione la discriminazione o la situazione di
svantaggio in cui si vengano a trovare queste ultime", consentendo loro
"il ricorso alla tutela antidiscriminatoria, quando l'accessibilità sia
impedita o limitata" ciò, a prescindere, "dall'esistenza di una norma
regolamentare apposita che attribuisca la qualificazione di barriera
architettonica ad un determinato stato dei luoghi"
(così, in motivazione Cass. Sez. 3, sent. 23.09.2016, n. 18762, Rv.
642103-02).
Una conclusione, questa, che appare del tutto in linea con
la necessità di assicurare alla normativa suddetta un'interpretazione
conforme a Costituzione, se è vero che -come sottolinea la stessa
giurisprudenza costituzionale- l'accessibilità "è divenuta una «qualitas»
essenziale" perfino "degli edifici privati di nuova costruzione ad uso di
civile abitazione, quale conseguenza dell'affermarsi, nella coscienza
sociale, del dovere collettivo di rimuovere, preventivamente, ogni possibile
ostacolo alla esplicazione dei diritti fondamentali delle persone affette da
handicap fisici" (così, Corte
cost., sent. n. 167 del 1999; nello stesso senso, Corte cost. sent. n. 251
del 2008).
Del pari, si è sottolineato come "il superamento delle
barriere architettoniche -tra le quali rientrano, ai sensi dell'art. 1,
comma 2, lettera b), del d.P.R. n. 503 del 1996, gli «ostacoli che limitano
o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di spazi,
attrezzature o componenti»- è stato previsto (comma 1 dell'art. 27 della
legge n. 118 del 1971) «per facilitare la vita di relazione» delle persone
disabili", evidenziandosi che tali principi "rispondono all'esigenza di una
generale salvaguardia della personalità e dei diritti dei disabili e trovano
base costituzionale nella garanzia della dignità della persona e del
fondamentale diritto alla salute degli interessati, intesa quest'ultima nel
significato, proprio dell'art. 32 Cost., comprensivo anche della salute
psichica oltre che fisica"
(così, nuovamente, Corte cost. sent. n. 251 del 2008).
6.1.2. Il motivo è, invece, addirittura inammissibile laddove il ricorrente
deduce di aver ottemperato al dovere di apportare all'edificio municipale "tutti
quegli accorgimenti che possano migliorarne la fruibilità da parte dei
disabili", attraverso la messa disposizione del "trattorino",
lamentando, così, la violazione, in particolare, dell'art. 1, comma 3, del
d.P.R. n. 503 del 1996.
Così prospettata, infatti, la censura fuoriesce dalla portata applicativa
dell'art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ., e ciò alla stregua del
principio secondo cui "il vizio di violazione di legge consiste nella
deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato,
della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica
necessariamente un problema interpretativo della stessa; l'allegazione di
un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze
di causa" -che è quanto si lamenta nel caso di specie, dal momento che
ci si duole del fatto che il "trattorino" non sia stato ritenuto
accorgimento idoneo ad migliore la fruibilità dell'edificio municipale in
attesa dell'installazione dell'ascensore- "è, invece, esterna all'esatta
interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice
di merito, sottratta al sindacato di legittimità" (da ultimo, "ex
multis", Cass. Sez. 1, ord. 13.10.2017, n. 24155, Rv. 645538-03, nonché
Cass. Sez. 3, ord. 13.03.2018, n. 6035, Rv. 648414-01).
Lo stesso è a dirsi della dedotta errata interpretazione dell'art. 2 della
legge n. 67 del 2006, giacché la censura è basata sull'assunto che esso
Comune si sarebbe tempestivamente attivato per l'installazione
dell'ascensore, ovvero su una valutazione fattuale, preclusa in questa sede,
essendo inammissibile il motivo di ricorso per cassazione "con cui si
deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà,
alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da
realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un
nuovo, non consentito, terzo grado di merito" (da ultimo, Cass. Sez. 3,
ord. 04.04.2017, n. 8758, Rv. 643690-01).
6.2. Il secondo motivo è anch'esso in parte non fondato e in parte
inammissibile.
6.2.1. Va, innanzitutto, esaminata la censura secondo cui la sentenza
impugnata avrebbe omesso del tutto "la valutazione dell'elemento
soggettivo dell'azione del Comune volta al superamento della barriera
architettonica", e ciò minimizzando l'installazione del cd. "trattorino".
Al riguardo, deve osservarsi -nel ribadire, peraltro, che il riconoscimento
del carattere discriminatorio di "una disposizione, un criterio, una
prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri" in
ogni caso "presuppone la verifica della sussistenza degli elementi
soggettivi ed oggettivi dell'illecito aquiliano ai sensi dell'art. 2043 cod.
civ., al quale va ricondotta la fattispecie prevista dall'art. 3, comma 3,
della legge n. 67 del 2006" (cfr. Cass. Sez. 3, sent. n. 18762 del 2016,
cit.)- che tale censura, ancora una volta, finisce con il risolversi nella
richiesta di un apprezzamento di fatto sulla idoneità del "trattorino"
a garantire l'accessibilità all'edificio municipale, non consentita in
questa sede, donde la sua inammissibilità.
6.2.2. Quanto, invece, alla censura che investe la determinazione del
risarcimento del danno, va evidenziato -nel senso, questa volta, della non
fondatezza- come quello previsto dalla norma in esame sia uno sistema
equitativo di liquidazione del danno.
Di conseguenza, trovano applicazione i principi secondo cui "l'esercizio,
in concreto, del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il
danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di
legittimità", purché a condizione -soddisfatta nel caso che occupa- che
"la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell'uso di tale
facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito" (da ultimo,
Cass. Sez. 3, sent. 13.10.2017, n. 24070, Rv. 645831-01; in senso analogo
Cass. Sez. 1, sent. 15.03.2016, n. 5090, Rv. 639029-01), restando, poi,
inteso che "al fine di evitare che la relativa decisione si presenti come
arbitraria e sottratta ad ogni controllo", occorre che il giudice
indichi, anche solo "sommariamente e nell'ambito dell'ampio potere
discrezionale che gli è proprio, i criteri seguiti per determinare l'entità
del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al
«quantum»" (Cass. Sez. 3, sent. 31.01.2018, n. 2327, Rv. 647590-01),
senza però che egli sia "tenuto a fornire una dimostrazione minuziosa e
particolareggiata di un univoco e necessario rapporto di consequenzialità di
ciascuno degli elementi esaminati e l'ammontare del danno liquidato, essendo
sufficiente che il suo accertamento sia scaturito da un esame della
situazione processuale globalmente considerata" (Cass. Sez. 3, sent.
10.11.2015, n. 22885, Rv. 637822-01).
Nel caso di specie, la Corte marchigiana, nell'operare la quantificazione,
ha dichiarato di aver "tenuto conto della destinazione d'uso del
fabbricato interessato, della qualifica rivestita all'epoca dall'istante,
nonché del periodo di tempo per il quale si è protratta la situazione di
inadempienza dell'ente territoriale", così indicando i criteri seguiti
nella determinazione del "quantum". |
URBANISTICA: Sovradimensionamento
degli standard.
E' illegittima una
previsione di un PGT che stabilisce uno
standard pari a 85 mq/abitante, superiore a
quello indicato dall’art. 9, comma 3, della
l.r. n. 12 del 2005 e anche più elevato di
quello già stabilito dal previgente
strumento urbanistico, nonostante il
territorio comunale fosse già dotato di
molte aree a servizi e una buona parte degli
stessi non fosse stata ancora attuata.
Ciò appare coerente con la giurisprudenza
secondo la quale il comune è tenuto a
motivare in maniera idonea e congrua sulle
ragioni che impongono l’aumento degli
standard rispetto alle previsioni normative,
in caso contrario risultando illegittima una
tale scelta; difatti, la motivazione
rafforzata deve investire il complesso delle
previsioni urbanistiche di
sovradimensionamento e deve, quindi,
chiarire perché il comune abbia inteso
superare i limiti minimi previsti dalla
legge
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 13.02.2020 n. 305 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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3. Con la seconda censura si assume
il sovradimensionamento, ingiustificato e in
contraddizione con le linee di azione
formulate dalla stessa Amministrazione,
delle aree per servizi, per un rapporto
passato da una precedente previsione di 68
mq/abitante all’attuale 85 mq/abitante, pur
prevedendo la legge un indice pari a 18
mq/abitante.
3.1. La doglianza è fondata.
La difesa comunale ha evidenziato che
nell’ambito del P.G.T., in varie parti, sono
contenute le motivazioni che hanno indotto
il Comune a prevedere una così elevata
dotazione di standard, che sarebbero perciò
idonee a giustificare una tale scelta.
Tuttavia tali motivazioni, peraltro sparse
in più documenti, non sembrano legittimare
la scelta di aumentare in maniera così
consistente, ovvero a 85 mq/abitante, le
dotazioni già previste in precedenza, pari a
68 mq/abitante, e già ampiamente
sovradimensionate rispetto alla previsione
di legge (18 mq/abitante).
Tra l’altro, alle predette aree destinate a
servizi si aggiungeranno anche quelle che
verranno realizzate e cedute nell’ambito
della pianificazione attuativa.
Inoltre, negli stessi documenti
pianificatori si dà atto che “il
territorio comunale possiede una ricca e
articolata dotazione di aree a verde: dal
verde di quartiere sino ad aree di
forestazione urbana, dai parchi urbani e gli
impianti sportivi al verde di arredo e verde
stradale, dalle aree agricole a vere e
proprie articolazioni di sistemi di spazi
aperti verdi quali il Parco del Seveso e il
Parco Sovracomunale del GrugnotortoVilloresi”
(all. 15 del Comune, pag. 39).
E ancora, va segnalato che lo stato di
attuazione dei servizi previsti dalla
strumentazione urbanistica previgente non è
completo, ma riguarda soltanto il 55% della
complessiva previsione di servizi (all. 15
del Comune, pag. 34).
Da ciò discende l’illegittimità della
previsione che stabilisce uno standard pari
a 85 mq/abitante, notevolmente superiore a
quello indicato dall’art. 9, comma 3, della
legge regionale n. 12 del 2005 e anche più
elevato di quello già stabilito dal
previgente strumento urbanistico, nonostante
il territorio comunale sia già dotato di
molte aree a servizi e una buona parte degli
stessi non sia stata ancora attuata.
Ciò appare coerente con la giurisprudenza di
questo Tribunale, secondo la quale il Comune
è tenuto a motivare in maniera idonea e
congrua sulle ragioni che impongono
l’aumento degli standard rispetto alle
previsioni normative, in caso contrario
risultando illegittima una tale scelta (TAR
Lombardia, Milano, IV, 30.07.2018, n. 1863).
Difatti, “la motivazione rafforzata deve
investire il complesso delle previsioni
urbanistiche di sovradimensionamento e deve,
quindi, chiarire perché il Comune abbia
inteso superare i limiti minimi previsti
dalla legge” (TAR Lombardia, Milano, II,
15.07.2016, n. 1429; di recente, II,
12.11.2019, n. 2380). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Zone sottoposte a vincolo cimiteriale – Responsabilità del
direttore dei lavori/progettista per il reato di
lottizzazione abusiva cd. “materiale” o fisica – Artt.
27, 29, 30, 31, 42, 44, D.P.R. n. 380/2001 – Art. 338 del
regio decreto n. 1265 del 1934 (t.u. delle leggi sanitarie)
– Criterio di misura e calcolo del vincolo.
Poiché il vincolo cimiteriale di cui
all’art. all’art. 338 del r.d. n. 1265 del 1934 attiene al
governo del territorio e opera indipendentemente dal suo
recepimento negli strumenti urbanistici ed eventualmente
anche in contrasto con gli stessi, la sua violazione è da
sola sufficiente a configurare il reato di lottizzazione
abusiva, pur in presenza di un’attività edificatoria
formalmente autorizzata.
Quanto, poi, alla fascia di rispetto cimiteriale, la stessa
va misurata a partire non dal centro, ma dal muro di cinta
esterno del cimitero.
...
Fascia di rispetto cimiteriale – Distanza di almeno 200
metri dai centri abitati – Operatività della norma
indipendentemente dagli strumenti urbanistici – Manufatti
preesistenti e limiti alle opere edilizie – Inedificabilità
assoluta – Deroga al divieto di costruzione di nuovi edifici
– Misurazione della fascia di rispetto.
In materia di vincoli cimiteriali, l’art
338 del r.d. 27.07.1934, n. 1265 prescrive che i cimiteri
devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri
dai centri abitati e tale disposizione opera
indipendentemente dagli strumenti urbanistici ed
eventualmente anche in contrasto con gli stessi. In detta
fascia di rispetto cimiteriale è vietato sia costruire nuovi
edifici sia intervenire su manufatti preesistenti con opere
che comportino un’alterazione dei volumi o delle superfici.
Inoltre, in tema di inedificabilità assoluta, la deroga al
divieto di costruzione di nuovi edifici nel raggio di
duecento metri dal perimetro dei cimiteri è consentita
unicamente con riguardo all’esecuzione di un’opera pubblica
o all’attuazione di un intervento urbanistico, con
esclusione, quindi, dell’edilizia residenziale privata.
Infine, la fascia di rispetto cimiteriale prevista dall’art.
338, misurata a partire dal muro di cinta del cimitero,
costituisce un vincolo assoluto d’inedificabilità, tale da
imporsi anche a contrastanti previsioni di piano regolatore
generale, che non consente in alcun modo l’allocazione sia
di edifici che di opere incompatibili col vincolo medesimo,
in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale
fascia di rispetto intende tutelare e che sono da
individuarsi in esigenze di natura igienico-sanitaria, nella
salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi
destinati all’inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento
di un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale;
segue da ciò che non esiste ragione alcuna per ritenere tale
vincolo applicabile solo ai centri abitati e non ai
fabbricati sparsi, così come, ai fini dell’applicazione del
vincolo, appare ininfluente che, a distanza inferiore ai 200
metri, vi sia una strada, atteso che essa non interrompe la
continuità del vincolo.
...
Lottizzazione abusiva – Proscioglimento per intervenuta
prescrizione – Sussistenza del reato nei suoi elementi
oggettivo e soggettivo – Confisca del bene lottizzato –
Principio di protezione della proprietà – Sentenza di
condanna dell’ente – Qualifica di terzo estraneo – Limiti –
Requisito della buona fede – Necessità.
In tema di lottizzazione abusiva, il
proscioglimento per intervenuta prescrizione non osta alla
confisca del bene lottizzato ove sia stata comunque
accertata, con adeguata motivazione e nel contraddittorio
delle parti, la sussistenza del reato nei suoi elementi
oggettivo e soggettivo
(ex multis, Sez. 3, n. 8350 del 23/01/2019).
Ai fini della valutazione della conformità
della confisca al principio di protezione della proprietà di
cui all’art. 1 del Prot. n. 1 CEDU, assume rilievo anche
l’aspetto dell’individuazione dei beni oggetto della misura,
nel senso che il provvedimento ablatorio è legittimo se
limitato ai beni immobili direttamente interessati
dall’attività lottizzatoria e ad essa funzionali
(Sez. 3, n. 43119 del 17/07/2019; Sez. 3, n. 31282 del
27/03/2019; Sez. 3, n. 14743 del 14 20/02/2019).
Inoltre, la mancata partecipazione al
giudizio conclusosi con la sentenza di condanna dell’ente in
nome e per conto del quale l’attività illecita è stata posta
in essere non osta alla confisca, ex art. 44, comma 2, del
d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto allo stesso non può
attribuirsi la qualifica di terzo estraneo, per carenza del
necessario requisito della buona fede
(Sez. 3, n. 42115 del 19/06/2019).
...
Responsabilità del direttore dei lavori e progettista per il
reato di lottizzazione abusiva cd. “materiale” o
fisica – Determinante contributo causale – Artt. 27, 29, 30,
31, 42, 44, D.P.R. n. 380/2001 – Falsità ideologica commessa
dal privato in atto pubblico – Art. 483 cod. pen..
Il direttore dei lavori e progettista è
comunque responsabile per il reato di lottizzazione abusiva,
in quanto arrechi un determinante contributo causale alla
concreta attuazione del disegno criminoso, diretto a
condizionare la riserva pubblica di programmazione
territoriale, non potendosi dunque limitare la sua
responsabilità alla verifica della formale conformità delle
opere al permesso di costruire e alle modalità esecutive
stabilite dal medesimo.
E tale determinante contributo causale è stato certamente
arrecato dall’imputata nel caso di specie, vista l’assoluta
evidenza della violazione del vincolo cimiteriale, tanto
macroscopica da essere percepibile addirittura da soggetti
non dotati di particolari competenze tecniche; con la
conseguenza che a nulla può valere il richiamo operato dalla
difesa all’art. 29 del d.P.R. n. 380 del 2001, che
escluderebbe il progettista dal novero dei responsabili (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.02.2020 n. 5507 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Immobile abusivamente realizzato – Nozione di edificio
ultimato – Requisiti di agibilità o abitabilità –
Giurisprudenza.
In tema di reati edilizi, deve ritenersi
ultimato solo l’edificio concretamente funzionale che
possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità, di
modo che anche il suo utilizzo effettivo ancorché
accompagnato dall’attivazione delle utenze e dalla presenza
di persone al suo interno, non è sufficiente per ritenere
sussistente l’ultimazione dell’immobile abusivamente
realizzato, coincidente generalmente con la conclusione dei
lavori di rifinitura interni ed esterni (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.02.2020 n. 5507 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Offerte,
invarianza sulla soglia di anomalia. Evita gli effetti di modifiche a
posteriori.
Il principio di invarianza della soglia di anomalia ha lo scopo di
paralizzare gli effetti indiretti sulla verifica di anomalia delle offerte,
derivanti da modifiche incidenti a posteriori sul novero degli operatori
economici legittimamente partecipanti.
Lo ha affermato il Consiglio
di Stato, Sez. V, con la
sentenza del 12.02.2020 n. 1117 in ordine alla corretta
applicazione dell'articolo 95, comma 15, del codice appalti che afferma il
principio della tutela dello status quo cristallizzato al momento
della presentazione delle offerte.
L'articolo 95, comma 15, del codice dei contratti pubblici stabilisce che «ogni
variazione che intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia
giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o
esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo di medie nella
procedura, né per l'individuazione della soglia di anomalia delle offerte».
I giudici hanno fatto notare che gli effetti riflessi determinati dalle
variazioni intervenute, utilizzati consapevolmente ed in modo strumentale da
operatori economici che altrimenti non potrebbero conseguire
l'aggiudicazione, sono quelli che il legislatore ha inteso limitare per
contrapposte legittime esigenze di stabilità delle situazioni giuridiche
derivanti dalla gara.
Secondo il Consiglio di Stato la norma non può invece essere intesa nel
senso di vanificare la tutela giurisdizionale, oggetto di tutela
costituzionale (artt. 24 e 113 Cost.), e dunque di precludere le
impugnazioni non mosse dal sopra descritto intento emulativo. Semmai la
disposizione serve a contestare l'ammissione alla gara di imprese prive dei
requisiti di partecipazione o autrici di offerte invalide, che nondimeno
abbiano inciso sulla soglia di anomalia determinata in via automatica.
Sul punto va ricordato che con riguardo al primo degli interessi ora
menzionati, lo stesso, fino alla recente abrogazione ad opera del
decreto-legge 18.04.2019, n. 32 era per giunta oggetto di autonoma tutela,
con il cosiddetto rito super-accelerato sulle ammissioni ed esclusioni di
cui all'art. 120, comma 2-bis, del codice di procedura amministrativa
(articolo ItaliaOggi del 21.02.2020).
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SENTENZA
Deve premettersi al riguardo che l’interpretazione dell’art. 95, comma 15,
del codice dei contratti pubblici, che tale regola pone nei seguenti
termini: «Ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza di una
pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione,
regolarizzazione o esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo
di medie nella procedura, né per l’individuazione della soglia di anomalia
delle offerte», non è agevole.
Se incentrata sul piano strettamente letterale l’interpretazione della norma
porta alle conseguenze volute dal commissario straordinario con il
provvedimento impugnato nel presente giudizio.
12. Come sottolinea la Ca.Co. si tratta nondimeno di conseguenze aberranti,
nella misura in cui consentono la formazione di medie automatiche anche
consapevolmente inficiate da illegittime ammissioni di operatori economici,
le quali denotano un eccesso dei mezzi rispetto allo scopo perseguito con la
disposizione in esame, che la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha
infatti messo in luce, per elaborare soluzione una più equilibrata soluzione
sul piano della conformità ai principi generali in materia di contratti
pubblici e della ragionevolezza.
Il quale scopo consiste nell’evitare che concorrenti non utilmente collocati
in graduatoria promuovano giudizi meramente speculative e strumentali, e
mosse «dall’unica finalità, una volta noti i ribassi offerti e quindi gli
effetti delle rispettive partecipazioni in gara sulla soglia di anomalia, di
incidere direttamente su quest’ultima traendone vantaggio» (così Cons.
Stato, V, 30.07.2018, n. 4664, cui aderisce Cons. Stato, V, 02.09.2019, n.
6013; cfr. inoltre Cons. Stato, III, 27.04.2018, n. 2579).
Si tratta più precisamente delle impugnazioni contro gli atti di gara
proposte da imprese ad essa partecipanti che per la loro collocazione in
graduatoria e per la portata delle censure dalle stesse proposte non
potrebbero mai conseguire l’aggiudicazione, se non sfruttando a proprio
vantaggio gli automatismi insiti nelle modalità di formazione automatica
della soglia di anomalia propria delle procedure da aggiudicare al massimo
ribasso.
13. La norma è stata dunque intesa per paralizzare gli effetti riflessi
sulla soglia di anomalia, derivanti da modifiche incidenti a posteriori sul
novero degli operatori economici legittimamente partecipanti. A questo scopo
può in particolare essere valorizzato l’impiego del verbo atecnico “intervenire”:
«Ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia
giurisdizionale…», come appunto riferito ai riflessi sulla soglia di
anomalia e la conseguente graduatoria di gara derivanti da modifiche
concernenti le imprese in precedenza ammesse a presentare l’offerta.
Questi effetti riflessi, utilizzati consapevolmente ed in modo strumentale
da operatori economici che altrimenti non potrebbero conseguire
l’aggiudicazione, sono appunto quelli che il legislatore ha inteso limitare
per contrapposte legittime esigenze di stabilità delle situazioni giuridiche
derivanti dalla gara.
14. Secondo la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato la stessa norma
non può invece essere intesa nel senso di vanificare la tutela
giurisdizionale, oggetto di tutela costituzionale (artt. 24 e 113 Cost.), e
dunque di precludere le impugnazioni non mosse dal sopra descritto intento
emulativo, ma a contestare l’ammissione alla gara di imprese prive dei
requisiti di partecipazione o autrici di offerte invalide, che nondimeno
abbiano inciso sulla soglia di anomalia determinata in via automatica.
Sul punto va ricordato che con riguardo al primo degli interessi ora
menzionati, lo stesso, fino alla recente abrogazione ad opera del
decreto-legge 18.04.2019, n. 32 (Disposizioni urgenti per il rilancio del
settore dei contratti pubblici, per l’accelerazione degli interventi
infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di
eventi sismici; convertito dalla legge 14.06.2019, n. 55) era per giunta
oggetto di autonoma tutela, con il c.d. rito super-accelerato sulle
ammissioni ed esclusioni di cui all’art. 120, comma 2-bis cod. proc. amm.
(sulla necessità di fare salvo il rito sulle ammissioni rispetto alla regola
dell’invarianza della soglia di anomalia si veda in particolare la sopra
citata sentenza della III Sezione di questo Consiglio di Stato del
27.04.2018, n. 2579).
15. A quanto finora rilevato va aggiunto che prima ancora
dell’interpretazione conforme a costituzione rispetto al diritto di azione
in giudizio contro gli atti della pubblica amministrazione, la medesima
regola sull’invarianza della soglia ex art. 95, comma 15, del codice dei
contratti pubblici va contemperata con i principi di buon andamento ed
imparzialità dell’attività amministrativa, anch’essi di rango costituzionale
(art. 97 Cost.).
Per effetto del descritto contemperamento la rettifica della soglia di
anomalia derivante dall’illegittima ammissione di imprese prive dei
requisiti di partecipazione alla gara deve quindi essere consentita alla
stessa stazione appaltante avvedutasi di ciò (il profilo è posto in evidenza
nella citata sentenza del 27.04.2018, n. 2579, della III Sezione del
Consiglio di Stato).
La praticabilità di tale soluzione è stata affermata in particolare nel più
recente precedente di questa Sezione sopra richiamato (sentenza 02.09.2019,
n. 6013), sulla base del riferimento testuale operato dal medesimo art. 95,
comma 15, d.lgs. n. 50 del 2016 alla «fase di (…) regolarizzazione (…)
delle offerte».
Tale riferimento è stato inteso dalla Sezione come riferito «alle situazioni
in cui sia stato attivato il soccorso istruttorio», quando pertanto non può
dirsi ancora conclusa la fase di ammissione delle offerte e gli effetti di
invarianza e blocco da essa derivanti (in termini analoghi cfr. Cons. Stato,
V, 13.02.2017, n. 590, e 16.03.2016, n. 1052, in relazione alla
corrispondente disposizione del codice dei contratti pubblici, ora abrogato,
di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, ovvero l’art. 38, comma
2-bis). |
APPALTI: Sussiste
la competenza del R.u.p. all’adozione del provvedimento di esclusione dalla
procedura di gara degli operatori economici.
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5.1. Il motivo di appello pone la seguente questione: se il provvedimento di
esclusione di un operatore economico da una procedura di gara possa essere
adottato dalla commissione giudicatrice ovvero se esso rientri nella
competenza della stazione appaltante e, per essa, del R.u.p..
La questione assume rilevanza nel presente giudizio poiché, come provato dai
documenti versati in atti, e non contestato dalla controinteressata, il
provvedimento di esclusione dell’A.t.i. Gi.co. dalla procedura di gara in
esame è stato adottato dal Presidente della Commissione esaminatrice (sia
pure su carta intesta della Provincia di Caserta – ufficio Gare).
Il giudice di primo grado l’ha risolta assumendo che fino a quando l’operato
della commissione giudicatrice non è approvato dai competenti organi
dell’amministrazione appaltante, ovvero fino a quando non è adottato il
provvedimento di aggiudicazione, la commissione ha il potere di riesaminare
il procedimento di gara già stato espletato, riaprirlo ed emendarlo dagli
errori che sono stati commessi o dalle illegittimità verificatesi anche in
relazione all’ammissione o esclusione di un concorrente.
5.2. La questione non è nuova, poiché è stata già affrontata in diverse
pronunce di questo Consiglio di Stato ove, come riportato dall’appellante, è
stata ritenuta la competenza del R.u.p. all’adozione del provvedimento di
esclusione dalla procedura di gara degli operatori economici (cfr. Cons.
Stato, sez. V, 13.09.2018, n. 5371; III, 19.06.2017, n. 2983; V, 06.05.2015,
n. 2274; V, 21.11.2014, n. 5760).
Non v’è ragione per disattendere tale orientamento che trova conforto nel
dato normativo.
L’art. 77 d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (“Commissione giudicatrice”)
prevede che: “Nelle procedure di aggiudicazione di contratti di appalti o
di concessioni, limitatamente ai casi di aggiudicazione con il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa, la valutazione delle offerte
dal punto di vista tecnico ed economico è affidata ad una commissione
giudicatrice, composta di esperi nello specifico settore cui afferisce
l’oggetto del contratto”.
La disposizione definisce, insieme, la funzione della commissione
giudicatrice e i limiti della sua competenza; essa svolge un’attività di
giudizio consistente nella valutazione delle offerte dal punto di vista
tecnico ed economico in qualità di organo straordinario e temporaneo della
stazione appaltante con funzioni istruttorie.
E’, dunque, preclusa alla commissione giudicatrice ogni altra attività che
non sia di giudizio in senso stretto, compresa, in particolare, la verifica
della regolarità delle offerte e della relativa documentazione; la quale,
ove sia stata in concreto svolta (normalmente, su incarico
dell’amministrazione, ma anche in mancanza di specifico incarico), deve
essere poi verificata e fatta propria della stazione appaltante.
Con riferimento al provvedimento di esclusione dalla procedura, del quale si
discute nel presente giudizio, quanto in precedenza sostenuto trova
conferma, nell’art. 80 (“Motivi di esclusione”) d.lgs. n. 50 cit.
che, in più occasioni (e, precisamente, ai commi 5, 6, 8, 10–bis) individua
nella “stazione appaltante” il soggetto tenuto ad adottare il
provvedimento di esclusione dell’operatore economico.
Nell’odierna vicenda non v’è prova che l’esclusione per irregolarità della
documentazione sia stata verificata dalla stazione appaltante, tanto non è
possibile evincere, infatti, dalla circostanza che il Presidente della
commissione abbia utilizzato carta intestata della Provincia.
5.3. La sentenza di primo grado, pertanto, non può essere condivisa, poiché
risolve la questione della competenza ad adottare il provvedimento di
esclusione facendo applicazione di un criterio di carattere temporale, che,
per come inteso, sembrerebbe fare della commissione giudicatrice l’unico
organo della procedura di gara dalla sua nomina al momento dell’adozione del
provvedimento di aggiudicazione e competente, per questo, ad adottare tutti
gli atti della procedura.
Il criterio temporale non trova, tuttavia, riscontro nel dato normativo:
l’art. 31, comma 3, d.lgs. n. 50 cit. riconosce, infatti, la competenza
generale del R.u.p. a svolgere tutti i compiti (id est, ad adottare
tutti gli atti della procedura), “che non siano specificatamente
attribuiti ad altri organi o soggetti”, ulteriormente precisando, al
comma 4, lett. c), che spetta al R.u.p. “cura(re) il corretto e razionale
svolgimento delle procedure”, così chiarendo che egli continua ad
operare anche dopo la nomina della commissione giudicatrice
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.02.2020 n. 1104 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ESPROPRIAZIONE: Effetti
del decreto di acquisizione sanante intervenuto in corso di giudizio alla
luce dei principi di recente affermati in merito dall’Adunanza Plenaria.
---------------
●
Espropriazione per pubblica utilità – Acquisizione sanante - Domande di
restituzione e di risarcimento del danno - Presentazione - Conseguenza.
●
Espropriazione per pubblica utilità – Acquisizione sanante - Domande di
risarcimento del danno - Effetto traslativo della proprietà - Esclusione.
Errore scusabile - Riconoscibilità.
●
L’adozione, da parte della P.A., di un provvedimento di acquisizione sanante
ai sensi dell’art. 42-bis, d.P.R. n. 327 del 2001, determina l'improcedibilità
delle domande di restituzione e di risarcimento del danno proposte in
relazione ad esse, salva la formazione del giudicato non solo sul diritto
del privato alla restituzione del bene, ma anche sulla illiceità del
comportamento della P.A. e sul conseguente diritto del primo al risarcimento
del danno; tale provvedimento, infatti, costituisce l’unico rimedio formale
per far cessare lo stato di illiceità preesistente, alternativo alla
restituzione del bene previa rimessione in pristino (1).
●
La richiesta del solo risarcimento del danno per occupazione sine
titulo non può produrre alcun effetto traslativo della proprietà in capo
alla p.a. procedente; il mutamento del quadro normativo e giurisprudenziale
impone tuttavia di individuare i possibili strumenti per non privare la
parte del suo diritto di difesa, “riqualificando” la domanda a suo tempo
proposta in maniera coerente con l’assetto preesistente: in tale ottica è
dunque possibile rimetterla in termini per errore scusabile ai sensi
dell’art. 37 c.p.a. o invitarla alla precisazione della domanda in relazione
al definito quadro giurisprudenziale, previa sottoposizione della relativa
questione processuale, in ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio
delle parti ex art. 73, comma 3, c.p.a., a garanzia del diritto di difesa
(2).
---------------
(1) Con la sentenza in esame la Sezione affronta il problema degli
effetti della sopravvenienza del decreto di acquisizione sanante ex art.
42-bis, d.P.R. n. 327 del 2001 sui contenziosi in corso, alla luce dei
principi affermati in merito dall'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato
20.01.2020,
n. 2,
n. 3 e
n. 4.
Esso costituisce il rimedio formale necessario per far cessare l’illecito
permanente dell’occupazione sine titulo, alternativo solo alla
restituzione del bene, previa rimessa in pristino, quale scelta da
privilegiare previa valutazione della fattibilità e comparazione motivata
degli interessi in gioco. La sua adozione fa sì che tutte le aspettative di
tutela del privato, risarcitorie e restitutorie, si canalizzino
nell’eventuale contenzioso avente ad oggetto il provvedimento di
acquisizione sanante intervenuto nel corso del giudizio che,
conseguentemente, deve concludersi con una declaratoria di improcedibilità
del ricorso (cfr. Cons. St., sez. IV, 12.09.2018, n. 3848; id., sez. V,
22.05.2012, n. 2975; id.
13.10.2010, n. 7472 e
05.05.2009, n. 2801).
(2) La proposizione in primo grado di una sola istanza risarcitoria
non può implicare la rinuncia traslativa alla proprietà del bene oggetto di
occupazione sine titulo, trattandosi di istituto che non trova spazio
nel procedimento espropriativo. Al fine, tuttavia, di non privare le parti
di garanzie di difesa, è necessario che il giudice si adoperi per
individuare i possibili rimedi offerti dall’ordinamento processuale per
adeguare la domanda, un tempo coerente con il quadro dottrinario e
giurisprudenziale, al mutato contesto. A tale scopo, ove non sia possibile
riqualificare la domanda, come suggerito dall’Adunanza Plenaria il giudice
potrà rimettere le parti in termini per errore scusabile ex art. 37 c.p.a.,
ovvero comunque sottoporre la questione processuale sopravvenuta, ove
rilevata d’ufficio, al vaglio delle parti ex art. 73 c.p.a.
Ove, tuttavia, il decreto di acquisizione sia sopravvenuto in ottemperanza
ad una decisione di primo grado o a una pronuncia cautelare, ridetta
riqualificazione d’ufficio o riformulazione della domanda non si rende più
necessaria, dovendosi prendere atto dell’avvenuta adozione del provvedimento
e della conseguente cessazione dello stato di illiceità che aveva fondato la
domanda risarcitoria originaria.
Ne consegue che, ferma restando l’estraneità alla giurisdizione del giudice
amministrativo di eventuali residue controversie sul quantum di
indennizzo e/o risarcimento previsto in tale provvedimento, diviene
improcedibile il giudizio di appello, non potendo più considerarsi tale
quello di primo grado (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 12.02.2020 n. 1087 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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MASSIMA
15. L’assunto non è condivisibile.
16. Il Collegio ben conosce la consolidata giurisprudenza di questo
Consiglio, dalla quale non è ragione di decampare, alla stregua della quale
tutte le aspettative di tutela del privato, risarcitorie e
restitutorie, si canalizzano nell’eventuale contenzioso avente ad oggetto il
provvedimento di acquisizione sanante intervenuto nel corso del giudizio
che, conseguentemente, deve concludersi con una declaratoria di
improcedibilità del ricorso (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 12.09.2018, n. 3848; sez. V, 22.05.2012, n. 2975; id.,
13.10.2010, n. 7472 e 05.05.2009, n. 2801).
Invero, si è più esattamente osservato che «sulla base
del provvedimento di acquisizione sanante emesso, la p.a. ha ormai acquisito
il diritto di proprietà dell'area di cui già aveva il possesso; d'altra
parte, ogni contestazione avverso questo nuovo provvedimento può essere
fatta valere, nel caso di sua impugnazione, in sede di cognizione»
(cfr. Cons. Stato, sez. VI, 15.03.2012, n. 1438).
Tale orientamento trova conferma nei pronunciamenti della Suprema Corte
avendo questa osservato che «l'emanazione, da parte
della P.A., di un provvedimento di acquisizione sanante, D.P.R. n. 327 del
2001, ex art. 42-bis (qui, pacificamente, non intervenuta), "determina l'improcedibilità
delle domande di restituzione e di risarcimento del danno proposte in
relazione ad esse, salva la formazione del giudicato non solo sul diritto
del privato alla restituzione del bene, ma anche sulla illiceità del
comportamento della P.A. e sul conseguente diritto del primo al risarcimento
del danno» (cfr. Cass. civ.,
sez. I, 07.03.2017, n. 5686; 31.05.2016, n. 11258; sez. II, 14.01.2013, n.
705; sulla rilevanza ostativa del giudicato: Ad. plen. 09.02.2016, n. 2).
17. Ciò d’altro canto appare in linea con i principi di
recente affermati anche dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato,
laddove, dopo aver ribadito la natura permanente dell’illecito conseguente
ad occupazione sine titulo, e per converso escluso qualsivoglia forma
di acquisizione della proprietà pubblica per mero decorso del tempo, ovvero
per rinuncia abdicativa (o traslativa) dei proprietari che abbiano agito
esclusivamente in via risarcitoria, ha individuato nel provvedimento di cui
all’art. 42-bis il rimedio formale per far cessare lo stato di illiceità
preesistente (cfr. A.P.,
20.01.2020, nn. 2, 3 e 4).
L’amministrazione, cioè, «è titolare di una funzione, a
carattere doveroso nell’an, consistente nella scelta tra la restituzione del
bene previa rimessione in pristino e acquisizione ai sensi dell’articolo
42-bis; non quindi una mera facoltà di scelta (o di non scegliere) tra
opzioni possibili, ma doveroso esercizio di un potere che potrà avere come
esito o la restituzione al privato o l’acquisizione alla mano pubblica del
bene. Alternative entrambe finalizzate a porre fine allo stato di illegalità
in cui versa la situazione presupposta dalla norma»
(A.P., n. 4/2020, cit. supra).
18. Nel caso di specie, tuttavia, l’improcedibilità della domanda di
risarcimento del danno, al pari di quelle eventuali di restituzione,
conseguente all’avvenuta acquisizione degli immobili, a maggior ragione nel
mutato quadro giurisprudenziale poc’anzi richiamato, non può non fare salva
la formazione del giudicato sulla sottesa illiceità del comportamento della
P.A., giacché l’emanazione del provvedimento ex art. 42-bis ha costituito
(al pari della restituzione del fondo o di un accordo transattivo) causa di
cessazione di quella illiceità, sulla quale si fondava l’originaria istanza
risarcitoria (cfr. al riguardo ancora Cass. civ., sez. I, n. 5686/2017, cit.
supra; Cons. Stato, sez. IV, 26.04.2019, n. 2678; id., 30.08.2017, n. 4106).
19. La peculiarità della vicenda, infatti, consegue alla circostanza che in
sede di decisione cautelare questo Consiglio di Stato ha già sostanzialmente
riqualificato la domanda di parte, individuando nel provvedimento di
acquisizione della proprietà l’unico rimedio alla situazione di conclamata e
perdurante illiceità, una volta esclusa la possibilità di restituzione per
l’irreversibile trasformazione del suolo ormai intervenuta, e
conseguentemente canalizzando l’interesse delle parti sui contenuti
dell’atto in questione.
Ciò non senza aver prima ricordato come «l’illecito
costituito dal protrarsi dell’occupazione sine titulo non è prescrittibile
in quanto permanente, né sussistono nella specie i presupposti per
l’applicazione a favore del Comune medesimo dell’istituto dell’usucapione».
Principio ormai consacrato nella giurisprudenza granitica di questo
Consiglio di Stato, a riprova dell’infondatezza anche nel merito delle
pretese dell’amministrazione appellante (cfr., ancorché con riferimento alla
cessazione dell’illecito per rinuncia abdicativa implicita nella richiesta
risarcitoria, Cons. Stato, sez. IV, 15.11.2017, n. 5262; id., 19.10.2015, n.
22096).
20. Il decreto di acquisizione che ha posto fine alla situazione di
illiceità pregressa, è sopravvenuto, dunque, non al ricorso, ma al giudizio
di primo grado; anzi, come correttamente evidenziato dagli appellati, esso è
conseguito proprio all’ottemperanza alla decisione cautelare, che aveva
indirizzato in tal senso il proprio effetto conformativo, pur rimettendo
all’amministrazione procedente la valutazione in concreto della sussistenza
dei presupposti per l’adozione dell’atto.
Acclarata, infatti, la natura permanente dell’illecita occupazione e
riconosciuto, almeno prima facie, il diritto al risarcimento del
danno subito, l’amministrazione veniva invitata a far cessare tale stato di
cose «eventualmente» utilizzando il provvedimento di cui all’art.
42-bis, nel frattempo introdotto dal legislatore nel TUes per rimediare alla
lacuna riveniente dalla declaratoria di illegittimità costituzionale del
previgente art. 43.
L’utilizzo della locuzione avverbiale dubitativa consegue alla demandata
necessità che l’amministrazione valutasse in concreto la perseguibilità di
opzioni alternative, in primis la restituzione del bene previo ripristino
dello status quo ante. Il procedimento declinato dall’art. 42-bis del
d.P.R. n. 327/2001, infatti, ha natura ablatoria sicuramente sui generis
, in quanto si caratterizza per la precisa base legale, ma peculiari e
autonomi presupposti, semplificato nella struttura (uno actu perficitur),
complesso negli effetti (che si producono sempre e comunque ex nunc).
Il suo scopo «non è (e non può essere) quello di sanatoria di un
precedente illecito perpetrato dall’amministrazione (perché altrimenti
integrerebbe una espropriazione indiretta per ciò solo vietata), bensì
quello autonomo, rispetto alle ragioni che hanno ispirato la pregressa
occupazione contra ius, consistente nella soddisfazione delle attuali ed
eccezionali ragioni di interesse pubblico che giustificano l’acquisizione
del bene utilizzato al patrimonio indisponibile in funzione del mantenimento
dell’opera pubblica realizzata (o, comunque, delle modificazioni apportate
al bene) sine titulo» (cfr. ancora A.P., n. 4/2020). |
URBANISTICA: Interesse
ad agire in sede di impugnazione di strumenti urbanistici che non incidono
direttamente su aree di proprietà del ricorrente.
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Processo amministrativo – Interesse a ricorrere – Edilizia – Titoli
edilizi - Vicinitas – Limiti.
In sede di impugnazione di strumenti urbanistici che
non incidono direttamente su aree di proprietà della parte ricorrente è
sempre necessario scrutinare la sussistenza dell’interesse ad agire, sub
specie di lesione attuale e concreta o ragionevolmente certa, alla salute,
all’ambiente, al valore dei terreni ecc. (1).
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(1) In termini
Cons. St., sez. IV, 07.02.2020, n. 962.
Ha chiarito la Sezione che la vicinitas non sempre da sola giustifica
la proposizione del ricorso in materia di edilizia e urbanistica.
La vicinitas, cioè lo stabile collegamento con la zona interessata
dall’intervento, può certamente ritenersi fondamento della legittimazione ad
agire purché sia accompagnata anche dalla presenza di una lesione concreta
ed attuale della posizione soggettiva di chi impugna il provvedimento. In
altri termini, lo stabile collegamento con l’area interessata
dall’intervento edilizio non è sufficiente a comprovare anche l’interesse a
ricorrere che è invece derivante da un concreto pregiudizio per
l’interessato.
La giurisprudenza ha chiarito a più riprese che la vicinitas non
rappresenta un dato decisivo per riconoscere l’interesse ad agire (che nel
giudizio di legittimità davanti al giudice amministrativo si identifica con
l’interesse ad impugnare), nel senso che di per sé non è sufficiente,
dovendosi dimostrare che l’intervento costruttivo contestato abbia capacità
di propagarsi sino a incidere negativamente sul fondo del ricorrente (Cons.
St., sez. IV, 19.11.2015, n. 5278).
L’idea che la nozione di vicinitas, oltre a identificare una
posizione qualificata idonea a rappresentare la legittimazione a impugnare
il provvedimento urbanistico o edilizio, avrebbe assorbito anche l'interesse
a ricorrere è stata infatti superata dall’indirizzo secondo cui, ai fini
dell'ammissibilità del ricorso, deve essere concretamente indagato e
accertato anche l'interesse ad agire. Questo indirizzo valorizza ragioni di
coerenza con i principî generali sulle condizioni per l'azione nel processo
amministrativo, nel cui novero rientrano distintamente, oltre alla
legitimatio ad causam, il c.d. titolo (o legittimazione al ricorso) e
l’interesse ad agire (cfr.
Cons. St., Ad. plen., 25.02.2014, n. 9; successivamente,
sez. IV, 19.11.2015, n. 5278 citata; per ultimo
sez. IV, 05.02.2018, n. 707).
D’altra parte, se la distinzione fra i due indirizzi appena richiamati può
non risultare sempre percepibile con evidenza (soprattutto in tema di
distanze o per ragioni di salubrità), va considerato che nella odierna
vicenda contenziosa non si rileva come gli atti di pianificazione ed
attuazione contestati potessero incidere in via immediata e diretta sulla
sfera giuridica dei ricorrenti.
La sussistenza della mera vicinitas non costituisce elemento
sufficiente a comprovare contestualmente la legittimazione e l'interesse al
ricorso, occorrendo invece la positiva dimostrazione, in relazione alla
configurazione dell’interesse ad agire, di un danno (certo o altamente
probabile) che attingerebbe la posizione di colui il quale insorge
giudizialmente (Cons.
St., sez. V, 15.12.2017, n. 5908).
Peraltro, l’apprezzamento della presenza dell’interesse al ricorso si
declina diversamente a seconda che la controversia sia relativa
all’impugnazione di un titolo edilizio (ad esempio, in materia di distanze o
per gli insediamenti commerciali), alla localizzazione di un’opera pubblica
o, come nel caso in esame, ad uno strumento urbanistico.
In quest’ultima ipotesi l’impugnazione degli strumenti urbanistici, generali
e attuativi, è ammissibile nel caso in cui la parte ricorrente si dolga di
prescrizioni che riguardano direttamente i beni di proprietà ovvero
comportino un significativo decremento del valore di mercato o dell’utilità
dei suoi immobili (Cons.
St., sez. IV, 04.12.2017, n. 5674). Con la conseguenza che, nel
caso di impugnazione di strumenti urbanistici, anche particolareggiati, o di
loro varianti è ancor più necessaria l’allegazione di prove in ordine ai
concreti pregiudizi subiti, che comunque non possono risolversi nel generico
danno all'ordinato assetto del territorio, alla salubrità dell'ambiente e ad
altri valori la cui fruizione potrebbe essere rivendicata da qualsiasi
soggetto residente, anche non stabilmente, nella zona interessata dalla
pianificazione.
Ha aggiunto la Sezione che in materia di tutela contro i danni all'ambiente,
l’interesse ad agire può essere riconosciuto solo se gli stessi sono
debitamente evidenziati in ricorso. Se, infatti, la tutela ambientale può
svilupparsi anche mediante l’impugnativa degli atti aventi finalità
urbanistica, non si può al contempo eludere la necessità che siano proposte
censure sorrette da una specifica istanza di protezione degli interessi
ambientali, da realizzare attraverso l'annullamento, totale o parziale,
dello strumento urbanistico (Cons.
St., sez. IV, 30.09.2005, n. 5205)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.02.2020 n. 1011 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
20. La tesi degli appellanti non può essere condivisa.
21. In primo luogo, va rilevato che risulta incontestato da parte degli
stessi ricorrenti che gli immobili di loro proprietà non sono collocati
all’interno o nell’immediatezza del confine del P.U.O., ma a distanze
variabili tra i 2 e i 3,5 Km (cfr. pag. 5 del ricorso in appello dove si
afferma: “delle due l’una: o i ricorrenti non hanno dimostrato –come
invero non è e si contesta che lo sia- la proprietà degli immobili limitrofi
all’area oggetto del P.U.O. gravato, oppure detti “immobili dei ricorrenti”
–pertanto di proprietà degli stessi- sono siti ad una distanza compresa tra
2 e 3 km circa dall’area de qua. Tertium non datur”).
21.1. Ciò significa che la vicinitas invocata dagli appellanti,
peraltro nel caso di specie non caratterizzata da una immediata contiguità
delle aree interessate, non sembra da sola giustificare la proposizione del
ricorso.
21.2. La vicinitas, cioè lo stabile collegamento con la zona
interessata dall’intervento, può certamente ritenersi fondamento della
legittimazione ad agire purché sia accompagnata anche dalla presenza di una
lesione concreta ed attuale della posizione soggettiva di chi impugna il
provvedimento. In altri termini, lo stabile collegamento con l’area
interessata dall’intervento edilizio non è sufficiente a comprovare anche
l’interesse a ricorrere che è invece derivante da un concreto pregiudizio
per l’interessato.
21.3. La giurisprudenza ha chiarito a più riprese che la vicinitas non
rappresenta un dato decisivo per riconoscere l’interesse ad agire (che nel
giudizio di legittimità davanti al giudice amministrativo si identifica con
l’interesse ad impugnare), nel senso che di per sé non è sufficiente,
dovendosi dimostrare che l’intervento costruttivo contestato abbia capacità
di propagarsi sino a incidere negativamente sul fondo del ricorrente (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 19.11.2015, n. 5278). Nella fattispecie in esame
tuttavia una simile prova non viene fornita.
21.4. L’idea che la nozione di vicinitas, oltre a identificare una posizione
qualificata idonea a rappresentare la legittimazione a impugnare il
provvedimento urbanistico o edilizio, avrebbe assorbito anche l'interesse a
ricorrere è stata infatti superata dall’indirizzo secondo cui, ai fini
dell'ammissibilità del ricorso, deve essere concretamente indagato e
accertato anche l'interesse ad agire. Questo indirizzo valorizza ragioni di
coerenza con i principî generali sulle condizioni per l'azione nel processo
amministrativo, nel cui novero rientrano distintamente, oltre alla
legitimatio ad causam, il c.d. titolo (o legittimazione al ricorso) e
l’interesse ad agire (cfr. Cons. Stato: Ad. plen., 25.02.2014, n. 9;
successivamente, Sez. IV, 19.11.2015, n. 5278 citata; per ultimo Sez.
IV, 05.02.2018, n. 707).
21.5. D’altra parte, se la distinzione fra i due indirizzi appena richiamati
può non risultare sempre percepibile con evidenza (soprattutto in tema di
distanze o per ragioni di salubrità), va considerato che nella odierna
vicenda contenziosa non si rileva come gli atti di pianificazione ed
attuazione contestati potessero incidere in via immediata e diretta sulla
sfera giuridica dei ricorrenti.
21.6. La sussistenza della mera vicinitas non costituisce elemento
sufficiente a comprovare contestualmente la legittimazione e l'interesse al
ricorso, occorrendo invece la positiva dimostrazione, in relazione alla
configurazione dell’interesse ad agire, di un danno (certo o altamente
probabile) che attingerebbe la posizione di colui il quale insorge
giudizialmente (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 15.12.2017, n. 5908).
21.7. Peraltro, l’apprezzamento della presenza dell’interesse al ricorso si
declina diversamente a seconda che la controversia sia relativa
all’impugnazione di un titolo edilizio (ad esempio, in materia di distanze o
per gli insediamenti commerciali), alla localizzazione di un’opera pubblica
o, come nel caso in esame, ad uno strumento urbanistico.
21.8. In quest’ultima ipotesi, come ha correttamente rilevato il Tar,
l’impugnazione degli strumenti urbanistici, generali e attuativi, è
ammissibile nel caso in cui la parte ricorrente si dolga di prescrizioni che
riguardano direttamente i beni di proprietà ovvero comportino un
significativo decremento del valore di mercato o dell’utilità dei suoi
immobili (cfr., Cons. Stato, Sez. IV, 04.12.2017, n. 5674).
21.9. Con la conseguenza che, nel caso di impugnazione di strumenti
urbanistici, anche particolareggiati, o di loro varianti è ancor più
necessaria l’allegazione di prove in ordine ai concreti pregiudizi subiti,
che comunque non possono risolversi nel generico danno all'ordinato assetto
del territorio, alla salubrità dell'ambiente e ad altri valori la cui
fruizione potrebbe essere rivendicata da qualsiasi soggetto residente, anche
non stabilmente, nella zona interessata dalla pianificazione.
22. Quanto ai paventati danni ambientali e alla salute, gli stessi non sono
stati provati in modo concreto ed attuale, ma solo in via di ipotesi
attraverso il ricorso a congetture, cosicché anche per tale profilo non può
sostenersi la sussistenza dell’interesse a ricorrere.
22.1. In materia di tutela contro i danni all'ambiente, l’interesse ad agire
può essere riconosciuto solo se gli stessi sono debitamente evidenziati in
ricorso. Se, infatti, la tutela ambientale può svilupparsi anche mediante
l’impugnativa degli atti aventi finalità urbanistica, non si può al contempo
eludere la necessità che siano proposte censure sorrette da una specifica
istanza di protezione degli interessi ambientali, da realizzare attraverso
l'annullamento, totale o parziale, dello strumento urbanistico (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 30.09.2005, n. 5205). |
LAVORI PUBBLICI: Project
financing, promotore con requisiti minimi. Se non si supera la soglia si
perde il diritto al pagamento del progetto.
Incentivi al project financing nelle concessioni, consentendo tuttavia
all’amministrazione di porre una soglia di sbarramento per ottenere progetti
di qualità.
Questo è l’orientamento del Consiglio di Stato (Sez. V,
sentenza 10.02.2020 n. 1005), giudicando un’ipotesi di
riqualificazione e gestione di una piscina comunale utilizzando anche
capitali privati.
L’idea imprenditoriale, oggetto di project financing, è stata
ritenuta fattibile dal Comune di Pordenone, che l’aveva inserita nel
programma triennale di opere pubbliche. Il testo unico sugli appalti
(50/2016) prevede in questo caso una gara aperta a più imprenditori, da
aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa
sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo.
Chi assume l’iniziativa (”promotore”), qualora non risulti
aggiudicatario, può esercitare la prelazione (articolo 183 Dlgs 50/2016),
offrendo di eseguire l’intervento come previsto dal vincitore, cui vanno
rimborsate le spese per la predisposizione dell’offerta; è anche possibile
che il promotore non eserciti la prelazione ma, accettando la sconfitta, si
accontenti di un rimborso spese progettuali (fino al 2,5% del valore
dell’investimento).
Nel caso specifico, il Comune aveva chiesto ai concorrenti di formulare
offerte che raggiungessero un punteggio tecnico minimo, cioè una soglia di
sbarramento. Dinanzi a tale soglia il promotore, che pur aveva ideato
l’intervento, è rimasto escluso dalla gara, non avendo formulato un’offerta
di qualità sufficiente.
Il principio innovativo varato dai giudici è che l’imprenditore il quale chi
non raggiunga la soglia di sbarramento tecnico prevista dall’amministrazione
perde tutti i diritti di promotore e cioè perde sia la possibilità di
prelazione, sia la possibilità di ottenere un rimborso delle spese
progettuali. Ciò avviene perché il project financing si articola in
due fasi: quella preliminare, di individuazione del promotore, non sceglie
l’impresa sulla base di criteri tecnici ed economici preordinati, ma valuta
l’interesse pubblico ad operare con la finanza di progetto (cioè anche con
capitali privati). Una volta accolta la proposta formulata dal promotore, si
apre una seconda fase, che culmina con l’aggiudicazione della concessione in
base al criterio del offerta più vantaggiosa.
Se tra le due fasi la Pa pone una soglia di sbarramento, cioè impone ai
concorrenti di raggiungere un punteggio tecnico minimo per poter poi aprire
le offerte economiche, le due fasi si separano. Ciò significa che il
promotore il quale non superi la soglia di sbarramento, perde sia la
possibilità di esercitare la prelazione sostituendosi all’aggiudicatario
vincitore della gara, sia la possibilità di ottenere il rimborso delle spese
progettuali (articolo Il Sole
24 Ore del
20.02.2020).
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MASSIMA
2.1. L’art. 183, comma 15, del Codice dei contratti pubblici,
applicabile, in quanto compatibile, anche ai servizi (art. 179, comma 3),
stabilisce che: “Gli operatori economici possono presentare alle
amministrazioni aggiudicatrici proposte relative alla realizzazione in
concessione di lavori pubblici o di lavori di pubblica utilità, incluse le
strutture dedicate alla nautica da diporto, non presenti negli strumenti di
programmazione approvati dall’amministrazione aggiudicatrice sulla base
della normativa vigente. La proposta contiene un progetto di fattibilità,
una bozza di convenzione, il piano economico-finanziario asseverato da uno
dei soggetti di cui al comma 9, primo periodo, e la specificazione delle
caratteristiche del servizio e della gestione […] Il piano
economico-finanziario comprende l’importo delle spese sostenute per la
predisposizione della proposta, comprensivo anche dei diritti sulle opere
dell’ingegno di cui all’articolo 2578 del codice civile. La proposta è
corredata dalle autodichiarazioni relative al possesso dei requisiti di cui
al comma 17, dalla cauzione di cui all’articolo 93, e dall’impegno a
prestare una cauzione nella misura dell’importo di cui al comma 9, terzo
periodo, nel caso di indizione di gara. L’amministrazione aggiudicatrice
valuta, entro il termine perentorio di tre mesi, la fattibilità della
proposta. A tal fine l’amministrazione aggiudicatrice può invitare il
proponente ad apportare al progetto di fattibilità le modifiche necessarie
per la sua approvazione. Se il proponente non apporta le modifiche
richieste, la proposta non può essere valutata positivamente. Il progetto di
fattibilità eventualmente modificato, è inserito negli strumenti di
programmazione approvati dall’amministrazione aggiudicatrice sulla base
della normativa vigente ed è posto in approvazione con le modalità previste
per l’approvazione di progetti; il proponente è tenuto ad apportare le
eventuali ulteriori modifiche chieste in sede di approvazione del progetto;
in difetto, il progetto si intende non approvato. Il progetto di fattibilità
approvato è posto a base di gara, alla quale è invitato il proponente. Nel
bando l’amministrazione aggiudicatrice può chiedere ai concorrenti, compreso
il proponente, la presentazione di eventuali varianti al progetto. Nel bando
è specificato che il promotore può esercitare il diritto di prelazione. I
concorrenti, compreso il promotore, devono essere in possesso dei requisiti
di cui al comma 8, e presentare un’offerta contenente una bozza di
convenzione, il piano economico-finanziario asseverato da uno dei soggetti
di cui al comma 9, primo periodo, la specificazione delle caratteristiche
del servizio e della gestione, nonché le eventuali varianti al progetto di
fattibilità; si applicano i commi 4, 5, 6, 7 e 13. Se il promotore non
risulta aggiudicatario, può esercitare, entro quindici giorni dalla
comunicazione dell’aggiudicazione, il diritto di prelazione e divenire
aggiudicatario se dichiara di impegnarsi ad adempiere alle obbligazioni
contrattuali alle medesime condizioni offerte dall’aggiudicatario. Se il
promotore non risulta aggiudicatario e non esercita la prelazione ha diritto
al pagamento, a carico dell’aggiudicatario, dell’importo delle spese per la
predisposizione della proposta nei limiti indicati nel comma 9. Se il
promotore esercita la prelazione, l’originario aggiudicatario ha diritto al
pagamento, a carico del promotore, dell’importo delle spese per la
predisposizione dell’offerta nei limiti di cui al comma 9”.
Questa Sezione ha sottolineato che la procedura di project financing
(prima disciplinata dagli artt. 37-bis e ss. della l. 109/1994 e
successivamente dagli artt. 153 e ss. del d.lgs. 163/2006), individua due
serie procedimentali strutturalmente autonome, ma biunivocamente
interdipendenti sotto il profilo funzionale, la prima di selezione del
progetto di pubblico interesse, la seconda di gara di evidenza pubblica
sulla base del progetto dichiarato di pubblica utilità, quest’ultima a sua
volta distinta nelle subfasi di individuazione dell’offerta economicamente
più vantaggiosa e di eventuale esercizio da parte del promotore del diritto
di prelazione (Cons. Stato, V, 19.06.2019, n. 4186).
In tale ambito, la giurisprudenza ha ripetutamente riconosciuto: che
la fase
preliminare di individuazione del promotore, ancorché procedimentalizzata, è
connotata da amplissima discrezionalità amministrativa, tale da non potere
essere resa coercibile nel giudizio amministrativo di legittimità (Cons.
Stato, III, 20.03.2014, n. 1365; III, 30.07.2013, n. 4026; 24.05.2013, n.
2838; V, 06.05.2013, n. 2418), essendo intesa non già alla scelta della
migliore fra una pluralità di offerte sulla base di criteri tecnici ed
economici preordinati, ma alla valutazione di un interesse pubblico che
giustifichi, alla stregua della programmazione delle opere pubbliche,
l’accoglimento della proposta formulata dall’aspirante promotore (Cons.
Stato, V, 31.08.2015, n. 4035); che lo scopo finale dell’intera procedura,
interdipendente dalla fase prodromica di individuazione del promotore, è
l’aggiudicazione della concessione in base al criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa (Cons. Stato, V, 14.04.2015, n. 1872; VI,
05.03.2013, n. 1315).
2.2. Quanto alla c.d. “soglia di sbarramento”, meccanismo che pure
viene in rilevo nella controversia in esame, essa è rappresentata dalla
previsione da parte della legge di gara di un punteggio tecnico minimo per
accedere alla fase di apertura delle offerte economiche, ed è finalizzata a
garantire una qualità elevata delle offerte presentate (Cons. Stato, V,
12.06.2017, n. 2852); dunque, per valutazione ex ante, l’offerta
tecnica che si colloca sotto tale soglia è inidonea a condurre
all’aggiudicazione, anche a prescindere dalla valutazione dell’offerta
economica, in quanto “qualitativamente inadeguata” (Cons. Stato, n.
2852/2017, cit.).
La Sezione ha in particolare chiarito che la ratio di questo strumento,
censurabile solo in presenza di macroscopiche irrazionalità, di incongruenze
o di palesi abnormità (Cons. Stato, V, 18.11.2011, n. 6084),
si ricollega
all’esigenza specifica di addivenire, ai fini della singola, particolare
procedura contrattuale, in coerenza con le specificità del contratto da
concludere e con il complesso dei criteri di scelta del relativo contraente,
a un livello qualitativo delle offerte particolarmente elevato, sì da
comportare l’esclusione di quelle che, pur magari astrattamente convenienti
sul piano economico, non raggiungano sul versante qualitativo lo standard
che l’Amministrazione si prefigge (Cons. Stato, V, 02.12.2015, n. 5468).
Anche la Corte di giustizia dell’Unione europea, nel dichiarare che la
direttiva 2014/24/UE deve essere interpretata nel senso di non ostare a una
normativa nazionale che autorizza le amministrazioni aggiudicatrici a
imporre in una gara d’appalto con procedura aperta requisiti minimi per la
valutazione tecnica, cosicché le offerte presentate che, al termine di tale
valutazione, non raggiungono una soglia di punteggio minima prestabilita
sono escluse dalla successiva valutazione fondata sia su criteri tecnici sia
sul prezzo, ha rilevato che, nell’ipotesi, un’offerta che non raggiunge una
simile soglia non soddisfa, in via di principio, le esigenze
dell’amministrazione aggiudicatrice e non deve essere presa in
considerazione al momento della determinazione dell’offerta economicamente
più vantaggiosa (C.G.U.E., IV, 20.09.2018, n. 546).
2.3. A questo punto deve ancora osservarsi che la posizione del
concorrente/promotore nella procedura di gara indetta ex art. 183, comma 15
del Codice dei contratti pubblici si connota di sue proprie particolarità,
risultando rafforzata rispetto agli altri concorrenti, in quando egli, pur
ove non risulti aggiudicatario della gara all’esito dell’ordinario
svolgimento della comparazione delle offerte dei partecipanti, può divenirlo
mediante l’esercizio del diritto di prelazione che deve essergli assicurato
dal bando in caso di partecipazione alla gara, come previsto dalla stessa
norma (“Nel bando è specificato che il promotore può esercitare il
diritto di prelazione”; “Se il promotore non risulta aggiudicatario,
può esercitare, entro quindici giorni dalla comunicazione
dell’aggiudicazione, il diritto di prelazione e divenire aggiudicatario se
dichiara di impegnarsi ad adempiere alle obbligazioni contrattuali alle
medesime condizioni offerte dall’aggiudicatario”).
In particolare, come rilevato dalla Sezione, ancorché in un diverso contesto
censorio, la posizione del concorrente/proponente, che, già a monte, per
effetto della dichiarazione di pubblico interesse della proposta di progetto
di finanza pubblica da esso presentata, si diversificava da quella di altri
operatori, ricevendo “un’aspettativa e una posizione tutelata”,
assume nella conseguente procedura di gara una “maggiore consistenza
giuridica” per effetto del diritto di prelazione e dei correlati diritti
patrimoniali (Cons. Stato, V, 11.01.2018, n. 111; 26.06.2015, n. 3237),
questi ultimi consistenti, in caso di mancato esercizio del diritto di
prelazione, nel “diritto al pagamento, a carico dell’aggiudicatario,
dell’importo delle spese per la predisposizione della proposta”,
speculare alla previsione che, in caso di esercizio della prelazione, “l’originario
aggiudicatario ha diritto al pagamento, a carico del promotore, dell’importo
delle spese per la predisposizione dell’offerta”.
In altre parole “la posizione di vantaggio acquisita per effetto della
dichiarazione di pubblico interesse si esplica solo all’interno della gara,
una volta che la decisione di affidare la concessione sia stata assunta”
(Cons. Stato, V, 18.01.2017, n. 207; 21.06.2016, n. 4177).
Ciò nonostante, la procedura competitiva ex art. 183, comma 15, d.lgs.
50/2016 resta assoggettata ai principi generali delle gare pubbliche, e, più
specificamente, a quelli delle gare rette dal criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, stante il richiamo effettuato dal comma 15
al precedente comma 4, in base al quale l’aggiudicazione deve avvenire sulla
base “del miglior rapporto qualità/prezzo”.
Ne consegue uno scenario complesso, in cui sussiste l’esigenza della
salvaguardia, nello svolgimento della gara, di “uno standard minimo di
concorrenzialità” e della “astratta appetibilità”
dell’affidamento: tanto è stato riconosciuto dalla Sezione, che, nella sopra
citata sentenza n. 4186/2019, ha concluso per l’effetto che
il concorrente
della seconda fase della procedura di project finacing può contestare
in giudizio l’atto di scelta del promotore e di individuazione del progetto
posto a base di gara senza incorrere nella preclusione decadenziale
derivante dall’esaurimento della prima fase di selezione del promotore,
stabilita (Cons. Stato, Ad. Plen.
n. 1 del 2012) in riferimento ai concorrenti che a tale
prima fase abbiano partecipato, senza essere prescelti. |
INCARICHI PROGETTUALI: Il
direttore dei lavori, pur prestando un'opera professionale in esecuzione di
un'obbligazione di mezzi e non di risultato, è chiamato a svolgere la
propria attività in situazioni involgenti l'impiego di peculiari competenze
tecniche e deve utilizzare le proprie risorse intellettive e operative per
assicurare, relativamente all'opera in corso di realizzazione, il risultato
che il committente-preponente si aspetta di conseguire, onde il suo
comportamento deve essere valutato non con riferimento al normale concetto
di diligenza, ma alla stregua della diligentia quam in concreto.
Rientrano, pertanto, nelle obbligazioni del direttore dei lavori,
l'accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione
dell'opera, al progetto, sia delle modalità dell'esecuzione di essa al
capitolato e/o alle regole della tecnica, nonché l'adozione di tutti i
necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell'opera
senza difetti costruttivi; sicché non si sottrae a responsabilità il
professionista che ometta di vigilare e di impartire le opportune
disposizioni al riguardo, nonché di controllarne l'ottemperanza da parte
dell'appaltatore e, in difetto, di riferirne al committente.
---------------
La corte territoriale ha
accertato, con giudizio insindacabile in sede di legittimità, il concorso
del fatto colposo del direttore dei lavori nella produzione del danno,
determinando il grado di efficienza causale di ciascuna colpa.
Nella specie, la corte territoriale ha rilevato la presenza di vizi
costruttivi, per erronea impostazione delle due cuspidi e per erronea
indicazioni nella posa in opera del tetto da parte del
Ba., sia come progettista delle opere in cemento armato -nella cui qualità
aveva svolto i calcoli statici- sia come direttore dei lavori, che aveva
l'alta sorveglianza del cantiere.
Come affermato da questa Corte con orientamento consolidato, al quale va
dato continuità, il direttore dei lavori, pur prestando un'opera
professionale in esecuzione di un'obbligazione di mezzi e non di risultato,
è chiamato a svolgere la propria attività in situazioni involgenti l'impiego
di peculiari competenze tecniche e deve utilizzare le proprie risorse
intellettive e operative per assicurare, relativamente all'opera in corso di
realizzazione, il risultato che il committente-preponente si aspetta di
conseguire, onde il suo comportamento deve essere valutato non con
riferimento al normale concetto di diligenza, ma alla stregua della
diligentia quam in concreto.
Rientrano, pertanto, nelle obbligazioni del direttore dei lavori,
l'accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione
dell'opera, al progetto, sia delle modalità dell'esecuzione di essa al
capitolato e/o alle regole della tecnica, nonché l'adozione di tutti i
necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell'opera
senza difetti costruttivi; sicché non si sottrae a responsabilità il
professionista che ometta di vigilare e di impartire le opportune
disposizioni al riguardo, nonché di controllarne l'ottemperanza da parte
dell'appaltatore e, in difetto, di riferirne al committente (Cassazione
civile sez. II, 15/10/2013, n.
23350)
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 07.02.2020 n. 2913). |
EDILIZIA PRIVATA - INCARICHI PROGETTUALI:
In tema di contratto di appalto, la diligenza qualificata
ex art. 1176, comma 2, c.c., che impone all'appaltatore (sia egli
professionista o imprenditore) di realizzare l'opera a regola d'arte,
impiegando le energie ed i mezzi normalmente ed obiettivamente necessari od
utili in relazione alla natura dell'attività esercitata, onde soddisfare
l'interesse creditorio ed evitare possibili eventi dannosi, rileva anche se
egli si attenga alle previsioni di un progetto altrui, sicché,
- ove sia il committente a predisporre il progetto e a fornire
indicazioni per la sua realizzazione, l'appaltatore risponde dei vizi
dell'opera se, fedelmente eseguendo il progetto e le indicazioni ricevute,
non ne segnali eventuali carenze ed errori, il cui controllo e correzione
rientra nella sua prestazione,
- mentre è esente da responsabilità ove il committente, edotto di
tali carenze ed errori, richieda di dare egualmente esecuzione al progetto o
ribadisca le indicazioni, riducendo così l'appaltatore a proprio mero "nudus
minister", direttamente e totalmente condizionato dalle istruzioni ricevute
senza possibilità di iniziativa o vaglio critico.
---------------
Con il primo motivo di
ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 1218 c.c. e
dell'art. 1667 c.c., in relazione all'art. 360, comma 1, n. 2 c.p.c., nonché
l'omessa ed insufficiente
motivazione in ordine alla responsabilità dell'appaltatore.
Il motivo non è fondato.
In tema di contratto di appalto, la diligenza qualificata ex art.
1176, comma 2, c.c., che impone all'appaltatore (sia egli professionista o
imprenditore) di realizzare l'opera a regola d'arte, impiegando le energie
ed i mezzi normalmente ed obiettivamente necessari od utili in relazione
alla natura dell'attività esercitata, onde soddisfare l'interesse creditorio
ed evitare possibili eventi dannosi, rileva anche se egli si attenga alle
previsioni di un progetto altrui, sicché, ove sia il committente a
predisporre il progetto e a fornire indicazioni per la sua realizzazione,
l'appaltatore risponde dei vizi dell'opera se, fedelmente eseguendo il
progetto e le indicazioni ricevute, non ne segnali eventuali carenze ed
errori, il cui controllo e correzione rientra nella sua prestazione, mentre
è esente da responsabilità ove il committente, edotto di tali carenze ed
errori, richieda di dare egualmente esecuzione al progetto o ribadisca le
indicazioni, riducendo così l'appaltatore a proprio mero "nudus minister",
direttamente e totalmente condizionato dalle istruzioni ricevute senza
possibilità di iniziativa o vaglio critico (Cassazione civile sez. II,
02/02/2016, n. 1981; Cass. Civ., sez. 03, del 31/05/2006, n. 12995).
La corte territoriale ha fatto corretta applicazione
del principio di diritto affermato da questa Corte, affermando correttamente
che il Da., in qualità di appaltatore, aveva fatto affidamento su un
progetto redatto da soggetto privo dei requisiti tecnici professionali,
oltre che carente e per non aver controllato sulla posa in opera del tetto
di copertura.
Ha, inoltre accertato che mancava una specifica pattuizione di esonero della
responsabilità dell'appaltatore tale da escludere il suo dovere di
iniziativa e di valutazione critica delle incongruenze progettuali, della
improvvisazione con la quale si era proceduto alla copertura del fabbricato
e per non aver comunicato al committente le incongruenze progettuali (pag.
10-12 della sentenza impugnata).
Il ricorrente non allega e trascrive, nemmeno per sintesi, la clausola
contrattuale da cui risulterebbe la sua assoluta soggezione alle direttive
tecniche del direttore di cantiere e censura confusamente la motivazione del
primo giudice, riportando stralci della CTU, al fine di dimostrare l'assenza
di autonomia e discrezionalità tecnico organizzativa, sicché il motivo si
risolve in un'ammissibile rivalutazione delle risultanze istruttorie, non
consentita in sede di legittimità
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 07.02.2020 n. 2913). |
EDILIZIA PRIVATA: Decorrenza
del termine di impugnazione dei titoli edilizi ed interesse a ricorrere.
---------------
●
Processo amministrativo – Termine per l’impugnazione - Titoli edilizi – Dies
a quo – Individuazione.
●
Processo amministrativo – Interesse a ricorrere – Edilizia – Titoli edilizi
- Vicinitas – Limiti.
●
Il momento da cui computare i termini decadenziali di proposizione del
ricorso nell’ambito dell’attività edilizia deve essere individuato
nell’inizio dei lavori, nel caso si sostenga che nessun manufatto poteva
essere edificato sull’area ovvero laddove si contesti la violazione delle
distanza; viceversa esso decorre dal completamento dei lavori o dal grado di
sviluppo degli stessi, ove si contesti il dimensionamento, la consistenza
ovvero la finalità dell’erigendo manufatto.
●
In materia edilizia, la vicinitas non rappresenta un dato
decisivo per fondare l’interesse ad impugnare, nel senso che di per sé non è
sufficiente, dovendosi dimostrare che l’intervento contestato abbia capacità
di propagarsi sino a incidere negativamente sul fondo del ricorrente (2).
---------------
(1)
Cons. St., sez. IV, n. 5754 del 2017;
sez. VI, n. 4830 del 2017;
sez. IV, n. 3067 del 2017; id.,
15.11.2016, n. 4701; id., n. 1135 del 2016; id., nn. n. 4909 e
4910 del 2015.
Ha poi ricordato la Sezione che giurisprudenza (Cons.
St., sez. IV, 23.05.2018, n. 3075) ha avuto modo di chiarire che
la “piena conoscenza” non deve essere intesa quale “conoscenza
piena ed integrale” del provvedimento stesso, dovendosi invece ritenere
che sia sufficiente ad integrare il concetto la percezione dell’esistenza di
un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la
lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere
riconoscibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso. Vi è
dunque “piena conoscenza” quando si è consapevoli dell’esistenza del
provvedimento e della sua lesività e tale consapevolezza determina la
sussistenza di una condizione dell’azione, l’interesse al ricorso, mentre la
conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti del
procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta
definizione delle ragioni di impugnazione.
(2)
Cons. St., sez. IV, 19.11.2015, n. 5278.
L’idea che la nozione di vicinitas, oltre a identificare una
posizione qualificata idonea a rappresentare la legittimazione a impugnare
il titolo edilizio, avrebbe assorbito anche l'interesse a ricorrere è stata
infatti superata dall’indirizzo secondo cui, ai fini dell'ammissibilità del
ricorso, deve essere concretamente indagato e accertato anche l'interesse ad
agire. Questo indirizzo valorizza ragioni di coerenza con i principî
generali sulle condizioni per l'azione nel processo amministrativo (Cons.
St., A.P., 25.02.2014, n. 9; successivamente,
sez. IV, 19.11.2015, n. 5278 citata; per ultimo
sez. IV, 05.02.2018, n. 707).
D’altra parte, se la distinzione fra i due indirizzi appena richiamati può
non risultare sempre percepibile con evidenza (soprattutto in tema di
distanze o per ragioni di salubrità), va considerato che nella odierna
vicenda contenziosa non appare evidente come la trasformazione edilizia
contestata potesse incidere in via immediata e diretta sulla sfera giuridica
delle ricorrenti. Queste ultime hanno addotto a giustificazione del loro
interesse all’impugnazione un generico profilo di depauperamento della
condizione edilizia della zona.
La sussistenza dunque del requisito della mera vicinitas non
costituisce elemento sufficiente a comprovare la legittimazione a ricorrere
e l'interesse al ricorso, occorrendo invece la positiva dimostrazione di un
danno che attingerebbe la posizione di colui il quale insorge giudizialmente
(Cons.
St., sez. V, 15.12.2017, n. 5908).
In chiave comparata, peraltro, è utile ricordare che già in altri
ordinamenti europei (ad esempio in Francia), a proposito dell’interesse a
ricorrere contro un permesso di costruire, si richiede, nell’idea di
considerare anche la sicurezza giuridica dei titoli autorizzatori (nel caso
in esame rilasciati 3 anni prima), la dimostrazione puntuale dello stesso (cfr.
Conseil d'État, 17.03.2017, n. 396362 e l’art. L-600.1.2 del Code de l'urbanisme,
nel testo introdotto con ordinanza n. 2013-638 del 18.07.2013, che
stabilisce che l'impugnazione di un permesso di costruire richiede la
dimostrazione che l'intervento edilizio sia tale da incidere in modo diretto
sul godimento di un bene da parte del ricorrente)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.02.2020 n. 962 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).
---------------
SENTENZA
9. L’appello non è fondato.
10. Preliminarmente, il Collegio esamina l’eccezione di tardività del
ricorso di primo grado, eccezione assorbita dal Tar e riproposta dalle parti
appellate nel presente grado di giudizio.
10.1. Le ricorrenti sostengono in proposito che il termine di decorrenza per
l’impugnazione dovesse decorrere dal 04.08.2017, data nella quale il
Comune di Padova ha riscontrato la seconda istanza di accesso presentata il
25.07.2017. Solo all’esito di quest’ultima istanza di accesso avrebbero
avuto “piena conoscenza” degli atti impugnati.
10.2. La tesi non può essere condivisa. Con il primo accesso riscontrato dal
Comune di Padova il 13.07.2017 sono stati consegnati gli elaborati
relativi alla DIA del 02.12.2014 (denuncia presentata dalla società
Ro. con riferimento al progetto in precedenza approvato). Dalla stessa
documentazione era dunque possibile prendere conoscenza di tutte le
caratteristiche dello stesso progetto (es. volume, altezza).
10.3. Né in senso contrario rileva quanto replicato dalle appellanti in
ordine al fatto che l’accesso riscontrato il 13.07.2017 era stata fatto
dal signor Bo., cioè da uno dei ricorrenti in primo grado che non ha poi
proposto appello (l’irricevibilità riguarderebbe quindi quest’ultimo, perché
la signora Pa. ha presentato istanza di accesso il 25.07.2017 e la
signora Bo.Ma. non ha presentato nessuna istanza di accesso). La
documentazione sopra indicata è stata, come detto, conosciuta a far data dal
13.07.2017 e tutte e tre i ricorrenti hanno congiuntamente proposto il
ricorso oggetto dell’eccezione di irricevibilità.
10.4. L’avvenuta conoscenza dei provvedimenti impugnati in epoca antecedente
a quella indicata (04.08.2017) è, d’altra parte, desumile anche dalla
stessa residenza dei ricorrenti in prossimità del luogo di edificazione,
dalla presenza del cartello lavori, dal tempo trascorso (circa tre anni fra
l’inizio dei lavori nel 2014 e la notifica del ricorso di primo grado il 28.10.2017), dallo stato di avanzamento dei lavori (verbale dei vigili
urbani del novembre 2017 sull’ultimazione degli stessi).
10.5. La giurisprudenza (cfr. ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 23.05.2018, n. 3075) ha infatti avuto modo di chiarire che la “piena conoscenza”
non deve essere intesa quale “conoscenza piena ed integrale” del
provvedimento stesso, dovendosi invece ritenere che sia sufficiente ad
integrare il concetto la percezione dell’esistenza di un provvedimento
amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della
sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere riconoscibile
l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso. Vi è dunque “piena
conoscenza” quando si è consapevoli dell’esistenza del provvedimento e della
sua lesività e tale consapevolezza determina la sussistenza di una
condizione dell’azione, l’interesse al ricorso, mentre la conoscenza
“integrale” del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce
sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di
impugnazione.
10.6. La previsione dell’istituto dei motivi aggiunti, per il tramite dei
quali il ricorrente può proporre ulteriori motivi di ricorso derivanti dalla
conoscenza di ulteriori atti (già esistenti al momento dell’introduzione del
giudizio, ma ignoti) o dalla conoscenza integrale di atti prima non
pienamente conosciuti, e ciò entro il (nuovo) termine decadenziale di
sessanta giorni decorrente da tale conoscenza sopravvenuta, comprova la
fondatezza dell’interpretazione resa in ordine al significato della “piena
conoscenza” (cfr. anche Cons. Stato, Sez. IV, n. 5675 del 2017).
10.7. In ogni caso, il momento da cui computare i termini decadenziali di
proposizione del ricorso nell’ambito dell’attività edilizia deve essere
individuato nell’inizio dei lavori, nel caso si sostenga che nessun
manufatto poteva essere edificato sull’area ovvero laddove si contesti (come
nel caso di specie), la violazione delle distanza; viceversa esso decorre
dal completamento dei lavori o dal grado di sviluppo degli stessi, ove si
contesti il dimensionamento, la consistenza ovvero la finalità dell’erigendo
manufatto (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, n. 5754 del 2017; Sez. VI,
n. 4830 del 2017; Sez. IV, n. 3067 del 2017; Sez. IV, 15.11.2016, n.
4701; Sez. IV, n. 1135 del 2016; Sez. IV, nn. n. 4909 e 4910 del 2015; Sez.
IV, 22.12.2014 n. 6337; Sez. V, 16.04.2013, n. 2107; Sez. VI, 18.04.2012, n. 2209, che si conformano sostanzialmente all’insegnamento
dell'Adunanza plenaria n. 15 del 2011).
11. Oltre al predetto profilo di irricevibilità, appare fondata anche
l’eccezione di sopravvenuta carenza di interesse all’annullamento degli atti
impugnati a seguito della DIA presentata dalla società Ro. il 02.12.2017 (profilo dedotto in primo grado ma non esaminato dal Tar).
11.1. La Dia infatti si è consolidata senza che sia intervenuta alcuna
iniziativa in sede giurisdizionale a seguito del silenzio serbato dal Comune
sull’istanza dei ricorrenti del 23.11.2017 di annullamento in autotutela; ma, soprattutto, la stessa ha sostanzialmente modificato
l’originario progetto assentito con i provvedimenti impugnati (quest’ultimo
prevedeva 3 piani fuori terra più il piano sottotetto per un’altezza pari a
8,20 metri, mentre il progetto di cui alla DIA, poi concretamente attuato, 4
piani fuori terra più un piano sottotetto per un’altezza di 11,20 metri).
Pertanto, le ricorrenti non avrebbero tratto alcun vantaggio dall’eventuale
annullamento dei titoli edilizi impugnati.
12. Ciò premesso, deve in ogni caso ritenersi condivisibile anche la
conclusione del giudice di primo grado in ordine all’inammissibilità del
ricorso introduttivo del giudizio per originaria carenza di interesse delle
ricorrenti, le quali non avrebbero provato la concreta lesione derivante
dagli atti impugnati (permessi di costruire n. 5978/10/0 del 2010 e n.
5978/10/1 del 2013).
13. Sul punto le ricorrenti deducono, in buona sostanza, che il titolo di
legittimazione alla proposizione del ricorso, nonché l’interesse a ricorrere
per l’annullamento di un titolo edilizio discenderebbe in loro favore dalla
c.d. vicinitas, senza che occorra effettuare indagini in ordine al concreto
pregiudizio che i lavori assentiti fossero in grado di produrre. In ogni
caso, le appellanti avrebbero avuto comunque un interesse consistente
nell’evitare un deterioramento del preesistente assetto edilizio della zona
derivante dall’impatto della nuova costruzione.
14. La tesi prospettata non può essere condivisa. A prescindere dalla
circostanza che le due appellanti non sono proprietarie di edifici
immediatamente contigui all’area oggetto dell’intervento edilizio
contestato, va rilevato che l’invocata vicinitas può fondare la
legittimazione ad agire, ma va poi accompagnata dalla presenza di una
lesione concreta ed attuale della posizione soggettiva di chi impugna il
titolo edilizio. In altri termini, lo stabile collegamento con l’area
interessata dalle opere edilizie non è sufficiente a comprovare anche
l’interesse ad agire che è invece derivante da un concreto pregiudizio per
l’interessato.
14.1. La giurisprudenza ha chiarito a più riprese che la vicinitas non
rappresenta un dato decisivo per fondare l’interesse ad impugnare, nel senso
che di per sé non è sufficiente, dovendosi dimostrare che l’intervento
contestato abbia capacità di propagarsi sino a incidere negativamente sul
fondo del ricorrente (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 19.11.2015, n. 5278).
Nella fattispecie in esame tuttavia una simile prova non viene fornita.
14.2. L’idea che la nozione di vicinitas, oltre a identificare una posizione
qualificata idonea a rappresentare la legittimazione a impugnare il titolo
edilizio, avrebbe assorbito anche l'interesse a ricorrere è stata infatti
superata dall’indirizzo secondo cui, ai fini dell'ammissibilità del ricorso,
deve essere concretamente indagato e accertato anche l'interesse ad agire.
Questo indirizzo valorizza ragioni di coerenza con i principî generali sulle
condizioni per l'azione nel processo amministrativo (cfr. Cons. Stato: Ad.
plen., 25.02.2014, n. 9; successivamente, Sez. IV, 19.11.2015,
n. 5278 citata; per ultimo Sez. IV, 05.02.2018, n. 707).
14.3. D’altra parte, se la distinzione fra i due indirizzi appena richiamati
può non risultare sempre percepibile con evidenza (soprattutto in tema di
distanze o per ragioni di salubrità), va considerato che nella odierna
vicenda contenziosa non appare evidente come la trasformazione edilizia
contestata potesse incidere in via immediata e diretta sulla sfera giuridica
delle ricorrenti. Queste ultime hanno addotto a giustificazione del loro
interesse all’impugnazione un generico profilo di depauperamento della
condizione edilizia della zona.
14.4. La sussistenza dunque del requisito della mera vicinitas non
costituisce elemento sufficiente a comprovare la legittimazione a ricorrere
e l'interesse al ricorso, occorrendo invece la positiva dimostrazione di un
danno che attingerebbe la posizione di colui il quale insorge giudizialmente
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 15.12.2017, n. 5908).
14.5. In chiave comparata, peraltro, è utile ricordare che già in altri
ordinamenti europei (ad esempio in Francia) , a proposito dell’interesse a
ricorrere contro un permesso di costruire, si richiede, nell’idea di
considerare anche la sicurezza giuridica dei titoli autorizzatori (nel caso
in esame rilasciati 3 anni prima), la dimostrazione puntuale dello stesso (cfr.
Conseil d'État, 17.03.2017, n. 396362 e l’art. L-600.1.2 del Code de l'urbanisme,
nel testo introdotto con ordinanza n. 2013-638 del 18.07.2013, che
stabilisce che l'impugnazione di un permesso di costruire richiede la
dimostrazione che l'intervento edilizio sia tale da incidere in modo diretto
sul godimento di un bene da parte del ricorrente). |
EDILIZIA PRIVATA: Con riferimento all’ordinanza di demolizione, in presenza di abusi edilizi,
l’applicazione doverosa e vincolata della sanzione edilizia deriva
unicamente dalla rilevazione di un intervento privo del prescritto titolo
abilitativo, senza che possa rilevare l’eventuale conformità urbanistica o
meno delle opere realizzate.
Quest’ultima può interessare soltanto ai fini
della loro eventuale sanatoria, che l’interessato può richiedere tramite
domanda di accertamento di conformità postuma, ai sensi dell’art. 36 d.p.r.
380/2001.
---------------
3.- Il ricorso ed i relativi motivi aggiunti sono infondati.
Infondato è il primo motivo del ricorso introduttivo.
Con riferimento all’ordinanza di demolizione, in presenza di abusi edilizi,
l’applicazione doverosa e vincolata della sanzione edilizia deriva
unicamente dalla rilevazione di un intervento privo del prescritto titolo
abilitativo, senza che possa rilevare l’eventuale conformità urbanistica o
meno delle opere realizzate. Quest’ultima può interessare soltanto ai fini
della loro eventuale sanatoria, che l’interessato può richiedere –com’è
accaduto nel caso in esame- tramite domanda di accertamento di conformità
postuma, ai sensi dell’art. 36 d.p.r. 380/2001 (cfr. ex multis, questa
Sezione, 22.08.2016, n. 4088)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 07.02.2020 n. 593 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla non precarietà di un gazebo avente le dimensioni di mq. 19,00 circa di
superficie, altezza
minima di mt. 3,70 e massima di mt. 4,10 ed essendo fissato al suolo su
piccole basi in calcestruzzo completamente interrate.
Un'opera può essere qualificata come precaria ove sia destinata ad essere
rimossa non appena siano venuti meno i bisogni, meramente occasionali, che
ne hanno determinato l'installazione, viceversa, ove la costruzione sia
precostituita al soddisfacimento di interessi stabili e permanenti viene meno il requisito della precarietà.
Ne consegue che i gazebo poggianti su piattaforme di calcestruzzo sono
strutture non precarie bensì funzionali a soddisfare esigenze permanenti;
gli stessi costituiscono pertanto manufatti in grado di alterare lo stato
dei luoghi, con ricadute sul carico urbanistico.
Al fine di qualificare sul piano edilizio ed urbanistico il gazebo eretto
de quo, lo stesso, essendo infisso al suolo su
una base di calcestruzzo cementizio, ha prodotto occupazione di superficie
utile; in questo modo si è concretizzata una “trasformazione edilizia ed
urbanistica del territorio”, nonché un mutamento dello stato dei luoghi
rilevanti sul piano ambientale.
Trattasi, quindi, di intervento di nuova costruzione, ai sensi dell’art. 3,
comma 1, lett. d), d.p.r. 380/2001 avendo comunque determinato un consumo di
suolo e, dunque, una trasformazione tendenzialmente irreversibile del
territorio, con necessità di acquisire preventivamente, per il profilo edilizio-urbanistico, il permesso di costruire e, per quello paesaggistico-ambientale,
sussistendo il relativo vincolo, l’autorizzazione prescritta dall’art. 146
del d.lgs. n. 42/2004.
---------------
4.- Infondati sono il secondo ed il terzo motivo del ricorso introduttivo
nonché il terzo motivo del ricorso per motivi aggiunti, il cui esame, per
ragioni di connessione nei contenuti, è opportuno trattare congiuntamente.
4.1.- Nella relazione tecnica asseverata allegata all’istanza di
accertamento di conformità prodotta dalla ricorrente, prot. n. 17543 del 06.09.2016, l’opera oggetto dell’impugnata ordinanza di demolizione è
così descritta: “pergolato in ferro bullonato che poggia su pilastrini in
ferro e non risulta essere ancorata al terreno in modo permanente. Il
pergolato presenta una altezza massima di 3,18 mt e una altezza minima di
2,55 mt. La suddetta struttura è stata realizzata per lo scopo di sostenere
la crescita di piante rampicanti presenti nel giardino circostante al
pergolato. Quest’ultimo si presenta completamente aperto su tutti e 4 i lati
e anche sul lato superiore (soffitto) come si evince dai grafici allegati e
dal rilievo fotografico. Pertanto l’opera risulta essere amovibile e inoltre
non reca alcun violento impatto sull’ambiente circostante”.
La descrizione riduttiva è però smentita dal verbale del Corpo di Polizia
Locale prot. n. 2770/P.M., redatto a seguito di sopralluogo effettuato in
data 19.05.2016 (allegato 9 alla memoria depositata dal comune il 24.10.2019).
Dal sopralluogo emerge che la struttura –definito nell’ordinanza come
“Gazebo”- ha le seguenti dimensioni: superficie mq. 19,00 circa, altezza
minima di mt. 3,70 e massima di mt. 4,10; aspetto, tuttavia, rilevante ai
fini che in questa sede interessano è che lo stesso è fissato al suolo su
piccole basi in calcestruzzo completamente interrate.
Ebbene, le riproduzioni fotografiche allegate sia al verbale della Polizia
municipale sia alle istanze di accertamento di conformità urbanistica e di
autorizzazione paesaggistica, presentate dalla ricorrente, lasciano pochi
dubbi sulle caratteristiche del sopra menzionato gazebo. Quest’ultimo si
presenta in effetti come struttura solida, infissa al suolo su una base di
calcestruzzo cementizio, elementi costruttivi che la privano decisamente dal
preteso carattere provvisorio.
4.2.- Appaiono dunque assenti quelle caratteristiche di precarietà ed
amovibilità reclamate invece dalla ricorrente.
Ad avviso di costante e condivisa giurisprudenza, anche di questa Sezione,
"un'opera può essere qualificata come precaria ove sia destinata ad essere
rimossa non appena siano venuti meno i bisogni, meramente occasionali, che
ne hanno determinato l'installazione, viceversa, ove la costruzione sia
precostituita al soddisfacimento di interessi stabili e permanenti, come
accade nell'ipotesi in esame, viene meno il requisito della precarietà”
(TAR Napoli, sez. III, 01.04.2019, n. 1783; Idem, sez. VI, 24.05.2019, n. 2805; TAR Firenze, Sez. III, 17.04.2018, n. 556).
Ne consegue che i gazebo poggianti su piattaforme di calcestruzzo sono
strutture non precarie bensì funzionali a soddisfare esigenze permanenti;
gli stessi costituiscono pertanto manufatti in grado di alterare lo stato
dei luoghi, con ricadute sul carico urbanistico (Cfr. ex multis, Cons.
Stato, sez. II, 03.09.2019, n. 6068).
Come chiarito nella parte motiva dell’impugnata ordinanza di demolizione:
- l’opera abusiva ricade in zona classificata urbanisticamente
entro il centro abitato;
- la zona in cui insiste l’opera è vincolata per il profilo
ambientale e paesaggistico dal D.Lgs. 42/2004 (ex legge 1497/1939) nonché
dal D.M. 28.03.1985, in quanto “zona di notevole interesse pubblico”;
- il territorio comunale rientra nei Comuni di cui al “Rischio
Vulcanico” di cui alla legge regionale n. 21 del 10.12.2003, con grado
di sismicità categoria 2 “S.9”, giusta D.G.R.C. n. 5447 del 07.11.2002
(classificazione sismica dei Comuni della Regione Campania).
Al fine di qualificare sul piano edilizio ed urbanistico il gazebo eretto
nel giardino antistante l’immobile, lo stesso, essendo infisso al suolo su
una base di calcestruzzo cementizio, ha prodotto occupazione di superficie
utile; in questo modo si è concretizzata una “trasformazione edilizia ed
urbanistica del territorio”, nonché un mutamento dello stato dei luoghi
rilevanti sul piano ambientale.
Trattasi, quindi, di intervento di nuova costruzione, ai sensi dell’art. 3,
comma 1, lett. d), d.p.r. 380/2001 avendo comunque determinato un consumo di
suolo e, dunque, una trasformazione tendenzialmente irreversibile del
territorio, con necessità di acquisire preventivamente, per il profilo edilizio-urbanistico, il permesso di costruire (cfr. TAR Napoli, sez. VIII,
07.11.2016, n. 5116) e, per quello paesaggistico-ambientale,
sussistendo il relativo vincolo, l’autorizzazione prescritta dall’art. 146
del d.lgs. n. 42/2004
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 07.02.2020 n. 593 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non costituisce pertinenza edilizia la
costruzione di un gazebo avente le dimensioni di mq. 19,00 circa di
superficie, altezza
minima di mt. 3,70 e massima di mt. 4,10 ed essendo fissato al suolo su
piccole basi in calcestruzzo completamente interrate.
La
nozione generale di pertinenza sul piano urbanistico-edilizio
assume caratteristiche peculiari e meno ampie rispetto a quella civilistica
ricavabile dall'art. 817 c.c., essendo la stessa configurabile nel caso in
cui sussista un oggettivo ed inscindibile nesso funzionale e strumentale tra
la cosa accessoria e quella principale, purché l'opera secondaria non
comporti alcun maggiore carico urbanistico.
---------------
4.- Infondati sono il secondo ed il terzo motivo del ricorso introduttivo
nonché il terzo motivo del ricorso per motivi aggiunti, il cui esame, per
ragioni di connessione nei contenuti, è opportuno trattare congiuntamente.
4.1.- Nella relazione tecnica asseverata allegata all’istanza di
accertamento di conformità prodotta dalla ricorrente, prot. n. 17543 del 06.09.2016, l’opera oggetto dell’impugnata ordinanza di demolizione è
così descritta: “pergolato in ferro bullonato che poggia su pilastrini in
ferro e non risulta essere ancorata al terreno in modo permanente. Il
pergolato presenta una altezza massima di 3,18 mt. e una altezza minima di
2,55 mt. La suddetta struttura è stata realizzata per lo scopo di sostenere
la crescita di piante rampicanti presenti nel giardino circostante al
pergolato. Quest’ultimo si presenta completamente aperto su tutti e 4 i lati
e anche sul lato superiore (soffitto) come si evince dai grafici allegati e
dal rilievo fotografico. Pertanto l’opera risulta essere amovibile e inoltre
non reca alcun violento impatto sull’ambiente circostante”.
La descrizione riduttiva è però smentita dal verbale del Corpo di Polizia
Locale prot. n. 2770/P.M., redatto a seguito di sopralluogo effettuato in
data 19.05.2016 (allegato 9 alla memoria depositata dal comune il 24.10.2019).
Dal sopralluogo emerge che la struttura –definito nell’ordinanza come
“Gazebo”- ha le seguenti dimensioni: superficie mq. 19,00 circa, altezza
minima di mt. 3,70 e massima di mt. 4,10; aspetto, tuttavia, rilevante ai
fini che in questa sede interessano è che lo stesso è fissato al suolo su
piccole basi in calcestruzzo completamente interrate.
Ebbene, le riproduzioni fotografiche allegate sia al verbale della Polizia
municipale sia alle istanze di accertamento di conformità urbanistica e di
autorizzazione paesaggistica, presentate dalla ricorrente, lasciano pochi
dubbi sulle caratteristiche del sopra menzionato gazebo. Quest’ultimo si
presenta in effetti come struttura solida, infissa al suolo su una base di
calcestruzzo cementizio, elementi costruttivi che la privano decisamente dal
preteso carattere provvisorio.
4.2.- Appaiono dunque assenti quelle caratteristiche di precarietà ed
amovibilità reclamate invece dalla ricorrente.
Ad avviso di costante e condivisa giurisprudenza, anche di questa Sezione,
"un'opera può essere qualificata come precaria ove sia destinata ad essere
rimossa non appena siano venuti meno i bisogni, meramente occasionali, che
ne hanno determinato l'installazione, viceversa, ove la costruzione sia
precostituita al soddisfacimento di interessi stabili e permanenti, come
accade nell'ipotesi in esame, viene meno il requisito della precarietà”
(TAR Napoli, sez. III, 01.04.2019, n. 1783; Idem, sez. VI, 24.05.2019, n. 2805; TAR Firenze, Sez. III, 17.04.2018, n. 556).
Ne consegue che i gazebo poggianti su piattaforme di calcestruzzo sono
strutture non precarie bensì funzionali a soddisfare esigenze permanenti;
gli stessi costituiscono pertanto manufatti in grado di alterare lo stato
dei luoghi, con ricadute sul carico urbanistico (Cfr. ex multis, Cons.
Stato, sez. II, 03.09.2019, n. 6068).
Come chiarito nella parte motiva dell’impugnata ordinanza di demolizione:
- l’opera abusiva ricade in zona classificata urbanisticamente
entro il centro abitato;
- la zona in cui insiste l’opera è vincolata per il profilo
ambientale e paesaggistico dal D.Lgs. 42/2004 (ex legge 1497/1939) nonché
dal D.M. 28.03.1985, in quanto “zona di notevole interesse pubblico”;
- il territorio comunale rientra nei Comuni di cui al “Rischio
Vulcanico” di cui alla legge regionale n. 21 del 10.12.2003, con grado
di sismicità categoria 2 “S.9”, giusta D.G.R.C. n. 5447 del 07.11.2002
(classificazione sismica dei Comuni della Regione Campania).
Al fine di qualificare sul piano edilizio ed urbanistico il gazebo eretto
nel giardino antistante l’immobile, lo stesso, essendo infisso al suolo su
una base di calcestruzzo cementizio, ha prodotto occupazione di superficie
utile; in questo modo si è concretizzata una “trasformazione edilizia ed
urbanistica del territorio”, nonché un mutamento dello stato dei luoghi
rilevanti sul piano ambientale.
Trattasi, quindi, di intervento di nuova costruzione, ai sensi dell’art. 3,
comma 1, lett. d), d.p.r. 380/2001 avendo comunque determinato un consumo di
suolo e, dunque, una trasformazione tendenzialmente irreversibile del
territorio, con necessità di acquisire preventivamente, per il profilo edilizio-urbanistico, il permesso di costruire (cfr. TAR Napoli, sez. VIII,
07.11.2016, n. 5116) e, per quello paesaggistico-ambientale,
sussistendo il relativo vincolo, l’autorizzazione prescritta dall’art. 146
del d.lgs. n. 42/2004.
...
4.3.- Non condivisibile il tentativo della ricorrente di derubricare la
struttura contestata a mera pertinenza edilizia e, quindi, assentibile anche
in via postuma.
Come chiarito da costante e condivisa giurisprudenza, anche di questa
Sezione, la nozione generale di pertinenza sul piano urbanistico-edilizio
assume caratteristiche peculiari e meno ampie rispetto a quella civilistica
ricavabile dall'art. 817 c.c., essendo la stessa configurabile nel caso in
cui sussista un oggettivo ed inscindibile nesso funzionale e strumentale tra
la cosa accessoria e quella principale, purché l'opera secondaria non
comporti alcun maggiore carico urbanistico (cfr. ex multis, TAR
Napoli, sez. III, 09.12.2019, n. 5769)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 07.02.2020 n. 593 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell'art. 36 d.p.r. n. 380/2001, ove il Comune non si
pronunci espressamente entro il termine di sessanta giorni dal ricevimento
dell’istanza di accertamento di conformità, la stessa s'intende respinta.
Sull’istanza si forma infatti una fattispecie tipica, prevista direttamente
dal legislatore, di silenzio-diniego, il quale va impugnato mediante la
proposizione di motivi aggiunti o ricorso autonomo.
Il silenzio-diniego può infatti essere impugnato dall’interessato in sede
giurisdizionale per il tramite dell’azione di annullamento, alla stregua di
un provvedimento esplicito, con la differenza però che il diniego, in quanto
tacito, non è censurabile per difetto di motivazione, di cui è
strutturalmente carente per previsione legislativa, ma solo per il suo
contenuto di rigetto.
Allo stesso modo, del silenzio-diniego non sono contestabili gli altri
difetti formali propri degli atti, quali i vizi del procedimento, la
mancanza di pareri o del preavviso dei motivi ostativi all’accoglimento.
Infatti, la stessa previsione normativa del silenzio-diniego è
giustificabile ove si consideri che l’accertamento di conformità, come
evidenziato da costante giurisprudenza, alla quale questa Sezione si è più volte conformata, è diretto a sanare le opere
solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il previo rilascio del
titolo ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile
per l’area su cui sorgono, vigente al momento sia della loro realizzazione
sia della presentazione dell’istanza di conformità (c.d. “doppia
conformità”).
Il provvedimento di sanatoria assume, dunque, una connotazione eminentemente
oggettiva e vincolata, priva di apprezzamenti discrezionali, dovendo
l’autorità procedente valutare la conformità dell’opera alla normativa
urbanistica ed edilizia vigente in relazione ad entrambi i segmenti
temporali considerati dalla norma.
---------------
La presentazione di un’istanza di
accertamento di conformità non incide sulla legittimità dei provvedimenti
demolitori in precedenza emessi ma si limita solo a sospenderne
temporaneamente gli effetti sino alla definizione del relativo procedimento,
in ciò distinguendosi dagli speciali procedimenti del cosiddetto condono
edilizio; in altri termini, l’efficacia dell’ordine sanzionatorio resta
soltanto sospesa, ossia posta in uno stato di temporanea quiescenza.
Va del resto disattesa una diversa soluzione interpretativa la quale
comporterebbe il paradossale vantaggio per il soggetto destinatario del
provvedimento di paralizzare ad libitum la potestà amministrativa,
determinando la definitiva inefficacia di un provvedimento autoritativo,
ogni qual volta sia adottato, mediante la mera presentazione di un’istanza.
Ne consegue che, a conclusione del procedimento di sanatoria, in caso di
accoglimento dell’istanza, l’ordine di demolizione resta privo di effetti,
in ragione dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina
urbanistica ed edilizia, con conseguente venir meno dell’originario
carattere abusivo dell’opera realizzata; al contrario, in caso di rigetto
dell’istanza, espresso o tacito, l’ordine demolitorio si espande di nuovo,
riacquistando la propria originaria e piena efficacia.
In questo caso, il termine concesso per l’esecuzione spontanea della
demolizione dovrà decorrere dal momento in cui il diniego di sanatoria
perviene a conoscenza dell’interessato; costui, infatti, non può essere
pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà di legge, quale quella di
chiedere la verifica postuma di conformità urbanistica e, pertanto, ha
diritto di fruire dell’intero termine a lui assegnato per adeguarsi
all’ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata
esecuzione dello stesso.
---------------
5.- Risultano infondati anche il primo ed il secondo motivo
del ricorso per motivi aggiunti.
5.1.- Le proposte censure non considerano che, ai sensi del menzionato art.
36 d.p.r. n. 380/2001, ove il Comune non si pronunci espressamente entro il
termine di sessanta giorni dal ricevimento dell’istanza di accertamento di
conformità, la stessa s'intende respinta. Sull’istanza si forma infatti una
fattispecie tipica, prevista direttamente dal legislatore, di
silenzio-diniego, il quale va impugnato mediante la proposizione di motivi
aggiunti o ricorso autonomo (ex multis, TAR Campania, Napoli, Sez. III,
09.12.2014, n. 6425; Idem, n. 3386 del 08.07.2015).
Il silenzio-diniego può infatti essere impugnato dall’interessato in sede
giurisdizionale per il tramite dell’azione di annullamento, alla stregua di
un provvedimento esplicito, con la differenza però che il diniego, in quanto
tacito, non è censurabile per difetto di motivazione, di cui è
strutturalmente carente per previsione legislativa, ma solo per il suo
contenuto di rigetto.
Allo stesso modo, del silenzio-diniego non sono contestabili gli altri
difetti formali propri degli atti, quali i vizi del procedimento, la
mancanza di pareri o del preavviso dei motivi ostativi all’accoglimento (cfr.
TAR Campania, Napoli, sez. III, 22.08.2016, n. 4088).
Infatti, la stessa previsione normativa del silenzio-diniego è
giustificabile ove si consideri che l’accertamento di conformità, come
evidenziato da costante giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato sez. IV,
05.05.2017 n. 2063), alla quale questa Sezione si è più volte conformata (cfr.
ex multis, sentenza 05.09.2017, n. 4249), è diretto a sanare le opere
solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il previo rilascio del
titolo ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile
per l’area su cui sorgono, vigente al momento sia della loro realizzazione
sia della presentazione dell’istanza di conformità (c.d. “doppia
conformità”).
Il provvedimento di sanatoria assume, dunque, una connotazione eminentemente
oggettiva e vincolata, priva di apprezzamenti discrezionali, dovendo
l’autorità procedente valutare la conformità dell’opera alla normativa
urbanistica ed edilizia vigente in relazione ad entrambi i segmenti
temporali considerati dalla norma (ex multis, sempre questa Sezione,
sentenza 24.10.2017, n. 4940).
5.2.- Come chiarito, altresì, da costante giurisprudenza (ex multis, Cons.
Stato, sez. VI, 02.02.2015, n. 466), la presentazione di un’istanza di
accertamento di conformità non incide sulla legittimità dei provvedimenti
demolitori in precedenza emessi ma si limita solo a sospenderne
temporaneamente gli effetti sino alla definizione del relativo procedimento,
in ciò distinguendosi dagli speciali procedimenti del cosiddetto condono
edilizio; in altri termini, l’efficacia dell’ordine sanzionatorio resta
soltanto sospesa, ossia posta in uno stato di temporanea quiescenza.
Va del resto disattesa una diversa soluzione interpretativa la quale
comporterebbe il paradossale vantaggio per il soggetto destinatario del
provvedimento di paralizzare ad libitum la potestà amministrativa,
determinando la definitiva inefficacia di un provvedimento autoritativo,
ogni qual volta sia adottato, mediante la mera presentazione di un’istanza (cfr.
TAR Campania, Napoli, sez. III, 05.09.2017, n. 4251).
Ne consegue che, a conclusione del procedimento di sanatoria, in caso di
accoglimento dell’istanza, l’ordine di demolizione resta privo di effetti,
in ragione dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina
urbanistica ed edilizia, con conseguente venir meno dell’originario
carattere abusivo dell’opera realizzata; al contrario, in caso di rigetto
dell’istanza, espresso o tacito, l’ordine demolitorio si espande di nuovo,
riacquistando la propria originaria e piena efficacia.
In questo caso, il termine concesso per l’esecuzione spontanea della
demolizione dovrà decorrere dal momento in cui il diniego di sanatoria
perviene a conoscenza dell’interessato; costui, infatti, non può essere
pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà di legge, quale quella di
chiedere la verifica postuma di conformità urbanistica e, pertanto, ha
diritto di fruire dell’intero termine a lui assegnato per adeguarsi
all’ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata
esecuzione dello stesso (questa Sezione, sentenza 06.04.2017, n. 1891)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 07.02.2020 n. 593 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Per
quanto attiene alla nozione di area agricola strategica la
giurisprudenza ha riconosciuto che il concetto di area a vocazione
agricola e il concetto di area agricola strategica non sono
sovrapponibili.
In particolare, è stato detto che “In disparte l’elemento storico
(provenienza dei due concetti da differenti impianti normativi) e testuale
(l’espressa connotazione delimitativa delle aree agricole strategiche),
appare corretta la lettura del TAR che ha evidenziato come anche la Regione
Lombardia avesse individuato diversamente i criteri per la definizione degli
ambiti destinati all’attività agricola di interesse strategico, attraverso
delibera di Giunta n. VIII/8059 del 19.09.2008, da dove si evince che gli
ambiti strategici non sono tutti quelli destinati all’agricoltura, ma solo
quelle parti di territorio caratterizzate da elementi di particolare
rilievo”.
Tuttavia l’idoneità dei terreni della ricorrente a soddisfare esigenze
agricole risulta motivata dalla Provincia con elementi che sono desunti
proprio dalla delibera di Giunta n. VIII/8059 del 19.09.2008, come la
valutazione della classe del valore agro-forestale e l'estensione e
continuità territoriale di scala sovracomunale (v. il punto 2 della
deliberazione regionale citata).
A ciò si aggiunge che il carattere strategico dell’area non è legato alle
sole esigenze dell’agricoltura ma anche a quelle silvo-pastorali.
---------------
La società ricorrente, proprietaria nel comune di Agrate Brianza di un’area
a destinazione agricola secondo il PGT vigente, ha impugnato il PTCP della
Provincia di Monza e Brianza in quanto l’ha inserita all’interno delle aree
agricole strategiche individuate dalla tavola 7b e disciplinate dall'art. 6
delle NTA del Piano stesso.
La ricorrente premette che l’area è inserita in un contesto fortemente
urbanizzato e dotato di tutte le infrastrutture di servizio ed è situata
nella zona artigianale/industriale del comune di Agrate Brianza e confina
con importanti aziende locali e con l’ambito di trasformazione (ATp6)
produttivo. Per tali ragioni ha presentato un’osservazione alla Provincia
per ottenere lo stralcio dell’area dagli ambiti agricoli strategici ma la
Provincia l’ha ritenuta inaccoglibile in quanto ”l'inserimento in AAS è
coerente con i criteri per l’individuazione degli ambiti e con
l'impostazione metodologica del procedimento di individuazione effettuato”.
Contro il piano approvato ha quindi sollevato i seguenti motivi di ricorso.
1. Illegittimità per violazione dell'art. 11, comma 4, della legge
regionale n. 12 del 2005 sotto il profilo del mancato rispetto del criteri
regionali per la definizione degli ambiti agricoli strategici. Eccesso di
potere nelle sue diverse figure sintomatiche. Violazione dell'art. 41 della
Costituzione.
Secondo la ricorrente la qualificazione del fondo in oggetto quale area
agricola strategica si porrebbe in contrasto con la deliberazione della
Giunta regionale della Lombardia n. 8059 del 2008 secondo la quale non tutti
gli ambiti agricoli presentano specifiche peculiarità tali da essere
definiti o riconosciuti come ambiti strategici.
Gli ambiti agricoli strategici non avrebbero funzione di salvaguardia dalla
edificazione (come pure le aree agricole classiche sono state a volte
considerate, sebbene con qualche contrasto in dottrina e giurisprudenza) ma
assumerebbero la caratteristica di aree con vocazione economico-produttiva
riguardo agli utilizzi agricoli. Gli elementi necessari per qualificare
un’area agricola strategica sarebbero: a) inclusione tra le zone agricole
del PGT; b) classificazione a "prati permanenti" contenuta nel DUSAF
(banca dati dell'uso e copertura del suolo); c) continuità con altri ambiti
agricoli strategici; d) inclusione nell'area di ricarica diretta degli
acquiferi in base alla tavola 9 del PTCP di Monza come "prati permanenti".
Nessuno degli elementi innanzi considerati dalla provincia di Monza nella
sua attività istruttoria per la formazione del PTCP avrebbe evidenziato
quelle specifiche caratteristiche di "produttività agricola"
necessarie per connotare l'area di cui è causa tra gli ambiti agricoli
strategici.
...
Il primo motivo di ricorso è infondato.
Per quanto attiene alla nozione di area agricola strategica la
giurisprudenza (Cons. Stato, IV, 01/09/2015 n. 4081; idem Cons. Stato, I,
04.07.2017 n. 1607; TAR Lombardia, Brescia, I, 08/05/2017 n. 614) ha
riconosciuto che il concetto di area a vocazione agricola e il
concetto di area agricola strategica non sono sovrapponibili.
In particolare, è stato detto che “In disparte l’elemento storico
(provenienza dei due concetti da differenti impianti normativi) e testuale
(l’espressa connotazione delimitativa delle aree agricole strategiche),
appare corretta la lettura del TAR che ha evidenziato come anche la Regione
Lombardia avesse individuato diversamente i criteri per la definizione degli
ambiti destinati all’attività agricola di interesse strategico, attraverso
delibera di Giunta n. VIII/8059 del 19.09.2008, da dove si evince che gli
ambiti strategici non sono tutti quelli destinati all’agricoltura, ma solo
quelle parti di territorio caratterizzate da elementi di particolare rilievo”
(v. Cons. Stato, IV, 01/09/2015 n. 4081).
Tuttavia l’idoneità dei terreni della ricorrente a soddisfare esigenze
agricole risulta motivata dalla Provincia con elementi che sono desunti
proprio dalla delibera di Giunta n. VIII/8059 del 19.09.2008, come la
valutazione della classe del valore agro-forestale e l'estensione e
continuità territoriale di scala sovracomunale (v. il punto 2 della
deliberazione regionale citata).
A ciò si aggiunge che, a differenza di quanto affermato dalla ricorrente, il
carattere strategico dell’area non è legato alle sole esigenze
dell’agricoltura ma anche a quelle silvo-pastorali. Né d’altro canto la
ricorrente ha contestato i dati provenienti dall’ERSAF, limitandosi
piuttosto ad un più generico motivo di difetto di motivazione (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 07.02.2020 n. 266 - link a
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EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Lombardia,
disapplicazione D.M. 02.04.1968, n. 1444 in
sede di adeguamento degli strumenti
urbanistici.
La Corte Costituzionale: “dichiara
inammissibili le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 103, comma 1-bis,
della legge della Regione Lombardia
11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del
territorio), sollevate, in riferimento agli
artt. 117, secondo comma, lettera l), e
terzo comma, della Costituzione, dal
Consiglio di Stato, sezione prima, con
l’ordinanza indicata in epigrafe”.
La Corte ricorda che:
“1.1.– La disposizione censurata è stata
aggiunta dall’art. 1, comma 1, lettera xxx),
della legge della Regione Lombardia
14.03.2008, n. 4, recante «Ulteriori
modifiche e integrazioni alla legge
regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il
governo del territorio)», e prevede che, ai
fini dell’adeguamento, «ai sensi
dell’articolo 26, commi 2 e 3, degli
strumenti urbanistici vigenti, non si
applicano le disposizioni del decreto
ministeriale 02.04.1968, n. 1444».
La disciplina in esame salvaguarda, per i
soli interventi di nuova costruzione, «il
rispetto della distanza minima tra
fabbricati pari a dieci metri» e ne consente
la deroga soltanto «tra fabbricati inseriti
all’interno di piani attuativi e di ambiti
con previsioni planivolumetriche oggetto di
convenzionamento unitario», in base alla
previsione introdotta dall’art. 4, comma 1,
lettera k), della legge della Regione
Lombardia 26.11.2019, n. 18, recante «Misure
di semplificazione e incentivazione per la
rigenerazione urbana e territoriale, nonché
per il recupero del patrimonio edilizio
esistente. Modifiche e integrazioni alla
legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per
il governo del territorio) e ad altre leggi
regionali».
La distanza minima di dieci metri, nel
rispetto di quanto previsto dagli artt. 873
e 907 del codice civile, è altresì
«derogabile per lo stretto necessario alla
realizzazione di sistemi elevatori a
pertinenza di fabbricati esistenti che non
assolvano al requisito di accessibilità ai
vari livelli di piano» (art. 103, comma
1-ter, della legge regionale n. 12 del 2005,
aggiunto dall’art. 12, comma 1, della legge
della Regione Lombardia 13.03.2012, n. 4,
recante «Norme per la valorizzazione del
patrimonio edilizio esistente e altre
disposizioni in materia urbanistico-edilizia»)”.
Nel giudizio la Regione Lombardia ha
eccepito l’inammissibilità delle questioni
in ragione dell’inadeguata motivazione in
punto di rilevanza: il rimettente non
avrebbe argomentato in alcun modo in ordine
alla necessità di applicare una disposizione
che riguarda specificamente la fase di
adeguamento degli strumenti urbanistici
vigenti.
La Corte Costituzionale accoglie l’eccezione
di inammissibilità sulla base delle seguenti
motivazioni:
“6.1.– La disposizione censurata esclude
l’applicazione delle previsioni del d.m. n.
1444 del 1968 e puntualizza che tale
disapplicazione opera «[a]i fini
dell’adeguamento, ai sensi dell’articolo 26,
commi 2 e 3, degli strumenti urbanistici
vigenti».
L’art. 26, comma 2, della legge reg.
Lombardia n. 12 del 2005 dispone che i
Comuni deliberino l’avvio del procedimento
di adeguamento dei piani regolatori generali
vigenti entro un anno dall’entrata in vigore
della medesima legge, pubblicata sul
Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia
del 16 marzo 2005, n. 11, e destinata a
entrare in vigore, in difetto di previsioni
di segno diverso, il quindicesimo giorno
successivo alla pubblicazione.
I Comuni sono poi obbligati ad approvare
tutti gli atti inerenti ai piani di governo
del territorio in conformità ai princìpi
enunciati dalla nuova «Legge per il governo
del territorio» e secondo il procedimento
che tale legge delinea.
L’art. 26, comma 3, della stessa legge reg.
Lombardia n. 12 del 2005, nella formulazione
originaria, disciplinava i tempi di
adeguamento dello strumento urbanistico
generale, quando fosse stato approvato prima
dell’entrata in vigore «della legge
regionale 15.04.1975, n. 51 (Disciplina
urbanistica del territorio regionale e
misure di salvaguardia per la tutela del
patrimonio naturale e paesistico)» (art. 25,
comma 2, della legge reg. Lombardia n. 12
del 2005). Era previsto il termine più
celere di sei mesi dall’entrata in vigore
della nuova «Legge per il governo del
territorio» e si stabiliva che,
successivamente, fossero approvati tutti gli
atti di piano di governo del territorio.
Dopo le novità apportate dall’art. 1, comma
1, lettera f), della legge della Regione
Lombardia 10.03.2009, n. 5 (Disposizioni in
materia di territorio e opere pubbliche -
Collegato ordinamentale), l’art. 26, comma
3, della legge regionale n. 12 del 2005 oggi
regola l’avvio del procedimento di
approvazione del piano di governo del
territorio, che deve essere deliberato dai
Comuni entro il 15.09.2009.
6.2.– Il Consiglio di Stato, sin dalle
premesse dell’ordinanza di rimessione,
evidenzia che è stata impugnata la variante
adottata con delibera del Consiglio comunale
di Sondrio 28.11.2014, n. 81, e destinata a
modificare il piano di governo del
territorio, a sua volta approvato con
delibera del Consiglio comunale 06.06.2011,
n. 40.
6.3.– A fronte di una variante risalente al
novembre 2014 e relativa a un piano di
governo del territorio già approvato nel
giugno 2011, il rimettente non illustra le
ragioni che rendono necessaria
l’applicazione di una disciplina volta a
regolare la sola fase transitoria di
adeguamento degli strumenti urbanistici
vigenti, modulata secondo precise scansioni
temporali, e non la revisione dei piani di
governo del territorio già approvati.
La disposizione censurata, pur posteriore
alla «Legge per il governo del territorio»
del 2005, si colloca in un orizzonte
temporale definito, legato all’adeguamento
degli strumenti urbanistici vigenti e alla
successiva transizione ai piani di governo
del territorio, che si configurano come i
nuovi strumenti di pianificazione
urbanistica previsti dalla legislazione
regionale.
In tal senso depone l’univoco dettato
letterale, che richiama l’adeguamento,
secondo le cadenze predeterminate dall’art.
26, commi 2 e 3, della legge regionale n. 12
del 2005, e postula un nesso di
strumentalità della disapplicazione rispetto
all’adeguamento stesso.
Sull’elemento temporale e sulla correlazione
finalistica con l’adeguamento, che integrano
requisiti imprescindibili della disposizione
sospettata di incostituzionalità, il
rimettente non offre ragguagli di sorta. Il
Consiglio di Stato non dimostra che il
provvedimento impugnato, posteriore alla
fase transitoria di adeguamento, rinviene il
suo fondamento nella disciplina sottoposta
al vaglio di questa Corte e contraddistinta
da presupposti applicativi rigorosi”
(Corte Costituzionale,
sentenza 07.02.2020 n. 13 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com). |
APPALTI: Fuori
gara se l'offerta è in perdita.
L'aggiudicazione della gara va annullata perché l'offerta dell'impresa
vincitrice risulta in perdita: i costi di esecuzione dell'appalto superano
il corrispettivo previsto, mentre non si può fare affidamento su ricavi
esterni al contratto, che dovrebbero arrivare nel quadro di consolidate
relazioni commerciali. L'offerta, anomala, è contro la libera concorrenza:
il player forte del settore ha interesse a conquistare fette sempre maggiori
nonostante il singolo appalto sia in perdita per espellere i concorrenti dal
mercato.
È quanto emerge dalla
sentenza 06.02.2020 n. 257, pubblicata dalla IV Sez. del TAR
Lombardia-Milano.
Accolto il ricorso della società seconda classificata nella procedura aperta
bandita dal comune per l'aggiudicazione del servizio di mensa scolastica e
sociale (pasti a disabili e anziani non indipendenti). A conti fatti
preparare i pasti costerà all'impresa vincitrice più dei ricavi previsti nel
triennio di contratto. E pazienza se nel centro di cottura del Comune si
potranno produrre altri pasti da vendere a terzi, che sono estranei al
contratto messo a gara e costituiscono comunque una mera eventualità.
L'offerta, invece, risulta congrua deve essere di per sé sostenibile da chi
partecipa alla procedura. Altrimenti si favoriscono gli operatori economici
più grandi che possono presentare proposte in perdita pur di accaparrarsi
gli appalti. Nessun dubbio, poi, che l'eventuale preparazione di pasti per
terzi sia estranea al contratto, dove si parla delle sole mense di scuole
statali, comunali, asili nido e centro diurno disabili, mentre il centro di
cottura dell'amministrazione risulta conferito in uso per garantire il
servizio.
Il contratto fra comune e società (ex) vincitrice non può essere dichiarato
inefficace perché non risulta la stipula, peraltro inibita dall'incidente
cautelare ex articolo 32, comma undicesimo, del codice degli appalti. Né si
può aggiudicare il servizio direttamente alla seconda classificata perché
spetta alla stazione appaltante assumere le decisioni sull'annullamento
(articolo ItaliaOggi del 22.02.2020).
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MASSIMA
Il ricorso è manifestamente fondato.
Segnatamente, fondato e assorbente è il primo motivo di ricorso,
dedotto in principalità, con il quale la società Du.Se. S.r.l. lamenta la “Violazione
e falsa applicazione dell’art. 97, d.lgs. n. 50/2016. Insostenibilità
dell’offerta. Violazione del principio di par condicio. Eccesso di potere
per carenza di istruttoria e di motivazione, travisamento dei presupposti di
fatto e di diritto, ingiustizia manifesta”.
Dalla documentazione in atti emerge con chiarezza che i costi di esecuzione
dell’appalto di ristorazione superano di €uro 1.296.534,36 nel triennio il
corrispettivo che la società Pe. S.p.A. ricaverà dalla preparazione dei
pasti per il Comune: il dato non è in contestazione.
L’offerta è, dunque, in perdita.
Non è, infatti, condivisibile la tesi della stazione appaltante, sostenuta
anche dalla società aggiudicatrice, per cui nella valutazione di congruità
dell’offerta si deve tenere conto anche dei ricavi derivanti dalla
produzione nel Centro cottura del Comune di ulteriori pasti destinati a
terzi: ricavi che nella prospettazione della controinteressata sono in grado
di coprire le spese generate dal servizio reso al Comune.
Invero, l’offerta deve essere sostenibile e il contratto non in perdita per
l’appaltatore autonomamente, e non grazie a elementi esterni al contratto
medesimo, perché, diversamente, si altererebbe la libera concorrenza a
favore degli operatori economici più forti, che possono permettersi –pur di
conquistare quote sempre maggiori di mercato e di espellere dal mercato
altri concorrenti– di presentare offerte in perdita (cfr., C.d.S., Sez. V,
sentenza n. 210/2014; TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza n. 200/2017).
E che la produzione di pasti destinati a terzi sia elemento estraneo al
contratto messo a gara lo si ricava da una pluralità di elementi.
Innanzitutto, il bando di gara nella denominazione dell’appalto indica «Servizio
di ristorazione scolastica e sociale», e nella descrizione dell’oggetto
«- la gestione del servizio di ristorazione scolastica a favore degli
utenti delle Istituzioni scolastiche statali e comunali, - la gestione del
servizio di ristorazione degli asili nido comunali, - la gestione del
servizio di ristorazione del Centro Diurno Disabili (C.D.D.), - la gestione
del servizio di produzione e consegna di pasti a domicilio persone anziane
e/o ridotta autonomia».
In nessun punto del bando si parla di contratto misto o si fa cenno al fatto
che lo sfruttamento economico del Centro cottura comunale per eseguire anche
altri appalti rientri nel sinallagma negoziale.
È ben vero che il Disciplinare di gara all’articolo 3, rubricato “Oggetto
dell’appalto, importo e suddivisione in lotti”, elenca anche il
conferimento dell’uso del Centro Produzione Pasti di proprietà del Comune e
dei punti di somministrazione posti nei vari plessi scolastici, nel C.D.D. e
negli asili nido. Ma è altrettanto vero che tale conferimento in uso è, per
l’appunto, funzionale all’esecuzione dell’appalto del servizio di
ristorazione per il Comune di Saronno, e non ad altro, come dimostra la
circostanza che il conferimento riguarda non solo il Centro cottura, ma
anche i punti di somministrazione dei pasti.
D’altro canto, l’utilizzo del Centro di cottura per la produzione di pasti
per terzi, ai sensi dell’articolo 22.1 del Capitolato speciale (che, non a
caso, utilizza la dizione “può produrre”), rappresenta una facoltà e
non un obbligo.
Né a conclusioni diverse conduce la circostanza che l’aggio annuo minimo
garantito è elemento dell’offerta economica. Infatti, ancora una volta il
precitato articolo 22.1 del Capitolato speciale chiarisce che tale importo
minimo è comunque dovuto, ovverosia indipendentemente dal fatto che nel
Centro cottura comunale si preparino pasti per terzi e che se ne preparino
un numero sufficiente a coprire l’aggio promesso.
Quindi, a ben guardare, si tratta di un costo fisso dell’appalto di
ristorazione.
In definitiva, non si possono far rientrare nella valutazione di congruità
dell’offerta per il servizio di ristorazione scolastica e sociale, costi e
ricavi relativi a rapporti negoziali esterni, con soggetti che non sono
parte dell’appalto, rapporti che –anche in un quadro di pregresse e
consolidate relazioni commerciali– sono comunque del tutto eventuali.
Pertanto, avuto riguardo ai costi e ai ricavi del solo
servizio di ristorazione scolastica e sociale, l’offerta
di Pe. S.p.A. è in perdita e, come tale, è ex se
anomala (cfr., ex plurimis,
C.d.S., Sez. V, sentenza n. 5422/2019; C.d.S., Sez. V, sentenza n. 963/2015;
TAR Campania–Napoli, Sez. II, sentenza n. 3940/2015; TAR Lazio–Roma, Sez.
III-ter, sentenza n. 8744/2015) e, pertanto, da escludersi
dalla gara.
In conclusione, il ricorso è fondato e per questo viene accolto. Per
l’effetto, è annullata l’aggiudicazione a favore della società Pe. S.p.A..
Non si fa, invece, luogo alla declaratoria di inefficacia del contratto, non
risultando agli atti che vi sia stata la stipula, peraltro, inibita
dall’incidente cautelare ai sensi dell’articolo 32, comma 11, D.Lgs. n.
50/2016.
Nemmeno si fa luogo all’aggiudicazione diretta dell’appalto alla società
Du.Se. S.r.l., spettando alla stazione appaltante riattivare la procedura e
adottare le determinazioni conseguenti all’avvenuto annullamento. |
APPALTI: Limiti
alla suddivisione in lotti delle prestazioni oggetto di gara.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Lotti – Suddivisione - Limiti.
Alle stazioni appaltanti è vietato suddividere le
prestazioni oggetto di una gara d’appalto in lotti distinti laddove ciò non
sia giustificato dalla diversità dei servizi o delle forniture oggetto dei
vari sub-lotti e/o dalla esigenza di favorire la partecipazione alla gara
delle piccole e medie imprese (1).
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(1) La Sezione ha ricordato che l’art. 51, d.lgs. 18.04.2016, n.
50, al comma 1, prevede che “...le stazioni appaltanti suddividono gli
appalti in lotti funzionali di cui all'articolo 3, comma 1, lettera qq),
ovvero in lotti prestazionali di cui all'articolo 3, comma 1, lettera ggggg),
in conformità alle categorie o specializzazioni nel settore dei lavori,
servizi e forniture” soggiungendo nel successivo periodo che “Le
stazioni appaltanti motivano la mancata suddivisione dell'appalto in lotti
nel bando di gara o nella lettera di invito e nella relazione unica di cui
agli articoli 99 e 139”.
Al contempo, mette conto evidenziare che tale principio non assume valenza
assoluta ed inderogabile.
La Sezione ha di recente evidenziato che, in materia di appalti pubblici,
costituisce principio di carattere generale la preferenza per la
suddivisione in lotti, in quanto diretta a favorire la partecipazione alle
gare delle piccole e medie imprese; tale principio come recepito all'art.
51, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, non costituisce una regola inderogabile, in
quanto la norma consente alla stazione appaltante di derogarvi per
giustificati motivi, che devono però essere puntualmente espressi nel bando
o nella lettera di invito, proprio perché il precetto della ripartizione in
lotti è funzionale alla tutela della concorrenza (Cons.
St., sez. III, 21.03.2019, n. 1857).
Tanto premesso, anche sotto tale distinto profilo, il frazionamento in lotti
non è funzionale all’esigenza di favorire la partecipazione delle piccole e
medie imprese, non essendo correlata la scelta organizzativa qui in
discussione al valore economico della gara in comparazione con gli standard
organizzativi e di fatturato delle imprese di settore.
D’altro canto, nemmeno può essere sottaciuto che gli effetti della misura in
argomento si pongono in plateale contrasto con l’obiettivo di ampliare la
platea dei possibili concorrenti.
Ed, invero, l’opzione organizzativa qui in discussione limita la
partecipazione per ciascun lotto ad una determinata e ristretta categoria di
produttori a seconda del tipo di dispositivo utilizzato (penna o siringa)
per l’adrenalina da autoiniezione, precludendo agli altri di concorrere a
rendere una prestazione funzionalmente equivalente.
La Sezione non disconosce affatto, da un lato, il carattere eminentemente
discrezionale delle valutazioni affidate in subiecta materia alla stazione
appaltante e, dall’altro, le connesse implicazioni quanto alle modalità e
limiti di esplicazione del relativo sindacato giurisdizionale, avendo a tal
fini espressamente evidenziato che “...la scelta della stazione
appaltante circa la suddivisione in lotti di un appalto pubblico costituisce
una decisione normalmente ancorata, nei limiti previsti dall’ordinamento, a
valutazioni di carattere tecnico-economico. In tali ambiti, il concreto
esercizio del potere discrezionale dell’Amministrazione circa la
ripartizione dei lotti da conferire mediante gara pubblica deve essere
funzionalmente coerente con il bilanciato complesso degli interessi pubblici
e privati coinvolti dal procedimento di appalto e resta delimitato, oltre
che dalle specifiche norme sopra ricordate del codice dei contratti, anche
dai principi di proporzionalità e di ragionevolezza”.
L'intero impianto dei lotti di una gara non deve dar luogo a violazioni
sostanziali dei principi di libera concorrenza, di “par condicio”, di
non-discriminazione e di trasparenza di cui all'art. 2, comma 1, d.lgs. n.
163 del 2006 e s.m.i. (Cons. St., sez. III, n. 5224 del 13.11.2017).
Ciò nondimeno, va qui ribadito che, come qualsiasi scelta della pubblica
amministrazione, anche la suddivisione in lotti di un contratto pubblico si
presta ad essere sindacata in sede giurisdizionale amministrativa sotto i
profili della ragionevolezza e della proporzionalità, oltre che della
congruità dell’istruttoria svolta.
Orbene, prendendo abbrivio da siffatta premessa, deve qui ribadirsi come le
scelte confluite negli atti di gara non riposino su ragioni giustificatrici
idonee ad evidenziare, nella comparazione dei valori in campo, le superiori
esigenze a presidio delle quali si pone l’opzione organizzativa privilegiata
dalla stazione appaltante di frazionare la gara in lotti distinti per
singolo dispositivo utilizzato nonostante il sacrificio del favor
partecipationis che ad essa si riconnette.
Anzitutto, e giusta quanto già sopra evidenziato, l’opzione privilegiata
dall’Amministrazione non può dirsi espressione di una scelta strettamente
necessitata alla stregua della stessa descrizione delle caratteristiche
tecniche delle prestazioni poste a base di gara sì da far ritenere
direttamente mutuabili da tale descrizione, e per i profili di intrinseca
eterogeneità dei relativi contenuti, le ragioni della disposta
frammentazione in lotti distinti quasi ad assecondare una diversa vocazione
ontologica dei singoli lotti.
Né il divisato assetto organizzativo costituisce la sintesi di un
ragionevole bilanciamento degli interessi comparati.
L’opzione prescelta, in mancanza di perspicui elementi di segno contrario,
si risolve, viceversa, anche in ragione della scarsa concorrenzialità del
mercato di riferimento, in un oggettivo fattore distorsivo di una corretta
competizione con penalizzanti ricadute per la stessa Amministrazione,
anzitutto, sul piano economico per la diversa base d’asta che connota i
lotti qui in rilievo e, sotto distinto profilo, anche rispetto alle evidenti
esigenze di semplificazione gestionale e di riduzione dei costi che si
accompagnerebbero ad una razionalizzazione delle procedure di acquisto con
possibili, significative economie di scala
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 05.02.2020 n. 932 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Come
chiarito da costante e condivisa giurisprudenza, la fascia cimiteriale di inedificabilità si impone ex se, con
efficacia diretta ed immediata, a prescindere da qualsiasi recepimento in
strumenti urbanistici, che non sono idonei, proprio per la loro natura, ad
incidere sull’esistenza o sui limiti di siffatti vincoli.
Per questo, il
vincolo, di natura conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della
pianificazione urbanistica.
---------------
3.4.- Riguardo all’assetto urbanistico dell’area è utile richiamare
quanto rilevato dall’amministrazione resistente nella memoria difensiva,
ossia che il manufatto contestato è situato in zona soggetta a vincolo
paesaggistico, ai sensi del d.lgs. 42/2004 e che ricade nella fascia di
rispetto cimiteriale, di cui all'art. 338 del Regio Decreto n. 1265/1934 (cfr.
Certificato di destinazione urbanistica prot. n. 59834 del 18.09.2019).
Sul punto, come chiarito da costante e condivisa giurisprudenza (Cons.
Stato, sez. IV, 08.07.2019, e TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 18.10.2019, n. 4978) la fascia cimiteriale di inedificabilità si impone
ex se, con
efficacia diretta ed immediata, a prescindere da qualsiasi recepimento in
strumenti urbanistici, che non sono idonei, proprio per la loro natura, ad
incidere sull’esistenza o sui limiti di siffatti vincoli.
Per questo, il
vincolo, di natura conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della
pianificazione urbanistica
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 05.02.2020 n. 562 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per consolidata
giurisprudenza, la presentazione di una istanza di sanatoria successivamente
all’emanazione di un provvedimento volto alla repressione degli abusi
edilizi produce l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento,
comportando la necessità di una nuova valutazione da parte
dell’Amministrazione con la conseguenza che il provvedimento dovrà essere
sostituito o dalla concessione in sanatoria o da un nuovo provvedimento sanzionatorio.
---------------
7. E’ oggetto del contendere la legittimità del diniego opposto dal
Comune di Deruta alla richiesta di accertamento di conformità urbanistica
volta al rilascio del permesso di costruire in sanatoria richiesto dalla
Società ricorrente con riferimento alle opere sopra descritte.
E’ pacifico tra le parti che si tratti di un manufatto per la cui
realizzazione era necessario il permesso di costruire e che lo stesso sia
stato realizzato dalla parte odierna ricorrente in assenza di titolo.
Va evidenziato che nel caso in esame trova applicazione, ratione temporis,
l'art. 17, comma 1, della l.r. Umbria n. 21 del 2004 che prevedeva: "In caso
di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, con variazioni
essenziali o in difformità da esso, ovvero in assenza di denuncia di inizio
attività nelle ipotesi di cui all'articolo 20, comma 1, lettera a), della L.r. 1/2004 o in difformità da essa, fino alla scadenza dei termini di cui
agli articoli 6, comma 3, 7, comma 1, 8, comma 1, articolo 9, comma 1 e
comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile
dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere la
sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigente, sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al
momento della presentazione della domanda e non in contrasto con gli
strumenti urbanistici adottati. Ai fini di cui al presente comma è
consentito l'adeguamento di eventuali piani attuativi, purché tale
adeguamento risulti conforme allo strumento urbanistico generale vigente e
non in contrasto con quello adottato".
8. Preliminarmente deve essere esaminata l’eccezione di inammissibilità
sollevata dalla difesa comunale. L’eccezione è infondata.
Per consolidata
giurisprudenza, più volte ribadita da questo Tribunale amministrativo
regionale, la presentazione di una istanza di sanatoria successivamente
all’emanazione di un provvedimento volto alla repressione degli abusi
edilizi produce l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento,
comportando la necessità di una nuova valutazione da parte
dell’Amministrazione con la conseguenza che il provvedimento dovrà essere
sostituito o dalla concessione in sanatoria o da un nuovo provvedimento sanzionatorio (ex multis TAR Umbria, 24.04.2019, n. 207; Id., 10.12.2018 n. 672; Id. 13.04.2016, n. 345; Id., 15.09.2014, n.
463; id. 11.09.2015, n. 401; C.d.S., sez. IV, 22.08.2013, n.
4241; Id., 11.06.2012, n. 221; in termini TAR Campania, Salerno, sez. II,
18.01.2012, n. 49; TAR Piemonte, sez. I, 14.01.2011, n. 16).
9. Quanto al merito della questioni poste, giova ricordare che
l’Amministrazione comunale ha motivato il diniego di accertamento di
conformità urbanistica in ragione:
a) dell'assenza di conformità del fabbricato alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigenti al momento della sua realizzazione: in parziale
accoglimento delle osservazioni presentate dall’istante, l’Amministrazione
ha convenuto che il manufatto sia stato realizzato nel 2005; tuttavia “il
Piano attuativo approvato, con DCC n. 94 del 09/09/05, sull’area in
questione, non è stato convenzionato nell’anno 2005, conseguentemente a
quella data l’area su cui è stata realizzata la tettoia non risultava
urbanisticamente idonea alla costruzione della stessa”;
b) dell'assenza di conformità urbanistica alla data della richiesta
dell’accertamento di conformità: dopo aver chiarito nel preavviso di rigetto
che: "Il fabbricato è infatti realizzato su di un terreno la cui
edificazione, ai sensi e per gli effetti dell'art. 3 della convenzione
urbanistica stipulata in data 09.07.2008 relativa al Piano attuativo
approvato con deliberazione del Consiglio Comunale n. 89 del 16/10/2007, è
subordinata alla contemporanea esecuzione delle opere di urbanizzazione
primaria previste dal Piano attuativo medesimo. Pertanto, accertato che
dette opere di urbanizzazione primaria non sono ad oggi iniziate, il terreno
non risulta idoneo alla costruzione del fabbricato in oggetto"; nel
provvedimento di diniego l’Amministrazione comunale ha ribadito tale
posizione ritenendo non condivisibili le osservazioni dell’istante.
c) dell'assenza della documentazione relativa alla conformità sismica: non
sono state ritenute condivisibili le osservazioni del richiedente in quanto
la norma regionale citata [art. 7, comma 3, lett. a), della l.r. n. 5 del
2010, allegato 1, cat. A -A15] è riferita a manufatti da realizzare su
fabbricati esistenti, e quindi non applicabile al caso in oggetto relativo
alla costruzione di un manufatto strutturalmente indipendente
(TAR Umbria,
sentenza 05.02.2020 n. 47 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per costante giurisprudenza amministrativa grava su colui che ha
commesso l’abuso l’onere della prova della data di realizzazione.
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9.1. Il primo motivo di ricorso contesta l’affermazione sub a) contenuta nel
provvedimento gravato circa l’assenza di conformità urbanistico edilizia
all’epoca della realizzazione del manufatto.
Nella prospettazione contenuta
nelle osservazioni presentate dall’odierna ricorrente a seguito della
comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza e poi
riproposta in sede di ricorso, la realizzazione del manufatto è
temporalmente collocata nell’anno 2005, potendosi, quindi, giovare, ai fini
della necessaria conformità urbanistica, dell’approvazione del Piano
attuativo di cui alla DCC n. 94 del 2005.
Giova ricordare che per costante giurisprudenza amministrativa grava su
colui che ha commesso l’abuso l’onere della prova della data di
realizzazione (ex multis, C.d.S., sez. VI, 04.10.2019, n. 6720; Id.,
08.07.2019, n. 4769; TAR Umbria, 09.04.2019, n. 191; TAR Lombardia,
Milano, sez. II, 04.09.2019, n. 1944).
Ciò posto, nella comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento
dell’istanza l’immobile era stato fatto risalire dall’Amministrazione al
1997 ed era stato osservato che ricadeva in “un terreno la cui edificazione,
ai sensi e per gli effetti dell'art. 8 delle norme tecniche di attuazione
del Piano Regolatore Generale all'epoca vigente, era subordinata alla
preventiva approvazione di un Piano attuativo concernente l'urbanizzazione
del terreno medesimo”.
Nel provvedimento finale di diniego l’Amministrazione
comunale ha preso atto delle osservazioni dell’istante; in base alla
documentazione fotografica da quest’ultimo prodotta (foto aeree del 2000 e
del 2005) è emerso che il manufatto è successivo allo scatto del 2000 (in
cui non compare), mentre risulta presente nella foto del 2005. Tuttavia, pur
a fronte di tale datazione, l’Amministrazione ha ritenuto che il manufatto
non fosse conforme alla disciplina all’epoca vigente in quanto all’epoca
della realizzazione l’area non era stata ancora sottoposta alla necessaria
convenzione.
Il percorso logico-giuridico compiuto dall’Amministrazione non appare
censurabile. Non appare, infatti, condivisibile la lettura di parte
ricorrente dell’art. 17, comma 1, della l.r. Umbria n. 21 del 2004 (né
l’art. 36, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001) per cui, dato che nella
disposizione citata non viene fatto riferimento alla stipula di convenzione
per l'esecuzione delle opere di urbanizzazione né all'eventuale assenza,
l’assenza della convenzione stessa non potrebbe essere ritenuta preclusiva
all’accertamento di conformità.
Osserva il Collegio che il citato art. 17, nel richiedere che l’intervento
sia, innanzitutto, “conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente
... al momento della realizzazione dello stesso”, necessariamente comporta
il rispetto in toto di tale disciplina; analoghe considerazioni possono
essere svolte con riferimento al disposto dell’art. 36, comma 1, del d.P.R.
n. 380 del 2001, contenente la medesima locuzione (“conforme alla disciplina
urbanistica ed edilizia sia al momento della realizzazione dello
stesso...”)
(TAR Umbria,
sentenza 05.02.2020 n. 47 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA:
L’amministrazione, dopo avere approvato un piano di lottizzazione e prima
della stipula della relativa convenzione, (può) rivedere le proprie
determinazioni pianificatorie sulla medesima area (e quindi,
conseguentemente, decidere di non stipulare più la convenzione di
lottizzazione); ciò discende” ha dato atto della “natura meramente programmatoria del piano di lottizzazione che è, di per sé, inidoneo a far
sorgere in capo ai privati aspettative giuridicamente qualificate.
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Nel caso in esame, come affermato negli atti comunali e non
contestato dalla parte ricorrente, ai sensi e per gli effetti ai sensi
dell'art. 8 delle norme tecniche di attuazione del Piano Regolatore
Generale, all'epoca vigente, l’edificazione del terreno su cui è sorto il
manufatto era subordinata alla preventiva approvazione di un Piano attuativo
concernente l'urbanizzazione del terreno medesimo. Il suddetto Piano
attuativo è stato individuato dall’odierna ricorrente nel Piano approvato
con la DCC n. 94 del 09.09.2005, che ha previsto, a sua volta al punto
6 della stipula di una convenzione urbanistica che regoli i rapporti tra il
soggetto attuatore privato ed il Comune di Deruta.
D’altro canto, la giurisprudenza amministrativa, nell’evidenziare che
“l’amministrazione, dopo avere approvato un piano di lottizzazione e prima
della stipula della relativa convenzione, (può) rivedere le proprie
determinazioni pianificatorie sulla medesima area (e quindi,
conseguentemente, decidere di non stipulare più la convenzione di
lottizzazione); ciò discende” ha dato atto della “natura meramente programmatoria del piano di lottizzazione che è, di per sé, inidoneo a far
sorgere in capo ai privati aspettative giuridicamente qualificate” (TAR
Calabria, sez. I, 12.01.2011, n. 31).
Del resto l’art. 26 della l.r. n.
11 del 2005, vigente medio tempore, prevedeva, al comma 7 (con una
previsione non dissimile dall’attuale art. 57, comma 6, l.r. n. 1 del 2015)
che la deliberazione comunale di approvazione del piano attuativo
costituisse titolo abilitativo ... “purché sia stata stipulata l'apposita
convenzione di cui all'articolo 62, comma 1, lett. g) e nel rispetto delle
eventuali prescrizioni dettate ai sensi dell'articolo 24, comma 11”.
La
stipula della convenzione urbanistica costituiva, pertanto, presupposto
necessario per il rilascio del permesso di costruire, con la conseguenza che
la mancanza della stessa, antecedentemente alla realizzazione del manufatto,
è elemento idoneo a configurare l’assenza di conformità urbanistico-edilizia
(TAR Umbria,
sentenza 05.02.2020 n. 47 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Reati paesaggistici – Zona
sottoposta a vincolo paesaggistico e dichiarata di notevole
interesse pubblico – Computo volumetrie e naturale sviluppo
del manufatto – Interventi già in concreto realizzati –
Criteri per la configurabilità del reato ex art. 181, comma
1-bis, d.lgs. n. 42/2004 – Reati urbanistici – Art. 44,
lett. c), d.P.R. n. 380/2001.
In tema di tutela paesaggistica, i
parametri dimensionali richiesti ai fini della
configurabilità della fattispecie delittuosa di cui all'art.
181, comma 1-bis, del d.lgs. n. 42 del 2004, vanno ritenuti
ragionevolmente integrati, considerando che il complessivo
aumento delle volumetrie, nell’ottica della verifica del
loro computo, deve essere riferito anche al naturale
sviluppo del manufatto desumibile dalla tipologia degli
interventi già in concreto realizzati, a prescindere dal
definitivo completamento delle opere.
In sintesi, a seguito della sentenza n. 56 del 2016, della
Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 181, comma 1-bis, del d.lgs. n. 42
del 2004, rientrano oggi nell’art. 181, comma 1-bis,
unicamente i lavori «che abbiano comportato un aumento dei
manufatti superiore al trenta per cento della volumetria
della costruzione originaria o, in alternativa, un
ampliamento della medesima superiore a settecentocinquanta
metri cubi, ovvero ancora abbiano comportato una nuova
costruzione con una volumetria superiore ai mille metri
cubi» (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.02.2020 n. 4697 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
APPALTI – Disposizioni del bando – Chiarimenti –
Interpretazione del testo – Esigenze di certezza – Clausole
di stretta interpretazione.
I chiarimenti, se trasparenti e
tempestivi, possono, a determinate condizioni, dare luogo ad
una sorta di interpretazione autentica, purché in nome della
massima partecipazione e del principio di economicità
dell’azione amministrativa
(cfr. Cons. Stato, sez. III, n. 781/2018).
I chiarimenti sono invero ammissibili se
contribuiscono, con un’operazione di interpretazione del
testo, a renderne chiaro e comprensibile il significato e/o
la ratio, ma non quando, proprio mediante l’attività
interpretativa, si giunga ad attribuire ad una disposizione
del bando un significato ed una portata diversa e maggiore
di quella che risulta dal testo stesso, in tal caso
violandosi il rigoroso principio formale della lex specialis,
posto a garanzia dei principi di cui all’art. 97 Cost.
(Cons. Stato, sez. v, n. 6026/2019).
In termini più generali, le preminenti
esigenze di certezza connesse allo svolgimento delle
procedure concorsuali di selezione dei partecipanti
impongono di ritenere di stretta interpretazione le clausole
del bando di gara: ne va perciò preclusa qualsiasi lettura
che non sia in sé giustificata da un´obiettiva incertezza
del loro significato letterale.
Secondo la stessa logica, sono comunque preferibili, a
garanzia dell´affidamento dei destinatari, le espressioni
letterali delle varie previsioni, affinché la via del
procedimento ermeneutico non conduca a un effetto, indebito,
di integrazione delle regole di gara aggiungendo significati
del bando in realtà non chiaramente e sicuramente
rintracciabili nella sua espressione testuale
(cfr. Cons. Stato, IV, 05.10.2005, n. 5367; V, 15.04.2004,
n. 2162; Cons. Stato, V, n. 4307/2017).
...
APPALTI – Procedura aperta che non preveda una preventiva
limitazione dei partecipanti attraverso inviti – Principio
di rotazione – Inapplicabilità.
Alla stregua delle Linee guida n. 4
A.N.A.C., nella versione adottata con delibera 01.03.2018 n.
206 (v. in part. il punto 3.6), deve ritenersi che il
principio di rotazione sia inapplicabile nel caso in cui la
stazione appaltante decida di selezionare l’operatore
economico mediante una procedura aperta, che non preveda una
preventiva limitazione dei partecipanti attraverso inviti (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 04.02.2020 n. 875 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Chiarimenti
sulla lex specialis di gara e principio di rotazione.
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●
Contratti della Pubblica amministrazione – Chiarimenti – Sostanziale
modifica requisito – Illegittimità.
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Rotazione – Limiti.
●
E’ illegittimo un chiarimento dettato dalla Stazione appaltante in corso di
gara che non ha assunto una funzione neutrale e meramente esplicativa di un
contenuto implicito della clausola del capitolato, ma che, al contrario, ha
introdotto un elemento addittivo che ha modificato la portata del requisito,
restringendo la platea dei potenziali concorrenti al più circoscritto
sottoinsieme degli operatori in grado di offrire biberon muniti di
tettarella fissata con ghiera soprastante; in tal modo, non si è avuto
l’effetto di esplicitare il significato (in ipotesi ambiguo od oscuro) della
lex specialis, bensì di modificare inammissibilmente l’oggetto della
prescrizione, mutandone strutturalmente il contenuto ed il senso, così
integrando in termini restrittivi il requisito di cui al capitolato di gara
(1).
●
Il principio di rotazione delle imprese partecipanti ad una gara
non è applicabile laddove il nuovo affidamento avvenga tramite procedure
nelle quali la stazione appaltante non operi alcuna limitazione in ordine al
numero di operatori economici tra i quali effettuare la selezione (2).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che i chiarimenti, se trasparenti e
tempestivi, possono, a determinate condizioni, dare luogo ad una sorta di
interpretazione autentica, purché in nome della massima partecipazione e del
principio di economicità dell'azione amministrativa (Cons.
St., sez. III, n. 781 del 2018).
Esaminando una fattispecie raffrontabile a quella oggetto della controversia
all’esame della Sezione, in quanto anch’essa incentrata su una ipotesi di
chiarimento “restrittivo” (inteso cioè a circoscrivere la portata di
un requisito originariamente delineato in senso più ampio), lo stesso
giudice di appello ha concluso per l’inammissibilità di una tale operazione
manipolativa, sostenendo che “i chiarimenti sono invero ammissibili se
contribuiscono, con un’operazione di interpretazione del testo, a renderne
chiaro e comprensibile il significato e/o la ratio, ma non quando, proprio
mediante l’attività interpretativa, si giunga ad attribuire ad una
disposizione del bando un significato ed una portata diversa e maggiore di
quella che risulta dal testo stesso, in tal caso violandosi il rigoroso
principio formale della lex specialis, posto a garanzia dei principi di cui
all'art. 97 Cost.” (Cons.
St., sez. V, n. 6026 del 2019).
In termini più generali, vale richiamare l’affermazione giurisprudenziale
secondo la quale “le preminenti esigenze di certezza connesse allo
svolgimento delle procedure concorsuali di selezione dei partecipanti
impongono di ritenere di stretta interpretazione le clausole del bando di
gara: ne va perciò preclusa qualsiasi lettura che non sia in sé giustificata
da un´obiettiva incertezza del loro significato letterale. Secondo la stessa
logica, sono comunque preferibili, a garanzia dell´affidamento dei
destinatari, le espressioni letterali delle varie previsioni, affinché la
via del procedimento ermeneutico non conduca a un effetto, indebito, di
integrazione delle regole di gara aggiungendo significati del bando in
realtà non chiaramente e sicuramente rintracciabili nella sua espressione
testuale" (Cons.
St., sez. IV, 05.10.2005, n. 5367;
15.04.2004, n. 2162).
(2) Ha ricordato la Sezione che il principio è stato di recente confermato
dal giudice di appello (sez.
V, 05.11.2019, n. 7539) sul rilievo che anche “alla stregua
delle Linee guida n. 4 A.N.A.C., nella versione adottata con delibera
01.03.2018 n. 206 (v. in part. il punto 3.6), deve ritenersi che il
principio di rotazione sia inapplicabile nel caso in cui la stazione
appaltante decida di selezionare l’operatore economico mediante una
procedura aperta, che non preveda una preventiva limitazione dei
partecipanti attraverso inviti”
(Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 04.02.2020 n. 875 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
---------------
MASSIMA
2.7. L’operato della stazione appaltante ha quindi
contravvenuto al principio invalso nella materia delle pubbliche gare
secondo il quale i chiarimenti, se trasparenti e tempestivi, possono, a
determinate condizioni, dare luogo ad una sorta di interpretazione
autentica, purché in nome della massima partecipazione e del principio di
economicità dell'azione amministrativa
(cfr. Cons. Stato, sez. III, n. 781/2018).
Esaminando una fattispecie raffrontabile, in quanto anch’essa incentrata su
una ipotesi di chiarimento “restrittivo” (inteso cioè a circoscrivere
la portata di un requisito originariamente delineato in senso più ampio),
altra sezione di questo Consiglio di Stato ha concluso per l’inammissibilità
di una tale operazione manipolativa, sostenendo che “i
chiarimenti sono invero ammissibili se contribuiscono, con un’operazione di
interpretazione del testo, a renderne chiaro e comprensibile il significato
e/o la ratio, ma non quando, proprio mediante l’attività interpretativa, si
giunga ad attribuire ad una disposizione del bando un significato ed una
portata diversa e maggiore di quella che risulta dal testo stesso, in tal
caso violandosi il rigoroso principio formale della lex specialis, posto a
garanzia dei principi di cui all'art. 97 Cost.”
(Cons. Stato, sez. v, n. 6026/2019).
In termini più generali, vale richiamare l’affermazione
giurisprudenziale secondo la quale “le preminenti
esigenze di certezza connesse allo svolgimento delle procedure concorsuali
di selezione dei partecipanti impongono di ritenere di stretta
interpretazione le clausole del bando di gara: ne va perciò preclusa
qualsiasi lettura che non sia in sé giustificata da un´obiettiva incertezza
del loro significato letterale. Secondo la stessa logica, sono comunque
preferibili, a garanzia dell´affidamento dei destinatari, le espressioni
letterali delle varie previsioni, affinché la via del procedimento
ermeneutico non conduca a un effetto, indebito, di integrazione delle regole
di gara aggiungendo significati del bando in realtà non chiaramente e
sicuramente rintracciabili nella sua espressione testuale
(cfr. Cons. Stato, IV, 05.10.2005, n. 5367; V, 15.04.2004, n. 2162)”
(Cons. Stato, V, n. 4307/2017).
...
3.4. Quanto al principio di rotazione, il giudice di prime
cure ne ha escluso l’applicabilità laddove il nuovo affidamento avvenga,
come nel caso di specie, tramite procedure nelle quali la stazione
appaltante non operi alcuna limitazione in ordine al numero di operatori
economici tra i quali effettuare la selezione
(v. §18 della sentenza n. 527/2019).
Il principio è stato di recente confermato da questo
Consiglio (sez. V, 05.11.2019 n.
7539) sul rilievo che anche “alla stregua delle Linee
guida n. 4 A.N.A.C., nella versione adottata con delibera 01.03.2018 n. 206
(v. in part. il punto 3.6), deve ritenersi che il principio di rotazione sia
inapplicabile nel caso in cui la stazione appaltante decida di selezionare
l’operatore economico mediante una procedura aperta, che non preveda una
preventiva limitazione dei partecipanti attraverso inviti”. |
EDILIZIA PRIVATA: Rilascio
del permesso di costruire: quali gli obblighi del Comune?
Il permesso di costruire può essere rilasciato
unicamente al proprietario dell'immobile o a chi ha a titolo per richiederlo
e, quindi, il Comune ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del
richiedente, accertando se egli sia il proprietario dell'immobile oggetto
dell'intervento costruttivo o se, comunque, abbia un titolo di disponibilità
sufficiente per eseguire l'attività edificatoria.
---------------
4. - Con il terzo motivo di diritto, rubricato “b) error in
iudicando- erronea valutazione di circostanze di fatto e difetto di
motivazione; illogicità e ingiustizia manifesta; erronea valutazione dei
presupposti di fatto e di diritto”, viene lamentata l’errata
ricostruzione in fatto operata dal primo giudice, che non avrebbe
considerato che la particella di terreno è pervenuta all’appellante per
successione legittima dal padre e che la recinzione in oggetto era stata
realizzata in epoca antecedente al 1967, a delimitazione del fondo di
proprietà.
4.1. - La doglianza non può essere condivisa.
Come correttamente rilevato dal primo giudice, la ragione del diniego tacito
opposto alla domanda di sanatoria va identificata nella circostanza che il
ricorrente non avrebbe dimostrato la titolarità del fondo su cui insiste il
manufatto abusivo.
In questo senso, va osservato che è lo stesso appellante che, nell’istanza
proposta in data 12.12.2017 (all. 4 della produzione di primo grado del
Comune di Rende), ha affermato di essere “proprietario per possesso di
fatto (usucapione)”, senza poi allegare un titolo giudiziale di tale
stato. Per altro verso, il tema dell’usucapione è stato addirittura oggetto
di domanda istruttoria in sede di giudizio di primo grado, dove la parte ha
chiesto al TAR di ammettere prova testimoniale in merito.
Inoltre, l’esistenza della vantata condizione proprietaria non risulta dagli
atti del Comune che, anzi, nel verbale di accertamento di infrazioni
edilizie del giorno 08.09.2017, afferma espressamente che “dalle
planimetrie catastali dell’Agenzia delle Entrate, servizi catastali,
l’intera recinzione ricade nella particella censita in catasto al Foglio 4
Particella 305, intestata alla Sig.ra Se.Ad.”; e la appena citata
controinteressata si è opposta, anche in sede giudiziaria, all’annullamento
dell’avversato diniego, evidenziando l’esistenza di una situazione
contenziosa proprio sulla proprietà della detta area.
La vicenda de qua, lungi dall’evidenziare uno stato di fatto
dominicale assodato, rendeva evidente l’impossibilità del Comune di aderire
acriticamente alla prospettazione della parte appellante in merito al
possesso di un titolo abilitante alla richiesta di sanatoria.
Infatti, da un lato, va ricordato che, ai sensi
dell'art. 11, comma 1, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, il permesso di costruire
può essere rilasciato unicamente al proprietario dell'immobile o a chi ha a
titolo per richiederlo e, quindi, il Comune ha sempre l'onere di verificare
la legittimazione del richiedente, accertando se egli sia il proprietario
dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o se, comunque, abbia un
titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria
(ex multis, Cons. Stato, IV, 25.09.2014, n. 4818); dall’altro,
per giurisprudenza pacifica (peraltro, richiamata anche dalla parte
appellante in relazione all’ultimo motivo di ricorso), la
pubblica amministrazione non è tenuta a svolgere una preliminare indagine
istruttoria che si estenda fino alla ricerca d'ufficio di eventuali elementi
limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità allegato dal
richiedente (da ultimo, Cons.
Stato, IV, 02.09.2011, n. 4968; id., VI, 10.02.2010, n. 675).
È quindi condivisibile la valutazione operata dal primo giudice quando ha
osservato che non esistevano in concreto i presupposti per il rilascio del
titolo edilizio, atteso che non può darsi rilievo alla vantata acquisizione
dell’area per usucapione da parte del ricorrente, visto che, nemmeno in
grado di appello, è stata prodotta una sentenza dichiarativa che ne abbia
accertato l’effettivo conseguimento a titolo originario né, tanto meno, può
richiedersi all’amministrazione di accertare l’esistenza (non di elementi
limitativi, preclusivi o estintivi del titolo ma addirittura) del fatto
costitutivo della proprietà, vicenda in contestazione tra le parti.
Conclusivamente, anche il terzo motivo di doglianza deve essere
respinto, dovendosi riscontrare la correttezza dell’istruttoria operata dal
Comune e la sua parimenti adeguata valutazione da parte del TAR, che ha
ricordato la giurisprudenza di questo Consiglio che afferma “che
non tutti, indifferenziatamente, possono richiedere, senza il
consenso dell'effettivo titolare del bene sul quale insistono le opere (il
quale potrebbe essere completamente estraneo all'abuso ed avere anzi un
interesse contrario alla sua sanatoria), una concessione che potrebbe
risolversi in danno dello stesso”
(Cons. Stato, VI, 31.12.2018, n. 7305)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 03.02.2020 n. 865 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per pacifica giurisprudenza, presupposto per l'adozione dell'ordinanza di demolizione non
è l'accertamento di responsabilità nella commissione dell'illecito, bensì
l'esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella prevista
nella strumentazione urbanistico-edilizia: sicché sia il soggetto che abbia
la titolarità a eseguire l'ordine ripristinatorio, ossia in virtù del
diritto dominicale, il proprietario, sia il responsabile dell'abuso sono
destinatari della sanzione reale della demolizione e del ripristino dei
luoghi.
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1. E’ anzitutto infondata la prima censura.
1.1 Come ha messo in luce il Consiglio di Stato (sez. VI – 13/11/2019 n.
7792), “Per pacifica giurisprudenza, da cui il Collegio non ha motivo di
discostarsi, … presupposto per l'adozione dell'ordinanza di demolizione non
è l'accertamento di responsabilità nella commissione dell'illecito, bensì
l'esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella prevista
nella strumentazione urbanistico-edilizia: sicché sia il soggetto che abbia
la titolarità a eseguire l'ordine ripristinatorio, ossia in virtù del
diritto dominicale, il proprietario, sia il responsabile dell'abuso sono
destinatari della sanzione reale della demolizione e del ripristino dei
luoghi (cfr. da ultimo Cons. Stato, Sez. VI, 11/12/2018, n. 6983; Sez. II,
12/09/2019, n. 6147)”.
1.2 Nel caso di specie, l’immobile ove si svolge l’attività –unitamente
all’area sulla quale è stato realizzato l’illecito edilizio sanzionato con
l’atto impugnato– è di proprietà del controinteressato, mentre l’esercizio
pubblico (costituito in forma societaria) ne ha la disponibilità, per cui il
Comune ha correttamente ingiunto a entrambi di demolire l’opera abusiva.
L’autorità amministrativa ha dedotto che l’utilizzatore del fabbricato (e
del gazebo adiacente) è il “Ristorante La.” e la ricorrente risulta
titolare dell’esercizio commerciale, per cui la notifica è stata effettuata
nei suoi confronti quale legale rappresentante della Società di persone
locataria. Del resto, detta qualità in capo alla persona fisica destinataria
del provvedimento è pacifica, ed è stata espressamente indicata nel corpo
dell'ordinanza (pag. 2)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 31.01.2020 n. 86 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La circostanza che una struttura sia semplicemente “appoggiata”
al suolo non la rende ex se riconducibile nell’ambito della c.d. edilizia
libera. Solo le opere agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare
un’esigenza oggettivamente temporanea, destinata a cessare dopo il breve
tempo entro cui si realizza l'interesse finale, possono dirsi di carattere
precario e, in quanto tali, non richiedenti il permesso di costruire.
Invero, <<La giurisprudenza è concorde nel senso
che per individuare la natura precaria di un'opera si debba seguire non il
criterio strutturale, ma il criterio funzionale, per cui un'opera può anche
non essere stabilmente infissa al suolo, ma se essa presenta la
caratteristica di essere realizzata per soddisfare esigenze non temporanee,
non può beneficiare del regime delle opere precarie ...>>.
In buona sostanza, la natura precaria di un manufatto non può essere desunta
dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal
costruttore, ma deve ricollegarsi all'intrinseca destinazione materiale di
essa a un uso realmente precario e transitorio, per fini specifici,
contingenti e limitati nel tempo, non essendo sufficiente che si tratti
eventualmente di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo.
Non possono, in definitiva, essere considerati manufatti precari quelli
destinati a una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l’alterazione
del territorio non può essere considerata irrilevante.
---------------
2. Anche il secondo motivo è privo di pregio.
2.1 L’art. 3 comma 1, lett. e.5), del D.P.R. 380/2001 reputa interventi di
nuova costruzione “l'installazione di manufatti leggeri, anche
prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers,
case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di
lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che
siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee o siano ricompresi
in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti,
previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove
previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore”.
I descritti interventi non sono dunque automaticamente classificati
nell’alveo dell’attività edilizia libera, viceversa regolata dall’art. 6,
che al comma 2 lett. b) –in vigore alla data di adozione dell’atto
impugnato– contempla “le opere dirette a soddisfare obiettive esigenze
contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della
necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni”.
2.2 Ebbene, la circostanza che una struttura sia semplicemente “appoggiata”
al suolo non la rende ex se riconducibile nell’ambito della c.d. edilizia
libera. Solo le opere agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare
un’esigenza oggettivamente temporanea, destinata a cessare dopo il breve
tempo entro cui si realizza l'interesse finale, possono dirsi di carattere
precario e, in quanto tali, non richiedenti il permesso di costruire (TAR
Liguria, sez. I – 11/06/2019 n. 529).
Come ha ricordato TAR Lombardia
Milano, sez. II – 18/03/2019 n. 579, <<La giurisprudenza è concorde nel senso
che per individuare la natura precaria di un'opera si debba seguire non il
criterio strutturale, ma il criterio funzionale, per cui un'opera può anche
non essere stabilmente infissa al suolo, ma se essa presenta la
caratteristica di essere realizzata per soddisfare esigenze non temporanee,
non può beneficiare del regime delle opere precarie ...>>.
2.3 In buona sostanza, la natura precaria di un manufatto non può essere
desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera
dal costruttore, ma deve ricollegarsi all'intrinseca destinazione materiale
di essa a un uso realmente precario e transitorio, per fini specifici,
contingenti e limitati nel tempo, non essendo sufficiente che si tratti
eventualmente di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo (TAR
Toscana, sez. II – 08/10/2019 n. 1315).
Non possono, in definitiva, essere
considerati manufatti precari quelli destinati a una utilizzazione
perdurante nel tempo, di talché l’alterazione del territorio non può essere
considerata irrilevante (Consiglio di Stato, sez. VI – 23/05/2017 n. 2438,
che richiama sez. VI – 04/09/2015 n. 4116 e anche il precedente della sez. VI
– 01/04/2016 n. 1291).
2.4 Nel caso di specie, il manufatto è di dimensioni non trascurabili (30
mq.), così come si può rilevare dalle fotografie allegate alla relazione di
sopralluogo del 10/2/2015, ed è collocato all’esterno del fabbricato
destinato a ristorante per un verosimile utilizzo continuativo.
Peraltro, un
concorrente fattore ostativo è rappresentato dall’assenza
dell’autorizzazione paesaggistica (cfr. vincolo di cui all’art. 142, comma 1,
lett. c), del D.Lgs. 42/2004, per l’insistenza nella fascia di rispetto di
150 metri dal Fiume Oglio). Anche rispetto a quest’ultimo l’ordine di
demolizione si configura come atto dovuto
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 31.01.2020 n. 86 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla base di un consolidato insegnamento giurisprudenziale:
- la pertinenza è configurabile quando vi è un oggettivo nesso funzionale e
strumentale tra cosa accessoria e quella principale, cioè un nesso che non
consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso pertinenziale
durevole, oltre che una dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto
alla cosa cui esso inerisce;
- a differenza della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai
fini edilizi il manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non
solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo
valore di mercato e non comporta un cosiddetto carico urbanistico.
Poi, il carattere pertinenziale
rilevante ai fini urbanistici transita attraverso le seguenti coordinate
identificative:
- opere che non comportino un nuovo volume;
- opere che comportino un nuovo e modesto volume 'tecnico'
(così come definito ai fini urbanistici).
---------------
Dal punto di vista
tecnico-giuridico il gazebo è caratterizzato da una struttura
costruttiva leggera e aperta, che consente il passaggio di luce e aria
facilitando l’ombreggiamento e la protezione delle persone durante la sosta.
Esso è tipicamente privo di pareti e di un tetto o solaio propriamente
detti, ma è dotato di una copertura impermeabile facilmente amovibile.
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4. Il quarto motivo verte sul concetto di pertinenza urbanistica.
4.1 Questo TAR (cfr. sez. I - 29/11/2018 n. 1141) ha statuito che,
<<sulla base di un consolidato insegnamento giurisprudenziale (ex multis,
Cons. Stato, sez. IV, 26.08.2014 n. 4290; nonché TAR Lombardia,
Brescia, sez. I, 21.09.2018 nn. 884 e 887; 22.01.2018 n. 22; 11.12.2017 n. 1425):
- la pertinenza è configurabile quando vi è un oggettivo nesso funzionale e
strumentale tra cosa accessoria e quella principale, cioè un nesso che non
consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso pertinenziale
durevole, oltre che una dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto
alla cosa cui esso inerisce (Cons. Stato, sez. IV, 02.02.2012 n. 615);
- a differenza della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai
fini edilizi il manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non
solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo
valore di mercato e non comporta un cosiddetto carico urbanistico (Cons.
Stato, sez. V, 31.12.2008 n. 6756 e 13.0.2006 n. 3490)".
La stessa pronuncia ha poi precisato che "il carattere pertinenziale
rilevante ai fini urbanistici transita attraverso le seguenti coordinate
identificative:
- opere che non comportino un nuovo volume;
- opere che comportino un nuovo e modesto volume 'tecnico' (così come
definito ai fini urbanistici ...)>>.
I principi sono stati ribaditi nella sentenza di questa Sezione 05/06/2019 n.
546.
4.2 Dal punto di vista tecnico-giuridico il gazebo è caratterizzato da una
struttura costruttiva leggera e aperta, che consente il passaggio di luce e
aria facilitando l’ombreggiamento e la protezione delle persone durante la
sosta. Esso è tipicamente privo di pareti e di un tetto o solaio
propriamente detti, ma è dotato di una copertura impermeabile facilmente
amovibile.
4.3 Dalla descrizione contenuta nella relazione di sopralluogo del Comune si
evince che i pilastrini e la copertura di materiale plastificato hanno
formato un nuovo volume che, per consistenza e tipologia, risulta
agevolmente utilizzabile in via autonoma e separata rispetto all'edificio
principale (del quale amplia la fruibilità): risulta destinato a soddisfare
esigenze durevoli nel tempo e implica un incremento del carico urbanistico,
con un’autonoma identità edilizia
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 31.01.2020 n. 86 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Principio
di rotazione.
Il TAR Brescia, dopo
aver richiamato le Linee Guida n. 4 dell’ANAC,
secondo cui “[l]a rotazione non si applica
laddove il nuovo affidamento avvenga tramite
procedure ordinarie o comunque aperte al
mercato, nelle quali la stazione appaltante,
in virtù di regole prestabilite dal Codice
dei contratti pubblici ovvero dalla stessa
in caso di indagini di mercato o
consultazione di elenchi, non operi alcuna
limitazione in ordine al numero di operatori
economici tra i quali effettuare la
selezione” (v. paragrafo 3.6), precisa che:
«(b) la suddetta indicazione appare condivisibile, nell’interesse
della concorrenza, in quanto non vi è motivo
di non ammettere i contraenti uscenti e gli
operatori economici invitati e non risultati
affidatari nelle gare precedenti, quando
qualunque impresa può partecipare alla nuova
gara in condizione di sostanziale parità con
tutti i concorrenti;
(c) il principio di rotazione deve invece essere applicato quando i
posti disponibili per l’invito alla gara
siano limitati a causa di ragioni oggettive,
o quando l’invito sia la conseguenza di una
prequalificazione gestita dalla stazione
appaltante secondo valutazioni
discrezionali, ad esempio attraverso
un’indagine di mercato orientata da criteri
selettivi. In questi casi, l’esclusione dei
precedenti aggiudicatari e dei soggetti
economici già invitati è utile, in quanto
impedisce la formazione di una rendita di
posizione, e libera la stazione appaltante
dai legami e dai condizionamenti derivanti
dai rapporti pregressi, livellando
nuovamente il terreno della competizione;
(d) dove queste esigenze non sussistono, l’esclusione dei
precedenti aggiudicatari e dei soggetti
economici già invitati non aggiunge
efficienza al mercato, ma sottrae opzioni
alla stazione appaltante. Se l’aggiunta di
un concorrente marginale non comporta
problemi di gestibilità della procedura, in
quanto la partecipazione è aperta a tutti,
indipendentemente dal numero, e la selezione
si colloca interamente a valle della
richiesta di partecipazione, i precedenti
rapporti di alcuni soggetti economici con la
stazione appaltante risultano
inevitabilmente diluiti, e in definitiva
perdono ogni potere di interferenza nella
nuova gara» (fattispecie relativa a gara
relativa al servizio di manutenzione e
riparazione degli automezzi aziendali)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 31.01.2020 n. 82 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com). |
APPALTI: Per
la Corte di giustizia UE i concorrenti non possono essere automaticamente
esclusi dalla gara per fatto del subappaltatore.
La Corte di giustizia UE ha dichiarato che la normativa italiana in materia
di contratti pubblici, nella parte in cui prevede l’esclusione automatica
dei singoli concorrenti per la violazione della normativa sul lavoro dei
disabili da parte dei propri subappaltatori (indicati nella domanda di
partecipazione), non risulta conforme al principio di proporzionalità di
matrice comunitaria. In siffatte ipotesi occorre infatti una valutazione, “caso
per caso”, in merito alle misure correttive eventualmente poste in
essere dal concorrente stesso onde salvaguardare il proprio livello di
integrità professionale.
---------------
Contratti pubblici – Violazione della disciplina nazionale a tutela del
lavoro dei disabili da parte del subappaltatore – Esclusione dell’impresa
concorrente – Ammissibilità – Proporzionalità – Selfcleaning – Automaticità
della esclusione – Incompatibilità
L’articolo 57, paragrafo 4, lettera a), della direttiva
2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sugli
appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, non osta ad una
normativa nazionale, in virtù della quale l’amministrazione aggiudicatrice
abbia la facoltà, o addirittura l’obbligo, di escludere l’operatore
economico che ha presentato l'offerta dalla partecipazione alla procedura di
aggiudicazione dell'appalto qualora nei confronti di uno dei subappaltatori
menzionati nell'offerta di detto operatore venga constatato il motivo di
esclusione previsto dalla disposizione sopra citata.
Per contro, tale disposizione, letta in combinato disposto con l’articolo
57, paragrafo 6, della medesima direttiva, nonché il principio di
proporzionalità, ostano ad una normativa nazionale che stabilisca il
carattere automatico di tale esclusione (1).
---------------
(1) I. – Secondo la
Corte di giustizia UE, la violazione degli obblighi in tema di lavoro dei
disabili da parte del subappaltatore (a sua volta indicato nell’ambito della
relativa terna della domanda di partecipazione alla gara) non può dare luogo
ad esclusione automatica del concorrente, il quale potrebbe a questo punto
dimostrare di avere apprestato idonee misure correttive (c.d. selfcleaning)
onde rimuovere una tale causa di inaffidabilità.
II. – La questione pregiudiziale era stata sollevata dalla seconda
sezione del Tar per il Lazio ed era sorta nell’ambito di un contenzioso
avviato dalla società Tim s.p.a. Più in particolare:
a) Tim partecipava ad una gara per la fornitura
di un sistema di interconnessione tra le banche dati di alcuni dipartimenti
del Ministero dell’economia e delle finanze (Tesoro, Ragioneria Generale ed
Affari Generali). Uno dei subappaltatori a tal fine indicati non era
tuttavia risultato in regola con le norme che disciplinano il diritto al
lavoro dei disabili (certificazione di cui all’art. 17 della legge
12.03.1999, n. 68).
Di qui la sussistenza di uno dei motivi di esclusione di cui all’art. 80,
comma 5, lettera i), del decreto legislativo n. 50 del 2016, il quale
prevede che la eventuale violazione di simili norme da parte del
subappaltatore sortisca effetti, altresì, sulla sfera del soggetto che
partecipa alla gara in prima persona. Tim veniva dunque esclusa dalla gara
per la violazione, in materia di lavoro dei disabili, commessa da uno dei
subappaltatori indicati in sede di gara;
b) il provvedimento di esclusione veniva impugnato davanti al Tar per il
Lazio il quale, con ordinanza 29.05.2018, n. 6010, evidenziava innanzitutto
che:
b1) la violazione delle
suddette disposizioni in tema di lavoro dei disabili danno luogo, secondo la
normativa eurounitaria in materia di contratti pubblici (art. 57 direttiva
24/2014/UE), a “cause di esclusione facoltative”. La stessa normativa
europea prevede tra l’altro la “sostituzione” del subappaltatore che
non sia in regola con taluni obblighi, non anche la “esclusione” del
concorrente che abbia indicato il subappaltatore stesso (art. 71 della
richiamata direttiva 24/2014/UE);
b2) tale disposizione è stata recepita nel nostro ordinamento nel seguente
modo:
− nel corso della procedura, è prescritta la “esclusione”
automatica del concorrente che abbia indicato un subappaltatore non in
regola con i suddetti obblighi (art. 80, comma 5, del decreto legislativo n.
50 del 2016);
− dopo la aggiudicazione, e dunque in seguito alla stipulazione del
contratto, è invece prevista la “sostituzione” del subappaltatore che
si riveli non in regola con gli obblighi di cui sopra (art. 105, comma 12,
del richiamato codice dei contratti);
c) il giudice di primo grado formulava dunque alcuni specifici quesiti
interpretativi alla Corte di giustizia UE riguardanti, in particolare:
c1) se la normativa interna sia compatibile con quella eurounitaria nella
parte in cui si prevede l’esclusione di un concorrente per una violazione
commessa non da lui ma da altro soggetto, ossia dal subappaltatore indicato
in sede di gara;
c2) se la normativa interna sia compatibile con quella eurounitaria nella
parte in cui si prevede, nel corso della procedura di aggiudicazione, la
sola “esclusione” e non anche la semplice “sostituzione” del
subappaltatore che non sia in regola con i suddetti obblighi;
c3) in via subordinata, se una esclusione automatica di questo tipo risulti
in ogni caso conforme rispetto al principio di proporzionalità di
derivazione comunitaria.
III. – Con la sentenza in rassegna la Corte di giustizia, dopo aver
analizzato la normativa interna ed europea, ha in particolare osservato che:
d) il citato art. 57 della direttiva 2014/24/UE, in materia di cause di
esclusione facoltative (e, tra queste, anche quelle legate alla violazione
di norma in materia di tutela dei disabili), non ha come obiettivo
l’uniformità di applicazione delle suddette cause su tutto il territorio
dell’Unione. La previsione o meno di simili cause di esclusione, infatti, è
legata a considerazioni ed obiettivi di ordine economico e sociale dei
singoli Stati membri;
e) lo stesso art. 57, nel delineare le cause di esclusione facoltative (non
solo per violazione in materia di disabili ma anche per violazioni delle
norme in materia ambientale, sociale e del lavoro più in generale), si
esprime in termini “impersonali”, ossia senza specifici riferimenti
all’autore della violazione. Pertanto, nulla impedisce agli Stati membri di
prevedere che il concorrente “paghi” per le violazioni commesse da un altro
soggetto (nel caso di specie, dal subappaltatore). E tanto in ossequio al
principio secondo cui i singoli concorrenti debbono garantire il più ampio
livello di integrità ed affidabilità professionale;
f) quanto alla parità di trattamento:
f1) nessuna violazione di tale principio si riscontra nella fase di
aggiudicazione della commessa atteso che tutti gli operatori (ed i loro
subappaltatori) sono in grado di essere valutati sulla base di identiche
condizioni;
f2) nessuna violazione si rinviene altresì nella fase di esecuzione del
contratto, atteso che una simile evenienza (sopravvenuto verificarsi di una
causa di esclusione) può ben dare luogo alla adozione di una differente
misura sanzionatoria (sostituzione in luogo della esclusione);
g) quanto invece al principio di proporzionalità, la normativa interna non
risulta conforme al dettato eurounitario dal momento che:
g1) tale principio di proporzionalità va tenuto nella debita considerazione,
trattandosi di violazioni commesse non dalla impresa concorrente ma da
soggetti ad essa estranei (subappaltatori);
g2) ebbene, in presenza di simili violazioni (perpetrate da soggetti
estranei alla sua impresa) il concorrente dovrebbe essere messo nelle
condizioni di provare di avere adottato ogni misura idonea a neutralizzare
gli effetti delle violazioni stesse (c.d. selfcleaning);
g3) la normativa interna di cui al codice dei contratti prevede invece una
esclusione automatica degli operatori i cui subappaltatori abbiano commesso
talune violazioni, e dunque una “presunzione assoluta” di
inaffidabilità dei medesimi, così impedendo alle amministrazioni
aggiudicatrici di operare valutazioni “caso per caso” in funzione
delle
misure che i singoli concorrenti abbiano dato prova di poter adottare onde
mantenere inalterato il proprio livello di integrità professionale.
IV. – Per completezza si segnala che:
h) in tema di subappalto, grande interesse ha suscitato il tema del limite
della quota che può essere subappaltata a terzi soggetti. Più in
particolare:
h1) la prima pronunzia che si registra è quella della
Corte di giustizia UE,
sez. V, 26.09.2019, C-63/18, Vitali s.p.a. (oggetto della
News US n.
105 del 14.10.2019 ed alla quale si rinvia per ogni approfondimento in
dottrina e in giurisprudenza), con cui la Corte di giustizia UE ha
dichiarato che la normativa europea in materia di appalti pubblici deve
essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale che
limita al 30% la parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a
subappaltare a terzi.
Più in particolare, il ricorso al subappalto può favorire l’accesso delle
piccole e medie imprese agli appalti pubblici. Per converso, una clausola
che imponga limitazioni al ricorso a subappaltatori per una parte
dell’appalto fissata in maniera astratta, sulla base ossia di una
determinata percentuale dello stesso, si rivela incompatibile con tale
direttiva.
È ben vero, infatti, che i singoli Stati membri debbano verificare se i
subappaltatori possano essere messi in relazione a fenomeni di
organizzazione criminale, di corruzione o di frode, ma è anche vero, d’altro
canto, che occorrono in tutti questi casi spazi per una valutazione caso per
caso da parte dell’ente aggiudicatore.
E tanto anche in considerazione dei già numerosi istituti interdittivi,
previsti dall’ordinamento italiano, espressamente finalizzati ad impedire
l’accesso alle gare pubbliche per le imprese sospettate di condizionamento
mafioso o comunque collegate a interessi riconducibili alle principali
organizzazioni criminali operanti nel paese;
h2) la successiva pronunzia è quella di cui alla
Corte di giustizia UE, sez.
V, 27.11.2019, C-402/18 – Tedeschi Srl e Consorzio Stabile Istant
Service contro C.M. Service Srl e Università degli Studi di Roma La Sapienza
(oggetto della
News US n. 131 del 10.12.2019 ed alla quale si rinvia
per ogni approfondimento in dottrina e in giurisprudenza), con cui la Corte
di giustizia UE ha riaffermato la non conformità alla direttiva n.
2004/18/CE di una disciplina nazionale (nel caso di specie contenuta
nell’art. 118 del d.lgs. n. 163 del 2006) nella parte in cui prevede il
limite quantitativo del trenta per cento alle prestazioni subappaltabili,
poiché quest’ultimo è ex se inidoneo al raggiungimento dello scopo di
contrastare le infiltrazioni criminali nel sistema degli appalti pubblici.
Riprese, in particolare, le stesse argomentazioni di cui alla richiamata
sentenza della Corte di Giustizia UE 26.09.2019;
h3) la validità del limite del 30%, per la parte di opera oggetto di
subappalto, è stata tra l’altro oggetto di rilievo della Commissione
europea, mediante la lettera di costituzione in mora 2018/2273 del 24.01.2019, con la quale è stato contestato, in relazione ad alcune
disposizioni del codice, il non corretto recepimento delle direttive
europee.
In particolare, ad avviso della Commissione: nelle direttive 2014/23/UE,
2014/24/UE e 2014/25/UE non vi sono disposizioni che consentano un siffatto
limite obbligatorio all’importo dei contratti pubblici che può essere
subappaltato; al contrario, le direttive si basano sul principio secondo cui
occorre favorire una maggiore partecipazione delle piccole e medie imprese
agli appalti pubblici, e il subappalto è uno dei modi in cui tale obiettivo
può essere raggiunto, e pertanto un limite quantitativo al subappalto non
può essere imposto in astratto, ma solo caso per caso in relazione alla
particolare natura della prestazione da svolgere;
i) sul tema dei prezzi praticabili nei confronti del subappaltatore si veda
ancora
Corte di giustizia UE, sez. V, 27.11.2019, C-402/18 – Tedeschi Srl e Consorzio Stabile Istant Service contro C.M. Service Srl e Università
degli Studi di Roma La Sapienza (oggetto della
News US n. 131 del 10.12.2019 ed alla quale si rinvia per ogni approfondimento in dottrina e
in giurisprudenza), con la quale è stata altresì dichiarata l’illegittimità
della disciplina del Codice dei contratti (decreto legislativo n. 50 del
2016) nella parte in cui vieta che i prezzi applicabili alle prestazioni
affidate in subappalto siano ridotti di oltre il 20% rispetto ai prezzi
risultanti dall’aggiudicazione in quanto si tratta di strumento che eccede
rispetto alla necessità di assicurare la tutela salariale dei lavoratori
impiegati nel subappalto.
Per la Corte, tale limite rende infatti meno allettante la possibilità di
ricorrere al subappalto dal momento che limita l’eventuale vantaggio
concorrenziale in termini di costi per il personale delle imprese
subappaltatrici. Ciò si pone in contrasto con i principi di concorrenza e
massima partecipazione e con lo scopo di agevolare l’accesso delle piccole e
medie imprese agli appalti pubblici.
Un tale limite, prosegue ancora la
Corte, eccede quanto necessario per assicurare ai lavoratori impiegati
nell’ambito del subappalto la tutela salariale dal momento che non “lascia
spazio ad una valutazione caso per caso da parte dell’amministrazione
aggiudicatrice, dal momento che si applica indipendentemente da qualsiasi
presa in considerazione della tutela sociale garantita dalle leggi, dai
regolamenti e dai contratti collettivi applicabili ai lavoratori interessati”
(punto 65);
j) sulla nuova disciplina del
d.l. 18.04.2019, n. 32, “Disposizioni
urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per
l'accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e
di ricostruzione a seguito di eventi sismici” (cd. “Sblocca cantieri”),
convertito con modificazioni in l. 14.06.2019, n. 55 (oggetto della
News
normativa, n. 74 del 10.07.2019, alla quale si rinvia per
approfondimenti) si veda, in particolare, il contributo di R. DE NICTOLIS,
Le novità sui contratti pubblici recate dal d.l. n. 32/2019, ivi richiamato,
in cui si evidenzia che:
I) il d.l. n. 32 del 2019 recava nella versione originaria un parziale
adeguamento dell’art. 105 d.lgs. n. 50 del 2016 ai rilievi della Commissione
europea in quanto modificava il limite generale del subappalto, innalzandolo
dal trenta al cinquanta per cento dell’importo contrattuale;
II) non veniva accolto, invece, il rilievo della Commissione europea
relativo al limite del subappalto per le opere di cui all’art. 89, comma 11
(art. 105, comma 5), ritenendosi tale limite giustificato dalla particolare
natura delle prestazioni (secondo la Commissione europea sono consentiti
limiti quantitativi del subappalto giustificati dalla particolare natura
della prestazione);
III) tali previsioni non sono state convertite in legge ma in sede di
conversione, la l. n. 55 del 2019 ha operato sul subappalto un intervento
transitorio, senza novellare il codice e limitandosi a sospendere
l’efficacia di alcune norme e a derogarne altre, con conseguente
individuazione del limite quantitativo del subappalto fissato nel quaranta
per cento dell’importo complessivo del contratto fino al 31 dicembre 2020;
k) si veda inoltre la richiamata
News US n. 105
del 14.10.2019 per gli approfondimenti ivi contenuti sul subappalto in
generale, sul tema di compatibilità con il diritto europeo dei limiti al
subappalto posti dalla legislazione italiana [si vedano al riguardo i pareri
resi dal Consiglio di Stato sul nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs.
n. 50 del 2016) e sul correttivo allo stesso (d.lgs. n. 56 del 2017): nel
parere n. 855/2016 il Consiglio di Stato aveva in particolare osservato, in
relazione all’art. 105, che il legislatore nazionale potrebbe porre, in tema
di subappalto, limiti di maggior rigore rispetto alle direttive europee, che
non costituirebbero un ingiustificato goldplating, ma sarebbero giustificati
da pregnanti ragioni di ordine pubblico, di tutela della trasparenza e del
mercato del lavoro].
Si veda ancora, nella stessa News, il tema del riparto della competenza
legislativa fra Stato e regioni, sempre avuto riguardo al subappalto;
l) si veda altresì la richiamata
News US n. 131
del 10.12.2019 per gli approfondimenti ivi contenuti sul subappalto
necessario, sulla responsabilità solidale nell’ambito del subappalto nonché
sull’estensione della responsabilità solidale del committente privato a
soggetti diversi dai dipendenti dell’appaltatore o del subappaltatore;
m) in tema di gravi illeciti professionali si veda:
m1)
Corte di giustizia UE, sez. IV, 19.06.2019, C-41/18, Meca s.r.l.
(oggetto della
News US n. 83 del 18.07.2019 ed alla quale si rinvia per
ogni approfondimento in dottrina e in giurisprudenza), con la quale la è
stata affermata la non conformità alle direttive europee del Codice dei
contratti pubblici nella parte in cui si prevede che la contestazione in
giudizio della decisione di risolvere un contratto di appalto pubblico,
assunta da un'amministrazione aggiudicatrice per via di significative
carenze verificatesi nella sua esecuzione, impedisca all'amministrazione
aggiudicatrice che indice una nuova gara d'appalto di effettuare una
qualsiasi valutazione, nella fase della selezione degli offerenti,
sull'affidabilità dell'operatore cui la suddetta risoluzione si riferisce.
Più in particolare, le amministrazioni aggiudicatrici devono poter escludere
un operatore economico in qualunque momento della procedura e non solo dopo
che un organo giurisdizionale abbia pronunciato una sentenza che accerti
l’esistenza del grave illecito professionale. Ed infatti, dal testo
dell’art. 57, paragrafo 4, della direttiva n. 2014/24/UE, risulta che il
legislatore dell’Unione ha inteso affidare all’amministrazione
aggiudicatrice, e a essa soltanto, nella fase della selezione degli
offerenti, il compito di valutare se un candidato o un offerente debba
essere escluso da una procedura di aggiudicazione di appalto;
m2) nel senso che la contestazione giudiziale non si traduca in
un’automatica ammissione si veda inoltre Cons. Stato, sez. V, 02.03.2018,
n. 1299 (in Urbanistica e appalti, 2018, 657, con nota di CONTESSA; Giur.
it., 2018, 1681, con nota di FOÀ, RICCIARDO CALDERARO; Foro amm., 2018, 441;
Appalti & Contratti, 2018, fasc. 3, 78; Gazzetta forense, 2018, 335),
secondo cui: “l’esistenza di una contestazione giudiziale della
risoluzione non implica che la fattispecie concreta ricada esclusivamente
nell’ipotesi esemplificativa, con applicazione del relativo regime
operativo; difatti, il “fatto” in sé di inadempimento resta pur sempre un
presupposto rilevante ai fini dell’individuazione di un grave illecito
professionale, secondo l’ipotesi generale”.
Invero, “sussistendo una relazione di genus ad speciem; a differenza
della seconda ipotesi, nel caso generale, la stazione appaltante non può
avvalersi dell’effetto presuntivo assoluto di gravità derivante dalla
sentenza pronunciata in giudizio, né, per converso, l’impresa può opporne la
pendenza per porre nell’irrilevante giuridico il comportamento contrattuale
indiziato”;
m3) sullo stesso tema si veda altresì
Cons. Stato, sez. V, ordinanza 23.08.2018, n. 5033 (oggetto della
News US in data
07.09.2018, ai cui
approfondimenti si rinvia) e
Cons. Stato, sez. V, ordinanza,
03.05.2018,
n. 2639 (oggetto della
News US in data
08.05.2018, ai cui approfondimenti
si rinvia) con le quali il giudice d’appello ha rimesso nuovamente la
analoga questione della compatibilità, con il diritto dell’Unione europea,
della normativa interna sulle cause di esclusione del concorrente dalla
partecipazione a una procedura di gara, in caso di grave illecito
professionale che abbia causato la risoluzione anticipata di un contratto di
appalto, nella parte in cui richiede che l’operatore possa essere escluso
solo se la risoluzione non sia contestata giudizialmente o sia confermata
all’esito di un giudizio;
n) sul principio di proporzionalità si vedano, in generale, le pronunzie
della giurisprudenza europea rese sull’art. 45, comma 2, della direttiva
2004/18 (Corte di giustizia UE, sez. IV, 14.12.2016, causa C-171/15,
Taxi Services BV, in Foro amm., 2016, 2890, nonché oggetto della
News US, in
data 09.01.2017, ai cui approfondimenti si rinvia; idem, sez. X, 18.12.2014, C-470/13, in Foro amm., 2014, 3034 e in www.curia.europa.eu,
2014; idem, sez. III, 13.12.2012, C-465/11, in www.curia.europa.eu,
2012), le quali rifiutano ogni automatismo in materia di cause di esclusione
facoltativa nel caso di grave errore professionale, dovendo la relativa
determinazione ispirarsi a criteri di proporzionalità; ne discende che
analogo principio, contrario ad ogni automatismo, deve valere in ipotesi di
meccanismi che abbiano il contrario effetto di precludere l’esclusione.
In
buona sostanza, il grave errore o inadempimento professionale non potrebbe
mai dare luogo ad automatismi di sorta ma soltanto innescare, proprio in
base al suddetto principio di proporzionalità, valutazioni “caso per caso”
sia ai fini della esclusione, sia ai fini della ammissione dei concorrenti
medesimi;
o) in dottrina, sulle conseguenze in capo all’operatore economico del
verificarsi di una causa di esclusione relativa ad un subappaltatore da esso
indicato, sul selfcleaning e sulla causa di esclusione posta a protezione
dei diversamente abili nell’ambito delle c.d. “clausole sociali”, si
veda R. DE NICTOLIS, Appalti pubblici e concessioni, Bologna, 2020, 675 ss.,
790 ss., 491 ss.; R. GRECO, G.A. GIUFFRE’, M. VIVARELLI, in Trattato sui
contratti pubblici, a cura di M.A. SANDULLI e R. DE NICTOLIS, Milano, 2019,
tomo II, Soggetti, Qualificazione, Regole comuni alle procedure di gara, 889
ss., 905; 202 ss.; S. FANTINI, ibidem, tomo IV, Esecuzione, Settori
speciali, Appalti con regimi speciali, 51 ss
(Corte di giustizia dell’Unione
europea, Sez. II,
sentenza 30.01.2020 C–395/18 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Ai fini dell'art. 1127 c.c., la sopraelevazione di edificio condominiale è costituita dalla realizzazione di nuove opere (nuovi piani o nuove
fabbriche) nell'area sovrastante il fabbricato, per cui l'originaria altezza
dell'edificio è superata con la copertura dei nuovi piani o con la
superficie superiore terminale delimitante le nuove fabbriche.
Nella definizione enunciata da Cass. Sez. U, 30/07/2007, n. 16794,
la
nozione di sopraelevazione ex art. 1127 c.c. comprende, peraltro, non solo
il caso della realizzazione di nuovi piani o nuove fabbriche, ma anche
quello della trasformazione dei locali preesistenti mediante l'incremento
delle superfici e delle volumetrie, seppur indipendentemente dall'aumento
dell'altezza del fabbricato.
L'art. 1127 c.c. sottopone, poi, il diritto di sopraelevazione del
proprietario dell'ultimo piano dell'edificio ai limiti dettati dalle
condizioni statiche dell'edificio che non la consentono, ovvero dall'aspetto
architettonico dell'edificio stesso, oppure dalla conseguente notevole
diminuzione di arie e luce per i piani sottostanti. Il limite segnato dalle
condizioni statiche si intende dalla giurisprudenza di questa Corte, in
particolare, come espressivo di un divieto assoluto, cui è possibile ovviare
soltanto se, con il consenso unanime dei condomini, il proprietario sia
autorizzato all'esecuzione delle opere di rafforzamento e di consolidamento
necessarie a rendere idoneo il fabbricato a sopportare il peso della nuova
costruzione.
Ne consegue che le condizioni statiche dell'edificio rappresentano un limite
all'esistenza stessa del diritto di sopraelevazione, e non già l'oggetto di
verificazione e di consolidamento per il futuro esercizio dello stesso,
limite che si sostanzia nel potenziale pericolo per la stabilità del
fabbricato derivante dalla sopraelevazione, il cui accertamento costituisce
apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in
sede di legittimità se congruamente motivato.
E' parimenti consolidato l'orientamento secondo il quale il divieto di
sopraelevazione per inidoneità delle condizioni statiche dell'edificio,
previsto dall'art. 1127, comma 2, c.c., debba interpretarsi non nel senso
che la sopraelevazione sia vietata soltanto se le strutture dell'edificio
non consentano di sopportarne il peso, ma nel senso che il divieto sussiste
anche nel caso in cui le strutture siano tali che, una volta elevata la
nuova fabbrica, non consentano di sopportare l'urto di forze in movimento
quali le sollecitazioni di origine sismica.
Pertanto, qualora le leggi antisismiche prescrivano particolari cautele
tecniche da adottarsi, in ragione delle caratteristiche del territorio,
nella sopraelevazione degli edifici, esse sono da considerarsi integrative
dell'art. 1127, comma 2, c.c., e la loro inosservanza determina una
presunzione di pericolosità della sopraelevazione, che può essere vinta
esclusivamente mediante la prova, incombente sull'autore della nuova
fabbrica, che non solo la sopraelevazione, ma anche la struttura sottostante
sia idonea a fronteggiare il rischio sismico.
La domanda di demolizione può
essere, perciò, paralizzata unicamente da tale prova di adeguatezza della
sopraelevazione e della struttura sottostante rispetto al rischio sismico;
sicché, ove detta prova non sia acquisita, il diritto di sopraelevare non
può sorgere.
---------------
II. Il primo ed il secondo motivo di ricorso possono essere
esaminati congiuntamente, per la loro connessione, e si rivelano infondati.
La Corte d'appello di Catania ha correttamente qualificato come "sopraelevazione",
agli effetti dell'art. 1127 c.c., il manufatto dell'altezza variabile da m.
2,10 a m. 2,40 realizzato da An.Tr. sulla terrazza di copertura
dell'edificio condominiale, vano avente una superficie di mq 42, cui
si accede dall'appartamento di proprietà esclusiva Tr. mediante scala a
chiocciola innestata nel solaio.
Ai fini dell'art. 1127 c.c., la sopraelevazione di edificio condominiale è,
infatti, costituita dalla realizzazione di nuove opere (nuovi piani o nuove
fabbriche) nell'area sovrastante il fabbricato, per cui l'originaria altezza
dell'edificio è superata con la copertura dei nuovi piani o con la
superficie superiore terminale delimitante le nuove fabbriche (Cass. Sez. 2,
24/10/1998, n. 10568; Cass. Sez. 2, 10/06/1997, n. 5164; Cass. Sez. 2,
24/01/1983, n. 680; Cass. Sez. 2, 07/09/2009, n. 19281).
Nella definizione enunciata da Cass. Sez. U, 30/07/2007, n. 16794, la
nozione di sopraelevazione ex art. 1127 c.c. comprende, peraltro, non solo
il caso della realizzazione di nuovi piani o nuove fabbriche, ma anche
quello della trasformazione dei locali preesistenti mediante l'incremento
delle superfici e delle volumetrie, seppur indipendentemente dall'aumento
dell'altezza del fabbricato.
L'art. 1127 c.c. sottopone, poi, il diritto di sopraelevazione del
proprietario dell'ultimo piano dell'edificio ai limiti dettati dalle
condizioni statiche dell'edificio che non la consentono, ovvero dall'aspetto
architettonico dell'edificio stesso, oppure dalla conseguente notevole
diminuzione di arie e luce per i piani sottostanti. Il limite segnato dalle
condizioni statiche si intende dalla giurisprudenza di questa Corte, in
particolare, come espressivo di un divieto assoluto, cui è possibile ovviare
soltanto se, con il consenso unanime dei condomini, il proprietario sia
autorizzato all'esecuzione delle opere di rafforzamento e di consolidamento
necessarie a rendere idoneo il fabbricato a sopportare il peso della nuova
costruzione.
Ne consegue che le condizioni statiche dell'edificio rappresentano un limite
all'esistenza stessa del diritto di sopraelevazione, e non già l'oggetto di
verificazione e di consolidamento per il futuro esercizio dello stesso,
limite che si sostanzia nel potenziale pericolo per la stabilità del
fabbricato derivante dalla sopraelevazione, il cui accertamento costituisce
apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in
sede di legittimità se congruamente motivato (Cass. Sez. 2,
30/11/2012, n. 21491).
E' parimenti consolidato l'orientamento secondo il quale il divieto di
sopraelevazione per inidoneità delle condizioni statiche dell'edificio,
previsto dall'art. 1127, comma 2, c.c., debba interpretarsi non nel senso
che la sopraelevazione sia vietata soltanto se le strutture dell'edificio
non consentano di sopportarne il peso, ma nel senso che il divieto sussiste
anche nel caso in cui le strutture siano tali che, una volta elevata la
nuova fabbrica, non consentano di sopportare l'urto di forze in movimento
quali le sollecitazioni di origine sismica.
Pertanto, qualora le leggi antisismiche prescrivano particolari cautele
tecniche da adottarsi, in ragione delle caratteristiche del territorio,
nella sopraelevazione degli edifici, esse sono da considerarsi integrative
dell'art. 1127, comma 2, c.c., e la loro inosservanza determina una
presunzione di pericolosità della sopraelevazione, che può essere vinta
esclusivamente mediante la prova, incombente sull'autore della nuova
fabbrica, che non solo la sopraelevazione, ma anche la struttura sottostante
sia idonea a fronteggiare il rischio sismico. La domanda di demolizione può
essere, perciò, paralizzata unicamente da tale prova di adeguatezza della
sopraelevazione e della struttura sottostante rispetto al rischio sismico;
sicché, ove detta prova non sia acquisita, il diritto di sopraelevare non
può sorgere.
La condizione di liceità della sopraelevazione eseguita dalla Tr., era,
dunque, subordinata alla verifica che il fabbricato Condominio Lo Sm.
fosse stato reso conforme alle prescrizioni tecniche dettate dalla
legislazione speciale (art. 14, L. n. 64 del 1974), dovendosi acquisire
elementi sufficienti a dimostrare scientificamente la sicurezza antisismica
della sopraelevazione e dell'edificio sottostante, mediante indagine di
fatto demandata al giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al
sindacato di legittimità, se, come nel caso in esame, congruamente motivato.
Soltanto la presentazione di una progettazione antisismica dell'opera
eseguita e dell'intero edificio, conseguente ad una verifica della struttura
complessiva e delle fondazioni del fabbricato, permette di ottemperare alla
presunzione di pericolosità derivante dall'inosservanza delle prescrizioni
tecniche dettate dalla normativa speciale.
La Corte d'Appello ha
motivatamente spiegato le ragioni della propria adesione alle risultanze
della consulenza tecnica d'ufficio, indicando come la sopraelevazione fosse
stata realizzata dalla Trovato in assenza di preventive indagini conoscitive
e verifiche tecniche circa l'incidenza sui carichi permanenti e sui
sovraccarichi accidentali dell'edificio, con conseguente pregiudizio
statico.
Non hanno perciò rilievo dirimente, ai fini della valutazione
della legittimità delle opere sotto il profilo del pregiudizio
statico, né il conseguimento della concessione edilizia relativa al corpo di
fabbrica elevato sul terrazzo dell'edificio (Cass. Sez.
2, 26/04/2013, n. 10082; Cass. Sez. 2, 11/02/2008, n. 3196),
né, al contrario di quanto assume la ricorrente, la certificazione
redatta da un tecnico attestante l'idoneità statica delle opere
eseguite, sufficiente per il conseguimento della concessione in
sanatoria di costruzioni in zone sismiche (in base al combinato
disposto di cui all'art. 26, L. Regione Sicilia 10.08.1985, n.
37 ed all'art. 7, L. Regione Sicilia, 15.05.1986, n. 26), e
neppure la carenza della condizioni per il rilascio del certificato
di abitabilità, poste a tutela delle esigenze igieniche e sanitarie
nonché degli interessi urbanistici, e dunque funzionali a
verificare l'idoneità dell'immobile ad essere "abitato", o più
generalmente ad essere frequentato dalle persone fisiche.
Si
tratta, infatti, di atti che attengono all'ambito del rapporto
pubblicistico tra P.A. e privato, e cioè all'aspetto formale
dell'attività edificatoria, e che non sono invece di per sé
risolutivi del conflitto tra i proprietari privati interessati in
senso opposto alla costruzione, conflitto da dirimere pur
sempre in base al diretto raffronto tra le caratteristiche
oggettive dell'opera e i limiti posti dall'art. 1127 c.c.
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 29.01.2020 n. 2000). |
APPALTI: ●
Sulla mancata allegazione dello schema di statuto al disciplinare di gara a
doppio oggetto per il nuovo socio di società mista.
●
Sulla nullità di clausole che prevedano diritti di prelazione in favore dei
soci della società mista.
●
L'art. 17, c. 2, del d.lgs n. 175/2016 (TUSP), nella parte in cui prevede
che all'avviso pubblico è allegata (fra gli altri) la "bozza dello statuto"
si riferisce alle società a partecipazione mista pubblico-privata da
costituire.
Pertanto, nel caso di specie, il comportamento della stazione appaltante che
ha omesso di allegare al disciplinare di gara lo schema di statuto della
società mista non vizia la procedura di gara. Le società a partecipazione
mista pubblico-privata già costituite (quale Mobilità di Marca S.p.a.),
nelle quali debba fare ingresso un nuovo socio privato, hanno già uno
statuto (e non una "bozza di statuto").
Del resto, la Comunicazione interpretativa della Commissione
sull'applicazione del diritto comunitario degli appalti pubblici e delle
concessioni ai partenariati pubblico-privati istituzionalizzati (PPPI) -
2008/C 91/02), prevede che, in relazione alla "costituzione" di un PPPI,
l'obbligo di trasparenza impone all'amministrazione aggiudicatrice di
includere nel bando di gara o nel capitolato d'oneri informazioni di base
sull'appalto pubblico o sulla concessione da aggiudicare all'entità a
capitale misto "che dovrà essere costituita", sullo statuto di tale entità,
sul patto tra gli azionisti e su tutti gli altri elementi che regolano, da
un lato, il rapporto contrattuale tra l'amministrazione aggiudicatrice e il
partner privato e, dall'altro, il rapporto tra l'amministrazione
aggiudicatrice e "l'entità a capitale misto da costituire".
Peraltro, detto statuto è pienamente conoscibile (essendo liberamente
accessibile presso il registro delle imprese e pubblicato sul sito
istituzionale della società).
●
La previsione dell'obbligo della procedura di evidenza pubblica
in caso di alienazione di partecipazioni sociali ex art. 10, c. 2, del
d.lgs. n. 175/2016, comporta la contestuale nullità di eventuali clausole
che prevedano diritti di prelazione in favore dei soci della società mista,
in quanto l'apposizione di simili pattuizioni si pone inevitabilmente in
contrasto con i principi di matrice eurounitaria.
Pertanto, nel caso di specie, è illegittima la procedura di gara indetta
dalla Provincia nella misura in cui non ha previsto, nell'ambito della
documentazione di gara, la rinuncia al diritto di prelazione in favore dei
soci privati di Mobilità di Marca S.p.a., ponendosi il mantenimento di
siffatti patti di prelazione pur in presenza di una procedura di gara volta
all'acquisizione del 30% delle partecipazioni sociali, in stridente
contrasto con il disposto di cui all'art. 10, c. 2, del d.lgs. n. 175 del
2016 (TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 29.01.2020 n. 98 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ACQUA – INQUINAMENTO IDRICO – Scarico dei reflui provenienti
da impianti di autolavaggio – Nozione di reflui domestici –
Attività artigianali – Prestazioni di servizi – Acque reflue
industriali – Considerazione della qualità inquinante dei
reflui – Necessità – Preventivo controllo della P.A. – Artt.
133 e 137 d.lgs. n. 152/2006 – Giurisprudenza.
In tema di tutela delle acque
dall’inquinamento, lo scarico dei reflui provenienti da
impianti di autolavaggio, eseguito in assenza di
autorizzazione, integra il reato di cui all’art. 137, comma
primo, del D.Lgs. n. 152 del 2006, non potendo tali acque
essere assimiliate a quelle domestiche.
Nella nozione di reflui domestici, alla luce delle nuove
disposizioni normative, rientrano tutti i reflui derivanti
da attività che non attengono strettamente al prevalente
metabolismo umano e alle attività domestiche, come definite
dall’art. 74, comma 1, lett. g), del d.Lgs. n. 152 del 2006,
il cui scarico è invece presidiato dalla mera sanzione
amministrativa in base a quanto previsto dall’art. 133,
comma 2, del predetto decreto n. 152 del 2006.
Rientrano, pertanto, tra le acque reflue industriali quelle
provenienti da attività artigianali e da prestazioni di
servizi, a condizione che le caratteristiche qualitative
degli stessi siano diverse da quelle delle acque domestiche,
e ciò indipendentemente dal grado o dalla natura
dell’inquinamento.
Dunque, al fine di individuare le acque che derivano dalle
attività produttive, occorre procedere a contrario, vale a
dire escludendo le acque ricollegabili al metabolismo umano
e provenienti dalla realtà domestica: è questo il caso degli
impianti di autolavaggio, i quali hanno natura di
insediamenti produttivi e non di insediamenti civili, in
considerazione della qualità inquinante dei reflui, diversa
e più grave rispetto a quella dei normali scarichi da
abitazioni, e per la presenza di residui quali oli minerali
e sostanze chimiche contenute nei detersivi e nelle vernici
eventualmente staccatesi dalle vetture usurate.
Ne consegue che lo sversamento sul suolo di tali acque,
operato senza autorizzazione, è certamente idoneo a
integrare la fattispecie contestata, che ha natura di reato
di pericolo, non assumendo pertanto rilievo dirimente la
circostanza che i prelievi su alcuni degli scarichi siano
risultati nella norma, dovendo in ogni caso essere
assicurato il preventivo controllo della P.A.
Di qui la manifesta infondatezza delle censure difensive,
formulate peraltro in termini assertivi e non adeguatamente
specifici.
...
Scarico di reflui da insediamenti produttivi – Ritardi nel
rilascio dell’autorizzazione – Diritto allo svolgimento
dell’attività lavorativa – Elemento soggettivo del reato –
Controlli della P.A. – Fattispecie.
In tema di tutela delle acque
dall’inquinamento, non vale ad escludere la sussistenza
dell’elemento soggettivo del reato, di cui all’art. 137,
comma primo, del D.Lgs. n. 152 del 2006, a seguito
dell’inerzia del Comune, nonostante le numerose
sollecitazioni, al rilascio dell’autorizzazione, che di
fatto possa compromettere il diritto allo svolgimento
dell’attività lavorativa.
Stante la natura contravvenzionale, la sola presentazione
dell’istanza, pur se seguita da eventuali sollecitazioni
verbali rivolte all’ente preposto, non giustifica comunque
l’inizio dell’attività di autolavaggio, fermo restando che
nel caso specifico sono rimaste ignote sia le ragioni del
mancato rilascio dell’autorizzazione, sia le iniziative
formali (e non semplicemente verbali) assunte dall’imputato
al fine di superare una così prolungata inerzia della
Pubblica Amministrazione, essendo evidente che, in difetto
di un espresso provvedimento autorizzatorio, l’attività di
scarico dei reflui industriali non poteva essere ritenuta
legittima (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.01.2020 n. 3450 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: "Non è
prospettabile una valutazione separata degli interventi edilizi effettuati,
allorché gli stessi facciano parte di un disegno sostanzialmente unitario
volto a realizzare una determinata complessiva opera, risultante priva di
titolo (...) Ne consegue che non è ammissibile una loro considerazione
astratta ed atomistica, ma deve necessariamente predicarsene una valutazione
unitaria sintetica e complessiva, in quanto divenute parti di un più ampio
quadro di illecito sostanzialmente unitario dal quale attingono il medesimo
regime giuridico di illegittimità".
In altri termini, "ai fini della ricognizione del regime giuridico e della
categoria edilizia cui vanno ricondotti, gli abusi edilizi non possono
formare oggetto di una considerazione atomistica, ma debbono essere
apprezzati nel loro complesso onde stabilire se hanno determinato
trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, incremento di carico
urbanistico e se hanno o meno natura di pertinenza".
---------------
6. Preliminarmente deve considerarsi non condivisibile la prospettazione parcellizzata suggerita dal ricorrente a fini dell’esclusione
del permesso di costruire ex art. 10 del d.P.R. 380/2001.
La annoverabilità
di taluni interventi tra quelli oggetto di “liberalizzazione” rientranti
nell’ambito di applicazione dell’art. 6, lett. e-ter), del d.P.R. 380/2001
(invero risulta annoverabile, in una visione analitica del progetto, la sola
pavimentazione parziale del lotto, mentre la realizzazione dell’impianto
interrato di depurazione e smaltimento delle acque derivanti
dall’autolavaggio non è identificabile con quella di una mera “vasca di
raccolta”, comportando una modifica urbanistica destinata a durare nel
tempo) non è in linea con l’orientamento, ripetutamente espresso dalla
giurisprudenza anche di questo Tribunale, secondo il quale "non è
prospettabile una valutazione separata degli interventi edilizi effettuati,
allorché gli stessi facciano parte di un disegno sostanzialmente unitario
volto a realizzare una determinata complessiva opera, risultante priva di
titolo (...) Ne consegue che non è ammissibile una loro considerazione
astratta ed atomistica, ma deve necessariamente predicarsene una valutazione
unitaria sintetica e complessiva, in quanto divenute parti di un più ampio
quadro di illecito sostanzialmente unitario dal quale attingono il medesimo
regime giuridico di illegittimità" (TAR Napoli, sez. III, 15.11.2018, n. 6632; cfr. anche Cons. Stato, sez. V, 12.10.2018, n. 5887).
In altri termini, "ai fini della ricognizione del regime giuridico e della
categoria edilizia cui vanno ricondotti, gli abusi edilizi non possono
formare oggetto di una considerazione atomistica, ma debbono essere
apprezzati nel loro complesso onde stabilire se hanno determinato
trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, incremento di carico
urbanistico e se hanno o meno natura di pertinenza" (TAR Campania-Napoli,
Sez. III, 29.05.2017, n. 2851; TAR Napoli, sez. III, 20.02.2018, n. 1093).
Nel caso specifico, il progetto prevedeva anche opere di scavo per la
realizzazione interrata di impianti di depurazione e la realizzazione di
piattaforme –non identificabili con la mera pavimentazione degli spazi
esterni– funzionali al lavaggio e all’asciugatura dei veicoli. La
valutazione complessiva del progetto esclude pertanto l’applicazione
dell’art. 6 del d.P.R. 380/2001 invocata dal ricorrente
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 28.01.2020 n. 408 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Gli
atti amministrativi, anche se di carattere generale come il piano
urbanistico, vanno interpretati secondo le disposizioni ex art. 1362 e ss. c.c.,
applicabili analogicamente.
Con più particolare riguardo alle norme contenute nel piano urbanistico,
costituisce ius receptum che:
“a) in linea di principio, sono eccezionali e di stretta
interpretazione i casi in cui il P.R.G. (o lo strumento urbanistico
equivalente) consenta il rilascio del permesso di costruire diretto, senza
previa approvazione dello strumento attuativo;
b) pure in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata, la
necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la
situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione
della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il
lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non
anche nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si
trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a
restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un
disegno urbanistico di completamento della zona (…);
c) l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per
il rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine di un
armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di
potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla
più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate,
che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in
caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e
urbanizzata”.
---------------
L'esigenza di un piano urbanistico attuativo, quale presupposto per il
rilascio del permesso di costruire, si impone anche per garantire un
armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo allo scopo di
potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, pure al più
limitato fine di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate per le
quali la relativa strumentazione urbanistica postuli la necessità di una
pianificazione di dettaglio, anche laddove ricorra l'ipotesi di lotto
intercluso o di altre situazioni analoghe di pregressa completa
urbanizzazione.
In altri termini, il principio secondo cui può prescindersi
nelle zone di espansione dalla previa presentazione di un piano
particolareggiato o di lottizzazione qualora la zona sia completamente
urbanizzata, recede nel caso in cui sussista una specifica previsione della
strumentazione urbanistica che imponga l'assolvimento di tale onere prima di
avviare l'attività edilizia.
---------------
7. La questione dirimente nella fattispecie in esame concerne piuttosto la
qualificazione giuridica dell’intervento progettato alla stregua del piano
urbanistico vigente nel Comune resistente, avendo il ricorrente invocato
l’applicazione dell’art. 5 delle NTA sopra richiamato che, escludendo la
necessaria adozione del piano attuativo, supererebbe uno dei due motivi
ostativi contenuti nel diniego (sintetizzato supra al punto 2, lett. b).
Anche sotto questo profilo, l’opzione interpretativa suggerita
dall’interessato non è condivisibile.
7.1. In merito, è opportuno rilevare che gli atti amministrativi, anche se
di carattere generale come il piano urbanistico, vanno interpretati secondo
le disposizioni ex art. 1362 e ss. c.c., applicabili analogicamente (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. III, 10.06.2016, n. 2497).
Con più particolare riguardo alle norme contenute nel piano urbanistico,
costituisce ius receptum (cfr., ex plurimis Cons. Stato, sez. IV,
08.02.2018, n. 825; sez. IV, 13.04. 2016, n. 1434; sez. IV, 04.07.2017, n.
3256; sez. IV, 17.07.2013, n. 3880; sez. IV, 21.08.2013, n. 4200;
sez. V, 29.02.2012, n. 1177) che:
“a) in linea di principio, sono eccezionali e di stretta
interpretazione i casi in cui il P.R.G. (o lo strumento urbanistico
equivalente) consenta il rilascio del permesso di costruire diretto, senza
previa approvazione dello strumento attuativo;
b) pure in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata, la
necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la
situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione
della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il
lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non
anche nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si
trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a
restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un
disegno urbanistico di completamento della zona (…);
c) l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per
il rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine di un
armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di
potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla
più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate,
che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in
caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e
urbanizzata” (Cons. Stato, Sez. IV, 20.04.2018, n. 2397).
7.2. I principi interpretativi sopra riportati trovano piena applicazione
nel caso di specie.
L’art. 5 citato da parte ricorrente prevede che in tutte le zone del
territorio possono essere realizzate senza l’adozione del piano attuativo,
tra l’altro, “le opere di interesse pubblico relative alla viabilità
indicata nel PRG e le opere complementari relative ai trasporti e ai servizi
connessi” (lett. b): già l’esegesi restrittiva di tale norma esclude che
un’attività di autolavaggio possa rientrare tra le “opere complementari” a
supporto del trasporto e dei servizi connessi, non essendo strettamente
funzionale alla viabilità o complementare al trasporto (es. interventi volti
al miglioramento della sicurezza stradale), né avendo una funzione pubblica,
che invece accomuna tutte le opere espressamente elencate nell’art. 5.
Tale conclusione interpretativa è avvalorata anche dalla lettura sistematica
delle norme urbanistiche contenute nel PRG del Comune resistente, poiché a
fronte dell’art. 5 che esclude per le categorie di “opere” ivi elencate il
piano attuativo, il successivo art. 13 prevede che nella zona G è
consentita, tra l’altro, la realizzazione di “officine automobilistiche,
stazioni di servizio o impianti commerciali in genere a servizio della rete
stradale” (lett. b) nonché “depositi, autorimesse, parcheggi coperti e
scoperti, scambiatori per traffici veicolari, ed in genere tutte le attività
di supporto della rete stradale” (lett. c), precisando che l’attuazione del PRG è, in tal caso, affidata a piani particolareggiati di esecuzione o alle
lottizzazioni convenzionate, nel rispetto di quanto previsto agli artt. 3 e
5 della presente normativa e che “nella redazione dei progetti urbanistici
particolare cura sarà volta alla previsione delle sistemazioni e verde e
alla realizzazione della zona turistica che conferisca dignità e decoro, al
nodo di confluenza di tutta la rete cinematica del territorio. Al tale fine
anche i rapporti tra le varie attività indicate ai commi a, b, e c, saranno
determinati in sede di studio del piano particolareggiato che dovrà essere
integrato da uno studio socio economico per le installazioni da prevedere”.
L’autolavaggio –per il cui esercizio, secondo la tabella a) allegata al
D.Lgs. 25.11.2016, n. 222è ora prevista la SCIA condizionata (essendo
necessaria anche la SCIA per prevenzione incendi e l’AUA per lo scarico
delle acque)– è certamente assimilabile alle opere edilizie di cui all’art.
13, tra cui vengono espressamente citate le officine e le autorimesse, nelle
quali comunque vengono svolti servizi accessori destinati agli utilizzatori
di veicoli stradali e per le quali la norma, facendo riemergere il principio
generale derogato dall’art. 5, prevede espressamente il piano attuativo.
7.3. Quanto al superamento dell’obbligo di attuazione del P.R.G. con un
piano particolareggiato, dedotto, in via subordinata, da parte ricorrente,
va ribadito, come più volte sottolineato anche da questa Sezione, che
“l'esigenza di un piano urbanistico attuativo, quale presupposto per il
rilascio del permesso di costruire, si impone anche per garantire un
armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo allo scopo di
potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, pure al più
limitato fine di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate per le
quali la relativa strumentazione urbanistica postuli la necessità di una
pianificazione di dettaglio, anche laddove ricorra l'ipotesi di lotto
intercluso o di altre situazioni analoghe di pregressa completa
urbanizzazione; in altri termini, il principio secondo cui può prescindersi
nelle zone di espansione dalla previa presentazione di un piano
particolareggiato o di lottizzazione qualora la zona sia completamente
urbanizzata, recede nel caso in cui sussista una specifica previsione della
strumentazione urbanistica che imponga l'assolvimento di tale onere prima di
avviare l'attività edilizia" (TAR, Napoli, Sez. II, 27.05.2019, n. 2833)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 28.01.2020 n. 408 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Nel caso in cui il provvedimento impugnato sia fondato su di una
pluralità di autonomi motivi, il rigetto della doglianza volta a contestare
una delle sue ragioni giustificatrici comporta la carenza di interesse della
parte ricorrente all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le
altre ragioni giustificatrici atteso che, seppure tali ulteriori censure si
rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe comunque idoneo a
soddisfare l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento del
provvedimento impugnato, che resterebbe supportato dall'autonomo motivo
riconosciuto sussistente.
---------------
8. L’infondatezza della doglianza appena esaminata, concernente uno dei due
motivi sottesi al diniego, è sufficiente a rigettare il ricorso, essendo
stato impugnato un provvedimento plurimotivato ("nel caso in cui il
provvedimento impugnato sia fondato su di una pluralità di autonomi motivi,
il rigetto della doglianza volta a contestare una delle sue ragioni
giustificatrici comporta la carenza di interesse della parte ricorrente
all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni
giustificatrici atteso che, seppure tali ulteriori censure si rivelassero
fondate, il loro accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare
l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento del provvedimento
impugnato, che resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto
sussistente” TAR, Napoli, sez. VIII, 23.07.2014, n. 4116)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 28.01.2020 n. 408 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA: Il
disegno urbanistico espresso da uno strumento di pianificazione generale, o
da una sua variante costituisce estrinsecazione di potere pianificatorio
connotato da ampia discrezionalità che rispecchia non soltanto scelte
strettamente inerenti all'organizzazione edilizia del territorio, bensì
afferenti anche al più vasto e comprensivo quadro delle possibili opzioni
inerenti al suo sviluppo socio-economico.
Tali scelte non sono nemmeno condizionate dalla pregressa indicazione, nel
precedente piano regolatore, di destinazioni d'uso edificatorie diverse e
più favorevoli rispetto a quelle impresse con il nuovo strumento urbanistico
o una sua variante, con il solo limite dell'esigenza di una specifica
motivazione a sostegno della nuova destinazione quando quelle indicazioni
avevano assunto una prima concretizzazione in uno strumento urbanistico
esecutivo (piano di lottizzazione, piano particolareggiato, piano attuativo)
approvato o convenzionato, o quantomeno adottato, e tale quindi da aver
ingenerato un'aspettativa qualificata alla conservazione della precedente
destinazione.
---------------
Di norma una variante specifica ovvero limitata ad un terreno determinato
deve essere assistita da motivazione puntuale.
---------------
Nel caso di impugnativa di strumenti di pianificazione da parte di terzi,
che censurino la disciplina urbanistica di aree contigue a quelle di loro
proprietà, non basta la mera affermazione della “vicinitas” ma occorre,
quanto meno, la prospettazione degli effetti pregiudizievoli che potrebbero
derivare dalle scelte urbanistiche censurate, anche in termini di scadimento
della "qualità della vita" di coloro che, per residenza, attività lavorativa
e simili, si trovino in durevole rapporto con la zona oggetto delle
previsioni impugnate.
Si deve, quindi, escludere che la mera situazione fattuale di residenza in
un comune radichi in capo a ciascun residente una posizione di interesse
legittimo che gli consenta l'impugnazione diretta di atti di pianificazione
generale del territorio cittadino.
---------------
3.1. - Come ampiamente noto, le scelte pianificatorie sulla destinazione
urbanistica costituiscono valutazioni ampiamente discrezionali che non
necessitano di particolari motivazioni, fatte salve particolari situazioni
di affidamento.
Il disegno urbanistico espresso da uno strumento di pianificazione generale,
o da una sua variante costituisce estrinsecazione di potere pianificatorio
connotato da ampia discrezionalità che rispecchia non soltanto scelte
strettamente inerenti all'organizzazione edilizia del territorio, bensì
afferenti anche al più vasto e comprensivo quadro delle possibili opzioni
inerenti al suo sviluppo socio-economico; tali scelte non sono nemmeno
condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente piano regolatore,
di destinazioni d'uso edificatorie diverse e più favorevoli rispetto a
quelle impresse con il nuovo strumento urbanistico o una sua variante, con
il solo limite dell'esigenza di una specifica motivazione a sostegno della
nuova destinazione quando quelle indicazioni avevano assunto una prima
concretizzazione in uno strumento urbanistico esecutivo (piano di
lottizzazione, piano particolareggiato, piano attuativo) approvato o
convenzionato, o quantomeno adottato, e tale quindi da aver ingenerato
un'aspettativa qualificata alla conservazione della precedente destinazione
(ex multis Consiglio di Stato, sez. IV, 25.06.2019, n. 4343; id.
19.02.2019, n. 1151).
3.2. - Ciò premesso, se è vero come di norma una variante specifica ovvero
limitata ad un terreno determinato debba essere assistita da motivazione
puntuale (ex multis Consiglio di Stato, sez. IV, 21.12.2001, n. 6343)
è altrettanto vero che gli odierni ricorrenti non sono titolari di alcuna
aspettativa qualificata né invero lamentano effetti pregiudizievoli che
potrebbero derivare dalle scelte urbanistiche censurate, anche soltanto in
termini di scadimento della "qualità della vita”, dolendosi
unicamente, in definitiva, del più favorevole indice di edificabilità
attribuito alle aree confinanti.
3.3. - Nel caso di impugnativa di strumenti di pianificazione da parte di
terzi, che censurino la disciplina urbanistica di aree contigue a quelle di
loro proprietà, non basta la mera affermazione della “vicinitas” ma
occorre, quanto meno, la prospettazione degli effetti pregiudizievoli che
potrebbero derivare dalle scelte urbanistiche censurate, anche in termini di
scadimento della "qualità della vita" di coloro che, per residenza, attività
lavorativa e simili, si trovino in durevole rapporto con la zona oggetto
delle previsioni impugnate. Si deve, quindi, escludere che la mera
situazione fattuale di residenza in un comune radichi in capo a ciascun
residente una posizione di interesse legittimo che gli consenta
l'impugnazione diretta di atti di pianificazione generale del territorio
cittadino (ex multis TAR, Piemonte, sez. I, 03.07.2007, n. 1043; TAR
Veneto sez. II, 03.04.2013, n. 469; Consiglio di Stato, sez. IV, 13.11.2012,
n. 5715; id. sez. IV, 17.09.2012, n. 4926).
La contestata destinazione consentita dalla variante operativa appare poi
idonea alla realizzazione dell’interesse pubblico, non sussistendo alcuna
incompatibilità tra l’introduzione di spazi ricettivi con valenza turistica
ed il pregio ambientale della zona, non caratterizzata dalla presenza di
vincoli di tipo assoluto e rientrando ciò nella discrezionalità del
pianificatore, non indicando appunto i ricorrenti la concreta lesività di
tale scelta, individuabile soltanto nella lesione di una aspettativa del
tutto generica (TAR Umbria,
sentenza 24.01.2020 n. 28 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire rilasciato ai sensi dell’art. 5 Legge
n. 106/2011 – Esemplificazione della disciplina ordinaria –
Limiti – Artt. 14, 25, 44 d.P.R. n. 380/2001.
La natura eccezionale del permesso di
costruire, rilasciato ai sensi dell’art. 5, comma 9, e
seguenti della legge 106/2011, in quanto deroga alla
disciplina ordinaria ed alle previsioni degli strumenti
urbanistici al fine di soddisfare esigenze straordinarie
rispetto agli interessi primari garantiti dalla disciplina
urbanistica generale, limita l’ambito di operatività
esclusivamente entro i confini tassativamente previsti dal
legislatore statale, richiamando l’inderogabilità degli
standard urbanistici, la non attuabilità degli interventi di
riqualificazione e aumenti di volumetria con riferimento ad
edifici abusivi o situati nei centri storici o in area ad
inedificabilità assoluta ed escludendo la possibilità del
rilascio del titolo abilitativo secondo la procedura
ordinaria.
...
Legge n. 106/2011 – Cambio di destinazione d’uso – Requisito
della compatibilità o complementarietà tra la destinazione
urbanistica originaria e quella da attuare – Rilascio di un
permesso di costruire in deroga al vigente strumento
urbanistico comunale – Presupposti e limiti – DM n.
1444/1968.
Il riferimento, dell’art. 5 legge n.
106/2011, all’esistenza di “funzioni eterogenee” o di
“tessuti edilizi disorganici o incompiuti” o di “edifici a
destinazione non residenziale dismessi o in via di
dismissione ovvero da rilocalizzare”, non indica o individua
presupposti autonomi per il rilascio di un permesso di
costruire in deroga, ulteriori rispetto a quelli costituiti
dalla “razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente”
e dalla “riqualificazione di aree urbane degradate”, ma
intende unicamente esemplificare gli specifici contesti
urbani “degradati” in cui la norma trova applicazione, con
la conseguenza che l’esistenza di “edifici a destinazione
non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da
rilocalizzare” costituisce un presupposto sufficiente a
consentire il rilascio di un permesso di costruire in deroga
al vigente strumento urbanistico comunale solo quando detti
edifici siano collocati in “aree urbane degradate”, poiché
soltanto a tale condizione la legge consente al consiglio
comunale di formulare le sue valutazioni circa la
possibilità di assentire proposte di edificazione in deroga
allo strumento urbanistico riconoscendo anche gli ulteriori
benefici previsti, sempre che gli interventi consentano di
perseguire l’interesse pubblico prioritario alla
“razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente” e alla
“riqualificazione di aree urbane degradate”.
Tale disposizione, quindi, pur imponendo di interpretare il
contenuto dell’art. 5, commi 9 e 14 nel senso che prevale,
tranne i casi di cui al comma 11, secondo periodo, su tutti
gli strumenti urbanistici generali, particolareggiati o
attuativi, va applicata considerando la natura di norma di
favore eccezionale (essendo diretta a regolare in termini
diversi un minor numero di ipotesi rispetto a quelle
ordinarie) dell’art. 5 e tenendo conto del fatto che essa
non è comunque suscettibile di applicazioni oltre gli scopi
cui è preordinata, con la conseguenza che essa non può
prevalere sulle regole che fissano standard o criteri
inderogabili, tra cui il DM n. 1444/1968, imponendo altresì
il rispetto delle altre discipline richiamate (ad es. leggi
sanitarie, sismiche…) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.01.2020 n. 2695 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reato urbanistico – Natura di reato permanente – Momento
della consumazione e cessazione della permanenza – Nozione
di “ultimazione dell’opera” – Edificio concretamente
funzionale – Art. 25 del T.U. Edilizia.
Il reato urbanistico ha natura di reato
permanente, la cui consumazione ha inizio con l’avvio, dei
lavori di costruzione e perdura fino alla cessazione
dell’attività edificatoria abusiva. Precisando che la
cessazione dell’attività si ha con l’ultimazione dei lavori
per completamento dell’opera, con la sospensione dei lavori
volontaria o imposta (ad esempio, mediante sequestro penale)
o con la sentenza di primo grado, se i lavori continuano
dopo l’accertamento del reato e sino alla data del giudizio.
Si è inoltre chiarito che l’ultimazione dell’opera coincide
con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed
esterni, quali gli intonaci e gli infissi. Deve trattarsi,
in altre parole, di un edificio concretamente funzionale,
che possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità,
come si ricava dal disposto del primo comma dell’art. 25 del
T.U. dell’edilizia, che fissa “entro quindici giorni
dall’ultimazione dei lavori di finitura dell’intervento” il
termine per la presentazione, allo sportello unico, della
domanda di rilascio del certificato di agibilità.
Le opere devono essere, inoltre, valutate nel loro
complesso, non potendosi, in base al concetto unitario di
costruzione, considerare separatamente i singoli componenti.
Tali caratteristiche riguardano, inoltre, anche le parti che
costituiscono annessi dell’abitazione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.01.2020 n. 2695 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Carico urbanistico – Incidenza di un intervento edilizio –
Aspetto strutturale e funzionale dell’opera – Sequestro
preventivo preventivo di un immobile abusivo ultimato –
Pericolo degli effetti pregiudizievoli del reato – Requisito
della concretezza e adeguata motivazione.
L’incidenza di un intervento edilizio
sul carico urbanistico dev’essere considerata con
riferimento all’aspetto strutturale e funzionale dell’opera,
ed è rilevabile anche nel caso di una concreta alterazione
dell’originaria consistenza sostanziale di un manufatto in
relazione alla volumetria, alla destinazione o all’effettiva
utilizzazione, tale da determinare un mutamento dell’insieme
delle esigenze urbanistiche valutate in sede di
pianificazione, con particolare riferimento agli standard
fissati dal d.m. 02.04.1968, n. 1444.
Il sequestro preventivo di un immobile abusivo ultimato è
stato, inoltre, ritenuto possibile anche nel caso di
utilizzo dell’opera in conformità alle destinazioni di zona,
allorquando il manufatto presenti una consistenza
volumetrica tale da determinare comunque un’incidenza
negativa concretamente individuabile sul carico urbanistico,
sotto il profilo dell’aumentata esigenza di infrastrutture e
di opere collettive correlate.
A corredo di tali principi si è ripetutamente affermato che
il pericolo degli effetti pregiudizievoli del reato, anche
relativamente al carico urbanistico, deve presentare il
requisito della concretezza, in ordine alla sussistenza del
quale deve essere fornita dal giudice adeguata motivazione.
Una simile necessità risulta significativamente attenuata
allorquando la misura cautelare riguarda la realizzazione di
uno o più manufatti ex novo in area inedificata (ed in
assenza, ovviamente, del necessario permesso di costruire)
poiché in un simile contesto l’incidenza sul carico
urbanistico può essere di immediata evidenza.
...
Nozione di carico urbanistico – Elemento c.d. primario –
Elemento c.d. secondario o di servizio – Giurisprudenza.
La nozione di carico urbanistico “deriva
dall’osservazione che ogni insediamento umano è costituito
da un elemento c.d. primario (abitazioni, uffici, opifici,
negozi) e da uno secondario di servizio (opere pubbliche in
genere, uffici pubblici, parchi, strade, fognature,
elettrificazione, servizio idrico, condutture di erogazione
del gas) che deve essere proporzionato all’insediamento
primario ossia al numero degli abitanti insediati ed alle
caratteristiche dell’attività da costoro svolte.
Quindi, il carico urbanistico è l’effetto che viene prodotto
dall’insediamento primario come domanda di strutture ed
opere collettive, in dipendenza del numero delle persone
insediate su di un determinato territorio” (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.01.2020 n. 2695 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
DANNO AMBIENTALE – Misure di prevenzione e di messa in
sicurezza – Potenziale danno ambientale – Obblighi di
comunicazione – Contenuto della comunicazione – Intervento
sul luogo dell’inquinamento degli operatori di vigilanza
preposti alla tutela ambientale – Reato di cui agli artt.
242, 245, 257, 304 d.lgs. n. 152/2006.
La mancata effettuazione della
comunicazione, è configurabile soltanto nei confronti del
responsabile dell’evento potenzialmente inquinante e non
anche colui che, pur essendo proprietario del terreno
interessato dall’evento, non lo abbia cagionato, ed è
sanzionata dal combinato disposto dagli artt. 242 e 257
d.lgs. 152/2006.
Gli obblighi di comunicazione sorgono per il solo fatto che
si sia verificata una situazione di potenziale pericolo,
prescindendo, quindi, dall’eventuale superamento delle
soglie di contaminazione. Tale comunicazione deve avere ad
oggetto tutti gli aspetti pertinenti della situazione, ed in
particolare le generalità dell’operatore, le caratteristiche
del sito interessato, le matrici ambientali presumibilmente
coinvolte e la descrizione degli interventi da eseguire”.
Il reato si configura, inoltre, anche nel caso in cui
intervengano sul luogo dell’inquinamento gli operatori di
vigilanza preposti alla tutela ambientale, in quanto tale
circostanza non esime l’operatore interessato dall’obbligo
di comunicare agli organi preposti le misure di prevenzione
e messa in sicurezza che intende adottare, entro 24 ore ed a
proprie spese, per impedire che il danno ambientale si
verifichi.
...
RIFIUTI – Minaccia di danno ambientale da un sito inquinato
– Rischi di aggravamento della situazione di contaminazione
– Azione di prevenzione – Procedura di comunicazione –
Obblighi di intervento – Notifica da parte dei soggetti non
responsabili della potenziale contaminazione – Omissione –
Effetti.
Ai sensi dell’art. 242, d.lgs. n.
152/2006, l’individuazione del destinatario del precetto in
colui il quale cagiona l’inquinamento si ricava dal dato
letterale dell’art. 257, comma 1, ove non vengono menzionati
altri soggetti nonostante l’art. 242 preveda che la
procedura di comunicazione debba trovare applicazione anche
all’atto di individuazione di contaminazioni storiche che
possano ancora comportare rischi di aggravamento della
situazione di contaminazione, facendo anche rilevare come
l’autonomia della posizione di colui il quale cagiona
l’inquinamento rispetto a quella di colui il quale accerti
la sussistenza di contaminazioni sul suolo è rimarcata
dall’art. 245, che ha per oggetto gli obblighi di intervento
e di notifica da parte dei soggetti non responsabili della
potenziale contaminazione. Fattispecie: minaccia di danno
ambientale da un sito inquinato (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.01.2020 n. 2686 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Obbligo
dichiarativo ex art. 80, comma 5, del D.Lgs.
n. 50/2016.
Il TAR Milano, in ordine
alla violazione dell’obbligo dichiarativo
previsto dall’art. 80, comma 5, del D.Lgs.
n. 50/2016, precisa che:
«- l’obbligo dichiarativo sussiste in capo al concorrente in base
al citato art. 80, comma 5, del d.l.vo 2016
n. 50 e riguarda indistintamente ogni
vicenda pregressa concernente fatti
risolutivi, errori o altre negligenze
comunque rilevanti ai fini della
formulazione del giudizio di affidabilità,
in coerenza con i generali principi di
lealtà e affidabilità contrattuale, posti a
presidio dell’elemento fiduciario nei
rapporti contrattuali facenti capo alla
pubblica amministrazione;
- consolidata giurisprudenza evidenzia che “... non essendo
configurabile in capo all’impresa alcun
filtro valutativo o facoltà di scegliere i
fatti da dichiarare, sussistendo l’obbligo
della onnicomprensività della dichiarazione,
in modo da permettere alla Stazione
appaltante di espletare, con piena
cognizione di causa, le valutazioni di
competenza...”;
- la gravità dell’evento deve essere valutata dall’amministrazione
e ciò presuppone che l’operatore economico
dichiari tale evento e si rimetta alla
valutazione della stazione appaltante,
viceversa l’omissione di tale dichiarazione
non consente all’amministrazione di
effettuare la valutazione di affidabilità
professionale dell’impresa;
- ecco, allora, che, nelle procedure ad evidenza pubblica
preordinate all'affidamento di un appalto
pubblico, l'omessa dichiarazione da parte
del concorrente di tutte le fattispecie
comprese nell’art. 80, comma 5, e oggetto
dell’obbligo dichiarativo, ne comporta
senz'altro l'esclusione dalla gara, essendo
impedito alla stazione appaltante di
valutarne la gravità;
- né sussiste la possibilità che l'omissione sia sanata attraverso
il soccorso istruttorio, il quale non può
essere utilizzato per sopperire a
dichiarazioni radicalmente mancanti -pena la
violazione della par condicio fra
concorrenti- ma soltanto per chiarire o
completare dichiarazioni o documenti già
comunque acquisiti agli atti di gara»
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 22.01.2020 n. 124 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
Con più censure da trattare congiuntamente
perché strettamente connesse sul piano
logico e giuridico, la ricorrente lamenta,
in termini di violazione di legge e di
eccesso di potere, che l’amministrazione
avrebbe violato sia la lettera di invito,
che non prevederebbe l’esclusione per i
motivi a lei riferiti, sia l’art. 80, comma
5, del d.lvo 2016, n. 50; inoltre, lamenta
il mancato esercizio da parte della stazione
appaltante del dovere di soccorso
istruttorio.
Le censure non possono essere condivise.
In particolare, il Tribunale osserva che:
- la lettera di invito in data 06/04/2018,
predisposta dalla Stazione Appaltante e
l’allegato alla medesima-Sezione I-busta
documentazione amministrativa al punto 4
prevede, a pena di esclusione, la
presentazione di una “autocertificazione (in
carta semplice) relativa all’insussistenza
dei motivi di esclusione e al possesso dei
requisiti di partecipazione con la quale il
legale rappresentante dichiara, a pena di
esclusione: ... B) l’insussistenza dei
motivi di esclusione previsti dall’art. 80
del D.Lgs. n. 50/2016; si precisa che il
concorrente deve dichiarare, a pena di
esclusione, di non trovarsi in alcuno dei
motivi di esclusione previsti dall’art. 80,
comma 1 lettere a), b), b-bis), c), d), e), f), g),
comma 2, comma 4, comma 5, lettere a), b), c),
d), e), f), f-bis), f-ter), g), h), i), l), m), del D.lgs. n. 50/2016;...”;
- con l’autocertificazione resa in sede di
gara, il legale rappresentante della
ricorrente ha dichiarato di “non trovarsi in
nessuna delle cause di esclusione previste
dall’art. 80, comma 1, lettere a), b), b-bis),
c), d), e), f), g), comma 2, comma 4, comma 5,
lettere a), b), c), d), e), f), f-bis), f-ter), g),
h), i), l), m), del D.Lgs n. 50/2016”;
- nondimeno, all’esito dei controlli
eseguiti dalla stazione appaltante, è emerso
che Euroascensori Service S.r.l. ha omesso
di dichiarare l’esistenza della risoluzione
contrattuale, mai contestata in giudizio,
disposta dalla Guardia di Finanza con
decreto n. 78 del 22/07/2016, risultante dal
Casellario A.N.A.C. con annotazione del
20/01/2017;
- va ribadito che la indicata risoluzione
non è stata dichiarata dalla ricorrente, né
risultava rilevabile in altro modo dal
contenuto della documentazione
amministrativa allegata all’offerta;
- contrariamente a quanto sostenuto dalla
ricorrente, l’esclusione non è stata
disposta ai sensi dell’art. 80, comma 5,
lett. f-ter), del D.Lgs. 50/2016, ossia sulla
base della mera sussistenza dell’annotazione
A.N.A.C., ma sulla base delle diverse
fattispecie di cui alle lett. c) ed f-bis)
del medesimo comma 5;
- né può essere condivisa la tesi per cui
l’esclusione sarebbe in contrasto con la
lettera di invito, in quanto la modulistica
prevedeva “non già l’affermazione che il
concorrente non è mai stato oggetto di
risoluzione contrattuale, ma quella,
diversa, “di non trovarsi in una delle cause
di esclusione” previste dall’art. 80 del
predetto D.lg.vo;
- si tratta di un argomento meramente
formalistico, che non vale ad escludere la
legittimità dell’esclusione, disposta in
coerenza con la già richiamata lettera di
invito, che richiedeva di dichiarare la
sussistenza delle specifiche fattispecie
previste dall’art. 80, comma 5, lett. c) ed
f-bis);
- quanto alle ragioni dell’esclusione, va
evidenziato che il provvedimento impugnato
si basa su due concorrenti fattispecie,
perché la stazione appaltante ha contestato,
in primo luogo, la falsità della
dichiarazione resa dalla ricorrente in corso
di gara, in ragione dell’omessa
dichiarazione dell’esistenza della
risoluzione contrattuale disposta dalla
Guardia di Finanza in relazione ad altro
contratto e inoltre, perché ha ritenuto che
la risoluzione contrattuale medesima fosse
espressiva di un grave illecito
professionale;
- ne deriva che nessuna incertezza è
configurabile in relazione alle ragioni
dell’esclusione in contestazione;
- sotto altro profilo, va evidenziato che si
tratta di cause di esclusione autonome tra
loro e quindi ambedue, di per sé,
astrattamente in grado di sorreggere il
provvedimento gravato, sicché una volta
ritenuta legittima la prima ragione di
esclusione, è evidente che la ricorrente non
ha più alcun interesse a contestare la
seconda;
- la prima ragione di esclusione -che anche
logicamente precede la seconda- consiste
nella violazione dell’obbligo dichiarativo
previsto dall’art. 80, comma 5, del D.Lgs.
n. 50/2016, avendo la concorrente omesso di
dichiarare l’esistenza della risoluzione
contrattuale disposta dalla Guardia di
Finanza con decreto n. 78 del 22/07/2016;
- la ricorrente sostiene che si tratterebbe
di una violazione solo formale, inidonea a
supportare la disposta esclusione, anche in
ragione della mancata attivazione del dovere
di soccorso istruttorio da parte della
stazione appaltante;
- la tesi non può essere condivisa:
l’obbligo dichiarativo sussiste in capo al
concorrente in base al citato art. 80, comma
5, del d.l.vo 2016 n. 50 e riguarda
indistintamente ogni vicenda pregressa
concernente fatti risolutivi, errori o altre
negligenze comunque rilevanti ai fini della
formulazione del giudizio di affidabilità,
in coerenza con i generali principi di
lealtà e affidabilità contrattuale, posti a
presidio dell’elemento fiduciario nei
rapporti contrattuali facenti capo alla
pubblica amministrazione;
- consolidata giurisprudenza evidenzia che
“... non essendo configurabile in capo
all’impresa alcun filtro valutativo o
facoltà di scegliere i fatti da dichiarare,
sussistendo l’obbligo della
onnicomprensività della dichiarazione, in
modo da permettere alla Stazione appaltante
di espletare, con piena cognizione di causa,
le valutazioni di competenza...” (cfr. tra
le tante, Consiglio di Stato, sez. III, 05.09.2017, n. 4192);
- la gravità dell’evento deve essere
valutata dall’amministrazione e ciò
presuppone che l’operatore economico
dichiari tale evento e si rimetta alla
valutazione della stazione appaltante,
viceversa l’omissione di tale dichiarazione
non consente all’amministrazione di
effettuare la valutazione di affidabilità
professionale dell’impresa;
- ecco, allora, che, nelle procedure ad
evidenza pubblica preordinate
all'affidamento di un appalto pubblico,
l'omessa dichiarazione da parte del
concorrente di tutte le fattispecie comprese
nell’art. 80 comma 5 e oggetto dell’obbligo
dichiarativo, ne comporta senz'altro
l'esclusione dalla gara, essendo impedito
alla stazione appaltante di valutarne la
gravità (cfr. in argomento, fra le tante,
Consiglio di Stato, sez. III, 29.05.2017, n. 2548, nonché Consiglio di Stato,
sez. III, n. 4019/2016; Consiglio di Stato,
sez. IV, n. 834/2016; Consiglio di Stato,
sez. V, n. 4219/2016);
- né sussiste la possibilità che l'omissione
sia sanata attraverso il soccorso
istruttorio, il quale non può essere
utilizzato per sopperire a dichiarazioni
radicalmente mancanti -pena la violazione
della par condicio fra concorrenti- ma
soltanto per chiarire o completare
dichiarazioni o documenti già comunque
acquisiti agli atti di gara (cfr. Consiglio
di Stato, Ad. Pl. n. 9/2014; Consiglio di
Stato, sez. V, n. 4219/2016; Consiglio di
Stato, sez. n. 927/2015; più recentemente
Consiglio di Stato, sez. III, n. 3628 del
13/06/2018);
- nel caso di specie la ricorrente ha omesso
di dichiarare la risoluzione contrattuale
disposta dalla Guardia di Finanza in
relazione ad altro appalto, in palese
violazione del dovere dichiarativo che
incombe su ciascun concorrente, ex art. 80,
comma, 5 del d.lvo 2016 n. 50 ed anzi
dichiarando l’assenza delle situazioni che,
in base alla norma citata, devono essere
portate a conoscenza della stazione
appaltante;
- ne deriva che il provvedimento impugnato
ha legittimamente disposto l’esclusione
della ricorrente per violazione dell’obbligo
dichiarativo, in coerenza con le risultanze
istruttorie e con il contenuto della lettera
di invito;
- per contro, la legittimità del motivo di
esclusione ora esaminato, di per sé idoneo a
supportare il provvedimento gravato, esclude
l’esistenza di un interesse attuale della
ricorrente a contestare le ulteriori ed
autonome ragioni di esclusione individuate
dal provvedimento impugnato. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI – Responsabili dell’abbandono – Destinatari
dell’ordinanza sindacale di rimozione – Obbligo di rimozione
dei rifiuti – Obbligati in solido – Responsabilità penale
per la mancata ottemperanza – Artt. 192, 255, 256 TUA.
In tema di rifiuti, l’obbligo di
rimozione cui si riferisce l’illecito contravvenzionale di
cui all’art. 255, comma 3, TUA, sorge sia in capo al
responsabile dell’abbandono, quale conseguenza della sua
condotta, sia nei confronti degli obbligati in solido,
quando sia dimostrata la sussistenza del dolo o della colpa,
sia, nei confronti dei destinatari dell’ordinanza sindacale
di rimozione che sono obbligati in quanto tali e che, in
caso di inottemperanza, ne subiscono, per ciò solo, le
conseguenze se non hanno provveduto ad impugnare il
provvedimento per ottenerne l’annullamento o non hanno
fornito al giudice penale elementi significativi per
l’eventuale disapplicazione.
Dunque, la responsabilità penale per la mancata ottemperanza
all’ordinanza sindacale di rimozione dei rifiuti di cui
risultava destinatario l’attuale ricorrente risultava del
tutto sganciata dalla natura, penale o amministrativa, della
condotta contestata al capo 1), ben potendo identificarsi il
responsabile anche nel privato cittadino (oltre che colui
che esercita professionalmente un’attività di gestione di
rifiuti) che resti inottemperante all’ordinanza di rimozione
dei rifiuti. Colui il quale sia raggiunto dall’ordinanza
deve quindi agire perché il provvedimento venga meno, in via
amministrativa o giurisdizionale, altrimenti configurandosi
l’illecito de quo ove non ottemperi all’ordine nel medesimo
espresso (Cass.,
Sez. III, 07.05.2019, n. 31291) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.01.2020 n. 2199 - link a www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990, la pubblica Amministrazione
ha in generale il dovere di concludere il procedimento conseguente in modo
obbligatorio ad un’istanza di parte mediante l’adozione di un provvedimento
espresso.
Inoltre, come è noto, l’obbligo di provvedere può discendere non solo da
puntuali previsioni legislative o regolamentari ma anche dalla peculiarità
della fattispecie, nella quale ragioni di giustizia o equità impongano
l’adozione di provvedimenti espliciti, alla stregua del generale dovere di
correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, ai sensi
dell’art. 97 Cost., con conseguente sorgere in capo al privato di una
legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle
determinazioni amministrative, quali che esse siano.
Tuttavia, per costante giurisprudenza, tale obbligo va escluso nei casi in
cui la stessa Amministrazione si sia già pronunciata in ordine all’istanza
avanzata dal privato con un provvedimento espresso e difettino profili
fattuali o normativi sopravvenuti in grado di ingenerare un rinnovato
obbligo di rideterminarsi sulla medesima questione.
---------------
Ritenuto:
- che, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990, la
pubblica Amministrazione ha in generale il dovere di concludere il
procedimento conseguente in modo obbligatorio ad un’istanza di parte
mediante l’adozione di un provvedimento espresso;
- che, inoltre, come è noto, l’obbligo di provvedere può discendere
non solo da puntuali previsioni legislative o regolamentari ma anche dalla
peculiarità della fattispecie, nella quale ragioni di giustizia o equità
impongano l’adozione di provvedimenti espliciti, alla stregua del generale
dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, ai
sensi dell’art. 97 Cost., con conseguente sorgere in capo al privato di una
legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle
determinazioni amministrative, quali che esse siano (v., tra le altre, TAR
Lazio, Sez. I, 11.05.2018 n. 5233);
- che, tuttavia, per costante giurisprudenza (v. TAR Campania,
Napoli, Sez. I, 04.01.2018 n. 75; TAR Lazio, Sez. II, 13.10.2017 n. 10343),
tale obbligo va escluso nei casi in cui la stessa Amministrazione si sia già
pronunciata in ordine all’istanza avanzata dal privato con un provvedimento
espresso e difettino profili fattuali o normativi sopravvenuti in grado di
ingenerare un rinnovato obbligo di rideterminarsi sulla medesima questione;
- che appare allora condivisibile l’obiezione dell’Amministrazione
resistente, secondo cui si oppone alla richiesta della società ricorrente la
circostanza che, in esito ad un’istanza di rilascio di permesso di costruire
per demolizione e ricostruzione dell’edificio, il Comune di Annone di
Brianza si fosse in precedenza pronunciato negativamente sul presupposto del
carattere abusivo del manufatto e quindi avesse già effettuato accertamenti
che ora indebitamente si chiederebbe di ripetere;
- che, in effetti, l’istruttoria disposta dalla Sezione, alla luce
della produzione anche documentale dell’Amministrazione, conferma che la
questione sottoposta dalla società ricorrente all’ente locale, pur nell’àmbito
di un iter diverso, si risolverebbe comunque nel mero riesame di aspetti in
precedenza vagliati nel procedimento avviato con l’istanza di rilascio di
permesso di costruire, in assenza di effettivi profili di novità, e quindi
con un’ingiustificata pretesa alla rideterminazione del Comune di Annone di
Brianza circa pratica edilizia da tempo evasa;
Considerato, in conclusione, che il ricorso va respinto
(TAR Lombardiua-Milano, Sez. II,
sentenza 23.01.2020 n. 143 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: a)
il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege e
integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto,
direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di
fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla totalità
dei soggetti il regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di
immobili che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o contiguità
con i suddetti beni pubblici;
b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo
l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo
medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia
di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico
sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi
destinati all’inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di
possibile espansione della cinta cimiteriale;
c) il vincolo, d'indole conformativa, è sganciato dalle esigenze
immediate della pianificazione urbanistica, nel senso che esso si impone di
per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in
strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura,
ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti;
d) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è
suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo
per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni
specificate nell'art. 338, quinto comma;
e) l'art. 338, quinto comma, non presidia interessi privati e non
può legittimare interventi edilizi futuri su un'area indisponibile per
ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la sacralità dei luoghi di
sepoltura;
f) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all'interno
della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui
al settimo comma dell'art. 338 (recupero o cambio di destinazione d'uso di
edificazioni preesistenti); mentre resta attivabile nel solo interesse
pubblico -come valutato dal legislatore nell'elencazione, al quinto comma,
delle opere ammissibili ai fini della riduzione- la procedura di riduzione
della fascia inedificabile.
In conclusione, l'art. 338, comma 5, TULS, è dunque da intendersi come norma
eccezionale e di stretta interpretazione, che consente di costruire in zona
di rispetto cimiteriale unicamente con riguardo a specifiche domande
edificatorie e non può essere base legale di un'autorizzazione a costruire
de futuro, da rinvenirsi implicitamente in un precedente assenso riferito ad
altre distinte opere.
---------------
6.- Col quarto motivo di ricorso il ricorrente si duole della
violazione dell’art. 338 R.D. n. 1265/1934 (Testo unico delle leggi
sanitarie, TULS) e successive modificazioni nonché dell’eccesso di potere
per inesistenza dei presupposti di fatto e di diritto.
6.1.- Il ricorrente rileva che –circa la determinazione della fascia
inderogabile di rispetto cimiteriale- l’amministrazione comunale non ha
tenuto conto dell’evoluzione del quadro normativo e regolamentare (L. n.
983/1957; art. 57 d.p.r. 285/1990) nonché del trasferimento alle Regioni
delle funzioni amministrative nelle materie dell’urbanistica e delle opere
igieniche di interesse locale (D.p.r. 8/1972, d.p.r. 616/1977; legge
regionale Campania n. 54/1980 e 65/1981) attualmente vigente.
Più in particolare, la Regione Campania, con la legge regionale n. 14 del
1982 stabilisce gli indirizzi programmatici e le direttive fondamentali per
le aree ricadenti nella fascia di rispetto cimiteriale, prevedendo un
divieto inderogabile di edificazione solo all’interno della fascia di metri
100 dal perimetro dei cimiteri.
Da ultimo, la legge n. 166 del 2002 avrebbe innovato profondamente la
disciplina generale contenuta nel menzionato art. 338 TULS che, se da un
lato, conferma la distanza di almeno 200 metri dal centro abitato (comma 1),
per la costruzione di nuovi cimiteri e per il loro ampliamento ammette
tuttavia una sua riduzione da parte del Consiglio comunale, purché non oltre
il limite di 50 metri, con superamento dunque del limite di 100 metri per i
comuni con numero di abitanti superiore a 20.000.
6.2.- Il motivo, per quanto suggestivo, è infondato.
6.2.1.- E’ utile, al riguardo, ricondursi proprio all’invocato art. 388 TULS
il cui primo comma dispone che:
"I cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal
centro abitato. È vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro
il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale
risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di
essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni
previste dalla legge".
Aggiunge il quinto comma, nel testo da ultimo sostituito dall'art. 28, co.
1, lett. b), della legge n. 166/2002: “Per dare esecuzione ad un'opera
pubblica o all'attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi ostino
ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire, previo
parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la riduzione
della zona di rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di pregio
dell'area, autorizzando l'ampliamento di edifici preesistenti o la
costruzione di nuovi edifici. La riduzione di cui al periodo precedente si
applica con identica procedura anche per la realizzazione di parchi,
giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati, attrezzature sportive,
locali tecnici e serre”.
6.2.2.- Sul punto la giurisprudenza ha evidenziato che:
a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di
inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della
proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e
non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera
obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza
di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un
particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici
(da ultimo Cass. civ., sez. I, 20.12.2016, n. 26326);
b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo
l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo
medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia
di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico
sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi
destinati all’inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di
possibile espansione della cinta cimiteriale (Cons. Stato, sez. IV,
13.12.2017, n. 5873 che conferma TAR Napoli, sez. III, n. 5036 del 2013;
Cons. Stato, sez. VI, 09.03.2016, n. 949);
c) il vincolo, d'indole conformativa, è sganciato dalle esigenze
immediate della pianificazione urbanistica, nel senso che esso si impone di
per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in
strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura,
ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti (Cons. Stato, sez. IV,
22.11.2013, n. 5544; Cass. civ., sez. I, 17.10.2011, n. 2011; Id., sez. I,
n. 26326 del 2016, cit.);
d) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è
suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo
per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni
specificate nell'art. 338, quinto comma;
e) l'art. 338, quinto comma, non presidia interessi privati e non
può legittimare interventi edilizi futuri su un'area indisponibile per
ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la sacralità dei luoghi di
sepoltura;
f) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all'interno
della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui
al settimo comma dell'art. 338 (recupero o cambio di destinazione d'uso di
edificazioni preesistenti); mentre resta attivabile nel solo interesse
pubblico -come valutato dal legislatore nell'elencazione, al quinto comma,
delle opere ammissibili ai fini della riduzione- la procedura di riduzione
della fascia inedificabile (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. VI, 04.07.2014,
n. 3410; sez. VI, 27.07.2015, n. 3667; ivi riferimenti ulteriori).
6.2.3.- In conclusione, l'art. 338, comma 5, TULS, richiamato dal
ricorrente, è dunque da intendersi come norma eccezionale e di stretta
interpretazione, che consente di costruire in zona di rispetto cimiteriale
unicamente con riguardo a specifiche domande edificatorie e non può essere
base legale di un'autorizzazione a costruire de futuro, da rinvenirsi
implicitamente in un precedente assenso riferito ad altre distinte opere (cfr.
Cons. Stato. Sez. IV, 06.10.2017, n. 4656).
6.2.4.- Nella fattispecie in esame, l’art. 34 delle norme di attuazione del
P.R.G. del Comune di Pompei prevede che, all’interno dell’area agricola di
rispetto cimiteriale sono consentite “soltanto piccole costruzioni, per
la vendita di fiori ed oggetti per il culto e l’onoranza dei defunti, con il
limite di metri cubi 80. La concessione o l’autorizzazione alle piccole
costruzioni di cui sopra saranno a titolo precario”.
E’ quindi, per definizione, da escludere l’opera realizzata dal ricorrente,
riguardante una “costruzione unifamiliare composta da: saloncino con
angolo cottura, camera, bagno, disimpegno e locale per attrezzi agricoli”,
oggetto della domanda di condono…>>
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 15.01.2020 n. 176 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA: Per
giurisprudenza del tutto pacifica, la convenzione di lottizzazione -quale
strumento di attuazione del piano regolatore generale- è un accordo
sostitutivo di provvedimento ai sensi e per gli effetti dell’art. 11 L.
241/1990 in quanto espressione dell'esercizio consensuale di un potere
pianificatorio, che sfocia in un progetto ed in una serie di disposizioni
urbanistiche generanti obblighi od oneri.
Le controversie in tema di esecuzione della convenzione sono dunque
riconducibili all' art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, c.p.a. , che
attribuisce al g.a. la giurisdizione esclusiva sulle controversie
riguardanti l'adempimento degli obblighi contenuti nelle convenzioni
urbanistiche, ricomprese tra le vertenze in tema di formazione, conclusione
ed esecuzione degli accordi sostitutivi di provvedimento amministrativo.
Anche l’adito Tribunale ha più volte sottolineato l’ampiezza della
giurisdizione esclusiva oggi prevista dall’art. 133, c. 1, lett. a), n. 2,
c.p.a. comprensiva delle controversie in tema di formazione ed esecuzione
degli accordi, senza dunque esclusione delle pretese squisitamente
patrimoniali derivanti dai predetti accordi, in considerazione della
relativa natura pubblicistica, quale forma mediata e consensuale
dell’esercizio di un potere autoritativo.
---------------
Fuoriesce dall’ambito della
pur ampia fattispecie di giurisdizione esclusiva in tema di accordi
sostitutivi del provvedimento (art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, c.p.a.) l’azione di restituzione a
titolo di indebito oggettivo promossa dai lottizzanti derivante
dall’esecuzione di opere estranee alla convenzione di lottizzazione né
riconducibili ad essa.
Sicché, va dichiarato il difetto di
giurisdizione in favore del g.o..
---------------
2.- E’ materia del contendere l’azione di accertamento del diritto dei
ricorrenti al rimborso da parte del Comune di Perugia del costo di
realizzazione di asserite opere di urbanizzazione non previste nella
convenzione di lottizzazione sottoscritta il 10.08.2002, regolante
l’edificazione di alcuni terreni di proprietà dei ricorrenti in località “Canneto”.
Secondo i ricorrenti, in seguito all’approvazione del nuovo piano regolatore
generale che ha classificato il sito in parola come “Area instabile ad
alto rischio geologico - zoning 8”, essi avrebbero costruito un muro di
sostegno della strada di lottizzazione su richiesta informale del Comune di
Perugia e al di fuori degli obblighi convenzionali, in sostituzione della
scarpata ab origine prevista, sostenendo così una spesa aggiuntiva di
€ 84.643,52 rispetto all’importo complessivo di € 127.674,68 (£ 247.212.647)
convenuto nel su indicato atto negoziale; di detto preteso indebito si
invoca la rifusione.
3. - Va anzitutto esaminata l’eccepita questione di giurisdizione.
4. - Per giurisprudenza del tutto pacifica la convenzione di lottizzazione
-quale strumento di attuazione del piano regolatore generale- è un accordo
sostitutivo di provvedimento ai sensi e per gli effetti dell’art. 11 L.
241/1990 (ex multis Cassazione Sezioni Unite 01.07.2009, n. 15288,
id. 30.03.2009, n. 7573, id. 20.11.2007, n. 24009, 25.05.2007, n. 12186,
Consiglio di Stato sez. IV, 23.08.2010, n. 5904; TAR, Calabria Catanzaro,
sez. II, 13.04.2018, n. 869) in quanto espressione dell'esercizio
consensuale di un potere pianificatorio, che sfocia in un progetto ed in una
serie di disposizioni urbanistiche generanti obblighi od oneri.
Le controversie in tema di esecuzione della convenzione sono dunque
riconducibili all' art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, c.p.a. , che
attribuisce al g.a. la giurisdizione esclusiva sulle controversie
riguardanti l'adempimento degli obblighi contenuti nelle convenzioni
urbanistiche, ricomprese tra le vertenze in tema di formazione, conclusione
ed esecuzione degli accordi sostitutivi di provvedimento amministrativo (ex
multis TAR, Calabria Catanzaro, sez. II, 12.04.2019, n. 789; TAR
Campania Napoli, sez. VIII, 29.09.2017, n. 4561).
Anche l’adito Tribunale ha più volte sottolineato l’ampiezza della
giurisdizione esclusiva oggi prevista dall’art. 133, c. 1, lett. a), n. 2,
c.p.a. comprensiva delle controversie in tema di formazione ed esecuzione
degli accordi, senza dunque esclusione delle pretese squisitamente
patrimoniali derivanti dai predetti accordi, in considerazione della
relativa natura pubblicistica, quale forma mediata e consensuale
dell’esercizio di un potere autoritativo (ex multis TAR Umbria
23.03.2016, n. 261).
5. - Ciò premesso, nel caso di specie l’opera realizzata dai ricorrenti
lottizzanti non è prevista nella convenzione di lottizzazione, come peraltro
pacifico “per tabulas” e riconosciuto dagli stessi ricorrenti, ragion
per cui ai fini della giurisdizione va verificato se detta opera sia
comunque riconducibile alla convenzione in particolare quale variante
rispetto alle opere descritte nell’allegato A alla convenzione o comunque
quale opera autorizzata dall’Amministrazione. In tal caso, infatti, può
condividersi l’assunto della difesa di parte ricorrente secondo cui la
controversia atterrebbe pur sempre a questione di esecuzione (o al limite di
interpretazione) dell’accordo sostitutivo di provvedimento e dunque rimanere
attratta nell’ambito della giurisdizione esclusiva del g.a. prevista in “subiecta
materia” (TAR Campania-Napoli, sez. VIII, 16.12.2016, n. 5808).
Non ritiene il Collegio che l’opera per così dire “sostitutiva”
realizzata dai ricorrenti possa dirsi realizzata in preteso adempimento di
quest’ultima, non emergendo dalla documentazione depositata in giudizio
sufficienti elementi. In particolare non risulta che il muro in questione
sia stato in alcun modo autorizzato dal Comune di Perugia né che esso possa
invero qualificarsi quale opera di urbanizzazione primaria.
Infatti, il muro realizzato dai ricorrenti non presenta nemmeno dal punto di
vista oggettivo natura di opera di urbanizzazione primaria, nel senso
precisato dall’art. 4 L. 847/1964, trattandosi di muro di sostegno posto
all’interno del lotto n. 6. A diverse conclusioni non può giungersi
attribuendo al collaudo effettuato nel 2009 l’effetto giuridico del
riconoscimento dell’ opera quale di urbanizzazione, limitandosi con tale
atto il collaudatore a dare atto dell’esistenza del muro e della
realizzazione in variante rispetto al progetto approvato, impregiudicata
ogni questione sulle opere realizzate e sull’autorizzazione alle varianti
progettuali (vedi doc. n. 8 pag. 8 depositato in giudizio).
Il collaudo è infatti atto unilaterale consistente nell’accertamento tecnico
sulla rispondenza dell’opera al dovuto, ma non dell’idoneità al servizio o
alla funzione pubblica cui l’opera è destinata e senza alcun valore di
approvazione di variante progettuale. Sul punto può richiamarsi -seppur in
riferimento al contratto di appalto pubblico- il principio giurisprudenziale
secondo cui le varianti progettuali non autorizzate dall’Amministrazione non
consentono all’appaltatore nemmeno l’azione generale e sussidiaria di
arricchimento senza giusta causa, a meno che esse siano state qualificate
come indispensabili (e non semplicemente utili) in sede di collaudo e siano
stati riconosciuti come tali anche dall'amministrazione committente (ex
multis Cassazione civile, sez. I, 03.03.2006, n. 4725).
Sarebbe dunque stato onere dei ricorrenti richiedere all’Amministrazione
l’assenso alla variante progettuale tesa alla sostituzione dell’opera di
urbanizzazione ivi prevista (la scarpata) con il predetto muro di sostegno,
risultando del tutto indimostrata dai ricorrenti l’imposizione del
realizzato muro da parte del Comune, dovendo la volontà negoziale di un ente
pubblico estrinsecarsi in atti formali per ovvie esigenze di imparzialità e
buon andamento (ex multis Cassazione sez. I, 24.01.2007, n. 1606; id.
sez. III, 24.06.2002, n. 9165).
Appare pertanto decisiva la non riconducibilità dell’opera in questione alla
richiamata convenzione lottizzatoria, sì da escludersi la riconducibilità
alla fattispecie di giurisdizione esclusiva di cui all’art. 133, c. 1, lett.
a), n. 2 c.p.a.
5.1. - Fuori dal contesto di una convenzione regolarmente stipulata, la
realizzazione di opere da parte del privato lottizzante non previste né
autorizzate può essere al più considerata "sine titulo" (valutabile
cioè sotto il profilo dell'ingiustificato arricchimento) alla stregua di
azione di indebito oggettivo rientrante nella generale cognizione del g.o..
5.2. - Fuoriesce dunque dall’ambito della pur ampia fattispecie di
giurisdizione esclusiva in tema di accordi sostitutivi del provvedimento
(art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, c.p.a.) l’azione di restituzione a
titolo di indebito oggettivo promossa dai lottizzanti derivante
dall’esecuzione di opere estranee alla convenzione di lottizzazione né
riconducibili ad essa.
6. - Alla luce delle suesposte considerazioni va dichiarato il difetto di
giurisdizione in favore del g.o..
Quanto alla conseguente “traslatio iudicii”, occorre salvaguardare il
principio della salvezza degli effetti sostanziali e processuali prodotti
dalla domanda proposta al giudice privo di giurisdizione nel processo
davanti al giudice che ne risulta munito, secondo le disposizioni di cui
all’art. 11 c. p. a.
Sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di lite,
in considerazione della complessità delle questioni esaminate.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per l'Umbria (Sezione Prima),
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto,
dichiara il proprio difetto di giurisdizione in favore del g.o., innanzi
alla quale la causa potrà essere riassunta nei termini di legge
(TAR Umbria,
sentenza 15.01.2020 n. 27 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Ferie annuali senza imposizioni.
Il datore non può obbligare il lavoratore alla fruizione. A
stabilirlo è il Tar Valle d’Aosta: l’onere si ferma alla verifica delle
condizioni concrete.
Il
datore di lavoro non può imporre al lavoratore di fruire delle ferie
annuali. Quest'ultimo, infatti, ha l'onere unicamente di assicurarsi
concretamente che il lavoratore sia effettivamente in condizione di godere
delle ferie annuali retribuite. A tal fine è compito dell'azienda invitarlo,
se necessario formalmente, a godere del periodo di riposo e nel contempo
informarlo, in modo accurato e in tempo utile, del fatto che, se egli non ne
fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o
di un periodo di riposo autorizzato. Pertanto, il compito del datore di
lavoro non si estende anche fino al punto di costringere quest'ultimo a
imporre ai suoi lavoratori di esercitare effettivamente la fruizione delle
ferie annuali retribuite.
A
stabilirlo è il TAR Valle d'Aosta con la
sentenza
14.01.2020 n. 1.
Il caso. La
vicenda riguarda una lavoratrice (Ispettore superiore del dipartimento
dell'amministrazione penitenziaria), la quale aveva maturato e non fruito,
tra il 2015 e il 2019, un periodo di congedo ordinario, pari a un totale di
173 giorni, la presenza di giornate di riposo non fruite e infine una serie
di festività soppresse.
Alla luce di tale situazione, la polizia penitenziaria aveva disposto nei
confronti della lavoratrice un ordine di servizio che prevedeva, da una
parte, la perdita del diritto alla fruizione del congedo ordinario degli
anni 2015 e 2016 e, dall'altra, la fruizione d'ufficio, in via eccezionale,
del congedo maturato e non goduto di 39 giorni riferito all'anno 2017.
La dipendente, però, aveva chiesto la possibilità di fruire di tutto il
congedo pregresso degli anni 2015, 2016 e 2017 con decorrenza immediata.
Richiesta, questa, che non era stata accolta.
Innanzitutto la lavoratrice sosteneva che fossero violati gli artt. 97 e 36
della Costituzione, che oltre a sancire il principio di legalità
imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, riconoscono il
diritto irrinunciabile del lavoratore a un periodo di riposo annuale di
ferie retribuite.
Ma non solo, la ricorrente evidenziava anche la violazione dell'art. 17,
lett. d) ed e) del dlgs 165/2001. Tale disposizione legislativa, attribuendo
al dirigente la gestione del personale e la direzione, il coordinamento e il
controllo dell'attività degli uffici che da egli dipendono, gli impongono,
sotto la loro esclusiva responsabilità, di garantire comunque il rispetto
dei diritti soggettivi del personale e delle ferie nel caso specifico, anche
con poteri sostitutivi nel caso di inerzia del dipendente.
Altro aspetto contestato dalla lavoratrice riguardava il provvedimento
amministrativo con il quale era stata sancita la perdita del diritto alle
ferie.
Infatti, ai sensi dell'art. 21-bis della legge 90/241, tale atto acquista
efficacia nei confronti del destinatario con la comunicazione allo stesso
effettuata. Nella vicenda in questione la direzione aveva proceduto solo nel
2019 alla comunicazione di un provvedimento, con effetto retroattivo, che
doveva essere notificato almeno nel 2016 e 2017 al fine di consentirne alla
ricorrente l'esatta esecuzione e la possibilità di fare le proprie
valutazioni e deduzioni.
Ferie annuali. Le
ferie annuali, oltre all'art. 2109 del cod. civ., poggiano la loro
disciplina principale nell'art. 10 del dlgs 66/2003, il quale afferma che il
prestatore di lavoro ha diritto a un periodo annuale di ferie retribuite non
inferiore a quattro settimane. Si tratta, nello specifico, di un periodo che
non può essere sostituito dalla relativa indennità per ferie non godute,
salvo il caso di risoluzione del rapporto di lavoro.
Al riguardo, il legislatore ha specificato più volte che le ferie devono
essere assegnate dal datore di lavoro tenendo conto delle esigenze di
impresa. Per cui un eventuale spostamento per ragioni di servizio
adeguatamente motivate può essere disposto solo dallo stesso con l'onere di
curarsi che queste siano godute dal lavoratore eventualmente anche in
periodi successivi.
Nel caso di specie, il direttore non solo non aveva motivato le ragioni
della mancata concessione delle ferie ma non aveva messo la lavoratrice
nelle condizioni di poter godere delle ferie stesse.
La sentenza. Il
collegio ha respinto i motivi di ricorso della lavoratrice, ritenendo il
comportamento del datore di lavoro legittimo. Sul punto, i giudici
amministrativi hanno sottolineato l'onere in capo al datore di lavoro di
assicurarsi concretamente e con trasparenza che il lavoratore sia
effettivamente in condizione di godere delle ferie annuali retribuite
invitandolo, se necessario formalmente, a farlo e nel contempo informandolo,
in modo accurato e in tempo utile, del fatto che, se egli non ne fruisce,
tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un
periodo di riporto autorizzato. Tuttavia, hanno evidenziato i giudici, il
rispetto di tale onere derivante dall'art. 7 della direttiva 2003/88 non può
estendersi fino al punto di costringere quest'ultimo a imporre ai suoi
lavoratori di esercitare effettivamente la fruizione delle ferie annuali
retribuite.
Egli, infatti, deve limitarsi soltanto a consentire ai lavoratori di godere
delle stesse dando altresì prova di aver esercitato tutta la diligenza
necessaria affinché essi potessero effettivamente esercitare tale diritto.
Ciò posto, nel caso di specie, la lavoratrice era stata invitata a
programmare nel più breve tempo possibile la fruizione dei periodi di
congedo ordinario degli anni 2018 e 2019.
Tale invito, però, non era stato accettato dalla ricorrente che aveva
avanzato la pretesa di fruire anche del periodo di congedo maturato per gli
anni 2015, 2016 e 2017.
Tale richiesta, secondo i giudici, si è rivelata del tutto priva di
fondamento in quanto non risulta essere stata presentata da parte
dell'interessata al direttore di istituto, nei termini di legge, alcuna
istanza di congedo ordinario né documentazione comprovante anche
l'impossibilità oggettiva di godere dei predetti benefici.
Pertanto non è possibile giustificarne la mancata fruizione, né per motivate
esigenze di servizio, né tanto meno per obiettive esigenze personali
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.01.2020). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Rifiuti, responsabilità a catena.
Il committente deve verificare la gestione dei residui.
La Cassazione sottolinea che l’appaltante può rispondere degli
eco-reati dell’appaltatore.
Il
committente di opere dalla cui realizzazione derivi anche la produzione di
rifiuti ha l'onere, a monte, di affidarne la relativa gestione a soggetti di
cui ha verificato competenza e titoli autorizzativi, e a valle, ove mantenga
il controllo sui lavori in corso, quello di verificare che le attività degli
appaltatori siano condotte nel rispetto delle sottese norme ambientali
applicabili.
Diversamente all'appaltante potrà essere contestato, a titolo
di omessa vigilanza sulla corretta attività altrui, l'eventuale gestione
illecita dei rifiuti materialmente posta in essere dagli esecutori dei
lavori.
I principi di diritto che disegnano la delicata posizione in cui può
trovarsi chi affida a terzi lavori, come quelle edili, che necessariamente
comportano la generazione dei residui arrivano dalla Suprema Corte di
Cassazione, Sez. III penale, la quale si è da ultimo pronunciata in materia con la
sentenza
13.01.2020 n. 847.
Il caso. La concreta fattispecie che ha stimolato la pronuncia del giudice
di legittimità coincide con l'accertamento da parte delle forze dell'ordine
dell'attività, posta in essere all'interno di un cantiere edile, di
spianamento di rifiuti inerti, con conseguente riempimento di una ampia
depressione del suolo.
Tale attività veniva posta in essere con l'ausilio di
un mezzo meccanico da parte del personale di impresa incaricata direttamente
dal proprietario dell'area di eseguire lavori edificatori. All'esito
dell'accertamento dei fatti il giudice di prime cure contestava (anche) al
proprietario del fondo committente dei lavori il reato di realizzazione di
discarica abusiva.
Il contesto normativo. Con la sentenza in parola la Corte di cassazione ha
effettuato una puntuale e ampia ricognizione delle norme applicabili,
richiamando due nodali astratte fattispecie previste dal dlgs 152/2006: il
reato di discarica di rifiuti non autorizzata (ex articolo 256) e la nozione
di produttore giuridico di rifiuti (ex articolo 183, Codice ambientale).
In
relazione, in particolare, alla fattispecie di reato ex articolo 256, comma
3, del dlgs 152/2006, la Corte ha ricordato come, dal punto di vista
oggettivo, l'elemento qualificante sia l'accumulo considerevole e ripetuto
di rifiuti in una determinata area al fine di costituirne un deposito
definitivo. In relazione alla nozione di produttore dei rifiuti, invece, la
disposizione che viene in causa è il comma 1, lettera f) dell'articolo 183,
secondo la quale è produttore di rifiuti «il soggetto la cui attività
produce rifiuti e il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta
produzione (…)».
In base al tenore della disposizione (come riformulata a
opera della legge 125/2015) è quindi produttore di rifiuti non solo il
soggetto che materialmente li genera, ma anche il soggetto nel cui interesse
tale attività di generazione è operativamente (da altri) posta in essere.
Tale soggetto, battezzato dalla dottrina come «produttore giuridico» di
rifiuti assume ex lege la posizione di garante della loro corretta gestione
da parte del «produttore materiale», posizione in forza della quale il primo
ha l'onere di assicurare con la propria vigilanza che questa avvenga da
parte del secondo in modo lecito.
Qualora, infatti, a causa dell'omesso e
rimproverabile (poiché colposo) controllo del produttore giuridico venga
posta in esse una illecita gestione di rifiuti da parte di quello materiale,
il primo potrà esserne chiamato a rispondere ex articolo 40 del codice
penale, che prevede che: «Non impedire un evento, che si ha l'obbligo
giuridico di impedire, equivale a cagionarlo».
I principi di diritto della Cassazione. La pronuncia 847/2020 della Corte di
cassazione illustra ad ampio raggio le diverse posizioni giuridiche nelle
quali il committente di opere può trovarsi nei confronti della gestione
illecita di rifiuti materialmente posta in essere dall'appaltatore,
suggerendo i confini della sua posizione di garanzia. Una prima ipotesi è
quella in cui il committente dei lavori (nonché, come nella fattispecie in
esame, proprietario del sito) non mette a disposizione dell'appaltatore
alcuna area per il deposito dei rifiuti da questi materialmente prodotti, i
quali vengono depositati in un luogo terzo, e non effettua altresì alcuna
ingerenza sulla loro gestione.
In tale ipotesi, sottolinea la Suprema corte,
il committente dell'opera lasciando autonomia organizzativa e gestionale
all'appaltatore, non assume nessuna posizione di garanzia e conseguente
responsabilità ex articolo 40 del codice penale.
Una seconda ipotesi è
quella in cui il committente/proprietario del sito mette a disposizione
dell'appaltatore un'area per il deposito temporaneo dei rifiuti da quest'ultimo
prodotti, cedendone però allo stesso la completa disponibilità e quindi la
custodia ex articolo 2051 del codice civile.
Anche in questo caso, emerge
dalla sentenza, il committente non conserva alcun obbligo giuridico di
verificare modalità o tempistica del deposito dei rifiuti prodotti e loro
gestione successiva, non avendo una posizione di garanzia ex articolo 40
citato.
Una terza ipotesi è quella nella quale, al di fuori delle condizioni
precedenti, il committente/proprietario mantiene comunque un controllo su
lavori e gestione dei relativi rifiuti prodotti. In tale contesto il
committente mantiene la posizione di «produttore giuridico» dei rifiuti
(come più sopra delineata) e l'appaltatore quello di mero esecutore
dell'opera commissionata nonché produttore materiale dei rifiuti.
Ne
consegue che il committente resta nella posizione di garanzia più sopra
citata, potendo rispondere a titolo omissivo dell'illecita gestione dei
residui commessa dall'appaltatore. Un'ultima ipotesi evincibile dalla
sentenza in parola, e trasversale alle precedenti, è quella che vede il
committente «consapevole» (dal punto di vista dell'elemento psicologico del
reato) di collaborare, con il suo contegno omissivo, all'illecito posto in
essere dall'appaltatore. Il tal caso egli committente potrà essere chiamato
a rispondere del reato direttamente a titolo di concorso personale, ex
articolo 110 del codice penale.
Nel caso in esame la Corte di cassazione ha
ritenuto non infondata la contestazione fatta dal giudice cautelare del
reato di discarica abusiva in capo al committente dei lavori; e ciò in
quanto tale contestazione, si evince dalla pronuncia, non è stata basata
sulla semplice qualità dell'indagato di proprietario dell'area, ma su due
elementi dai quali emergerebbe la consapevolezza che sul proprio sito
avvenisse una produzione di rifiuti inerti: lo svolgimento di una attività
edilizia personalmente affidata a terzi; l'avvenire tale attività su area
recitata e presidiata da cancelli le cui chiavi erano nella disponibilità
degli appaltatori.
Nel quadro dei più ampi oneri del detentore di rifiuti. L'onere di vigilare
sull'attività dei soggetti cui sono affidate opere che comportano la
produzione materiale di rifiuti non esaurisce però, come insegna la stessa
Suprema corte di cassazione, il novero delle condotte esigibili dal
committente dei lavori. A titolo generale ogni produttore/detentore di
rifiuti che intende affidarne a terzi deve infatti anche accertare in via
preventiva l'esistenza in capo ai soggetti affidandi delle necessarie
competenze e autorizzazioni previste dall'Ordinamento giuridico.
Diversamente, prima ancora dell'eventuale «culpa in vigilando» per l'omesso
controllo sulla lecita gestione dei rifiuti da parte dei produttori
materiali residui, al committente dei lavori potrà essere contestata, ex
articolo 40 del codice penale, una «culpa in eligendo», come ricordato dalla
costante giurisprudenza dello stesso giudice di legittimità (per tutte si
vedano la sentenza 01.03.2012, n. 8018 e, da ultimo, la 25.03.2019, n.
12876) (articolo ItaliaOggi Sette del 17.02.2020). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Imbroglione? Non si può dire.
Diffamazione aggravata postare l’epiteto su un portale. Cassazione:
l’affermazione (riferita a un vicesindaco) non rientra nel diritto di
critica.
Costituisce
reato di diffamazione aggravata postare sulla bacheca pubblica di una
piattaforma social espressioni quali «imbroglioni» riferite al vicesindaco
di un paese. Tali espressioni sono a tutti gli effetti lesive della
reputazione e non possono in alcun modo ricomprendersi entro il diritto di
critica.
È quanto ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. V penale, con
sentenza 10.01.2020 n. 628.
I giudici
siciliani avevano riconosciuto il reato di diffamazione aggravata un
cittadino responsabile di aver pubblicato sulla bacheca pubblica di un
portale due messaggi offensivi della reputazione del vice-sindaco del
proprio comune di residenza, suo avversario politico.
Avverso la sentenza d'appello era stato presentato ricorso in cassazione
deducendo l'omessa pronunzia da parte della Corte sulla configurabilità del
dolo del reato, profilo che pure aveva costituito oggetto di contestazione
con il gravame di merito. In secondo luogo, lamentava la illogicità della
motivazione della sentenza in merito alla ritenuta insussistenza
dell'esimente dell'esercizio del diritto di critica politica.
Secondo il
ricorrente l giudice dell'appello aveva riconosciuto che tale critica poteva
assumere anche toni aspri quando destinatario sia chi ricopre cariche
pubbliche, escludendo di conseguenza l'illiceità dell'epiteto «imbroglioni»
rivolto dall'imputato alla persona offesa e ai suoi colleghi di giunta.
Contraddittoriamente avrebbe invece ritenuto sussistente il reato per le
insinuazioni di aver «intascato» il danaro oggetto di «prelievo forzoso» a
carico dei cittadini, ritenendo che sostanzialmente le stesse contenessero
la velata accusa di malversazione a proprio vantaggio delle somme oggetto di
prelievo fiscale.
In realtà l'imputato voleva solo criticare gli
amministratori del Comune di V. e suoi avversari politici di non aver
rinunziato all'indennità di carica e di non aver abbassato le imposte
comunali, come invece promesso nel corso della competizione elettorale.
Secondo la Cassazione «la Corte territoriale ha ritenuto che il contenuto
dei messaggi “postati” dall'imputato rivelasse la volontà di muovere non
tanto un'aspra critica all'operato degli amministratori comunali, bensì
quella di accusarli di essersi appropriati di danaro pubblico, insinuando
che gli stessi si fossero “intascati” risorse provenienti dal prelievo
fiscale».
In tal senso la sentenza ha escluso la stessa configurabilità
dell'esimente di cui all'art. 51 c.p., «negando la sussistenza della
veridicità del fatto posto alla base dell'invocato esercizio del diritto di
critica. Tali conclusioni non appaiono censurabili trovando effettivo
riscontro nel tenore testuale dei messaggi incriminati, che non contengono
alcun esplicito o implicito riferimento al significato che invece gli
attribuisce il ricorrente, le cui obiezioni sul punto risultano dunque
meramente congetturali e comunque versate in fatto. Quanto al dolo del
reato, trattasi di profilo in riferimento al quale non erano stati
esplicitati in maniera specifica con i motivi d'appello le ragioni in fatto
e in diritto a sostegno dell'affermata sua insussistenza»
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.02.2020).
---------------
MASSIMA
2. Avverso la sentenza ricorre l'imputato articolando tre
motivi.
Con il primo deduce erronea applicazione della legge penale e vizi
della motivazione. In tal senso il ricorrente denunzia anzitutto l'omessa
pronunzia da parte della Corte sulla configurabilità del dolo del reato,
profilo che pure aveva costituito oggetto di contestazione con il gravame di
merito. In secondo luogo lamenta la illogicità della motivazione della
sentenza in merito alla ritenuta insussistenza dell'esimente dell'esercizio
del diritto di critica politica.
In proposito il ricorrente osserva come il giudice dell'appello abbia
riconosciuto che tale critica possa assumere anche toni aspri quando
destinatario sia chi ricopre cariche pubbliche, escludendo di conseguenza
l'illiceità dell'epiteto "imbroglioni" rivolto dall'imputato alla
persona offesa ed ai suoi colleghi di giunta. Contraddittoriamente avrebbe
invece ritenuto sussistente il reato per le insinuazioni di aver "intascato"
il danaro oggetto di "prelievo forzoso" a carico dei cittadini,
ritenendo che sostanzialmente le stesse contenessero la velata accusa di
malversazione a proprio vantaggio delle somme oggetto di prelievo fiscale.
In realtà tale conclusione sarebbe viziata dall'errata, se non fantasiosa,
interpretazione degli scritti dell'imputato, che si era limitato a criticare
gli amministratori del Comune di Valdina e suoi avversari politici di non
aver rinunziato all'indennità di carica e di non aver abbassato le imposte
comunali, come invece promesso nel corso della competizione elettorale.
Con il secondo motivo analoghi vizi vengono denunziati in merito al
denegato riconoscimento della causa di non punibilità di cui all'art.
131-bis c.p., mentre con il terzo si lamenta violazione di legge in
merito all'ammissione della costituzione di parte civile del Cannuni, da
ritenersi tardiva in quanto intervenuta successivamente all'espletamento
degli adempimenti di cui all'art. 484 c.p.p..
...
1. Il ricorso è fondato nei limiti di seguito esposti.
2. Il primo motivo è invero infondato. La Corte territoriale ha ritenuto che
il contenuto
dei messaggi "postati" dall'imputato rivelasse la volontà di muovere non
tanto un'aspra
critica all'operato degli amministratori comunali, bensì quella di accusarli
di essersi
appropriati di danaro pubblico, insinuando che gli stessi si fossero
"intascati" risorse
provenienti dal prelievo fiscale.
In tal senso la sentenza ha dunque escluso
la stessa
configurabilità dell'esimente di cui all'art. 51 c.p., sostanzialmente
negando la sussistenza della veridicità del fatto posto alla base
dell'invocato esercizio del diritto di
critica. Tali conclusioni non appaiono censurabili trovando effettivo
riscontro nel tenore
testuale dei messaggi incriminati, che non contengono alcun esplicito od
implicito
riferimento al significato che invece gli attribuisce il ricorrente, le cui
obiezioni sul punto
risultano dunque meramente congetturali e comunque versate in fatto.
Quanto
al dolo
del reato, trattasi di profilo in riferimento al quale non erano stati
esplicitati in maniera
specifica con i motivi d'appello le ragioni in fatto e in diritto a sostegno
dell'affermata
sua insussistenza.
3. Quanto alle doglianze proposte con il secondo motivo va evidenziato che,
non solo in
maniera del tutto generica era stata prospettata nel giudizio d'appello la
ricorrenza
della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis c.p., ma che
altrettanto generiche
risultano le censure svolte in proposito con il ricorso.
Il ricorrente,
infatti, non ha tenuto
conto di come la Corte abbia implicitamente escluso la particolare tenuità
del fatto
laddove ha motivatamente valutato la sua intrinseca gravità sottolineando la
natura al
limite del calunnioso delle accuse lanciate dall'imputato, nonché apprezzato
negativamente la loro reiterazione.
Apparato giustificativo con il quale il
ricorso non si è
in alcun modo confrontato, mentre in proposito va ribadito che, con riguardo
alla citata
esimente, la motivazione può risultare anche implicitamente
dall'argomentazione con la
quale il giudice d'appello abbia considerato gli indici di gravità oggettiva
del reato e il
grado di colpevolezza dell'imputato (Sez. 5, n. 15658/19 del 14/12/2018, D.,
Rv.
275635).
4. Colgono invece nel segno le censure svolte con il terzo motivo.
4.1 Va allora ricordato che ai sensi dell'art. 79 c.p.p., comma 1, c.p.p.,
la costituzione
di parte civile può avvenire per l'udienza preliminare e, successivamente,
fino a che
non siano compiuti gli adempimenti previsti dall'art. 484, c.p.p., norma,
quest'ultima,
secondo cui, prima di dare inizio al dibattimento, il presidente controlla
la regolare
costituzione delle parti e che deve essere letta unitamente a quanto
previsto dagli artt.
491 e 492 del codice di rito.
L'art. 491 c.p.p., comma 1, in particolare,
stabilisce, tra
l'altro, che le questioni concernenti la costituzione di parte civile sono
precluse se non
sono proposte subito dopo compiuto per la prima volta l'accertamento della
costituzione delle parti. Secondo l'art. 492 c.p.p., infine, il presidente,
compiute le
attività indicate negli artt. 484 c.p.p. e ss., dichiara aperto il
dibattimento.
4.2 Dalle norme sopra indicate, come è stato condivisibilmente evidenziato
da una
parte della giurisprudenza di legittimità, risulta chiaramente che la
costituzione di parte
civile deve avvenire, a pena di decadenza, fino a che non siano compiuti gli
adempimenti relativi alla regolare costituzione delle parti. È in tale fase
infatti che bisogna stabilire quali siano le parti "legittimate" a stare in
giudizio (cfr. Sez. 3, n.
25133 del 15/04/2009, Greco, Rv. 243906).
Se ne deduce che, come affermato
dai più
recenti arresti del Supremo Collegio, la costituzione di parte civile deve
avvenire, a
pena di decadenza, fino a che non siano stati compiuti gli adempimenti
relativi alla
regolare costituzione delle parti, e non fino al diverso termine coincidente
con
l'apertura del dibattimento, come ritenuto da entrambi i giudici del merito
nel caso di
specie (ex plurimis Sez. 6, n. 10958 del 24/02/2015, P.C. in proc. L., Rv.
262988).
Deve, pertanto escludersi che la costituzione di parte civile possa avvenire
in
coincidenza con l'apertura del dibattimento ovvero prima dell'apertura del
dibattimento,
ma dopo che si siano esauriti gli adempimenti relativi alla regolare
costituzione delle
parti. |
APPALTI: Offerta
priva dei requisiti richiesti dalla lex
specialis.
Le procedure di evidenza
pubblica devono essere improntate al
rispetto dei principi di imparzialità e
parità di trattamento, che risulterebbero
irrimediabilmente violati ove si consentisse
di accettare un’offerta priva dei requisiti
richiesti ex ante dalla lex specialis, solo
perché, una volta divenuto aggiudicatario,
un determinato operatore economico abbia
materialmente messo a disposizione della
stazione appaltante prodotti con le
caratteristiche dalla stessa richiesti
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 07.01.2020 n. 33 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
III) Il Collegio dà peraltro atto che, in
aggiunta a quanto sopra evidenziato, il
verificatore ritiene che il giudizio
espresso dalla stazione appaltante non sia
“manifestamente irragionevole, ovvero
contenga errori di fatto che ne abbiano
inficiato le relative valutazioni”, e che
tuttavia, malgrado ciò, l’integrale
contenuto della relazione, deponga
inequivocabilmente per l’accoglimento del
ricorso.
Incidentalmente, ed in via preliminare, il
Collegio richiama il principio iudex peritus
peritorum, secondo cui,
è sempre consentito
al giudice di merito disattendere le
argomentazioni tecniche svolte dal
consulente tecnico d’ufficio nella propria
relazione (Cass. Civ. Sez. II, 20.03.2017, n.
7086, TAR Campania, Napoli, Sez. VII,
21.04.2016, n. 2023).
Nel caso di specie, il verificatore si è
espresso sulla natura del giudizio formulato
dalla stazione appaltante, nei termini sopra
riportati, in considerazione del “tempo
richiesto dalla lettura e dalle numerose
riletture dei documenti in atti”, e
pertanto, sulla base di criteri soggettivi,
avulsi dalle conoscenze tecniche che ne
hanno giustificato la nomina, rimettendosi
infatti, per tale aspetto, alle valutazioni
dell’autorità giurisdizionale.
Le vere e proprie valutazioni tecniche
formulate dal verificatore, che lo stesso
era chiamato ad esprimere, evidenziano
invece chiaramente che il giudizio formulato
dalla stazione appaltante “non è adeguato”,
che “sarebbe stato logico escludere il
concorrente controinteressato”, poiché il
“rendimento idraulico minimo garantito” dei
prodotti offerti è risultato inferiore a
quello richiesto dalla lex specialis.
In conclusione, alla luce del contenuto
dell’ordinanza n. 1060/2019, e di quanto
affermato dallo stesso verificatore, ritiene
il Collegio che il giudizio della stazione
appaltante “contenga errori di fatto che ne
abbiano inficiato le relative valutazioni”,
e che sia conseguentemente illegittimo.
IV.1) Nella propria memoria finale, la
controinteressata sostiene che le citate
previsioni della lex specialis erano
unicamente finalizzate alla conoscenza delle
principali caratteristiche tecniche delle
elettropompe che i concorrenti avrebbero
dovuto fornire, ritenendo che “il riscontro
di un loro difetto rispetto a quanto
dichiarato non poteva affatto condurre
all’esclusione dell’offerta”.
A sua volta, la controinteressata evidenzia
che nello schema di contratto (art. 5.6) e
nel Capitolato Tecnico (artt. 5.1.2. e
5.3.2) si prevedeva che, qualora nel corso
dei collaudi, le elettropompe fornissero
risultati inferiori rispetto a quelli
dichiarati, la stazione appaltante avrebbe
potuto accettare le forniture solo previa
applicazione di una riduzione dei prezzi,
rilevando ciò solo nella fase esecutiva del
rapporto, e non invece, in quella di
ammissione.
IV.2) Osserva il Collegio che,
in linea
generale, in relazione alla loro diverse
natura e finalità, i requisiti di esecuzione
non devono effettivamente essere confusi con
quelli di partecipazione, ma che tuttavia,
qualora la lex specialis, anziché limitarsi
a richiedere ai partecipanti di acquisire,
successivamente all'aggiudicazione, la
disponibilità di un determinato requisito
tecnico, ne imponga invece il possesso a
pena l'esclusione, all’atto della domanda di
partecipazione, non può sostenersi che tale
onere afferisca alla fase esecutiva del
contratto, quanto invece, alla sussistenza
dei presupposti per partecipare alla gara
(TAR Friuli-Venezia Giulia, Sez. I,
31.12.2018, n. 383, C.S. Sez. III,
27.11.2017, n. 5541).
Nel caso di specie, come detto, la lex
specialis era intelligibile nel prevedere,
nella fase di ammissione, l’esclusione delle
offerte di prodotti di cui i concorrenti non
avessero dichiarato il possesso dei
requisiti minimi richiesti (v. art. 7 del
documento B.4 del disciplinare cit., secondo
cui, “non sono ammesse, a pena di
esclusione, dichiarazioni di prestazioni
inferiori a quelle indicate nel Progetto
Esecutivo a base di gara)".
IV.3) Analogamente, non può assumere alcun
rilievo nel presente giudizio, in quanto
circostanza di mero fatto, l’avvenuta
installazione delle pompe da parte della
controinteressata, e l’asserito collaudo
delle stesse, trattandosi di avvenimenti
successivi all’emanazione dei provvedimenti
impugnati, ed inidonei a dimostrarne la
legittimità.
La procedure di evidenza pubblica devono
infatti essere improntate al rispetto dei
principi di imparzialità e parità di
trattamento, che risulterebbero
irrimediabilmente violati ove si consentisse
di accettare un’offerta priva dei requisiti
richiesti ex ante dalla lex specialis, solo
perché, una volta divenuto aggiudicatario,
un determinato operatore economico abbia
materialmente messo a disposizione della
stazione appaltante prodotti con le
caratteristiche dalla stessa richiesti.
V) Inoltre, contrariamente a quanto dedotto
dalla resistente e dalla controinteressata,
le censure sollevate dalla ricorrente non
hanno ad oggetto elementi marginali e non
essenziali dell’affidamento impugnato.
In primo luogo, osserva infatti il Collegio
che l’appalto in questione, lungi dal
prevedere esclusivamente lavori, includeva
in realtà anche “impianti di potabilizzazione” (cat. OS22 per un importo
di Euro 6.431.432,24”) ed “acquedotti” (cat.
OG6 per un importo di Euro 2.306.078,92),
non potendo pertanto affermarsi, in tale
ambito, l’irrilevanza della fornitura delle
pompe idrauliche.
In ogni caso, malgrado il loro valore non
sia effettivamente particolarmente incidente
su quello complessivo dell’appalto, lo
stesso, pari ad Euro 634.607,44, oltre che ad
essere, in termini assoluti, tutt’altro che
irrisorio, è certamente idoneo, in astratto,
ad influenzarne l’affidamento, essendo pari
a circa il 4% a quello posto a base di gara.
VI.1) Né può altresì apportare alcuna
utilità alle ragioni della controinteressata
C.S., Sez. V, 14.06.2019 n. 4024 a più
riprese invocata, considerato che, come
dalla stessa evidenziato, in tale
fattispecie, “alla luce della lex specialis,
l’attribuzione del punteggio era indi
correlato alla sola considerazione dei
valori dichiarati dagli operatori economici
offerenti, per i quali non era imposta
alcuna valutazione di congruità”.
Nella fattispecie per cui è causa, come
detto, il disciplinare prevedeva invece
espressamente, a pena di esclusione, che i
concorrenti, nelle proprie dichiarazioni e
nella schede tecniche, si impegnassero a
mettere a disposizione della stazione
appaltante prodotti dotati di determinate
caratteristiche minime, ciò che,
diversamente dal caso deciso da C.S. n.
4024/19 cit., la commissione non poteva
evidentemente che accertare.
VI.2) Da ultimo, vanno dichiarati
inammissibili gli argomenti della
controinteressata, volti a dimostrare che
l’offerta della ricorrente avrebbe dovuto
essere esclusa in conseguenza della mancata
allegazione della scheda motore, in quanto
contenuti in una memoria non notificata, e
non invece, in un autonomo ricorso
incidentale.
VII.1) In conseguenza dell’accoglimento del
ricorso, va annullata l’aggiudicazione
disposta in favore della controinteressata,
che non risulta aver stipulato il contratto
con la stazione appaltante, essendo pertanto
possibile disporsi il risarcimento in forma
specifica in favore della ricorrente.
VII.2) Nella propria memoria finale, quest’ultima
richiede tuttavia il risarcimento per
equivalente, nella misura del 10% delle
opere già eseguite, in conseguenza
dell’avvenuta esecuzione dei lavori di
realizzazione dell’impianto provvisorio,
descritti nella parte in fatto della
presente sentenza.
Per giurisprudenza pacifica, la ricorrente
che lamenti l'illegittimità
dell'aggiudicazione deve tuttavia offrire,
senza poter ricorrere a criteri forfettari,
la prova rigorosa dell'utile che in concreto
avrebbe conseguito, poiché nell'azione di
responsabilità per danni il principio
dispositivo opera con pienezza e non è
temperato dal metodo acquisitivo proprio
dell'azione di annullamento, e la
valutazione equitativa, ai sensi dell'art.
1226 c.c., è ammessa soltanto in presenza di
situazione di impossibilità, o di estrema
difficoltà, di una precisa prova
sull'ammontare del danno (TAR Toscana, Sez. I, 19.3.2018, n. 403, C.S. Ad. Plen.,
12.5.2017, n. 2), che nella fattispecie,
l’istante non ha invece allegato.
In particolare, malgrado la prova in ordine
alla quantificazione del danno possa essere
raggiunta anche mediante presunzioni, in
conformità alla regola generale di cui
all'art. 2729, c.c., esse devono essere
dotate dei requisiti legali della gravità,
precisione e concordanza, non potendo
attribuirsi valore probatorio ad una
presunzione fondata su dati meramente
ipotetici (C.S., Sez. V, 11.05.2017, n.
2184). |
URBANISTICA: L’urbanistica guarda al futuro.
La fabbrica non deve trasferirsi perché è cambiato il prg.
Il Tar Brescia ritiene impossibile imporre la riconversione senza concertazione
e incentivi.
Impossibile
espellere la fabbrica dall'area in cui opera da sempre soltanto perché nel
frattempo è cambiato lo strumento urbanistico. Quindi è escluso che il
comune possa imporre la riconversione all'insediamento produttivo laddove la
nuova zonizzazione prevede unicamente lo sviluppo dei servizi e del
commercio: le nuove destinazioni, infatti, operano per le future
trasformazioni del territorio, mentre per delocalizzare attività
«impattanti», dal punto di vista dell'ambiente e della qualità della vita,
bisogna ricorrere al metodo della concertazione. Cioè offrendo incentivi al
trasferimento e attivando eventualmente un tavolo istituzionale. Né si
possono vietare ristrutturazioni dello stabilimento: all'impresa va
garantito «un minimo diritto alla crescita». E ciò anche se i cittadini si
lamentano per la convivenza forzosa con le ciminiere.
È
quanto emerge dalla
sentenza
30.12.2019 n. 1101 dela I Sez. della sede di Brescia del TAR Lombardia.
Il caso. La pronuncia ha accolto il ricorso della spa che gestiva una
fonderia, annullando la delibera con cui il consiglio comunale aveva
adottato il Pgt, il piano di governo del territorio della regione,
decretando che la fabbrica prima o poi doveva riconvertirsi o smobilitare.
Insomma «l'intento espulsivo» era chiaro e fra l'altro privo di un termine
esplicito, il che aumentava l'incertezza sul futuro della produzione e dei
lavoratori. Aveva pesato sulla decisione dell'amministrazione la circostanza
che lo stabilimento trattava e riciclava rifiuti di alluminio oltre che
realizzare placche e billette. La spa lamentava, da canto suo, una vendetta
del comune, «un castigo ad personam» perché in passato i cittadini avevano
segnalato emissioni diffuse non controllate dallo stabilimento.
Interessi da bilanciare. Le scelte di pianificazione urbanistica
costituiscono un esercizio di ampia discrezionalità da parte
dell'amministrazione locale. E non c'è dubbio che rientri nell'opera di
disegno del territorio allontanare le attività insalubri dai centri abitati.
Ma un conto è quando la programmazione urbanistica investe una porzione di
territorio ancora vergine, un altro se la nuova destinazione colpisce
un'area dove sono stati realizzati cospicui investimenti economici.
Bisogna
dunque verificare se nel frattempo si sono create legittime aspettative da
parte del privato, contemperando i contrapposti interessi dell'assetto del
territorio e della libera impresa. Insomma: il comune deve valutare se
l'astratto miglioramento della situazione urbanistica generale non finisca
per sacrificare concreti interessi economici di privati.
E non può porre il
divieto di determinati insediamenti produttivi a una determinata distanza
dal centro senza indicazioni ad hoc provenienti dalle autorità sanitarie. Le
opere realizzate in precedenza alla modifica dello strumento urbanistico,
dunque, conservano la loro legittima destinazione pur se in difformità dalle
nuove prescrizioni. Non c'è dubbio che il comune possa compiere scelte
orientate a localizzare gli insediamenti per motivi igienico-sanitari.
Ma
nella specie l'amministrazione avrebbe dovuto considerare disposizioni
«promozionali» e coinvolgere la spa che gestisce la fonderia nella ricerca
di «soluzioni alternative praticabili», per esempio realizzando uno studio
per individuare aree nel territorio amministrato dove la fabbrica può
continuare le sue lavorazioni. Né è legittimo, come pure fa l'ente locale,
prevedere misure restrittive contro l'espansione dell'insediamento perché si
rischierebbe il «soffocamento» della produzione.
Eppure la fabbrica è a rischio. Nel caso specifico, non si contavano, negli
anni, le segnalazioni all'azienda sanitaria e a quella regionale per
l'ambiente effettuate contro lo stabilimento, dove si erano verificati
incidenti sul lavoro. Né mancavano le querele rivolte all'autorità
giudiziaria. Il punto è che, hanno spiegato i giudici, che il comune deve
agire su di un altro piano, ricorrendo agli ordinari strumenti di controllo
e repressione, applicando sanzioni ed eventualmente revocando le
autorizzazioni concesse.
---------------
I limiti nella giurisprudenza.
Il piano regolatore generale non può sloggiare il carrozziere. E il comune
non può mettere la sordina alla fabbrica se ha fatto costruire le case
vicino agli opifici. Ma ha la facoltà di ridurre cubature e destinazioni
d'uso se bonificare l'area dismessa costa troppo. Sono vari nella
giurisprudenza amministrativa i precedenti che affrontano il tema del
rapporto fra programmazione urbanistica e insediamenti produttivi
preesistenti.
Qualche caso. L'amministrazione locale non può negare la Dia che serve al
carrozziere per mettere l'officina a norma Ue, sul rilievo che il piano
regolatore non ammette interventi nell'area. E ciò perché l'adeguamento
tecnologico risulta essenziale per l'artigiano: ne va della sopravvivenza
dell'impresa. Gli strumenti urbanistici, d'altronde, servono a disegnare il
futuro del territorio e non possono introdurre misure che indirettamente
allontanano strutture produttive esistenti dalla zona in cui operano da
anni. È quanto si legge nella sentenza 41/2018, pubblicata dalla seconda
sezione del Tar Lombardia.
Ancora. È escluso che il sindaco del comune possa imporre il silenzio alla
fabbrica che operava nell'area prima che fossero costruite le case. Lo
stabilisce la sentenza 26/2018, pubblicata dalla prima sezione del Tar
Friuli-Venezia Giulia. Stop all'ordinanza contingibile e urgente che vieta
le immissioni acustiche all'impresa impegnata nella lavorazione di rottami
di metallo: non sussistono i requisiti che legittimano l'adozione del
provvedimento, specie se si considera che l'amministrazione locale sposta
sull'impresa le conseguenze delle proprie scelte urbanistiche che hanno
consentito uno sviluppo disordinato dell'area. Inutile, allora, tentare di
rovesciare addosso all'impresa l'onere di risolvere i problemi di convivenza
con i residenti che si sono creati negli ultimi tempi. Ma è il comune che ha
autorizzato la realizzazione di insediamenti a vocazione residenziale
accanto all'area dove la fabbrica svolge da sempre la sua attività.
Via libera alla variante al piano regolatore generale che riduce la capacità
edificatoria e le destinazioni d'uso della zona. Così ha deciso la sentenza
488/2018, pubblicata dalla prima sezione della sede di Brescia del Tar
Lombardia. Non conta che il comune abbia firmato un protocollo d'intesa con
il fallimento che sta cercando di rilanciare un'area industriale dismessa di
sua proprietà e che le modifiche approvate rischiano di rendere meno
appetibile il progetto. Il punto è che i terreni hanno bisogno di una
profonda bonifica: il processo impone spese più ingenti per la destinazione
residenziale rispetto all'uso commerciale o industriale dei suoli. Insomma:
l'amministrazione agisce nell'interesse generale
(articolo ItaliaOggi Sette del 03.02.2020). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Danni all’ente, il professionista risponde in Corte dei conti.
Ordinanza della Cassazione sui dipendenti.
Il legale dipendente che cagiona danni nel corso
dell'attività professionale all'ente pubblico è responsabile innanzi alla
corte dei conti.
Lo afferma la Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, con l'ordinanza
17.12.2019 n. 33374.
Il caso di specie trae origine dalla condanna da parte dei giudici contabili
di un legale dipendente di un ente pubblico. La corte dei conti, infatti
aveva condannato un avvocato per i danni cagionati dalla sua condotta,
ritenuta, dai giudici contabili, negligente e contraria ai dettami del
corretto agire professionale.
Si difendeva il legale, condannato al risarcimento, deducendo tra gli altri
motivi di ricorso la nullità della sentenza, rappresentando come l'organo
che l'aveva emessa era del tutto incompetente in materia. In particolare, ad
avviso del ricorrente il solo organo dotato del potere di emettere tale tipo
di sentenze era il locale consiglio dell'ordine.
Il procedimento, dopo avere compiuto il proprio corso veniva deciso da parte
dei giudici della Corte suprema con l'ordinanza n. 33374/2019, giungendo a
una soluzione ben diversa rispetto a quella del difensore del ricorrente.
Secondo i giudici della Corte suprema di cassazione, infatti la qualità del
soggetto responsabile non esclude la competenza dell' organo giurisdizionale
deputato alla valutazione del danno erariale. Precisano gli ermellini come
la qualità di legale dipendente sia del tutto indifferente tanto da non far
venir meno la giurisdizione dei giudici contabili.
Le difese del ricorrente si rivelano pertanto del tutto infondate infatti
anche se la competenza del consiglio dell'ordine indiscutibilmente permane
essa riguarda altri aspetti dell'attività del legale vertendo sui soli
aspetti disciplinari senza invece estendersi ai danni cagionati agli enti
pubblici. La decisione dei giudici contabili pertanto era del tutto
legittima, rientrando tra le competenze loro devolute dall'ordinamento. Le
norme infatti riservano alla corte il compito di valutare la presenza di
danni erariali. Ricorso rigettato data la sua infondatezza
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.02.2020).
---------------
SENTENZA
2. con il secondo motivo -rubricato: violazione e la falsa
applicazione dell'art. 59, comma 1, lett. b, n. 1 e 1.2, della legge
professionale forense n. 247/2012 in relazione al comma 1, n. 3, dell'art.
360 cod. proc. civ.- il ricorrente, ribadito quanto già dedotto con il primo
motivo, ovvero che tutta l'attività interna svolta per l'Ente doveva
considerarsi attività professionale e non amministrativa, deduce che la
sentenza debba ritenersi illegittima, anche per violazione dell'art. 59,
comma 1, n. 1 e 2, della legge professionale forense, in quanto nell'invito
a dedurre e nell'atto di citazione a giudizio non erano enunciate le norme
amministrative violate fonte dell'addebito;
3 con il terzo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione
dell'art. 56 della legge n. 247/2012 e dell'art. 1 della legge n. 20/1994,
relativi alla prescrizione dell'azione; secondo la prospettazione difensiva,
nella specie, era applicabile il termine prescrizionale fissato dalla legge
professionale forense (sei anni dal fatto) con la conseguenza che nell'anno
2012, nel corso del quale era stato notificato l'invito a dedurre, l'azione
disciplinare doveva considerarsi già prescritta, essendo, il fatto dannoso,
venuto a conoscenza dell'Amministrazione nel 2005; sempre secondo il
ricorrente, l'azione disciplinare doveva ritenersi, egualmente, prescritta
anche a volere ritenere applicabile il più breve termine di cinque anni di
cui all'art. 1, comma 2, della legge n. 20/1994 dovendosi fissare il dies
a quo sempre dal momento di conoscenza del danno;
4 con il quarto motivo, infine, si deduce la violazione dell'art. 59
della legge n. 247/2012 e del principio del diritto alla difesa, laddove la
mancata tempestiva denuncia della Amministrazione alla Procura Regionale
della Corte dei Conti, nella immediatezza della conoscenza dei fatti, era
foriera di danni alla difesa del dipendente incolpato con violazione del suo
diritto alla difesa;
...
5.1 alla luce di tali principi gli ultimi tre mezzi di impugnazione sono
inammissibili;
- ferma restando, per le ragioni già svolte, la giurisdizione della
Corte dei conti, e essendo pacifico che la sottoposizione degli avvocati
(pur se iscritti agli Elenchi speciali allegati all'Albo) al potere
disciplinare del Consiglio dell'Ordine non esclude la configurabilità di una
concorrente responsabilità contabile dell'Avvocato, quale dipendente
dell'Ente comunale qualora ne ricorrano gli estremi, essendo diversi i
presupposti e le finalità perseguite dalle disposizioni relative alla
responsabilità disciplinare e a quella contabile, le censure proposte con il
secondo motivo (ovverosia la mancanza, nell'incolpazione, delle norme
violate e l'errata valutazione delle prove) sono inammissibili, concretando,
comunque, ipotesi di error in procedendo e in iudicando,
estranee alla denunciata violazione dei limiti esterni alla giurisdizione
del Giudice speciale;
- anche il terzo motivo e il quarto motivo di ricorso
sono inammissibili; con riferimento alla dedotta responsabilità
disciplinare, per inconferenza, non vertendosi, nella specie, in ambito di
procedimento disciplinare, mentre, con riferimento alla dedotta violazione
della normativa prescrizionale relativa alla responsabilità contabile,
perché risolventesi, anche in questo caso, in un'inammissibile
prospettazione dell'eventuale error in iudicando commesso dal Giudice
contabile nell'individuazione del dies a quo;
- eguali considerazioni, infine, vanno svolte anche con riguardo
alla sussistenza della legittimazione della Procura a agire e all'asserita
violazione del diritto di difesa, ipotizzate con il quarto motivo, attenendo
tutte ad eventuali errores in procedendo ovvero in iudicando; |
EDILIZIA PRIVATA: Il rilascio del certificato di agibilità, lungi dall'essere
subordinato all'accertamento dei soli requisiti igienico-sanitari,
presuppone altresì la conformità urbanistica ed edilizia dell'opera, in
quanto, prima ancora della logica giuridica, è la ragionevolezza ad
escludere che possa essere utilizzato, per qualsiasi destinazione, un
fabbricato non conforme alla normativa urbanistico edilizia e, come tale, in
potenziale contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi alla
cui protezione quella disciplina è preordinata.
---------------
Pertanto, il primo motivo non è fondato, considerato che la non
conformità dell'opera al progetto approvato può legittimare, al di là del nomen iuris del provvedimento adottato, un diniego al rilascio e financo un
intervento in autotutela del Comune (o una dichiarazione di decadenza) in
relazione ai certificati di agibilità, ove ne ricorrano i presupposti,
essendo, infatti, la conformità dei manufatti alle norme
urbanistico-edilizie vigenti presupposto indefettibile, ai sensi dell’art.
24, co. 3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, per il rilascio del provvedimento
in questione.
Ed invero, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza
amministrativa, «Il rilascio del certificato di agibilità, lungi dall'essere
subordinato all'accertamento dei soli requisiti igienico-sanitari,
presuppone altresì la conformità urbanistica ed edilizia dell'opera, in
quanto, prima ancora della logica giuridica, è la ragionevolezza ad
escludere che possa essere utilizzato, per qualsiasi destinazione, un
fabbricato non conforme alla normativa urbanistico edilizia e, come tale, in
potenziale contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi alla
cui protezione quella disciplina è preordinata» (TAR Campania Napoli sez.
V, 06.07.2016, n. 3409; TAR Torino, sez. II, 30.06.2016, n. 964;
TAR Sicilia Palermo, sez. II 05.05.2016, n. 1100; TAR Calabria,
Catanzaro, sez. II, 23/04/2018, n. 933; TAR Lombardia, Brescia, sez. I,
05/06/2017, n. 731; TAR Abruzzo, L'Aquila, sez. I, 02/03/2017, n. 114;
Consiglio di Stato n. 3786/2015; Consiglio Stato, V, 30.04.2009, n. 2760)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. IV,
sentenza 13.12.2019 n. 3000 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Solo
in caso di forestazione di boschi già
esistenti per superfici non particolarmente estese può prescindersi dal
nulla osta della Soprintendenza dei beni culturali e ambientali, che è,
invece, necessario per la realizzazione di nuovi boschi.
---------------
Il ricorso, che ha ad oggetto la graduatoria definitiva delle
istanze a valere sulla sottomisura 8.1 del PSR Sicilia 2014/2020 “Sostegno
alla forestazione/all’imboschimento”, nella parte in cui inseriva l’istanza
della ricorrente tra quelle non finanziabili in quanto il progetto non era cantierabile per mancanza del nulla osta paesaggistico, va rigettato.
Deve, in particolare, rilevarsi che la determinazione contestata rinviene il
suo fondamento nel parere del Dipartimento regionale dei beni culturali n.
51115 del 30.10.2017, che ha fatto una differenziazione tra: 1)
interventi di forestazione in boschi già esistenti, che sono stati ritenuti
non assoggettati ad autorizzazione, sempre che la superficie non sia
superiore ad ha 0,50; 2) impianto di nuovi boschi, relativamente ai quali ha
ritenuto necessario il positivo accertamento della compatibilità
paesaggistica da parte della Soprintendenza dei beni culturali e ambientali.
Tale differenziazione è, ad avviso del collegio, corretta, in quanto il
d.P.R. n. 31 del 13.02.2017, avente ad oggetto il regolamento recante
l’individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica
o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata, al punto A20
dell’allegato 1), avente ad oggetto gli interventi e le opere in aree
vincolate esclusi dall’autorizzazione paesaggistica, dispone, per quanto
d’interesse, testualmente quanto segue: “Nell’ambito degli interventi di cui
all’art. 149, comma 1, lettera c), del codice: pratiche selvicolturali
autorizzate in base alla normativa di settore; interventi di contenimento
della vegetazione spontanea indispensabili per la manutenzione delle
infrastrutture pubbliche esistenti pertinenti al bosco, quali elettrodotti,
viabilità pubblica, opere idrauliche”.
Ne deriva che, effettivamente, solo in caso di forestazione di boschi già
esistenti per superfici non particolarmente estese può prescindersi dal
nulla osta della Soprintendenza dei beni culturali e ambientali, che è,
invece, necessario per la realizzazione di nuovi boschi.
Nella specie, il progetto prevedeva un “imboschimento con finalità climatico-ambientale e protettivo” su una superficie maggiore di 10 ettari,
per cui si rientrava nell’ambito degli interventi che richiedevano il nulla
osta della Soprintendenza dei beni culturali e ambientali
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 13.12.2019 n. 2916 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E’ pacifico che la decadenza del permesso di costruire
costituisce l'effetto automatico dell'inutile decorso del termine entro cui
i lavori si sarebbero dovuti iniziare e concludere; pertanto, essa ha natura
non già costitutiva, bensì dichiarativa con efficacia ex tunc di un effetto
verificatosi ex se e direttamente e in tal modo va letto l'art. 15, comma 2,
d.P.R. 06.06.2001 n. 380, in virtù del quale, inutilmente decorsi detti
termini, il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne
che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga.
Di qui l’evidente ultroneità della comunicazione di avvio del procedimento
dal momento che la partecipazione dell’interessata non avrebbe comunque
potuto determinare alcun effetto in relazione all’oggettivo decorso del
termine.
---------------
Fatta tale premessa, passando all’esame delle doglianze e, in particolare,
di quella in cui si lamenta la violazione delle garanzie poste a tutela
della partecipazione al procedimento in relazione alla declaratoria di
decadenza del permesso di costruire, la tesi sostenuta in ricorso non merita
positivo apprezzamento.
Come da ultimo efficacemente chiarito dal TAR Toscana, nella sentenza n.
1309/2018: “E’ pacifico che la decadenza del permesso di costruire
costituisce l'effetto automatico dell'inutile decorso del termine entro cui
i lavori si sarebbero dovuti iniziare e concludere; pertanto, essa ha natura
non già costitutiva, bensì dichiarativa con efficacia ex tunc di un effetto
verificatosi ex se e direttamente e in tal modo va letto l'art. 15, comma 2,
d.P.R. 06.06.2001 n. 380, in virtù del quale, inutilmente decorsi detti
termini, il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne
che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga.
Di qui l’evidente ultroneità della comunicazione di avvio del procedimento
dal momento che la partecipazione dell’interessata non avrebbe comunque
potuto determinare alcun effetto in relazione all’oggettivo decorso del
termine.”.
Il Collegio non ravvisa ragione di discostarsi da tali conclusioni, in
particolare considerato che, nella fattispecie in esame, la decadenza è
stata dichiarata contestualmente al rigetto dell’istanza di proroga del
permesso di costruire n. 8911/2013 e, quindi, a conclusione di un
procedimento iniziato su istanza di parte, rispetto a cui non sussiste alcun
obbligo di comunicazione ai sensi degli artt. 7 e 8 della legge n. 241/1990.
Tutto quanto sin qui rappresentato non pare, però, utile a superare la
contestata mancata partecipazione al procedimento, che ha condotto alla
dichiarazione dell’intervenuta decadenza del permesso di costruire
originariamente rilasciato proprio al dante causa, che avrebbe dovuto essere
qualificato come cointeressato, in quanto nell’adozione dei provvedimenti
impugnati, lo stesso avrebbe potuto avere un ruolo nel procedimento, dal
momento che oggetto di contestazione è la falsa rappresentazione dei luoghi
contenuta nel progetto che è stato presentato dallo stesso e non anche dagli
acquirenti.
Se, dunque, deve escludersi la sussistenza di una posizione differenziata
che ne avrebbe richiesto la partecipazione al procedimento rispetto
all’adozione dell’ordinanza che ha sostanzialmente disposto il ripristino
dello stato di fatto, non altrettanto pare potersi sostenere in relazione
all’attività che ha condotto al rigetto dell’istanza di proroga del titolo
edilizio.
Peraltro, se senz’altro tale atto non può essere nullo per effetto del
mancato coinvolgimento di chi il contestato errore di rappresentazione ha
commesso, il Collegio ritiene, invece, che si possa dare applicazione
all’art. 21-octies della legge n. 241/1990, dovendosi ritenere, anche alla
luce di tutto quanto prodotto, che il richiedente il permesso di costruire
non avrebbe potuto apportare al procedimento alcun elemento utile a
determinare un diverso esito del procedimento vincolato che ha condotto alla
declarataria di decadenza del titolo edilizio.
Circostanza che risulta
dimostrata dal fatto che, anche nel corso del giudizio, il precedente
proprietario non ha apportato alcun elemento utile a determinare la
possibilità di un diverso esito del procedimento. Si può, quindi, escludere
che la presenza del vizio posso determinare la caducazione del provvedimento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 12.12.2019 n. 1065 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi è
un'attività vincolata e doverosa della Pubblica amministrazione e i relativi
provvedimenti, quale l'ordinanza di demolizione, debbono essere qualificati
come atti vincolati, per la cui adozione non è necessario l'invio di
comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell'atto.
---------------
Quanto alla mancata partecipazione dei proprietari al procedimento che ha
condotto all’ordine di ripristino, è ormai costante la giurisprudenza
secondo cui l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi è
un'attività vincolata e doverosa della Pubblica amministrazione e i relativi
provvedimenti, quale l'ordinanza di demolizione, debbono essere qualificati
come atti vincolati, per la cui adozione non è necessario l'invio di
comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell'atto (ex multis, TAR Lazio,
sentenza n. 4211/2019, Consiglio di Stato sentenza n. 4740/2014)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 12.12.2019 n. 1065 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
via generale, ai fini del rilascio di una concessione edilizia, uno stato di
sufficiente urbanizzazione della zona, che rende superflua la pianificazione
di dettaglio, deve ritenersi equivalente all’operatività di un piano attuativo ancorché previsto dal
piano regolatore generale.
Spetta ovviamente al Comune verificare la concreta urbanizzazione dell'area
in cui si dovrebbe inserire l'intervento costruttivo del privato e accertare
la compatibilità effettiva del nuovo insediamento edilizio rispetto allo
stato di urbanizzazione della zona.
La valutazione della situazione di fatto e, quindi, la ritenuta sussistenza
o meno dello stato di sufficiente urbanizzazione, rientra nella potestà
discrezionale tecnico amministrativa del Comune e, come tale, non è
sindacabile davanti al giudice amministrativo, salvi i casi di abuso
macroscopico.
Infatti, il giudizio sulla sufficienza delle infrastrutture esistenti
costituisce una sintesi delle ragioni di opportunità urbanistica a favore o
contro il rilascio della concessione edilizia in mancanza di disciplina
pianificatoria di dettaglio.
All’esito della predetta valutazione potranno presentarsi diverse ipotesi:
●
in caso di zone assolutamente inedificate,
in cui si tratti di asservire per la prima volta all'edificazione, mediante
costruzione di uno o più fabbricati, aree non ancora urbanizzate che
richiedano, per il loro armonico raccordo col preesistente aggregato
abitativo, la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e
secondaria, l’esistenza del piano esecutivo (piano di lottizzazione o piano
particolareggiato) è senza dubbio presupposto indispensabile per il rilascio
del titolo edilizio.
In tali situazioni, l'integrità d'origine del territorio non è
sostanzialmente vulnerata, perciò deve essere rigorosamente rispettata la
cadenza, in ordine successivo, dell'approvazione del piano regolatore
generale e della realizzazione dello strumento urbanistico d'attuazione, che
garantisce una pianificazione razionale e ordinata del futuro sviluppo del
territorio dal punto di vista urbanistico.
Pertanto, in tali casi, è da ritenersi legittimo il rigetto della istanza
edificatoria fondato sulla mancanza di strumento urbanistico di attuazione;
●
all’estremo opposto, rispetto all’ipotesi delle aree totalmente inedificate, si pone
il caso in cui l’istanza edilizia riguardi un “lotto
intercluso” o “lotto residuo”, ossia un’area compresa in zona
totalmente dotata di opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli
standard urbanistici minimi prescritti, cioè da opere e servizi realizzati
per soddisfare i necessari bisogni della collettività quali strade, spazi di
sosta, fognature, reti di distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia
elettrica, scuole, etc..
Per la precisione, la giurisprudenza amministrativa ritiene realizzata la
fattispecie del lotto intercluso solo se l'area edificabile di proprietà del
richiedente:
a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e
secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al
Piano Regolatore Generale.
In termini urbanistico-edilizi, per poter qualificare l’area in termini di
lotto intercluso non è necessaria l'interclusione del terreno da tutti i
lati, bensì l’esistenza di un’area c.d. "relitto", autonomamente
edificabile perché già urbanisticamente definita, ossia compiutamente e
definitivamente collegata e integrata con già esistenti opere di
urbanizzazione (strade, servizi, piazze, giardini) e/o con altri immobili
adiacenti.
In presenza del lotto intercluso, poiché la completa e razionale
edificazione e urbanizzazione del comprensorio interessato ha già creato una
situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe dall'attuazione
del piano esecutivo (piano particolareggiato, piano di lottizzazione, etc.),
lo strumento urbanistico esecutivo si ritiene superfluo.
In casi del genere è illegittima la pretesa del Comune di subordinare il
rilascio del titolo edilizio alla predisposizione di un piano di
lottizzazione, pur astrattamente previsto dallo strumento generale.
La fattispecie del lotto intercluso rappresenta, evidentemente, una deroga
eccezionale al principio generale di cui all’art. 9, comma 2, D.P.R. n.
380/2001 per cui il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente
disposto solo dopo che si sia concluso il procedimento per la adozione dello
strumento urbanistico attuativo e che lo stesso sia divenuto perfetto ed
efficace.
Peraltro, anche l’accertamento della sussistenza del lotto intercluso o di
altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata non esclude in
assoluto l'esigenza di pianificazione dell'urbanizzazione ai fini del
rilascio della concessione edilizia quando permane l’esigenza di realizzare
un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo e di potenziare
le opere di urbanizzazione già esistenti;
●
nelle situazioni intermedie, nelle quali il territorio risulti già, più o
meno intensamente, urbanizzato, atteso
che, come detto, la perizia giurata in atti non è inequivoca a dimostrare l’interclusione
del lotto, la giurisprudenza amministrativa ha adottato soluzioni più
rigorose, ritenendo che il piano attuativo sia strumento indispensabile per
l'ordinato assetto del territorio, stante il chiaro tenore dell’art. 9,
comma 2, d.P.R. n. 380/2001, che costituisce regola generale ed imperativa
in materia di governo del territorio, quando lo strumento urbanistico
generale prevede che la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di
livello inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente
disposto solo dopo che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed
efficace, ovvero quando è concluso il relativo procedimento.
Poiché il piano attuativo non ha equivalenti non è consentito superarne
l’assenza facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della
zona. Ciò impedisce che in sede amministrativa o giurisdizionale possano
essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile
edificare vanificando la funzione del piano attuativo.
In caso di ritardo, l’adozione e l’approvazione del piano attuativo potrà
essere sollecitata dal cittadino con gli strumenti consentiti.
Tuttavia, nei casi di cui trattasi, la giurisprudenza ritiene che quando sia
ravvisabile una sostanziale, anche se non completa, urbanizzazione
dell’intero comprensorio a cui appartiene l'area oggetto della richiesta
edilizia, la mancanza dello strumento attuativo, in se e per sé, non può
essere invocata ad esclusivo fondamento del diniego di concessione edilizia.
In tal caso, l'Amministrazione dovrà condurre adeguata istruttoria al fine
di valutare lo stato di urbanizzazione già presente nella zona ed
evidenziare le concrete ed ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte
dalla nuova costruzione.
Infatti solo il Comune, essendo in possesso delle informazioni concernenti
l'effettiva consistenza del suo territorio, delle opere di urbanizzazione
primaria e secondaria, dei servizi pubblici, e delle edificazioni pubbliche
e private già esistenti, sarà sicuramente in grado di stabilire se e in
quale misura un ulteriore eventuale carico edilizio possa armonicamente
inserirsi nell'assetto del territorio già presente.
Il Comune, quindi, dovrà preventivamente esaminare, in relazione alla
dimensione dell'intervento richiesto, allo stato dei luoghi, alla
documentazione prodotta dall'interessato ed alle prescrizioni di zona del
piano di fabbricazione, se il Piano regolatore fornisca indicazioni
esaustive sulle modalità edificatorie nonché lo stato di urbanizzazione e di
edificazione dell'area interessata in relazione all'adeguatezza e fruibilità
delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria e di conseguenza
valutare se persiste o meno la necessità di adottare il piano attuativo
prima del rilascio del permesso di costruire, dando atto delle dette
verifiche nelle motivazioni della propria decisione.
---------------
3. Rileva il Collegio che la verifica della condizione di perdurante
insufficienza dell'urbanizzazione primaria e secondaria, al quale è
funzionalmente collegata l'esigenza di approvare degli strumenti attuativi,
sia già stata affrontata dalla giurisprudenza amministrativa in epoca
risalente (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 13.10.1988, n. 561; Sez. V
05.05.1990, n. 425), affermando, in via generale, che ai fini del rilascio
di una concessione edilizia, uno stato di sufficiente urbanizzazione della
zona, che rende superflua la pianificazione di dettaglio, deve ritenersi
equivalente all’operatività di un piano attuativo ancorché previsto dal
piano regolatore generale.
Spetta ovviamente al Comune verificare la concreta urbanizzazione dell'area
in cui si dovrebbe inserire l'intervento costruttivo del privato e accertare
la compatibilità effettiva del nuovo insediamento edilizio rispetto allo
stato di urbanizzazione della zona (cfr. Consiglio di Stato, sez. V,
04.05.1995, n. 699).
La valutazione della situazione di fatto e, quindi, la ritenuta sussistenza
o meno dello stato di sufficiente urbanizzazione, rientra nella potestà
discrezionale tecnico amministrativa del Comune e, come tale, non è
sindacabile davanti al giudice amministrativo, salvi i casi di abuso
macroscopico (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 11.06.2002, n. 3253).
Infatti, il giudizio sulla sufficienza delle infrastrutture esistenti
costituisce una sintesi delle ragioni di opportunità urbanistica a favore o
contro il rilascio della concessione edilizia in mancanza di disciplina
pianificatoria di dettaglio.
All’esito della predetta valutazione potranno presentarsi diverse ipotesi.
In caso di zone assolutamente inedificate, in cui si tratti di asservire per
la prima volta all'edificazione, mediante costruzione di uno o più
fabbricati, aree non ancora urbanizzate che richiedano, per il loro armonico
raccordo col preesistente aggregato abitativo, la realizzazione di opere di
urbanizzazione primaria e secondaria, l’esistenza del piano esecutivo (piano
di lottizzazione o piano particolareggiato) è senza dubbio presupposto
indispensabile per il rilascio del titolo edilizio (cfr., ex multis,
Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.04.2012, n. 2740 e Sez. V, 24.09.2001, n.
4993).
In tali situazioni, l'integrità d'origine del territorio non è
sostanzialmente vulnerata, perciò deve essere rigorosamente rispettata la
cadenza, in ordine successivo, dell'approvazione del piano regolatore
generale e della realizzazione dello strumento urbanistico d'attuazione, che
garantisce una pianificazione razionale e ordinata del futuro sviluppo del
territorio dal punto di vista urbanistico.
Pertanto, in tali casi, è da ritenersi legittimo il rigetto della istanza
edificatoria fondato sulla mancanza di strumento urbanistico di attuazione.
La situazione di lotto totalmente inedificato, tuttavia, non è quella
oggetto della presente controversia.
4. All’estremo opposto, rispetto all’ipotesi delle aree totalmente
inedificate, si pone il caso in cui l’istanza edilizia riguardi un “lotto
intercluso” o “lotto residuo”, ossia un’area compresa in zona
totalmente dotata di opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli
standard urbanistici minimi prescritti, cioè da opere e servizi realizzati
per soddisfare i necessari bisogni della collettività quali strade, spazi di
sosta, fognature, reti di distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia
elettrica, scuole, etc..
Per la precisione, la giurisprudenza amministrativa ritiene realizzata la
fattispecie del lotto intercluso solo se l'area edificabile di proprietà del
richiedente:
a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e
secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al
Piano Regolatore Generale.
In termini urbanistico-edilizi, per poter qualificare l’area in termini di
lotto intercluso non è necessaria l'interclusione del terreno da tutti i
lati, bensì l’esistenza di un’area c.d. "relitto", autonomamente
edificabile perché già urbanisticamente definita, ossia compiutamente e
definitivamente collegata e integrata con già esistenti opere di
urbanizzazione (strade, servizi, piazze, giardini) e/o con altri immobili
adiacenti.
In presenza del lotto intercluso, poiché la completa e razionale
edificazione e urbanizzazione del comprensorio interessato ha già creato una
situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe dall'attuazione
del piano esecutivo (piano particolareggiato, piano di lottizzazione, etc.),
lo strumento urbanistico esecutivo si ritiene superfluo (cfr., ex multis,
Consiglio di Stato sez. IV, 10.01.2012, n. 26).
In casi del genere è illegittima la pretesa del Comune di subordinare il
rilascio del titolo edilizio alla predisposizione di un piano di
lottizzazione, pur astrattamente previsto dallo strumento generale.
La fattispecie del lotto intercluso rappresenta, evidentemente, una deroga
eccezionale al principio generale di cui all’art. 9, comma 2, D.P.R. n.
380/2001 per cui il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente
disposto solo dopo che si sia concluso il procedimento per la adozione dello
strumento urbanistico attuativo e che lo stesso sia divenuto perfetto ed
efficace.
Nel caso di specie, tuttavia, neanche la perizia giurata in atti, depositata
da parte ricorrente già in primo grado è idonea a dimostrare
inequivocabilmente la sussistenza di tutte le condizioni sopra indicate per
concretizzare la situazione del lotto intercluso.
Peraltro, anche l’accertamento della sussistenza del lotto intercluso o di
altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata non esclude in
assoluto l'esigenza di pianificazione dell'urbanizzazione ai fini del
rilascio della concessione edilizia quando permane l’esigenza di realizzare
un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo e di potenziare
le opere di urbanizzazione già esistenti (cfr., ex multis, Consiglio
di Stato, Sez. V, 29.02.2012, n. 1177 e Sez. IV, 01.10.2007, n. 5043).
5. Nelle situazioni intermedie, nelle quali il territorio risulti già, più o
meno intensamente, urbanizzato, come risulta agli atti nella specie, atteso
che, come detto, la perizia giurata in atti non è inequivoca a dimostrare l’interclusione
del lotto, la giurisprudenza amministrativa ha adottato soluzioni più
rigorose, ritenendo che il piano attuativo sia strumento indispensabile per
l'ordinato assetto del territorio, stante il chiaro tenore dell’art. 9,
comma 2, d.P.R. n. 380/2001, che costituisce regola generale ed imperativa
in materia di governo del territorio, quando lo strumento urbanistico
generale prevede che la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di
livello inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente
disposto solo dopo che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed
efficace, ovvero quando è concluso il relativo procedimento.
Poiché il piano attuativo non ha equivalenti non è consentito superarne
l’assenza facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della
zona. Ciò impedisce che in sede amministrativa o giurisdizionale possano
essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile
edificare vanificando la funzione del piano attuativo.
In caso di ritardo, l’adozione e l’approvazione del piano attuativo potrà
essere sollecitata dal cittadino con gli strumenti consentiti.
Tuttavia, nei casi di cui trattasi, la giurisprudenza ritiene che quando sia
ravvisabile una sostanziale, anche se non completa, urbanizzazione
dell’intero comprensorio a cui appartiene l'area oggetto della richiesta
edilizia, la mancanza dello strumento attuativo, in se e per sé, non può
essere invocata ad esclusivo fondamento del diniego di concessione edilizia.
In tal caso, l'Amministrazione dovrà condurre adeguata istruttoria al fine
di valutare lo stato di urbanizzazione già presente nella zona ed
evidenziare le concrete ed ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte
dalla nuova costruzione.
Infatti solo il Comune, essendo in possesso delle informazioni concernenti
l'effettiva consistenza del suo territorio, delle opere di urbanizzazione
primaria e secondaria, dei servizi pubblici, e delle edificazioni pubbliche
e private già esistenti, sarà sicuramente in grado di stabilire se e in
quale misura un ulteriore eventuale carico edilizio possa armonicamente
inserirsi nell'assetto del territorio già presente.
Il Comune, quindi, dovrà preventivamente esaminare, in relazione alla
dimensione dell'intervento richiesto, allo stato dei luoghi, alla
documentazione prodotta dall'interessato ed alle prescrizioni di zona del
piano di fabbricazione, se il Piano regolatore fornisca indicazioni
esaustive sulle modalità edificatorie nonché lo stato di urbanizzazione e di
edificazione dell'area interessata in relazione all'adeguatezza e fruibilità
delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria e di conseguenza
valutare se persiste o meno la necessità di adottare il piano attuativo
prima del rilascio del permesso di costruire, dando atto delle dette
verifiche nelle motivazioni della propria decisione
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 03.12.2019 n. 8270 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Com’è noto, il provvedimento con cui viene
ingiunta la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun
titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei
relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in
ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al
ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso.
---------------
Quanto alla censura con la quale il ricorrente deduce “Eccesso di potere per
manifesta ingiustizia, irragionevolezza, difetto di motivazione per non aver
preso in considerazione le conseguenze che deriverebbero dalla demolizione
sulla comunità di fedeli che si riuniscono pacificamente in preghiere”,
anche tale censura è infondata.
Com’è noto, difatti, il provvedimento con cui viene ingiunta la demolizione
di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua
natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle
ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso (Cons.
Stato, Ad. plen n. 9/2017).
Pertanto è legittimo il provvedimento n. 53/2011 con il quale il Comune ha
ordinato ai ricorrenti la demolizione delle opere abusive ed il ripristino
dello stato dei luoghi
(Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 21.11.2019 n. 2918 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
TRIBUTI: I rifiuti da imballaggi non sono urbani.
I rifiuti da imballaggi terziari (così come quelli secondari in assenza di
raccolta differenziata) rientrano nella categoria dei rifiuti speciali non
assimilabili agli urbani; ne consegue che i regolamenti del comune che
prevedono l'assimilazione degli imballaggi ai rifiuti ordinari devono essere
disapplicati dal giudice tributario.
Sono le conclusioni che si leggono
nella
sentenza 14.11.2019 n. 565/2/2019 emessa dalla
Sez. II della Commissione
tributaria provinciale di Varese.
Il ricorso instaurato da una società di
capitali della provincia di Varese, scaturiva dalla nota di esclusione con
cui il comune di Somma Lombardo aveva respinto la richiesta di rideterminazione delle superfici tassabili sui rifiuti speciali previa
disapplicazione, ex articolo 7, comma 5, del dlgs n. 546/1992, degli articoli
24, 25 e 37 del regolamento comunale Tari e degli articoli 23 e 24 dello
stesso regolamento che prevedono l'assimilazione dei rifiuti speciali di
imballaggio ai rifiuti urbani.
Tra gli altri motivi di ricorso la ricorrente
palesa che l'articolo 1 comma 649 della legge n. 147/2013 afferma che «nella
determinazione della superficie assoggettabile alla Tari non si tiene conto
di quella parte di essa ove si formano, in via continuativa e prevalente,
rifiuti speciali, al cui smaltimento sono tenuti a provvedere a proprie
spese, in conformità della normativa vigente, i relativi produttori».
La
norma, in sostanza esonera le imprese al pagamento della tassa sui rifiuti
in quelle aree su cui si svolgono lavorazioni industriali e artigianali
produttive di rifiuti speciali. Il comune di Somma Lombardo, costituendosi
in giudizio, palesava che, esercitando la potestà di normazione secondaria,
aveva assimilato questo tipo di rifiuti speciali agli urbani; questo non
consentiva di esonerare la società dal pagamento della tassa.
La Ctp di
Varese ha accolto il ricorso e stabilito che la ricorrente ha diritto alla
detassazione dell'area secondo la dichiarazione (obbligatoria) presentata al
comune, di esclusione delle aree in cui si producono i rifiuti speciali. Il
Collegio aggiunge che gli eventuali regolamenti che prevedono
l'assimilazione di detti imballaggi ai rifiuti ordinari devono essere
disapplicati dal giudice tributario, così come stabilito dalla cassazione
nell'ordinanza n. 11451/2018.
Accogliendo il ricorso la Commissione
tributaria provinciale di Varese ha condannato il comune di Somma Lombardo
al pagamento delle spese di lite.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
(…) In tema di tassa sullo smaltimento dei rifiuti solidi urbani dalla
determinazione della superficie tassabile, ai sensi del dlgs 15.11.1993, n. 507, art. 62, comma 3, sono escluse le porzioni di aree dove per
specifiche caratteristiche strutturali e per destinazione si formano di
regola rifiuti speciali, tossici o nocivi, ivi compresi quelli derivanti da
lavorazioni industriali (del dpr n. 915 del 1982, art. 2), allo smaltimento
dei quali sono tenuti a provvedere a proprie spese i produttori del rifiuti
stessi in base alle norme vigenti. Il comune però, esercitando la potestà di
normazione secondaria di cui all'art. 68 dlgs 507/1993 cit., può disporre
l'assimilazione ai rifiuti urbani del rifiuti provenienti da tali attività
artigianali.
L'avvenuta assimilazione ai rifiuti urbani del rifiuti speciali
(per i quali si invoca la detassazione) non permette al produttore di
ottenere l'esenzione in quanto sussiste l'obbligo di affidare tale tipologia
di rifiuti al servizio pubblico di raccolta. Per ottenere la non tassazione
non è sufficiente che si tratti di rifiuti speciali, essendo necessario che
tali rifiuti non siano assimilati a quelli urbani per delibera comunale.
Il comune avendo proceduto all'assimilazione dei rifiuti in questione
ritiene fondato il proprio operato.
Deve, invece, osservarsi che gli imballaggi di cui trattasi, sono imballaggi
terziari come sostenuto nel ricorso e non smentito dal comune. Tali rifiuti
rientrano nella categoria dei rifiuti speciali non assimilabili (cosi come
quelli secondari in assenza di raccolta differenziata).
La Cassazione con ordinanza n. 11451/2018 ha ribadito la non assimilabilità
degli imballaggi terziari (e secondari in assenza di raccolta differenziata) al rifiuti urbani e che gli eventuali regolamenti che prevedono
l'assimilazione di detti imballaggi ai rifiuti ordinari devono essere disapplicati dal giudice tributario.
La deroga all'imposizione non opera automaticamente, spettando al
contribuente provare che una determinata parte della superficie è produttiva
di rifiuti speciali non assimilabili agli urbani.
All'uopo deve essere presentata al comune dichiarazione In cui si afferma il
verificarsi del presupposto per l'esenzione, come avvenuto nel caso di
specie.
Ne consegue, configurandosi gli imballaggi in questioni quali rifiuti
speciali non assimilabili a quelli ordinari (urbani) e avendo la ricorrente
provveduto a dichiarare al comune quanto dovuto, che il ricorrente ha
diritto alla detassazione delle superfici produttive di rifiuti speciali in
questione. (…)
(articolo ItaliaOggi Sette del 17.02.2020). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
pacifico che l’onere della prova circa il tempo della realizzazione del
manufatto deve essere dato dal privato, mentre incombe sull’amministrazione
solo l’onere di sanzionare l’opera non assistita da titolo edilizio.
Orientamento ribadito, anche recentemente, dalla giurisprudenza che ritiene
che «l’amministrazione non è tenuta a dare
indicazioni in ordine all’epoca di realizzazione dell’illecito, non
rientrando tale verifica tra i contenuti dell’ordinanza di demolizione
avente ad oggetto l’accertamento dell’abuso esistente. L’esistenza
nell’attualità sul territorio comunale dell’opera abusiva rende l’illecito
connotato da caratteri di permanenza, con la conseguenza che l’ente locale
può ordinarne la demolizione sulla base della riscontrata assenza del titolo abilitativo».
Peraltro il regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è, dunque,
in conformità al principio del tempus regit actum, quello vigente al momento
della sanzione, non già quello in vigore all'epoca di realizzazione
dell'abuso, e la natura della sanzione demolitoria, finalizzata a riportare
in pristino la situazione esistente e ad eliminare opere abusive in
contrasto con l'ordinato assetto del territorio, impedisce di ascrivere la
stessa al genus delle pene afflittive, cui propriamente si attaglia il
divieto di retroattività.
---------------
Per costante orientamento giurisprudenziale, l’ingiunzione di demolizione
gravata non può ritenersi carente di motivazione, poiché si caratterizza
come atto dovuto, in presenza della constatata realizzazione dei manufatti
edilizi senza titolo abilitativo.
È pacifico che non è richiesta una particolare motivazione volta ad
evidenziare le specifiche ragioni di pubblico interesse che impongono di
darle corso. La repressione degli abusi edilizi si connota, infatti, come un
preciso obbligo dell'Amministrazione, che non gode di alcuna discrezionalità
al riguardo.
---------------
6.2) Anche il secondo motivo di censura è infondato.
I ricorrenti lamentano il difetto di istruttoria e di motivazione
sull’assunto che nell’atto si fa riferimento a diversi passaggi di
proprietà, avvenuti prima dell’entrata in vigore della legge n. 47/1985, che
ha introdotto l’illecito urbanistico della lottizzazione abusiva, e non si
evincerebbe se la specifica contestazione nei confronti dei ricorrenti sia
da ascrivere ad un epoca antecedente all’entrata in vigore della l. n.
47/1985 o all’entrata in vigore del decreto dell’assessorato territorio ed
ambiente n. 83 del 14.03.1984 istitutivo della riserva naturale “Oasi del Simeto”.
Tale censura è priva di qualunque pregio sia in diritto che in fatto.
Preliminarmente si osserva che è pacifico che l’onere della prova circa il
tempo della realizzazione del manufatto deve essere dato dal privato, mentre
incombe sull’amministrazione solo l’onere di sanzionare l’opera non
assistita da titolo edilizio. Orientamento ribadito, anche recentemente,
dalla giurisprudenza che ritiene che «l’amministrazione non è tenuta a dare
indicazioni in ordine all’epoca di realizzazione dell’illecito, non
rientrando tale verifica tra i contenuti dell’ordinanza di demolizione
avente ad oggetto l’accertamento dell’abuso esistente. L’esistenza
nell’attualità sul territorio comunale dell’opera abusiva rende l’illecito
connotato da caratteri di permanenza, con la conseguenza che l’ente locale
può ordinarne la demolizione sulla base della riscontrata assenza del titolo abilitativo» (cfr. Cons. Stato, sez. VI,
06.02.2019, n. 903).
Peraltro il regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è, dunque,
in conformità al principio del tempus regit actum, quello vigente al momento
della sanzione, non già quello in vigore all'epoca di realizzazione
dell'abuso, e la natura della sanzione demolitoria, finalizzata a riportare
in pristino la situazione esistente e ad eliminare opere abusive in
contrasto con l'ordinato assetto del territorio, impedisce di ascrivere la
stessa al genus delle pene afflittive, cui propriamente si attaglia il
divieto di retroattività (Cons. Stato, sez. II, 12.09.2019, n. 6147;
sez. VI, 21.03.2019, n. 1892; Cons Stato sez. IV, 24.11.2016, n.
4943).
Questi concetti sono stati ribaditi anche da questo Consiglio, nel parere n.
131 del 24.09.2019.
In fatto, comunque, non può dubitarsi della collocazione temporale delle
opere abusive di cui è stata ingiunta la demolizione, con l’ordinanza che ha
dato origine al ricorso in esame.
Innanzitutto si rileva che, dalla documentazione versata in atti (cfr. nota
prot. n. 55848 del 16.02.2016 della direzione urbanistica gestione del
territorio, servizio condono edilizio ed antiabusivismo) e, in particolare,
dal rilievo effettuato nel maggio 2002, non risultano sul terreno acquistato
dal Sig. Ve., le opere oggetto dell’ordinanza impugnata. È di palmare
evidenza, dunque, che esse sono state realizzate in epoca successiva.
Inoltre, in maniera inconfutabile risulta che il Sig. Ep.Ve., con
scrittura privata del 15.05.2004, ha acquistato dalla Sig.ra An.Fi. il terreno sul quale sono state costruite le opere abusive.
Nel verbale della Polizia Municipale, trasmesso alla Procura della
Repubblica presso il Tribunale di Catania, con prot. n. 4808 del 22.09.2005, risulta testualmente che in data
07.05.2004, il Sig.
Ep.Ve., «quale presunto proprietario in virtù della succitata
scrittura» ha presentato istanza alla Provincia Regionale di Catania
ottenendo «il nulla osta n. 17406 per la recinzione di un lotto di terreno
per la collocazione di 2 cancelli di ingresso e per la realizzazione di un
muro divisorio dello stesso lotto censito in catasto al foglio 56 particella
1761 per il rilascio del nullo osta privata domanda alla provincia di Catania
in data 11.06.2004 la VII direzione-servizio autorizzazioni edilizie,
del Comune di Catania rilascia autorizzazione n. 319/04 al presunto
proprietario, Sig. Ve.Ep., per eseguire i lavori per cui è stato
rilasciato il nulla osta di cui sopra».
Quanto alla censura della carenza di motivazione e «il richiamo a precedenti
ordinanze non notificate ai ricorrenti» che avrebbero loro impedito «di
esplicitare le difese», si osserva che, contrariamente a quanto affermato
nel ricorso, la precedente ordinanza n. 7/076 del 15.10.2007, risulta ritualmente notificata ad entrambi i ricorrenti, a mani della sig.ra Pa.Co., moglie del Sig. Ve., il 22.10.2007.
Nella citata ordinanza n. 7/076 del 15.10.2007 viene richiamato
l’analitico verbale del Comando dei Vigili Urbani n. 4808 del 22.09.2005, in cui sono ricostruite cronologicamente i fatti relativi alle opere
in contestazione, ivi incluse le vicende attinenti alla lottizzazione ed ai
successivi procedimenti. L’ordinanza riporta chiaramente i presupposti
giuridici sottesi alla sua emissione, ovvero che le opere sono state
realizzate, senza concessione edificatoria, in area di riserva, sottoposta a
vincolo e tutelata ai sensi dell’art. 142 del d.lgs. 22.01.2014, n.
42.
Emerge con evidente nitore, quindi, che l’ordinanza impugnata con il ricorso
in oggetto contiene sia i presupposti di fatto che le ragioni giuridiche che
hanno determinato la decisione dell’amministrazione in relazione
all’istruttoria, così come previsto dall’art. 3 della l. n. 241/1990.
Il
dirigente, infatti, nell’ordinanza n. 349/Urb del 14.04.2015, richiama
il precedente provvedimento sanzionatorio n. 7/076 del 13.10.2017,
riporta la descrizione delle opere abusive consistenti in «una casa terrana
in muratura con tetto in pannelli termocoibentati di mq. 40 circa, una platea
in cls di mq. 70 circa con soprastante roulette e la recinzione di un
lotto», ed, oltre citare le norme violate, indica esplicitamente che «le
opere abusive sono state eseguite su aree vincolate da leggi regionali
vigenti a riserva naturale “Oasi del Simeto” per effetto del decreto
dell’assessorato Territorio ed Ambiente n. 85 del 14.03.1984 e quindi
tutelate ai sensi dell’art. 142 del d.lgs. del 22.01.2004 n. 42.».
A questo punto, anche per costante orientamento giurisprudenziale,
l’ingiunzione di demolizione gravata non può ritenersi carente di
motivazione, poiché si caratterizza come atto dovuto, in presenza della
constatata realizzazione dei manufatti edilizi senza titolo abilitativo. È
pacifico che non è richiesta una particolare motivazione volta ad
evidenziare le specifiche ragioni di pubblico interesse che impongono di
darle corso. La repressione degli abusi edilizi si connota, infatti, come un
preciso obbligo dell'Amministrazione, che non gode di alcuna discrezionalità
al riguardo (ex multis cfr. Cons. Stato, sez. VI, 10.12.2018, n.
6955)
(CGARS,
parere 10.10.2019 n. 173 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Pèer
pacifico orientamento giurisprudenziale, si ritiene che un manufatto, per
essere considerato pertinenza, non solo deve essere preordinato ad una
oggettiva accessorietà dell’edificio principale e funzionalmente inserito al
suo servizio, ma deve anche essere sfornito di un autonomo valore di mercato
e dotato comunque di un volume modesto rispetto all’edificio principale, in
modo da evitare un eccessivo carico urbanistico.
---------------
6.3) Anche il
terzo motivo è infondato.
L’Ufficio legislativo e legale, correttamente ed esaustivamente riferisce,
nella relazione indicata in epigrafe, che le opere realizzate dai ricorrenti
in area di riserva, sottoposta a vincolo, non hanno le caratteristiche per
essere considerate pertinenze, e, comunque, non ogni intervento
pertinenziale è esonerato dal permesso di costruire.
Occorre premettere, infatti, che è incontestato che le opere abusive in
parola ricadono in area soggetta al vincolo di inedificabilità, perimetrata
come area di protezione della riserva (preriserva), zona “B”.
Con decreto dell’assessorato del territorio e dell’ambiente di «modifica
della perimetrazione e approvazione del regolamento della riserva naturale
“Oasi del Simeto”» (Gazzetta Ufficiale Regione Siciliana n. 59 del 17.12.1999), all’art. 3, vengono disciplinate le attività consentite
nell’area di protezione della riserva, con la specificazione che «le nuove
costruzioni devono avere esclusiva destinazione d’uso alla fruizione e alle
attività della gestione della riserva» e che tutte le opere sono soggette al
nulla osta dell’assessorato, previo parere del consiglio regionale
protezione patrimonio naturale.
Viene precisato, altresì, che sono
consentiti interventi solo sugli immobili esistenti, limitatamente a quelli
previsti «alle lettere a), b), c), d) dell’art. 20 della legge regionale n.
71/1978. Gli interventi di cui alla lettera d) sono consentiti
esclusivamente per le finalità di gestione e fruizione della riserva, previo
nulla osta dell’assessorato sentito il parere del C.P.P.P.N. (consiglio
regionale protezione patrimonio naturale)».
Per queste ragioni le opere realizzate dalla Sig.ra Co. all’interno
dell’area di preriserva non rientrano tra quelle consentite, anche perché i
ricorrenti, sui quali incombeva l’onere, non hanno dato prova, della loro
destinazione alla gestione e fruizione della riserva. Anzi affermano il
contrario, ovvero che «l’immobile costituisce una piccola pertinenza del
terreno circostante e costituisce un riparo per i mezzi di proprietà dei
ricorrenti».
I ricorrenti pretenderebbero, quindi, di far derivare l’illegittimità
dell’ordinanza impugnata dalla violazione dell’art. 5 della l.r. n. 37/1985.
In premessa si osserva che l’articolo testé citato disciplina quali sono le
opere soggette ad autorizzazione e non a concessione, e che, comunque, i
manufatti realizzati dai ricorrenti risultano sforniti anche
dell’autorizzazione prevista dall’invocato art. 5 della l.r. n. 37/1985.
È evidente che il presupposto perché un manufatto possa essere considerato
pertinenza è dato dalla relazione con altro immobile principale, al quale
deve essere funzionalmente legato, senza incidere sul carico urbanistico.
I ricorrenti, per pacifica ammissione, invece, hanno realizzato un immobile
destinato «a riparo per mezzi di proprietà», che, da un lato, si
caratterizza come “autonomo” perché non connesso con altro manufatto
principale, dall’altro, per le consistenti dimensioni (40 mq. + una platea
in calcestruzzo di circa 70 mq. con sovrastante roulotte) determina un
evidente carico urbanistico, che ai sensi della legge n. 37/1985, -ove mai
fosse stato possibile costruire in zona di preriserva- abbisognava di
permesso di costruire.
Per completezza è utile ribadire che, per pacifico
orientamento giurisprudenziale, anche di questo Consiglio, si ritiene che un
manufatto, per essere considerato pertinenza, non solo deve essere
preordinato ad una oggettiva accessorietà dell’edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma deve anche essere sfornito di un
autonomo valore di mercato e dotato comunque di un volume modesto rispetto
all’edificio principale, in modo da evitare un eccessivo carico urbanistico
(cfr. Cgars, sez. riun., 08.05.2012, n. 241).
Si aggiunga che nemmeno la contestata recinzione (con mattoni in cemento,
rete metallica, cancelli carrabili in ferro) può farsi rientrare tra le
pertinenze di cui all’art. 5 della legge regionale n. 37/1985, come invece
pretenderebbero i ricorrenti. Infatti, il citato decreto dell’assessorato
del territorio e dell’ambiente di «modifica della perimetrazione e
approvazione del regolamento della riserva naturale Oasi del Simeto..» (G.U.R.S. n.
59 del 17.12.1999), all’art. 3, detta una disciplina specifica che
prevede la possibilità di «recintare la proprietà esclusivamente con siepi a
verde e/o materiali naturali secondo l’uso locale e con l’impianto di specie autoctone.».
Anche con riferimento alla roulotte si precisa che il citato decreto ne
prevede il divieto espresso di collocazione nelle zone “A”, mentre, per le
zone “B” vale il principio generale che le attività consentite sono solo
quelle dirette alla fruizione ed alla gestione della riserva.
Alla luce delle superiori considerazioni il ricorso non è, pertanto,
meritevole di accoglimento
(CGARS,
parere 10.10.2019 n. 173 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ordinanza
di demolizione costituisce un atto dovuto in presenza della constatata
realizzazione dell'opera edilizia senza titolo abilitativo od in totale
difformità da esso.
Essa è sufficientemente motivata con l'affermazione dell'accertata abusività
dell'opera e non richiede una particolare motivazione volta ad evidenziare
le specifiche ragioni di pubblico interesse che impongono di darle corso (ch’è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato ed alla
possibilità di adottare provvedimenti alternativi), nemmeno nei casi in cui
la reazione dell'Ente preposto alla vigilanza intervenga a notevole distanza
di tempo, in quanto la repressione degli abusi edilizi si connota come un
preciso obbligo dell'Amministrazione, che non gode di alcuna discrezionalità
al riguardo.
E’ infatti ormai stato definitivamente chiarito (Cons. Stato, Adunanza
plenaria n. 9 del 2017) che non può aver rilievo, ai fini della validità
del provvedimento di demolizione, il tempo trascorso tra la commissione
dell’abuso e la adozione del provvedimento sanzionatorio.
Ed invero “la mera
inerzia da parte dell'amministrazione nell'esercizio di un potere-dovere
finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è
idonea a far divenire legittimo ciò che (l'edificazione sine titulo) è sin
dall'origine illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente
radicare un affidamento di carattere 'legittimo' in capo al proprietario
dell'abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo
a ingenerare un'aspettativa giuridicamente qualificata. Non si può applicare
a un fatto illecito (l'abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in
tema di valutazione dell'interesse pubblico, è stato enucleato per la
diversa ipotesi dell'autotutela decisoria.
Non è in alcun modo concepibile
l'idea stessa di connettere al decorso del tempo e all'inerzia
dell'amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare
l'abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura
l'edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna
possibile giustificazione normativa a una siffatta -e inammissibile- forma
di sanatoria automatica. Se pertanto il decorso del tempo non può incidere
sull'ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l'illecito
attraverso l'adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere
escluso che l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo debba essere
motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al
ripristino della legalità violata.
In tal caso, è del tutto congruo che
l'ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al
comprovato carattere abusivo dell'intervento, senza che si impongano sul
punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell'autotutela
decisoria. Il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la
posizione giuridica dell'interessato, rafforza piuttosto il carattere
abusivo dell'intervento: l'eventuale connivenza degli amministratori locali
pro tempore o anche la mancata conoscenza dell'avvenuta commissione di abusi
non fa venire meno il dovere dell'Amministrazione di emanare senza indugio
gli atti previsti a salvaguardia del territorio".
---------------
La prima doglianza, relativa alla presunta
inadeguatezza della motivazione dell'ordinanza impugnata, è priva di pregio
in quanto, secondo costante orientamento giurisprudenziale, l'ingiunzione di
demolizione costituisce un atto dovuto in presenza della constatata
realizzazione dell'opera edilizia senza titolo abilitativo od in totale
difformità da esso.
Essa è sufficientemente motivata con l'affermazione dell'accertata abusività
dell'opera e non richiede una particolare motivazione volta ad evidenziare
le specifiche ragioni di pubblico interesse che impongono di darle corso (ch’è
in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato
ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi), nemmeno nei
casi in cui la reazione dell'Ente preposto alla vigilanza intervenga a
notevole distanza di tempo, in quanto la repressione degli abusi edilizi si
connota come un preciso obbligo dell'Amministrazione, che non gode di alcuna
discrezionalità al riguardo (cfr., ex pluris, CGA, sez. riunite n. 220/2017,
adunanza 12.12.2017, pubblicata al n. 81/2018 in data 22/02/2018; CGA
sez. riunite n. 1045/2015, adunanza del 15.11.2016, pubblicato al n. 33/17
in data 23/01/2017; CGA sez. riunite n. 561/2015, adunanza del 03.05.2016, pubblicato al n. 818/16 in data
07/07/2016).
E’ infatti ormai stato definitivamente chiarito (Cons. Stato, Adunanza
plenaria n. 9 del 2017) che non può aver rilievo, ai fini della validità
del provvedimento di demolizione, il tempo trascorso tra la commissione
dell’abuso e la adozione del provvedimento sanzionatorio.
Ed invero “la mera
inerzia da parte dell'amministrazione nell'esercizio di un potere-dovere
finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è
idonea a far divenire legittimo ciò che (l'edificazione sine titulo) è sin
dall'origine illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente
radicare un affidamento di carattere 'legittimo' in capo al proprietario
dell'abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo
a ingenerare un'aspettativa giuridicamente qualificata. Non si può applicare
a un fatto illecito (l'abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in
tema di valutazione dell'interesse pubblico, è stato enucleato per la
diversa ipotesi dell'autotutela decisoria.
Non è in alcun modo concepibile
l'idea stessa di connettere al decorso del tempo e all'inerzia
dell'amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare
l'abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura
l'edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna
possibile giustificazione normativa a una siffatta -e inammissibile- forma
di sanatoria automatica. Se pertanto il decorso del tempo non può incidere
sull'ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l'illecito
attraverso l'adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere
escluso che l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo debba essere
motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al
ripristino della legalità violata.
In tal caso, è del tutto congruo che
l'ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al
comprovato carattere abusivo dell'intervento, senza che si impongano sul
punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell'autotutela
decisoria. Il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la
posizione giuridica dell'interessato, rafforza piuttosto il carattere
abusivo dell'intervento: l'eventuale connivenza degli amministratori locali
pro tempore o anche la mancata conoscenza dell'avvenuta commissione di abusi
non fa venire meno il dovere dell'Amministrazione di emanare senza indugio
gli atti previsti a salvaguardia del territorio".
Nella fattispecie, peraltro, l'ordinanza impugnata è esente dai vizi
dedotti, in quanto reca la compiuta descrizione delle opere abusive con
riferimento puntuale alla comunicazione di opere abusive prot. n. 7858 del
02.12.2013 del Corpo di Polizia municipale, la constatazione della loro
esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio e
l'individuazione della norma applicata, ogni altra indicazione esulando dal
contenuto tipico del provvedimento; il che vale a rendere coerente,
legittimo e vincolato il provvedimento con il quale il Comune ha disposto la
demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi, a tanto bastando il
solo carattere abusivo delle opere, a prescindere dall’individuazione delle
norme urbanistiche e di vincolo che siano state con la loro esecuzione
violate
(CGARS,
parere 13.03.2019 n. 58 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, la nozione di
"pertinenza urbanistica" è meno ampia di quella civilistica e va definita
sia in relazione alle necessità ed oggettività del rapporto pertinenziale,
sia in base alla consistenza dell'opera, che deve essere tale da non
alterare in modo significativo l'assetto del territorio e che, in ogni caso,
deve inquadrarsi nei limiti di un rapporto adeguato e non esorbitante
rispetto alla esigenza di un uso effettivo e normale del soggetto che
risiede nell'edificio principale (legittimamente edificato).
Ciò significa che il manufatto "pertinenziale" deve essere non solo
preordinato ad una oggettiva accessorietà rispetto all'edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma deve anche essere sfornito di un
autonomo valore di mercato e dotato comunque di un volume modesto rispetto
all'edificio principale, in modo da evitare un eccessivo ed ingiustificato
carico urbanistico.
Con particolare riferimento alle tettoie, poi, la giurisprudenza
amministrativa ha evidenziato che quando la tettoia sia di consistenza
oggettivamente notevole e, quindi, in grado, ex se, di alterare in modo
significativo l'assetto del territorio, allora essa si sottrae per ciò
stesso ad una definizione in termini di pertinenza e richiede, piuttosto, il
rilascio di un apposito ed adeguato titolo concessorio, anche se dovesse
trovarsi in rapporto con altro bene (cd. principale) e quantunque sia in
potenza smontabile.
---------------
Con il terzo motivo di ricorso, i ricorrenti, sia con riferimento alle
suddette tettoie precarie, sia con riferimento alle tettoie di mq. 15 e di
mq. 17, adiacenti alle stalle ed al piccolo locale in muratura adibito a
ripostiglio di mq. 5, sostengono che trattasi di opere aventi natura pertinenziale, per le quali non è necessario il rilascio di titoli edilizi.
Entrambe le censure, che possono formare oggetto di unitaria trattazione,
sono da ritenere inconsistenti, in quanto dal provvedimento impugnato
risulta che le opere sanzionate sono state realizzate in un'area sottoposta
a vincolo sismico ed aeronautico in altezza.
Invero, dette opere non rientrano nella tipologia delle opere che l’invocato
art. 20 L.R. n. 4/2003 esonera da concessione ed autorizzazione: la prima, in
quanto eccedente il limite massimo di superficie stabilito dal comma 1 del
citato art. 20; entrambe in quanto realizzate su aree soggette a vincolo
sismico ed aeronautico senza l’acquisizione preventiva del nulla-osta
prevista dallo stesso comma 1 (invero, espressamente, con riferimento al
solo nulla-osta della Soprintendenza dei beni culturali ed ambientali, ma
con previsione che non può che intendersi riferita a qualsiasi vincolo ed
all’Autorità di volta in volta competente per la tutela dello stesso).
Peraltro, i ricorrenti non dimostrano, con riferimento alle invocate
avvenute attenuazioni dei vincoli aeroportuali in alcune zone del territorio
comunale, né che gli immobili abusivi di cui si tratta rientrino in dette
zone, né ch’essi abbiano effettivamente un’altezza inferiore a quella
massima ( 11 metri ) per le zone stesse prevista.
L'adozione della sanzione demolitoria è quindi da considerarsi legittima,
trattandosi di opere che, indipendentemente dal regime edilizio cui
soggiacciono, sono state realizzate in area vincolata in assenza del
prescritto nulla osta del Genio civile (cfr. CGARS sez. riunite, 02.02.2016, n. 194/2015, pubblicato col n. 251/16 in data
02/03/2016).
Nel caso di specie, comunque, le opere abusivamente realizzate non hanno
affatto caratteristiche tali da poter essere ricondotte nel novero delle
opere pertinenziali e non sono possono affatto esser ricomprese tra quelle
che la normativa richiamata dai ricorrenti esclude dalla soggezione al
regime concessorio.
Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, la nozione di
"pertinenza urbanistica" è meno ampia di quella civilistica e va definita
sia in relazione alle necessità ed oggettività del rapporto pertinenziale,
sia in base alla consistenza dell'opera, che deve essere tale da non
alterare in modo significativo l'assetto del territorio e che, in ogni caso,
deve inquadrarsi nei limiti di un rapporto adeguato e non esorbitante
rispetto alla esigenza di un uso effettivo e normale del soggetto che
risiede nell'edificio principale (legittimamente edificato).
Ciò significa che il manufatto "pertinenziale" deve essere non solo
preordinato ad una oggettiva accessorietà rispetto all'edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma deve anche essere sfornito di un
autonomo valore di mercato e dotato comunque di un volume modesto rispetto
all'edificio principale, in modo da evitare un eccessivo ed ingiustificato
carico urbanistico (cfr. CGARS sez. riunite, 18.10.2016, n.
475/2015, pubblicato col n. 1251/16 in data 15/12/2016).
Con particolare riferimento alle tettoie, poi, la giurisprudenza
amministrativa ha evidenziato che quando la tettoia sia di consistenza
oggettivamente notevole e, quindi, in grado, ex se, di alterare in modo
significativo l'assetto del territorio, allora essa si sottrae per ciò
stesso ad una definizione in termini di pertinenza e richiede, piuttosto, il
rilascio di un apposito ed adeguato titolo concessorio, anche se dovesse
trovarsi in rapporto con altro bene (cd. principale) e quantunque sia in
potenza smontabile.
Nel caso di specie, le due tettoie abusive in contestazione adibite,
rispettivamente, a fienile (mq. 60) ed a parcheggio (mq. 30), sicuramente,
non hanno dimensioni modeste e nemmeno possono essere considerate opere
"precarie", in quanto esse, sebbene così siano definite nell'ordinanza
impugnata, sono fissate al suolo; né i ricorrenti forniscono, ai sensi
dell’art. 2697 c.c., alcun principio di prova circa la loro agevole
rimovibilità.
Le suddette tettoie, infine, neppure rientrano -per dimensioni (quella
adibita a fienile) e per caratteristiche costruttive- nella tipologia di
"opere interne" di cui all'art. 20 della l.r. n. 4/2003, giacché
obiettivamente non destinate alla soddisfazione di esigenze temporanee e
contingenti, ma volte a fornire un'utilità indefinitamente prolungata nel
tempo (cfr. CGARS, sez. riunite, n. 595/2013, adunanza del 12.11.2013, pubblicato col n. 1548/13 in data 18712/2013).
Sono parimenti da ritenere assoggettate al regime concessorio anche le altre
opere abusive a cui espressamente si fa riferimento nel terzo motivo di
ricorso e cioè le due tettoie di mq. 15 e di mq. 17, adiacenti alle stalle
abusive ed il piccolo locale in muratura adibito a ripostiglio di mq. 5.
Per quanto riguarda le prime, si osserva che esse sarebbero al più
"pertinenza" non già del preesistente fabbricato che insiste nello stesso
lotto di terreno e per cui è pendente istanza di condono (circostanza,
questa, a cui fa riferimento l'Amministrazione nelle sue memorie difensive e
su cui replicano i ricorrenti con la memoria depositata il 25.05.2018),
ma delle stalle, alle quali sono adiacenti, che, tuttavia, non sono state
legittimamente edificate.
A tal riguardo i ricorrenti nulla obiettano circa la natura abusiva delle
stalle stesse, per cui, anche se le tettoie sanzionate avessero natura
pertinenziale, esse ripeterebbero le caratteristiche di illegittimità delle
opere cui sono connesse e costituirebbero, dunque, abusiva prosecuzione
delle stesse (Cass. Penale, Sez. II, 03.02.2011, n. 3885; CGARS,
sez riunite, 17.06.2014, n. 1126/2013, pubblicato col n. 827/14 in data
07/08/2014).
Con riferimento, poi, al piccolo locale in muratura adibito a ripostiglio di
mq 5, si osserva che
la sanzione demolitoria appare legittimamente disposta anche con riferimento
al ripostiglio, in quanto, come sopra già rilevato, l'opera,
indipendentemente dal regime edilizio cui soggiace, è stata realizzata in
zona soggetta a vincolo aeronautico (di cui non viene provata l’affermata
sua non applicabilità alla fattispecie) e sismico, con conseguente
necessità, ai fini della sua regolare realizzazione, del permesso di
costruire da rilasciarsi previo parere favorevole delle autorità preposte
alla tutela dei vincoli medesimi
(CGARS,
parere 13.03.2019 n. 58 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nei procedimenti preordinati
all'emanazione di ordinanze di demolizione di opere edilizie abusive non
trova applicazione l'obbligo di comunicare l'avvio dell'iter procedimentale,
in ragione del carattere dovuto e rigorosamente vincolato del potere
repressivo esercitato; e ciò anche alla luce delle previsioni dell'art.
21-octies della legge n. 241/1990.
---------------
Non appaiono fondate, infine, le censure dedotte con il quarto motivo di
ricorso, con cui viene denunciata l'omissione, nei confronti dei ricorrenti,
della comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio di cui trattasi.
Come più volte chiarito da questo Consiglio, nei procedimenti preordinati
all'emanazione di ordinanze di demolizione di opere edilizie abusive non
trova applicazione l'obbligo di comunicare l'avvio dell'iter procedimentale,
in ragione del carattere dovuto e rigorosamente vincolato del potere
repressivo esercitato; e ciò anche alla luce delle previsioni dell'art.
21-octies della legge n. 241/1990 (cfr., ex multis, CGA, sez. riunite, n.
33/2017, adunanza del 23.01.2017, pubblicato al n. 411/2017 in data
17/05/2017; CGA sez. riunite n. 78/2017, adunanza del 09.05.2017,
pubblicato al n. 685/2017 in data 07/07/2017; CGA sez. riunite, n. 60/2017,
adunanza del 12.09.2017, pubblicato al n. 800/2017 in data
25/09/2017).
Nel caso di specie il Comune ha sufficientemente dimostrato (come ben si
evince del resto dal dictum reiettivo di questo Collegio sui restanti motivi
di ricorso) che la partecipazione dei privati al procedimento apertosi con
la comunicazione del Corpo di Polizia Municipale n. 7858 del 02.12.2013 (confermata nei suoi esiti dalla successiva comunicazione dello stesso Corpo prot. n. 3241 del 30/05/2017 relativa ad un sopralluogo effettuato in loco in
data 13/4/2017 alla presenza della comproprietaria e committente Iz.Vi.) non avrebbe potuto portare ad un contenuto diverso del
provvedimento stesso.
Peraltro, la presenza della odierna ricorrente sig.ra Vi.Iz. in
occasione dei predetti accertamenti (v. nota comunale n. 3241/PM del 30.05.2017, in atti) è certamente valsa a consentire perlomeno ad uno di
proprietari, con onere per lo stesso di informare i restanti proprietari, di
cogliere la portata dell’accertamento in corso e le sue possibili
conseguenze, con conseguente possibilità di attivarsi in via amministrativa
per evitarle ove possibile.
Anche alla luce del totale disinteresse così manifestato dai responsabili
dell’abuso circa le sue possibili conseguenze, il Comune, accertata
l'abusiva realizzazione delle opere, non poteva non diffidare i ricorrenti a
demolire le opere ed a ripristinare lo stato dei luoghi; ciò con il
provvedimento demolitorio e ripristinatorio all’esame, emesso per sanzionare
esclusivamente violazioni urbanistiche e che risulta, come già sottolineato,
adeguatamente motivato a mezzo dell'affermazione della realizzazione di
opere in assenza di titolo, con contestuale richiamo alla normativa violata
(“opere … realizzate in assenza di concessione edilizia” con
conseguente applicazione della previsione di cui all’art. 31 del D.P.R.
380/2001), non occorrendo alcuna specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di queste ultime con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati
(CGARS,
parere 13.03.2019 n. 58 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA: Le società a cui medio tempore sono stati rilasciati i titoli edilizi per la
realizzazione delle suddette opere di urbanizzazione sono
subentrate negli obblighi assunti dagli originari lottizzanti: si tratta
infatti di obbligazioni propter rem, cioè di obblighi che devono essere
adempiuti non solo da colui che la convenzione ha stipulato, ma anche da
colui, se soggetto diverso, che richiede il titolo edilizio.
---------------
Quando il dato letterale della convenzione è tale da
far gravare su tutti i lottizzanti l’obbligo di eseguire le opere di
urbanizzazione, gli stessi lottizzanti devono ritenersi obbligati in solido,
ai sensi dell’art. 1294 cod. civ..
Si tratta, del resto, di un caso di
identità qualitativa delle prestazioni (eadem res debita), perché relative
ad opere di urbanizzazione da realizzare complessivamente in quel comparto,
e non v’è quindi motivo per escludere il vincolo di solidarietà tra i vari
soggetti, e relativi aventi causa, che hanno assunto l’obbligo di eseguirle.
---------------
2) Il ricorso è fondato e va accolto, nei termini di seguito indicati.
2.1 La convenzione rep. 15859 sottoscritta in data 21.07.2004, ad
integrazione e modifica dell’originaria convenzione del 10.03.1993,
prevedeva una serie di opere di urbanizzazione da realizzare a carico dei
lottizzanti.
Le società a cui medio tempore sono stati rilasciati i titoli edilizi per la
realizzazione delle suddette opere di urbanizzazione (cioè CO. s.r.l.,
RB.Im. s.r.l., Ve.2000 s.r.l. e Ai. 2005 s.r.l.) sono
subentrate negli obblighi assunti dagli originari lottizzanti: si tratta
infatti di obbligazioni propter rem, cioè di obblighi che devono essere
adempiuti non solo da colui che la convenzione ha stipulato, ma anche da
colui, se soggetto diverso, che richiede il titolo edilizio (si veda, tra le
altre, Cassazione civile, sez. III, 20.08.2015 n. 16999).
2.2 Rispetto al profilo della solidarietà o meno dell’obbligazione, il
Collegio osserva quanto segue.
Il Comune ricorrente ha rilasciato in favore delle società resistenti (o
loro danti causa) sia i titoli edilizi relativi alle opere di urbanizzazione
e alla piazza (cfr. docc. da n. 13 a n. 17-quinquies del Comune ricorrente)
sia i titoli per la costruzione degli edifici destinati alla residenza e al
commercio di vicinato (cfr. docc. da n. 23 a n. 29 del Comune ricorrente).
Con nota del 21.02.2014, rilevando gravi inadempienze, l’Amministrazione ha
chiesto a tutti i soggetti sopra citati di provvedere al completamento delle
opere di urbanizzazione, richiamando anche l’art. 4, punto D), della
convenzione del 21.07.2004.
Con successiva nota di diffida, dell'08.09.2014, l’Amministrazione ha ingiunto,
ai sensi degli artt. 1219, 1957 e 2943 c.c., ai 4 operatori, di eseguire a
regola d’arte tutte le opere di urbanizzazione primaria previste nella
Convenzione del 2004, con l’avvertimento che avrebbe proceduto
all’escussione delle fideiussioni e ad adire l’autorità giudiziaria al fine
di ottenere l’adempimento delle obbligazioni assunte dai lottizzanti.
Il Collegio condivide la tesi dell’Amministrazione ricorrente secondo cui
gli operatori privati sarebbero debitori in solido tra loro.
Va in primo luogo evidenziato che le obbligazioni previste nelle convenzioni
urbanistiche sono, per loro natura, idonee a vincolare non solo coloro che
sono proprietari al momento della sottoscrizione della convenzione, ma anche
i successivi aventi causa dello stipulante.
Pertanto tutti i convenuti sono subentrati agli originari sottoscrittori e
sono obbligati in via solidale.
Nella convenzione originaria e nelle successive convenzioni di modifica
l’obbligo di realizzare le opere di urbanizzazione è configurato come una
obbligazione solidale: negli artt. 4 e 5 della convenzione del 1993 “i
lottizzanti si impegnano” alla realizzazione delle opere specificamente
indicate; nella successiva convenzione del 2004 (doc. n. 8 del Comune), sia
all’art. 4 sia il successivo art. 5, nel ribadire i diversi obblighi di
cessione delle aree e di realizzazione delle opere di urbanizzazione, si
parla di “soggetti attuatori”, senza alcuna distinzione tra i lottizzanti
delle opere da realizzare.
Questa Sezione ha già avuto occasione di rilevare che, quando il dato
letterale della convenzione è tale da far gravare su tutti i lottizzanti
l’obbligo di eseguire le opere di urbanizzazione, gli stessi lottizzanti
devono ritenersi obbligati in solido, ai sensi dell’art. 1294 cod. civ. (v.
sent. n. 1816 del 14.09.2017).
Si tratta, del resto, di un caso di
identità qualitativa delle prestazioni (eadem res debita), perché
relative ad opere di urbanizzazione da realizzare complessivamente in quel
comparto, e non v’è quindi motivo per escludere il vincolo di solidarietà
tra i vari soggetti, e relativi aventi causa, che hanno assunto l’obbligo di
eseguirle
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 13.02.2019 n. 312 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
contributo concessorio (comprendente oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione) è un’obbligazione giuridica di tipo pubblicistico che sorge con
il rilascio della concessione edilizia ed è qualificabile come corrispettivo
di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del
costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di
urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici arrecati al nuovo
manufatto.
---------------
L'art. 17, comma 3, lett. b), dpr 380/2001 riprende
sostanzialmente il contenuto dell’art. 9, comma 1, della L. 28/01/1977 n.
10, “in relazione al quale la giurisprudenza aveva avuto modo di chiarire
che il carattere di unifamiliarità di un fabbricato a destinazione abitativa
è ricavabile dalle caratteristiche architettoniche dell’edificio, in ragione
del volume, della superficie, del numero e della funzione e caratteristica
dei vani, in rapporto alle esigenze ed alla possibilità di utilizzo da parte
di un unico nucleo familiare”.
E’ stato tuttavia nello specifico osservato che l'esenzione dal pagamento
dei contributi di cui si discute ha la funzione di agevolare i proprietari
di alloggi unifamiliari, presumendo il legislatore che gli interventi sugli
stessi non abbiano carattere di lucro, ma la sola funzione di migliorare le
condizioni di abitabilità degli edifici medesimi, indipendentemente dalla
loro dimensione.
La disposizione è diretta dunque a promuovere le opere di adeguamento dei
manufatti alle necessità abitative del singolo nucleo familiare,
circoscrivendone l’operatività agli interventi che non mutino
sostanzialmente l’entità strutturale e la dimensione spaziale dell’immobile
e non ne elevino (in modo apprezzabile) il valore economico.
---------------
In linea generale, la partecipazione del privato al
costo delle opere di urbanizzazione è dovuta allorquando l’intervento
determini un incremento del peso insediativo con un’oggettiva rivalutazione
dell’immobile, sicché l'onerosità del permesso di costruire è funzionale a
sopportare il carico socio-economico che la realizzazione comporta sotto il
profilo urbanistico.
Alla luce di tale considerazione, la giurisprudenza ha statuito che
l’esenzione dal contributo di costruzione per il caso di interventi di
ristrutturazione di edifici unifamiliari entro il limite di ampliamento del
20%, costituisce oggetto di una previsione di carattere eccezionale
(applicabile in un ambito di stretta interpretazione ancorato ai parametri
predefiniti dal legislatore): la ratio è di natura sociale ed è diretta
sostanzialmente ad apprestare uno strumento di tutela e di salvaguardia alla
piccola proprietà immobiliare per gli interventi funzionali all’adeguamento
dell’immobile alle necessità abitative del nucleo familiare: l’edificio
unifamiliare, nell’accezione socio economica assunta dalla norma, coincide
in altri termini con la piccola proprietà immobiliare, e soltanto se
presenti tali caratteri è meritevole di un trattamento differenziato.
Il Collegio ritiene di aderire a tale orientamento.
Anche secondo questo, l’esenzione in esame si giustifica come aiuto alla
famiglia che, banalmente, necessiti di ulteriore spazio per la propria
decorosa sistemazione abitativa. La giurisprudenza recente ha parimenti
sostenuto che “la ratio che ispira la specifica esenzione ha un fondamento
sociale, con l’effetto che la nozione di edificio unifamiliare non deve
avere una accezione strutturale ma socio-economica, coincidendo con la
piccola proprietà immobiliare, meritevole per gli interventi di
ristrutturazione dell’abitazione di un trattamento differenziato rispetto
alle altre tipologie edilizie …” (e in quel caso si è stabilito che la
suddetta esenzione non può trovare applicazione in una fattispecie relativa
a una villa di 19 vani con una superficie di 638,41 mq.).
Accedendo a tale approccio interpretativo, anche il TAR Campania Salerno,
sez. I – 22/06/2015 n. 1416 ha desunto l’estraneità della fattispecie
affrontata (si controverteva dell’intervento su un fabbricato di 13 vani,
avente volumetria complessiva di mc. 1.338,78, distribuiti su tre livelli)
all’alveo applicativo della norma invocata, “proprio in considerazione delle
rilevate caratteristiche costruttive e dimensionali dell’edificio ancorché
unifamiliare”.
---------------
La Società ricorrente, che ha ottenuto il titolo abilitativo per i lavori di
ristrutturazione e ampliamento di un edificio unifamiliare, censura la
pretesa del Comune di applicare il contributo sul costo di costruzione. La
controversia ha quindi ad oggetto un giudizio di accertamento negativo in
ordine all’obbligazione pecuniaria relativa al pagamento del contributo di
costruzione, nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, rispetto alla quale gli atti di liquidazione sono privi di
contenuto ed effetti provvedimentali (Consiglio di Stato, sez. IV –
01/02/2017 n. 425).
Il gravame è infondato e deve essere rigettato.
0. Il Collegio richiama anzitutto i principi giurisprudenziali elaborati
nella materia controversa, per cui il contributo concessorio (comprendente
oneri di urbanizzazione e costo di costruzione) è un’obbligazione giuridica
di tipo pubblicistico che sorge con il rilascio della concessione edilizia (cfr.
Consiglio di Stato, sez. VI – 07/02/2017 n. 728) ed è qualificabile come
corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico
del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di
urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici arrecati al nuovo
manufatto (Consiglio di Stato, sez. IV – 29/10/2015 n. 4950).
1. Le disposizioni che regolano la fattispecie si rinvengono negli artt. 16
e 17 del DPR 380/2001. L’art. 16, (rubricato “Contributo per il rilascio
del permesso di costruire”), dispone al comma 1 che “Salvo quanto
disposto dall'articolo 17, comma 3, il rilascio del permesso di costruire
comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli
oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, secondo le modalità
indicate nel presente articolo e fatte salve le disposizioni concernenti gli
interventi di trasformazione urbana complessi di cui al comma 2-bis”. Ai
sensi dell’art. 17, comma 3, lett. b), il contributo di costruzione non è
dovuto “per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in
misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”.
Nel caso di specie, è pacifica la natura dell’intervento, consistente nella
ristrutturazione con incremento realizzato nel rispetto del limite del 20% (cfr.
memoria di costituzione del Comune, pag. 5).
2. La norma riprende sostanzialmente il contenuto dell’art. 9, comma 1,
della L. 28/01/1977 n. 10, “in relazione al quale la giurisprudenza (cfr.
TAR 07.09.1999 n. 770; TAR Veneto 30.03.1996 n. 480) aveva avuto modo di
chiarire che il carattere di unifamiliarità di un fabbricato a destinazione
abitativa è ricavabile dalle caratteristiche architettoniche dell’edificio,
in ragione del volume, della superficie, del numero e della funzione e
caratteristica dei vani, in rapporto alle esigenze ed alla possibilità di
utilizzo da parte di un unico nucleo familiare” (cfr. TAR Brescia, sez.
I – 13/05/2011 n. 713).
3. E’ stato tuttavia nello specifico osservato (cfr. sentenza Sezione
10/08/2012 n. 1446, che risulta appellata) che l'esenzione dal pagamento dei
contributi di cui si discute ha la funzione di agevolare i proprietari di
alloggi unifamiliari, presumendo il legislatore che gli interventi sugli
stessi non abbiano carattere di lucro, ma la sola funzione di migliorare le
condizioni di abitabilità degli edifici medesimi, indipendentemente dalla
loro dimensione (Consiglio di Stato, sez. IV – 11/10/2006 n. 6065). La
disposizione è diretta dunque a promuovere le opere di adeguamento dei
manufatti alle necessità abitative del singolo nucleo familiare,
circoscrivendone l’operatività agli interventi che non mutino
sostanzialmente l’entità strutturale e la dimensione spaziale dell’immobile
e non ne elevino (in modo apprezzabile) il valore economico.
Sostiene la difesa comunale che la ricorrente ha ristrutturato un edificio
dismesso che ospitava più famiglie, per favorire l’esercizio di un’attività
di ristorazione (e quindi a fini di lucro), e che solo il particolare
momento congiunturale non ha consentito di individuare una figura
professionale per la gestione dell’attività, cosicché la proprietà ha scelto
di riconvertire l’immobile a residenza.
Detto ordine di idee merita di essere condiviso.
4. Osserva il Collegio che, in linea generale, la partecipazione del privato
al costo delle opere di urbanizzazione è dovuta allorquando l’intervento
determini un incremento del peso insediativo con un’oggettiva rivalutazione
dell’immobile, sicché l'onerosità del permesso di costruire è funzionale a
sopportare il carico socio-economico che la realizzazione comporta sotto il
profilo urbanistico. Alla luce di tale considerazione, la giurisprudenza (cfr.
TAR Campania Napoli, sez. VIII – 09/05/2012 n. 2136) ha statuito che
l’esenzione dal contributo di costruzione per il caso di interventi di
ristrutturazione di edifici unifamiliari entro il limite di ampliamento del
20%, costituisce oggetto di una previsione di carattere eccezionale
(applicabile in un ambito di stretta interpretazione ancorato ai parametri
predefiniti dal legislatore): la ratio è di natura sociale ed è
diretta sostanzialmente ad apprestare uno strumento di tutela e di
salvaguardia alla piccola proprietà immobiliare per gli interventi
funzionali all’adeguamento dell’immobile alle necessità abitative del nucleo
familiare: l’edificio unifamiliare, nell’accezione socio economica assunta
dalla norma, coincide in altri termini con la piccola proprietà immobiliare,
e soltanto se presenti tali caratteri è meritevole di un trattamento
differenziato (TAR Lombardia Milano, sez. IV – 02/07/2014 n. 1707).
5. Il Collegio ritiene di aderire a tale orientamento.
Anche secondo questo TAR (cfr. sez. I – 21/11/2014 n. 2180), l’esenzione in
esame si giustifica come aiuto alla famiglia che, banalmente, necessiti di
ulteriore spazio per la propria decorosa sistemazione abitativa. La
giurisprudenza recente (cfr. TAR Toscana, sez. III – 26/04/2017 n. 616), ha
parimenti sostenuto che “la ratio che ispira la specifica esenzione ha un
fondamento sociale, con l’effetto che la nozione di edificio unifamiliare
non deve avere una accezione strutturale ma socio-economica, coincidendo con
la piccola proprietà immobiliare, meritevole per gli interventi di
ristrutturazione dell’abitazione di un trattamento differenziato rispetto
alle altre tipologie edilizie …” (e in quel caso si è stabilito che la
suddetta esenzione non può trovare applicazione in una fattispecie relativa
a una villa di 19 vani con una superficie di 638,41 mq.).
Accedendo a tale approccio interpretativo, anche il TAR Campania Salerno,
sez. I – 22/06/2015 n. 1416 ha desunto l’estraneità della fattispecie
affrontata (si controverteva dell’intervento su un fabbricato di 13 vani,
avente volumetria complessiva di mc. 1.338,78, distribuiti su tre livelli)
all’alveo applicativo della norma invocata, “proprio in considerazione
delle rilevate caratteristiche costruttive e dimensionali dell’edificio
ancorché unifamiliare”
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 26.04.2018 n. 449 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA: Come
noto, in caso di obbligazione solidale, gli eventuali accordi intervenuti
fra i diversi debitori, aventi ad oggetto la ripartizione dell’obbligazione,
hanno effetti puramente interni e non limitano, quindi, il potere del
creditore di rivolgersi contro uno qualsiasi di essi al fine di ottenere
l’intera prestazione, salva l’azione di regresso prevista dall’art. 1299
cod. civ..
Siccome poi gli accordi interni non intaccano la prerogativa del
creditore di rivolgersi ad uno qualsiasi dei debitori, a maggior ragione, si
deve escludere che tali accordi facciano insorgere in capo al creditore
medesimo l’obbligo di agire nei confronti dei soggetti che, in base agli
accordi interni, sono stati individuati quali esclusivi destinatari
dell’obbligazione, e ciò neppure se dall’esecuzione della prestazione possa
derivare un beneficio per gli altri coobbligati. E’ salvo, ovviamente, il
potere di questi ultimi di agire direttamente nei confronti dei primi
qualora ve ne sia titolo, facendo valere i diritti nascenti dagli accordi
interni.
E può forse ritenersi salva la possibilità per il singolo
coobbligato –il quale ritenga che il creditore, con il proprio complessivo
comportamento, abbia in qualche modo pregiudicato il suo diritto, sancito da
accordi interni, di ottenere da uno degli altri coobbligati l’esecuzione
dell’obbligazione solidale di cui anch’egli abbia interesse– di esperire
azione risarcitoria extracontrattuale (da proporre dinanzi ai competenti
organi) nei confronti del creditore medesimo per lesione del suo diritto di
credito. Ciò che non si può ammettere è invece l’azione contrattuale volta,
come nel caso in esame, ad ottenere l’accertamento dell’inadempimento e la
condanna del creditore per obblighi specifici che su lui non gravano.
---------------
9. Come anticipato, con il ricorso in esame, la ricorrente lamenta
principalmente che il Comune di Secugnago non avrebbe adempiuto agli
obblighi su di esso posti dalla convenzione di lottizzazione stipulata in
data 29.11.2005 che, come detto, interessa l’area ex Sc..
10. Gli obblighi cui si riferisce la ricorrente sono quelli indicati dalla
art. 7 della convenzione il quale stabilisce che i lottizzanti sono tenuti a
realizzare, a propria cura e spese, le seguenti opere di urbanizzazione
primaria e secondaria: a) strade di piano di lottizzazione; b) segnaletica
verticale ed orizzontale; c) parcheggio e zone a verde; d) rete fognatura
acque bianche e nere; d) rete di pubblica illuminazione; e) rete ENEL; f)
rete gas-metano; g) rete Telecom; h) rete acqua potabile; i) interventi
modificativi su elettrodotto; l) interventi su rete idrica; m) strada di
collegamento alla S.S. Via Emilia (acquisizione compresa); n) raccordo
ferroviario.
11. Il valore degli interventi è stimato in: euro 1.455.958,27 per le opere
di urbanizzazione, euro 88.779,58 per le opere esterne al piano di
lottizzazione, ed in euro 800.000 per la realizzazione del collegamento
stradale con la S.S. Via Emilia.
12. Il successivo art. 8 stabilisce poi che le suddette opere <<…devono
essere iniziate entro mesi 12 (dodici), previa presentazione di polizza fideiussoria pari al 100%, dalla stipula della presente convenzione […] e
terminate entro anni 2 dalla data di Inizio dei Lavori>>.
13. Tutti questi obblighi, come emerge chiaramente dal dato letterale della
convenzione, sono posti a carico di tutti i lottizzanti i quali, siccome la
stessa convenzione nulla dispone in contrario, debbono ritenersi obbligati
in solido ai sensi dell’art. 1294 cod. civ.
14. La ricorrente lamenta tuttavia che il Comune di Secugnago non avrebbe
prontamente richiesto la fideiussione di cui all’art. 8 della convenzione e
non si sarebbe prontamente sostituito ai lottizzanti inadempienti nel
realizzare le opere previste dal precedente art. 7 (potere attribuitogli
dallo stesso art. 8).
Questo comportamento –unitamente al rilascio di un
titolo edilizio a Un. per la realizzazione di una struttura di
esclusivo interesse di quest’ultima, e al mancato esercizio dei poteri
pubblicistici finalizzati a costringere Sc. ad effettuare le opere di
bonifica dell’area di cui trattasi che costituiscono presupposto
indefettibile per la realizzazione delle opere di urbanizzazione e, quindi,
per l’intera trasformazione dell’area stessa– sarebbe concausa, secondo la
parte, dell’inadempimento e, dunque, fonte di pregiudizio per essa, dato che
in tal modo rimane preclusa la possibilità di realizzare tutte le altre
opere private previste dal P.L., compresa quella di suo specifico interesse.
Da qui la sussistenza di una responsabilità contrattuale in capo al Comune.
15. In proposito si osserva quanto segue.
16. Il Collegio considera davvero singolare che la ricorrente –la quale
come essa stessa riferisce è subentrata nella posizione di IngLe. e,
quindi, di uno dei lottizzanti tenuti in solido all’esecuzione delle
obbligazioni di cui agli artt. 7 e 8 della convenzione di lottizzazione–
proponga un’azione di inadempimento nei confronti del Comune di Secugnago.
In sostanza, con il ricorso in esame, viene infatti azionata la pretesa di
uno dei debitori in solido di condannare il creditore per avere questi
omesso di esercitare le prerogative, ad esso riconosciute dagli artt. 1292 e
segg. cod. civ., che gli consentono di agire nei confronti degli altri
coobbligati al fine di ottenere la prestazione dovuta.
17. L’infondatezza della pretesa deriva dal fatto che, ovviamente, sia il
diritto a ricevere le prestazioni oggetto dell’obbligazione solidale che le
prerogative funzionali alla loro esecuzione coattiva sono riconosciuti al
creditore nel suo esclusivo interesse e che, quindi, i singoli coobbligati
non possono vantare alcuna situazione giuridica qualificata a che questi
eserciti prontamente la propria pretesa ed eserciti le suddette prerogative
nei confronti degli altri coobbligati.
18. A questo proposito, vale precisare che, come noto, in caso di
obbligazione solidale, gli eventuali accordi intervenuti fra i diversi
debitori, aventi ad oggetto la ripartizione dell’obbligazione, hanno effetti
puramente interni e non limitano, quindi, il potere del creditore di
rivolgersi contro uno qualsiasi di essi al fine di ottenere l’intera
prestazione, salva l’azione di regresso prevista dall’art. 1299 cod. civ..
19. Siccome poi gli accordi interni non intaccano la prerogativa del
creditore di rivolgersi ad uno qualsiasi dei debitori, a maggior ragione, si
deve escludere che tali accordi facciano insorgere in capo al creditore
medesimo l’obbligo di agire nei confronti dei soggetti che, in base agli
accordi interni, sono stati individuati quali esclusivi destinatari
dell’obbligazione, e ciò neppure se dall’esecuzione della prestazione possa
derivare un beneficio per gli altri coobbligati. E’ salvo, ovviamente, il
potere di questi ultimi di agire direttamente nei confronti dei primi
qualora ve ne sia titolo, facendo valere i diritti nascenti dagli accordi
interni.
E può forse ritenersi salva la possibilità per il singolo
coobbligato –il quale ritenga che il creditore, con il proprio complessivo
comportamento, abbia in qualche modo pregiudicato il suo diritto, sancito da
accordi interni, di ottenere da uno degli altri coobbligati l’esecuzione
dell’obbligazione solidale di cui anch’egli abbia interesse– di esperire
azione risarcitoria extracontrattuale (da proporre dinanzi ai competenti
organi) nei confronti del creditore medesimo per lesione del suo diritto di
credito. Ciò che non si può ammettere è invece l’azione contrattuale volta,
come nel caso in esame, ad ottenere l’accertamento dell’inadempimento e la
condanna del creditore per obblighi specifici che su lui non gravano.
20. Da tutto ciò consegue che la ricorrente non può vantare un diritto
soggettivo a che il Comune agisca nei confronti degli altri lottizzanti e
ciò, come detto, anche se questa riceve comunque un beneficio dalla
realizzazione delle opere di urbanizzazione.
21. Anzi, a ben guardare, il Comune di Secugnago, per le ragioni sopra
illustrate, una volta constatato l’inadempimento dei lottizzanti, avrebbe
potuto benissimo rivolgersi contro la dante della causa della ricorrente o
al limite contro la ricorrente medesima (subentrata, come essa stessa
riferisce, nella posizione della lottizzante IngLe.) per ottenere l’intero
adempimento, e ciò nonostante la riferita avvenuta stipulazione di accordi
interni che avrebbero addossato ad esclusivo carico di Sc. l’obbligo di
eseguire tutte le prestazioni di cui agli artt. 7 e 8 della convenzione di
lottizzazione.
22. In questo quadro appaiono del tutto ininfluenti il riferito ritardo nel
pretendere la presentazione della fideiussione e la mancata sostituzione del
Comune ai lottizzanti nell’eseguire le prestazioni di cui è causa.
Si deve
invero osservare (al di là del fatto che l’art. 8 non prevede un termine
entro il quale la fideiussione avrebbe dovuto essere presentata, né, a
maggior ragione, un termine entro cui il Comune avrebbe dovuto farne
richiesta) che, come illustrato, queste prerogative sono riconosciute al Comune-creditore nel suo esclusivo interesse (oltre a quanto riferito sopra
si consideri che l’art. 8 della convenzione di lottizzazione stabilisce che
il Comune <<può>> e non <<deve>> sostituirsi ai lottizzanti); e che, quindi,
la ricorrente non può vantare un diritto soggettivo nei confronti di quest’ultimo
affinché esso le eserciti in danno degli altri coobbligati.
23. Per le medesime ragioni, altrettanto ininfluente, a fini
dell’apprezzamento di una eventuale responsabilità da inadempimento del
Comune, appare l’avvenuto rilascio del permesso di costruire in favore di
Un.: rimane infatti comunque decisiva l’insussistenza in capo al Comune
stesso di alcun obbligo contrattuale, nascente dalla convenzione di
lottizzazione, avente ad oggetto la realizzazione delle opere di
urbanizzazione ovvero l’esercizio, nei confronti di specifici coobbligati,
delle prerogative funzionali alla realizzazione coattiva delle inerenti
prestazioni.
24. Si deve pertanto escludere la sussistenza di una responsabilità per
inadempimento in capo al Comune di Secugnago.
25. Al Collegio preme comunque sottolineare che, contrariamente da quanto
sostenuto dalla ricorrente, lo stesso Comune di Secugnago non è rimasto del
tutto inerte, omettendo di esercitare le prerogative poste a tutela dei suoi
diritti. L’Ente infatti ha comunque preteso ed ottenuto la presentazione
della garanzia fideiussoria e, una volta accertato l’inadempimento degli
obblighi posti in capo ai lottizzanti, ha provveduto alla sua escussione,
resistendo alle azioni giurisdizionali (proposte a anche dinanzi al giudice
amministrativo e decise con le sentenze di questo TAR n. 3131 e n. 3134
del 2011, confermate in appello con la sentenza del Consiglio di Stato n.
1998 del 2014) esperite al fine di opporsi alla stessa.
26. Riflessioni analoghe a quelle sopra svolte, possono farsi con
riferimento all’affermato mancato esercizio dei poteri pubblicistici volti a
costringere Sc. a realizzare le opere di bonifica sull’area interessata dal
P.L., nonché all’affermata mancata attivazione dell’intervento diretto del
Comune a una volta constatato l’inadempimento Sc..
27. In proposito si deve osservare che, con atto del 15.12.1998
(precedente, quindi, alla convenzione di lottizzazione), il Comune di Secugnago aveva autorizzato Sc. ad eseguire opere di bonifica sull’area
interessata dal P.L. (area che all’epoca era di esclusiva proprietà di Sc.).
Il termine dell’esecuzione dei lavori è stato da ultimo fissato, con
ordinanza sindacale del 31.12.2004, al 31.12.2005.
28. Preso atto di ciò, l’art. 8, sesto comma, della convenzione di
lottizzazione ha stabilito che <<I permessi di costruire o DIA saranno
rilasciati o diverranno efficaci previa certificazione del completamento
delle opere di bonifica e messa in sicurezza permanente da parte della
Provincia di Lodi>>.
29. Da questa norma si ricava che le opere di urbanizzazione non si
sarebbero potute realizzare prima dell’avvenuta bonifica dell’area.
30. Come visto, l’obbligo di effettuare le opere di bonifica non deriva
dalla convenzione di lottizzazione, e soggetto tenuto a realizzarle è Scar.
Non si vede dunque come la parte possa pretendere di addossare una
responsabilità da inadempimento contrattuale degli obblighi nascenti dalla
convenzione in capo al Comune
31. A tal fine, non vale invocare l’art. 250 del d.lgs. n. 152 del 2006, il
quale stabilisce che in caso di inadempimento del responsabile, del
proprietario e degli altri soggetti interessati, gli interventi <<…sono
realizzati d’ufficio dal comune territorialmente competente…>>. Questa
disposizione, infatti, è posta principalmente a tutela dell’interesse
pubblico e, per questa ragione, non può far sorgere un diritto soggettivo
volto ad ottenere senz’altro la bonifica ad opera del Comune, neppure in
capo a coloro che –diversi da chi è tenuto ad effettuare la bonifica stessa– sono interessati a trasformare l’area inquinata.
32. Questi soggetti possono vantare tutt’al più un interesse legittimo,
tutelabile, in caso di omesso esercizio del potere, attraverso l’azione
contro il silenzio, ovvero con l’azione risarcitoria extracontrattuale, ma
non attraverso un’azione volta, come nel caso di specie, all’accertamento
dell’inadempimento di un obbligo contrattuale inesistente e alla conseguente
condanna del comune all’adempimento.
33. Per tutte queste ragioni, va ribadita l’insussistenza di una
responsabilità del Comune di Secugnago per l’inadempimento degli obblighi
derivanti dagli artt. 7 e 8 della convenzione di lottizzazione del 29.11.2005.
34. Per quanto riguarda invece la posizione degli altri lottizzanti –siccome, come detto, la convenzione nulla dice in merito alla ripartizione
fra di essi dell’obbligo di realizzazione delle opere di urbanizzazione– la
ricorrente non può pretendere, come fa in questa sede, di fondare sulla
convenzione stessa un diritto nei confronti dell’unico soggetto che essa
ritiene obbligato (Sc. e suoi aventi causa) e di domandare la condanna
all’adempimento ovvero la risoluzione della convenzione in ragione di tale
affermato inadempimento. Semmai; la stessa ricorrente potrà proporre, nelle
competenti sedi, l’azione diretta a tutela del suo preteso diritto facendo
valere le pattuizioni contenute negli accordi interni dei quali potrà
eventualmente essere richiesta anche la risoluzione.
35. Le domande di accertamento dell’inadempimento degli obblighi previsti
dalla convenzione di P.L. del 29.11.2005, di condanna all’adempimento,
di risoluzione della convenzione stessa e di risarcimento dei danni proposte
dalla ricorrente vanno pertanto respinte.
36. Rimane ora da esaminare l’azione volta all’accertamento della nullità
della convenzione il cui schema è stato approvato con delibera di Giunta
comunale n. 73 del 03.11.2011, con la quale si è deciso di non dare
esecuzione alle sentenze di questo TAR sui ricorsi proposti a seguito
della decisione del Comune di escutere la fideiussione presentata dai
lottizzanti.
37. Anche questa domanda non può essere accolta, non avendo la ricorrente
adeguatamente illustrato quale sia l’interesse sotteso a tale domanda. Si
rileva, infatti, che, in base all’art. 1421 cod. civ., l’azione di nullità,
pur non incontrando limiti soggettivi particolari, deve essere comunque
proposta da un soggetto effettivamente interessato.
38. Per tutte queste ragioni, il ricorso va respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.09.2017 n. 1816 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AGGIORNAMENTO AL 12.02.2020 |
ã |
E' legittimo (in caso di uso pubblico anziché
di cessione delle aree per le urbanizzazioni
primarie e/o secondarie) porre a carico dei
lottizzanti la manutenzione delle relative opere. |
URBANISTICA: Le
conclusioni del giudice di primo grado sulla conformità della clausola
negoziale in esame all'art. 28 della legge n. 1150 del 1942 e 1069 c.c.
risultano convincenti.
Invero, relativamente all’art. 28, va evidenziato che il comma 5 di quest’ultimo
elenca una serie di modalità attraverso le quali, in sede di convenzione di
lottizzazione, possono definirsi gli oneri gravanti sui privati proprietari
ai fini della realizzazione delle opere di urbanizzazione, sia primaria che
secondaria.
Tra le opzioni rientra anche quella prospettata dal n. 2), il quale prevede,
in alternativa alla cessione all’Amministrazione comunale della titolarità
sulle aree destinate ad accogliere le opere anzidette, “l'assunzione, a
carico del proprietario, degli oneri relativi alle opere di
urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di
urbanizzazione secondaria relative alla lottizzazione o di quelle opere
che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi; la quota è
determinata in proporzione all'entità e alle caratteristiche degli
insediamenti delle lottizzazioni”.
In questo quadro, può dunque ritenersi che sia non sia illegittimo prevedere
che gli acquirenti delle unità immobiliari risultanti dai processi di
lottizzazione urbanistica e che mantengono il dominium sulle aree da
destinare a fini di pubblica utilità, possano essere anche destinatari degli
oneri economici necessari al fine di assicurare una siffatta destinazione.
---------------
... per la riforma della
sentenza 22.10.2014 n. 2526 del TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
resa tra le parti, concernente la costituzione di una servitù pubblica su
un’area ricompresa nell’ambito di una convenzione di lottizzazione.
...
1. La presente controversia attiene all’esecuzione della convenzione
urbanistica originariamente stipulata tra la Va.Co. s.r.l., oggi Vi.Po.
s.r.l., e il Comune San Donato Milanese.
In forza di questo accordo, la Società, in attuazione di un piano di
lottizzazione adottato con precedente delibera del Consiglio comunale, si
impegnava a costituire una servitù di uso pubblico su aree ricomprese tra la
superficie lottizzata e un lago artificiale. La servitù avrebbe dovuto
consentire la persistente fruibilità delle aree in questione ad opera della
collettività.
1.1. Successivamente, con atti pubblici regolarmente trascritti, la Società
alienava a privati le unità immobiliari realizzate sui terreni oggetto di
lottizzazione.
Nei medesimi atti di compravendita gli acquirenti conferivano alla stessa
Società la procura irrevocabile alla stipula, con l’Amministrazione
comunale, delle ulteriori convenzioni necessarie per le cessioni e le
costituzioni di diritti reali, in favore del medesimo Comune.
1.2. Con un primo atto, sottoscritto il 04.11.2010, il signor Gi.Ma., agendo
in nome e per conto della Società lottizzante, concludeva un accordo con il
Comune per effetto del quale veniva costituito, tra le altre cose, un
diritto di superficie sulle aree individuate dalla precedente convenzione
urbanistica. L’accordo prevedeva altresì che i proprietari delle aree
lottizzate si obbligassero a sostenere le spese di manutenzione ordinaria e
straordinaria della suddetta servitù.
1.3. Alcuni dei partecipanti al Condominio Re.La., odierno appellante,
contestavano tale accordo, in quanto sottoscritto da soggetto che, alla data
della stipula, non era più titolare di poteri di legale rappresentanza della
Società firmataria, e comunque concluso con superamento dei limiti della
procura precedentemente conferita.
1.4. Ciononostante, con un nuovo atto pubblico stipulato in data 30.11.2011,
la Società lottizzante aveva provveduto a ratificare l’accordo
precedentemente sottoscritto dal signor Ma., facendo propria la volontà
negoziale da questi manifestata.
1.5. Seguivano ulteriori istanze dei condomini, indirizzate tanto al Comune
quanto alla Società, con le quali si chiedeva di dichiarare l’inefficacia o,
comunque, l’invalidità della clausola con la quale era stata prevista
l’assunzione a loro carico degli oneri legati alla manutenzione ordinaria e
straordinaria delle aree su cui insisteva la servitù di uso pubblico.
2. Gli stessi condomini e l’intero Condominio Re.La., a fronte dell’inerzia
mantenuta sulle loro istanze, proponevano quindi ricorso al Tar per la
Lombardia, sede di Milano, per far accertare l’illegittimità del silenzio
dell’Amministrazione e per far dichiarare l’inefficacia della clausola
relativa agli obblighi di manutenzione della servitù pubblica.
2.1. Il Tar, dopo avere dichiarato improcedibile il ricorso per sopravvenuto
difetto di interesse relativamente all’accertamento dell’illegittimità del
silenzio (gli stessi ricorrenti hanno dichiarato nel corso del giudizio di
non avere più interesse alla domanda), ha ritenuta infondata la richiesta di
accertamento dell’inefficacia della clausola sugli oneri di manutenzione (quest’ultima,
secondo lo stesso Tribunale, doveva ritenersi perfettamente efficace nei
confronti dei ricorrenti, essendo stata ratificata dalla Società
nell’esercizio dei poteri di rappresentanza a questa conferiti con la
pregressa procura irrevocabile.
In aggiunta a ciò, il Tar ha sottolineato che, contrariamente a quanto
dedotto nel ricorso introduttivo, l’accollo degli oneri di manutenzione
ordinaria e straordinaria ai privati proprietari delle unità immobiliari
risultanti dalla eseguita lottizzazione non si poneva in contrasto né con
l’art. 28 della legge n. 1150 del 1942, né con l’art. 1069 c.c..
3. Avverso la predetta sentenza hanno proposto appello il Condominio Re.La.
e i singoli condomini.
3.1. In particolare, nel ricorso essi hanno sottolineato la fondatezza della
domanda di accertamento dell’inefficacia della clausola contenuta
nell’accordo originariamente concluso dal “falsus procurator” della
Società, dal momento che la ratifica avrebbe dovuto essere effettuata dai
singoli privati e non dalla Società in nome e per conto di essi.
3.2. Gli appellanti hanno poi prospettato la violazione dell’art. 28 della
legge n. 1150 del 1942 e dell’art. 1069 c.c., i quali, con norme imperative,
precluderebbero agli atti costitutivi di servitù di uso pubblico la facoltà
di porre gli oneri di manutenzione delle corrispondenti opere a carico dei
soggetti gravati dalla medesima servitù. Ciò salvo diversa e specifica
pattuizione che, nel caso di specie, non sarebbe stata inserita nella
presupposta convenzione urbanistica, a seguito della quale era stata
conferita la procura alla Società lottizzante.
...
7. L’appello non è fondato.
8. Innanzitutto, occorre soffermarsi sull’idoneità della ratifica posta in
essere dalla Società lottizzante, con atto pubblico stipulato e registrato
successivamente a quello posto in essere dal “falsus procurator”,
vale a dire dal signor Ma., a produrre i propri effetti anche nei confronti
dei privati proprietari rappresentati, vincolandoli al rispetto degli
obblighi ratificati.
8.1. A conforto di una soluzione positiva deve richiamarsi il disposto
dell’art. 1399, primo comma, c.c., il quale consente al soggetto interessato
di ratificare, ossia di fare proprio, il contratto che sia stato concluso da
un soggetto privo di alcun potere di rappresentanza ovvero che abbia agito
al di là dei limiti della potestà rappresentativa precedentemente
conferitagli.
Rispetto alla fattispecie concreta qui esaminata, si tratta allora di
valutare se la ratifica in questione potesse, così come è concretamente
avvenuto, provenire dalla Società destinataria dell’originaria procura
ovvero se si rendesse necessaria la diretta ratifica ad opera dei privati
proprietari che avevano precedentemente conferito la medesima procura.
8.2. A favore della prima soluzione militano due concorrenti ordini di
ragione. In primo luogo, non sembra potersi escludere, alla stregua dei
principi generali, che il rappresentante originariamente designato abbia la
facoltà di ratificare, in nome e per conto del rappresentato, atti negoziali
conclusi da un soggetto terzo, agente in veste di falsus procurator,
a condizione, ovviamente, che gli atti ratificati rientrino nell’oggetto
della procura. Ciò in quanto gli effetti della compiuta ratifica si imputano
direttamente alla sfera giuridica del rappresentato e, pertanto, non
dovrebbe esservi alcuna differenza tra la ratifica operata personalmente dal
rappresentato e la ratifica che, viceversa, sia manifestata per il tramite
del rappresentante inizialmente designato.
8.3. Del resto, né l’art. 1388 c.c., né gli articoli a questo immediatamente
seguenti pongono limitazioni di sorta rispetto agli atti suscettibili di
essere compiuti per mezzo di un rappresentante, se non per quelli c.d. “personalissimi”.
8.4. Tra questi dovrebbe pertanto ricondursi anche la ratifica.
Non vi sono, infatti, differenze tra la stipula, in via diretta, di un
determinato contratto e la ratifica di un negozio, avente identico contenuto
dispositivo, che sia stato previamente sottoscritto da un falsus
procurator.
8.5. Inoltre, va poi rilevato che il signor Ma. ha agito in forza di un
preteso rapporto di “rappresentanza organica” con la Società cui era
stata conferita la procura.
Pertanto, alla luce delle speciali caratteristiche che connotano questa
forma impropria di “rappresentanza”, ontologicamente distinta dalla
rappresentanza volontaria di cui agli artt. 1388 e ss. c.c., appare
ragionevole ritenere che il potere di ratifica degli atti realizzati dal
soggetto che pretenda di porsi quale organo di una Società debba
riconoscersi unicamente alla Società stessa.
8.6. In sostanza, lo stesso non ha agito tanto quale falsus procurator
degli acquirenti delle unità immobiliari risultanti dalla lottizzazione,
bensì quale “falso organo” della Società cui essi avevano conferito
apposita procura. Pertanto, non poteva che essere la Società a determinarsi
nel senso della ratifica o meno degli atti da questi compiuti.
8.7. Sotto quest’ultima prospettiva, va dunque rilevato che la materia dei
vizi dei poteri rappresentativi deve essere ricondotta all’art. 2475-bis c.c.,
con la conseguenza che gli atti ultra vires eventualmente compiuti
dall’amministratore o da chi si è esternato come tale devono essere
necessariamente ratificati dalla società.
9. Quanto al tema se tra i poteri di rappresentanza attribuiti con
l’originaria procura rientrasse anche la facoltà di prevedere, all’atto
della costituzione della prevista servitù di uso pubblico su alcune aree
limitrofe ai terreni lottizzati, l’assunzione, in capo ai proprietari
rappresentati, degli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria delle
corrispondenti opere, va rilevato che le conclusioni del giudice di primo
grado sulla conformità della clausola negoziale in esame all'art. 28 della
legge n. 1150 del 1942 e 1069 c.c. risultano convincenti.
9.1. Relativamente all’art. 28, va evidenziato che il comma 5 di quest’ultimo
elenca una serie di modalità attraverso le quali, in sede di convenzione di
lottizzazione, possono definirsi gli oneri gravanti sui privati proprietari
ai fini della realizzazione delle opere di urbanizzazione, sia primaria che
secondaria.
Tra le opzioni rientra anche quella prospettata dal n. 2), il quale prevede,
in alternativa alla cessione all’Amministrazione comunale della titolarità
sulle aree destinate ad accogliere le opere anzidette, “l'assunzione, a
carico del proprietario, degli oneri relativi alle opere di
urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di
urbanizzazione secondaria relative alla lottizzazione o di quelle opere
che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi; la quota è
determinata in proporzione all'entità e alle caratteristiche degli
insediamenti delle lottizzazioni”.
9.2. In questo quadro, può dunque ritenersi che sia non sia illegittimo
prevedere che gli acquirenti delle unità immobiliari risultanti dai processi
di lottizzazione urbanistica e che mantengono il dominium sulle aree
da destinare a fini di pubblica utilità, possano essere anche destinatari
degli oneri economici necessari al fine di assicurare una siffatta
destinazione.
9.3. In relazione all’invocato contrasto con l’art. 1069 c.c., va invece
rilevato che tale disposizione, al secondo comma, fissa sì una regola
generale in forza della quale le spese correlate alle opere necessarie per
l’esercizio della servitù gravano sul proprietario del fondo dominante, ma,
al tempo stesso, conferisce una chiara portata “dispositiva” alla
stessa indicazione, consentendo espressamente alle parti dell’accordo
costitutivo di derogarvi.
Pertanto, è legittimo stabilire che sia il proprietario dei fondi gravati da
vincolo di servitù a farsi carico delle spese e degli altri oneri
conseguenti alla costituzione del medesimo vincolo.
9.4. La parte appellante ha contestato la ricostruzione qui operata
affermando che, in realtà, l’accollo ai proprietari degli oneri di
manutenzione non era previsto dall’originaria convenzione urbanistica di
lottizzazione, in esecuzione della quale è stato stipulato il successivo
accordo costitutivo della servitù di cui si discorre.
Tuttavia, è opportuno notare che il “titolo” fondante il vincolo
reale in esame deve farsi coincidere non con la convenzione da ultimo
nominata, bensì con il successivo accordo attuativo.
9.5. In altri termini, non essendo stato previsto alcunché nell’ambito della
convenzione di lottizzazione “a monte”, ben potevano le parti
dell’accordo “a valle”, nell’esercizio della loro autonomia
negoziale, prevedere la forma di riparto degli oneri discendenti dalla
servitù di uso pubblico reputata più opportuna.
Tale ampia e impregiudicata autonomia, con ogni evidenza, deve pertanto
riconoscersi anche alla Società lottizzante, che ha agito in qualità di
rappresentante dei privati acquirenti delle unità immobiliari risultanti
dalla lottizzazione.
10. Per le ragioni sopra esposte, l’appello va respinto e, per l’effetto, va
confermata la sentenza impugnata
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.02.2020 n. 1010 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
28 della l. 1150/1942 prevede la possibilità di una cessione gratuita al
Comune delle aree destinate ad opere di urbanizzazione oppure
l’assunzione in capo al proprietario degli oneri relativi alle opere stesse.
Per cui la costituzione di una servitù di uso pubblico, con mantenimento in
capo ai soggetti privati della proprietà del beni e dei conseguenti oneri
manutentivi non appare in contrasto né con il tenore letterale né con gli
scopi della legislazione urbanistica, potendo semmai apparire addirittura un
minus rispetto, ad esempio, alla cessione gratuita di aree.
---------------
... per l'accertamento:
- dell'inefficacia nei confronti dei ricorrenti:
(a) della clausola, contenuta a pagina 27, dell'Atto conclusivo di
convenzione per l'attuazione del Piano di lottizzazione "Laghetto" in
Comune di San Donato Milanese, stipulato con scrittura privata, autenticata
dal Notaio Barassi di Milano con atto rep. n. 100162 - racc. n. 29008 in
data 04.11.2010 e
(b) degli ulteriori obblighi eventualmente derivanti dalla scrittura privata
di Ratifica dell'Atto conclusivo di convenzione per l'attuazione del Piano
di lottizzazione "Laghetto" in Comune di San Donato Milanese,
autenticata dal Notaio Barassi di Milano con atto rep. 101243 - racc. 29591
in data 30.11.2011;
- del conseguente obbligo del Comune di San Donato Milanese e/o di
Vi.Po.srl, quale soggetto incorporante Va.Co. srl, di sostenere le spese di
manutenzione ordinaria e straordinaria delle servitù sopra indicate;
- e, occorrendo, per l'annullamento della clausola sopra indicata;
- nonché per l'accertamento ai sensi dell'art. 31 cod. proc. amm.
dell'obbligo del Comune di San Donato Milanese di provvedere in merito alle
istanze presentate, rispettivamente, in data 17 e 18.07.2012, con le quali
l'Amministratore del Condominio Re."La." e i Condomini hanno chiesto
all'Amministrazione Comunale di provvedere all'annullamento della clausola
sopra descritta;
...
3. Nel secondo motivo, i
ricorrenti (punto 2.1), eccepiscono il presunto contrasto della clausola
convenzionale di cui è causa con l’art. 28 della legge 1150/1942, oltre che
della convenzione di lottizzazione del 2005 (cfr. il doc. 1 dei ricorrenti).
La tesi difensiva non ha però pregio: innanzi tutto la convenzione di
lottizzazione del 2005 –come già sopra ricordato– nulla prevedeva sulla
manutenzione delle aree di cui è causa, né dal tenore letterale della stessa
poteva desumersi o ricavarsi l’esclusione degli oneri di manutenzione in
capo ai proprietari delle aree soggette a servitù (cfr. ancora il doc. 1 dei
ricorrenti o il doc. 3 del resistente, art. 13).
Neppure potrebbe sostenersi che una clausola come quella di cui è causa si
pone in contrasto con le disposizioni (come quella dell’art. 28 citato),
riguardanti le lottizzazioni di aree.
Al contrario, l’art. 28 prevede la possibilità di una cessione gratuita al
Comune delle aree destinate ad opere di urbanizzazione oppure l’assunzione
in capo al proprietario degli oneri relativi alle opere stesse; per cui la
costituzione di una servitù di uso pubblico, con mantenimento in capo ai
soggetti privati della proprietà del beni e dei conseguenti oneri
manutentivi non appare in contrasto né con il tenore letterale né con gli
scopi della legislazione urbanistica, potendo semmai apparire addirittura un
minus rispetto, ad esempio, alla cessione gratuita di aree.
Nella seconda parte del motivo II, è lamentata la lesione dell’art. 1069 del
codice civile, norma che pone a carico del proprietario del fondo dominante
le opere necessarie per la conservazione della servitù.
La norma –la cui applicazione agli accordi ai sensi dell’art. 11 della legge
241/1990 è limitata ai “principi”, stante l’espressa previsione del
secondo comma dell’articolo stesso– non appare però violata nel caso di
specie, visto che lo stesso art. 1069 ammette (cfr. il comma secondo), che
per legge o per titolo possa derogarsi alla regola generale sopra ricordata,
senza contare che, trattandosi di servitù di pubblico passaggio, la
manutenzione non giova soltanto al titolare del fondo dominante ma anche ai
proprietari del fondo servente, che sono essi stessi utenti della servitù.
Anche l’intero secondo motivo deve –quindi– essere respinto (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.10.2014 n. 2526 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
UTILITA' |
VARI:
BONUS MOBILI ED ELETTRODOMESTICI (Agenzia delle
Entrate, febbraio 2020). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 7 dell'11.02.2020 "Ordine
del giorno concernente gli incentivi per la rimozione
dell’amianto negli ex capannoni industriali in disuso" (deliberazione
C.R. 17.12.2019 n. 884). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 6 del 06.02.2020, "Interventi
di messa in sicurezza permanente con realizzazione di volume
confinato on site a servizio dell’intervento di bonifica –
Approvazione indirizzi" (deliberazione
G.R. 31.01.2020 n. 2789). |
VARI: G.U.
01.02.2020 n. 26 "Dichiarazione dello stato di emergenza
in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza
di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili"
(Consiglio dei Ministri,
delibera 31.01.2020)." |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 5 del 31.01.2020, "Profili
applicativi in materia di opere o di costruzioni e relativa
vigilanza in zone sismiche, di cui alla l.r. 33/2015, a
seguito dell’entrata in vigore della legge 156/2019, della
l.r. 21/2019 e della d.g.r. XI/2584/2019" (circolare
regionale 28.01.2020 n. 1). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: G.U.
28.01.2020 n. 22 "Revisione delle reti stradali relative
alle Regioni Emilia Romagna, Lombardia, Toscana e Veneto"
(D.P.C.M.
21.11.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 5 del 27.01.2020, "Primo
aggiornamento 2020 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 21.01.2020 n. 574). |
ATTI AMMINISTRATIVI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 5 del 27.01.2020, "Attivazione
della piattaforma «procedimenti» per la gestione telematica
di procedure amministrative" (deliberazione
G.R. 20.01.2020 n. 2741). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 4 del 24.01.2020, "Approvazione
degli indirizzi per il collaudo funzionale degli impianti di
potabilizzazione" (deliberazione
G.R. 20.01.2020 n. 2751). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
21.01.2020 n. 16 "Regolamento di organizzazione del
Ministero per i beni e le attività culturali e per il
turismo, degli uffici di diretta collaborazione del Ministro
e dell’Organismo indipendente di valutazione della
performance" (D.P.C.M.
02.12.2019 n. 169). |
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI
- VARI: G.U.
17.01.2020 n. 13, suppl. ord. n. 3, "Ripubblicazione
del testo della legge 27.12.2019, n. 160,
recante: «Bilancio di previsione dello Stato per l’anno
finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio
2020-2022», corredato delle relative note (Legge pubblicata
nel Supplemento ordinario n. 45/L alla Gazzetta Ufficiale -
Serie generale - n. 304 del 30.12.2019)". |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 15.01.2020, "Tariffario
delle prestazioni e degli interventi erogati dal
dipartimento di igiene e prevenzione sanitaria delle agenzie
di tutela della salute richiesti da terzi nel proprio
interesse" (deliberazione
G.R. 23.12.2019 n. 2698). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - LAVORI PUBBLICI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 2 del 07.01.2020, "Approvazione
delle «Linee guida per la progettazione e realizzazione dei
sistemi di trattamento delle acque reflue provenienti da
sfioratori di reti fognarie» e degli «Indirizzi per
l’elaborazione del programma di riassetto delle fognature e
degli sfioratori» in attuazione di quanto disposto dagli
articoli 13, comma 3 e 14, comma 2 del regolamento regionale
n. 6 del 02.04.2019" (deliberazione
G.R. 23.12.2019 n. 2723). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 2 del 07.01.2020, "Programma
strategico per la semplificazione e trasformazione digitale
- XI legislatura – interventi per il 2020" (deliberazione
G.R. 23.12.2019 n. 2686). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 1 del 04.01.2020, "Piano
regionale delle attività di previsione, prevenzione e lotta
attiva contro gli incendi boschivi per il triennio 2020-2022
(legge n. 353/2000)" (deliberazione
G.R. 23.12.2019 n. 2725). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 1 del 04.01.2020, "Aggiornamento
delle disposizioni per l’efficienza energetica degli edifici
approvate con decreto n. 2456 dell'08.03.2017" (decreto
D.U.O. 18.12.2019 n. 18546). |
LAVORI PUBBLICI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 1 del 02.01.2020, "Programma
degli interventi prioritari sulla rete viaria di interesse
regionale - Aggiornamento 2019" (deliberazione
G.R. 09.12.2019 n. 2604). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: G.U.
28.12.2019 n. 303 "Intesa, ai sensi dell’articolo 8,
comma 6, della legge 05.06.2003, n. 131, tra il Governo, le
regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano sulle
Linee guida nazionali per la valutazione di incidenza
(VIncA) - Direttiva 92/43/CEE “HABITAT” articolo 6,
paragrafi 3 e 4 (Rep. atti n. 195/CSR)" (Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le
Province autonome di Trento e Bolzano,
intesa 28.11.2019). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI: E.
Paglia,
I CONTROLLI SULL’OPERATORE ECONOMICO – TABELLE DI VERIFICA
(PublikaDaily n. 3 - 12.02.2020). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: P.
Aldigeri,
L’ESIGIBILITÀ DELLE MANSIONI - La sentenza della Suprema
Corte n. 32592 del 17.12.2018 (PublikaDaily n.
3 - 12.02.2020). |
APPALTI SERVIZI:
S. Usai, L’INTENSITÀ
ED I VINCOLI DELLA CLAUSOLA SOCIALE (PublikaDaily
n. 3 - 12.02.2020). |
ATTI AMMINISTRATIVI: A.
Sacchi,
LE MODIFICHE DELLE SANZIONI DEL DECRETO TRASPARENZA
(PublikaDaily n. 3 - 12.02.2020). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Assunzioni nei comuni: ma quando sarà realmente operativo il
Dpcm attuativo del decreto "crescita"? (11.02.2020
- link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
APPALTI: G.
Gabriele,
Il
contratto di avvalimento incontra la causa in concreto -
nota a sentenza a TAR Campania, III Sez., 07.01.2020 n. 51
(07.02.2020 - link a
www.giustamm.it). |
APPALTI: Immediata
impugnabilità del bando (06.02.2020
- link a www.mauriziolucca.com). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: E.
Boscolo,
IL BINOMIO DECISIVO:
LIMITAZIONE DEL CONSUMO DI SUOLO E RIGENERAZIONE URBANA (l.r.
Lombardia 26.11.2019 n. 18
(03.02.2020 - tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com). |
EDILIZIA PRIVATA: F.
Ratto Trabucco,
Il diritto di accesso ai documenti amministrativi in ambito
urbanistico-edilizio tra costi procedimentali e diritto alla
riservatezza
(03.02.2020 - link a
www.segretaricomunalivighenzi.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
dovere di far fruire le ferie d'ufficio. Le non
condivisibili indicazioni del Tar Val d'Aosta (02.02.2020
- link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: No
agli incentivi tecnici al di fuori degli appalti
(01.02.2020
- link a www.mauriziolucca.com). |
PUBBLICO IMPIEGO: Serve
una dirigenza autonoma e da valutare in base ai risultati,
non arbitrariamente scelta dalla politica (28.01.2020
- link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
PATRIMONIO: M.
Luchetti,
Il risarcimento del danno da parte della P.A. per cattivo
esercizio del potere pubblico: l’articolo 133 c.p.a. e la
concessione amministrativa
(28.01.2020 - link a www.filodiritto.com). |
APPALTI:
S. Calvello e A. Zama, La
gestione amministrativa degli appalti e i relativi impatti
in ambito data protection
(28.01.2020 - link a www.filodiritto.com). |
APPALTI: Interpretazione
di clausole ambigue del bando di gara (27.01.2020
- link a www.mauriziolucca.com). |
APPALTI SERVIZI: Affidamento
d’urgenza del contratto di gestione rifiuti (25.01.2020
- link a www.mauriziolucca.com). |
APPALTI: M.
Mazzon,
Appalti solo con il “Durc fiscale”
(16.01.2020 - link a www.filodiritto.com). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.
Avizzano,
La valutazione della Performance della posizione
organizzativa “Comandante della Polizia Municipale”: casi e
soluzioni
(15.01.2020 - link a www.filodiritto.com). |
EDILIZIA PRIVATA: F.
Donegani,
Luoghi di culto in Lombardia: il nuovo intervento della
Corte costituzionale (28.12.2019 - link a
www.dirittopa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: S.
De Rosa,
ORDINE DI BONIFICA DI UN SITO
INDUSTRIALE: L’Adunanza Plenaria chiarisce la natura della
bonifica tra retroattività e responsabilità della Società
incorporante. Nota a sentenza: Consiglio di Stato, Ad. Plen.,
22.10.2019, n. 10
(gennaio 2020 -
tratto da www.ambientediritto.it).
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Abstract: La decisione dell’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato n. 10 del 22.10.2019 fa il punto sulla
legittimità dell’ordine di bonifica di un sito industriale
emesso dalla Pubblica Amministrazione verso una Società non
direttamente responsabile dell’inquinamento ma che, tramite
operazioni societarie straordinarie, ha incorporato la
Società direttamente responsabile dell’attività inquinante,
attività posta in essere anni prima dell’entrata in vigore
del D.Lgs. n. 22 del 1997 che ha introdotto l’istituto della
bonifica nell’ordinamento giuridico.
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SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. La nozione di ambiente:
gli indirizzi dottrinali. - 3. L’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato n. 10 del 2019: la natura della condotta
di inquinamento ambientale prima dell’introduzione della
bonifica. - 4. L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n.
10 del 2019: la natura della condotta di inquinamento
ambientale prima dell’introduzione della bonifica. - 5.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 10 del 2019:
la trasmissibilità degli obblighi e responsabilità
conseguenti alla commissione dell’illecito per effetto di
operazioni societarie straordinarie. - 6. Brevi
considerazioni conclusive. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G. Vivoli, LE RESPONSABILITA’ DEL
CURATORE IN CASO DI ABBANDONO RIFIUTI: Sentenze contrastanti
o diversi valori costituzionali in gioco?
(gennaio 2020 - tratto da www.ambientediritto.it).
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ABSTRACT: Nel
contributo vengono analizzate le posizioni che la
giurisprudenza ha assunto nei confronti del curatore
fallimentare in caso di abbandono rifiuti derivanti dalla
precedente attività dell’impresa fallita; rispetto a
posizioni oscillanti della giurisprudenza, il contributo
cerca di offrire una prospettiva più ampia che si fonda sui
diversi valori costituzionali che possono e in alcuni casi
impongono posizioni differenziate.
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SOMMARIO: 1. Introduzione e delimitazione
dell’analisi giuridica; 2. Le peculiarità della figura del
curatore nella giurisprudenza ordinaria; 3. Il curatore come
soggetto subentrante; 4. Il curatore come soggetto detentore
dei rifiuti; 5. Il caso dell’amianto; 6. Conclusioni. |
URBANISTICA: C.
Costanzi,
GOVERNO DEL TERRITORIO E
TUTELA DEGLI INTERESSI LEGITTIMI. La delicata ipotesi di
revoca dei piani particolareggiati di esecuzione (gennaio
2020 - tratto da www.ambientediritto.it).
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ABSTRACT: L’adozione di piani particolareggiati di
esecuzione è sottesa all’esercizio di un ampio potere
discrezionale dell’Amministrazione comunale, chiamata
sussidiariamente a determinare le politiche di sviluppo
urbanistico del territorio, sia pur nei limiti del rispetto
delle fonti normative, del piano regolatore e degli altri
atti amministrativi generali. Del pari, la revoca o la
modifica in peius dei medesimi non sembrano sottrarsi a tale
ampia discrezionalità, a cui si contrappone inevitabilmente
l’interesse edificatorio dei proprietari delle aree
coinvolte. A fronte di tale contrasto, l’elaborato evidenzia
la necessità di delimitare chiaramente i confini entro i
quali una discrezionalità revocatoria tanto ampia possa
essere esercitata, prendendo in breve rassegna tanto i
principi generali del diritto amministrativo, quanto le più
recenti pronunce sul tema.
---------------
SOMMARIO: 1. Premessa. Il piano regolatore generale e
il piano particolareggiato di esecuzione. 2. L’ampia
discrezionalità della pubblica amministrazione nell’adozione
dei piani particolareggiati. 3. La revoca o modifica in
peius dei piani particolareggiati di esecuzione. 4. La scure
della responsabilità penale. Conclusioni. |
EDILIZIA PRIVATA: A.
Morrone,
IL COORDINAMENTO TRA ATTIVITÀ
EDILIZIA ED I VINCOLI PAESAGGISTICI ED AMBIENTALI NEL
RECENTE CONTESTO D’EMERGENZA (gennaio
2020 - tratto da www.ambientediritto.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. Tutela del paesaggio
e programmazione urbanistica. 3. Disciplina edilizia e
vincoli ambientali. 4. Il difficile coordinamento fra la
disciplina degli usi civici e le competenze in materia di
paesaggio e ambiente. 5. Emergenza e attività edilizia
funzionale alla ricostruzione. 6. Conclusioni. |
INCARICHI PROFESSIONALI:
C. Pluchino,
Incarichi legali. Applicazione disciplina appalti? In
riferimento alla sentenza Tar Campania-Salerno. Sez. I,
11.07.2019, n. 1271
(Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 3/2019). |
APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO:
G. Noviello,
Sindacato giuscontabile sulle transazioni pubbliche - Nota a
Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia, senteza
19.07.2019 n. 196
(Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 3/2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
W. Ferrante,
Sulla legittimazione ad impugnare la proroga dello
scioglimento del consiglio comunale ed inoltre sulla
“eccezionalità” della proroga - Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 12.11.2019 n. 7762
(Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 3/2019). |
A.N.AC. |
APPALTI: Rassegna
degli atti Anac su interdittiva antimafia, partecipazione
alle gare ed esecuzione dei contratti pubblici
(04.02.2020 - link a www.anticorruzione.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Indicazioni
per l'applicazione della disciplina delle inconferibilità di
incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli
enti privati in controllo pubblico in caso di condanna per
reati contro la pubblica amministrazione - art. 3 d.lgs. n.
39/2013 e art. 35-bis d.lgs. n. 165/2001
(delibera
18.12.2019 n. 1201 - link a
www.anticorruzione.it). |
APPALTI:
Oggetto: Indicazioni relative all’obbligo di acquisizione
del CIG, di trasmissione dei dati e di pagamento del
contributo in favore dell’Autorità per i regimi particolari
di appalto di cui alla Parte II, Titolo VI, del codice dei
contratti pubblici
(Comunicato
del Presidente 18.12.2019 - link a
www.anticorruzione.it). |
LAVORI PUBBLICI: L’opera
pubblica a spese del privato segue il codice. Delibera Anac sulla verifica
dei requisiti di chi la realizza.
Anche se l'opera è realizzata a cura e spese del
privato non toglie che si tratta di opera pubblica se finalizzata al
soddisfacimento di un interesse generale della collettività.
È
quanto ha precisato l'Anac con la
delibera 11.12.2019
n. 1151 (Realizzazione e successiva donazione dei lavori di
adeguamento sismico scuola elementare centro urbano in Comune di Rocca di
Papa) sulla realizzazione e successiva donazione dei lavori di
adeguamento sismico scuola elementare centro urbano in comune di Rocca di
Papa.
La questione oggetto di parere era relativa a uno schema di
convenzione con il quale una fondazione privata si impegnava nella
«realizzazione e successiva donazione dei lavori di adeguamento sismico
della scuola elementare del centro urbano di Rocca di Papa».
L'Anac preliminarmente ha affermato che effettivamente la fattispecie
rientra nell'ambito di cui all'art. 20 del codice appalti risultando, di
fatto, «i lavori di adeguamento sismico della scuola elementare del
centro urbano, nel comune di Rocca di Papa» un'opera pubblica
realizzabile con spese a carico del privato.
Sulla base delle evidenze riscontrate, l'Autorità ha evidenziato come
risultino «manifeste e confermabili le carenze istruttorie già rilevate in
sede di avvio procedimentale con nota del 6/03/2019, ritenendosi, lo schema
convenzionale approvato dall'amministrazione, generico nell'individuazione
degli impegni assumibili dalle parti e privo degli elementi essenziali,
molti dei quali specificatamente indicati nell'art. 20 del codice dei
contratti».
Nello schema convenzionale mancavano infatti un adeguato inquadramento
normativo della fattispecie, il riferimento al progetto di fattibilità o
comunque a elaborati tecnici di qualsivoglia natura riferiti alle opere da
eseguire, il riferimento a un preciso cronoprogramma delle opere a farsi, la
disciplina in ordine a eventuali casi di inadempimento compreso
l'indicazione di eventuali penali e poteri sostitutivi, nonché, ancora,
qualunque riferimento a indicazioni relative ai requisiti di ordine non solo
morale, ma anche di carattere speciale, riferibili al soggetto contraente e
all'esecutore delle opere; elementi questi, che a ben vedere, avrebbero
dovuto essere previsti e considerati già nelle delibere e determine
preliminari a monte della convenzione medesima.
L'attenzione dell'Anac si è soffermata in particolare sulla «grave anomalia
rappresentata dalla mancata verifica dei requisiti generali riferiti al
contraente posti inequivocabilmente dalla specifica norma in capo
all'amministrazione» che soltanto tardivamente richiedeva tali elementi alla
fondazione che, a sua volta rifiutava di renderli nel presupposto che la
fondazione non era «l'operatore economico che svolgerà l'attività di
esecuzione dei lavori».
E su questo l'Anac ha ricordato invece che, come già detto dal Consiglio di
stato, «la circostanza che l'opera sia realizzata a cura e spese del privato
non toglie che si tratta di opera pubblica e che sussista il cogente
interesse della pubblica amministrazione alla sua corretta realizzazione da
parte di un soggetto qualificato professionalmente e dotato dei requisiti
morali». Di qui la bocciatura dell'operato della stazione appaltante
(articolo ItaliaOggi del 27.12.2019). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Niente
incentivi tecnici per l'opera pubblica in leasing.
Il quadro normativo attualmente vigente
non consente di riconoscere legittimamente l'incentivo per
funzioni tecniche svolte dal personale del comune per la
realizzazione di un contratto di locazione finanziaria per
opere pubbliche o di pubblica utilità, neppure
qualora tale spesa sia stata inserita nel quadro
economico del progetto esecutivo dedotto dal contratto di
locazione ed essa venga poi effettivamente trasferita al
Comune dal soggetto finanziatore poiché, comunque,
mancherebbe nel bilancio dell’Amministrazione lo specifico
stanziamento di spesa cui parametrare la misura del fondo
incentivante.
---------------
Il Sindaco del Comune di Quartesolo (VI) ha inviato
alla Sezione una richiesta di parere chiedendo se sia
possibile riconoscere legittimamente gli incentivi per
funzioni tecniche di cui all’art. 113 del Codice dei
contratti pubblici svolte dal personale dipendente nel caso
della locazione finanziaria per la realizzazione di un'opera
pubblica, qualora:
a) nel quadro economico del progetto esecutivo dedotto nel
contratto di locazione finanziaria risulti allocata anche la
quota per gli incentivi per funzioni tecniche, quantificata,
nel rispetto dell'apposito regolamento dell'Ente,
sull'importo dei lavori affidati al soggetto realizzatore;
b) tale quota, a fronte dello svolgimento da parte del personale
comunale delle funzioni tecniche previste dall'art. 113
(verifica e validazione del progetto, funzioni di RUP,
direzione lavori, ecc.) venga poi effettivamente trasferita
al Comune da parte del soggetto finanziatore;
c) sia rispettata la condizione prevista dall’art. 187, comma 1,
ultima parte, del Codice dei contratti pubblici, ossia che i
lavori non abbiano un carattere meramente accessorio
rispetto all'oggetto del contratto principale.
...
II. Gli incentivi per funzioni tecniche, disciplinati
dall’art. 113 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50
(Codice dei contratti pubblici), sono compensi previsti in
favore dei dipendenti delle amministrazioni aggiudicatrici,
a fronte dello svolgimento di determinate attività
finalizzate alla conclusione di appalti di lavori, servizi e
forniture, che operano in deroga al principio di
onnicomprensività della retribuzione enunciato all’art. 24,
comma 3, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 (Norme
generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche).
Il precursore nel nostro ordinamento di questo istituto va
individuato negli incentivi per la progettazione, istituti
con legge 11.02.1994, n. 109 (c.d. legge Merloni), la quale
prevedeva la ripartizione a favore di determinati soggetti
(il responsabile unico del procedimento, gli incaricati
della redazione del progetto, del piano della sicurezza,
della direzione dei lavori, del collaudo, ed i loro
collaboratori) di un incentivo a valere sugli stanziamenti
previsti per la realizzazione dei singoli lavori, fissato
entro il limite massimo del 1,5% dell'importo posto a base
di gara.
La ratio della norma, come evidenziato dalle Sezioni riunite
in sede di controllo della Corte dei Conti con la
deliberazione 04.10.2011 n. 51, era quella di
destinare una quota di risorse pubbliche “a incentivare
prestazioni poste in essere per la progettazione di opere
pubbliche, in quanto in tal caso si tratta all’evidenza di
risorse correlate allo svolgimento di prestazioni
professionali specialistiche offerte da personale
qualificato in servizio presso l’Amministrazione pubblica;
peraltro, laddove le amministrazioni pubbliche non
disponessero di personale interno qualificato, dovrebbero
ricorrere al mercato attraverso il ricorso a professionisti
esterni con possibili aggravi di costi per il bilancio
dell’ente interessato”.
La previsione di funzioni incentivabili è dunque
intrinsecamente legata, sin dal suo esordio
nell’ordinamento, all’esigenza di razionalizzazione della
spesa, attuata nello specifico attraverso la valorizzazione
delle risorse interne. Ora come allora, la disposizione che
prevede la possibilità di incentivare funzioni svolte
all’interno del normale rapporto di servizio è da intendersi
di stretta interpretazione in quanto derogatoria al generale
principio dell’onnicomprensività dell’introduzione.
Il legislatore, al fine di non contraddire gli scopi
dell’istituto, ha posto attenzione ai vincoli di natura
contabile entro cui rendere utilizzabile lo strumento. Il
decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti
pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, in
attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE) innovò
alla previgente normativa, portando il limite delle risorse
destinabili all’incentivo al 2% dell’importo a base di gara,
ma prevedendo allo stesso tempo un vincolo ulteriore, per il
quale l’incentivo erogato non doveva comunque superare
l’importo del trattamento complessivo annuo lordo già in
godimento dal singolo dipendente. Detto limite risulta
peraltro ridotto oggi al 50% del medesimo trattamento.
La legge 11.08.2014, n. 114, di conversione del
decreto-legge 24.06.2014, n. 90, istituì il “fondo per la
progettazione e l’innovazione”, a valere sugli
stanziamenti destinati a finanziare gli incentivi, e da
ripartirsi secondo percentuali prestabilite: l’80% destinato
agli incentivi per il responsabile unico del procedimento e
gli altri soggetti che svolgono le funzioni tecniche, nonché
i loro collaboratori, ed il restante 20%, destinato invece
all’acquisto di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali
a progetti di innovazione e di implementazione delle banche
dati per il controllo e il miglioramento della capacità di
spesa.
II.1. Con il decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (Codice
dei contratti pubblici) si è passati dal suddetto “fondo
per la progettazione e l’innovazione” al fondo
incentivante “le funzioni tecniche”, che ora
includono, a norma dell’art. 113 dell’articolato, anche le
attività di “programmazione della spesa per investimenti,
di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e
controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei
contratti pubblici” oltre a quelle, già incentivate in
passato, riferibili al responsabile unico del procedimento,
alla direzione dei lavori ed al collaudo
tecnico-amministrativo; l’incentivo invece non è più
destinabile agli incaricati della redazione del progetto e
del piano della sicurezza, com’era nella previgente
disciplina.
Il Codice in vigore prevede dunque, in maniera innovativa,
l’incentivabilità di attività dirette ad assicurare
l’efficacia della spesa e l’effettività della programmazione
(come per primo evidenziato dalla Sezione regionale di
controllo per la Toscana della Corte dei conti, con il
parere 14.12.2017 n. 186); novità questa che
accompagna l’ampliamento del novero dei beneficiari degli
incentivi in esame, individuati ora anche nel personale
pubblico coinvolto nelle diverse fasi del procedimento di
spesa, dalla programmazione all’esecuzione del contratto.
I nuovi incentivi non sono dunque sovrapponibili agli
incentivi per la progettazione della normativa previgente:
come precisato nella legge delega (art. 1, comma 1, lett. rr,
legge 28.01.2016, n. 11), tale compenso va a remunerare
specifiche e determinate attività di natura tecnica svolte
dai dipendenti pubblici, tra cui quelle della
programmazione, predisposizione e controllo delle procedure
di gara e dell’esecuzione del contratto, escludendo
l’applicazione degli incentivi alla progettazione.
II.2. In conseguenza della mutata natura dei compensi
incentivanti, la Sezione delle Autonomie della Corte dei
conti ha ritenuto che gli stessi non potessero più essere
considerati, come in passato, spesa per investimento, e che
fossero dunque da includere nel tetto dei trattamenti
accessori (deliberazione
06.04.2017 n. 7).
Sugli incentivi ridisegnati dal nuovo Codice è
successivamente intervenuto l’art. 76 del decreto
legislativo 19.04.2017, n. 56, che ha riferito l’imputazione
degli oneri per le attività tecniche ai pertinenti
stanziamenti degli stati di previsione della spesa, non solo
con riguardo agli appalti di lavori (come da formulazione
originaria della norma), ma anche a quelli di fornitura di
beni e di servizi, confermando un indirizzo già emerso nella
giurisprudenza consultiva regionale (Sezione regionale di
controllo per la Lombardia,
parere 16.11.2016 n. 333).
L’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017 (legge di
bilancio per il 2018) ha invece specificato che il
finanziamento del fondo per gli incentivi tecnici grava sul
medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori,
servizi o forniture. Il nuovo comma 5-bis dell’art. 113 in
esame, introdotto dalla citata norma, precisa infatti che “gli
incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo
capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e
forniture”.
Quest’ultima novella ha richiesto un nuovo intervento
nomofilattico della Sezione delle Autonomie, che con
deliberazione 26.04.2018 n. 6 ha chiarito come la
contabilizzazione prescritta ora dal legislatore consente di
desumere l’esclusione di tali risorse dalla spesa per il
trattamento accessorio, affermando che “la ratio legis è
quella di stabilire una diretta corrispondenza tra incentivo
ed attività compensate in termini di prestazioni
sinallagmatiche, nell’àmbito dello svolgimento di attività
tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte
alla realizzazione di specifiche procedure. L’avere
correlato normativamente la provvista delle risorse ad ogni
singola opera con riferimento all’importo a base di gara
commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la
contabilizzazione di tali risorse ad un modello
predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al
di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale”.
Sulla questione si è assistito dunque in questo senso ad un
ritorno al passato, chiarito che l’incentivo, in quanto
previsto da una disposizione di legge speciale (l’art. 113
del Codice dei contratti pubblici) valevole per i dipendenti
di tutte le amministrazioni pubbliche, non è assoggettabile
al vincolo del trattamento accessorio che, invece, ha fonte
nei contratti collettivi nazionali di comparto, con ciò
superando per le Amministrazioni il limite delineato dalla
deliberazione 06.04.2017 n. 7.
La giurisprudenza consultiva contabile in sede regionale ha
poi chiarito che, in base ai princìpi di cui al richiamato
indirizzo espresso dalla Sezione delle Autonomie, se l’onere
relativo ai compensi incentivanti le funzioni tecniche non
transita nell’àmbito dei capitoli dedicati alla spesa del
personale, esso dunque non può essere soggetto ai vincoli
posti alla relativa spesa da parte degli enti territoriali
(Sezione regionale di controllo per il Lazio,
parere 06.07.2018 n. 57; Sezione regionale di
controllo per il Veneto,
parere 25.07.2018 n. 265) estendendo dunque la
validità del principio espresso dalla
deliberazione 26.04.2018 n. 6 a tutti i vincoli
inerenti alla spesa per il personale.
II.3. Quanto alle funzioni incentivabili, l’art. 113 co. 2
del Codice dei contratti pubblici contiene un elenco
tassativo, che comprende: la programmazione della spesa per
investimenti, la valutazione preventiva dei progetti, la
predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di
esecuzione dei contratti pubblici, le funzioni di RUP, la
direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di
collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di
conformità, le funzioni di collaudatore statico ove
necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel
rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei
tempi e costi prestabiliti.
La tassatività dell’elencazione si deduce dall’utilizzo
dell’avverbio “esclusivamente” che lo precede, ad
ulteriore conferma della portata derogatoria della norma al
principio di onnicomprensività della retribuzione, che ne
implica la non estensibilità in via analogica.
III. Le considerazioni di questo Collegio, in ordine alla
possibilità di riconoscere legittimamente gli incentivi per
funzioni tecniche di cui all’art. 113 del Codice dei
contratti pubblici svolte dal personale dipendente nel caso
della locazione finanziaria per la realizzazione di un'opera
pubblica o di pubblica utilità, non possono prescindere
dall’esame dell’applicabilità della ricostruzione effettuata
dalla Sezione delle Autonomie con la
deliberazione 25.06.2019 n. 15 in relazione alla
fattispecie della concessione, posto che essa, seppure trovi
disciplina in una differente parte del codice, viene
normalmente ricondotta, per struttura e funzioni, alla
categoria dei contratti di Partenariato pubblico privato (cfr.
il recente
parere 25.09.2019 n. 359 della Sezione regionale
di controllo per la Lombardia, relativa al differente
problema della escludibilità del tetto del 49% del costo
complessivo dell'investimento di cui al comma 6 dell’art.
180 del canone di disponibilità di cui al comma 4 dello
stesso articolo), entro cui appunto rientra la locazione
finanziaria per la realizzazione di un'opera pubblica o di
pubblica utilità.
L’art. 113 del Codice, menzionando unicamente gli “appalti di
lavori, servizi e forniture”, sembrerebbe escludere gli
altri contratti pubblici.
D’altra parte, l’art. 164, comma 2, relativo alle
concessioni, stabilisce che: “Alle procedure di
aggiudicazione di contratti di concessione di lavori
pubblici o di servizi si applicano, per quanto compatibili,
le disposizioni contenute nella parte I e nella parte II,
del presente codice, relativamente ai princìpi generali,
alle esclusioni, alle modalità e alle procedure di
affidamento, alle modalità di pubblicazione e redazione dei
bandi e degli avvisi, ai requisiti generali e speciali e ai
motivi di esclusione, ai criteri di aggiudicazione, alle
modalità di comunicazione ai candidati e agli offerenti, ai
requisiti di qualificazione degli operatori economici, ai
termini di ricezione delle domande di partecipazione alla
concessione e delle offerte, alle modalità di esecuzione”.
Si tratta pertanto di stabilire se detto rinvio vada inteso
esclusivamente con riferimento agli aspetti prettamente
procedurali dell’esecuzione del contratto o, in senso più
ampio, a tutte le norme, con l’unico limite della
compatibilità, che disciplinano la fase dell’esecuzione, ivi
compresa quindi la disposizione sull’incentivabilità delle
funzioni tecniche.
Questa Sezione, in passato, aveva sostenuto l’incentivabilità
delle funzioni tecniche svolte in relazione alle concessioni
(parere
21.06.2018 n. 198 e
parere 27.11.2018 n. 455) valorizzando in
particolare la nozione unitaria di contratti pubblici
imposta dal diritto positivo (cfr. art. 3, comma 1, lett. dd)
del Codice) comprensiva sia dei contratti di appalto che di
concessione (ferma restando la fondamentale differenza del
c.d. rischio operativo insito nella concessione, che
giustifica la diversa forma di remunerazione accordata
all’operatore economico).
L’ipotesi estensiva appariva confortata dalla ratio
sottesa al riconoscimento del meccanismo premiale, che
sarebbe “anzitutto quella di stimolare e premiare
l’ottimale utilizzo delle professionalità interne, rispetto
al ricorso all’affidamento all’esterno di incarichi
professionali, che sarebbero comunque forieri di oneri
aggiuntivi per l’Ente, con aggravio della spesa complessiva”.
Tale tesi non ha tuttavia ricevuto l’avallo della Sezione
delle Autonomie che, chiamata ad esprimersi sulla questione
di massima relativa all’incentivabilità delle funzioni
tecniche svolte in relazione ai contratti di concessione,
con la citata
deliberazione 25.06.2019 n. 15, ha affermato il
principio di diritto per cui “gli incentivi ivi
disciplinati sono destinabili al personale dipendente
dell’ente esclusivamente nei casi di contratti di appalto e
non anche nei casi di contratti di concessione”.
Con detto pronunciamento la Sezione delle Autonomie ha
espressamente valorizzato i seguenti profili:
1. la circostanza che appalti e concessioni sono trattate in parti
diverse dell’apparato normativo, elemento non irrilevante
tenuto conto che il legislatore, quando ha voluto, ha
specificatamente richiamato insieme le due tipologie, oppure
ha genericamente fatto riferimento a “contratti pubblici”,
sicché la lettura della disposizione di cui al secondo comma
dell’art. 164 “non può indurre invero a ritenere che
anche l’art. 113 sia applicabile ai contratti di concessione”,
posto che essa indica puntualmente gli àmbiti per i quali si
deve fare rinvio alle disposizioni contenute nelle parti
prima e seconda;
2. la mancanza, nel caso di concessioni, di “uno specifico
stanziamento non riconducibile ai capitoli dei singoli
lavori, servizi e forniture”;
3. il fatto che gli incentivi sono stati individuati espressamente
ed in forma tipica dal legislatore, non potendosi
diversamente interpretare il tenore del comma 5-bis
dell’art. 113 che, riferendosi ai capitoli di spesa per
contratti di appalto, ha escluso l’assoggettabilità degli
incentivi ai vincoli di spesa in materia di personale;
4. le diverse caratteristiche strutturali delle due tipologie di
contratti, in quanto, essenzialmente, quelli di appalto
comportano spese e quelli di concessioni entrate, il che
porta a dubitare se, in ipotesi, il parametro per la
determinazione del fondo per i compensi incentivanti sia da
individuarsi nell’importo a base di gara o con riferimento
al canone dovuto dal concessionario, concludendosi che “in
realtà, si dovrebbe far ricorso ad uno stanziamento di spesa
specifico, che, come si è detto, non è previsto per legge e
che appare, quindi, di dubbia legittimità. Senza contare che
la copertura, essendo legata alla riscossione dei canoni
concessori, resta gravata da un margine di aleatorietà”.
La Sezione delle Autonomie ha quindi collocato la vicenda in
un quadro generale che tiene conto anche delle criticità che
potrebbero emergere sotto il profilo finanziario,
evidenziando inoltre, in relazione alla possibile soluzione
(prospettata dalla Sezione rimettente) che individui il
parametro di riferimento per la quantificazione del fondo
nell’importo posto a base di gara, l’implicazione critica
consistente nel fatto che, soprattutto nel caso di
operazioni di notevole entità, prevedere di pagare incentivi
a fronte di flussi di entrata che potrebbero essere incerti
esporrebbe l’ente al rischio di insostenibilità.
IV. La prima circostanza indicata come ostativa dalla
Sezione delle Autonomie al fine dell’incentivabilità delle
funzioni connesse alle concessioni, riguarda, come visto,
alcune questioni di collocazione sistematica, ed è tale
aspetto che, in relazione alla fattispecie all’odierno
esame, il Collegio ritiene dover inquadrare per primo.
La locazione finanziaria di opere pubbliche o di pubblica
utilità è disciplinata dall’art. 187 del Codice, il quale si
colloca nella parte IV, dedicata ai contratti di
Partenariato pubblico privato e contraente generale, ai
quali, per la previsione di cui all’art. 179: “si
applicano le disposizioni di cui alla parte I, III, V e VI,
in quanto compatibili” (co. 1) e, sempre in quanto
compatibili: “le previsioni della presente parte, le
disposizioni della parte II, titolo I a seconda che
l'importo dei lavori sia pari o superiore alla soglia di cui
all’articolo 35, ovvero inferiore, nonché le ulteriori
disposizioni della parte II indicate all'articolo 164”
(comma 2).
Vengono pertanto escluse dall’àmbito di applicabilità ai
contratti di partenariato le norme contenute nel titolo V
della Parte II, ivi compreso l’art. 113, a meno di non voler
intendere il rinvio al secondo comma dell’art. 164 come un
rinvio a tutte le norme (con l’unico limite della
compatibilità) che disciplinano la fase dell’esecuzione, ivi
compresa quindi la disposizione sull’incentivabilità delle
funzioni tecniche. Tale interpretazione, come visto, non ha
tuttavia ricevuto l’avallo della Sezione delle autonomie
nella citata
deliberazione 25.06.2019 n. 15.
Va però al riguardo evidenziato come, in quella sede,
l’organo nomofilattico, nel negare la portata del
riferimento alle modalità di esecuzione come afferente
indistintamente a tutte le norme contenute nel titolo V
della parte II, non ritenendolo dunque fondativo di una
interpretazione estensiva, neppure d’altra parte ha basato
su una contraria considerazione la propria decisione finale,
che invece, come visto, si fonda piuttosto sulla differenza
strutturale tra il contratto di concessione e quello di
appalto.
D’altronde, affermare che la formula di cui all’art. 164,
co. 2 “non può indurre invero a ritenere che anche l’art.
113 sia applicabile ai contratti di concessione” non
appare sufficiente a stabilire che, tramite la tecnica del
rinvio “di secondo grado” operata dall’art. 179, ciò
valga ad escludere una volta per tutte l’incentivabilità
della differente fattispecie ivi esaminata.
In altri termini, appare necessario analizzare la struttura
del contratto di locazione finanziaria per opere pubbliche o
di pubblica utilità prima di giungere a conclusioni
definitive in ordine alla possibilità di incentivarne, ai
sensi dell’art. 113, le connesse funzioni svolte dal
personale amministrativo.
Il compiuto inquadramento della fattispecie contrattuale in
esame presuppone a propria volta l’analisi delle norme che
disciplinano la categoria del contratto di partenariato
pubblico privato (d’ora in avanti contratto di PPP) il quale
è definito all’art. 3, comma 1, lettera eee), come “il
contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto con il
quale una o più stazioni appaltanti conferiscono a uno o più
operatori economici per un periodo determinato in funzione
della durata dell'ammortamento dell'investimento o delle
modalità di finanziamento fissate, un complesso di attività
consistenti nella realizzazione, trasformazione,
manutenzione e gestione operativa di un'opera in cambio
della sua disponibilità, o del suo sfruttamento economico, o
della fornitura di un servizio connesso all'utilizzo
dell'opera stessa, con assunzione di rischio secondo
modalità individuate nel contratto, da parte dell'operatore”.
Il contratto di PPP è dunque uno schema negoziale che nel
sinallagma contrattuale ha la causa giuridica tipica dei
negozi di finanziamento, sebbene come già evidenziato di
recente dal citato
parere 25.09.2019 n. 359:
“la funzione economico-sociale dello schema del contratto
di PPP, ad ogni modo, non si esaurisce nel finanziamento ma
si colora, a seconda dei diversi tipi contrattuali
riconducibili a questo schema negoziale, della funzione
economica-sociale di realizzare la progettazione, la
costruzione o la manutenzione di un’opera, nonché la
fornitura dei beni e servizi necessari al funzionamento
della stessa eccetera”.
Sembra pertanto potersi ragionevolmente inquadrare lo schema
negoziale di PPP in quelli a causa variabile, per tale
dovendosi significare la neutralità di uno schema astratto,
che a priori consiste in un determinato effetto, ma che a
posteriori viene qualificato da un elemento causale
concreto.
Occorre a questo punto considerare il dato letterale di cui
al già citato art. 187 che, nel disciplinare la locazione
finanziaria di opere pubbliche o di pubblica utilità,
stabilisce che la stessa “costituisce appalto pubblico di
lavori, salvo che questi ultimi abbiano un carattere
meramente accessorio rispetto all'oggetto principale del
contratto medesimo”.
Di conseguenza, se in conformità alla causa variabile che
caratterizza in generale il contratto di PPP, la locazione
finanziaria può, in concreto, avere causa prevalente di
appalto, potrebbe sostenersi la sua incentivabilità in base
al fatto che a tale fattispecie si riferisce espressamente
l’art. 113.
IV.1. Dirimenti rispetto alla fattispecie all’odierno esame
sembrano invece le ulteriori circostanze che hanno portato
la Sezione delle Autonomie a negare l’incentivabilità delle
funzioni connesse alle concessioni, ed in particolare la
mancanza di uno specifico stanziamento non riconducibile ai
capitoli dei singoli lavori, servizi e forniture.
Il punto era stato molto ben evidenziato dalla Sezione
rimettente, che aveva colto l’importante differenza rispetto
al caso dei contratti di appalto, nei quali: “gli
incentivi di che trattasi gravano sul medesimo capitolo di
spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture:
pertanto, già nell’àmbito delle risorse destinate al
contratto pubblico, una parte viene accantonata, a monte,
per la specifica finalità dell’erogazione del compenso
incentivante quale premialità per la realizzazione della
procedura competitiva e la corretta esecuzione del contratto”
(Sezione regionale di controllo per la Lombardia,
deliberazione 14.03.2019 n. 96).
Ed è proprio questo, a parere del Collegio, l’elemento che
sembra essere di ostacolo al riconoscimento dell’incentivabilità
delle funzioni connesse alla locazione finanziaria di opere
pubbliche o di pubblica utilità, posto che la sua funzione
(anche) di finanziamento, implica che manchi nel bilancio
dell’Amministrazione lo specifico stanziamento di spesa cui
parametrare la misura del fondo incentivante, determinando
oneri non aleatori e su cui pertanto sono fondate, secondo
l’insegnamento della Sezione delle Autonomie, tanto la
mancata assoggettabilità alla normativa vincolistica di
spesa per il personale quanto la legittima erogazione degli
incentivi per funzioni tecniche.
Che lo specifico stanziamento di spesa, nel quadro normativo
vigente, sia elemento centrale per la configurabilità della
previsione incentivante, lo conferma quella giurisprudenza
consultiva contabile in base alla quale la propedeuticità
del regolamento ai fini del perfezionamento del diritto non
impedisce che quest’ultimo possa disporre la ripartizione
degli incentivi anche prima dell’adozione del regolamento
stesso, utilizzando le somme già accantonate allo scopo nel
quadro economico riguardante la singola opera (Sezione
regionale di controllo per la Lombardia,
parere 09.06.2017 n. 185; Sezione regionale di
controllo per il Veneto,
parere 07.09.2016 n. 353; Sezione regionale di
controllo per il Piemonte,
parere 09.10.2017 n. 177).
IV.2. La prospettazione proposta dall’odierno Sindaco
richiedente, che sembra subordinare il riconoscimento degli
incentivi al successivo trasferimento al Comune da parte del
soggetto finanziatore, non solo non risolve il problema
della aleatorietà della copertura, ma rende evidente come
non si possa affermare che in tal caso le risorse
eventualmente destinabili alla copertura dell’onere
troverebbero capienza in uno stanziamento specificamente
previsto a tal fine.
Sempre secondo l’insegnamento della
deliberazione 25.06.2019 n. 15, gli incentivi
sono stati individuati “espressamente ed in forma tipica
dal legislatore”, dovendosi interpretare il riferimento
ai capitoli di spesa per contratti di appalto come
condizione per escludere l’assoggettabilità degli incentivi
ai vincoli di spesa in materia di personale; una differente
copertura dei relativi oneri non potrebbe pertanto
legittimamente rientrare nell’àmbito di applicabilità della
norma incentivante.
Ancora più in dettaglio, va evidenziato come i vigenti
principi contabili (e precisamente l’Allegato 4/2 al decreto
legislativo 23.06.2011, n. 118) relativamente all’operazione
di leasing in costruendo, prevedono le seguenti scritture: i
canoni periodici vanno registrati distinguendo la parte
interessi, da imputare in bilancio tra le spese correnti,
dalla quota capitale, da iscrivere tra i rimborsi prestiti
della spesa, mentre al termine del rapporto contrattuale la
spesa per l’esercizio del riscatto è registrata tra le spese
di investimento (giova rammentare che ciò che qui rileva è
la contabilità finanziaria e non la contabilità
economico-patrimoniale, poiché in termini della prima
vengono dettate tanto le disposizioni vincolistiche quanto
quelle relative agli incentivi per funzioni tecniche).
È quindi presente uno degli elementi che, in relazione agli
appalti, consentono di riconoscere l’incentivabilità delle
funzioni tecniche ed al tempo stesso la non rilevanza del
relativo onere per quanto riguarda la spesa per il
personale, vale a dire la natura della spesa, ben
individuata, che non è spesa per il personale. Tuttavia, ciò
non sembra sufficiente a superare l’ostacolo della mancanza
di una voce di spesa dedicata, in quanto evidentemente la
spesa per il riscatto del bene non coincide con l’importo
posto a base di gara (ed anche qualora astrattamente i due
importi coincidessero, differente sarebbe la natura della
spesa, per quanto non inerente al personale).
D’altra parte, l’art. 113, se al secondo comma specifica,
come visto, quali sono le funzioni incentivabili, al primo
determina su quali specifici oneri ne va parametrata la
remunerazione, ed essi sono oneri inerenti alla
realizzazione dell’appalto (“Gli oneri inerenti alla
progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore
dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e
amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al
collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla
progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al
coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando
previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81,
alle prestazioni professionali e specialistiche necessari
per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni
dettaglio fanno carico agli stanziamenti previsti per i
singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati
di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni
appaltanti”).
Pertanto, se si parametrasse l’incentivo sulla spesa per il
riscatto, si sarebbe al di fuori dell’ambito applicativo
della norma incentivante, e se si parametrasse l’incentivo
sulla spesa per l’appalto, si farebbe riferimento ad una
spesa che non compare nel bilancio dell’amministrazione.
Entrambe le due condizioni, invece, appaiono come visto
indispensabili.
IV.3. Ad ulteriore sostegno delle motivazioni espresse, va
richiamata la recente pronuncia della Sezione regionale di
controllo per la Lombardia, che, investita di questione
analoga a quella qui all’attenzione, nel convincimento
espresso che il principio di diritto enunciato dalla
deliberazione 25.06.2019 n. 15 trovi completa e
totale applicazione non solo nell’ipotesi di concessione, ma
anche nel caso in cui la questione attenga ad altre forme
contrattuali rientranti nelle forme di Partenariato pubblico
privato, ha ritenuto di dover adottare “un’interpretazione
estensiva della su indicata prospettazione esegetica anche
nei confronti dei contratti di leasing in costruendo” (parere
18.07.2019 n. 311, ed orientamento poi confermato
dal successivo
parere 21.11.2019 n. 429
della medesima Sezione).
V. Per tutto quanto sopra evidenziato, il
Collegio, pur
consapevole delle ragioni di ordine sistematico già
evidenziate, che, data la ratio della previsione di
funzioni incentivabili, in vista di efficientamento e
razionalizzazione della spesa suggerirebbero probabilmente
un approccio estensivo, nel senso del riconoscimento delle
stesse anche in relazione a fattispecie contrattuali
differenti dall’appalto, ritiene che il
quadro normativo attualmente vigente non consenta di
riconoscere legittimamente detti incentivi per funzioni
tecniche svolte dal personale del Comune per la
realizzazione di un contratto di locazione finanziaria per
opere pubbliche o di pubblica utilità, neppure sotto le
condizioni generali ed astratte rappresentate dall’odierno
richiedente (Corte
dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 22.01.2020 n. 20). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: La
piattaforma ANAC per l’acquisizione dei piani triennali di
prevenzione della corruzione.
Domanda
Da una lettura delle disposizioni in merito alla stesura del
PTPCT 2020 e agli adempimenti da eseguire, successivamente
alla approvazione definitiva, è emersa la necessità di
compilare il questionario sul sito di ANAC secondo le
modalità indicate nella “Piattaforma di Acquisizione dei
Piani Triennali per la Prevenzione della Corruzione e per la
Trasparenza – Guida alla compilazione dei questionari per le
Pubbliche Amministrazioni”.
Si chiede se tale compilazione sia obbligatoria e se è da
effettuarsi entro il termine del 31 gennaio 2020, medesimo
termine indicato per la approvazione del PTPCT.
Risposta
L’articolo 1, comma 8, della legge 06.11.2012, n. 190,
prevede che, entro il 31 gennaio di ogni anno, l’organo di
indirizzo politico, su proposta del Responsabile della
Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPCT), adotti il
Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione e
Trasparenza (PTPCT) e lo trasmetta all’Autorità Nazionale
Anticorruzione (ANAC)
Al comma 14, del medesimo articolo, si prevede che, entro il
15 dicembre di ogni anno, il RPCT trasmetta all’organo di
indirizzo politico e all’Organismo Indipendente di
Valutazione (OIV) una relazione recante i risultati
dell’attività svolta e la pubblichi sul sito web
dell’amministrazione.
I due adempimenti (PTPCT e Relazione annuale) sono
evidentemente collegati in quanto il nuovo PTPCT dovrà tener
conto dei risultati dell’annualità precedente.
Generalmente l’ANAC, prima della scadenza del 15 dicembre,
proroga il termine e lo allinea con quello previsto per
l’adozione del PTPCT. Anche quest’anno l’ANAC, con il
Comunicato del 13.11.2019, ha posticipato il termine per la
pubblicazione della relazione annuale del RPCT al
31.01.2020.
Tra i compiti dell’ANAC, vi è quello di verificare e
monitorare l’adozione, da parte delle amministrazioni, del
PTPCT e l’attuazione della normativa e delle misure di
prevenzione della corruzione.
Tale attività si è esplicata non solo attraverso la
cosiddetta vigilanza, ma anche attraverso un’attività di
monitoraggio, finalizzata a valutare la qualità dei PTPCT e
delle misure di prevenzione, la congruità di tali documenti
rispetto alle indicazioni fornite dall’Autorità nei Piani
Nazionali Anticorruzione (PNA) e l’opportunità di eventuali
correttivi.
Dal 2019 è disponibile una Piattaforma, predisposta dall’ANAC,
per l’acquisizione e il monitoraggio dei Piani
Anticorruzione e per la redazione delle relazioni annuali
dei Responsabili. Essa può essere utilizzata anche per il
monitoraggio di competenza del RPCT.
Il Presidente ANAC ne ha dato notizia con il Comunicato del
12.06.2019, consentendo di accreditarsi e di inserire i dati
relativi al PTPCT 2019-2021.
La piattaforma permette:
a) all’Autorità, di condurre analisi qualitative dei dati
grazie alla sistematica e organizzata raccolta delle
informazioni e, dunque, di poter rilevare le criticità dei
PTPCT e migliorare, di conseguenza, la sua attività di
supporto alle amministrazioni;
b) ai RPCT:
– di avere una migliore conoscenza e consapevolezza dei requisiti
metodologici più rilevanti per la costruzione del PTPCT;
– monitorare nel tempo i progressi del proprio PTPCT;
– conoscere, in caso di successione nell’incarico di RPCT, gli
sviluppi passati del PTPCT;
– effettuare il monitoraggio sull’attuazione del PTPCT;
– produrre la relazione annuale.
Il PNA 2019 (delibera ANAC n. 1064 del 13.11.2019) e il
citato Comunicato ANAC non esplicitano in maniera chiara se
sia obbligatorio procedere alla registrazione e
all’inserimento dei dati relativi al PTPCT 2020-2022.
Tuttavia, considerato che viene richiamato, quale base
giuridica della piattaforma, il comma 8, dell’art. 1, della
legge 190/2012, che prevede la trasmissione del PTPCT ad
ANAC, si può ritenere che la Piattaforma sia la modalità per
adempiere a tale previsione normativa.
A sostegno di tale interpretazione si richiama l’allegato 1,
al PNA 2019 nel quale si dice che i RPCT “sono tenuti ora
a registrarsi ed accreditarsi” sulla Piattaforma. La
precisazione che, per il 2020, la Piattaforma opera in forma
sperimentale, sembra relativa esclusivamente all’ambito di
operatività, limitato, per ora, alle sole amministrazioni di
cui all’art. 1, comma 2 del decreto legislativo 30.03.2001,
n. 165.
L’utilizzo della Piattaforma per il monitoraggio di
competenza del RPCT è, invece, facoltativo, come facoltativo
è il livello di approfondimento, non obbligando il sistema
all’inserimento di tutte le misure specifiche.
Non è, invece, previsto un termine per l’inserimento, che
potrà essere effettuato a partire dall’adozione del PTPCT,
essendo un adempimento strumentale al monitoraggio, sia
dell’ANAC che del RPCT.
La Piattaforma si compone di tre sezioni:
• Anagrafica: finalizzata all’acquisizione delle informazioni in
merito all’amministrazione, al Responsabile della
prevenzione della Corruzione e Trasparenza, alla sua
formazione e alle sue competenze;
• questionario Piano Triennale: finalizzato all’acquisizione delle
informazioni relative al Piano Triennale per la Prevenzione
della Corruzione e Trasparenza (PTPCT) e alla programmazione
delle misure di prevenzione della corruzione;
• questionario Monitoraggio attuazione: finalizzato
all’acquisizione delle informazioni relative alle misure di
prevenzione ed allo stato di avanzamento del PTPCT.
Per ulteriori informazioni si rinvia al box 15,
dell’Allegato 1, al PNA 2019 e alle indicazioni disponibili
al
seguente link.
A completamento informativo, si segnala che con comunicato
del 27.11.2019, il Presidente dell’ANAC precisa che
l’utilizzo e la compilazione dei dati nella Piattaforma non
può essere delegato a soggetti esterni all’Amministrazione,
in attuazione del principio secondo cui soggetti terzi non
possono predisporre il PTPCT e neppure fornire contributi
per la redazione dello stesso. Nel Comunicato si specifica,
anche, che non possono far parte della struttura di supporto
al RPCT soggetti esterni all’amministrazione.
Per la relazione annuale 2019, l’ANAC prevede che si possa,
alternativamente, utilizzare la Scheda in formato Excel,
analoga a quella in uso negli anni scorsi (con due sole
sezioni aggiuntive concernenti rispettivamente “la
rotazione straordinaria” e “il pantouflage”), o
generare in modo automatico la relazione attraverso la
Piattaforma, dopo aver completato l’inserimento dei dati
relativi ai PTPCT e alle misure di attuazione (vedi
Comunicato del 13.11.2019).
È prevedibile che, per la relazione 2020, l’ANAC richiederà
esclusivamente la seconda modalità.
Tutto ciò premesso, la risposta allo specifico quesito è la
seguente:
a) la compilazione può ritenersi obbligatoria;
b) il termine per provvedervi non è stato definito, ma non è quello
del 31.01.2020.
Per quanto sopra, l’ente interpellante ha come obbligo di
pubblicare la relazione riferita all’anno 2019 e il PTPCT
2020/2022, approvato con deliberazione della Giunta
comunale, nel proprio sito web nella sezione Amministrazione
trasparente > Altri contenuti > Prevenzione della corruzione
(11.02.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - VARI: Carri
carnevale.
Domanda
Quali sono gli atti e i provvedimenti da adottare per la
sfilata di carri allegorici in occasione del carnevale?
Risposta
Ai sensi della
circolare del Ministero dell’Interno del
01.12.2009 prot. n. 17082/114 i “carri allegorici […] devono essere conformi
alle vigenti normative in materia di sicurezza, in
particolare sotto il profilo della sicurezza statica,
elettrica ed antinfortunistica o, in assenza, a standard di
buona tecnica di riconosciuta validità. In analogia a quanto
previsto dall’articolo 141-bis del Regolamento del
T.U.L.P.S. dovrà essere presentata una relazione tecnica a
firma di un tecnico esperto, attestante la rispondenza
dell’impianto alle regole tecniche di sicurezza.”
È innanzitutto indispensabile acquisire l’attestato di “rispondenza
dell’impianto alle regole tecniche di sicurezza” (UNI EN
13814:2005) per ogni singolo carro allegorico, redatta e
firmata da un tecnico abilitato. È necessario che la
documentazione sia acquisita da parte dell’ufficio comunale
che concede l’area pubblica oppure, se previsto, da altro
ufficio incaricato anche a rilasciare eventuali altri
provvedimenti (per esempio il SUAP).
Questo aspetto è rilevante: il provvedimento di concessione
e occupazione del suolo pubblico potrebbe risultare in
definitiva essere l’unico provvedimento valido rilasciato
per lo svolgersi della manifestazione. Le conseguenti
ordinanze adottate ai sensi degli artt. 6 e 7 del Codice
della strada sono provvedimenti non discrezionali e
direttamente consecutivi al fatto che il suolo pubblico non
è classificabile quale “strada”, per quel periodo
indicato dall’autorizzazione dell’ente proprietario, ma
diventa luogo di evento.
Si rammenta che nel caso in cui la sfilata non si svolga in
“luoghi ubicati in delimitati spazi all’aperto attrezzati
con impianti appositamente destinati a spettacoli o
intrattenimenti e con strutture apposite per lo
stazionamento del pubblico”, non necessita della
preventiva valutazione, ai sensi dell’art. 141 Reg. TULPS,
da parte della C.C.V.L.P.S., prodromica al rilascio della
licenza (o SCIA) ex artt. 68 e 69 TULPS.
Circa la “safety”, salvo nei casi in cui viene
convocata la Commissione Comunale di Vigilanza sui Locali di
Pubblico Spettacolo (CCVLPS), l’acquisizione e la
valutazione del Piano “safety” è onere dell’ufficio
comunale preposto al rilascio delle autorizzazioni alla
occupazione del suolo pubblico. Il piano deve essere
necessariamente redatto da un tecnico professionista e
presentato successivamente alla compilazione della “scheda
di valutazione del rischio” di cui la Circolare “Morcone”
del 28.07.2017.
Altresì, nelle more della redazione del piano da parte del
tecnico incaricato dal responsabile della manifestazione,
l’organizzatore deve innanzitutto presentare,
contestualmente alla richiesta di occupazione/autorizzazione
del suolo pubblico, la scheda di valutazione del rischio
affinché gli uffici comunali siano resi edotti del livello
di rischio, legato principalmente alla stima del numero dei
partecipanti.
Infine circa la “security” è necessario che
l’organizzatore, in stretta collaborazione con gli uffici
comunali, informi direttamente la Questura che adotterà
eventuale ordinanza a firma del Questore per le misure atte
a garantire e assicurare, oltre all’ordine pubblico, la
sicurezza dall’esterno (come ad esempio la collocazione dei
new jersey)
(06.02.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Concorsi
tempo determinato e utilizzo graduatorie.
Domanda
Si possono ancora svolgere concorsi a tempo determinato o un
ente è obbligato ad utilizzare le graduatorie di altri enti?
Risposta
Riportiamo, innanzitutto, l’articolo 36, comma 2, del d.lgs.
165/2001 che così prevede: “Per prevenire fenomeni di
precariato, le amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle
disposizioni del presente articolo, sottoscrivono contratti
a tempo determinato con i vincitori e gli idonei delle
proprie graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo
indeterminato. È consentita l’applicazione dell’articolo 3,
comma 61, terzo periodo, della legge 24.12.2003, n. 350,
ferma restando la salvaguardia della posizione occupata
nella graduatoria dai vincitori e dagli idonei per le
assunzioni a tempo indeterminato”.
Il tenore letterale della norma, evidentemente prevede una
possibilità di utilizzare le graduatorie di altri enti e di
certo non un obbligo. Anche il Dipartimento della Funzione
Pubblica all’interno della Circolare 5/2013 scrive
chiaramente che: “In caso di mancanza di graduatorie
proprie le amministrazioni possono attingere a graduatorie
di altre amministrazioni mediante accordo”.
È quindi evidente che si tratta di una possibilità.
In alternativa, l’ente, potrà quindi procedere con concorsi
a tempo determinato. Anche in questo caso, vengono a
supporto le parole del Dipartimento della Funzione Pubblica
contenute nel paragrafo 2 della predetta Circolare: “Inoltre,
pur mancando una disposizione di natura transitoria nel
decreto-legge, per ovvie ragioni di tutela delle posizioni
dei vincitori di concorso a tempo determinato, le relative
graduatorie vigenti possono essere utilizzate solo a favore
di tali vincitori, rimanendo precluso lo scorrimento per gli
idonei.
Resta fermo che le assunzioni a tempo determinato si
svolgono, sotto l’aspetto ordinamentale, tenendo conto della
disciplina di cui all’articolo 36 del d.lgs n. 165 del 2001
e sotto l’aspetto finanziario nei limiti di spesa
dell’articolo 9, comma 28, del decreto-legge 31.05.2010, n.
78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010,
n. 122, fatte salve le deroghe previste dalla legge. Si
ricorda che il mancato rispetto dei limiti di cui al citato
comma 28 costituisce illecito disciplinare e determina
responsabilità erariale”.
Quindi, è chiarissimo che un ente può benissimo svolgere
procedure concorsuali a tempo determinato. L’unico caso in
cui non può procedere è solamente in presenza di proprie
graduatorie a tempo indeterminato per le quali l’art. 36
comma 2 prevede invece un obbligo di utilizzo
(06.02.2020 - link a www.publika.it). |
APPALTI: I
nuovi obblighi di controllo sulle ritenute versate in caso
di appalto.
Domanda
Il Comune ha affidato un servizio di ristorazione scolastica
che prevede la prestazione di preparazione pasti presso la
cucina, già attrezzata, della scuola di proprietà dell’ente.
Scatta l’obbligo previsto dall’art. 4 del d.l. 124/2019 in
materia di ritenute fiscali?
Risposta
L’art. 4 del d.l. n. 124/2019 dopo la conversione in legge
n. 157/2019 ha introdotto il nuovo art. 17-bis al d.lgs.
241/1997 [1],
che prevede rilevanti novità nella gestione delle ritenute
fiscali in materia di appalti, quale misura di contrasto
“all’illecita somministrazione di manodopera”. Disposizione
che appesantisce i già abbondanti adempimenti in capo sia ai
committenti pubblici che agli operatori aggiudicatari, e
rispetto alla quale si attendono chiarimenti interpretativi
ed operativi che rendano omogeneo e soprattutto funzionale
il nuovo onere, evitando che si traduca in una mera
richiesta documentale.
Per un primo approfondimento si rinvia:
• allo studio pubblicato dalla Fondazione Studio Consulenti del
Lavoro, “Nuove misure di contrasto all’illecita
somministrazione di manodopera”, di cui al
seguente link;
• alla Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 108 del
23.12.2019: Oggetto: Articolo 4 del d.l. 26.10.2019 n. 124 –
Ritenute e compensazioni in appalti e subappalti –
Chiarimenti, di cui al
seguente link;
• alle risposte ai quesiti degli esperti fornite dall’Agenzia delle
Entrate il 13.01.2020 nel corso del terzo Forum sui dottori
commercialisti ed esperti contabili a Milano, pubblicato sul
sito dell’Associazione Nazionale Costruttori Edili, di cui
al
seguente link.
La Stazione appaltante dovrà quindi verificare quali sono
gli operatori economici con i quali sono in corso di
esecuzione contratti che presentano contestualmente le
seguenti condizioni, come previste dalla sopra citata
normativa, ovvero:
• l’importo complessivo annuo superiore ad € 200.000 (importo annuo
delle prestazioni affidate alla stessa impresa anche con più
contratti di appalto, con estensione della verifica su tutti
i contratti);
• contratti caratterizzati da prevalente utilizzo di manodopera (si
può ritenere siano quelli riconducibili all’art. 50, del
d.lgs. 50/2016, ultimo periodo, ovvero quei contratti nei
quali il costo della manodopera è pari ad almeno al 50%
dell’importo totale del contratto. Informazione che è
desumibile dagli atti di gara essendo un dato da riportare
obbligatoriamente nella documentazione, ai sensi dell’art.
23, co. 16, del codice dei contratti, almeno per quegli
appalti banditi successivamente al correttivo del 2017);
• il personale impiegato presti l’attività lavorativa presso le
sedi di attività del committente;
• i beni strumentali utilizzati nell’esecuzione della prestazione
siano di proprietà del committente o ad esso riconducibili
in qualunque forma.
Con riferimento al quesito, se il servizio di ristorazione
scolastica è prestato presso la cucina della scuola
dell’ente locale e utilizza beni strumentali di proprietà
dell’Amministrazione comunale, è possibile ritenere che
sussistendo anche gli altri requisiti di importo, scattino
gli obblighi previsti dalla vigente normativa.
---------------
[1] 1. …., che affidano il compimento di una o più opere
o di uno o più servizi di importo complessivo annuo
superiore a euro 200.000 a un’impresa, tramite contratti di
appalto, subappalto, affidamento a soggetti consorziati o
rapporti negoziali comunque denominati caratterizzati da
prevalente utilizzo di manodopera presso le sedi di attività
del committente con l’utilizzo di beni strumentali di
proprietà di quest’ultimo o ad esso riconducibili in
qualunque forma, sono tenuti a richiedere all’impresa
appaltatrice o affidataria e alle imprese subappaltatrici,
obbligate a rilasciarle, copia delle deleghe di pagamento
relative al versamento delle ritenute di cui agli articoli
23 e 24 del citato decreto del Presidente della Repubblica
n. 600 del 1973, 50, comma 4, del decreto legislativo
15.12.1997, n. 446, e 1, comma 5, del decreto legislativo
28.09.1998, n. 360, trattenute dall’impresa appaltatrice o
affidataria e dalle imprese subappaltatrici ai lavoratori
direttamente impiegati nell’esecuzione dell’opera o del
servizio.
Il versamento delle ritenute di cui al periodo precedente è
effettuato dall’impresa appaltatrice o affidataria e
dall’impresa subappaltatrice, con distinte deleghe per
ciascun committente, senza possibilità di compensazione
(05.02.2020 - link a www.publika.it). |
APPALTI SERVIZI: La
Centrale unica di committenza (CUC) di questa Unione di
comuni intende procedere all'affidamento del servizio di
raccolta rifiuti urbani ed è indeciso sulla qualificazione
quale appalto o concessione.
Quale è la disciplina applicabile?
La applicabilità dell'una (appalto) o dell'altra
(concessione) disciplina non dipende, nel quadro del D.Lgs.
18.04.2016, n. 50, dalla tipologia di servizio (raccolta di
rifiuti) ma dal regime contrattuale che sta alla base del
rapporto fra l'Ente locale che lo affida e il gestore.
Come evidenziato dalla giurisprudenza costante "assumono
rilievo i criteri discretivi tra appalto di servizi e
concessione, in considerazione del fatto che l'elemento
caratterizzante la concessione è il trasferimento del c.d.
"rischio economico" in capo al concessionario, inteso come
possibilità che la gestione dell'attività oggetto di
concessione non sia remunerativa. In difetto di detto
rischio, si verte nel campo dell'appalto di servizi"
(tale distinzione rileva anche ai fini dell'applicabilità
della tassa sull'occupazione del suolo pubblico ed altri
regimi fiscali.
Ne deriva, come sottolineato anche recentemente che "va
qualificato come appalto di servizi, e non come concessione
di servizi, il contratto di gestione dei rifiuti urbani che
preveda che l'attività svolta sia remunerata integralmente
dall'amministrazione, di modo che non gravi sull'operatore
economico il rischio d'impresa".
Dalla qualificazione ne deriva l'applicazione del distinto
regime giuridico, ad esempio in merito alla revisione dei
prezzi (possibile per l'appalto di servizi, vietato nella
concessione per la quale vige l'opposto principio della
normale invariabilità del canone concessorio, salva
esplicita clausola di deroga).
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.04.2016,
n. 50, art. 164
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. V, 24.01.2020, n. 608 - Comm. trib. prov.
Puglia Lecce Sez. II, 26.06.2019 - TAR Toscana, Sez. II,
04.06.2019, n. 832 - Comm. trib. prov. Puglia Lecce Sez. IV,
02.04.2019 - Cass., S.U., 20.04.2017, n. 9965 - TAR Campania
Napoli Sez. VIII, 12.01.2015, n. 114 - Cons. Stato Sez. VI,
05.06.2006, n. 3335 - Cons. Stato Sez. VI, 27.02.2006, n.
841 - Cons. Stato Sez. VI, 10.02.2006, n. 553 (05.02.2020 -
tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Misure
organizzative per il rispetto del divieto di pantouflage.
Domanda
Il nuovo Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione e
Trasparenza (PTPCT) dell’Amministrazione prevede, tra le
misure a carico del dirigente dell’Ufficio personale,
l’introduzione della clausola di rispetto del divieto di
pantouflage nei nuovi contratti di reclutamento del
personale.
Vorrei sapere in quali tipologie di contratti va inserita.
Risposta
Il divieto di pantouflage o revolving doors
(c.d. porte girevoli) è una delle misure concernenti
l’imparzialità dei funzionari pubblici, introdotte dalla
legge 06.11.2012, n. 190 (c.d. legge Severino). Si tratta di
una sorta di “incompatibilità successiva” che viene a
determinarsi quando un dipendente, che ha esercitato poteri
autoritativi o negoziali per conto di una pubblica
amministrazione, viene successivamente assunto o inizia a
collaborare, a titolo professionale, con il soggetto privato
destinatario dei poteri autoritativi o negoziali. Il divieto
è volto ad evitare che il dipendente sfrutti la propria
posizione nell’intento di precostituirsi situazioni
lavorative vantaggiose, pregiudicando, in tal modo, il
perseguimento dell’interesse pubblico.
La norma di riferimento è l’art. 1, comma 42, lettera l),
della legge 190/2012, che ha introdotto il comma 16-ter
nell’art. 53 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165
[1]. La
sanzione prevista dal legislatore consiste nella nullità dei
contratti conclusi e degli incarichi conferiti in violazione
di tale disposizione e nel divieto, per il soggetto privato
che ha stipulato i contratti o conferito gli incarichi con
l’ex dipendente pubblico, di contrattare con la pubblica
amministrazione per un periodo di tre anni.
In sede attuativa il divieto del pantouflage ha avuto
un particolare rilevo nell’ambito della contrattualistica
pubblica, in quanto gli operatori che partecipano alle gare
sono chiamati a rilasciare una dichiarazione di non aver
stipulato contratti di lavoro o affidato incarichi in
violazione dell’art. 53, comma 16-ter, del d.lgs. 165/2001 e
tale dichiarazione deve essere verificata dalla stazione
appaltante. Le pronunce giurisprudenziali e la riflessione
dottrinale intorno all’ambito di applicazione di tale
divieto sono per lo più originati da fattispecie
riconducibili a gare d’appalto.
Con l’aggiornamento al Piano Nazionale Anticorruzione (PNA)
2018 si suggerisce una misura ulteriore, consistente nel far
sottoscrivere, al dipendente pubblico che cessa
dall’incarico, l’impegno al rispetto del divieto di
pantouflage.
Nel PNA 2019, si anticipa l’assunzione dell’impegno sin
dalla fase di sottoscrizione del contratto, prevedendo che
anche gli atti di assunzione del personale contemplino
l’impegno a rispettare tale divieto.
A ben vedere, già il Piano Nazionale Anticorruzione (PNA)
2013 prevedeva che nei contratti di assunzione del personale
dovesse essere inserita la clausola concernente il divieto
di prestare attività lavorativa (a titolo di lavoro
subordinato o di lavoro autonomo) per i tre anni successivi
alla cessazione del rapporto nei confronti dei destinatari
di provvedimenti adottati o di contratti conclusi con
l’apporto decisionale del dipendente.
Correttamente, dunque, il PTPCT dell’amministrazione prevede
che l’ufficio personale adotti questa misura, che ha anche
l’effetto di rendere preventivamente edotti i dipendenti del
vincolo discendente dall’esercizio di poteri autoritativi o
negoziali.
È ragionevole che l’ufficio personale si ponga il problema
di individuare il corretto ambito di applicazione della
disposizione, in quanto il divieto comporta una limitazione
della libertà di iniziativa economica, costituzionalmente
tutelata, e dunque la finalità di prevenzione della
corruzione deve essere contemperata con il rispetto di tale
libertà.
Occorre esaminare, da un lato, il tipo di rapporto di lavoro
che lega il soggetto alla pubblica amministrazione e,
dall’altro, il contenuto dell’attività lavorativa, in quanto
il divieto discende dall’aver esercitato poteri autoritativi
o negoziali.
Sotto il primo profilo, la norma utilizza la definizione “dipendenti”
senza distinguere tra rapporti di lavoro a tempo determinato
e indeterminato, pertanto è pacifico che si applichi ad
entrambe le tipologie di contratti.
L’art. 21, del decreto legislativo 08.04.2016, n. 39 estende
poi il divieto di pantouflage ai soggetti titolari di
incarichi contemplati nel citato decreto, “ivi compresi”
recita la disposizione “i soggetti esterni con i quali
l’amministrazione, l’ente pubblico o l’ente di diritto
privato in controllo pubblico stabilisce un rapporto di
lavoro subordinato o autonomo”.
A partire da tali previsioni normative l’ANAC estende
l’ambito di applicazione della norma anche ad altri
soggetti, legati alla pubblica amministrazione da un
rapporto di lavoro autonomo (parere ANAC AG/2 del 04.02.2015
ribadito nei ultimi PNA adottati). Questa interpretazione
desta perplessità in quanto, al contrario, proprio la
circostanza che il legislatore abbia equiparato ai
dipendenti i soggetti titolari di incarichi di cui al d.lgs.
39/2013 sembrerebbe confermare che l’ambito di applicazione
non può che essere quello previsto dalla legge.
Sotto il profilo del tipo di funzioni esercitate, con
l’espressione “poteri autoritativi o negoziali” si
intende l’attività di emanazione di provvedimenti
amministrativi e il perfezionamento di negozi giuridici,
mediante la stipula di contratti in rappresentanza giuridica
ed economica dell’ente.
L’ANAC precisa che i dirigenti e i funzionari che svolgono
incarichi dirigenziali o coloro che esercitano funzioni
apicali con deleghe di rappresentanza esterna rientrano in
tale ambito, come anche coloro che ricoprono incarichi
amministrativi di vertice, anche se non emanano direttamente
provvedimenti amministrativi e non stipulano negozi
giuridici. Essi sono, infatti, senz’altro in grado di
incidere sull’assunzione di decisioni da parte delle
strutture di riferimento.
Andando oltre, l’ANAC ritiene che il rischio di
precostituirsi situazioni lavorative favorevoli possa
sussistere anche in capo al dipendente che ha comunque avuto
il potere di incidere in maniera determinante sulla
decisione oggetto del provvedimento finale, collaborando
all’istruttoria, ad esempio attraverso l’elaborazione di
atti endoprocedimentali obbligatori (pareri, perizie,
certificazioni) che vincolano in modo significativo il
contenuto della decisione (parere ANAC AG/74 del 21.10.2015
e orientamento n. 24/2015).
Anche tale interpretazione rischia di estendere in maniera
eccessiva l’ambito di applicazione del divieto, pertanto è
importante che, in sede applicativa, si verifichino in
concreto le funzioni svolte dal dipendente.
Ad esempio, appare eccessivo che un lavoratore che venga
assunto a tempo determinato o un soggetto che stipuli un
contratto di collaborazione professionale, riconducibile ad
un rapporto di lavoro autonomo, debba vincolarsi, in sede di
stipula del contratto, al rispetto della disposizione di cui
all’art. 53, comma 16-ter, del d.lgs. 165/2001, per il solo
fatto che collaborerà in attività procedimentali finalizzate
all’adozione di un provvedimento di autorizzazione,
concessione o erogazione di sovvenzioni, sussidi o vantaggi
economici. La sola collaborazione all’elaborazione dei
provvedimenti o degli atti endoprocedimentali vincolanti non
può giustificare la limitazione alla liberà di iniziativa
economica.
Resta fermo che, se il dipendente poi, nel corso
dell’attività lavorativa, abbia in concreto effettivamente
svolto delle funzioni autoritative o negoziali, nei
confronti di un dato soggetto privato, non possa essere
assunto o collaborare con tale soggetto, per i tre anni
successivi alla cessazione del rapporto con la pubblica
amministrazione.
Di seguito una ipotesi di formulazione della clausola: “Il
sottoscritto dichiara di essere a conoscenza del divieto di
cui all’art. 53, comma 16-ter, del d.lgs. 165/2001 e si
impegna fin d’ora, nel caso eserciti in concreto poteri
autoritativi o negoziali nei confronti di soggetti privati,
a non accettare incarichi lavorativi o professionali presso
i medesimi soggetti, per i tre anni successivi alla
cessazione del rapporto di lavoro.”
---------------
[1] “16-ter. I dipendenti che, negli ultimi tre anni di
servizio, hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali
per conto delle pubbliche amministrazioni di cui
all’articolo 1, comma 2, non possono svolgere, nei tre anni
successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego,
attività lavorativa o professionale presso i soggetti
privati destinatari dell’attività della pubblica
amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri. I
contratti conclusi e gli incarichi conferiti in violazione
di quanto previsto dal presente comma sono nulli ed è fatto
divieto ai soggetti privati che li hanno conclusi o
conferiti di contrattare con le pubbliche amministrazioni
per i successivi tre anni con obbligo di restituzione dei
compensi eventualmente percepiti e accertati ad essi
riferiti”
(04.02.2020 - link a www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Chiarimenti in merito alla titolarità a richiedere o
presentare un titolo edilizio
(Regione Emilia Romagna,
nota 03.02.2020 n. 79334 di prot.). |
ENTI LOCALI: PagoPA:
dal decreto Milleproroghe ancora un rinvio (questa volta
breve) per le P.A..
Domanda
Il mio Ente non ha ancora aderito al sistema ‘PagoPa’
per l’incasso delle proprie entrate. Ma qual è il termine
ultimo per farlo?
Risposta
Come dovrebbe essere ormai noto, PagoPa è la piattaforma
informatica attraverso cui è possibile eseguire i pagamenti
dovuti nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni. Questi
possono infatti essere effettuati direttamente sul sito o
sull’applicazione mobile dell’ente creditore ovvero
attraverso i canali –sia fisici che on-line– di banche e
altri soggetti Prestatori di Servizi di Pagamento (PSP). Fra
questi vi sono le agenzie di banca, gli home banking,
gli sportelli ATM (bancomat), i punti vendita SISAL,
Lottomatica, Banca 5 e gli uffici postali.
Il quadro normativo di riferimento è contenuto nel Codice
dell’amministrazione digitale, approvato ormai quindici anni
fa con il d.lgs. 82/2005. A prevedere il sistema PagoPa è
infatti l’articolo 5, comma 1, del Codice.
Nella sua prima versione l’uso delle tecnologie
dell’informazione e della comunicazione per l’effettuazione
dei pagamenti era rivolto alle sole pubbliche
amministrazioni centrali. Si trattava di una semplice
facoltà e non di un obbligo. Solo in seguito ne è stata
prevista l’estensione a tutte le PA e quella che era nata
come una mera facoltà è divenuto un obbligo ineludibile.
Naturalmente, fatte salve le varie proroghe che negli anni
si sono succedute.
Da ultimo è intervenuto l’art.1, comma 8 del decreto
Milleproroghe (d.l. n. 162 del 30/12/2019). Cosa prevede
tale norma?
Essa prevede un ulteriore rinvio (sarà l’ultimo?) al termine
previsto dall’art. 65, comma 2, del d.lgs. 217/2017 (ultimo
decreto correttivo del Codice). La nuova scadenza viene ora
fissata al 30.06.2020. Entro tale data le PA sono tenute a
integrare i propri sistemi di incasso con la piattaforma di
cui all’articolo 5, comma 2, del Codice, ovvero ad
avvalersi, a tal fine, di servizi forniti da altri soggetti
di cui all’articolo 2, comma 2, del Codice stesso, ovvero da
fornitori di servizi di incasso già abilitati ad operare
sulla piattaforma PagoPa.
Questa volta il Legislatore ha però previsto sanzioni a
carico degli enti inadempienti. La norma stabilisce infatti
che il mancato adempimento dell’obbligo di avvio di PagoPa
rileva ai fini della misurazione e della valutazione della
performance individuale dei dirigenti responsabili (e
ovviamente delle posizioni organizzative negli enti privi di
dirigenza) e comporta responsabilità dirigenziale e
disciplinare ai sensi degli articoli 21 e 55 del d.lgs. n.
165/2001.
L’obbligo di avvalersi di PagoPa vige per tutte le pubbliche
amministrazioni, come individuate dall’art. 1, comma 2, di
tale ultimo decreto legislativo. Esso infatti vi annovera
tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli
istituti e le scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni
educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad
ordinamento autonomo, le regioni, le province, i comuni, le
comunità montane, e loro consorzi ed associazioni, le
istituzioni universitarie, gli istituti autonomi case
popolari, le camere di commercio e loro associazioni, tutti
gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e
locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del
Servizio sanitario nazionale, l’Agenzia per la
rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN)
e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30/07/1999, n.
300.
Come si vede, la platea dei soggetti obbligati ad avvalersi
di PagoPa è estremamente ampia, né è prevista alcuna
distinzione fra enti grandi o piccoli. Il decreto
Milleproroghe è ancora in fase di conversione in legge.
L’iter dovrà concludersi entro il prossimo 28 febbraio e non
si possono escludere ulteriori rinvii.
Va detto tuttavia che fra i molti emendamenti che Anci ha
presentato in Parlamento, non ve n’è nessuno che riguardi
questa scadenza. E ciò è pienamente condivisibile, perché la
piattaforma PagoPa va nella direzione di avvicinare la
Pubblica Amministrazione ai cittadini/utenti. E’ allora
forse il caso di mettervi davvero mano e di attrezzarsi al
più presto perché questa proroga potrebbe davvero essere
l’ultima. Ogni ulteriore informazione in merito alla
piattaforma PagoPa può essere reperita al sito
https://www.pagopa.gov.it/
(03.02.2020 - link a www.publika.it). |
APPALTI: Questa
stazione appaltante (ente pubblico economico) ha trovato, in
alcune procedure di gara, dichiarazioni di avvalimento di
requisiti di ordine finanziario.
In questi casi, come viene garantito dall'operatore l’avvalimento,
anche ai fini del controllo da parte della nostra stazione?
La giurisprudenza ormai consolidata (anche a livello di
Consiglio di Stato) ha chiarito la distinzione fra
avvalimento di garanzia (quello ad esempio inerente il
possesso dei requisiti di ordine finanziario) e l'avvalimento
tecnico-operativo (consistente nel supporto materiale e
organizzativo allo svolgimento della prestazione).
In entrambi i casi la stazione appaltante è tenuta a
verificare in concreto (al di là delle formule di rito e
dichiarazioni delle parti) che sussista un concreto apporto
dell'ausiliaria rispetto alle attività da svolgere a cura
dell'ausiliata e questa indagine va condotta "secondo i
canoni enunciati dal codice civile di interpretazione
complessiva e secondo buona fede delle clausole contrattuali"
anche se "non è conseguentemente necessario, in linea di
massima, che la dichiarazione negoziale costitutiva
dell'impegno contrattuale si riferisca a specifici beni
patrimoniali o a indici materiali atti a esprimere una certa
e determinata consistenza patrimoniale, ma è sufficiente che
dalla ridetta dichiarazione emerga l'impegno contrattuale a
prestare e a mettere a disposizione dell'ausiliata la
complessiva solidità finanziaria e il patrimonio
esperienziale, così garantendo una determinata affidabilità
e un concreto supplemento di responsabilità".
Sempre con riferimento all'avvalimento di garanzia si
evidenzia come "avendo esso ad oggetto l'impegno
dell'ausiliaria a garantire con proprie risorse economiche
l'impresa ausiliata, non è necessario che nel contratto
siano specificatamente indicati i beni patrimoniali o gli
indici materiali della consistenza patrimoniale
dell'ausiliaria, essendo sufficiente che questa si impegni a
mettere a disposizione la sua complessiva solidità
finanziaria e il suo patrimonio di esperienza".
Le sentenze sottolineano inoltre come "l'unico
responsabile dal punto di vista giuridico dell'esecuzione
del contratto è il concorrente aggiudicatario e che le
prestazioni in concreto svolte dall'ausiliaria sono comunque
riconducibili all'organizzazione da esso predisposta per
l'adempimento degli obblighi assunti nei confronti della
stazione appaltante".
Quindi, alla luce del quadro normativo ma soprattutto
giurisprudenziale, per rispondere al quesito formulato, si
sottolinea come:
- la prestazione contrattuale rimane in capo all'ausiliata
- il rispetto dell'avvalimento va verificato in concreto, anche in
fase esecutiva, accertando se sia dato il supporto
necessario (garanzie, coperture assicurative ecc…) indicate
in sede di gara.
Per le modalità di esecuzione di tale controllo la stazione
appaltante potrà chiedere specifiche giustificazioni,
chiarimenti e documentazione a corredo.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, art. 89
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. V, 16.01.2020, n. 389 - Cons. Stato Sez. V,
02.12.2019, n. 8249 - Cons. Stato Sez. V, 25.07.2019, n.
5257 - Cons. Stato Sez. V, 14.06.2019, n. 4024 - Cons. Stato
Sez. V, 07.05.2019, n. 2917 - TAR Piemonte Torino Sez. I,
23.04.2019, n. 459 - Cons. Stato Sez. V, 26.11.2018, n. 6693
- TAR Lombardia Brescia Sez. I, 10.12.2018, n. 1195 - TAR
Marche, Sez. I, 26.06.2018, n. 471 (29.01.2020 -
tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI: I
criteri di aggiudicazione dopo la legge 55/2019.
Domanda
Con diversi quesiti si pone la questione della chiara
identificazione dell’ambito di utilizzo del criterio minor
prezzo dopo le modifiche apportate con la legge 55/2019 e in
che modo questo possa essere considerato “residuale”
rispetto al criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa.
Riposta
Il codice dei contratti, come noto, ha superato l’equiordinazione
tra i criteri di aggiudicazione dell’appalto. In sostanza,
il RUP non ha più discrezionalità nella scelta dei criteri
ma deve attenersi alle indicazioni della norma e non v’è
dubbio che il criterio del “prezzo più basso" (ora
del minor prezzo) abbia sicuramente uno “spazio”
applicativo realmente residuale.
Ciò emerge, in particolare, dal comma 2 dell’articolo 95
laddove si puntualizza che gli appalti devono essere
aggiudicati “sulla base del criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa individuata …”. Il comma
non cita neppure il criterio dell’offerta al minor prezzo
(quasi ad evidenziarne il carattere marginale).
Le disposizioni fondamentali, in tema di criteri sono quelle
previste nei commi 3/6 dell’articolo 95 del codice.
La norma “guida” per il RUP –come anche la
giurisprudenza ha chiarito– è quella del comma 3 in cui si
precisa che il criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa costituisce il criterio esclusivo per
aggiudicare:
• i contratti relativi ai servizi sociali e di ristorazione
ospedaliera, assistenziale e scolastica, nonché ai servizi
ad alta intensità di manodopera purché non riconducibili ad
affidamenti entro i 40mila euro;
• i contratti relativi all’affidamento dei servizi di ingegneria e
architettura e degli altri servizi di natura tecnica e
intellettuale di importo pari o superiore a 40.000 euro;
Infine la nuova ipotesi introdotta con la legge sblocca
cantieri (legge 55/2019) che impone l’obbligo di utilizzare
il multicriterio per aggiudicare “i contratti di servizi
e le forniture di importo pari o superiore a 40.000 euro
caratterizzati da notevole contenuto tecnologico o che hanno
un carattere innovativo”.
In sostanza, la discriminante è fissata sulla microsoglia
(entro i 40mila euro) in cui il RUP gode di un’ampia
discrezionalità.
Della norma appena citata è bene rammentare come non debba
essere sottovalutata la questione dell’intensità della
manodopera.
Spesso il RUP, anche in presenza di attività che definisce “standardizzate”,
pur in presenza di intensa manodopera tende a “forzare”
l’applicazione del criterio del minor prezzo anche nel caso
in cui si opera nell’ambito di importo pari o superiore ai
40mila euro. Si pensi, a titolo esemplificativo, alle
attività di guardiania/pulizia.
Pur vero che le attività possono ritenersi standardizzate è
però altrettanto vero che ci si trova in presenza di
contratti con altissima intensità di manodopera. E tale
indice deve essere inteso nel senso prospettato dalla norma
(art. 50, comma 1).
Per la norma citata, “i servizi ad alta intensità di
manodopera sono quelli nei quali il costo della manodopera è
pari almeno al 50 per cento dell’importo totale del
contratto”.
Si sconsiglia, evidentemente, ogni forzatura che avrebbe per
effetto quello di rendere annullabile gli atti di gara per
palese illegittimità.
In ogni caso, qualora si optasse per una “libera”
interpretazione non si può prescindere dall’esigenza di
specificare, fin dalla determinazione a contrarre, la
motivazione. Motivazione, come detto, che compete al RUP che
propone o decide quale criterio applicare (se anche
responsabile del servizio).
In ordine al criterio del minor prezzo, il comma 4 è stato
completamente riscritto dalla legge sblocca cantieri e
l’unica ipotesi residua in cui un problema di criteri si
pone con minore intensità è proprio quello delle
forniture/servizi con caratteristiche standardizzate per i
quali appalti, come detto, è possibile prescindere
dall’offerta economicamente più vantaggiosa solamente se non
insiste intensità di manodopera. In particolare la norma ore
prevede il minor prezzo “per i servizi e le forniture con
caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono
definite dal mercato, fatta eccezione per i servizi ad alta
intensità di manodopera di cui al comma 3, lettera a). In
ogni caso, l’utilizzo del monocriterio esige una adeguata
motivazione".
In tema appare utile richiamare la recente conferma
intervenuta con la sentenza del Consiglio di Stato, sez. V,
del 20.01.2020 n. 444. In sentenza si legge che “il
legittimo ricorso al criterio del minor prezzo, ai sensi
dell’art. 95, comma 4, lett. b) del Codice dei contratti
pubblici, in deroga alla generale preferenza accordata al
criterio di aggiudicazione costituito dall’offerta
economicamente più vantaggiosa, si giustifica, tra altro,
per l’affidamento di forniture o di servizi che siano, per
loro natura, strettamente vincolati a precisi e inderogabili
standard tecnici o contrattuali ovvero caratterizzati da
elevata ripetitività e per i quali non vi sia quindi alcuna
reale necessità di far luogo all’acquisizione di offerte
differenziate (Cons. Stato, III, 13.03.2018, n. 1609;
02.05.2017, n. 2014)”
(29.01.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pubblicazione
dati concernenti bandi di concorso.
Domanda
Stiamo avviando una procedura di reclutamento di personale e
vorremmo avere un aggiornamento sugli obblighi di
pubblicazione su Amministrazione Trasparente.
Risposta
L’articolo 19, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 è
la disposizione di riferimento per la trasparenza in tema di
bandi di concorso. Tale norma era stata già modificata dal
decreto legislativo 25.05.2016, n. 97 ed è stata
recentemente integrata dall’art. 1, comma 145, della legge
27.12.2019, n. 160 (legge di Bilancio 2020).
L’attuale formulazione dell’art. 19, comma 1 prevede che
siano pubblicati:
• bandi di concorso per il reclutamento a qualsiasi titolo di
personale;
• i criteri di valutazione stabiliti dalla Commissione;
• le tracce delle prove (da intendersi come prova teorico/pratica;
scritta e orale);
• le graduatorie finali, aggiornate con l’eventuale scorrimento
degli idonei non vincitori.
La novità, dunque, riguardano l’obbligo di pubblicare le
tracce di tutte le prove e non più soltanto delle prove
scritte e l’introduzione dell’obbligo di pubblicare le
graduatorie finali aggiornate con l’eventuale scorrimento
degli idonei, anche alla luce della disposizione che ha
ripristinato la possibilità per gli enti di scorrere le
proprie e le altrui graduatorie (legge 27.12.2019, n. 160,
art. 1, comma 148).
Considerato che si tratta di dati personali “comuni”,
occorre far attenzione a pubblicare i soli dati necessari ad
individuare i soggetti; è sufficiente, dunque, indicare
solamente in nome e cognome, evitando luogo e data di
nascita, residenza o altro. Sull’argomento si richiamano le
Linee Guida del Garante privacy del 15.05.2014, pubblicate
in Gazzetta Ufficiale n. 134 del 12.06.2014, che forniscono
una casistica di dati eccedenti da non pubblicare e alcuni
suggerimenti per coniugare adeguatamente trasparenza e
privacy. Attenzione, in particolare, alle selezioni
riservate a disabili (vedere l’ordinanza del Garante del
14.03.2019 – doc web 9116773).
L’art. 1, comma 145, della legge n. 160/2019, modifica poi
il secondo comma dell’art. 19, del d.lgs. 33/2013,
specificando meglio che i dati di cui al comma precedente
devono essere costantemente aggiornati.
La nuova formulazione sopprime il riferimento ad un elenco
dei bandi previsto dal previgente comma 2. Nella
strutturazione della pagina di Amministrazione Trasparente >
Bandi di concorso si suggerisce, per una migliore
consultazione, una articolazione che distingua i bandi in
corso e quelli scaduti.
In merito alla decorrenza e alla durata della pubblicazione
non si dice nulla, pertanto, si applicano le disposizioni
dell’art. 8, del d.lgs. 33/2013 che prevedono la
tempestività di pubblicazione e il termine di cinque anni,
decorrenti dal 1° gennaio dell’anno successivo.
Altra novità della legge di bilancio è l’introduzione del
comma 2-bis, con il quale si prevede che le amministrazioni
debbano pubblicare il collegamento ipertestuale dei dati, ai
fini dell’inserimento nella banca dati del Dipartimento
della funzione pubblica, di cui all’art. 4, comma 5, del
decreto legge 31.08.2013, n. 101, finalizzata al
monitoraggio delle graduatorie concorsuali.
Le modalità attuative di tale ultima disposizione saranno
definite con decreto ministeriale da adottarsi entro
sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge.
Come noto, nonché espressamente precisato nell’incipit
dell’art. 19, la pubblicazione su Amministrazione
Trasparente non sostituisce la pubblicità legale; pertanto
resta fermo l’obbligo di pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale e del bando di concorso o di un avviso contenente
gli estremi del bando e la scadenza dei termini di
presentazione delle domande
(28.01.2020 - link a www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Parere in merito alla possibilità di ricostruire
fabbricati non più esistenti di cui non si conoscono le
altezze originarie - Comune di Spigno Saturnia (Regione
Lazio,
nota 23.01.2020 n. 62118 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Parere in merito alle procedure urbanistiche
necessarie per il mutamento di destinazione d'uso di un
edificio ex scolastico a laboratorio artigianale/produttivo
per prodotti tipici locali - Comune di Borbona (Regione
Lazio,
nota 23.01.2020 n. 62032 di prot.). |
URBANISTICA:
Oggetto: Parere in merito alla applicabilità dell'art.
17, comma 3, della l. 1150/1942 per modificare Ia
destinazione d'uso di un sub-comparto di un piano attuativo,
parzialmente attuato, di un piano regolatore delle aree e
dei nuclei di sviluppo industriale (Regione Lazio,
nota 15.11.2019 n. 922652 di prot.). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Programma emendabile. Parola al consiglio sulle linee del sindaco. La facoltà non è esclusa in
base all'art. 42 del decreto 267/2000.
Si possono emendare le linee programmatiche presentate dal sindaco
al consiglio comunale ai sensi dell'articolo 46, comma 3, del dlgs n.
267/2000?
L'articolo 46, comma 3, del dlgs n. 267/2000 demanda allo statuto il
termine entro il quale il sindaco, previa audizione della giunta, presenta
al consiglio le linee programmatiche relative alle azioni e ai progetti da
realizzare nel corso del mandato. Il citato articolo prescrive che lo
statuto disciplini anche i modi di partecipazione del consiglio «alla
definizione, all'adeguamento e alla verifica periodica dell'attuazione delle
linee programmatiche da parte del sindaco... e dei singoli assessori».
Il
Consiglio nella sua funzione di indirizzo e controllo come enunciata dal
decreto legislativo n. 267/2000 è chiamato, dunque, a partecipare al programma
amministrativo sia nella fase iniziale che nelle fasi intermedie, con le
modalità indicate proprio nello statuto. Lo statuto di un comune stabilisce
che il sindaco, in sede di verifica annuale dello stato di attuazione dei
programmi, presenta al Consiglio una relazione sul grado di realizzazione
delle linee programmatiche nei termini di cui all'art. 193 del Tuoel.
Alla luce della normativa sopra richiamata, si ritiene che le linee
programmatiche non possano non essere «partecipate» tramite delibere quali
atti tipici con i cui gli organi collegiali manifestano la propria volontà.
Pertanto non si ritiene esclusa la facoltà di proporre emendamenti alle
linee programmatiche presentate dal sindaco, considerato che il disposto
recato dal citato articolo 42, comma 3, del dlgs n. 267/2000 assegna al
consiglio la competenza alla definizione, all'adeguamento e alla verifica
periodica del programma di governo
(articolo ItaliaOggi del 22.11.2019). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Profili di illegittimità di atti degli enti locali.
L’istituto del cd. annullamento straordinario governativo
(art. 138 d.lgs. 267/2000) (parere
16.11.2017-544677, AL 37632/2017 - Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 3/2019). |
GIURISPRUDENZA |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI – Divieto di impiego di prodotti contenenti amianto
a partire dalla l. 257/1992 – Qualificazione dei materiali
come rifiuti abbandonati – Riferimento al momento della
scoperta.
La circostanza che l’impiego di prodotti
di amianto o contenenti amianto risulti vietato a partire
dalla legge 257/1992 non modifica la qualificazione dei
materiali come rifiuti abbandonati, e neppure la
qualificazione come rifiuti pericolosi, in quanto la
condizione giuridica dei rifiuti deve essere riferita al
momento della scoperta, ossia al presente.
...
RIFIUTI – Ordine di rimozione associato a un ordine di
caratterizzazione – Legittimità – Art. 239, c. 1-a, d.lgs.
n. 152/2006.
La scelta di associare all’ordine di
rimozione dei rifiuti abbandonati un ordine di
caratterizzazione dell’area interessata dall’abbandono dei
rifiuti, deve ritenersi legittima.
La caratterizzazione è infatti il punto di congiunzione tra
la fase di allontanamento dei rifiuti, necessariamente
collocata nell’immediatezza della scoperta, e la fase
successiva ed eventuale di bonifica dell’area.
La presenza di rifiuti incontrollati è un potenziale veicolo
di trasferimento degli inquinanti nelle matrici ambientali,
e dunque nel momento in cui si effettua la rimozione occorre
accertare se vi siano situazioni di contaminazione.
In questo senso può essere interpretato l’art. 239, comma
1-a, del Dlgs. 152/2006, che disciplina le verifiche da
svolgere a seguito della rimozione dei rifiuti.
...
RIFIUTI – Rimozione dei rifiuti abbandonati – Continuità con
l’analisi della contaminazione delle matrici ambientali –
Coordinamento tra amministrazioni competenti sui rifiuti e
sulla bonifica.
La bonifica riguarda operazioni distinte
dalla rimozione dei rifiuti abbandonati, e si fonda sul
diverso presupposto del superamento delle concentrazioni
soglia di contaminazione (CSC). Oltretutto, l’individuazione
del responsabile della contaminazione, soggetto tenuto alla
bonifica, rientra nella competenza della Provincia (v. art.
242-244 del Dlgs. 152/2006).
In concreto, tuttavia, esiste continuità tra la rimozione
dei rifiuti abbandonati e l’analisi della contaminazione
delle matrici ambientali. I rifiuti non controllati devono
infatti essere presi in esame come potenziali cause di
superamento delle CSC, o come fattori di un rischio
imminente di contaminazione.
È quindi necessario un coordinamento tra le amministrazioni
che hanno competenza sui rifiuti e quelle che hanno
competenza sulla bonifica. In questo quadro, è legittimo che
l’ordine di rimozione dei rifiuti abbandonati sia associato
a un ordine di caratterizzazione. Si tratta evidentemente di
una prima caratterizzazione, i cui risultati devono essere
discussi nella conferenza di servizi, per stabilire se vi
sia effettivamente una situazione di contaminazione, o se
siano necessari nuovi campionamenti.
I risultati ottenuti confluiscono poi, come previsto
dall’art. 242, comma 4, del Dlgs. 152/2006, nella procedura
di analisi del rischio sito specifica per la determinazione
delle concentrazioni soglia di rischio (CSR). Una volta
fissate le CSR, la conferenza di servizi decide sulla
necessità e sul contenuto della bonifica (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 07.02.2020 n. 114 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: Per
quanto riguarda la competenza del sindaco, espressamente prevista dell’art.
192, comma 3, del Dlgs. 152/2006 in relazione all’ordine di
rimozione e avvio a recupero o smaltimento dei rifiuti abbandonati, la
giurisprudenza ritiene che questa norma, in quanto disposizione speciale
sopravvenuta, prevalga sul principio di devoluzione dei compiti gestionali
ai responsabili degli uffici previsto dall’art. 107, comma 5, del Dlgs.
267/2000.
---------------
In base all’art. 192, comma 3, del Dlgs. 152/2006, la rimozione dei
rifiuti abbandonati, ai fini dell’avvio a recupero o smaltimento, può essere
imposta al proprietario dell’area qualora l’abbandono sia imputabile a
titolo di dolo o colpa.
---------------
La circostanza che l’impiego di prodotti di amianto o contenenti amianto
risulti vietato a partire dalla legge 257/1992 non modifica la
qualificazione dei materiali come rifiuti abbandonati, e neppure la
qualificazione come rifiuti pericolosi, in quanto la condizione giuridica
dei rifiuti deve essere riferita al momento della scoperta, ossia al
presente.
Non è quindi rilevante quello che il proprietario dell’area poteva fare in
passato con l’amianto. Rileva unicamente che nella sfera di controllo del
proprietario dell’area si trovino attualmente dei rifiuti contenenti
amianto, e dunque pericolosi.
In proposito, occorre richiamare anche la normativa comunitaria, la
quale (v. art. 3 par. 1.6 della Dir. 19.11.2008 n. 2008/98/CE, nonché i
successivi art. 14 e 15) impone l’obbligo di rimozione e smaltimento non
solo al produttore storico dei rifiuti ma anche al detentore attuale, inteso
come la persona fisica o giuridica nel possesso degli stessi.
---------------
Per quanto riguarda la scelta di associare all’ordine di rimozione dei
rifiuti abbandonati un ordine di caratterizzazione dell’area interessata
dall’abbandono dei rifiuti, si può ritenere che tale combinazione sia
legittima.
La caratterizzazione è infatti il punto di congiunzione tra la
fase di allontanamento dei rifiuti, necessariamente collocata
nell’immediatezza della scoperta, e la fase successiva ed eventuale di
bonifica dell’area. La presenza di rifiuti incontrollati è un potenziale
veicolo di trasferimento degli inquinanti nelle matrici ambientali, e dunque
nel momento in cui si effettua la rimozione occorre accertare se vi siano
situazioni di contaminazione.
In questo senso può essere interpretato l’art.
239, comma 1-a, del Dlgs. 152/2006, che disciplina le verifiche da svolgere
a seguito della rimozione dei rifiuti.
---------------
La bonifica riguarda operazioni distinte dalla rimozione dei rifiuti
abbandonati, e si fonda sul diverso presupposto del superamento delle
concentrazioni soglia di contaminazione (CSC). Oltretutto, l’individuazione
del responsabile della contaminazione, soggetto tenuto alla bonifica,
rientra nella competenza della Provincia (v. art. 242-244 del Dlgs.
152/2006).
In concreto, tuttavia, esiste continuità tra la rimozione dei rifiuti
abbandonati e l’analisi della contaminazione delle matrici ambientali. I
rifiuti non controllati devono infatti essere presi in esame come potenziali
cause di superamento delle CSC, o come fattori di un rischio imminente di
contaminazione. È quindi necessario un coordinamento tra le amministrazioni
che hanno competenza sui rifiuti e quelle che hanno competenza sulla
bonifica. In questo quadro, è legittimo, come si è visto sopra, che l’ordine
di rimozione dei rifiuti abbandonati sia associato a un ordine di
caratterizzazione.
Si tratta evidentemente di una prima caratterizzazione, i cui risultati
devono essere discussi nella conferenza di servizi, per stabilire se vi sia
effettivamente una situazione di contaminazione, o se siano necessari nuovi
campionamenti. I risultati ottenuti confluiscono poi, come previsto
dall’art. 242, comma 4, del Dlgs. 152/2006, nella procedura di analisi del
rischio sitospecifica per la determinazione delle concentrazioni soglia di
rischio (CSR). Una volta fissate le CSR, la conferenza di servizi decide
sulla necessità e sul contenuto della bonifica.
---------------
15. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le
seguenti considerazioni.
Sulla competenza del sindaco
16. Per quanto riguarda la competenza del sindaco, espressamente prevista
dell’art. 192, comma 3, del Dlgs. 152/2006 in relazione all’ordine di
rimozione e avvio a recupero o smaltimento dei rifiuti abbandonati, la
giurisprudenza ritiene che questa norma, in quanto disposizione speciale
sopravvenuta, prevalga sul principio di devoluzione dei compiti gestionali
ai responsabili degli uffici previsto dall’art. 107, comma 5, del Dlgs.
267/2000 (v. recentemente CS Sez. V 08.07.2019 n. 4781).
17. È vero che il provvedimento impugnato è esteso anche all’attività di
bonifica, la quale rientra invece nella regola generale della competenza
dirigenziale, ma si tratta di una questione da risolvere in via
interpretativa, coordinando i vari ordini impartiti alla ricorrente.
18. Risulta infatti legittimo che il sindaco disponga la rimozione dei
rifiuti abbandonati, ai fini dell’avvio a recupero o smaltimento, e
contestualmente anticipi uno degli esiti possibili del seguito della
procedura, ossia l’obbligo di bonifica per l’ipotesi di accertamento della
contaminazione delle matrici ambientali. In questo modo, il sindaco non si
appropria di competenze dirigenziali, ma fornisce al destinatario
dell’ordinanza un quadro degli adempimenti che potrebbero subentrare una
volta rimossi i rifiuti ed effettuata la caratterizzazione dell’area.
Sulla responsabilità dell’abbandono dei rifiuti
19. In base all’art. 192, comma 3, del Dlgs. 152/2006, la rimozione dei
rifiuti abbandonati, ai fini dell’avvio a recupero o smaltimento, può essere
imposta al proprietario dell’area qualora l’abbandono sia imputabile a
titolo di dolo o colpa.
20. Nello specifico, l’elemento soggettivo emerge in modo evidente dalla
doppia posizione della ricorrente, non solo proprietaria dell’area ma anche
titolare dell’attività produttiva. L’utilizzazione a scopi produttivi
implica un controllo effettivo ed esclusivo tanto dell’area quanto delle
operazioni svolte sulla stessa. Non vi è dunque spazio per un ragionevole
dubbio circa interferenze di soggetti terzi sfuggite alla vigilanza della
ricorrente.
21. La circostanza che l’impiego di prodotti di amianto o contenenti amianto
risulti vietato a partire dalla legge 257/1992 non modifica la
qualificazione dei materiali come rifiuti abbandonati, e neppure la
qualificazione come rifiuti pericolosi, in quanto la condizione giuridica
dei rifiuti deve essere riferita al momento della scoperta, ossia al
presente. Non è quindi rilevante quello che il proprietario dell’area poteva
fare in passato con l’amianto. Rileva unicamente che nella sfera di
controllo del proprietario dell’area si trovino attualmente dei rifiuti
contenenti amianto, e dunque pericolosi.
22. In proposito, occorre richiamare anche la normativa comunitaria, la
quale (v. art. 3 par. 1.6 della Dir. 19.11.2008 n. 2008/98/CE, nonché i
successivi art. 14 e 15) impone l’obbligo di rimozione e smaltimento non
solo al produttore storico dei rifiuti ma anche al detentore attuale, inteso
come la persona fisica o giuridica nel possesso degli stessi. Questo
parametro identifica ancora la ricorrente, che è proprietaria dell’area da
molti anni, ed esercita sulla stessa, attualmente come in passato, un pieno
controllo, coincidente con la nozione comunitaria di possesso.
Sull’obbligo di caratterizzazione
23. Per quanto riguarda la scelta di associare all’ordine di rimozione dei
rifiuti abbandonati un ordine di caratterizzazione dell’area interessata
dall’abbandono dei rifiuti, si può ritenere che tale combinazione sia
legittima.
La caratterizzazione è infatti il punto di congiunzione tra la
fase di allontanamento dei rifiuti, necessariamente collocata
nell’immediatezza della scoperta, e la fase successiva ed eventuale di
bonifica dell’area. La presenza di rifiuti incontrollati è un potenziale
veicolo di trasferimento degli inquinanti nelle matrici ambientali, e dunque
nel momento in cui si effettua la rimozione occorre accertare se vi siano
situazioni di contaminazione.
In questo senso può essere interpretato l’art.
239, comma 1-a, del Dlgs. 152/2006, che disciplina le verifiche da svolgere
a seguito della rimozione dei rifiuti.
24. Sul problema dell’estensione dell’area da sottoporre a caratterizzazione
era stato disposto, attraverso le ordinanze cautelari sopra indicate, un
confronto tra la ricorrente e il Comune. Tale confronto aveva lo scopo di
raggiungere per gradi, e nel contraddittorio della conferenza di servizi,
una più precisa localizzazione dei rifiuti abbandonati, e conseguentemente
dei punti da sottoporre a caratterizzazione. L’ordinanza n. 471/2018 ha
sottolineato la necessità di leale collaborazione tra tutti i soggetti
coinvolti, con la riserva di valutare il comportamento delle parti come
argomento di prova ai sensi dell’art. 64, comma 4 cpa.
25. Come si è visto sopra, le indicazioni propulsive formulate in sede
cautelare non hanno prodotto risultati, a causa del rifiuto della ricorrente
di eseguire le analisi sulla propria aliquota di materiale prelevato il
24.05.2018. Senza la validazione dei risultati sui contaminanti non vi sono
elementi sicuri che consentano di riproporzionare le aree da caratterizzare.
L’obbligo a carico della ricorrente rimane quindi riferito all’intero
mappale n. 220, secondo le direttive che saranno formulate dall’ARPA sulla
base dei dati a disposizione della stessa.
Sul rapporto tra rimozione dei rifiuti e bonifica
26. La bonifica riguarda operazioni distinte dalla rimozione dei rifiuti
abbandonati, e si fonda sul diverso presupposto del superamento delle
concentrazioni soglia di contaminazione (CSC). Oltretutto, l’individuazione
del responsabile della contaminazione, soggetto tenuto alla bonifica,
rientra nella competenza della Provincia (v. art. 242-244 del Dlgs.
152/2006).
27. In concreto, tuttavia, esiste continuità tra la rimozione dei rifiuti
abbandonati e l’analisi della contaminazione delle matrici ambientali. I
rifiuti non controllati devono infatti essere presi in esame come potenziali
cause di superamento delle CSC, o come fattori di un rischio imminente di
contaminazione. È quindi necessario un coordinamento tra le amministrazioni
che hanno competenza sui rifiuti e quelle che hanno competenza sulla
bonifica. In questo quadro, è legittimo, come si è visto sopra, che l’ordine
di rimozione dei rifiuti abbandonati sia associato a un ordine di
caratterizzazione.
28. Si tratta evidentemente di una prima caratterizzazione, i cui risultati
devono essere discussi nella conferenza di servizi, per stabilire se vi sia
effettivamente una situazione di contaminazione, o se siano necessari nuovi
campionamenti. I risultati ottenuti confluiscono poi, come previsto
dall’art. 242, comma 4, del Dlgs. 152/2006, nella procedura di analisi del
rischio sitospecifica per la determinazione delle concentrazioni soglia di
rischio (CSR). Una volta fissate le CSR, la conferenza di servizi decide
sulla necessità e sul contenuto della bonifica.
29. Il Comune, attraverso l’ordinanza n. 80/2017, ha delineato questo
percorso, ma evidentemente non ha anticipato, né avrebbe potuto anticipare,
le valutazioni proprie dei passaggi successivi, nei quali dovranno essere
coinvolte altre amministrazioni, e in particolare l’ARPA e la Provincia.
Di conseguenza, il suddetto provvedimento, letto in collegamento con la nota
del NOE di Brescia del 20.03.2017, risulta legittimo, in quanto
interpretabile come un ordine riferito all’immediata rimozione dei rifiuti
abbandonati e alla prima caratterizzazione dell’area, in vista di un
successivo intervento di bonifica da valutare con il concorso di tutte le
amministrazioni competenti
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 07.02.2020 n. 114 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Congruità
di una offerta in perdita.
Non si possono far
rientrare nella valutazione di congruità
dell’offerta (nella fattispecie per il
servizio di ristorazione scolastica e
sociale) costi e ricavi relativi a rapporti
negoziali esterni, con soggetti che non sono
parte dell’appalto, rapporti che –anche in
un quadro di pregresse e consolidate
relazioni commerciali– sono comunque del
tutto eventuali; invero, l’offerta deve
essere sostenibile e il contratto non in
perdita per l’appaltatore autonomamente, e
non grazie a elementi esterni al contratto
medesimo, perché, diversamente, si
altererebbe la libera concorrenza a favore
degli operatori economici più forti, che
possono permettersi –pur di conquistare
quote sempre maggiori di mercato e di
espellere dal mercato altri concorrenti– di
presentare offerte in perdita
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 06.02.2020 n. 257 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
SENTENZA
Il ricorso è manifestamente fondato.
Segnatamente, fondato e assorbente è il
primo motivo di ricorso, dedotto in
principalità, con il quale la società Du.Se.
S.r.l. lamenta la “Violazione e falsa
applicazione dell’art. 97, d.lgs. n.
50/2016. Insostenibilità dell’offerta.
Violazione del principio di par condicio.
Eccesso di potere per carenza di istruttoria
e di motivazione, travisamento dei
presupposti di fatto e di diritto,
ingiustizia manifesta”.
Dalla documentazione in atti emerge con
chiarezza che i costi di esecuzione
dell’appalto di ristorazione superano di €
1.296.534,36 nel triennio il corrispettivo
che la società Pe. S.p.A. ricaverà dalla
preparazione dei pasti per il Comune: il
dato non è in contestazione.
L’offerta è, dunque, in perdita.
Non è, infatti, condivisibile la tesi della
stazione appaltante, sostenuta anche dalla
società aggiudicatrice, per cui nella
valutazione di congruità dell’offerta si
deve tenere conto anche dei ricavi derivanti
dalla produzione nel Centro cottura del
Comune di ulteriori pasti destinati a terzi:
ricavi che nella prospettazione della
controinteressata sono in grado di coprire
le spese generate dal servizio reso al
Comune.
Invero, l’offerta deve essere sostenibile e
il contratto non in perdita per
l’appaltatore autonomamente, e non grazie a
elementi esterni al contratto medesimo,
perché, diversamente, si altererebbe la
libera concorrenza a favore degli operatori
economici più forti, che possono permettersi
–pur di conquistare quote sempre maggiori di
mercato e di espellere dal mercato altri
concorrenti– di presentare offerte in
perdita (cfr., C.d.S., Sez. V, sentenza n.
210/2014; TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza n. 200/2017).
E che la produzione di pasti destinati a
terzi sia elemento estraneo al contratto
messo a gara lo si ricava da una pluralità
di elementi.
Innanzitutto, il bando di gara nella
denominazione dell’appalto indica «Servizio
di ristorazione scolastica e sociale», e
nella descrizione dell’oggetto «- la
gestione del servizio di ristorazione
scolastica a favore degli utenti delle
Istituzioni scolastiche statali e comunali,
- la gestione del servizio di ristorazione
degli asili nido comunali, - la gestione del
servizio di ristorazione del Centro Diurno
Disabili (C.D.D.), - la gestione del
servizio di produzione e consegna di pasti a
domicilio persone anziane e/o ridotta
autonomia». In nessun punto del bando si
parla di contratto misto o si fa cenno al
fatto che lo sfruttamento economico del
Centro cottura comunale per eseguire anche
altri appalti rientri nel sinallagma
negoziale.
È ben vero che il Disciplinare di gara
all’articolo 3, rubricato “Oggetto
dell’appalto, importo e suddivisione in
lotti”, elenca anche il conferimento
dell’uso del Centro Produzione Pasti di
proprietà del Comune e dei punti di
somministrazione posti nei vari plessi
scolastici, nel C.D.D. e negli asili nido.
Ma è altrettanto vero che tale conferimento
in uso è, per l’appunto, funzionale
all’esecuzione dell’appalto del servizio di
ristorazione per il Comune di Saronno, e non
ad altro, come dimostra la circostanza che
il conferimento riguarda non solo il Centro
cottura, ma anche i punti di
somministrazione dei pasti.
D’altro canto, l’utilizzo del Centro di
cottura per la produzione di pasti per
terzi, ai sensi dell’articolo 22.1 del
Capitolato speciale (che, non a caso,
utilizza la dizione “può produrre”),
rappresenta una facoltà e non un obbligo.
Né a conclusioni diverse conduce la
circostanza che l’aggio annuo minimo
garantito è elemento dell’offerta economica.
Infatti, ancora una volta il precitato
articolo 22.1 del Capitolato speciale
chiarisce che tale importo minimo è comunque
dovuto, ovverosia indipendentemente dal
fatto che nel Centro cottura comunale si
preparino pasti per terzi e che se ne
preparino un numero sufficiente a coprire
l’aggio promesso.
Quindi, a ben guardare, si tratta di un
costo fisso dell’appalto di ristorazione.
In definitiva, non si possono far rientrare
nella valutazione di congruità dell’offerta
per il servizio di ristorazione scolastica e
sociale, costi e ricavi relativi a rapporti
negoziali esterni, con soggetti che non sono
parte dell’appalto, rapporti che –anche in
un quadro di pregresse e consolidate
relazioni commerciali– sono comunque del
tutto eventuali.
Pertanto, avuto riguardo ai costi e ai
ricavi del solo servizio di ristorazione
scolastica e sociale, l’offerta di Pe.
S.p.A. è in perdita e, come tale, è ex se
anomala (cfr., ex plurimis, C.d.S.,
Sez. V, sentenza n. 5422/2019; C.d.S., Sez.
V, sentenza n. 963/2015; TAR
Campania–Napoli, Sez. II, sentenza n.
3940/2015; TAR Lazio–Roma, Sez. III-ter,
sentenza n. 8744/2015) e, pertanto, da
escludersi dalla gara.
In conclusione, il ricorso è fondato e per
questo viene accolto. Per l’effetto, è
annullata l’aggiudicazione a favore della
società Pe. S.p.A..
Non si fa, invece, luogo alla declaratoria
di inefficacia del contratto, non risultando
agli atti che vi sia stata la stipula,
peraltro, inibita dall’incidente cautelare
ai sensi dell’articolo 32, comma 11, D.Lgs.
n. 50/2016.
Nemmeno si fa luogo all’aggiudicazione
diretta dell’appalto alla società Du.Se.
S.r.l., spettando alla stazione appaltante
riattivare la procedura e adottare le
determinazioni conseguenti all’avvenuto
annullamento. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
1.- Pubblica amministrazione - procedimento amministrativo – art. 17-bis L.
241/1990 – silenzio-assenso “orizzontale” - ratio e finalità.
L’art. 3 della legge 07.08.2015 n. 124 (c.d. legge
Madia) ha disciplinato, all’art. 17-bis, un nuovo istituto di
semplificazione del procedimento amministrativo: si tratta di una
fattispecie di silenzio con valore tipizzato di assenso, che matura tra
Amministrazioni Pubbliche, oppure tra Amministrazioni e soggetti gestori di
beni o servizi pubblici, alle condizioni ed entro i limiti disegnati dalla
specifica disposizione normativa.
Per tale motivo viene definito come silenzio-assenso “interno”, ossia che
interviene all’interno del modulo procedimentale, oppure anche come
silenzio-assenso “orizzontale”, in quanto concerne i rapporti tra più
amministrazioni o enti pubblici e non involge il rapporto “verticale” con il
destinatario del provvedimento.
Pertanto, l’ambito di operatività di tale istituto di semplificazione
attiene ai procedimenti (e decisioni) pluristrutturati, quando
all’emanazione di un provvedimento finale partecipino più Amministrazioni,
ciascuna portatrice di un peculiare interesse pubblico, che cura
nell’esercizio di proprie funzioni, ascritte dalla legge, in tal guisa che
l’avviso espresso, con parere, o altra formula di assenso, da una
Amministrazione è parimenti vincolante, ai fini dell’emanazione della
decisione finale.
L’obiettivo raggiunto dal legislatore è stato quello di aver introdotto un
elemento di semplificazione, che questa volta interviene nella fase
decisoria del procedimento.
In sintesi, mentre gli istituti di semplificazione, previsti dagli artt. 16
e 17 della legge 07.08.1990 n. 241, riguardano i pareri amministrativi e le
valutazioni (pareri) tecnici, da acquisirsi nella fase istruttoria del
procedimento, l’istituto di semplificazione, introdotto dall’art. 17-bis
della legge 07.08.1990 n. 241, del silenzio tra Amministrazioni, concerne
invece la fase decisoria(e precisamente quellapre-decisioria) del
procedimento, quando cioè v’è uno schema, o bozza di provvedimento
amministrativo (o di atto normativo) da adottarsi (massima free tratta da
e link a www.giustamm.it - TAR
Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 06.02.2020
n. 194).
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SENTENZA
1.- Con il primo motivo, la società deduce l’avvenuto compimento,
nel corso dell’esame della propria istanza, di una fattispecie di
silenzio-assenso c.d. orizzontale tra amministrazioni, motivandone
ampiamente le ragioni in diritto.
Tuttavia, la tesi non può essere condivisa, stante la lettera della
disposizione normativa e la finalità della novella della legge 07.08.1990 n.
241, effettuata ad opera dell’art. 3 della legge 07.08.2015 n. 124 (c.d.
legge Madia), che ha disciplinato, all’art. 17-bis, un nuovo istituto di
semplificazione del procedimento amministrativo.
Si tratta di una fattispecie di silenzio con valore tipizzato di assenso,
che matura tra amministrazioni pubbliche, oppure tra amministrazioni e
soggetti gestori di beni o servizi pubblici, alle condizioni ed entro i
limiti disegnati dalla specifica disposizione normativa.
Per tale motivo viene definito come silenzio-assenso “interno”, ossia che
interviene all’interno del modulo procedimentale, oppure anche come
silenzio-assenso “orizzontale”, in quanto concerne i rapporti tra più
amministrazioni o enti pubblici e non involge il rapporto “verticale” con il
destinatario del provvedimento.
Pertanto, l’ambito di operatività di tale istituto di semplificazione
attiene ai procedimenti (e decisioni) pluristrutturati, quando
all’emanazione di un provvedimento finale partecipino più amministrazioni,
ciascuna portatrice di un peculiare interesse pubblico, che cura
nell’esercizio di proprie funzioni, ascritte dalla legge, in tal guisa che
l’avviso espresso, con parere, o altra formula di assenso, da una
amministrazione è parimenti vincolante, ai fini dell’emanazione della
decisione finale.
L’obiettivo raggiunto dal legislatore è stato quello di aver introdotto un
elemento di semplificazione, che questa volta interviene nella fase
decisoria del procedimento.
Per meglio dire, mentre gli istituti di semplificazione, previsti dagli artt.
16 e 17 della legge 07.08.1990 n. 241, riguardano i pareri amministrativi e
le valutazioni (pareri) tecnici, da acquisirsi nella fase istruttoria del
procedimento, l’istituto di semplificazione, introdotto dall’art. 17-bis
della legge 07.08.1990 n. 241, del silenzio tra amministrazioni, concerne
invece la fase decisoria (e precisamente quella pre-decisioria) del
procedimento, quando cioè v’è uno schema, o bozza di provvedimento
amministrativo (o di atto normativo) da adottarsi (così: Cons. St., comm.
spec., parere 23.06.2016 n. 1640; Cons. St., sez. III, 20.06.2018 n. 3783).
Tant’è che l’art. 17-bis della legge n. 241 citato prevede che, qualora
debba acquisirsi l’assenso (o concerto, o nulla osta) per l’adozione di
provvedimenti amministrativi (o anche di atti normativi) di competenza di
altre amministrazioni, le amministrazioni interpellate comunicano l’assenso,
ove lo ritengano, entro trenta giorni dal ricevimento di uno schema, già
elaborato, che deve essere corredato dalla relativa documentazione,
evidentemente istruttoria.
Il termine è interrotto qualora l’amministrazione, che deve rendere il
proprio assenso, rappresenti l’esigenza di ulteriore istruttoria, oppure
richieda motivate modifiche dello schema, formulate in modo puntuale. In tal
caso, l’assenso dovrà essere reso nei successivi trenta giorni.
Decorsi i predetti termini, senza che sia stato comunicato l’assenso, lo
stesso si intende acquisito (silenzio-assenso interno). |
APPALTI:
1.- Appalti pubblici – gare – suddivisione in lotti – limiti.
In materia di appalti pubblici, costituisce principio di
carattere generale la preferenza per la suddivisione in lotti, in quanto
diretta a favorire la partecipazione alle gare delle piccole e medie
imprese: tale principio, come recepito all'art. 51 del D.Lgs. 18.04.2016, n.
50, non costituisce tuttavia una regola inderogabile, in quanto la norma
consente alla stazione appaltante di derogarvi per giustificati motivi, che
devono essere puntualmente espressi nel bando o nella lettera di invito,
proprio perché il precetto della ripartizione in lotti è funzionale alla
tutela della concorrenza.
La scelta della stazione appaltante circa la suddivisione in lotti di un
appalto pubblico costituisce, peraltro, una decisione normalmente ancorata,
nei limiti previsti dall’ordinamento, a valutazioni di carattere
tecnico-economico. In tali ambiti, il concreto esercizio del potere
discrezionale dell’Amministrazione circa la ripartizione dei lotti da
conferire mediante gara pubblica deve essere funzionalmente coerente con il
bilanciato complesso degli interessi pubblici e privati coinvolti dal
procedimento di appalto e resta delimitato, oltre che da specifiche norme
del codice dei contratti, anche dai principi di proporzionalità e di
ragionevolezza.
Alle stazioni appaltanti è, tuttavia, vietato suddividere le gare in lotti
distinti laddove ciò non sia giustificato dalla diversità dei servizi o
delle forniture oggetto dei vari sub-lotti e/o dalla esigenza di favorire la
partecipazione delle piccole medie imprese, anche in sintonia con l’assetto
regolatorio contenuto nell’articolo 68 del codice dei contratti incentrato,
quale canone generale dell’intera disciplina dell’evidenza pubblica, sulla
valorizzazione del principio di equivalenza che, per definizione, rende
valutabili prestazioni da ritenersi omogenee sul piano funzionale secondo
criteri di conformità sostanziale (massima free
tratta da e link a www.giustamm.it -
Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 05.02.2020
n. 932). |
ATTI AMMINISTRATIVI: All’Adunanza
plenaria l’accessibilità dei documenti reddituali, patrimoniali e finanziari.
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Accesso ai documenti – Imposte e tasse - Documenti reddituali
patrimoniali e reddituali – Accessibilità - Rimessione all’Adunanza
plenaria.
Sono rimesse all’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato le questioni:
a) se i documenti reddituali (le dichiarazioni dei redditi e le
certificazioni reddituali), patrimoniali (i contratti di locazione
immobiliare a terzi) e finanziari (gli atti, i dati e le informazioni
contenuti nell’Archivio dell’Anagrafe tributaria e le comunicazioni
provenienti dagli operatori finanziari) siano qualificabili quali documenti
e atti accessibili ai sensi degli artt. 22 e ss., l. n. 241 del 1990;
b) in caso positivo, quali siano i rapporti tra la disciplina
generale riguardante l’accesso agli atti amministrativi ex lege n. 241/1990
e le norme processuali civilistiche previste per l’acquisizione dei
documenti amministrativi al processo (secondo le previsioni generali, ai
sensi degli artt. 210 e 213 c.p.c.; per la ricerca telematica nei
procedimenti in materia di famiglia, ai sensi del combinato disposto di cui
artt. 492-bis c.p.c.me 155-sexies delle disp. att. del cod. proc. civ.);
c) in particolare, se il diritto di accesso ai documenti
amministrativi ai sensi della l. n. 241 del 1990 sia esercitabile
indipendentemente dalle forme di acquisizione probatoria previste dalle
menzionate norme processuali civilistiche, o anche –eventualmente-
concorrendo con le stesse;
d) ovvero se -all’opposto- la previsione da parte dell’ordinamento
di determinati metodi di acquisizione, in funzione probatoria di documenti
detenuti dalla Pubblica Amministrazione, escluda o precluda l’azionabilità
del rimedio dell’accesso ai medesimi secondo la disciplina generale di cui
alla l. n. 241 del 1990;
e) nell’ipotesi in cui si riconosca l’accessibilità agli atti
detenuti dall’Agenzia delle Entrate (dichiarazioni dei redditi,
certificazioni reddituali, contratti di locazione immobiliare a terzi,
comunicazioni provenienti dagli operatori finanziari ed atti, dati e
informazioni contenuti nell’Archivio dell’Anagrafe tributaria), in quali
modalità va consentito l’accesso, e cioè se nella forma della sola visione,
ovvero anche in quella dell’estrazione della copia, ovvero ancora per via
telematica (1).
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(1) Ha chiarito la
Sezione che va stabilito se il diritto di accesso ai documenti
amministrativi ai sensi dell’art. 22 cit. sia esercitabile indipendentemente
dalle forme di acquisizione probatoria previste dalle menzionate norme
processuali civilistiche, o anche –eventualmente- concorrendo con le stesse.
Ciò equivarrebbe ad affermare tre principi:
- il primo, che il diritto di accesso ex lege n. 241/1990
potrebbe essere esercitato –come è accaduto nel caso di specie- prima ed
indipendentemente dal fatto che il giudice del procedimento autorizzi la
produzione di determinati documenti del numerato punto 9: l’accesso agli
atti è stato azionato ed in parte consentito prima ancora che si svolgesse
l’udienza di prima comparizione);
- il secondo, che l’accesso ex lege n. 241/1990 potrebbe
essere esercitato anche cumulativamente, rispetto alle previsioni sulle
acquisizioni secondo la normativa processualcivilistica;
- il terzo, che l’accesso ex lege n. 241/1990 potrebbe
essere esercitato anche quando il giudice del procedimento civile non abbia
disposto il deposito della documentazione a carico delle parti o non abbia
autorizzato le istanze istruttorie formulate dalle parti.
All’opposto, se la previsione da parte dell’ordinamento di determinati
metodi di acquisizione in funzione probatoria di documenti detenuti dalla
Pubblica Amministrazione, con l’attribuzione dei relativi poteri istruttori
ad un giudice avente giurisdizione sulla controversia ‘principale’,
escluda o precluda l’azionabilità del rimedio dell’accesso ai medesimi
secondo la disciplina generale di cui alla legge n. 241 del 1990.
Ciò equivarrebbe a dire che il privato non potrebbe mai azionare il diritto
di accesso agli atti richiesti, pur se qualificati in senso sostanziale come
atti amministrativi, dovendosi sempre rimettere, per la tutela delle proprie
situazioni giuridiche, all’esercizio dei poteri istruttori del giudice
civile, quando dunque il procedimento civile già pende.
Ciò premesso, la Sezione segnala che, a favore della prima tesi, militano
gli argomenti variamente articolati dalla Sezione nelle sentenze n.
2472/2014, n. 5347/2019 e n. 5910/2019, e che di seguito più o meno
testualmente si riportano.
La disciplina sull’accesso agli atti amministrativi, attese le sue rilevanti
finalità di pubblico interesse, costituisce -ai sensi dell’art. 22, comma 2,
della legge n. 241 del 1990- “principio generale dell'attività
amministrativa”.
La ratio dell’istituto può essere ravvisata sia sull’esigenza di rendere
l’Amministrazione una ‘casa di vetro’ per l’attuazione dei principi
di imparzialità, trasparenza e buon andamento, rilevanti per l’art. 97 della
Costituzione (cfr. Ad. Plen., 18.04.2006, n. 6; Sez. IV, 14.04.2010, n.
2093), sia sull’esigenza di agevolare agli interessati di ottenere gli atti
il cui esame consente di valutare se sia il caso di agire in giudizio, a
tutela di una propria posizione giuridica (cfr. Sez. IV, 12.03.2009, n.
1455), non potendosi ravvisare ‘zone franche’ in cui non rilevino i
principi sopra richiamati (Ad. Plen., 24.06.1999, n. 16).
La specialità che connota la disciplina processualistica non può ritenersi
tale da giustificare la presenza di una deroga, al punto da rimettere alla
(eventuale ed esclusiva) positiva valutazione del giudice –titolare del
potere di decidere la controversia ‘principale’- la reale
conoscibilità di documentazione di rilievo e, per altro verso, la
concretizzazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale.
L’affermazione del diritto di accesso è estrinsecazione anche della tutela
dei diritti fondamentali dei familiari, in quanto nei procedimenti in
materia di famiglia sono spesso presenti sia gli interessi confliggenti dei
coniugi o dei conviventi, che gli interessi dei figli minorenni, questi
ultimi tutelati dall'art. 5 del settimo Protocollo Addizionale della CEDU e
dagli artt. 29 e 30 della Costituzione.
Il consolidato indirizzo seguito dalla giurisprudenza amministrativa
ammette, senza limitazioni, l’esercizio del diritto di accesso ai documenti
amministrativi e la conseguente applicazione della relativa disciplina
sostanziale e processuale, anche in pendenza dei giudizi civili.
In questo senso, è stato più volte affermato come “non possa ritenersi
che l'accesso ai documenti sia automaticamente precluso dalla pendenza di un
giudizio civile, nella cui sede l'ostensione degli stessi documenti potrebbe
essere disposta dal g.o., mediante ordine istruttorio ex art. 210 c.p.c.
oppure mediante richiesta di informazioni ex art. 213 c.p.c., stante
l'autonomia della posizione sostanziale tutelata con gli artt. 22 e ss. l.
n. 241 cit. rispetto alla posizione che l'interessato intende difendere con
altro giudizio e della relativa azione posta dall'ordinamento a tutela del
diritto di accesso, perché, diversamente opinando, ciò si tradurrebbe in una
illegittima limitazione del diritto di difesa delle parti, con conseguente
lesione del principio dell'effettività della tutela giurisdizionale” (ex
multis, Cons. Stato, sez. VI, 15.11.2018, n. 6444; id., 21.03.2018, n.
1805).
La tutela dei diritti fondamentali non troverebbe eguale garanzia mediante
l’utilizzo degli strumenti previsti dal codice di procedura civile, i quali
rimettono all’apprezzamento del giudice l’ingresso nel giudizio di
documenti, di atti e di informazioni in possesso della Pubblica
Amministrazione.
L'ampliamento delle prerogative del giudice civile nell'acquisizione delle
informazioni e dei documenti patrimoniali e finanziari nei procedimenti in
materia di famiglia, rispetto ai poteri istruttori già previsti dall’art.
210 c.p.c., introdotte dal combinato disposto degli artt. 155-sexies delle
disposizioni di attuazione del cod. proc. civ. e dell'art. 492-bis del cod.
proc. civ., non può costituire un ostacolo all'accesso difensivo,
soprattutto laddove le istanze istruttorie proposte nel giudizio non siano
state accolte.
Dall’ampliamento delle menzionate prerogative non potrebbe trarsi in via
diretta, né desumersi in via indiretta, alcuna ipotesi derogatoria alla
disciplina in materia di accesso alla documentazione contenuta nelle banche
dati della Pubblica Amministrazione.
Diversamente opinando, l’implementazione dei poteri istruttori del giudice
ordinario nell'ambito dei procedimenti in materia di famiglia si tradurrebbe
in un ingiustificato ridimensionamento della disciplina generale
sull’accesso, fuori dei casi e dei modi contemplati dall’ordinamento.
Tra le due discipline non sussisterebbe un rapporto di specialità, nel senso
che la norma speciale derogherebbe a quella generale, escludendone
l’applicazione, bensì di concorrenza e di complementarietà, poiché il
giudice che tratta la vicenda di famiglia può utilizzare i poteri di accesso
ai dati della Pubblica Amministrazione genericamente previsti dall'art. 210
cod. proc. civ., come ampliati dalle nuove norme inserite nel 2014, ma
questa rimane una sua facoltà e non un obbligo.
Deve conservarsi la possibilità, per il privato, di avvalersi degli ordinari
strumenti offerti dalla l. n. 241 del 1990, per ottenere gli stessi dati che
il giudice potrebbe intimare di consegnare all'Amministrazione.
La piena esplicazione del diritto di difesa non potrebbe dipendere dalla
spontanea produzione in giudizio della controparte, né dall’esercizio
discrezionale del potere acquisitivo da parte del giudice. Mentre
l’esercizio dell’accesso non incontrerebbe limiti se non rispetto alla
delibazione dei presupposti che consentono l’ingresso dell’azione ostensiva
e alla verifica dell’inesistenza delle preclusioni di cui all’art. 24 della
l. n. 241/1990, l’ammissibilità dell’acquisizione probatoria
processualcivilistica (ordine di esibizione tradizionale o autorizzazione
alla ricerca telematica) sarebbe soggetta al principio del convincimento del
giudice del procedimento, il quale potrebbe non consentire l’accesso in
ragione della scarsa attendibilità delle allegazioni della parte e dei
documenti probatori offerti a loro sostegno, elidendo così alla radice ogni
prospettiva di piena esplicazione del diritto di difesa.
L’accesso ai documenti, inoltre, potrebbe essere esperito anche prima ed
indipendentemente dalla pendenza del procedimento civile, anche allo scopo
di impedire il verificarsi degli effetti negativi discendenti dal cd.
ricorso “al buio”.
L’ordine di esibizione o l’autorizzazione all’accesso telematico da parte
del giudice del procedimento, infatti, potrebbe rimediare alle eventuali
lacune di allegazione e di prova dei fatti contenute negli atti introduttivi
del giudizio, ma non potrebbe sortire effetti sulla decisione –che spetta
alla parte soltanto- di valutare, a monte, la convenienza o l’opportunità
dell’instaurazione del procedimento.
Come ha già osservato questo Consiglio (Sez. VI, 18.12.1997, n. 1591; Sez.
IV, 06.03.1995, n. 158), «se esercitato ante causam, l’accesso può avere
anche esiti di prevenzione della lite: la conoscenza dei documenti
rilevanti, infatti, o corroborando la legittimità degli atti amministrativi
o comunque ingenerando il convincimento dell’inopportunità
dell’impugnazione, può dissuadere l’amministrato dall’azione giurisdizionale»:
tali considerazioni sono state formulate in fattispecie in cui si è
considerata rilevante l’esigenza degli interessati di accedere agli atti,
per valutare se proporre un ricorso nei confronti di una pubblica
Amministrazione, ma possono essere considerate rilevanti anche per i casi in
cui l’acquisizione degli atti possa indurre a valutare se agire o meno nei
confronti di un soggetto privato, per controversie di ‘natura civilistica’.
È stato anche osservato –ma non riguarda nello specifico il caso di specie,
perché si tratta di soggetti che hanno convissuto di fatto- che il diritto
del richiedente al pieno accesso ai documenti fiscali del coniuge in
pendenza del giudizio di separazione o di divorzio, ed indipendentemente
dall’esercizio discrezionale del potere di ammissione o di autorizzazione
probatoria da parte del giudice civile, si pone anche in sintonia con le
recenti tendenze della giurisprudenza civile sviluppatesi in ordine alla
tematica della individuazione dei criteri di determinazione dell’assegno
divorzile, sempre più vicine ad ammettere la funzione sia assistenziale, che
equilibratrice, che perequativo-compensativa (Cass. civ., Sez. un.,
11.07.2018, n. 18827).
Indipendentemente dal caso specifico della strumentalità dell’accesso agli
atti ai fini della quantificazione dell’assegno di separazione o di
divorzio, l’accesso pieno ed integrale alla condizione reddituale,
patrimoniale ed economico-finanziaria delle parti processuali -siano essi
coniugi o conviventi di fatto- sarebbe da considerare precondizione
necessaria per l’uguale trattamento giuridico nell’ambito di tutti i
procedimenti di famiglia.
Sono oramai pacificamente acquisiti a livello legislativo e
giurisprudenziale i principi sulla pari dignità e sull’uguaglianza
sostanziale di tutti i nuclei familiari, sia quelli fondati sul matrimonio,
che quelli consistenti in rapporti di convivenza di fatto, soprattutto a
tutela e a garanzia dei figli minorenni o di quelli maggiorenni
economicamente non indipendenti.
Ai fini dell’accertamento della complessiva situazione
economico-patrimoniale, non avrebbe senso la distinzione, operata
dall’Agenzia, tra i documenti immediatamente accessibili (quelli reddituali
e patrimoniali) e quelli che necessitano della previa autorizzazione del
giudice competente (quelli finanziari): sia perché potrebbe difettare, nei
singoli casi, la pendenza di una controversia civile; sia perché i documenti
finanziari consentirebbero di ricostruire fedelmente le condizioni
economico-patrimoniali in cui versano le parti -soprattutto a garanzia dei
figli minorenni- perché provenienti, il più delle volte, da terzi estranei,
quali gli operatori finanziari.
L’istituto dell’accesso rivestirebbe anche una posizione di assoluta
rilevanza al fine di consentire la massima trasparenza, tra le parti ed a
tutela soprattutto dei figli minorenni, delle condizioni economiche nel
momento della crisi delle relazioni familiari.
L’ordinamento nel suo complesso aspirerebbe alla massima protezione
possibile delle situazioni giuridiche soggettive, a prescindere dalla loro
consistenza (di diritto soggettivo o di interesse legittimo) e dalla loro
natura (a seconda che si tratti, cioè, di una situazione finale o di una
situazione strumentale), secondo i principi generali dell’unitarietà, della
concorrenza e della complementarietà delle tutele.
In base all’ordinamento medesimo, non vi sarebbe dubbio sul fatto che le
comunicazioni relative ai rapporti finanziari, stando alla terminologia
propria della disciplina sull’accesso di cui all'art. 22, comma 1, lett. d)
della l. n. 241 del 1990 e all'art. 1, comma 1, lett. a) del d.P.R.
28.12.2000, n. 445, costituiscono “documenti”, in quanto l’Amministrazione
finanziaria, sebbene non sia essa a formarli, può utilizzarli per
l’esercizio delle proprie funzioni istituzionali, come previsto nel
dettaglio dall’art. 7 del d.P.R. 29.09.1973, n. 605.
Sussisterebbe l’interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad
una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
stato richiesto l’accesso, ai sensi dell’art. 22 l. n. 241/1990, attesa la
pendenza del giudizio di volontaria giurisdizione.
Il divieto contenuto nella circolare dell’Agenzia delle entrate del
10.10.2017, relativo all’accesso alle “risultanze derivanti dall’Archivio
dei rapporti finanziari”, in assenza dell’autorizzazione del Tribunale,
non troverebbe fondamento normativo, in mancanza di espressa previsione
rinvenibile in tal senso.
L’art. 7 del d.P.R. n. 605 del 1973 (come modificato dal d.l. 04.07.2006, n.
223, convertito con modificazioni dalla legge 04.08.2006, n. 248) ha
previsto l'obbligo per ogni operatore finanziario di comunicare, in
un'apposita sezione dell'Anagrafe tributaria denominata “Archivio dei
rapporti finanziari”, l'esistenza e la relativa natura dei rapporti
finanziari intrattenuti con qualsiasi soggetto. L’art. 7 non ha previsto che
queste informazioni, una volta riversate nell'Archivio dei rapporti
finanziari da parte delle banche e degli operatori finanziari, possano
essere utilizzate "unicamente" dall'Amministrazione finanziaria e
dalla Guardia di Finanza, ma si è limitato a precisare che si tratta di atti
certamente utilizzabili da tali soggetti per l'azione di contrasto
all'evasione fiscale, senza affrontare per nulla il tema della loro
ostensibilità e dell’eventuale conflitto con il diritto alla riservatezza
del soggetto cui gli atti afferiscono.
La questione andrebbe risolta facendo applicazione dell’art. 24, comma 7,
della legge n. 241 del 1990: "Deve comunque essere garantito ai
richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia
necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Nel caso
di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito
nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti
dall'art. 60 del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196, in caso di dati
idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale".
Il bilanciamento degli interessi contrapposti andrebbe effettuato e risolto
in applicazione del D.M. 29.10.1996, nr. 603, recante "Regolamento per la
disciplina delle categorie di documenti sottratti al diritto di accesso in
attuazione dell'art. 24, comma 2, della L. 07.08.1990, n. 241". L'art.
5, lettera a) del decreto menziona la "documentazione finanziaria,
economica, patrimoniale e tecnica di persone fisiche e giuridiche, gruppi,
imprese e associazioni comunque acquisita ai fini dell'attività
amministrativa"; la sottrae all'accesso inteso come diritto alla copia,
ma garantisce "la visione degli atti dei procedimenti amministrativi la
cui conoscenza sia necessaria per la cura o la difesa degli interessi
giuridicamente rilevanti propri di coloro che ne fanno motivata richiesta”.
Con riguardo al rapporto tra accesso e privacy, rileverebbe il combinato
disposto degli artt. 59 e 60 del D.lgs. 30.06.2003, n. 196 (cd. Codice della
privacy), e delle disposizioni di cui alla l. n. 241 del 1990, dal quale
deriva un sistema connotato da tre livelli di protezione dei dati dei terzi
e, in maniera corrispondente, tre gradi di intensità della situazione
giuridica che il richiedente intende tutelare con la richiesta di accesso.
Il bilanciamento investirebbe il diritto alla riservatezza previsto dalla
normativa vigente in materia di accesso ai documenti “sensibili”
dell’ex convivente e, dall’altro, la cura e la tutela degli interessi
economici e della serenità dell'assetto familiare, soprattutto nei riguardi
del figlio minorenne, presente nella controversia in questione.
Occorrerebbe, infine, affrontare gli argomenti finora esposti, al lume del
complessivo e vigente quadro normativo all’interno del quale si inserisce la
previsione di cui all’art. 492-bis del cod. proc. civ., e dal quale
sembrerebbe emergere -oltre alla forte discrezionalità del potere
istruttorio del giudice civile, sopra evidenziata- anche la obiettiva
difficoltà incontrata dalle parti processuali nel sollecitare la supplenza
istruttoria del giudice.
Le lacune istruttorie spesso si verificano –come nel caso di specie- a causa
del comportamento processuale di una parte a danno dell’altra,
inottemperante o parzialmente ottemperante agli obblighi di deposito, ed il
superamento delle medesime postula l’utilizzo di tecniche di indagine molto
invasive, soprattutto per la sfera giuridica dei terzi estranei (es. le
indagini fiscali e tributarie), con notevole dispiegamento dell’energia
della forza pubblica (es. Guardia di Finanza).
Tali indagini –peraltro- difficilmente sono autorizzate dal giudice civile,
in assenza di puntuali, specifici e ben motivati elementi conoscitivi (ex
multis, Cass. civ., sez. I, 06.06.2013, n. 14336; Id., sez. I,
20.09.2013, n. 21603; Id., sez. VI, 15.11.2016, n. 23263; Id., sez. I,
04.04.2019, n. 9535).
L’accesso agli atti, dunque, sotto quest’angolo prospettico, consentirebbe
di conoscere in anticipo le informazioni utili alla difesa dei propri
interessi; di acquisire le informazioni senza dispiegamento della forza
pubblica; di non gravare eccessivamente l’Amministrazione finanziaria,
attraverso l’eventuale autonomo accesso telematico alle banche dati;
comunque sia, nel bilanciamento degli interessi, di gravare l’Agenzia delle
Entrate -che per sua funzione istituzionale è l’ente depositario di tutti
questi atti- rispetto alla polizia fiscale e tributaria, deputata allo
svolgimento di altre funzioni istituzionali
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
ordinanza 04.02.2020 n. 888 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: L'art.
80, comma 5, lett. m), del d.lgs. 50/2016 stabilisce che deve essere escluso
dalla partecipazione alla procedura di gara l’operatore economico che “si
trovi rispetto ad un altro partecipante alla medesima procedura di
affidamento, in una situazione di controllo di cui all'articolo 2359 del
codice civile o in una qualsiasi relazione, anche di fatto, se la situazione
di controllo o la relazione comporti che le offerte sono imputabili ad un
unico centro decisionale”.
Dalla piana interpretazione della norma si evince che “fra le cause di
esclusione dalle gare pubbliche, devono essere ricomprese, oltre alle
ipotesi previste dall'art. 2359 c.c., anche quelle non codificate di
collegamento sostanziale le quali, attestando la riconducibilità dei
soggetti partecipanti alla selezione ad un unico centro decisionale, causano
o possono causare la vanificazione dei principi generali in tema di par
condicio, segretezza delle offerte e trasparenza della competizione,
risultando ininfluente che la rilevanza del collegamento sia stata o meno
esplicitata nel bando di gara”.
---------------
Nel caso di annullamento o revoca di una aggiudicazione provvisoria, la
stazione appaltante non è obbligata a comunicare all'impresa aggiudicataria
provvisoria l'avvio del procedimento di autotutela, atteso che
l'aggiudicazione provvisoria è atto endo-procedimentale, che s'inserisce
nella procedura comparativa come momento necessario ma non decisivo.
---------------
Il ruolo di garanzia attribuito al RUP implica necessariamente il potere di
provvedere all’esclusione dei concorrenti nei casi tassativamente previsti
dal legislatore a tutela degli interessi della stazione appaltante: “tale
conclusione, del resto, reperisce il proprio ineludibile riscontro
nell'indirizzo stabilmente assunto dal Consiglio di Stato, il quale,
riguardo ad una questione analoga a quella ora in esame, ha invero ritenuto
che "la doglianza con la quale l'appellante sostiene che il responsabile del
procedimento non è competente in ordine all'esclusione delle partecipanti
alla gara deve essere respinta essendo la tesi sostenuta in contrasto con
orientamento pacifico del Consiglio di Stato che il Collegio condivide e al
quale fa riferimento ai sensi dell'art. 74 del codice del processo
amministrativo".
Senza ancora considerare come proprio l'attribuzione al RUP delle competenze
afferenti all'adozione dei provvedimenti di esclusione trovi piena
corrispondenza nel particolare ruolo attribuito a tale figura, nel contesto
della gara, e alle funzioni di garanzia e di controllo che ad esso sono
intestate, anche in ragione dei tempi e delle modalità della sua
preposizione, che è sempre anteposta (anche logicamente) all'avvio della
procedura di affidamento (art. 32, comma 1), così da collocarlo in una
posizione di originaria terzietà e separazione nel corso dell'intero ciclo
dell'appalto (condizione che si rileva sia rispetto agli organi deputati
allo svolgimento delle valutazioni tecniche -costituiti invece solo "dopo la
scadenza del termine fissato per la presentazione delle offerte", ai sensi
dell'art. 77, comma 7, D.Lgs. n. 50 del 2016- sia riguardo
all'organizzazione della stazione appaltante, quanto meno fino alla
formulazione, da parte del RUP, della proposta di aggiudicazione "soggetta
ad approvazione dell'organo competente secondo l'ordinamento della stazione
appaltante e nel rispetto dei termini dallo stesso previsti" - art. 33, 1°
comma).
---------------
7. Il ricorso è infondato.
7.1. L'art. 80, comma 5, lett. m), del d.lgs. 50/2016 stabilisce che deve
essere escluso dalla partecipazione alla procedura di gara l’operatore
economico che “si trovi rispetto ad un altro partecipante alla medesima
procedura di affidamento, in una situazione di controllo di cui all'articolo
2359 del codice civile o in una qualsiasi relazione, anche di fatto, se la
situazione di controllo o la relazione comporti che le offerte sono
imputabili ad un unico centro decisionale”.
Dalla piana interpretazione della norma si evince che “fra le cause di
esclusione dalle gare pubbliche, devono essere ricomprese, oltre alle
ipotesi previste dall'art. 2359 c.c., anche quelle non codificate di
collegamento sostanziale le quali, attestando la riconducibilità dei
soggetti partecipanti alla selezione ad un unico centro decisionale, causano
o possono causare la vanificazione dei principi generali in tema di par
condicio, segretezza delle offerte e trasparenza della competizione,
risultando ininfluente che la rilevanza del collegamento sia stata o meno
esplicitata nel bando di gara” (TAR Napoli, Sez. V, 03/01/2019 n. 27).
Nel concreto caso di specie, è circostanza oggettiva e non contestata che
tra le offerte presentate dalla ricorrente e dalla ditta seconda
classificata nella graduatoria di gara sussistono molteplici similitudini,
che riguardano non soltanto il ribasso sui prezzi, ma anche i contenuti
tecnici e la veste grafica, al punto che sono ravvisabili i medesimi errori
di battitura.
I predetti elementi in comune non sono stati giustificati dalla ricorrente
in modo plausibile, dal momento che a fronte della spiegazione secondo cui
alcune similitudini descrittive sarebbero da imputare al fatto che entrambe
le ditte “hanno fatto riferimento per gli arredi ad una ditta leader nel
settore” (cfr. pag. 10 del ricorso), resta il fatto che gli aspetti di
immediata sovrapponibilità (o meglio, di assoluta identità) tra le offerte
sono molteplici e concordanti, essendo riscontrabile la coincidenza di 45
prezzi su 49, l’utilizzo delle stesse immagini, il riferimento ai medesimi
particolari costruttivi, oltre che agli stessi arredi. D’altronde la
invocata giustificazione del riferimento ad una ditta leader nel settore non
è poi confermata da una circostanziata indicazione delle modalità attraverso
cui tale riferimento avrebbe comportato la sostanziale uguaglianza
dell’offerta delle due partecipanti.
L’oggettiva convergenza di tali riscontri istruttori nel senso della unicità
del centro di imputazione delle opzioni partecipative sottese alle offerte
vale a dimostrare la lesione dell’interesse alla segretezza ed autonomia dei
relativi contenuti, con conseguente violazione del principio di
concorrenzialità.
7.2. Parimenti infondata è la censura con cui la ricorrente ha lamentato la
mancata comunicazione di avvio del provvedimento di revoca
dell’aggiudicazione provvisoria: “nel caso di annullamento o revoca di
una aggiudicazione provvisoria, la stazione appaltante non è obbligata a
comunicare all'impresa aggiudicataria provvisoria l'avvio del procedimento
di autotutela, atteso che l'aggiudicazione provvisoria è atto
endo-procedimentale, che s'inserisce nella procedura comparativa come
momento necessario ma non decisivo” (TAR Catania, Sez. I, 20/02/2017 n.
355).
7.3. Né miglior sorte ha la doglianza relativa all’incompetenza del RUP
rispetto all’adozione del provvedimento di esclusione della ricorrente dalla
procedura concorsuale, dal momento che la giurisprudenza pronunciatasi in
materia ha più volte ribadito che il ruolo di garanzia attribuito al RUP
implica necessariamente il potere di provvedere all’esclusione dei
concorrenti nei casi tassativamente previsti dal legislatore a tutela degli
interessi della stazione appaltante: “tale conclusione, del resto,
reperisce il proprio ineludibile riscontro nell'indirizzo stabilmente
assunto dal Consiglio di Stato, il quale, riguardo ad una questione analoga
a quella ora in esame, ha invero ritenuto che "la doglianza con la quale
l'appellante sostiene che il responsabile del procedimento non è competente
in ordine all'esclusione delle partecipanti alla gara deve essere respinta
essendo la tesi sostenuta in contrasto con orientamento pacifico del
Consiglio di Stato (Sezione Quinta, 06.05.2015, n. 2274, 21.11.2014, n.
5760) che il Collegio condivide e al quale fa riferimento ai sensi dell'art.
74 del codice del processo amministrativo" (Cons. Stato, Sez. III, n. 2983
del 2017).
Senza ancora considerare come proprio l'attribuzione al RUP delle competenze
afferenti all'adozione dei provvedimenti di esclusione trovi piena
corrispondenza nel particolare ruolo attribuito a tale figura, nel contesto
della gara, e alle funzioni di garanzia e di controllo che ad esso sono
intestate (cfr. Cons. Stato, Comm. spec., 25.09.2017, n. 2040), anche in
ragione dei tempi e delle modalità della sua preposizione, che è sempre
anteposta (anche logicamente) all'avvio della procedura di affidamento (art.
32, comma 1), così da collocarlo in una posizione di originaria terzietà e
separazione nel corso dell'intero ciclo dell'appalto (condizione che si
rileva sia rispetto agli organi deputati allo svolgimento delle valutazioni
tecniche -costituiti invece solo "dopo la scadenza del termine fissato per
la presentazione delle offerte", ai sensi dell'art. 77, comma 7, D.Lgs. n.
50 del 2016- sia riguardo all'organizzazione della stazione appaltante,
quanto meno fino alla formulazione, da parte del RUP, della proposta di
aggiudicazione "soggetta ad approvazione dell'organo competente secondo
l'ordinamento della stazione appaltante e nel rispetto dei termini dallo
stesso previsti" - art. 33, 1° comma)” (TAR Trieste, Sez. I, 29/10/2019
n. 450)
(TAR Molise,
sentenza 04.02.2020 n. 39 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il conferimento di posizioni organizzative al personale non dirigente delle
pubbliche amministrazioni esula dall'ambito degli atti amministrativi
autoritativi e s'iscrive nella categoria degli atti negoziali.
Per
giurisprudenza costante:
1. Il conferimento delle posizioni organizzative esula dall'ambito
delle procedure concorsuali ex art. 63, comma 4, cit., in quanto la
posizione organizzativa non determina un mutamento di profilo professionale
né un mutamento di area, ma soltanto un mutamento di funzioni le quali
cessano al cessare dell'incarico;
2. ed infatti, nell'impiego pubblico il conferimento di posizioni
organizzative esula dall'ambito delle procedure concorsuali di cui all'art.
63 comma 4, d.lgs. 30.03.2001 n. 165 in quanto la posizione organizzativa
non determina un mutamento di profilo professionale, che rimane invariato,
né un mutamento di area, ma comporta soltanto un mutamento di funzioni, le
quali cessano al cessare dell'incarico; si tratta, in definitiva, di una
funzione ad tempus di alta responsabilità la cui definizione -nell'ambito
della classificazione del personale di ciascun comparto- è demandata dalla
legge alla contrattazione collettiva; siffatta qualificazione comporta che
le relative controversie siano devolute alla giurisdizione del giudice
ordinario, non ostandovi che vengano in considerazione atti amministrativi
presupposti intesi alla fissazione dei criteri per l'attribuzione della
posizione organizzativa;
3. in conclusione: “Il conferimento di posizioni organizzative al
personale non dirigente delle pubbliche amministrazioni esula dall'ambito
degli atti amministrativi autoritativi e s'iscrive nella categoria degli
atti negoziali, adottati con la capacità e i poteri del datore di lavoro, in
particolare configurandosi l'attività della Amministrazione —
nell'applicazione della disposizione contrattuale — non come esercizio di un
potere di organizzazione, bensì come adempimento di un obbligo di
ricognizione e di individuazione degli aventi diritto, con la conseguenza
che una siffatta qualificazione comporta che le relative controversie siano
devolute alla giurisdizione ordinaria”.
---------------
Premesso che:
a) vengono impugnati sotto plurimi profili i provvedimenti, in
epigrafe indicati, tutti recanti conferimento di posizioni organizzative
riguardanti alcuni servizi (pure in epigrafe indicati) della ASL Roma 1;
b) si costituiva in giudizio l’intimata amministrazione sanitaria
la quale, nel chiedere il rigetto del gravame, sollevava peraltro il difetto
di giurisdizione;
c) alla camera di consiglio del 28.01.2020, avvisate le parti circa
la possibilità di adottare sentenza in forma semplificata, la causa veniva
infine trattenuta in decisione.
Considerato che, per giurisprudenza costante:
1. Il conferimento delle posizioni organizzative esula dall'ambito
delle procedure concorsuali ex art. 63, comma 4, cit., in quanto la
posizione organizzativa non determina un mutamento di profilo professionale
né un mutamento di area, ma soltanto un mutamento di funzioni le quali
cessano al cessare dell'incarico (TAR Genova, sez. I , 04.09.2017, n. 710);
2. ed infatti, nell'impiego pubblico il conferimento di posizioni
organizzative esula dall'ambito delle procedure concorsuali di cui all'art.
63 comma 4, d.lgs. 30.03.2001 n. 165 in quanto la posizione organizzativa
non determina un mutamento di profilo professionale, che rimane invariato,
né un mutamento di area, ma comporta soltanto un mutamento di funzioni, le
quali cessano al cessare dell'incarico; si tratta, in definitiva, di una
funzione ad tempus di alta responsabilità la cui definizione -nell'ambito
della classificazione del personale di ciascun comparto- è demandata dalla
legge alla contrattazione collettiva; siffatta qualificazione comporta che
le relative controversie siano devolute alla giurisdizione del giudice
ordinario, non ostandovi che vengano in considerazione atti amministrativi
presupposti intesi alla fissazione dei criteri per l'attribuzione della
posizione organizzativa (cfr. TAR Pescara, sez. I, 28.05.2015, n. 229);
3. in conclusione: “Il conferimento di posizioni organizzative
al personale non dirigente delle pubbliche amministrazioni esula dall'ambito
degli atti amministrativi autoritativi e s'iscrive nella categoria degli
atti negoziali, adottati con la capacità e i poteri del datore di lavoro, in
particolare configurandosi l'attività della Amministrazione —
nell'applicazione della disposizione contrattuale — non come esercizio di un
potere di organizzazione, bensì come adempimento di un obbligo di
ricognizione e di individuazione degli aventi diritto, con la conseguenza
che una siffatta qualificazione comporta che le relative controversie siano
devolute alla giurisdizione ordinaria” (TAR Bologna, sez. I, 18.12.2014,
n. 1238).
Ritenuto in conclusione che, per tutte le ragioni che precedono, il ricorso
debba essere dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del
giudice adito, trattandosi di controversia riservata alla cognizione del
giudice ordinario, davanti al quale il processo potrà essere proseguito con
le modalità e nei termini di cui all'art. 11 c.p.a. Con compensazione in
ogni caso delle spese di lite (TAR
Lazio-Roma, Sez. III-quater,
sentenza 03.02.2020 n. 1414 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Partecipazione
procedimentale sull’informazione antimafia.
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Informativa antimafia – Comunicazione di avvio del procedimento -
Esclusione
L’informazione antimafia non richiede la necessaria
osservanza del contraddittorio procedimentale, meramente eventuale in questa
materia ai sensi dell’art. 93, comma 7, d.lgs. n. 159 del 2011 né è
configurabile l’applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241 del
1990 non essendo l’informazione antimafia provvedimento vincolato, ma per
sua stessa natura discrezionale (1).
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(1) La Sezione dà
atto che la questione del contraddittorio procedimentale in materia di
informazioni antimafia è dibattuta, registrandosi in dottrina voci
dissenzienti ed avendo il Tar Bari, con
ord. n. 28 del 13.01.2020, chiesto alla Corte di Giustizia UE di
chiarire pregiudizialmente, ai fini della decisione del giudizio, se gli
artt. 91, 92 e 93, d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui non prevedono
il contraddittorio procedimentale in favore del soggetto nei cui confronti
il Prefetto si propone di rilasciare una informazione antimafia, siano
compatibili con il principio del contraddittorio, così come ricostruito e
riconosciuto quale principio di diritto dell’Unione.
La Sezione ha sul punto chiarito che l’assenza di una necessaria
interlocuzione procedimentale in questa materia non costituisca un vulnus al
principio di buona amministrazione, perché, come la stessa Corte UE ha
affermato, il diritto al contraddittorio procedimentale e al rispetto dei
diritti della difesa non è una prerogativa assoluta, ma può soggiacere a
restrizioni, a condizione che «queste rispondano effettivamente a
obiettivi di interesse generale perseguiti dalla misura di cui trattasi e
non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento
sproporzionato e inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei
diritti così garantiti» (sentenza della Corte di Giustizia UE,
09.11.2017, in C-298/16, § 35 e giurisprudenza ivi citata) e, in riferimento
alla normativa italiana in materia antimafia, la stessa Corte UE, seppure ad
altri fini (la compatibilità della disciplina italiana del subappalto con il
diritto eurounitario), ha di recente ribadito che «il contrasto al
fenomeno dell’infiltrazione della criminalità organizzata nel settore degli
appalti pubblici costituisce un obiettivo legittimo che può giustificare una
restrizione alle regole fondamentali e ai principi generali del TFUE che si
applicano nell’ambito delle procedure di aggiudicazione degli appalti
pubblici» (Corte
di Giustizia UE, 26.09.2019, in C-63/18, § 37).
La discovery anticipata, già in sede procedimentale, di elementi o
notizie contenuti in atti di indagine coperti da segreto investigativo o in
informative riservate delle forze di polizia, spesso connessi ad inchieste
della magistratura inquirente contro la criminalità organizzata di stampo
mafioso e agli atti delle indagini preliminari, potrebbe frustrare la
finalità preventiva perseguita dalla legislazione antimafia, che ha
l’obiettivo di prevenire il tentativo di infiltrazione da parte delle
organizzazioni criminali, la cui capacità di penetrazione nell’economia
legale ha assunto forme e “travestimenti” sempre più insidiosi.
Questa Sezione ha perciò già chiarito che la delicatezza della ponderazione
intesa a contrastare in via preventiva la minaccia insidiosa ed esiziale
delle organizzazioni mafiose, richiesta all’autorità amministrativa, può
comportare anche un’attenuazione, se non una eliminazione, del
contraddittorio procedimentale, che del resto non è un valore assoluto, come
ha pure chiarito la Corte di Giustizia UE nella sua giurisprudenza (ma v.
pure Corte cost.: sent. n. 309 del 1990 e sent. n. 71 del 2015), o slegato
dal doveroso contemperamento di esso con interessi di pari se non superiore
rango costituzionale, né un bene in sé, o un fine supremo e ad ogni costo
irrinunciabile, ma è un principio strumentale al buon andamento della
pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) e, in ultima analisi, al principio
di legalità sostanziale (art. 3, comma secondo, Cost.), vero e più profondo
fondamento del moderno diritto amministrativo (Cons.
St., sez. III, 09.02.2017, n. 565).
E d’altro canto il contraddittorio procedimentale non è del tutto assente
nemmeno nelle procedure antimafia, se è vero che l’art. 93, comma 7, d.lgs.
n. 159 del 2011 prevede che «il prefetto competente al rilascio
dell'informazione, ove lo ritenga utile, sulla base della documentazione e
delle informazioni acquisite invita, in sede di audizione personale, i
soggetti interessati a produrre, anche allegando elementi documentali, ogni
informazione ritenuta utile»
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 31.01.2020 n. 820 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Offerte
imputabili ad un unico centro decisionale.
Il TAR Milano, con
riferimento all’esclusione in base all’art.
80, comma 5, lett. m), del D.Lgs. 50/2016,
ai sensi del quale le stazioni appaltanti
escludono dalla partecipazione alla
procedura d’appalto un operatore economico
che «trovi rispetto ad un altro
partecipante alla medesima procedura di
affidamento, in una situazione di controllo
di cui all'articolo 2359 del codice civile o
in una qualsiasi relazione, anche di fatto,
se la situazione di controllo o la relazione
comporti che le offerte sono imputabili ad
un unico centro decisionale», precisa
che:
«In sede di interpretazione della norma,
la giurisprudenza, condivisa dal Tribunale,
osserva che:
- l’accertamento della sussistenza di un unico centro decisionale
costituisce motivo in sé sufficiente a
giustificare l’esclusione delle imprese
dalla procedura selettiva, non essendo
necessario verificare che la comunanza a
livello strutturale delle imprese
partecipanti alla gara abbia concretamente
influito sul rispettivo comportamento
nell’ambito della gara, determinando la
presentazione di offerte riconducibili ad un
unico centro decisionale;
- ciò che rileva è, infatti, il dato oggettivo, autonomo e
svincolato da valutazioni a posteriori di
tipo qualitativo, rappresentato
dall’esistenza di un collegamento
sostanziale tra le imprese, con la
necessaria precisazione che lo stesso debba
essere dedotto da indizi gravi, precisi e
concordanti;
- tale interpretazione garantisce la tutela dei principi di
segretezza delle offerte e di trasparenza
delle gare pubbliche, nonché di parità di
trattamento delle imprese concorrenti,
principi che verrebbero irrimediabilmente
violati qualora si ritenesse di correlare
l’esclusione dalla gara di imprese in
collegamento sostanziale ad una posteriore
valutazione sul contenuto delle offerte;
- il semplice collegamento può dar luogo all’esclusione da una gara
d’appalto all’esito di puntuali verifiche
compiute con riferimento al caso concreto da
parte dell’Amministrazione che deve
accertare se la situazione rappresenta anche
solo un pericolo che le condizioni di gara
vengano alterate»
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 31.01.2020 n. 222 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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L’esclusione impugnata si basa
sull’applicazione dell’art. 80, comma 5,
lett. m), del D.Lgs. 50/2016, ove si prevede
che le stazioni appaltanti escludono dalla
partecipazione alla procedura d’appalto un
operatore economico in una delle seguenti
situazioni, anche riferita a un suo
subappaltatore nei casi di cui all’articolo
105, comma 6, qualora: “m) l’operatore
economico si trovi rispetto ad un altro
partecipante alla medesima procedura di
affidamento, in una situazione di controllo
di cui all'articolo 2359 del codice civile o
in una qualsiasi relazione, anche di fatto,
se la situazione di controllo o la relazione
comporti che le offerte sono imputabili ad
un unico centro decisionale”.
In sede di interpretazione della norma, la
giurisprudenza, condivisa dal Tribunale (cfr.
Consiglio di Stato, sez. V, n. 1265/2010;
Tar Lombardia Milano, sez. I, n. 1983/2019;
Tar Lombardia Milano, sez. I, n. 1918/2018;
Tar Lombardia Milano, sez. I, n. 2248/2016),
precisa che:
- l’accertamento della sussistenza di un unico centro decisionale
costituisce motivo in sé sufficiente a
giustificare l’esclusione delle imprese
dalla procedura selettiva, non essendo
necessario verificare che la comunanza a
livello strutturale delle imprese
partecipanti alla gara abbia concretamente
influito sul rispettivo comportamento
nell’ambito della gara, determinando la
presentazione di offerte riconducibili ad un
unico centro decisionale;
- ciò che rileva è, infatti, il dato oggettivo, autonomo e
svincolato da valutazioni a posteriori di
tipo qualitativo, rappresentato
dall’esistenza di un collegamento
sostanziale tra le imprese, con la
necessaria precisazione che lo stesso debba
essere dedotto da indizi gravi, precisi e
concordanti (C.d.S., Sez. V, n. 1265/2010);
- tale interpretazione garantisce la tutela dei principi di
segretezza delle offerte e di trasparenza
delle gare pubbliche, nonché di parità di
trattamento delle imprese concorrenti,
principi che verrebbero irrimediabilmente
violati qualora si ritenesse di correlare
l’esclusione dalla gara di imprese in
collegamento sostanziale ad una posteriore
valutazione sul contenuto delle offerte (TAR
Lombardia, I sezione, n. 2248/2016);
- il semplice collegamento può dar luogo all’esclusione da una gara
d’appalto all’esito di puntuali verifiche
compiute con riferimento al caso concreto da
parte dell’Amministrazione che deve
accertare se la situazione rappresenta anche
solo un pericolo che le condizioni di gara
vengano alterate (per tutte TAR Sardegna, n.
163/2018). |
EDILIZIA PRIVATA: Un
gazebo di rilevanti dimensioni (a
pianta rettangolare di dimensioni 5 x 6 metri e altezza massima di 3,50
metri, con struttura portante in pilastrini di ferro, telaio di copertura di
tubolari metallici e rivestimento di materiale plastico di colore verde)
al servizio di un'attività commerciale non è un manufatto precario e
richiede il permesso di costruire.
Per pacifica giurisprudenza, presupposto per l'adozione
dell'ordinanza di demolizione non è l'accertamento di responsabilità nella
commissione dell'illecito, bensì l'esistenza di una situazione dei luoghi
contrastante con quella prevista nella strumentazione urbanistico-edilizia:
sicché sia il soggetto che abbia la titolarità a eseguire l'ordine
ripristinatorio, ossia in virtù del diritto dominicale, il proprietario, sia
il responsabile dell'abuso sono destinatari della sanzione reale della
demolizione e del ripristino dei luoghi.
---------------
La circostanza che una struttura sia semplicemente
“appoggiata” al suolo non la rende ex se riconducibile nell’ambito della
c.d. edilizia libera. Solo le opere agevolmente rimuovibili, funzionali a
soddisfare un’esigenza oggettivamente temporanea, destinata a cessare dopo
il breve tempo entro cui si realizza l'interesse finale, possono dirsi di
carattere precario e, in quanto tali, non richiedenti il permesso di
costruire.
Come ha ricordato TAR Lombardia-Milano, <<La giurisprudenza è concorde nel
senso che per individuare la natura precaria di un'opera si debba seguire
non il criterio strutturale, ma il criterio funzionale, per cui un'opera può
anche non essere stabilmente infissa al suolo, ma se essa presenta la
caratteristica di essere realizzata per soddisfare esigenze non temporanee,
non può beneficiare del regime delle opere precarie...>>.
In buona sostanza, la natura precaria di un manufatto non può essere desunta
dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal
costruttore, ma deve ricollegarsi all'intrinseca destinazione materiale di
essa a un uso realmente precario e transitorio, per fini specifici,
contingenti e limitati nel tempo, non essendo sufficiente che si tratti
eventualmente di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo.
Non possono, in definitiva, essere considerati manufatti precari quelli
destinati a una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l’alterazione
del territorio non può essere considerata irrilevante.
---------------
Sulla base di un consolidato insegnamento
giurisprudenziale:
- la pertinenza è configurabile quando vi è un oggettivo nesso
funzionale e strumentale tra cosa accessoria e quella principale, cioè un
nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso
pertinenziale durevole, oltre che una dimensione ridotta e modesta del
manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce;
- a differenza della nozione di pertinenza di derivazione
civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere considerato una
pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza
dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è
anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non comporta un cosiddetto
carico urbanistico".
Inoltre, "il carattere pertinenziale rilevante ai fini urbanistici transita
attraverso le seguenti coordinate identificative:
- opere che non comportino un nuovo volume;
- opere che comportino un nuovo e modesto volume 'tecnico' (così
come definito ai fini urbanistici ...).
---------------
Dal punto di vista
tecnico-giuridico il gazebo è caratterizzato da una struttura
costruttiva leggera e aperta, che consente il passaggio di luce e aria
facilitando l’ombreggiamento e la protezione delle persone durante la sosta.
Esso è tipicamente privo di pareti e di un tetto o solaio propriamente
detti, ma è dotato di una copertura impermeabile facilmente amovibile.
Nel caso di specie si evince che i pilastrini e la copertura di materiale
plastificato hanno formato un nuovo volume che, per consistenza e tipologia,
risulta agevolmente utilizzabile in via autonoma e separata rispetto
all'edificio principale (del quale amplia la fruibilità): risulta destinato
a soddisfare esigenze durevoli nel tempo e implica un incremento del carico
urbanistico, con un’autonoma identità edilizia.
---------------
A. Presso il ristorante La. viene esercitata attività di somministrazione di
alimenti e bevande, all’interno di un immobile di proprietà del
controinteressato (al piano terra e nel seminterrato). All’esterno, è
presente un manufatto pertinenziale con copertura mobile (gazebo –
planimetria doc. 4).
B. Con nota 06/08/2015 il Comune intimato invitava il proprietario a
rimuovere il gazebo dall’area adiacente il ristorante (doc. 3). All’esito di
un’istanza di accesso, il ricorrente apprendeva della segnalazione del Sig.
Do.Ma. del 17/01/2015 e della relazione del tecnico comunale del 13/02/2015.
C. Con l’impugnato provvedimento l’amministrazione comunale ha ingiunto alla
Sig.ra Ma.Si. (titolare dell’esercizio commerciale) e al proprietario la
demolizione dell’opera, in quanto non assistita dal titolo abilitativo
edilizio né dall’autorizzazione paesaggistica (insistendo su area sottoposta
a vincolo), nonché il ripristino dello stato dei luoghi entro il termine di
90 giorni dalla notifica.
L’opera, descritta nel già citato verbale di sopralluogo, consiste in un
gazebo a pianta rettangolare di dimensioni 5 x 6 metri e altezza massima di
3,50 metri, con struttura portante in pilastrini di ferro, telaio di
copertura di tubolari metallici e rivestimento di materiale plastico di
colore verde.
...
1. E’ anzitutto infondata la prima censura.
1.1 Come ha messo in luce il Consiglio di Stato (sez. VI – 13/11/2019 n.
7792), “Per pacifica giurisprudenza, da cui il Collegio non ha motivo di
discostarsi, … presupposto per l'adozione dell'ordinanza di demolizione non
è l'accertamento di responsabilità nella commissione dell'illecito, bensì
l'esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella prevista
nella strumentazione urbanistico-edilizia: sicché sia il soggetto che abbia
la titolarità a eseguire l'ordine ripristinatorio, ossia in virtù del
diritto dominicale, il proprietario, sia il responsabile dell'abuso sono
destinatari della sanzione reale della demolizione e del ripristino dei
luoghi (cfr. da ultimo Cons. Stato, Sez. VI, 11/12/2018, n. 6983; Sez. II,
12/09/2019, n. 6147)”.
1.2 Nel caso di specie, l’immobile ove si svolge l’attività –unitamente
all’area sulla quale è stato realizzato l’illecito edilizio sanzionato con
l’atto impugnato– è di proprietà del controinteressato, mentre l’esercizio
pubblico (costituito in forma societaria) ne ha la disponibilità, per cui il
Comune ha correttamente ingiunto a entrambi di demolire l’opera abusiva.
L’autorità amministrativa ha dedotto che l’utilizzatore del fabbricato (e
del gazebo adiacente) è il “Ristorante La.” e la ricorrente risulta
titolare dell’esercizio commerciale, per cui la notifica è stata effettuata
nei suoi confronti quale legale rappresentante della Società di persone
locataria. Del resto, detta qualità in capo alla persona fisica destinataria
del provvedimento è pacifica, ed è stata espressamente indicata nel corpo
dell'ordinanza (pag. 2).
2. Anche il secondo motivo è privo di pregio.
2.1 L’art. 3, comma 1, lettera e.5), del D.P.R. 380/2001 reputa interventi
di nuova costruzione “l'installazione di manufatti leggeri, anche
prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers,
case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di
lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che
siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee o siano ricompresi
in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti,
previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove
previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore”.
I descritti interventi non sono dunque automaticamente classificati
nell’alveo dell’attività edilizia libera, viceversa regolata dall’art. 6,
che al comma 2 lett. b) –in vigore alla data di adozione dell’atto
impugnato– contempla “le opere dirette a soddisfare obiettive esigenze
contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della
necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni”.
2.2 Ebbene, la circostanza che una struttura sia semplicemente “appoggiata”
al suolo non la rende ex se riconducibile nell’ambito della c.d.
edilizia libera. Solo le opere agevolmente rimuovibili, funzionali a
soddisfare un’esigenza oggettivamente temporanea, destinata a cessare dopo
il breve tempo entro cui si realizza l'interesse finale, possono dirsi di
carattere precario e, in quanto tali, non richiedenti il permesso di
costruire (TAR Liguria, sez. I – 11/06/2019 n. 529).
Come ha ricordato TAR Lombardia Milano, sez. II – 18/03/2019 n. 579, <<La
giurisprudenza è concorde nel senso che per individuare la natura precaria
di un'opera si debba seguire non il criterio strutturale, ma il criterio
funzionale, per cui un'opera può anche non essere stabilmente infissa al
suolo, ma se essa presenta la caratteristica di essere realizzata per
soddisfare esigenze non temporanee, non può beneficiare del regime delle
opere precarie ...>>.
2.3 In buona sostanza, la natura precaria di un manufatto non può essere
desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera
dal costruttore, ma deve ricollegarsi all'intrinseca destinazione materiale
di essa a un uso realmente precario e transitorio, per fini specifici,
contingenti e limitati nel tempo, non essendo sufficiente che si tratti
eventualmente di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo (TAR
Toscana, sez. II – 08/10/2019 n. 1315).
Non possono, in definitiva, essere considerati manufatti precari quelli
destinati a una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l’alterazione
del territorio non può essere considerata irrilevante (Consiglio di Stato,
sez. VI – 23/05/2017 n. 2438, che richiama sez. VI – 04/09/2015 n. 4116 e
anche il precedente della sez. VI – 01/04/2016 n. 1291).
2.4 Nel caso di specie, il manufatto è di dimensioni non trascurabili (30
mq.), così come si può rilevare dalle fotografie allegate alla relazione di
sopralluogo del 10/2/2015, ed è collocato all’esterno del fabbricato
destinato a ristorante per un verosimile utilizzo continuativo. Peraltro, un
concorrente fattore ostativo è rappresentato dall’assenza
dell’autorizzazione paesaggistica (cfr. vincolo di cui all’art. 142, comma
1, lett. c), del D.Lgs. 42/2004, per l’insistenza nella fascia di rispetto
di 150 metri dal Fiume Oglio). Anche rispetto a quest’ultimo l’ordine di
demolizione si configura come atto dovuto.
3. La terza doglianza è fuorviante e deve essere rigettata, poiché la
dedotta “non alterazione” della sagoma parrebbe riferirsi al
fabbricato principale, mentre l’abuso investe il manufatto eretto
esternamente.
4. Il quarto motivo verte sul concetto di pertinenza urbanistica.
4.1 Questo TAR (cfr. sez. I - 29/11/2018 n. 1141) ha statuito che, <<sulla
base di un consolidato insegnamento giurisprudenziale (ex multis, Cons.
Stato, sez. IV, 26.08.2014 n. 4290; nonché TAR Lombardia, Brescia, sez. I,
21.09.2018 nn. 884 e 887; 22.01.2018 n. 22; 11.12.2017 n. 1425):
- la pertinenza è configurabile quando vi è un oggettivo nesso
funzionale e strumentale tra cosa accessoria e quella principale, cioè un
nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso
pertinenziale durevole, oltre che una dimensione ridotta e modesta del
manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce (Cons. Stato, sez. IV,
02.02.2012 n. 615);
- a differenza della nozione di pertinenza di derivazione
civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere considerato una
pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza
dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è
anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non comporta un cosiddetto
carico urbanistico (Cons. Stato, sez. V, 31.12.2008 n. 6756 e 13.06.2006 n.
3490)".
La stessa pronuncia ha poi precisato che "il carattere pertinenziale
rilevante ai fini urbanistici transita attraverso le seguenti coordinate
identificative:
- opere che non comportino un nuovo volume;
- opere che comportino un nuovo e modesto volume 'tecnico' (così
come definito ai fini urbanistici ...)>>.
I principi sono stati ribaditi nella sentenza di questa Sezione 05/06/2019
n. 546.
4.2 Dal punto di vista tecnico-giuridico il gazebo è caratterizzato
da una struttura costruttiva leggera e aperta, che consente il passaggio di
luce e aria facilitando l’ombreggiamento e la protezione delle persone
durante la sosta. Esso è tipicamente privo di pareti e di un tetto o solaio
propriamente detti, ma è dotato di una copertura impermeabile facilmente
amovibile.
4.3 Dalla descrizione contenuta nella relazione di sopralluogo del Comune si
evince che i pilastrini e la copertura di materiale plastificato hanno
formato un nuovo volume che, per consistenza e tipologia, risulta
agevolmente utilizzabile in via autonoma e separata rispetto all'edificio
principale (del quale amplia la fruibilità): risulta destinato a soddisfare
esigenze durevoli nel tempo e implica un incremento del carico urbanistico,
con un’autonoma identità edilizia.
5. In conclusione, la pretesa avanzata deve essere rigettata
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 31.01.2020 n. 86 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Nuovamente
alla Corte costituzionale l’automaticità delle conseguenze derivanti dalla
dichiarazione mendace.
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Procedimento amministrativo – Dichiarazione sostitutiva atto di notorietà
– Dichiarazione falsa – Conseguenza – Art. 75, d.P.R. n. 445 del 2000 –
Conseguenza – Decadenza automatica del beneficio – Violazione art. 3 Cost. –
Rilevante e non manifestamente infondata.
E’ rilevante e non manifestamente infondata, per
violazione dei principi di proporzionalità, ragionevolezza e uguaglianza, di
cui all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art.
75, d.P.R. 28.12.2000, n. 445, nella parte in cui introduce un automatismo
legislativo tra la non veridicità della dichiarazione resa dall’interessato
e la perdita dei benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato
sulla base della dichiarazione non veritiera (1).
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(1) Analoga
rimessione è stata disposta dalla Sezione con
ordinanza 24.10.2018 n. 1544;
23.10.2018 n. 1531;
25.10.2018 n. 1552 e
17.09.2018 n. 1346.
Ha chiarito la Sezione che la granitica giurisprudenza formatasi in
subiecta materia, con riferimento ai vizi “sostanziali” dell’autodichiarazione,
ha osservato che il su riportato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 “si
inserisce in un contesto in cui alla dichiarazione sullo status o sul
possesso di determinati requisiti è attribuita funzione probatoria, da cui
il dovere del dichiarante di affermare il vero.
Ne consegue che la dichiarazione “non veritiera” al di là dei profili
penali, ove ricorrano i presupposti del reato di falso, nell’ambito della
disciplina dettata dalla l. n. 445 del 2000, preclude al dichiarante il
raggiungimento dello scopo cui era indirizzata la dichiarazione o comporta
la decadenza dall’utilitas conseguita per effetto del mendacio (ex
plurimis, Consiglio di Stato, Sez. V, 09.04.2013, n. 1933).
Pertanto, <<In tale contesto normativo, in cui la “dichiarazione falsa o
non veritiera” opera come fatto, perde rilevanza l’elemento soggettivo
ovvero il dolo o la colpa del dichiarante>> (Consiglio di Stato, Sez. V,
cit., n. 1933/2013), “poiché, se così fosse, verrebbe meno la ratio della
disciplina che è volta a semplificare l’azione amministrativa, facendo leva
sul principio di autoresponsabilità del dichiarante” (Consiglio di
Stato, Sez. V, 27.04.2012, n. 2447): sicché ogni eventuale ulteriore
circostanza, “senz’altro rilevante in sede penale, in quanto ostativa
alla configurazione del falso ideologico, attesa la mancanza dell’elemento
soggettivo, ovvero della volontà cosciente e non coartata di compiere il
fatto e della consapevolezza di agire contro il dovere giuridico di
dichiarare il vero, non assume rilievo nell’ambito della L. n. 445 del 2000,
in cui il mendacio rileva quale inidoneità della dichiarazione allo scopo
cui è diretto” (Consiglio di Stato, Sez. V, cit., n. 1933/2013).
Ai sensi della normativa statale generale di cui all’art. 75 del D.P.R. n.
445 del 2000, quindi, “la non veridicità di quanto autodichiarato rileva
sotto un profilo oggettivo e conduce alla decadenza dei benefici ottenuti
con l’autodichiarazione non veritiera”; così la sent. 13.09.2016, n.
9699)” (TAR Lazio, Roma, Sez. III-ter, 24.05.2017, n. 6207), “senza che
tale disposizione lasci margine di discrezionalità alle Amministrazioni (cfr.
ad es. CdS 1172/2017)” (TAR Liguria, Genova, Sez. I, 14.06.2017, n. 534;
in termini, Consiglio di Stato, Sez. VI, 20.08.2019, n. 5761; Consiglio di
Giustizia Amministrativa Sicilia, 09.12.2019, n. 1039; Consiglio di Stato,
Sez. V, 03.02.2016, n. 404; Consiglio di Stato, Sez. V, 15.03.2017, n.
1172).
In definitiva, per effetto della suddetta esegesi consolidata (tale da
assurgere al rango di “diritto vivente”, sicché neppure è possibile
per il Tribunale operare una c.d. “interpretazione costituzionalmente
conforme”):
- l’applicazione dell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 comporta
l’automatica decadenza dal beneficio eventualmente già conseguito, non
residuando, nell’applicazione della predetta norma, alcun margine di
discrezionalità alle Pubbliche Amministrazioni che, in sede di controllo
(d’ufficio) ex art. 71 del medesimo Testo Unico, si avvedano della
(oggettiva) non veridicità delle autodichiarazioni, posto che tale norma
prescinde, per la sua applicazione, dalla condizione soggettiva del
dichiarante, attestandosi (unicamente) sul dato oggettivo della non
veridicità, rispetto al quale risulta, peraltro, del tutto irrilevante il
complesso delle giustificazioni addotte dal dichiarante medesimo;
- parimenti, tale disposizione, nel contemplare la decadenza dai
benefici conseguenti al provvedimento emanato sulla base delle dichiarazioni
non veritiere, impedisce (ovviamente e “a fortiori”, come nel caso di
specie) anche l’emanazione del provvedimento (ampliativo) di accoglimento
dell’istanza tendente ad ottenere i benefici dalla P.A..
Non risulta pertinente in proposito, al fine dell’espletamento del tentativo
di “interpretazione conforme”, il riferimento (si vedano le
argomentazioni opposte dall’Avvocatura Generale dello Stato nel precedente
giudizio di legittimità costituzionale - cfr. la menzionata sentenza della
Corte Costituzionale n. 199/2019, paragrafo 4.1) a taluna giurisprudenza
formatasi con riferimento ai vizi meramente formali dell’autodichiarazione
(quali, ad esempio, l’omessa produzione di copia del documento di identità
sottoscritto e del “curriculum” formativo/professionale con
dichiarazione sostitutiva - cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 17.01.2018, n.
257, che ha sancito l’ammissibilità del soccorso istruttorio, peraltro, nel
caso ivi in esame, in applicazione di apposita e specifica disposizione del
bando): ciò in quanto, nella fattispecie di che trattasi, la menzionata
omissione, sanzionata ai sensi del citato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000,
concreta un vizio -con ogni evidenza- sostanziale e non già meramente
formale dell’autodichiarazione, non veritiera al riguardo.
Orbene, la predetta norma (art. 75 del D.P.R. n. 445/2000), intesa alla
stregua dell’illustrato “diritto vivente”, nel suo meccanico
automatismo legale (del tutto decontestualizzato dal caso specifico) e nella
sua assoluta rigidità applicativa (che non conosce eccezioni), sembra al
Collegio incostituzionale, per violazione dei principi di ragionevolezza,
proporzionalità e uguaglianza sostanziale, sanciti dall’art. 3 della
Costituzione.
Ed invero, “il giudizio di ragionevolezza, lungi dal comportare il
ricorso a criteri di valutazione assoluti e astrattamente prefissati, si
svolge attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi
prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto
alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende
perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente
sussistenti. Sicché, … l’impossibilità di fissare in astratto un punto oltre
il quale scelte di ordine quantitativo divengono manifestamente arbitrarie
e, come tali, costituzionalmente illegittime, non può essere validamente
assunta come elemento connotativo di un giudizio di merito, essendo un
tratto che si riscontra … anche nei giudizi di ragionevolezza. Del resto,……,
le censure di merito non comportano valutazioni strutturalmente diverse,
sotto il profilo logico, dal procedimento argomentativo proprio dei giudizi
valutativi implicati dal sindacato di legittimità, differenziandosene,
piuttosto, per il fatto che in quest’ultimo le regole o gli interessi che
debbono essere assunti come parametro del giudizio sono formalmente sanciti
in norme di legge o della Costituzione” (Corte Costituzionale,
22.12.1988, n. 1130).
In conclusione:
- per un verso, il giudizio di ragionevolezza della norma di
legge deve essere necessariamente ancorato al criterio di proporzionalità,
rappresentando quest’ultimo “diretta espressione del generale canone di
ragionevolezza (ex art. 3 Cost.)” (Corte Costituzionale, 01.06.1995, n.
220);
- per altro verso, la ragionevolezza va intesa come forma di
razionalità pratica (tenuto conto, appunto, “delle circostanze e delle
limitazioni concretamente sussistenti” - Corte Costituzionale, cit., n.
1130/1988), non riducibili alla mera (e sola) astratta razionalità
sillogistico-deduttiva e logico-formale, laddove (invece) la ragione
(pratica e concreta) deve essere aperta all’impatto che su di essa esplica
il caso, il fatto, il dato di realtà (che diventa esperienza giuridica),
solo così potendo (doverosamente) valutarsi l’adeguatezza del mezzo al fine,
la ragionevolezza “intrinseca”, in uno agli (eventuali) esiti ed
effetti sproporzionati e/o paradossali che possono concretamente derivare da
una regola generale apparentemente ed astrattamente logica.
In tal senso, il giudizio di ragionevolezza, lungi dal limitarsi alla (sola)
valutazione della singola situazione oggetto della specifica controversia da
cui sorge il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, si appalesa
idoneo (traendo spunto da quest’ultima) a vagliare gli effetti della Legge
sull’intera realtà sociale che la Legge medesima è chiamata a regolare,
anche in funzione dell’<<“esigenza di conformità dell’ordinamento a
valori di giustizia e di equità” ... ed a criteri di coerenza logica,
teleologica …. , che costituisce un presidio contro l’eventuale manifesta
irrazionalità o iniquità delle conseguenze della stessa» (sentenza n. 87 del
2012)>> (Corte Costituzionale, sentenza 10.06.2014, n. 162).
E tanto anche confrontando i benefici che derivano dall’adozione, per dir
così, “neutra” del provvedimento con i suoi “costi”, e valutando l’eventuale
inadeguata penalizzazione degli altri diritti e interessi di rango
costituzionale contestualmente in gioco (bilanciamento).
Orbene, l’illustrata fattispecie di “automatismo legislativo” di cui
all’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, intesa alla stregua del “diritto
vivente”, non sfugge, ad avviso meditato del Collegio, a forti dubbi di
incostituzionalità per violazione dei principi di proporzionalità,
ragionevolezza e uguaglianza sostanziale, di cui all’art. 3 della
Costituzione.
Ed invero, le conseguenze decadenziali/impeditive (definitive e in alcun
modo “rimediabili”) dal beneficio (peraltro, “lato sensu”
sanzionatorie), legate alla non veridicità obiettiva della dichiarazione, e,
“a fortiori”, l’impedimento a conseguire il beneficio medesimo, ai
sensi del citato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, appaiono al Tribunale
irragionevoli e incostituzionali, contrastando con il principio di
proporzione, che è alla base della razionalità che, a sua volta, informa il
principio di uguaglianza sostanziale, ex art. 3, comma 2 della Costituzione.
E tanto ove si considerino (innanzitutto e in via dirimente) il meccanico
automatismo legale (del tutto “slegato” dalla fattispecie concreta) e
l’assoluta rigidità applicativa della norma in questione, che (da un lato)
impone “tout court” (senza alcun distinguo, né gradazione) la
decadenza dal beneficio (o l’impedimento al conseguimento dello stesso), a
prescindere dall’effettiva gravità del fatto contestato (sia per le
fattispecie in cui la dichiarazione non veritiera riveste un’incidenza del
tutto marginale rispetto all’interesse pubblico perseguito dalla P.A., sia
per quelle nelle quali tale dichiarazione risulta in netto contrasto con
tale interesse, riservando, quindi, il medesimo trattamento a situazioni di
oggettiva diversa gravità), e (dall’altro) non consente di escludere nemmeno
le ipotesi di non veridicità delle autodichiarazioni su aspetti di minima
rilevanza concreta (come, appunto, nel caso di cui al presente giudizio),
con ogni possibile (e finanche prevedibile) abnormità e sproporzione delle
relative conseguenze, rispetto al reale disvalore del fatto commesso.
Sotto altro profilo, inoltre, l’assoluta rigidità applicativa dell’art. 75
del D.P.R. n. 445/2000 appare eccessiva, in quanto non consente (parimenti
irragionevolmente e inadeguatamente) di valutare l’elemento soggettivo (dolo
-la c.d. coscienza e volontà di immutare il vero -ovvero colpa, grave o meno- nell’ipotesi di fatto dovuto a mera leggerezza o negligenza dell’agente)
della dichiarazione (oggettivamente) non veritiera, nella naturale (e
contestuale) sede del procedimento amministrativo (o anche, laddove la P.A.
lo ritenga, nell’ambito del pertinente giudizio penale).
Né può ritenersi che i suddetti dubbi di costituzionalità possano essere
superati facendo leva sulla “ratio” sottesa alla disposizione di che
trattasi, rinvenibile, secondo il diritto “vivente” (cfr., “ex
plurimis”, Consiglio di Stato, Sez. V, cit., n. 2447/2012), nel
principio generale di semplificazione amministrativa (cui si accompagna
l’affermazione dell’autoresponsabilità -“oggettiva”- del dichiarante, in
uno -anche- all’interruzione “ex lege” del rapporto di fiducia tra
P.A. e cittadino).
E’ ben vero, infatti, che l’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 debba
qualificarsi quale norma generale di semplificazione amministrativa.
Tuttavia, proprio in quanto tale, la suddetta norma, se, da un lato, è
sicuramente volta a rendere più efficiente ed efficace l’azione
dell’Amministrazione pubblica (buon andamento, ai sensi dell’art. 97 della
Costituzione), dall’altro è (altrettanto inequivocabilmente) finalizzata a
garantire i diritti dei singoli costituzionalmente tutelati e di volta in
volta coinvolti nel procedimento amministrativo attivato (e nell’ambito del
quale sono state rese le autodichiarazioni medesime): si pensi, ad esempio,
al diritto allo studio (art. 34), al diritto alla salute (art. 32), al
diritto al lavoro (artt. 4 e 35), al diritto all’assistenza sociale (art.
38), al diritto di iniziativa economica privata (art. 41, come nel caso di
specie).
Sicché, anche nella prospettiva del necessario bilanciamento degli interessi
costituzionali coinvolti (nonché della massima espansione possibile delle
relative tutele), il rigido automatismo applicativo (in uno ai correlati e
definitivi effetti preclusivi e/o decadenziali, non emendabili) si rivela,
in concreto, lesivo del doveroso equilibrio fra le diverse esigenze in
gioco, e persino tale da pregiudicare definitivamente proprio quei diritti
costituzionali del singolo alla cui migliore e più rapida realizzazione la
norma di semplificazione “de qua” è, in definitiva, finalizzata.
E tanto vieppiù allorché si consideri che l’art. 40 (“Certificati”)
del D.P.R. 28.12.2000, n. 445 (“Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa”),
come modificato dall’art. 15, comma 1, lett. a), L. 12.11.2011, n. 183, ha
disposto che “01. Le certificazioni rilasciate dalla pubblica
amministrazione in ordine a stati, qualità personali e fatti sono valide e
utilizzabili solo nei rapporti tra privati. Nei rapporti con gli organi
della pubblica amministrazione e i gestori di pubblici servizi i certificati
e gli atti di notorietà sono sempre sostituiti dalle dichiarazioni di cui
agli articoli 46 e 47” e che <<02. Sulle certificazioni da produrre
ai soggetti privati è apposta, a pena di nullità, la dicitura: “Il presente
certificato non può essere prodotto agli organi della pubblica
amministrazione o ai privati gestori di pubblici servizi”>>: sicché, in
definitiva, essendo il privato obbligato, e non più (meramente) facultato, a
presentare alle PP.AA. le “dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47”,
la semplificazione “de qua” si risolve, in ultima analisi, per un
verso, nella (sicura) diminuzione degli adempimenti a carico
dell’Amministrazione Pubblica (a fronte dei controlli d’ufficio, “anche a
campione”, ai sensi dell’art. 71 del D.P.R. n. 445/2000), e, per altro
verso, nell’eccessiva (considerate le conseguenze automatiche derivanti
dall’eventuale dichiarazione non veritiera, ex art. 75 del D.P.R. n.
445/2000) autoresponsabilità (“oggettiva”) del privato medesimo.
Pertanto, rispetto ad una disposizione -l’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000-,
nel significato in cui essa “vive” nella (costante) applicazione
giudiziale, il Collegio non può che sollevare la questione di legittimità
costituzionale, tenuto conto, per quanto innanzi esposto, che la stessa
appare non superabile in via interpretativa (in ragione, appunto, del “diritto
vivente”) e non manifestamente infondata
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
ordinanza 30.01.2020 n. 92 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).
---------------
SENTENZA
6. - Le predette considerazioni fondano la rilevanza decisiva, nella
fattispecie concreta in esame, dell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, sicché
-risultando, ad avviso di questa Sezione, non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000
(per le ragioni nel prosieguo illustrate)- l’intervento del Giudice delle
Leggi appare assolutamente necessario nella presente controversia, non
potendosi prescindere dalla definizione (necessariamente e logicamente
pregiudiziale) di tale questione ai fini della decisione del presente
giudizio.
Infatti, nell’ipotesi in cui il citato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000
dovesse essere dichiarato incostituzionale, verrebbe meno il presupposto
normativo decisivo posto, sostanzialmente (a ben vedere), a fondamento del
gravato diniego; nel mentre, in caso contrario, il gravame sarebbe
infondato, alla stregua delle censure formulate dalla parte ricorrente.
7. - A questo punto, osserva il Collegio che
la granitica giurisprudenza
formatasi “in subiecta materia”, con riferimento (come nella
fattispecie “de qua”) ai vizi “sostanziali” dell’autodichiarazione,
ha osservato che il su riportato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 <<si
inserisce in un contesto in cui alla dichiarazione sullo status o sul
possesso di determinati requisiti è attribuita funzione probatoria, da cui
il dovere del dichiarante di affermare il vero.
Ne consegue che la dichiarazione “non veritiera” al di là dei profili
penali, ove ricorrano i presupposti del reato di falso, nell’ambito della
disciplina dettata dalla L. n. 445 del 2000, preclude al dichiarante il
raggiungimento dello scopo cui era indirizzata la dichiarazione o comporta
la decadenza dall’utilitas conseguita per effetto del mendacio>> (ex
plurimis, Consiglio di Stato, Sezione Quinta, 09.04.2013, n. 1933).
Pertanto, <<In tale contesto normativo, in cui la “dichiarazione falsa o
non veritiera” opera come fatto, perde rilevanza l’elemento soggettivo
ovvero il dolo o la colpa del dichiarante>> (Consiglio di Stato, Sezione
Quinta, cit., n. 1933/2013), “poiché, se così fosse, verrebbe meno la
ratio della disciplina che è volta a semplificare l’azione amministrativa,
facendo leva sul principio di autoresponsabilità del dichiarante”
(Consiglio di Stato, Sezione Quinta, 27.04.2012, n. 2447): sicché ogni
eventuale ulteriore circostanza, “senz’altro rilevante in sede penale, in
quanto ostativa alla configurazione del falso ideologico, attesa la mancanza
dell’elemento soggettivo, ovvero della volontà cosciente e non coartata di
compiere il fatto e della consapevolezza di agire contro il dovere giuridico
di dichiarare il vero, non assume rilievo nell’ambito della L. n. 445 del
2000, in cui il mendacio rileva quale inidoneità della dichiarazione allo
scopo cui è diretto” (Consiglio di Stato, Sezione Quinta, cit., n.
1933/2013).
Ai sensi della normativa statale generale di cui all’art. 75 del D.P.R. n.
445 del 2000, quindi, “la non veridicità di quanto autodichiarato rileva
sotto un profilo oggettivo e conduce alla decadenza dei benefici ottenuti
con l’autodichiarazione non veritiera”; così la sent. 13.09.2016, n. 9699)”
(TAR Lazio, Roma, Sezione Terza ter, 24.05.2017, n. 6207), “senza che
tale disposizione lasci margine di discrezionalità alle Amministrazioni (cfr.
ad es. CdS 1172/2017)” (TAR Liguria, Genova, Sezione Prima, 14.06.2017, n.
534; in termini, Consiglio di Stato, Sezione Sesta, 20.08.2019, n. 5761;
Consiglio di Giustizia Amministrativa Sicilia, 09.12.2019, n. 1039;
Consiglio di Stato, Sezione Quinta, 03.02.2016, n. 404; Consiglio di Stato,
Sezione Quinta, 15.03.2017, n. 1172).
In definitiva, per effetto della suddetta esegesi consolidata (tale da
assurgere al rango di “diritto vivente”, sicché neppure è possibile
per il Tribunale operare una c.d. “interpretazione costituzionalmente
conforme”):
- l’applicazione dell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 comporta
l’automatica decadenza dal beneficio eventualmente già conseguito, non
residuando, nell’applicazione della predetta norma, alcun margine di
discrezionalità alle Pubbliche Amministrazioni che, in sede di controllo
(d’ufficio) ex art. 71 del medesimo Testo Unico, si avvedano della
(oggettiva) non veridicità delle autodichiarazioni, posto che tale norma
prescinde, per la sua applicazione, dalla condizione soggettiva del
dichiarante, attestandosi (unicamente) sul dato oggettivo della non
veridicità, rispetto al quale risulta, peraltro, del tutto irrilevante il
complesso delle giustificazioni addotte dal dichiarante medesimo;
- parimenti, tale disposizione, nel contemplare la decadenza dai
benefici conseguenti al provvedimento emanato sulla base delle dichiarazioni
non veritiere, impedisce (ovviamente e “a fortiori”, come nel caso di
specie) anche l’emanazione del provvedimento (ampliativo) di accoglimento
dell’istanza tendente ad ottenere i benefici dalla P.A..
Non risulta pertinente in proposito, al fine dell’espletamento del tentativo
di “interpretazione conforme”, il riferimento (si vedano le argomentazioni
opposte dall’Avvocatura Generale dello Stato nel precedente giudizio di
legittimità costituzionale - cfr. la menzionata sentenza della Corte
Costituzionale n. 199/2019, paragrafo 4.1) a taluna giurisprudenza formatasi
con riferimento ai vizi meramente formali dell’autodichiarazione (quali, ad
esempio, l’omessa produzione di copia del documento di identità sottoscritto
e del “curriculum” formativo/professionale con dichiarazione sostitutiva - cfr. Consiglio di Stato, Sezione Quinta, 17.01.2018, n. 257, che ha
sancito l’ammissibilità del soccorso istruttorio, peraltro, nel caso ivi in
esame, in applicazione di apposita e specifica disposizione del bando): ciò
in quanto, nella fattispecie di che trattasi, la menzionata omissione,
sanzionata ai sensi del citato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, concreta un
vizio -con ogni evidenza- sostanziale e non già meramente formale dell’autodichiarazione,
non veritiera al riguardo.
8. - Orbene, la predetta norma (art. 75 del D.P.R. n. 445/2000), intesa alla
stregua dell’illustrato “diritto vivente”, nel suo meccanico automatismo
legale (del tutto decontestualizzato dal caso specifico) e nella sua
assoluta rigidità applicativa (che non conosce eccezioni), sembra al
Collegio incostituzionale, per violazione dei principi di ragionevolezza,
proporzionalità e uguaglianza sostanziale, sanciti dall’art. 3 della
Costituzione.
9. - Ed invero, “il giudizio di ragionevolezza, lungi dal comportare il
ricorso a criteri di valutazione assoluti e astrattamente prefissati, si
svolge attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi
prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto
alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende
perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente
sussistenti. Sicché, … l’impossibilità di fissare in astratto un punto oltre
il quale scelte di ordine quantitativo divengono manifestamente arbitrarie
e, come tali, costituzionalmente illegittime, non può essere validamente
assunta come elemento connotativo di un giudizio di merito, essendo un
tratto che si riscontra … anche nei giudizi di ragionevolezza.
Del resto,……, le censure di merito non comportano valutazioni
strutturalmente diverse, sotto il profilo logico, dal procedimento
argomentativo proprio dei giudizi valutativi implicati dal sindacato di
legittimità, differenziandosene, piuttosto, per il fatto che in quest’ultimo
le regole o gli interessi che debbono essere assunti come parametro del
giudizio sono formalmente sanciti in norme di legge o della Costituzione”
(Corte Costituzionale, 22.12.1988, n. 1130).
In conclusione:
- per un verso, il giudizio di ragionevolezza della norma di legge
deve essere necessariamente ancorato al criterio di proporzionalità,
rappresentando quest’ultimo “diretta espressione del generale canone di
ragionevolezza (ex art. 3 Cost.)” (Corte Costituzionale,
01.06.1995, n.
220);
- per altro verso, la ragionevolezza va intesa come forma di
razionalità pratica (tenuto conto, appunto, “delle circostanze e delle
limitazioni concretamente sussistenti” - Corte Costituzionale, cit., n.
1130/1988), non riducibili alla mera (e sola) astratta razionalità sillogistico-deduttiva e logico-formale, laddove (invece) la ragione
(pratica e concreta) deve essere aperta all’impatto che su di essa esplica
il caso, il fatto, il dato di realtà (che diventa esperienza giuridica),
solo così potendo (doverosamente) valutarsi l’adeguatezza del mezzo al fine,
la ragionevolezza “intrinseca”, in uno agli (eventuali) esiti ed effetti
sproporzionati e/o paradossali che possono concretamente derivare da una
regola generale apparentemente ed astrattamente logica.
In tal senso, il giudizio di ragionevolezza, lungi dal limitarsi alla (sola)
valutazione della singola situazione oggetto della specifica controversia da
cui sorge il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, si appalesa
idoneo (traendo spunto da quest’ultima) a vagliare gli effetti della Legge
sull’intera realtà sociale che la Legge medesima è chiamata a regolare,
anche in funzione dell’<<“esigenza di conformità dell’ordinamento a valori
di giustizia e di equità” ... ed a criteri di coerenza logica, teleologica
…. , che costituisce un presidio contro l’eventuale manifesta irrazionalità
o iniquità delle conseguenze della stessa» (sentenza n. 87 del 2012)>>
(Corte Costituzionale, sentenza 10.06.2014, n. 162).
E tanto anche confrontando i benefici che derivano dall’adozione, per dir
così, “neutra” del provvedimento con i suoi “costi”, e valutando l’eventuale
inadeguata penalizzazione degli altri diritti e interessi di rango
costituzionale contestualmente in gioco (bilanciamento).
10. - Orbene, l’illustrata fattispecie di “automatismo legislativo” di cui
all’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, intesa alla stregua del “diritto
vivente”, non sfugge, ad avviso meditato del Collegio, a forti dubbi di
incostituzionalità per violazione dei principi di proporzionalità,
ragionevolezza e uguaglianza sostanziale, di cui all’art. 3 della
Costituzione.
10.1 - Ed invero, le conseguenze decadenziali/impeditive (definitive e in
alcun modo “rimediabili”) dal beneficio (peraltro, “lato sensu”
sanzionatorie), legate alla non veridicità obiettiva della dichiarazione, e,
“a fortiori”, l’impedimento a conseguire il beneficio medesimo, ai sensi del
citato
art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, appaiono al Tribunale irragionevoli e
incostituzionali, contrastando con il principio di proporzione, che è alla
base della razionalità che, a sua volta, informa il principio di uguaglianza
sostanziale, ex art. 3, comma 2 della Costituzione.
E tanto ove si considerino (innanzitutto e in via dirimente) il meccanico
automatismo legale (del tutto “slegato” dalla fattispecie concreta) e
l’assoluta rigidità applicativa della norma in questione, che (da un lato)
impone “tout court” (senza alcun distinguo, né gradazione) la decadenza dal
beneficio (o l’impedimento al conseguimento dello stesso), a prescindere
dall’effettiva gravità del fatto contestato (sia per le fattispecie in cui
la dichiarazione non veritiera riveste un’incidenza del tutto marginale
rispetto all’interesse pubblico perseguito dalla P.A., sia per quelle nelle
quali tale dichiarazione risulta in netto contrasto con tale interesse,
riservando, quindi, il medesimo trattamento a situazioni di oggettiva
diversa gravità), e (dall’altro) non consente di escludere nemmeno le
ipotesi di non veridicità delle autodichiarazioni su aspetti di minima
rilevanza concreta (come, appunto, nel caso di cui al presente giudizio),
con ogni possibile (e finanche prevedibile) abnormità e sproporzione delle
relative conseguenze, rispetto al reale disvalore del fatto commesso.
10.2 - Sotto altro profilo, inoltre, l’assoluta rigidità applicativa
dell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 appare eccessiva, in quanto non consente
(parimenti irragionevolmente e inadeguatamente) di valutare l’elemento
soggettivo (dolo -la c.d. coscienza e volontà di immutare il vero- ovvero
colpa -grave o meno- nell’ipotesi di fatto dovuto a mera leggerezza o
negligenza dell’agente) della dichiarazione (oggettivamente) non veritiera,
nella naturale (e contestuale) sede del procedimento amministrativo (o
anche, laddove la P.A. lo ritenga, nell’ambito del pertinente giudizio
penale).
10.3 - Né può ritenersi che i suddetti dubbi di costituzionalità possano
essere superati facendo leva sulla “ratio” sottesa alla disposizione di che
trattasi, rinvenibile, secondo il diritto “vivente” (cfr., “ex plurimis”,
Consiglio di Stato, Sezione Quinta, cit., n. 2447/2012), nel principio
generale di semplificazione amministrativa (cui si accompagna l’affermazione
dell’autoresponsabilità - “oggettiva” - del dichiarante, in uno -anche-
all’interruzione “ex lege” del rapporto di fiducia tra P.A. e cittadino).
E’ ben vero, infatti, che l’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 debba
qualificarsi quale norma generale di semplificazione amministrativa.
Tuttavia, proprio in quanto tale, la suddetta norma, se, da un lato, è
sicuramente volta a rendere più efficiente ed efficace l’azione
dell’Amministrazione pubblica (buon andamento, ai sensi dell’art. 97 della
Costituzione), dall’altro è (altrettanto inequivocabilmente) finalizzata a
garantire i diritti dei singoli costituzionalmente tutelati e di volta in
volta coinvolti nel procedimento amministrativo attivato (e nell’ambito del
quale sono state rese le autodichiarazioni medesime): si pensi, ad esempio,
al diritto allo studio (art. 34), al diritto alla salute (art. 32), al
diritto al lavoro (artt. 4 e 35), al diritto all’assistenza sociale (art.
38), al diritto di iniziativa economica privata (art. 41, come nel caso di
specie).
Sicché, anche nella prospettiva del necessario bilanciamento degli interessi
costituzionali coinvolti (nonché della massima espansione possibile delle
relative tutele), il rigido automatismo applicativo (in uno ai correlati e
definitivi effetti preclusivi e/o decadenziali, non emendabili) si rivela,
in concreto, lesivo del doveroso equilibrio fra le diverse esigenze in
gioco, e persino tale da pregiudicare definitivamente proprio quei diritti
costituzionali del singolo alla cui migliore e più rapida realizzazione la
norma di semplificazione “de qua” è, in definitiva, finalizzata.
E tanto vieppiù allorché si consideri che l’art. 40 (“Certificati”) del
D.P.R. 28.12.2000, n. 445 (“Testo unico delle disposizioni legislative
e regolamentari in materia di documentazione amministrativa”), come
modificato dall’art. 15, comma 1, lett. a), L. 12.11.2011, n. 183, ha
disposto che “01. Le certificazioni rilasciate dalla pubblica
amministrazione in ordine a stati, qualità personali e fatti sono valide e
utilizzabili solo nei rapporti tra privati. Nei rapporti con gli organi
della pubblica amministrazione e i gestori di pubblici servizi i certificati
e gli atti di notorietà sono sempre sostituiti dalle dichiarazioni di cui
agli articoli 46 e 47” e che <<02. Sulle certificazioni da produrre ai
soggetti privati è apposta, a pena di nullità, la dicitura: “Il presente
certificato non può essere prodotto agli organi della pubblica
amministrazione o ai privati gestori di pubblici servizi”>>: sicché, in
definitiva, essendo il privato obbligato, e non più (meramente) facultato, a
presentare alle PP.AA. le “dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47”, la
semplificazione “de qua” si risolve, in ultima analisi, per un verso, nella
(sicura) diminuzione degli adempimenti a carico dell’Amministrazione
Pubblica (a fronte dei controlli d’ufficio, “anche a campione”, ai sensi
dell’art. 71 del D.P.R. n. 445/2000), e, per altro verso, nell’eccessiva
(considerate le conseguenze automatiche derivanti dall’eventuale
dichiarazione non veritiera, ex art. 75 del D.P.R. n. 445/2000) autoresponsabilità (“oggettiva”) del privato medesimo.
11. - Pertanto, rispetto ad una disposizione -l’art. 75 del D.P.R. n.
445/2000-, nel significato in cui essa “vive” nella (costante) applicazione
giudiziale, il Collegio non può che sollevare la questione di legittimità
costituzionale, tenuto conto, per quanto innanzi esposto, che la stessa
appare non superabile in via interpretativa (in ragione, appunto, del
“diritto vivente”) e non manifestamente infondata.
12. - Il Collegio, in conclusione, ritiene che la questione
di legittimità costituzionale, per contrasto con i principi di
ragionevolezza, proporzionalità e uguaglianza di cui all’art. 3, comma 2
della Costituzione, dell’art. 75 del D.P.R. 28.12.2000, n. 445, sia
rilevante (sussistendo, appunto, il nesso di assoluta pregiudizialità tra la
soluzione della prospettata questione di legittimità costituzionale e la
decisione del presente giudizio) e non manifestamente infondata, e debba,
conseguentemente, essere rimessa all’esame della Corte Costituzionale,
mentre il giudizio in corso deve essere sospeso fino alla decisione della
Consulta.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Terza,
pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe, sospende il
giudizio e solleva questione di legittimità costituzionale, per contrasto
con l’art. 3, comma 2, della Costituzione, nei sensi e termini di cui in
motivazione, dell’art. 75 del D.P.R. 28.12.2000, n. 445.
Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.
Ordina che, a cura della Segreteria, la presente ordinanza sia notificata
alle parti in causa, nonché al Presidente del Consiglio dei Ministri, e
comunicata ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della
Repubblica. |
EDILIZIA PRIVATA:
Direttore dei lavori presenza/assenza sul cantiere – Onere
di vigilare sull’esecuzione delle opere – Responsabilità
penale – Sussiste – Assenza dal cantiere – Irrilevanza –
Artt. 3, 10 44, D.P.R. n. 380/2001 – Giurisprudenza –
Fattispecie.
Il direttore dei lavori è responsabile a
titolo di colpa del crollo di costruzioni anche nell’ipotesi
di sua assenza dal cantiere, dovendo egli esercitare
un’oculata attività di vigilanza sulla regolare esecuzione
delle opere edilizie ed in caso di necessità adottare le
necessarie precauzioni d’ordine tecnico, ovvero scindere
immediatamente la propria posizione di garanzia da quella
dell’assuntore dei lavori, rinunciando all’incarico ricevuto
(fattispecie: contratto di appalto dei lavori di
consolidamento e di restauro).
...
Disastro colposo, per “costruzione” – Identificazione
del reato – Distinzione tra violazione dell’art. 434 e
dell’art. 676 cod. pen. – Differenza tra crollo colposo e
rovina di edifici – Pericolo per un numero indeterminato di
persone.
Nel delitto di crollo colposo si
richiede che il crollo assuma la fisionomia del disastro,
cioè di un avvenimento di tale gravità da porre in concreto
pericolo la vita delle persone, indeterminatamente
considerate, in conseguenza della diffusività degli effetti
dannosi nello spazio circostante; invece, per la sussistenza
della contravvenzione di rovina di edifici non è necessaria
una tale diffusività e non si richiede che dal crollo derivi
un pericolo per un numero indeterminato di persone.
Pertanto, per disastro colposo, per “costruzione” di cui
all’art. 434 cod. pen. si intende qualsiasi manufatto
tridimensionale, anche diverso da un edificio, che comporti
una ben definita occupazione del terreno e dello spazio
aereo e che, per la sua natura e per le ripercussioni che la
norma di cui all’art. 434 cod. pen. assegna alla sua caduta,
sia atto a determinare conseguenze tali da minacciare la
vita o l’incolumità fisica di una cerchia indeterminata di
persone (in applicazione di tale principio è stato escluso
che il crollo di un di un palo della luce possa integrare il
delitto previsto dagli artt. 434 e 449 cod. pen.).
Invece, per la sussistenza della contravvenzione di rovina
di edifici non è necessaria, una diffusività degli effetti
dannosi nello spazio circostante e non si richiede che dal
crollo derivi un pericolo per un numero indeterminato di
persone (Corte
di Cassazione, Sez. IV,
sentenza 29.01.2020 n. 3727 - link a www.ambientediritto.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Al
progettista nonché direttore dei lavori, è stato contestato di avere
falsamente attestato, nella dichiarazione allegata alla richiesta di
agibilità, la conformità di opere edili di manutenzione straordinaria al
progetto e alle successive varianti, l'avvenuta asciugatura dei muri e la
salubrità degli ambienti.
Si tratta di condotta certamente qualificabile ai sensi dell'art. 481 cod.
pen., in quanto tale attestazione, provenendo da soggetto qualificato, ha la
funzione di fornire un'esatta informazione alla pubblica amministrazione
(circa la conformità al progetto di quanto realizzato e la salubrità dei
luoghi), pur non trattandosi di un'attestazione obbligatoriamente prevista
dal procedimento amministrativo di riferimento, essendo comunque destinata a
provare la verità di quanto in essa rappresentato, cosicché essa risulta
destinata a svolgere la funzione certificativa (dello stato dei luoghi e
della loro salubrità) richiesta dalla norma incriminatrice, con la
conseguente correttezza della affermazione della configurabilità del delitto
di falsità ideologica in certificato di cui all'art. 481 cod. pen..
---------------
1. Con sentenza del 06.03.2019 la Corte d'appello di Trieste, provvedendo
sulla impugnazione proposta dall'imputato nei confronti della sentenza del
27.05.2016 del Tribunale di Udine, con cui Gi.Po. era stato condannato alla
pena di 300,00 euro di multa in relazione al reato di cui agli artt. 481
cod. pen., 76 d.P.R. 445/2000, 23 e 29 d.P.R. 380/2001 (ascrittogli per
avere, quale progettista e direttore dei lavori, attestato, contrariamente
al vero, la conformità di opere edilizie al progetto approvato e alle
successive varianti), ha ridotto la pena a 200,00 euro di multa, ha revocato
il beneficio della sospensione condizionale della pena e riconosciuto quello
della non menzione della condanna, confermando nel resto la sentenza
impugnata.
2. Avverso tale sentenza l'imputato ha proposto ricorso per cassazione,
affidato a cinque motivi.
2.1. Con un primo motivo ha lamentato, ai sensi dell'art. 606, comma
1, lett. b), cod. proc. pen., l'errata applicazione dell'art. 481 cod. pen.,
sulla base del rilievo che la attestazione sottoscritta dal ricorrente, di
cui era stata contestata la falsità, non poteva essere qualificata come
certificato, con la conseguente erronea affermazione della configurabilità
del delitto di cui all'art. 481 cod. pen.
...
2. Il primo motivo, mediante il quale è stata denunciata l'errata
applicazione dell'art. 481 cod. pen., a causa della affermazione della
qualificabilità come certificato della attestazione sottoscritta dal
ricorrente, non è fondato.
Va premesso che al ricorrente è stato contestato di avere, quale progettista
e direttore dei lavori, falsamente attestato, nella dichiarazione allegata
alla richiesta di agibilità, la conformità di opere edili di manutenzione
straordinaria al progetto e alle successive varianti, l'avvenuta asciugatura
dei muri e la salubrità degli ambienti: si tratta di condotta certamente
qualificabile ai sensi dell'art. 481 cod. pen., in quanto tale attestazione,
provenendo da soggetto qualificato, ha la funzione di fornire un'esatta
informazione alla pubblica amministrazione (circa la conformità al progetto
di quanto realizzato e la salubrità dei luoghi), pur non trattandosi di
un'attestazione obbligatoriamente prevista dal procedimento amministrativo
di riferimento, essendo comunque destinata a provare la verità di quanto in
essa rappresentato (v. Sez. F, n. 39699 del 02/08/2018, Orlando, Rv. 273811;
Sez. 3, n. 15228 del 31/01/2017, Cucino, Rv. 269579; Sez. 5, n. 39513 del
11/05/2012, Brentel, Rv. 253733), cosicché essa risulta destinata a svolgere
la funzione certificativa (dello stato dei luoghi e della loro salubrità)
richiesta dalla norma incriminatrice, con la conseguente correttezza della
affermazione della configurabilità del delitto di falsità ideologica in
certificato di cui all'art. 481 cod. pen. e l'insussistenza della violazione
di tale disposizione lamentata dal ricorrente
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
28.01.2020 n. 3461). |
ESPROPRIAZIONE: La
cessione volontaria di beni immobili rientra nel genus dei cd. contratti ad
oggetto pubblico.
---------------
Espropriazione per pubblica utilità – Cessione volontaria –
Individuazione.
La cessione volontaria di beni immobili rientra nel
più ampio genus dei cd. contratti ad oggetto pubblico, che si diversifica
dai normali contratti di compravendita di diritto privato per una serie di
imprescindibili elementi costitutivi, che vanno individuati nell’inserimento
del negozio nell’ambito di un procedimento di espropriazione per pubblica
utilità, nel cui contesto la cessione assolve alla peculiare funzione
dell’acquisizione del bene da parte dell’espropriante, quale strumento
alternativo all’ablazione d’autorità mediante decreto di esproprio; nella
preesistenza non solo di una dichiarazione di pubblica utilità ancora
efficace, ma anche di un subprocedimento di determinazione dell’indennità e
delle relative offerte ed accettazione, con la sequenza e le modalità
previste dall’art. 12, l. n. 865 del 1971; nel prezzo di trasferimento
volontario correlato ai parametri di legge stabiliti, inderogabilmente, per
la determinazione dell’indennità di espropriazione (1).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che la peculiarità di tale tipologia di
accordo ha comportato oscillazioni giurisprudenziali rivenienti
dall’accentuato valore solo civilistico degli stessi (Cass., SS.UU.
06.12.2010, n. 24687), ovvero, al contrario, sull’enfatizzato rilievo
attribuito al potere autoritativo comunque sotteso alla relativa stipula,
con conseguente assegnazione al giudice amministrativo della giurisdizione
esclusiva anche per le controversie che attengono alla loro esecuzione (Cons.
St. sez. V, 20.08.2013, n. 4179).
Il Giudice delle leggi (Corte cost. nn. 204 del 2004 e 191 del 2006), ha
chiarito che l'utilizzo dello strumento degli accordi presuppone l'esistenza
in capo alla p.a. di un potere autoritativo: l'accordo sostituisce l'atto
unilaterale, ma non può essere utilizzato se non in sostituzione di un
provvedimento espressione di potere autoritativo.
Traendo spunto dalle coordinate offerte dalla Consulta in sede di
valutazione della costituzionalità dell'art. 53, d.P.R. n. 327 del 2001, si
è dunque affermato che, attratta la cessione volontaria sotto il più duttile
ombrello dell’accordo sostitutivo o integrativo di provvedimento, sia pure
nei limiti della tipicità dei provvedimenti autoritativi che va a
sostituire, le controversie relative alla sua esecuzione, diverse da quelle
in tema di indennità, devono essere conosciute dal giudice amministrativo (Cons.
St., sez. VI. 14.09.2005, n. 4735).
L’inserimento della cessione nell’ambito di un accordo integrativo o
sostitutivo di provvedimento ex art. 11, l. n. 241 del 1990 non si palesa
dunque neutra rispetto all’individuazione del giudice chiamato a decidere le
relative controversie, con ciò dequotando l’accordo a vuoto simulacro
formale.
Gli accordi sostitutivi di provvedimento, disciplinati a livello generale
nell’art. 11 della l. n. 241 del 1990, costituiscono la formale
consacrazione della legittimazione negoziale delle pubbliche
amministrazioni. Trattasi di un istituto che attinge egualmente alla natura
di patto o convenzione, ma anche di fonte di situazioni giuridiche
patrimoniali diverse dalle obbligazioni civilistiche, che non esaurisce,
come ha evidenziato la dottrina più accorta, il previgente modello del
contratto ad oggetto pubblico, proprio in ragione della molteplicità di
funzioni cui può assolvere.
Esso si connota per la sostanziale equivalenza o sovrapponibilità fra
funzione economico sociale e cura dell’interesse pubblico e “sostituisce”
il provvedimento anche in senso finalistico, consentendo cioè attraverso il
modulo della negoziazione di ottenere un risultato più conveniente di quello
ottenibile con il primo da parte dell’amministrazione.
La previsione, all’interno della disciplina del procedimento amministrativo,
di un istituto generale quale l’accordo integrativo o sostitutivo di
provvedimento, quest’ultimo originariamente circoscritto ai soli casi
previsti dalla legge (v. la novella apportata con la l. 11.02.2005, n. 15,
che ha eliminato il relativo inciso dalla norma), ha definitivamente sancito
la legittimazione negoziale delle pubbliche amministrazioni.
L’istituto, tuttavia, in quanto nel contempo patto o convenzione, ma anche
fonte di situazioni giuridiche patrimoniali diverse dalle obbligazioni
civilistiche, non esaurisce, come ha evidenziato la dottrina più accorta, il
previgente modello del contratto ad oggetto pubblico, proprio in ragione
della molteplicità di funzioni cui può assolvere, pur connotandosi per la
sostanziale equivalenza o sovrapponibilità fra funzione economico sociale e
cura dell’interesse pubblico.
L’accordo, dunque, “sostituisce” il provvedimento anche in senso
finalistico, consentendo cioè attraverso il modulo della negoziazione di
ottenere un risultato più conveniente di quello ottenibile con il primo da
parte dell’amministrazione. Laddove, cioè, il responsabile del procedimento
valuti che esso costituisce lo strumento più idoneo per la composizione
degli interessi coinvolti nell’azione amministrativa, può addivenire alla
stipula di un contratto cui l’ordinamento giuridico ricollega determinati
effetti, ciascuno dei quali a sua volta conseguibile anche con
provvedimenti.
La significatività dell’istituto sta pertanto proprio nel suo mutuare
aspetti necessariamente civilistici mischiandoli a contenuti tipicamente
autoritativi, con ciò realizzando un’efficace sintesi -rectius, la
miglior sintesi possibile, secondo la valutazione del soggetto pubblico
agente- tra l’interesse pubblico sotteso all’intervento, complessivamente
inteso, e il necessario incontro tra le volontà, quale metodologia per il
suo perseguimento
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 28.01.2020 n. 705 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
4. La cessione volontaria dell’immobile oggetto di procedura di esproprio
all’epoca dei fatti di cui è causa risultava ancora regolamentata dall’art.
12 della l. 22.10.1971, n. 865. La norma, infatti, è stata formalmente
abrogata dall’art. 58 del d. P.R. n. 327/2001, entrato in vigore tuttavia
solo il 30.06.2003, giusta le reiterate proroghe di efficacia intervenute al
riguardo, da ultimo con il d.lgs. 27.12.2002, n. 302. Inconferente appare
pertanto il richiamo, da parte della difesa della società appellata, ai fini
dell’individuazione del giudice competente, al combinato disposto degli artt.
45 e 53, comma 2 (che comunque, utilizzando la clausola «Resta fermo»,
ha carattere meramente ricognitivo dell’assetto preesistente) del medesimo
Testo unico.
L’istituto può essere ricondotto al genus dei cd. contratti ad
oggetto pubblico, che si diversifica dai normali contratti di compravendita
di diritto privato per una serie di imprescindibili elementi costitutivi che
la giurisprudenza ha individuato:
- nell’inserimento del negozio nell’ambito di un procedimento di
espropriazione per pubblica utilità, nel cui contesto la cessione assolve
alla peculiare funzione dell’acquisizione del bene da parte
dell’espropriante, quale strumento alternativo all’ablazione d’autorità
mediante decreto di esproprio;
- nella preesistenza non solo di una dichiarazione di pubblica
utilità ancora efficace, ma anche di un subprocedimento di determinazione
dell’indennità e delle relative offerte ed accettazione, con la sequenza e
le modalità previste dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971;
- nel prezzo di trasferimento volontario correlato ai parametri di
legge stabiliti, inderogabilmente, per la determinazione dell’indennità di
espropriazione.
Ove non siano riscontrabili tutti i ridetti requisiti, non potendosi
astrattamente escludere che l’amministrazione abbia inteso perseguire una
finalità di pubblico interesse tramite un ordinario contratto di
compravendita, al negozio traslativo non possono collegarsi gli effetti
tipici della cessione volontaria disciplinata dall’art. 12 della legge n.
865 del 1971, ossia l’estinzione dei diritti reali o personali gravanti sul
bene acquisito dall’amministrazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.10.2019,
n. 7445; id., 27.07.2016, n. 3391; Cass. 22.01.2018, n. 1534; id.,
22.05.2009, n. 11955).
4.1. Presupposto necessario, ma non sufficiente, dunque, perché si possa
configurare la cessione volontaria, e perché si possano produrre i suoi
effetti tipici, è il collegamento tra il rapporto contrattuale ed il
procedimento amministrativo di espropriazione per pubblica utilità che vi ha
dato origine, il quale funge da essenziale momento genetico e fondamentale
presupposto del trasferimento immobiliare. Senza l’apertura di una formale
procedura espropriativa non può esserci spazio per la cessione volontaria, e
ciò per la semplice ragione che essa non potrebbe in tale caso espletare la
sua funzione tipica di strumento di acquisizione della proprietà immobiliare
in capo all’amministrazione espropriante alternativo rispetto al
provvedimento amministrativo autoritativo costituito dal decreto di
esproprio (cfr. Cass. 29.03.2007, n. 7779).
La causa del contratto pubblicistico di cessione va quindi ricondotta a tale
modalità alternativa di realizzazione del procedimento espropriativo
mediante l’utilizzo di uno strumento privatistico, peraltro soggetto per
taluni aspetti -tra cui la determinazione del prezzo di cessione- alla
disciplina contenuta in norme di legge imperative (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
07.04.2015, n. 1768; id. 03.03.2015, n. 1035; Cass., SS.UU. 13.02.2007, n.
3040, quest’ultima richiamata anche dal giudice di prime cure).
5. Ora, nel caso di specie, senza neppure entrare nella concreta indagine
dei contenuti dell’accordo di cui è causa, il giudice di prime cure,
attraverso il semplice richiamo all’art. 12 della l. n. 865/1971 ne ha
operato la qualificazione giuridica, depauperando di qualsivoglia
significato aggiuntivo o interpretativo il riferimento all’accordo di cui
all’art. 11 della l. n. 241/1990.
5.1. Il Collegio non ignora al riguardo che nell’ambito della giurisprudenza
della Corte di Cassazione si sia talora affermato il carattere
esclusivamente civilistico degli accordi in questione, considerati in quanto
tali ontologicamente incompatibili col paradigma generale di cui all’art. 11
della l. n. 241/1990, necessariamente pubblicistico (cfr. al riguardo Cass.,
SS.UU. 06.12.2010, n. 24687).
La cessione volontaria degli immobili assoggettati ad espropriazione quale
modo tipico di chiusura del relativo procedimento in forza di una relazione
legale e predeterminata di alternatività, non di mera sostituzione, rispetto
al decreto ablatorio, si caratterizzerebbe per una discrezionalità limitata
all’an, laddove gli accordi ex art. 11 della l. n. 241/1990 si
connotano per la sussistenza della stessa anche nel quomodo.
Orientamento peraltro presente anche nella giurisprudenza amministrativa,
che tuttavia finisce poi per enfatizzare l’aspetto contenutistico del
pagamento del corrispettivo quale elemento tipico dell’accordo, tale da
orientare ex se l’attribuzione della controversia al giudice
ordinario giusta la previsione in tal senso dell’art. 133, comma 1, lett. g)
c.p.a. (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. IV, 03.03.2015, n. 1035).
Il che corrisponde esattamente al percorso ermeneutico seguito dal giudice
di prime cure, che fa seguire all’inquadramento dello schema contrattuale
utilizzato come cessione volontaria del bene l’affermazione della
giurisdizione del giudice civile; salvo poi precisare che ciò avverrebbe non
tanto (o non solo) in ragione della stessa, quanto più propriamente per -e
limitatamente al- il suo contenuto indennitario.
5.2. La complessità dogmatica della questione trova altresì riscontro negli
opposti orientamenti che hanno diversamente qualificato la cessione
volontaria o semplicemente facendo leva sul carattere autoritativo del
potere di esproprio che comunque si va a sostituire; ovvero, in maniera più
articolata, facendo leva sugli ulteriori possibili effetti che anche tale
tipologia di contratto può conseguire, avuto riguardo al suo concreto
atteggiarsi nel contesto locale nel quale è destinato ad incidere.
Il rapporto con il più generale paradigma dell’accordo sostitutivo è stato a
seconda dei casi attinto o meno, facendo leva sulle prerogative dell’uno per
ascriverle all’altro, attraendolo nel relativo quadro definitorio e
regolatorio, e viceversa (cfr. ancora Cass., SS.UU. 06.12.2010, n. 24687,
ove si invoca il combinato disposto dei commi 1 e 5 dell’art. 11 della l. n.
241/1990 per ribadire la giurisdizione del giudice amministrativo).
Nella prima direzione, si è dunque genericamente affermato che la cessione
volontaria del bene, in quanto sostitutiva del decreto di espropriazione di
cui produce i medesimi effetti, non perde la connotazione di atto
autoritativo, implicando, più semplicemente, la confluenza in un unico testo
del provvedimento e del negozio e senza che la presenza del secondo snaturi
l'attività dell'Amministrazione (ex multis Cons. Stato, sez. V,
20.08.2013, n. 4179; sez. VI; 14.09.2005, n. 4735); da ciò la sua
riconducibilità sub art. 11, l. 07.08.1990 n. 241, avuto riguardo all'ampia
duttilità che la caratterizza, sia pure nei limiti della tipicità dei
provvedimenti autoritativi che va a sostituire.
Nella seconda, particolarmente significativa si rivela la casistica delle
cessioni volontarie che in qualche modo implicano anche riferimenti alla
destinazione urbanistica delle aree interessate, direttamente o
indirettamente, dall’esproprio. Atteso, infatti, che la convenzione
stipulata, ad esempio, «nel corso di una procedura espropriativa, con cui
l'espropriato cede al Comune l'area necessaria per la realizzazione
dell'opera pubblica ed il Comune si obbliga a trasferire al privato la
proprietà di altra area da destinare a parcheggio, viene conclusa in
funzione della programmata espropriazione in corso e, quindi,
dell'attuazione della relativa attività di trasformazione urbanistica ed
edilizia del territorio, così realizzando l'individuazione convenzionale del
contenuto di uno o più provvedimenti che l'amministrazione avrebbe dovuto
emettere a conclusione del procedimento in atto, nel caso di mancata
esecuzione dell'accordo, la relativa controversia rientra nella
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, sia perché la
convenzione rientra tra quelle di cui all'art. 11 della legge n. 241 del
1990 sia perché la stessa attiene alla materia urbanistica ai sensi
dell'art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998, come modificato dalla legge n. 205
del 2000, senza che abbia incidenza la parziale illegittimità costituzionale
(sent. n. 204 del 2004), giacché nella specie l'uso del territorio consegue
ad atti della P.A. e non a meri comportamenti» (v. Cass., 30.01.2008, n.
2029).
5.3. Il Giudice delle leggi (Corte Cost., nn. 204/2004 e 191/2006), ha
chiarito che l'utilizzo dello strumento degli accordi presuppone l'esistenza
in capo alla p.a. di un potere autoritativo: l'accordo sostituisce l'atto
unilaterale, ma non può essere utilizzato se non in sostituzione di un
provvedimento espressione di potere autoritativo. Da qui l'impossibilità di
ricondurre sic et simpliciter l'accordo allo schema del contratto di
diritto privato e la conseguente giustificazione dell'assegnazione al
giudice amministrativo della giurisdizione esclusiva anche per quelle
controversie che attengono alla sua esecuzione.
Traendo spunto, cioè, dalle coordinate offerte dalla Consulta in sede di
valutazione della costituzionalità dell'art. 53 del d.P.R. n. 327/2001, si è
dunque affermato che: «La dichiarazione di illegittimità costituzionale
dell'art. 53 comma 1, del d.lgs. 08.06.2001, n. 325, trasfuso nell'art. 53,
comma 1, del d.P.R. 08.06.2001, n. 327, ad opera della sentenza n. 191 del
2006 della Corte costituzionale, riguarda soltanto la devoluzione alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie
relative ai comportamenti delle pubbliche amministrazioni, conseguenti
all'applicazione delle disposizioni del testo unico, non riconducibili,
nemmeno mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere e, dunque, tenuti
in carenza di potere od in via di mero fatto; conseguentemente appartengono
alla giurisdizione del giudice amministrativo quelle controversie in tema di
risarcimento del danno derivante da provvedimenti che, benché impugnati per
illegittimità od illiceità, sono comunque riconducibili ai poteri ablatori
riconosciuti alla P.A. dagli artt. 43 e 44 del T.U. n. 327 e dall'art. 3»
(Cass., SS.UU.,Ord. 22.12.2011, n. 28343; Cons. Stato, sez. V, 20.08.2013,
n. 4179).
In definitiva, come pure questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di
chiarire, attraendo la cessione volontaria sotto il più duttile ombrello
dell’accordo sostitutivo o integrativo di provvedimento, sia pure nei limiti
della tipicità dei provvedimenti autoritativi che va a sostituire, in
ragione del riconosciuto mantenimento della sua connotazione di atto
autoritativo, caratterizzato semplicemente dalla confluenza in un unico
testo di provvedimento e negozio, si è comunque potuto affermare che le
controversie relative alla sua esecuzione, diverse da quelle in tema di
indennità, devono essere conosciute dal giudice amministrativo (Cons. St.,
Sez. VI; 14.09.2005, n. 4735),
6. La previsione, all’interno della disciplina del procedimento
amministrativo, di un istituto generale quale l’accordo integrativo o
sostitutivo di provvedimento, quest’ultimo originariamente circoscritto ai
soli casi previsti dalla legge (v. la novella apportata con la l.
11.02.2005, n. 15, che ha eliminato il relativo inciso dalla norma), ha
definitivamente sancito la legittimazione negoziale delle pubbliche
amministrazioni.
L’istituto, tuttavia, in quanto nel contempo patto o convenzione, ma anche
fonte di situazioni giuridiche patrimoniali diverse dalle obbligazioni
civilistiche, non esaurisce, come ha evidenziato la dottrina più accorta, il
previgente modello del contratto ad oggetto pubblico, proprio in ragione
della molteplicità di funzioni cui può assolvere, pur connotandosi per la
sostanziale equivalenza o sovrapponibilità fra funzione economico sociale e
cura dell’interesse pubblico.
L’accordo, dunque, “sostituisce” il provvedimento anche in senso
finalistico, consentendo cioè attraverso il modulo della negoziazione di
ottenere un risultato più conveniente di quello ottenibile con il primo da
parte dell’amministrazione. Laddove, cioè, il responsabile del procedimento
valuti che esso costituisce lo strumento più idoneo per la composizione
degli interessi coinvolti nell’azione amministrativa, può addivenire alla
stipula di un contratto cui l’ordinamento giuridico ricollega determinati
effetti, ciascuno dei quali a sua volta conseguibile anche con
provvedimenti.
La significatività dell’istituto sta pertanto proprio nel suo mutuare
aspetti necessariamente civilistici mischiandoli a contenuti tipicamente
autoritativi, con ciò realizzando un’efficace sintesi -rectius, la
miglior sintesi possibile, secondo la valutazione del soggetto pubblico
agente- tra l’interesse pubblico sotteso all’intervento, complessivamente
inteso, e il necessario incontro tra le volontà, quale metodologia per il
suo perseguimento.
6.1. La natura complessa dell’accordo sostitutivo di provvedimento,
pertanto, non ne consente la dequotazione a vuoto simulacro formale, così
come di fatto affermato dal giudice di prime cure, che ne ritiene del tutto
neutro l’utilizzo ai fini dell’individuazione del riparto di giurisdizione:
ciò peraltro non contestando il mero ricorso al nomen iuris, senza
rilevata corrispondenza sostanziale con il modello evocato; bensì
semplicemente in ragione della sua incapacità di incidere sulla
qualificazione civilistica della cessione di immobili.
6.2. Rileva al contrario la Sezione che proprio il fervore del dibattito
dottrinario e giurisprudenziale insorto sulla tematica evidenzia la
necessità di non risolvere la questione sul piano delle mere astrazioni
dogmatiche, dovendo la categoria concettuale generale del contratto ad
oggetto pubblico essere ulteriormente vagliata e scrutinata in concreto onde
valutare l’atteggiarsi del modello utilizzato, pur se normativamente già
previsto, in un senso piuttosto che nell’altro.
E’ dunque rimessa al giudice, a fronte di una fattispecie consensuale
pubblica, una precisa operazione ermeneutica che non può prescindere dalla
disamina della fase formativa dell’accordo, della sua struttura e dei suoi
effetti, senza partire da categorizzazioni preconcette: solo all’esito di
tale specifica analisi, è infatti possibile non tanto e non solo
l’inquadramento concettuale della singola fattispecie, ma anche e
soprattutto l’individuazione degli strumenti rimediali alla stessa
applicabili.
7. Da tutto quanto sopra, rileva la Sezione, emerge che la linea di
demarcazione stabilita dall’art. 133, comma 1, lettera g), per separare la
giurisdizione del giudice amministrativo da quella del giudice ordinario, in
necessario combinato disposto con le indicazioni rivenienti anche dalla
lett. a), n. 2) della medesima norma, non possa essere fatta cadere sulla
sola affermazione della natura giuridica degli atti adottati astrattamente
intesa, ma debba essere riguardata dall’ottica del collegamento eziologico
che gli stessi, pur intercorsi pattiziamente tra le parti, hanno con
l’esercizio del potere pubblico, in primo luogo di esproprio e, soprattutto,
analizzandone nello specifico gli effetti.
8. Quale che sia la cornice definitoria nella quale si colloca l’accordo,
tuttavia, certo è che fuoriescono dalla stessa le questioni “solo”
indennitarie, in quanto rientranti ratione materiae nella
giurisdizione del giudice ordinario.
8.1. Costituisce infatti ius receptum, dalle cui conclusioni non è
ragione di discostarsi, che qualsiasi domanda attinente alla determinazione
o al pagamento della indennità di esproprio rientra nella giurisdizione del
giudice ordinario, perfino se proposta dall’amministrazione per recuperare
quella indebitamente versata ad un privato ovvero connessa a quella
risarcitoria da perdita del terreno spettante al giudice amministrativo (cfr.
ex multis, Cass. civ., SS.UU., 19.02.2019, n. 4880).
Quanto detto è stato riconosciuto finanche ove coesistano contestazioni che
investono sia la legittimità del decreto ex art. 42-bis del Testo unico
sull’espropriazione, sia la quantificazione dell'indennizzo: invero, salvo
eccezioni normative espresse, vige nell'ordinamento processuale il principio
generale dell'inderogabilità della giurisdizione per motivi di connessione,
potendosi risolvere i problemi di coordinamento posti dalla concomitante
operatività della giurisdizione ordinaria e di quella amministrativa su
rapporti diversi, ma interdipendenti, secondo le regole della sospensione
del procedimento pregiudicato (Cons. Stato, sez. IV, 01.03.2017, n. 941; id.,
12.05.2016, n. 1910, che si sono poste sulla scia di Cass., SS.UU., ord.
19.04.2013, n. 9534). |
EDILIZIA PRIVATA: Distinzione
tra tettoie e meri pergolati.
In ordine alla
distinzione tra tettoie e meri pergolati,
secondo la giurisprudenza, il pergolato
è una struttura realizzata al fine di
adornare e ombreggiare giardini o terrazze,
costituita da un'impalcatura formata da
montanti verticali ed elementi orizzontali
che li connettono ad una altezza tale da
consentire il passaggio delle persone.
Di contro, il pergolato stesso, quando sia
coperto superiormente, anche in parte, con
una struttura non facilmente amovibile,
diventa una tettoia, ed è soggetto
alla disciplina relativa, e, in particolare,
deve ritenersi intervento “senz’altro
asservito a permesso di costruire”.
---------------
MASSIMA
8. Entrando in medias res, il
Collegio ritiene privo di fondamento il
primo motivo di ricorso.
8.1. Dalla documentazione fotografica
versata in atti risulta con evidenza come le
tre strutture costituiscano delle tettoie e
non dei meri pergolati, come sostenuto da
parte ricorrente.
Difatti, anche secondo la giurisprudenza del
Consiglio di Stato, il
pergolato è “una struttura realizzata
al fine di adornare e ombreggiare giardini o
terrazze, costituita da un'impalcatura
formata da montanti verticali ed elementi
orizzontali che li connettono ad una altezza
tale da consentire il passaggio delle
persone”
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.08.2018, n.
5008; cfr., inoltre, Consiglio di Stato,
Sez. VI, 07.05.2018, n. 2701; Id., Sez. VI,
25.01.2017, n. 306).
“Di contro, il pergolato
stesso, quando sia coperto superiormente,
anche in parte, con una struttura non
facilmente amovibile, diventa una tettoia,
ed è soggetto alla disciplina relativa”,
e, in particolare, deve ritenersi intervento
“senz’altro asservito a permesso di
costruire”
(cfr., ancora, Consiglio di Stato, Sez. IV,
22.08.2018, n. 5008).
8.2. Nel caso di specie, si tratta di
tettoie munite di coperture non agevolmente
amovibili come dimostra la già richiamata
copiosa documentazione fotografica
depositata dall’Amministrazione comunale.
8.3. Inoltre, come evidenziato dalla Sezione
nell’ordinanza n. 322/2019, la previsione di
cui all’articolo 3, comma 1, lettera e.5),
del d.P.R. n. 380 del 2001 considera
interventi di nuova costruzione “l'installazione
di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e
di strutture di qualsiasi genere, quali
roulottes, campers, case mobili,
imbarcazioni, che siano utilizzati come
abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come
depositi, magazzini e simili, ad eccezione
di quelli che siano diretti a soddisfare
esigenze meramente temporanee o siano
ricompresi in strutture ricettive all'aperto
per la sosta e il soggiorno dei turisti,
previamente autorizzate sotto il profilo
urbanistico, edilizio e, ove previsto,
paesaggistico, in conformità alle normative
regionali di settore”.
La successiva previsione di cui all’articolo
6, comma 1, lettera e-bis), del medesimo
articolato normativo inserisce nella c.d.
edilizia libera le sole “opere dirette a
soddisfare obiettive esigenze contingenti e
temporanee e ad essere immediatamente
rimosse al cessare della necessità e,
comunque, entro un termine non superiore a
novanta giorni, previa comunicazione di
avvio lavori all'amministrazione comunale”.
8.4. La maquillage normativa
apportata dal legislatore con il d.lgs.
25.11.2016, n. 222 non innova le
elaborazioni fornite dalla giurisprudenza
amministrativa nella vigenza delle
precedenti edizioni del disposto legale.
In particolare, si afferma che “in
ordine ai requisiti che deve avere un'opera
edilizia per essere considerata precaria,
possono essere ipotizzati in astratto due
criteri discretivi: 1) criterio
strutturale, in virtù del quale è
precario ciò che non è stabilmente infisso
al suolo; 2) il criterio funzionale,
in virtù del quale è precario ciò che è
destinato a soddisfare un'esigenza
temporanea. La giurisprudenza è concorde nel
senso che per individuare la natura precaria
di un'opera si debba seguire non il criterio
strutturale, ma il criterio funzionale, per
cui un'opera può anche non essere
stabilmente infissa al suolo, ma se essa
presenta la caratteristica di essere
realizzata per soddisfare esigenze non
temporanee, non può beneficiare del regime
delle opere precarie”
(Consiglio di Stato, Sez. V, 27.03.2013, n.
1776).
E’, pertanto, necessario un
titolo edilizio
–secondo la sentenza ora richiamata–
per la realizzazione di “tutti
quei manufatti che, anche se non
necessariamente infissi nel suolo e pur
semplicemente aderenti a questo, alterino lo
stato dei luoghi in modo stabile, non
irrilevante e non meramente occasionale,
[...] ove comportino l'esecuzione di lavori
cui consegua la trasformazione permanente
del suolo inedificato”.
Ne consegue che “la
natura “precaria” di un manufatto, non può
essere desunta dalla temporaneità della
destinazione soggettivamente data all'opera
dal costruttore, ma deve ricollegarsi
all'intrinseca destinazione materiale di
essa a un uso realmente precario e
temporaneo, per fini specifici, contingenti
e limitati nel tempo, non essendo
sufficiente che si tratti eventualmente di
un manufatto smontabile e/o non infisso al
suolo”.
Nello stesso senso, viene chiarito che “la
precarietà dell’opera, che esonera
dall'obbligo del possesso del permesso di
costruire, ai sensi dell’art. 3, comma 1,
lettera e.5), D.P.R. n. 380 del 2001,
postula infatti un uso specifico e
temporalmente delimitato del bene e non
ammette che lo stesso possa essere
finalizzato al soddisfacimento di esigenze
(non eccezionali e contingenti, ma)
permanenti nel tempo. Non possono, infatti,
essere considerati manufatti destinati a
soddisfare esigenze meramente temporanee
quelli destinati a un'utilizzazione
perdurante nel tempo, di talché
l'alterazione del territorio non può essere
considerata temporanea, precaria o
irrilevante
(in tal senso: Consiglio di Stato, VI,
03.06.2014, n. 2842)”
(Consiglio di Stato, Sez. VI, 04.09.2015, n.
4116; v. anche: Consiglio di Stato,
01.04.2016, n. 1291; nella giurisprudenza
della Sezione si veda: TAR per la Lombardia
- sede di Milano, sez. II, 28.07.2017, n.
1705; TAR per la Lombardia - sede di Milano,
Sez. II, 14.02.2019, n. 204; Id.,
28.02.2019, n. 259).
8.5. Nel caso di specie, le tettoie
consistono in strutture di dimensioni non
esigue (5,20 m x 3,40 m con altezza da 2,40
m a 2,50 m, la prima; 5,10 m x 3,55 m con
altezza da 2,40 m a 2,50 m, la seconda: 6,50
m x 6,00 m con altezza di 3,50 m, la terza)
ed assumono un’autonomia funzionale rispetto
all’edificio principale che esclude la
possibilità di qualificare le stesse come
mere pertinenze, categoria
applicabile soltanto “a opere di modesta
entità e accessorie rispetto a un'opera
principale, quali ad esempio i piccoli
manufatti per il contenimento di impianti
tecnologici “et similia”, ma non anche a
opere che, dal punto di vista delle
dimensioni e della funzione, si
caratterizzino per una propria autonomia
rispetto all'opera cosiddetta principale e
non siano coessenziali alla stessa, di tal
che ne risulti possibile una diversa e
autonoma utilizzazione economica”
(Consiglio di Stato, sez. VI, 06.02.2019, n.
904).
8.6. In definitiva, il primo motivo
di ricorso deve ritenersi infondato (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 24.01.2020 n. 179 - link
a www.giustizia-amministrativa.it).). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
vincolo assoluto di inedificabilità, di cui
all’articolo 338 del testo unico delle leggi
sanitarie - r.d. 24.07.1934, n. 1265, “non
consente in alcun modo l'allocazione sia di
edifici, che di opere incompatibili con il
vincolo medesimo, in considerazione dei
molteplici interessi pubblici che tale
fascia di rispetto intende tutelare e che
possono enuclearsi nelle esigenze di natura
igienico-sanitaria, nella salvaguardia della
pecuniarie sacralità che connota i luoghi
destinati all'inumazione e alla sepoltura,
nel mantenimento di un’area di possibile
espansione della cinta cimiteriale”.
---------------
9. L’esatta qualificazione dell’intervento
consente, inoltre, di acclarare
l’infondatezza dei rilievi contenuti nel
secondo motivo di ricorso.
9.1. In particolare, la ricorrente contesta
l’operatività della previsione di cui
all’articolo 10 del P.d.S. del P.G.T.
ritenendo l’opera un intervento di
manutenzione straordinaria. Tuttavia, come
spiegato in precedenza, si tratta di un
nuovo intervento che necessità di permesso
di costruire o S.C.I.A. alternativa al
p.d.c. con la conseguente applicazione del
disposto indicato dall’Amministrazione
comunale.
9.2. Parimenti infondati sono i rilievi
relativi alla non operatività della
disposizione di cui all’articolo 28 della
Legge n. 166/2002.
Invero, simile disposizione modifica le
previsioni di cui all’articolo 338 del testo
unico delle leggi sanitarie, di cui al regio
decreto 24.07.1934, n. 1265, e successive
modificazioni, apportando una serie di
modificazioni tra le quali rileva, in questa
sede, quella relativa al comma 7. Si
prevede, in particolare, che “all’interno
della zona di rispetto per gli edifici
esistenti sono consentiti interventi di
recupero ovvero interventi funzionali
all'utilizzo dell'edificio stesso, tra cui
l'ampliamento nella percentuale massima del
10 per cento e i cambi di destinazione
d'uso, oltre a quelli previsti dalle lettere
a), b), c) e d) del primo comma
dell'articolo 31 della legge 05.08.1978, n.
457”.
9.3. Oltre agli interventi di recupero
funzionale sono, quindi, ammessi: “a)
interventi di manutenzione ordinaria, quelli
che riguardano le opere di riparazione,
rinnovamento e sostituzione delle finiture
degli edifici e quelle necessarie ad
integrare o mantenere in efficienza gli
impianti tecnologici esistenti;
b) interventi di manutenzione straordinaria,
le opere e le modifiche necessarie per
rinnovare e sostituire parti anche
strutturali degli edifici, nonché per
realizzare ed integrare i servizi
igienico-sanitari e tecnologici, sempre che
non alterino i volumi e le superfici delle
singole unità immobiliari e non comportino
modifiche delle destinazioni di uso;
c) interventi di restauro e di risanamento
conservativo, quelli rivolti a conservare
l'organismo edilizio e ad assicurarne la
funzionalità mediante un insieme sistematico
di opere che, nel rispetto degli elementi
tipologici, formali e strutturali
dell'organismo stesso, ne consentano
destinazioni d'uso con essi compatibili.
Tali interventi comprendono il
consolidamento, il ripristino e il rinnovo
degli elementi costitutivi dell'edificio,
l'inserimento degli elementi accessori e
degli impianti richiesti dalle esigenze
dell'uso, l'eliminazione degli elementi
estranei all'organismo edilizio;
d) interventi di ristrutturazione edilizia,
quelli rivolti a trasformare gli organismi
edilizi mediante un insieme sistemativo di
opere che possono portare ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente. Tali interventi comprendono il
ripristino o la sostituzione di alcuni
elementi costitutivi dell'edificio, la
eliminazione, la modifica e l'inserimento di
nuovi elementi ed impianti”.
9.4. Gli interventi in esame costituiscono
nuove costruzioni e non rientrano, pertanto,
nelle previsioni indicate. Opera, pertanto,
quel vincolo assoluto di inedificabilità “che
non consente in alcun modo l'allocazione sia
di edifici, che di opere incompatibili con
il vincolo medesimo, in considerazione dei
molteplici interessi pubblici che tale
fascia di rispetto intende tutelare e che
possono enuclearsi nelle esigenze di natura
igienico-sanitaria, nella salvaguardia della
pecuniarie sacralità che connota i luoghi
destinati all'inumazione e alla sepoltura,
nel mantenimento di un’area di possibile
espansione della cinta cimiteriale” (TAR
per il Lazio – sede di Roma, sez. III,
26.09.2019, n. 11339) (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 24.01.2020 n. 179 - link
a www.giustizia-amministrativa.it).). |
EDILIZIA PRIVATA: Mentre
l’ingiunzione di demolizione costituisce la
prima ed obbligatoria fase del procedimento
repressivo, in quanto ha natura di diffida e
presuppone solo un giudizio di tipo
analitico-ricognitivo dell’abuso commesso,
il giudizio sintetico-valutativo, di natura
discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso
e la possibilità di sostituire la
demolizione con la sanzione pecuniaria (art.
33, co. 2, d.P.R. 380/2001) può essere
effettuato soltanto in un secondo momento,
cioè quando il soggetto privato non ha
ottemperato spontaneamente alla demolizione
e l'organo competente emana l'ordine
(indirizzato ai competenti uffici
dell’Amministrazione) di esecuzione in danno
delle ristrutturazioni realizzate in assenza
o in totale difformità dal permesso di
costruire o delle opere edili costruite in
parziale difformità dallo stesso.
Soltanto nella predetta seconda fase non può
ritenersi legittima l’ingiunzione a demolire
sprovvista di qualsiasi valutazione intorno
all'entità degli abusi commessi e alla
possibile sostituzione della demolizione con
la sanzione pecuniaria, sempre se vi sia
stata la richiesta dell'interessato in tal
senso.
---------------
Il quarto motivo, con il quale la
ricorrente contesta che un eventuale
ripristino dei luoghi non sarebbe stato
possibile, perché avrebbe inciso anche
strutturalmente con i sottotetti di terzi
confinanti con quello della ricorrente, che
il Comune di Milano ha negli anni tutti
autorizzati a sanatoria, è infondato.
La giurisprudenza ha infatti chiarito che,
mentre l’ingiunzione di demolizione
costituisce la prima ed obbligatoria fase
del procedimento repressivo, in quanto ha
natura di diffida e presuppone solo un
giudizio di tipo analitico-ricognitivo
dell’abuso commesso, il giudizio
sintetico-valutativo, di natura
discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso
e la possibilità di sostituire la
demolizione con la sanzione pecuniaria (art.
33, co. 2, d.P.R. 380/2001) può essere
effettuato soltanto in un secondo momento,
cioè quando il soggetto privato non ha
ottemperato spontaneamente alla demolizione
e l'organo competente emana l'ordine
(indirizzato ai competenti uffici
dell’Amministrazione) di esecuzione in danno
delle ristrutturazioni realizzate in assenza
o in totale difformità dal permesso di
costruire o delle opere edili costruite in
parziale difformità dallo stesso; soltanto
nella predetta seconda fase non può
ritenersi legittima l’ingiunzione a demolire
sprovvista di qualsiasi valutazione intorno
all'entità degli abusi commessi e alla
possibile sostituzione della demolizione con
la sanzione pecuniaria, sempre se vi sia
stata la richiesta dell'interessato in tal
senso (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 14.11.2016 n. 5248) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 24.01.2020 n. 178 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Diniego
di permesso di costruire in sanatoria di
bene legittimamente acquisito in buona fede.
Il TAR Milano, in merito
all’interferenza del diniego di permesso di
costruire in sanatoria con il libero
godimento di un bene legittimamente
acquisito in buona fede, specifica che “la
giurisprudenza ha recentemente chiarito che
le sanzioni civili ed amministrative contro
l’abusivismo edilizio sono solo parzialmente
coincidenti.
Infatti, in costanza di una dichiarazione
reale e riferibile all'immobile, il
contratto sarà in conclusione valido, e
tanto a prescindere dal profilo della
conformità o della difformità della
costruzione realizzata al titolo in esso
menzionato (purché esistente), e ciò per la
decisiva ragione che tale profilo esula dal
perimetro della nullità prevista dalla
normativa civilistica.
Tuttavia il diniego di permesso di costruire
in sanatoria non costituisce un’interferenza
illecita nel diritto di proprietà, in quanto
tale diritto è conformato dalla legge allo
scopo di assicurarne la funzione sociale
(art. 42 Cost.) mentre l’ordine di
demolizione di un bene legittimamente
acquisito, al quale fa più specificamente
riferimento il motivo di ricorso, tende alla
riparazione effettiva di un danno al
corretto sviluppo del territorio e non è
rivolta nella sua essenza ad infliggere una
punizione per impedire la reiterazione di
trasgressioni a prescrizioni stabilite dalla
legge”.
---------------
L’ordine di demolizione
è un atto ‘rigidamente vincolato’, che va
emesso anche se –per una qualsiasi ragione–
non sia stato emesso in precedenza: non
occorre una specifica motivazione
sull’interesse pubblico attuale e non
sussiste un affidamento tutelabile, in
ragione dell’illecito commesso in violazione
delle regole sulla tutela del territorio”
---------------
2.3 Anche il terzo motivo aggiunto e
del ricorso introduttivo sono infondati.
In merito all’interferenza del diniego di
permesso di costruire in sanatoria con il
libero godimento di un bene legittimamente
acquisito in buona fede, occorre specificare
che la giurisprudenza ha recentemente
chiarito che le sanzioni civili ed
amministrative contro l’abusivismo edilizio
sono solo parzialmente coincidenti. Infatti,
in costanza di una dichiarazione reale e
riferibile all'immobile, il contratto sarà
in conclusione valido, e tanto a prescindere
dal profilo della conformità o della
difformità della costruzione realizzata al
titolo in esso menzionato (purché
esistente), e ciò per la decisiva ragione
che tale profilo esula dal perimetro della
nullità prevista dalla normativa civilistica
(Cass. Civile, Sez. Un., n. 8230/2019).
Tuttavia il diniego di permesso di costruire
in sanatoria non costituisce un’interferenza
illecita nel diritto di proprietà, in quanto
tale diritto è conformato dalla legge allo
scopo di assicurarne la funzione sociale
(art. 42 Cost.) mentre l’ordine di
demolizione di un bene legittimamente
acquisito, al quale fa più specificamente
riferimento il motivo di ricorso, tende alla
riparazione effettiva di un danno al
corretto sviluppo del territorio e non è
rivolta nella sua essenza ad infliggere una
punizione per impedire la reiterazione di
trasgressioni a prescrizioni stabilite dalla
legge.
In merito poi alla mancata motivazione
dell’interesse pubblico al diniego di
sanatoria ed alla demolizione, resa
necessaria, secondo la ricorrente, per il
lungo tempo trascorso, visto che
l’esecuzione di opere interne all’unità
risale almeno al 1991, occorre precisare che
l’accertamento di conformità non richiede
alcuna motivazione specifica in merito
all’interesse pubblico in quanto si limita
ad accertare la conformità della situazione
di fatto a quella di diritto e quindi non
costituisce un atto di volontà finalizzato
alla modifica di una situazione di fatto che
richieda una comparazione con l’interesse
privato.
Con riferimento poi all’ordine di
demolizione la giurisprudenza (Consiglio di
Stato sez. IV, 25/03/2019, n. 1942) ha da
ultimo affermato che “l’Adunanza
Plenaria, con la sentenza n. 9 del 2017, ha
ribadito come l’ordine di demolizione sia un
atto ‘rigidamente vincolato’, che va emesso
anche se –per una qualsiasi ragione– non sia
stato emesso in precedenza: non occorre una
specifica motivazione sull’interesse
pubblico attuale e non sussiste un
affidamento tutelabile, in ragione
dell’illecito commesso in violazione delle
regole sulla tutela del territorio” (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 24.01.2020 n. 178 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Necessita
del permesso di costruire il balcone chiuso con vetri mobili del tipo "a
libro".
La posa in opera di infissi in alluminio e vetro,
scorrevoli e richiudibili “a libro”, assume inequivocabilmente le
caratteristiche di una veranda, determinando la chiusura totale o parziale
di un elemento edilizio aperto verso l'esterno, quale un terrazzo, un
balcone o un portico, e dando così luogo a un elemento diverso, che comporta
una trasformazione in termini di volume, superficie e sagoma dell'edificio
cui appartiene, e pertanto richiede il rilascio di idoneo titolo abilitativo.
Né in contrario rileva l’uso che di tale struttura avviene solo in via di
mero di fatto, perché ai fini edilizi deve aversi riguardo alle
caratteristiche oggettive dell'opera e all'idoneità degli infissi a
realizzare un locale stabilmente chiuso, con conseguente estensione delle
possibilità di godimento dell'immobile, ivi compresa quella di mantenere gli
infissi aperti all'occorrenza o comunque secondo necessità.
Invero, una veranda è realizzabile unicamente su balconi, terrazzi, attici o
giardini, ed è caratterizzata da ampie superfici vetrate che all'occorrenza
si aprono tramite finestre scorrevoli o a libro, determinando così un
aumento della volumetria dell'edificio e una modifica della sua sagoma, e
necessitando, quindi, del permesso di costruire.
---------------
Viene impugnato il provvedimento con cui è stata ordinata la demolizione
delle opere abusive realizzate dalla ricorrente, consistenti in: “realizzazione,
su un balcone di proprietà, di una chiusura a vetri mobili del tipo “a
libro” per tutta la lunghezza di circa 8 m del parapetto e altezza di circa
2,00 m fino all’intradosso del solaio superiore, trasformando così il
balcone in veranda”.
Per la ricorrente, le descritte vetrate sarebbero legittime perché “non
sono in alcun modo ancorate alle preesistenti opere in muratura ma si
limitano a scorrere in dei binari installati con alcuni bulloni”, per
cui sono “facilmente rimovibili”.
Inoltre, la struttura in questione “non può considerarsi tale da avere
garantito alla ricorrente alcun nuovo locale”, perché “non garantisce
infatti alcuna nuova copertura (essendo il solaio preesistente) né alcuna
nuova possibilità di utilizzo che non sia quella propria di un balcone che
può essere temporaneamente protetto da intemperie e reso più godibile anche
in giornate fredde, grazie all’applicazione di vetri panoramici facilmente
rimovibili e ancora più facilmente richiudibili ai lati del parapetto, in
modo da restituire alla facciata il proprio status quo ante, come da
allegata documentazione fotografica, che dimostra anche che sarebbe semmai
la rimozione delle vetrate a rendere disomogenea l’estetica dell’edificio,
caratterizzata dalla presenza di vetrate sui balconi di ogni appartamento,
in ordine alle quali non risulta siano pendenti provvedimenti di demolizione”.
...
Il ricorso è infondato, e va pertanto rigettato.
Infatti, la posa in opera di infissi in alluminio e vetro, scorrevoli e
richiudibili “a libro”, assume inequivocabilmente le caratteristiche
di una veranda, determinando la chiusura totale o parziale di un elemento
edilizio aperto verso l'esterno, quale un terrazzo, un balcone o un portico,
e dando così luogo a un elemento diverso, che comporta una trasformazione in
termini di volume, superficie e sagoma dell'edificio cui appartiene, e
pertanto richiede il rilascio di idoneo titolo abilitativo.
Né in contrario rileva l’uso che di tale struttura avviene solo in via di
mero di fatto, perché ai fini edilizi deve aversi riguardo alle
caratteristiche oggettive dell'opera e all'idoneità degli infissi a
realizzare un locale stabilmente chiuso, con conseguente estensione delle
possibilità di godimento dell'immobile, ivi compresa quella di mantenere gli
infissi aperti all'occorrenza o comunque secondo necessità (TAR Toscana,
sez. III, 11/01/2019 n. 64; vedi anche Cons. St., sez. VI, 25/01/2017 n.
306, per la precisazione che una veranda è realizzabile unicamente su
balconi, terrazzi, attici o giardini, ed è caratterizzata da ampie superfici
vetrate che all'occorrenza si aprono tramite finestre scorrevoli o a libro,
determinando così un aumento della volumetria dell'edificio e una modifica
della sua sagoma, e necessitando, quindi, del permesso di costruire)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 23.01.2020 n. 911 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA:
DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Misure cautelare reale –
Sequestro finalizzato alla confisca – Facoltà d’uso del bene
– Natura del provvedimento cautelare reale – Sequestro c.d.
impeditivo – Caso dei beni immobili e mobili registrati –
Tutela dei terzi di buona fede – Art. 104 disp. att. cod.
proc. pen. – Art. 321, c. 2, cod. proc. pen..
Il sequestro preventivo finalizzato
dalla necessità di evitare il pericolo che la libera
disponibilità di una cosa pertinente al reato possa
aggravare o protrarre le conseguenze di esso, ovvero
agevolare la commissione di altri reati è pacificamente
incompatibile con la cosiddetta facoltà d’uso, poiché, si
pone in evidente contraddizione con le finalità proprie
della misura cautelare.
Sicché, anche, in assenza di specifiche esigenze preventive,
quando il sequestro è esclusivamente finalizzato alla
successiva confisca, la possibilità di utilizzare il bene
deve essere preclusa.
Infatti, lo scopo della misura è quello di sottrarre
fisicamente la disponibilità del bene al destinatario della
stessa e consentirne l’utilizzazione renderebbe il sequestro
efficace nella forma e non anche nella sostanza, senza
contare la possibile dispersione del bene, come nel caso in
cui sia alienato, ovvero un suo deterioramento.
Infine, a nulla rileva il fatto, nel caso dei beni immobili
e mobili registrati, che la confisca sarebbe comunque
assicurata dalla trascrizione del provvedimento imposta
dall’art. 104 disp. att. cod. proc. pen., atteso che la
finalità di tale disposizione è esclusivamente quella di
consentire la pubblicità del provvedimento cautelare a
garanzia della sua efficacia ed a tutela dei terzi di buona
fede e non già quella di salvaguardare la conservazione
fisica del bene, che può evidentemente essere assicurata dal
giudice con modalità diverse secondo, le esigenze del caso
concreto.
...
Reato di lottizzazione abusiva – Sequestro finalizzato alla
confisca – Principio di proporzionalità ed adeguatezza –
Sequestro senza alcuna finalità impeditiva – art. 275 cod.
proc. pen. – Artt. 30, 44, d.P.R. 380/2001.
Il principio di proporzionalità ed
adeguatezza, dettato dall’art. 275 cod. proc. pen. per le
misure cautelari personali, è ritenuto applicabile anche
alle misure cautelari reali.
Tale assunto, generalmente riferito alla fase genetica del
provvedimento cautelare, è stato ribadito anche avendo
riguardo alle modalità di esecuzione della misura cautelare
reale, osservandosi, con riferimento ad un provvedimento di
sgombero di immobile abusivo sottoposto a sequestro
preventivo disposto dal Pubblico Ministero, che
salvaguardati gli effetti che la cautela assolve, non sono
indifferenti le diverse modalità con le quali il
provvedimento deve essere eseguito, soprattutto quando
l’esecuzione di esso incide su diritti fondamentali, dei
quali gli organi della giurisdizione penale sono garanti.
Invero, nel dare applicazione a tale principio, si è
specificato che il fine è quello di evitare un’esasperata
compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa
economica privata, con la conseguenza che si richiede al
giudice di motivare sulla impossibilità di conseguire lo
stesso risultato con modalità meno invasive, in maniera tale
da non compromettere la funzionalità del bene sottoposto a
vincolo anche oltre le effettive necessità dettate
dall’esigenza cautelare che si intende arginare.
Occorre, tuttavia, osservare che l’esigenza di contemperare
le esigenze cautelari con una adeguata e non eccessivamente
gravosa compressione del diritto di proprietà e di libera
iniziativa economica trova comunque un limite nel fatto che
l’esercizio di tali diritti conseguenti all’applicazione del
principio di proporzionalità avvenga lecitamente e senza
incidere negativamente su altri diritti altrettanto
meritevoli di tutela.
Nella valutazione che il giudice è chiamato ad effettuare,
dunque, dovrà tenersi conto del fatto che la salvaguardia
dei diritti del soggetto che subisce il sequestro, con
conseguente modulazione delle modalità di esecuzione della
misura, non può giustificare il sostanziale mantenimento in
essere di una situazione di illiceità (come nel caso della
facoltà d’uso di un immobile abusivo) o la compressione di
altri diritti o interessi garantiti dalla legge.
Con specifico riferimento al sequestro di immobili abusivi,
ad esempio, dovrà considerarsi, in primo luogo, se le
esigenze personali da salvaguardare siano effettivamente
rilevanti e se non sia possibile ovviarvi facendo ricorso a
soluzioni alternative; che non incidano negativamente su
diritti di terzi altrettanto meritevoli di tutela o che non
comportino situazioni di rischio per la salute e
l’incolumità delle persone (come nel caso di immobili non
dotati di agibilità o abitabilità, realizzati senza il
rispetto della normativa antisismica o sulle opere in
cemento armato).
Il tutto considerando che la utilizzazione del bene
sequestrato, qualora si risolva nella sostanziale libera
disponibilità dello stesso è, di regola, incompatibile con
le finalità del sequestro non soltanto impeditivo (il che è
evidente) ma anche, per le ragioni innanzi dette, di quello
finalizzato alla confisca (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.01.2020 n. 2296 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 31, comma 4-bis, del DPR
n. 380/2001 pari ad € 20.000,00 [introdotto dall'art. 17, lettera q-bis), del decreto legge 12.09.2014 n. 133 convertito con modificazioni dalla legge 11.11.2014 n. 164] può essere
applicata esclusivamente alle vicende in cui il termine di esecuzione
spontanea all’ordine di demolizione si è consumato successivamente alla sua
entrata in vigore, in coerenza con il generale principio di irretroattività
delle norme sanzionatorie.
Il Collegio è consapevole dell’esistenza di un orientamento
giurisprudenziale secondo il quale la sanzione pecuniaria introdotta
dall’art. 17, comma 1, lett. q-bis), del decreto legge 12.09.2014 n.
133, convertito, con modificazioni, in legge 11.11.2014 n. 164,
attraverso l’introduzione del comma 4-bis dell’art. 31 del D.P.R. n.
380/2001, troverebbe applicazione anche nell’ipotesi in cui l’ordine di
demolizione, e il decorso del termine previsto per la sua ottemperanza,
siano precedenti all’introduzione della norma, ma non ritiene condivisibile
tale orientamento.
Invero la norma richiamata introduce un autonomo illecito amministrativo,
concernente la mancata tempestiva ottemperanza all’ordine di demolizione,
sostanzialmente autonomo, seppur correlato, con l’illecito relativo alla
commissione dell’abuso edilizio, oggetto del provvedimento di demolizione.
Il punto centrale, per individuare il suo perimetro di applicazione, è la
corretta ricostruzione dell’obbligo di adempimento all’ordine di
demolizione, e in particolare se tale obbligo permanga nel tempo, anche dopo
il decorso del termine, previsto dalla legge, di 90 giorni, per dare
spontanea esecuzione al provvedimento demolitorio.
Invero solo nel caso in cui si giunga alla conclusione che l’obbligo permane
nel tempo, potrebbe ritenersi che il privato abbia mantenuto un
comportamento illecito –passibile della sanzione pecuniaria per cui è causa– dopo l’entrata in vigore dell’art. 17, comma 1, lett. q-bis), sopra
richiamato, pur essendosi in precedenza consumato il termine di legge per la
spontanea esecuzione all’ordine di demolizione.
Ciò posto, ritiene il Collegio che, dalla lettura sistematica delle norme
che vengono in rilievo, si deve giungere alla conclusione che l’illecito
consistente nella mancata demolizione dell’abuso edilizio realizzato, dopo
l’adozione di un ordine di demolizione, non ha carattere permanente, ma
istantaneo, e si consuma al momento del decorso del termine previsto dalla
legge –e talvolta riprodotto negli atti di demolizione- per la demolizione
spontanea.
Infatti poiché al decorso del termine previsto per la demolizione spontanea
da parte del privato il Comune che ha ingiunto la demolizione acquista
l’area in cui ricade l’abuso commesso (art. 31, comma 3, D.P.R. n.
380/2001), sarebbe irragionevole ritenere che il privato rimanga obbligato a
demolire un bene ormai di proprietà del Comune, che potrebbe anche
motivatamente decidere di non demolire, ai sensi del comma quinto dell’art.
31 D.P.R. n. 380/2001.
Ciò considerato l’unica ricostruzione aderente al testo della norma che
viene in rilievo, oltre che alla complessiva disciplina in cui è inserita, è
quella di ritenere che l’illecito sanzionato con il comma 4-bis dell’art. 31
sia un illecito istantaneo, e non permanente, che si perfeziona e si
definisce nel momento in cui è decorso il termine di esecuzione spontanea
all’ordine di demolizione ricevuto.
Conseguentemente la norma sanzionatoria che viene in rilievo -introdotta
con una legge del 2014- deve essere interpretata nel senso che può essere
applicata esclusivamente alle vicende in cui il termine di esecuzione
spontanea all’ordine di demolizione si è consumato successivamente alla sua
entrata in vigore, in coerenza con il generale principio di irretroattività
delle norme sanzionatorie.
---------------
... per l’annullamento
dell’ordinanza n. 22 del 06/08/2018 emessa dal responsabile dell’Area
Assetto ed Utilizzazione del Territorio del Comune di Santa Flavia (PA) e
notificata in data 27/08/2018 con la quale viene ingiunto ai ricorrenti il
pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 31, comma
4-bis, del DPR n. 380/2001, pari ad € 20.000,00, entro il termine massimo di
giorni 30 dalla notifica stessa, per la inottemperanza all’ordinanza di
demolizione n. 8/2012;
...
FATTO
Con ricorso notificato in data 28.10.2018, e depositato il successivo
11 novembre, i ricorrenti hanno impugnato il provvedimento impugnato
articolando le censure di:
A) Illegittimità e/o nullità e/o annullabilità
dell'ordinanza per violazione di legge, e, in particolare, dell'art. 1,
comma secondo, della l. n. 689 del 1981, e del comma 4-bis dell'art. 31
d.p.r. n. 380/2001, introdotto dall'art. 17, lettera q-bis), del decreto legge 12.09.2014 n. 133 convertito con modificazioni dalla legge 11.11.2014 n. 164;
B) Illegittimità e/o nullità dell'ordinanza per violazione
dell’art. 7 e dell’art. 21-bis della legge 07.08.1990 n. 241 - omessa
comunicazione di avvio del procedimento;
C) Illegittimità e/o nullità
dell'ordinanza per violazione dell’art. 31, comma 4, del D.P.R. 06.06.2001, n.
380, mancata notifica atto presupposto;
D) Illegittimità e/o nullità
dell'ordinanza per violazione di legge, e in particolare, del comma 4-bis
dell'art. 31 D.P.R. n. 380/2001, introdotto dall'art. 17, lettera q-bis), del
decreto legge 12.09.2014 n. 133 convertito con modificazioni dalla
legge 11.11.2014 n. 164 e del comma 2 dell'articolo 27 D.P.R. n. 380/2001;
E) Illegittimità e/o nullità dell'ordinanza per violazione del principio di
proporzionalità delle sanzioni amministrative - Illegittimità costituzionale
dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 e ss.mm.ii., in
combinato disposto con l’art. 27, comma 2, dello stesso testo unico;
F)
Illegittimità e/o nullità e/o annullabilità dell'ordinanza per violazione di
legge, e, in particolare, dell'art. 1, comma secondo, della l. n. 689 del
1981, e del comma 4-bis dell'art. 31 D.P.R.. n. 380/2001, introdotto dall'art.
17, lettera q-bis), del decreto legge 12.09.2014 n. 133, convertito con
modificazioni in legge 11.11.2014 n. 164, sotto altro profilo,
applicabilità dei principi e delle regole procedimentali della legge
n. 689/1981 - Eccesso di potere.
Sostengono i ricorrenti che il provvedimento impugnato sarebbe illegittimo
in quanto:
- applica retroattivamente una sanzione pecuniaria introdotta nel
nostro ordinamento dopo che l’illecito a cui consegue -mancata demolizione
dell’abuso edilizio realizzato nei termini di legge- è stato compiuto ed
accertato;
- sarebbe mancata la doverosa comunicazione di avvio del
procedimento;
- non risulta adottato il verbale di accertamento di
inottemperanza all’ordine di demolizione adottato dall’amministrazione;
- sarebbe privo di adeguata motivazione; la sanzione pecuniaria irrogata –nella misura massima prevista per legge– sarebbe del tutto sproporzionata
rispetto all’entità dell’illecito edilizio commesso; l’amministrazione
avrebbe errato nel non prevedere la possibilità di pagare la sanzione
irrogata in misura ridotta, a norma dell’art. 16 della legge n. 689/1981.
Non si è costituito il Comune intimato e alla pubblica udienza fissata per
la sua discussione, il ricorso è stato posto in decisione.
DIRITTO
Il ricorso è fondato in ragione della fondatezza del primo motivo.
Il Collegio è consapevole dell’esistenza di un orientamento
giurisprudenziale secondo il quale la sanzione pecuniaria introdotta
dall’art. 17, comma 1, lett. q-bis), del decreto legge 12.09.2014 n.
133, convertito, con modificazioni, in legge 11.11.2014 n. 164,
attraverso l’introduzione del comma 4-bis dell’art. 31 del D.P.R. n.
380/2001, troverebbe applicazione anche nell’ipotesi in cui l’ordine di
demolizione, e il decorso del termine previsto per la sua ottemperanza,
siano precedenti all’introduzione della norma, ma non ritiene condivisibile
tale orientamento.
Invero la norma richiamata introduce un autonomo illecito amministrativo,
concernente la mancata tempestiva ottemperanza all’ordine di demolizione,
sostanzialmente autonomo, seppur correlato, con l’illecito relativo alla
commissione dell’abuso edilizio, oggetto del provvedimento di demolizione.
Il punto centrale, per individuare il suo perimetro di applicazione, è la
corretta ricostruzione dell’obbligo di adempimento all’ordine di
demolizione, e in particolare se tale obbligo permanga nel tempo, anche dopo
il decorso del termine, previsto dalla legge, di 90 giorni, per dare
spontanea esecuzione al provvedimento demolitorio.
Invero solo nel caso in cui si giunga alla conclusione che l’obbligo permane
nel tempo, potrebbe ritenersi che il privato abbia mantenuto un
comportamento illecito –passibile della sanzione pecuniaria per cui è causa– dopo l’entrata in vigore dell’art. 17, comma 1, lett. q-bis), sopra
richiamato, pur essendosi in precedenza consumato il termine di legge per la
spontanea esecuzione all’ordine di demolizione.
Ciò posto, ritiene il Collegio che, dalla lettura sistematica delle norme
che vengono in rilievo, si deve giungere alla conclusione che l’illecito
consistente nella mancata demolizione dell’abuso edilizio realizzato, dopo
l’adozione di un ordine di demolizione, non ha carattere permanente, ma
istantaneo, e si consuma al momento del decorso del termine previsto dalla
legge –e talvolta riprodotto negli atti di demolizione- per la demolizione
spontanea.
Infatti poiché al decorso del termine previsto per la demolizione spontanea
da parte del privato il Comune che ha ingiunto la demolizione acquista
l’area in cui ricade l’abuso commesso (art. 31, comma 3, D.P.R. n.
380/2001), sarebbe irragionevole ritenere che il privato rimanga obbligato a
demolire un bene ormai di proprietà del Comune, che potrebbe anche
motivatamente decidere di non demolire, ai sensi del comma quinto dell’art.
31 D.P.R. n. 380/2001.
Ciò considerato l’unica ricostruzione aderente al testo della norma che
viene in rilievo, oltre che alla complessiva disciplina in cui è inserita, è
quella di ritenere che l’illecito sanzionato con il comma 4-bis dell’art. 31
sia un illecito istantaneo, e non permanente, che si perfeziona e si
definisce nel momento in cui è decorso il termine di esecuzione spontanea
all’ordine di demolizione ricevuto.
Conseguentemente la norma sanzionatoria che viene in rilievo -introdotta
con una legge del 2014- deve essere interpretata nel senso che può essere
applicata esclusivamente alle vicende in cui il termine di esecuzione
spontanea all’ordine di demolizione si è consumato successivamente alla sua
entrata in vigore, in coerenza con il generale principio di irretroattività
delle norme sanzionatorie.
Il provvedimento impugnato è pertanto illegittimo in quanto ha applicato
retroattivamente la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 31, comma 4-bis,
del D.P.R. n. 380/2001
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 22.01.2020 n. 189 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Decorrenza
del termine di impugnazione del
provvedimento di aggiudicazione
Il TAR Milano, in
materia di decorrenza del termine di
impugnazione dell’aggiudicazione di un
appalto pubblico, precisa che:
- sul punto, il Tribunale condivide e ribadisce il consolidato
orientamento della giurisprudenza
amministrativa a mente del quale l’art. 76
del d.l.vo 2016 n. 50 –così come il
previgente art. 79 del d.lgs. 12.04.2006. n.
163, come novellato dal d.lgs. 20.03.2010,
n. 53– detta sicuramente una disciplina tesa
a garantire la piena conoscenza e la
certezza della data di conoscenza in
relazione agli atti di gara, segnatamente
esclusioni e aggiudicazioni, sicché sono
state previste forme puntuali di
comunicazione;
- tuttavia, l’art. 76 del d.l.vo 2016 n. 50 –così come il
previgente art. 79 del d.lgs. n. 163 del
2006- da un lato, non prevede le
forme di comunicazione come “esclusive” e
“tassative”, dall’altro, non incide
sulle regole processuali generali del
processo amministrativo, in tema di
decorrenza dei termini di impugnazione dalla
data di notificazione, di comunicazione o,
comunque, di piena conoscenza dell’atto;
- le norme citate conservano il principio per cui la piena
conoscenza dell’atto, al fine del decorso
del termine di impugnazione, può essere
acquisita con altre forme, ovviamente con
onere della prova a carico di chi eccepisce
la avvenuta piena conoscenza con forme
diverse da quelle di cui all’art. 76 cit.;
- parimenti, l’art. 120, comma 5, cpa, si riferisce
all’impugnazione di tutti gli atti delle
procedure di affidamento e fissa plurime
decorrenze dei termini, o dalla ricezione
della comunicazione di cui all’art. 76 del
codice dei contratti, o, per i bandi, dalla
pubblicazione, ovvero, in ogni altro caso,
dalla conoscenza dell’atto;
- l’espressione “in ogni altro caso” non va riferita ad “atti
diversi” da quelli delle procedure di
affidamento, e specificamente da quelli di
cui all’art. 76 del d.l.vo 2016 n. 50, ma va
riferita a “diverse forme” di conoscenza
dell’atto, ossia diverse dalle forme
previste dalla disciplina specifica del
codice dei contratti;
- così inteso, l’art. 120, comma 5, cpa, è coerente con la regola
generale dettata dal precedente art. 41,
comma 2, secondo cui il termine di
impugnazione del provvedimento
amministrativo decorre dalla notificazione,
dalla comunicazione o dalla piena conoscenza
dell’atto da impugnare;
- ne deriva che l’art. 120, comma 5, cpa non ha inteso fissare
forme tassative di comunicazione degli atti
di gara al fine della decorrenza del termine
di impugnazione, ma ha inteso ribadire la
regola generale secondo cui il termine di
impugnazione decorre o dalla comunicazione
nelle forme di legge, o comunque dalla piena
conoscenza dell’atto;
- quindi, se la comunicazione non avviene con le forme poste
dall’art. 76 del d.lgs 2016 n. 50, il
termine decorre dalla piena conoscenza
altrimenti acquisita
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 22.01.2020 n. 134 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
In particolare, va osservato che:
- l’art. 120, comma 5, cpa dispone che “salvo quanto previsto al
comma 6-bis, per l'impugnazione degli atti
di cui al presente articolo il ricorso,
principale o incidentale e i motivi
aggiunti, anche avverso atti diversi da
quelli già impugnati, devono essere proposti
nel termine di trenta giorni, decorrente,
per il ricorso principale e per i motivi
aggiunti, dalla ricezione della
comunicazione di cui all'articolo 79 del
decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, o,
per i bandi e gli avvisi con cui si indice
una gara, autonomamente lesivi, dalla
pubblicazione di cui all'articolo 66, comma
8, dello stesso decreto; ovvero, in ogni
altro caso, dalla conoscenza dell'atto. Per
il ricorso incidentale la decorrenza del
termine è disciplinata dall'articolo 42”;
- nel caso di specie, la documentazione in atti evidenzia che: a)
dal giorno 03.10.2019 la ricorrente è stata
informata dell’esito della procedura,
dell’aggiudicazione e della graduatoria
definitiva mediante pec; b) in data
17.10.2019, alle ore 13.21, la ricorrente ha
ricevuto una comunicazione via pec dalla
piattaforma Sintel contenente, in allegato,
il verbale di gara comprensivo di tutte le
sedute compresa l’aggiudicazione definitiva
e l’avviso che lo stesso era esposto anche
sul profilo del committente; c) sempre in
data 17.10.2019 sono stati pubblicati, sul
sito del committente, i verbali di gara e la
determina di aggiudicazione n. 2110, datata
16.10.2019; d) l’istanza di accesso
presentata dalla ricorrente in data
07.10.2019 è stata accolta dall’Ente, sicché
dal 28.10.2019 la ricorrente ha avuto piena
e completa conoscenza di tutti gli atti e i
documenti inerenti la posizione
dell’aggiudicataria e la procedura di gara;
- nondimeno, il ricorso è stato notificato all’Ente Nazionale Risi
via PEC solo in data 30.12.2019;
- ne deriva che il ricorso è stato proposto dopo il decorso del
termine perentorio di 30 giorni decorrente
dalla piena conoscenza degli atti impugnati
ed è, pertanto, irricevibile, come eccepito
dall’amministrazione resistente;
- sul punto, il Tribunale condivide e ribadisce il
consolidato orientamento della
giurisprudenza amministrativa
(cfr. Consiglio di Stato sez. VI,
13/12/2011, n. 6531; Consiglio di Stato,
sez. V, 14/05/2013, n. 2614; TAR
Puglia-Lecce, sez. II, 31/05/2017, n. 875;
Consiglio di Stato, sez. V, 02/09/2019, n.
6064; TAR Campania-Napoli, sez. I,
13/06/2019, n. 3225) a
mente del quale l’art. 76 del d.l.vo 2016 n.
50 –così come il previgente art. 79 del
d.lgs. 12.04.2006. n. 163, come novellato
dal d.lgs. 20.03.2010, n. 53– detta
sicuramente una disciplina tesa a garantire
la piena conoscenza e la certezza della data
di conoscenza in relazione agli atti di
gara, segnatamente esclusioni e
aggiudicazioni, sicché sono state previste
forme puntuali di comunicazione;
- tuttavia,
l’art. 76 del d.l.vo 2016 n. 50 –così come
il previgente art. 79 del d.lgs. n. 163 del
2006- da un lato, non prevede le
forme di comunicazione come “esclusive”
e “tassative”, dall’altro, non
incide sulle regole processuali generali del
processo amministrativo, in tema di
decorrenza dei termini di impugnazione dalla
data di notificazione, di comunicazione o,
comunque, di piena conoscenza dell’atto;
- le norme
citate conservano il principio per cui la
piena conoscenza dell’atto, al fine del
decorso del termine di impugnazione, può
essere acquisita con altre forme, ovviamente
con onere della prova a carico di chi
eccepisce la avvenuta piena conoscenza con
forme diverse da quelle di cui all’art. 76
cit.;
- parimenti,
l’art. 120, comma 5, cpa, si riferisce
all’impugnazione di tutti gli atti delle
procedure di affidamento e fissa plurime
decorrenze dei termini, o dalla ricezione
della comunicazione di cui all’art. 76 del
codice dei contratti, o, per i bandi, dalla
pubblicazione, ovvero, in ogni altro caso,
dalla conoscenza dell’atto;
- l’espressione “in ogni altro caso” non va riferita ad “atti
diversi” da quelli delle procedure di
affidamento, e specificamente da quelli di
cui all’art. 76 del d.l.vo 2016 n. 50, ma va
riferita a “diverse forme” di conoscenza
dell’atto, ossia diverse dalle forme
previste dalla disciplina specifica del
codice dei contratti;
- così inteso, l’art. 120, comma 5, cpa, è
coerente con la regola generale dettata dal
precedente art. 41, comma 2, secondo cui il
termine di impugnazione del provvedimento
amministrativo decorre dalla notificazione,
dalla comunicazione o dalla piena conoscenza
dell’atto da impugnare;
- ne deriva che l’art. 120, comma 5, cpa non ha
inteso fissare forme tassative di
comunicazione degli atti di gara al fine
della decorrenza del termine di
impugnazione, ma ha inteso ribadire la
regola generale secondo cui il termine di
impugnazione decorre o dalla comunicazione
nelle forme di legge, o comunque dalla piena
conoscenza dell’atto;
- quindi, se la comunicazione non avviene con le
forme poste dall’art. 76 del d.lgs. 2016 n.
50, il termine decorre dalla piena
conoscenza altrimenti acquisita;
- nel caso di specie, al di là
dell’effettuazione della comunicazione ex
art. 76 –fatto contestato dalla ricorrente–
resta fermo che, almeno dall’ostensione dei
documenti di gara, avvenuta in data
28.10.2019, la ricorrente ha avuto piena
conoscenza degli atti impugnati, con
conseguente decorso del termine perentorio
di 30 giorni per la loro impugnazione;
- le considerazioni ora espresse non sono superabili considerando
che l’art. 25 del disciplinare di gara
prevede che “Tutte le comunicazioni e
tutti gli scambi di informazioni tra l’Ente
e gli operatori economici si intendono
validamente ed efficacemente effettuati per
mezzo della funzionalità “Comunicazioni
procedura” nell’interfaccia “Dettaglio”;
- invero, la previsione del disciplinare individua come devono
essere effettuate le comunicazioni degli
atti della gara, ma non introduce una deroga
-peraltro neppure giuridicamente
configurabile in termini di legittimità–
alla disciplina processuale della decorrenza
del termine di impugnazione, che rimane
fissata dalle richiamate disposizioni del
codice del processo amministrativo;
- né la norma del disciplinare consente di configurare un errore
scusabile in capo alla ricorrente;
- invero, come riconosciuto pacificamente in giurisprudenza,
l’errore scusabile rappresenta un
istituto inteso a garantire l’effettività
della tutela giurisdizionale, suscettibile
di trovare applicazione sia quando siano
ravvisabili situazioni di obiettiva
incertezza normativa, connesse a difficoltà
interpretative o ad oscillazioni
giurisprudenziali, sia quando si sia di
fronte a comportamenti, indicazioni o
avvertenze fuorvianti provenienti dalla
medesima amministrazione, da cui possa
conseguire difficoltà nella domanda di
giustizia ed un’effettiva diminuzione della
tutela giustiziale
(così già Cons. Stato, IV, 22.05.2006, n.
3026; VI, 17.10.1988, n. 1140);
- si tratta di
un istituto di carattere eccezionale
(Cons. Stato, IV, 30.12.2008, n. 6599),
che delinea una deroga al principio
cardine della perentorietà dei termini di
impugnazione;
- l’art. 37 cpa non presenta elementi per una differente
conclusione, dal momento che
un uso eccessivamente ampio del
riconoscimento, lungi dal rafforzare
l’effettività della tutela giurisdizionale,
potrebbe risolversi in un vulnus del
principio di parità delle parti (art. 2,
comma 1, cpa), quanto al rispetto dei
termini perentori stabiliti dalla legge
processuale
(sul punto, Cons. Stato, Ad. plen.,
02.12.2010, n. 3); |
EDILIZIA PRIVATA:
Muri di cinta – Dislivello di origine artificiale – Funzione di sostegno e
contenimento – Natura di “costruzione” – Osservanza delle distanze ex art. 9
D.M. 1444/1968.
In tema
di muri di cinta, qualora l'andamento altimetrico di due fondi limitrofi sia
stato artificialmente modificato, così da creare tra essi un dislivello che
prima non esisteva, il muro di cinta viene ad assolvere, oltre alla funzione
sua propria di delimitazione tra le proprietà, anche quella di sostegno e
contenimento del terrapieno creato dall'opera dell'uomo; conseguentemente,
esso va equiparato ad una costruzione in senso tecnico-giuridico agli
effetti delle distanze legali (senza che abbia rilievo chi, tra i
proprietari confinanti, abbia in via esclusiva o prevalente realizzato tale
intervento) ed è assoggettato al rispetto delle distanze stesse.
---------------
Requisiti essenziali del muro di cinta, che a norma
dell'art. 878 c.c. non va considerato nel computo delle distanze legali,
sono costituiti dall'isolamento delle facce, dall'altezza non superiore a
metri tre e dalla sua destinazione alla demarcazione della linea di confine
e alla separazione e chiusura della proprietà.
Nel caso, però, di fondi a
dislivello, adempiendo il muro anche ad una funzione di sostegno e
contenimento del terrapieno o della scarpata, una faccia non si presenta di
norma come isolata e l'altezza può anche superare i tre metri, se tale è
l'altezza del terrapieno o della scarpata.
Pertanto, non può essere
considerato come costruzione, ai fini dell'osservanza delle distanze legali,
il muro che, nel caso di dislivello naturale, oltre a delimitare il fondo,
assolve anche alla funzione di sostegno e contenimento del declivio naturale
per evitare smottamenti o frane; il muro di contenimento di una scarpata o
di un terrapieno naturale, in particolare, non può considerarsi
"costruzione", agli effetti della disciplina di cui all'art. 873 c.c.,
per la parte che adempie alla sua specifica funzione, e, quindi, dalle
fondamenta al livello del fondo superiore, qualunque sia l'altezza della
parete naturale o della scarpata o del terrapieno cui aderisce, impedendone
lo smottamento, mentre la parte del muro che si innalza oltre il piano del
fondo sovrastante, in quanto priva della funzione di conservazione dello
stato dei luoghi, è soggetta alla disciplina giuridica propria delle sue
oggettive caratteristiche di costruzione in senso tecnico giuridico.
All'inverso, nel caso di dislivello di origine artificiale (che è poi la
situazione contemplata nel medesimo art. 45 del regolamento edilizio
comunale), deve essere considerato costruzione in senso tecnico-giuridico,
ai fini della normativa sulle distanze legali, il muro di fabbrica che
assolve in modo permanente e definitivo anche alla funzione di contenimento
del terrapieno creato dall'opera dell'uomo, o che questa abbia pure soltanto
accentuato rispetto a quello già esistente per la natura dei luoghi.
Basta, dunque, che l'andamento altimetrico del piano di campagna
-originariamente livellato sul confine tra due fondi- sia stato
artificialmente modificato per opera dell'uomo (come accertato nella specie
dai giudici del merito) a far ritenere che il muro di cinta abbia la
funzione di contenere il terrapieno creato "ex novo" con l'apporto di terra
e pietrame, e vada, per l'effetto, equiparato a un muro di fabbrica, come
tale assoggettato al rispetto delle distanze legali tra costruzioni.
---------------
Anche
ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali tra edifici, la
nozione di costruzione deve estendersi a qualsiasi manufatto non
completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità e
immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o
collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente
realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazioni
dell'opera.
---------------
I muri
di contenimento di terrapieni artificiali sono qualificati opere di nuova
costruzione, necessitanti, pertanto, di permesso di costruire.
Invero, “Si deve qualificare
l'intervento edilizio quale nuova costruzione quante volte abbia l'effettiva
idoneità di determinare significative trasformazioni urbanistiche e
edilizie. Sulla base di tale approccio, la realizzazione di muri di cinta di
modesti corpo e altezza è generalmente assoggettabile al solo regime della
denuncia di inizio di attività. Per converso, il muro di contenimento che
crei un nuovo dislivello o aumenti quello esistente costituisce una nuova
costruzione, soggetta al rilascio del permesso di costruire, allorquando,
avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area relativa, lo
stesso sia tale da modificare l'assetto urbanistico del territorio, così
rientrando nel novero degli interventi di “nuova costruzione”. Quest'ultimo
concetto è infatti comprensivo di qualunque manufatto autonomo ovvero
modificativo di altro preesistente, che sia stabilmente infisso al suolo o
ai muri di quello preesistente, ma comunque capace di trasformare in modo
durevole l'area coperta, ovvero ancora le opere di qualsiasi genere con cui
si operi nel suolo e sul suolo, se idonee a modificare lo stato dei
luoghi”.
Altresì, “anche ai fini
dell'osservanza delle norme sulle distanze legali tra edifici, la nozione di
costruzione deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente
interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione
al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un
corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato,
indipendentemente dal livello di posa e di elevazioni dell'opera”.
---------------
Il Collegio ritiene che la nozione di costruzione e di muro di cinta
rilevante ai fini della disciplina delle distanze legali tra edifici sia
utilizzabile anche ai fini dell’art. 9 D.M. 1444/1968, nonostante
testualmente esso si riferisca alle distanze tra muri finestrati e “pareti
di edifici antistanti”, tenuto conto della comune funzione della prescritta
disciplina di impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il
profilo igienico-sanitario.
Invero, “l'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, laddove prescrive
la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti,
ricadenti, come nella fattispecie, in zona diversa dalla zona A, va
rispettato in modo assoluto, trattandosi di norma finalizzata non alla
tutela della riservatezza, bensì a impedire la formazione di intercapedini
nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile.
Conseguentemente, la disposizione va applicata indipendentemente
dall'altezza degli edifici antistanti e dall'andamento parallelo delle loro
pareti, purché sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di
una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel
limitato segmento.
Indi, le distanze fra le
costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale e
astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di
igiene e di sicurezza, di guisa che al giudice non è lasciato alcun margine
di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia per equo
contemperamento degli opposti interessi. La prescrizione di distanza in
questione è assoluta e inderogabile”.
Essendo, almeno in parte, comune alle due
discipline la finalità igienico-sanitaria (che si somma a quella di
assicurare un ordinato assetto del territorio comunale propria delle
disposizioni del D.M. 1444/1968), anche gli elementi costruttivi ai quali la
suddetta disciplina deve applicarsi non possono che essere interpretati in
modo uniforme.
Per tale ragione, il Collegio
ritiene preferibile l’orientamento tradizionale alla stregua del quale
l’art. 9 D.M. 1444/1968 è applicabile a qualunque manufatto avente “i
caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo
che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione
meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità
trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo
triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene e che,
proprio in considerazione della possibilità di dar vita a intercapedini
contrarie alla finalità della norma, ... anche i muri di contenimento che producano un dislivello
o aumentano quello già esistente per la natura dei luoghi, costituiscono
nuove costruzioni idonee ad incidere sull'osservanza delle norme in tema di
distanza dal confine".
---------------
3. E’ fondato il terzo motivo del ricorso introduttivo, identico al
secondo
motivo del ricorso per motivi aggiunti, con il quale la ricorrente lamenta
la violazione dell’art. 9 D.M. 1444/1968, poiché l’edificio in progetto è
destinato ad essere realizzato ad una distanza di m. 1,5 dal muro di
contenimento del dislivello artificiale che insiste tra i due fondi.
In punto di fatto, occorre premettere che risulta incontestato tra le parti
che il muro, posto sul confine tra i fondi, ha un’altezza di m. 1,50 ed
assolve ad una parziale funzione di contenimento del dislivello di circa 30
cm sussistente tra le due proprietà.
La costante giurisprudenza della Corte di cassazione afferma che: “In tema
di muri di cinta, qualora l'andamento altimetrico di due fondi limitrofi sia
stato artificialmente modificato, così da creare tra essi un dislivello che
prima non esisteva, il muro di cinta viene ad assolvere, oltre alla funzione
sua propria di delimitazione tra le proprietà, anche quella di sostegno e
contenimento del terrapieno creato dall'opera dell'uomo; conseguentemente,
esso va equiparato ad una costruzione in senso tecnico-giuridico agli
effetti delle distanze legali (senza che abbia rilievo chi, tra i
proprietari confinanti, abbia in via esclusiva o prevalente realizzato tale
intervento) ed è assoggettato al rispetto delle distanze stesse”
(Cassazione civile sez. II, 03/05/2018, n. 10512).
Ed ancora (Cassazione civile sez. II, 29/05/2019, (ud. 26/02/2019, dep.
29/05/2019), n. 14710) “Requisiti essenziali del muro di cinta, che a norma
dell'art. 878 c.c. non va considerato nel computo delle distanze legali,
sono costituiti dall'isolamento delle facce, dall'altezza non superiore a
metri tre e dalla sua destinazione alla demarcazione della linea di confine
e alla separazione e chiusura della proprietà. Nel caso, però, di fondi a
dislivello, adempiendo il muro anche ad una funzione di sostegno e
contenimento del terrapieno o della scarpata, una faccia non si presenta di
norma come isolata e l'altezza può anche superare i tre metri, se tale è
l'altezza del terrapieno o della scarpata. Pertanto, non può essere
considerato come costruzione, ai fini dell'osservanza delle distanze legali,
il muro che, nel caso di dislivello naturale, oltre a delimitare il fondo,
assolve anche alla funzione di sostegno e contenimento del declivio naturale
per evitare smottamenti o frane; il muro di contenimento di una scarpata o
di un terrapieno naturale, in particolare, non può considerarsi
"costruzione", agli effetti della disciplina di cui all'art. 873 c.c., per
la parte che adempie alla sua specifica funzione, e, quindi, dalle
fondamenta al livello del fondo superiore, qualunque sia l'altezza della
parete naturale o della scarpata o del terrapieno cui aderisce, impedendone
lo smottamento, mentre la parte del muro che si innalza oltre il piano del
fondo sovrastante, in quanto priva della funzione di conservazione dello
stato dei luoghi, è soggetta alla disciplina giuridica propria delle sue
oggettive caratteristiche di costruzione in senso tecnico giuridico.
All'inverso, nel caso di dislivello di origine artificiale (che è poi la
situazione contemplata nel medesimo art. 45 del regolamento edilizio
comunale), deve essere considerato costruzione in senso tecnico-giuridico,
ai fini della normativa sulle distanze legali, il muro di fabbrica che
assolve in modo permanente e definitivo anche alla funzione di contenimento
del terrapieno creato dall'opera dell'uomo, o che questa abbia pure soltanto
accentuato rispetto a quello già esistente per la natura dei luoghi. Basta,
dunque, che l'andamento altimetrico del piano di campagna -originariamente
livellato sul confine tra due fondi- sia stato artificialmente modificato
per opera dell'uomo (come accertato nella specie dai giudici del merito) a
far ritenere che il muro di cinta abbia la funzione di contenere il
terrapieno creato "ex novo" con l'apporto di terra e pietrame, e vada, per
l'effetto, equiparato a un muro di fabbrica, come tale assoggettato al
rispetto delle distanze legali tra costruzioni (tra le tante, Cass. Sez. 2,
13/05/2013, n. 11388; Cass. Sez. 2, 04/06/2010, n. 13628; Cass. Sez. 2,
10/01/2006, n. 145; Cass. Sez. 2, 24/06/2003, n. 9998; Cass. Sez. 2,
15/06/2001, n. 8144; Cass. Sez. 2, 21/05/1997, n. 4511; Cass. Sez.
2, 11/07/1995, n. 7594; Cass. Sez. 2, 14/02/1994, n. 1467; Cass. Sez. 2,
06/05/1987, n. 4196; si veda anche Cass. Sez. 2, 24/11/2015, n. 23934).”
D’altronde anche la giurisprudenza amministrativa fa propria la nozione di
costruzione elaborata dalla corte di cassazione, avendo affermato che “anche
ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali tra edifici, la
nozione di costruzione deve estendersi a qualsiasi manufatto non
completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità e
immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o
collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente
realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazioni
dell'opera” (Consiglio di Stato sez. IV, 02/03/2018, n. 1309).
Inoltre, alla stregua della prevalente giurisprudenza amministrativa, i muri
di contenimento di terrapieni artificiali sono qualificati opere di nuova
costruzione, necessitanti, pertanto, di permesso di costruire (cfr.
Consiglio di Stato sez. VI, 09/07/2018, n. 4169: “Si deve qualificare
l'intervento edilizio quale nuova costruzione quante volte abbia l'effettiva
idoneità di determinare significative trasformazioni urbanistiche e
edilizie. Sulla base di tale approccio, la realizzazione di muri di cinta di
modesti corpo e altezza è generalmente assoggettabile al solo regime della
denuncia di inizio di attività. Per converso, il muro di contenimento che
crei un nuovo dislivello o aumenti quello esistente costituisce una nuova
costruzione, soggetta al rilascio del permesso di costruire, allorquando,
avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area relativa, lo
stesso sia tale da modificare l'assetto urbanistico del territorio, così
rientrando nel novero degli interventi di “nuova costruzione”. Quest'ultimo
concetto è infatti comprensivo di qualunque manufatto autonomo ovvero
modificativo di altro preesistente, che sia stabilmente infisso al suolo o
ai muri di quello preesistente, ma comunque capace di trasformare in modo
durevole l'area coperta, ovvero ancora le opere di qualsiasi genere con cui
si operi nel suolo e sul suolo, se idonee a modificare lo stato dei
luoghi.”).
Il Consiglio di Stato, infatti, afferma che “anche ai fini
dell'osservanza delle norme sulle distanze legali tra edifici, la nozione di
costruzione deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente
interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione
al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un
corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato,
indipendentemente dal livello di posa e di elevazioni dell'opera” (Consiglio
di Stato sez. IV, 02/03/2018, n. 1309).
Il Collegio ritiene che la nozione di costruzione e di muro di cinta
rilevante ai fini della disciplina delle distanze legali tra edifici sia
utilizzabile anche ai fini dell’art. 9 D.M. 1444/1968, nonostante
testualmente esso si riferisca alle distanze tra muri finestrati e “pareti
di edifici antistanti”, tenuto conto della comune funzione della prescritta
disciplina di impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il
profilo igienico-sanitario (Cons. Stato Sez. V, Sent., (ud. 20/05/2019)
11.09.2019, n. 6136: “l'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, laddove prescrive
la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti,
ricadenti, come nella fattispecie, in zona diversa dalla zona A, va
rispettato in modo assoluto, trattandosi di norma finalizzata non alla
tutela della riservatezza, bensì a impedire la formazione di intercapedini
nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile
(Cass. civ., II, 26.01.2001, n. 1108; Cons. Stato, V, 19.10.1999,
n. 1565; Cass. civ., II, ordinanza 03.10.2018, n. 24076).
Conseguentemente, la disposizione va applicata indipendentemente
dall'altezza degli edifici antistanti e dall'andamento parallelo delle loro
pareti, purché sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di
una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel
limitato segmento (Cass., n. 24076/2017, cit.).
Indi, le distanze fra le
costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale e
astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di
igiene e di sicurezza, di guisa che al giudice non è lasciato alcun margine
di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia per equo
contemperamento degli opposti interessi (Cass. civ., II, 16.08.1993, n.
8725). La prescrizione di distanza in questione è assoluta e inderogabile
(Cass. civ., II, 07.06.1993, n. 6360; 09.05.1987, n. 428”, ma cfr.
anche Cons. Stato, sez. IV, 04.09.2013, n. 4451, Cons. Stato Sez. IV
12.06.2009 n. 3094).
Essendo, almeno in parte, comune alle due
discipline la finalità igienico-sanitaria (che si somma a quella di
assicurare un ordinato assetto del territorio comunale propria delle
disposizioni del D.M. 1444/1968), anche gli elementi costruttivi ai quali la
suddetta disciplina deve applicarsi non possono che essere interpretati in
modo uniforme.
Per tale ragione, all’orientamento del Consiglio di Stato richiamato dalla
parte controinteressata (Consiglio di Stato n. 3510/2015) il Collegio
ritiene preferibile l’orientamento tradizionale alla stregua del quale
l’art. 9 D.M. 1444/1968 è applicabile a qualunque manufatto avente “i
caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo
che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione
meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità
trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo
triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene (cfr. ad es.
Consiglio di Stato, Sez. V, 19.03.1996, n. 268, Tar Liguria 1406 cit.) e
che, proprio in considerazione della possibilità di dar vita a intercapedini
contrarie alla finalità della norma, ... anche i muri di contenimento (cfr.
ex multis Cass. civ. 15391/2012 e 15972/2011 e Consiglio di Stato 7731/2010,
Consiglio di Stato sez. IV, 02/03/2018, n. 1309) che producano un dislivello
o aumentano quello già esistente per la natura dei luoghi, costituiscono
nuove costruzioni idonee ad incidere sull'osservanza delle norme in tema di
distanza dal confine" (TAR Genova, (Liguria) sez. I, 13/12/2016, (ud.
30/11/2016, dep. 13/12/2016), n. 1231).
Appare, pertanto, rilevante, nella specie, la verifica della natura
artificiale o naturale del dislivello esistente tra i fondi. Tale verifica
non è stata compiuta dall’amministrazione, atteso che negli elaborati
grafici il muro non è stato riportato.
Il motivo deve ritenersi, pertanto, fondato nei limiti del denunciato vizio
di eccesso di potere per difetto di istruttoria ed erroneità del
presupposto. Dovrà, pertanto, l’amministrazione verificare la reale natura
del terrapieno al fine di valutare il rispetto dell’art. 9 D.M. 1444/1968
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 22.01.2020 n. 67 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per quanto riguarda i controlli
che competono all’amministrazione, secondo
il consolidato orientamento della
giurisprudenza amministrativa, in sede di
rilascio del titolo abilitativo edilizio
sussiste l’obbligo per il Comune di
verificare il rispetto da parte dell’istante
dei limiti privatistici, a condizione che
tali limiti siano effettivamente conosciuti
o immediatamente conoscibili e/o non
contestati, di modo che il controllo da
parte dell’Ente locale si traduca in una
semplice presa d’atto dei limiti medesimi
senza necessità di procedere ad un’accurata
e approfondita disanima dei rapporti
civilistici, sicché l’amministrazione
normalmente non è tenuta a svolgere indagini
particolari in presenza di una richiesta
edificatoria, salvo che sia manifestamente
riconoscibile l’effettiva insussistenza
della piena disponibilità del bene oggetto
dell’intervento edificatorio in relazione al
tipo di intervento richiesto;
L’accertamento demandato all’Ente locale va
compiuto con “serietà e rigore”, e “la più
recente giurisprudenza del Consiglio di
Stato, superando l'indirizzo più risalente,
è oggi allineata nel senso che
l'Amministrazione, quando venga a conoscenza
dell'esistenza di contestazioni sul diritto
del richiedente il titolo abilitativo, debba
compiere le necessarie indagini istruttorie
per verificare la fondatezza delle
contestazioni, senza però sostituirsi a
valutazioni squisitamente civilistiche (che
appartengono alla competenza dell’A.G.O.),
arrestandosi dal procedere solo se il
richiedente non sia in grado di fornire
elementi prima facie attendibili”.
---------------
2. Con riferimento al primo motivo
occorre precisare che, per quanto riguarda i
controlli che competono all’amministrazione,
secondo il consolidato orientamento della
giurisprudenza amministrativa (da ultimo TAR
Lombardia, Milano, II, 23/12/2019 n. 2728;
TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, 21.01.2019 n.
70), in sede di rilascio del titolo
abilitativo edilizio sussiste l’obbligo per
il Comune di verificare il rispetto da parte
dell’istante dei limiti privatistici, a
condizione che tali limiti siano
effettivamente conosciuti o immediatamente
conoscibili e/o non contestati, di modo che
il controllo da parte dell’Ente locale si
traduca in una semplice presa d’atto dei
limiti medesimi senza necessità di procedere
ad un’accurata e approfondita disanima dei
rapporti civilistici, sicché
l’amministrazione normalmente non è tenuta a
svolgere indagini particolari in presenza di
una richiesta edificatoria, salvo che sia
manifestamente riconoscibile l’effettiva
insussistenza della piena disponibilità del
bene oggetto dell’intervento edificatorio in
relazione al tipo di intervento richiesto
(Consiglio di Stato, sez. VI – 05/04/2018 n.
2121); l’accertamento demandato all’Ente
locale va compiuto con “serietà e rigore”,
e “la più recente giurisprudenza del
Consiglio di Stato, superando l'indirizzo
più risalente, è oggi allineata nel senso
che l'Amministrazione, quando venga a
conoscenza dell'esistenza di contestazioni
sul diritto del richiedente il titolo
abilitativo, debba compiere le necessarie
indagini istruttorie per verificare la
fondatezza delle contestazioni, senza però
sostituirsi a valutazioni squisitamente
civilistiche (che appartengono alla
competenza dell’A.G.O.), arrestandosi dal
procedere solo se il richiedente non sia in
grado di fornire elementi prima facie
attendibili” (Consiglio di Stato, sez.
IV – 20/04/2018 n. 2397).
Nel caso di specie nessuna contestazione in
merito alla legittimità dei lavori ed alla
legittimazione attiva della società
controinteressata è stata mai sollevata dai
ricorrenti prima del ricorso, con la
conseguenza che deve escludersi che il
Comune dovesse effettuare ulteriori
indagini.
A ciò si aggiunge che gli atti notarili
forniti dalla controinteressata costituivano
elementi prima facie attendibili in
merito alla legittimazione a chiedere il
permesso in sanatoria (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 20.01.2020 n. 117 - link
a www.giustizia-amministrativa.it).). |
EDILIZIA PRIVATA:
Calcolo della distanza tra fabbricati.
Come chiarito dalla
giurisprudenza, la distanza di dieci metri
tra pareti finestrate di edifici antistanti,
prevista dall'art. 9, D.M. 02.04.1968, n.
1444, va calcolata con riferimento ad ogni
punto dei fabbricati rispetto ai quali si
denuncia la violazione delle distanze e non
alle sole parti che si fronteggiano e a
tutte le pareti finestrate e non solo a
quella principale, prescindendo anche dal
fatto che esse siano o meno in posizione
parallela.
---------------
I montanti di una tettoia/pergolato
rientrano nella categoria degli sporti, non
computabili ai fini delle distanze
trattandosi di elementi con funzione
meramente ornamentale, di rifinitura od
accessoria (come le mensole, le lesene, i
cornicioni, le canalizzazioni di gronda e
simili).
---------------
3. Anche il secondo motivo è
infondato.
In merito, assorbite le questioni relative
alla qualificazione della tettoia/pergolato
come costruzione, deve ritenersi che i
ricorrenti non abbiano dato sufficiente
prova delle violazione delle distanze.
Come chiarito dalla giurisprudenza
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza
22.11.2013 n. 5557) la distanza di dieci
metri tra pareti finestrate di edifici
antistanti, prevista dall'art. 9, D.M.
02.04.1968, n. 1444, va calcolata con
riferimento ad ogni punto dei fabbricati
rispetto ai quali si denuncia la violazione
delle distanze e non alle sole parti che si
fronteggiano e a tutte le pareti finestrate
e non solo a quella principale, prescindendo
anche dal fatto che esse siano o meno in
posizione parallela.
E’ chiaro quindi che occorre considerare
come punto di riferimento, secondo quanto
correttamente affermato dal Comune, la linea
esterna della parete ideale della
tettoia/pergolato (interna al terrazzo) e
non il limite esterno del terrazzo stesso,
trattandosi di verificare le distanze dalla
tettoia/pergolato e non dal terrazzo.
Né a tal fine possono valere i montanti
della tettoia/pergolato in quanto essi
rientrano nella categoria degli sporti, non
computabili ai fini delle distanze,
trattandosi di elementi con funzione
meramente ornamentale, di rifinitura od
accessoria (come le mensole, le lesene, i
cornicioni, le canalizzazioni di gronda e
simili) (in tal senso Corte di Cassazione,
Sez. II civile, 19.01.2018 n. 1365).
Va poi considerato che, se è pur vero che il
processo amministrativo secondo il
tradizionale modello impugnatorio è retto,
dal punto di vista istruttorio, dal
principio dispositivo con metodo
acquisitivo, ciò non può essere inteso nel
senso che la parte ricorrente, la quale si
dolga di un atto dell’Autorità, possa
limitarsi alla mera contestazione dei
presupposti di fatto e di diritto sui quali
si è radicata l’azione amministrativa e
attendere che sia il giudice ad acquisire il
materiale probatorio necessario al giudizio,
dovendo essa, invece, offrire –a sostegno
della pretesa azionata in giudizio– adeguati
riscontri probatori quantomeno rispetto agli
elementi dei quali ha una disponibilità
pressoché piena (v., tra le altre, TAR
Campania, Napoli, Sez. IV, 02/07/2018 n.
4375).
Spettava dunque ai ricorrenti fornire
elementi di prova univoci circa l’effettiva
violazione della distanza di dieci metri,
per essere in realtà la doglianza non
assistita da dati obiettivi idonei a
superare la contestazione delle controparti,
proprio sotto il profilo della misurazione
puntuale del distacco tra i manufatti in
esame.
E analoga carenza probatoria si riscontra
anche con riferimento alla questione della
volumetria residua che il lotto può
esprimere. Infatti si adduce genericamente
un difetto di istruttoria, quando invece
sarebbe stato necessario allegare quanto
meno un principio di prova circa
l’ipotizzata violazione dei relativi
parametri di zona (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 20.01.2020 n. 117 - link
a www.giustizia-amministrativa.it).). |
EDILIZIA PRIVATA: La pergotenda
è una struttura destinata a rendere meglio vivibili gli spazi esterni delle
unità abitative (terrazzi o giardini) ed è volta a soddisfare esigenze non
precarie; non si connota, pertanto, per la temporaneità della sua
utilizzazione, ma costituisce un elemento di migliore fruizione dello spazio
esterno, stabile e duraturo.
Essa “è qualificabile come mero arredo esterno quando è di modeste
dimensioni, non modifica la destinazione d'uso degli spazi esterni ed è
facilmente ed immediatamente rimovibile, con la conseguenza che la sua
installazione si va ad inscrivere all'interno della categoria delle attività
di edilizia libera e non necessita quindi di alcun permesso”.
In particolare, la giurisprudenza amministrativa, “con riferimento a
strutture tipo “gazebo”, ne ha ritenuto l’inquadramento nel regime
pertinenziale e di manutenzione straordinaria solo con riferimento a
manufatti di modeste dimensioni e consistenza, aventi funzioni di riparo
dagli agenti atmosferici, costituenti semplici arredi, mentre ha escluso i
manufatti che, per le apprezzabili dimensioni strutturali, per l'impatto
visivo, il non trascurabile "carico urbanistico", la loro conformazione e
destinazione all'attività imprenditoriale, la rilevante alterazione della
sagoma esterna dell'immobile, implicano una incidenza significativa
sull'assetto urbanistico ed una consistente trasformazione del tessuto
edilizio”.
Per configurare una pergotenda, in quanto tale non necessitante di titolo
abilitativo, pur non essendo destinata a soddisfare esigenze precarie,
occorre che l’opera principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma
dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole o dagli agenti
atmosferici, mentre la struttura deve qualificarsi in termini di mero
elemento accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della tenda;
non è invece configurabile una pergotenda se la struttura principale è
solida e permanente e, soprattutto, tale da determinare una evidente
variazione di sagoma e di prospetto dell'edificio.
Va altresì esclusa la connotazione di pergotenda quando la copertura e/o la
chiusura perimetrale presentino elementi di fissità, stabilità e permanenza,
anche per una limitata porzione; in tal caso, pur non potendosi parlare di
organismo edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o
superficie, il titolo edilizio deve ritenersi comunque necessario.
---------------
2.1. La pergotenda è una struttura destinata a rendere meglio vivibili gli
spazi esterni delle unità abitative (terrazzi o giardini) ed è volta a
soddisfare esigenze non precarie; non si connota, pertanto, per la
temporaneità della sua utilizzazione, ma costituisce un elemento di migliore
fruizione dello spazio esterno, stabile e duraturo (Cons. Stato, sez. VI,
25.01.2017, n. 306 e 27.04.2016, n. 1619).
Essa “è qualificabile come mero arredo esterno quando è di modeste
dimensioni, non modifica la destinazione d'uso degli spazi esterni ed è
facilmente ed immediatamente rimovibile, con la conseguenza che la sua
installazione si va ad inscrivere all'interno della categoria delle attività
di edilizia libera e non necessita quindi di alcun permesso” (Consiglio
di Stato, sez. VI, 11.04.2014, n. 1777).
In particolare, la giurisprudenza amministrativa, “con riferimento a
strutture tipo “gazebo”, ne ha ritenuto l’inquadramento nel regime
pertinenziale e di manutenzione straordinaria solo con riferimento a
manufatti di modeste dimensioni e consistenza, aventi funzioni di riparo
dagli agenti atmosferici, costituenti semplici arredi, mentre ha escluso i
manufatti che, per le apprezzabili dimensioni strutturali, per l'impatto
visivo, il non trascurabile "carico urbanistico", la loro conformazione e
destinazione all'attività imprenditoriale, la rilevante alterazione della
sagoma esterna dell'immobile, implicano una incidenza significativa
sull'assetto urbanistico ed una consistente trasformazione del tessuto
edilizio” (Cons Stato, sez. IV, 01.07.2019, n. 4472).
Per configurare una pergotenda, in quanto tale non necessitante di titolo
abilitativo, pur non essendo destinata a soddisfare esigenze precarie,
occorre che l’opera principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma
dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole o dagli agenti
atmosferici, mentre la struttura deve qualificarsi in termini di mero
elemento accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della tenda;
non è invece configurabile una pergotenda se la struttura principale è
solida e permanente e, soprattutto, tale da determinare una evidente
variazione di sagoma e di prospetto dell'edificio (Cons. Stato, sez. IV,
01.07.2019, n. 4472; Cons. Stato, sez. VI, 05.10.2018, n. 5737).
Va altresì esclusa la connotazione di pergotenda quando la copertura e/o la
chiusura perimetrale presentino elementi di fissità, stabilità e permanenza,
anche per una limitata porzione; in tal caso, pur non potendosi parlare di
organismo edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o
superficie, il titolo edilizio deve ritenersi comunque necessario (TAR
Lombardia Brescia, sez. II, 02.07.2018, n. 646).
2.2. Ciò premesso in termini generali, nella fattispecie, ad avviso del
Collegio, l’opera realizzata, come si evince già dalla documentazione
fotografica agli atti, non rientra propriamente nella nozione di pergotenda
(pur essendo la stessa caratterizzata dalla presenza di tende retrattili in
materiale PVC); essa, infatti, ha una consistenza (per dimensioni e per
struttura) ben più rilevante di una mera tenda, incidendo sul prospetto e
sulla sagoma dell’edificio cui è agganciata, risulta ancorata stabilmente al
suolo e, nella parte più alta, addirittura integrata all’adiacente locale
(di conseguenza non qualificabile come di facile rimovibilità), è destinata
ad uso di somministrazione di alimenti e bevande dell’attività commerciale
esercitata nel medesimo locale (attività della quale, come correttamente
evidenziato dal Comune nell’atto impugnato, costituisce un ampliamento) e
non, quindi, a semplice ornamento o riparo dagli agenti atmosferici.
Peraltro, essa presenta degli elementi di fissità nelle tamponature laterali
della parte superiore (come si può verificare dalle fotografie che
ritraggono la struttura con le tende aperte) e non è del tutto separata o
facilmente separabile dall’edificio cui accede.
Tali caratteristiche escludono che possa parlarsi di un manufatto rientrante
tra quelli realizzabili in regime di edilizia libera (TAR
Marche,
sentenza 20.01.2020 n. 46 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA:
“Col decorso del termine (di dieci anni, per il piano di lottizzazione),
diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non
abbiano avuto concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la sua
ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti
con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con le
prescrizioni del piano attuativo (anche sugli allineamenti), che per questa
parte ha efficacia ultrattiva.
In altri termini, l'art. 17 della legge n. 1150 del 1942 si ispira al
principio secondo cui, mentre le previsioni del piano regolatore rientrano
in una prospettiva dinamica della utilizzazione dei suoli (e determinano ciò
che è consentito e ciò che è vietato nel territorio comunale sotto il
profilo urbanistico ed edilizio, con la devoluzione al piano attuativo delle
determinazioni sulle specifiche conformazioni delle proprietà), le
previsioni dello strumento attuativo hanno carattere di tendenziale
stabilità (perché specificano in dettaglio le consentite modifiche del
territorio, in una prospettiva in cui l'attuazione del piano esecutivo
esaurisce la fase della pianificazione, determina l'assetto definitivo della
parte del territorio in considerazione e inserisce gli edifici in un
contesto compiutamente definito).
In considerazione della stabilità delle previsioni del piano attuativo, va
affermato dunque il principio per il quale le prescrizioni urbanistiche di
un piano attuativo rilevano a tempo indeterminato, anche dopo la sua
scadenza…. L'imposizione del termine suddetto, infatti, va inteso nel senso
che le attività dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico, sia
convenzionale che autoritativo, non possono essere attuate ai sensi di legge
oltre un certo termine, scaduto il quale l'autorità competente riacquista il
potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non
realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione.
Con la conseguenza che, se, e fino a quando, tale potere non viene
esercitato, l'assetto urbanistico dell'area rimane definito nei termini di
cui alla convenzione di lottizzazione” o degli altri strumenti attuativi.
---------------
3.1.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato, in tema di ultrattività dei piani
attuativi dopo la scadenza, si è soffermata sul significato del principio
generale contenuto nell’art. 17, primo comma, della legge n. 1150 del 1942,
a mente del quale, “decorso il termine stabilito per l'esecuzione del
piano particolareggiato, questo diventa inefficace per la parte in cui non
abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato
l'obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella
modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di
zona stabiliti dal piano stesso”.
In particolare, per quel che qui interessa, la norma va intesa nel senso che
“col decorso del termine (di dieci anni, per il piano di lottizzazione),
diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non
abbiano avuto concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la sua
ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti
con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con le
prescrizioni del piano attuativo (anche sugli allineamenti), che per questa
parte ha efficacia ultrattiva.
In altri termini, l'art. 17 della legge n. 1150 del 1942 si ispira al
principio secondo cui, mentre le previsioni del piano regolatore rientrano
in una prospettiva dinamica della utilizzazione dei suoli (e determinano ciò
che è consentito e ciò che è vietato nel territorio comunale sotto il
profilo urbanistico ed edilizio, con la devoluzione al piano attuativo delle
determinazioni sulle specifiche conformazioni delle proprietà), le
previsioni dello strumento attuativo hanno carattere di tendenziale
stabilità (perché specificano in dettaglio le consentite modifiche del
territorio, in una prospettiva in cui l'attuazione del piano esecutivo
esaurisce la fase della pianificazione, determina l'assetto definitivo della
parte del territorio in considerazione e inserisce gli edifici in un
contesto compiutamente definito).
In considerazione della stabilità delle previsioni del piano attuativo, va
affermato dunque il principio per il quale le prescrizioni urbanistiche di
un piano attuativo rilevano a tempo indeterminato, anche dopo la sua
scadenza…. L'imposizione del termine suddetto, infatti, va inteso nel senso
che le attività dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico, sia
convenzionale che autoritativo, non possono essere attuate ai sensi di legge
oltre un certo termine, scaduto il quale l'autorità competente riacquista il
potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non
realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione.
Con la conseguenza che, se, e fino a quando, tale potere non viene
esercitato, l'assetto urbanistico dell'area rimane definito nei termini di
cui alla convenzione di lottizzazione” o degli altri strumenti attuativi
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 30.04.2009, n. 2768, richiamata da Cons. Stato,
sez. IV, 22.01.2019, n. 563) (TAR
Marche,
sentenza 20.01.2020 n. 46 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ESPROPRIAZIONE: Per
la Plenaria, nelle ipotesi dell’art. 42-bis TUEs, l’illecito della p.a.
viene meno nei casi da esso previsti e non è ravvisabile la rinuncia
abdicativa.
Secondo l’Adunanza plenaria per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis
del d.P.R. 08.06.2001, n. 327, recante il Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica
utilità, l’illecito permanente dell’amministrazione viene meno nei casi da
esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la
conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva,
mentre la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata.
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Espropriazione per pubblico interesse – Acquisizione sanante – Rinuncia
abdicativa – Esclusione
Per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis
TUEs., l’illecito permanente dell’Autorità viene meno nei casi da esso
previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la
conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva e
la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata. (1)
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(1) I. – Con la sentenza in rassegna (analogamente alla n. 3 resa
in pari data), l’Adunanza plenaria ha ritenuto che, per le fattispecie
disciplinate dall’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001, l’illecito
permanente dell’amministrazione viene meno nei casi da esso previsti
(acquisizione o restituzione del bene), salva la conclusione di un contratto
traslativo di natura transattiva tra le parti, e non può essere ravvisata la
rinuncia abdicativa.
II. – Nel caso esaminato dal collegio, l’appellante aveva proposto
ricorso al Tar deducendo che il decreto ministeriale, in base al quale erano
stati approvati i lavori di costruzione di un’opera pubblica e fissati i
termini per la realizzazione dei lavori e l’emanazione dei decreti di
esproprio, era stato annullato con sentenza del Consiglio di Stato.
Rappresentava, quindi, che, nel frattempo, l’opera pubblica era stata
integralmente realizzata e il terreno di sua proprietà era irreversibilmente
trasformato in assenza di un decreto di esproprio. Chiedeva la condanna
dell’amministrazione resistente al risarcimento del danno derivante dalla
illecita e illegittima apprensione del bene, essendo impossibile la sua
restituzione. Il Tar per la Puglia, Lecce, con sentenza 25.09.2007, n. 3373,
ravvisando un’ipotesi di occupazione acquisitiva, ha accolto l’eccezione,
sollevata dall’amministrazione, di prescrizione del diritto del ricorrente
al risarcimento del danno da occupazione acquisitiva, ritenendo decorso il
termine quinquennale previsto dall’art. 2947 c.c. tra la data in cui
l’occupazione d’urgenza sarebbe divenuta illegittima e la data di notifica
del ricorso di primo grado.
La parte ricorrente proponeva appello contestando la prescrizione del
diritto e deducendo che avrebbe perso il diritto di proprietà sul bene
interessato dall’occupazione, con contestuale acquisizione a titolo
originario della proprietà del suolo in capo alla p.a. Con sentenza parziale
e contestuale
ordinanza del 30.07.2019, n. 5391 (richiamata nella
News US n. 104 del 25.09.2019, alla quale si rinvia per ulteriori
approfondimenti, ma sulla quale si veda infra § h), il Consiglio di Stato,
dopo aver ritenuto che il Tar avesse erroneamente accolto l’eccezione di
prescrizione e aver individuato le ulteriori statuizioni da emanare per
definire la controversia (ordine all’amministrazione che utilizza il bene
pubblico di emanare un provvedimento che disponga l’acquisizione del bene al
suo patrimonio indisponibile o, in alternativa, la sua restituzione), ha
rimesso all’Adunanza plenaria due questioni giuridiche pregiudiziali alla
decisione dell’appello: se la domanda risarcitoria vada qualificata come
dichiarazione di rinuncia abdicativa del bene in questione; se, in caso
affermativo, una tale rinuncia abbia giuridica rilevanza.
III. – La plenaria ha osservato quanto segue:
a) la questione di diritto sottoposta al suo
esame riguarda esclusivamente la configurabilità, nella materia della
espropriazione, della rinuncia abdicativa quale atto implicito e implicato
nella proposizione, da parte di un privato illegittimamente espropriato,
della domanda di risarcimento del danno per equivalente monetario derivante
dall’illecito permanente, costituito dall’occupazione di un suolo da parte
della p.a., a fronte dell’irreversibile trasformazione del suolo;
b) la questione non riguarda, invece,
l’ammissibilità in generale dell’istituto della rinuncia abdicativa
nell’ordinamento giuridico:
b1) la rinuncia abdicativa è un
negozio giuridico unilaterale, non recettizio, con il quale il rinunciato
dismette una situazione giuridica di cui è titolare, senza che ciò comporti
il trasferimento del diritto in capo ad altro soggetto, né l’automatica
estinzione del diritto;
b2) gli ulteriori effetti,
estintivi o modificativi del rapporto, che possono incidere sui terzi, sono
conseguenze riflesse del negozio rinunziativo, non direttamente collegabili
all’intento negoziale e non correlate al contenuto causale dell’atto;
b3) la rinuncia abdicativa si
differenzia dalla rinuncia traslativa proprio in considerazione della
mancanza del carattere traslativo-derivativo dell’acquisto e per la mancanza
di natura contrattuale, con la conseguenza che l’effetto in capo al terzo si
produce ipso iure, a prescindere dalla volontà del rinunciante, quale
effetto di legge;
b4) per il suo perfezionamento
non è quindi richiesto l’intervento o l’espressa accettazione del terzo, né
che lo stesso ne sia a conoscenza;
c) la tesi della ammissibilità della rinuncia
abdicativa nella materia espropriativa è stata sostenuta sia dalla
giurisprudenza amministrativa che da quella civile di legittimità, si fonda
su vari argomenti e presenta effetti positivi per il privato sul piano
pratico in quanto:
c1) valorizza il principio di
concentrazione della tutela ricavabile dall’art. 111 Cost., quale corollario
del principio di ragionevole durata del processo, che sarebbe pregiudicato
dalla sua segmentazione in una fase amministrativistica relativa al giudizio
sulla legittimità degli atti espropriativi e in una fase civilistica per la
determinazione del quantum da corrispondere al soggetto espropriato;
c2) offre maggiori garanzie di
compensare integralmente il privato per il bene perduto, in quanto l’utilità
deve essere a questo corrisposta a titolo di risarcimento del danno e non a
titolo di indennizzo;
c3) poiché il risarcimento del
danno è connesso alla proposizione della domanda da parte del privato in
giudizio, che implica rinuncia abdicativa, è da tale momento che si verifica
un debito di valore, con tutte le implicazioni in tema di interessi legali e
rivalutazione;
d) la tesi della rinuncia abdicativa in materia
espropriativa non appare, tuttavia, condivisibile per diverse ragioni;
e) in primo luogo, non spiega esaurientemente la
vicenda traslativa in capo all’autorità espropriante:
e1) se l’atto abdicativo è
astrattamente idoneo a determinare la perdita della proprietà privata, non è
altrettanto idoneo a determinare l’acquisto della proprietà in capo all’ente
espropriante;
e2) nel diritto privato è
discusso se l’art. 827 c.c., in base al quale gli immobili che non sono in
proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato, possa essere la base
legale di una dichiarazione di rinuncia del proprietario di un diritto reale
immobiliare, a parte i casi previsti dalla legge.
In ogni caso, tale acquisto, a titolo originario e non derivativo, si
realizzerebbe in capo allo Stato e non in capo all’autorità espropriante,
che sarebbe del tutto esclusa dalla vicenda giuridica pur avendone
costituito la causa efficiente tramite l’illecita apprensione del bene del
privato. “La spiegazione dell’effetto traslativo, pertanto, sarebbe del
tutto eccentrica rispetto al rapporto amministrativo che viene innescato
dall’Amministrazione espropriante, rendendo evidente l’artificiosità della
soluzione teorica proposta”;
e3) l’effetto traslativo non
può essere recuperato attraverso l’ordine di trascrizione della sentenza di
condanna al risarcimento del danno (e, quindi, della sua rinuncia abdicativa
implicita a favore dell’amministrazione espropriante), in quanto le vicende
della trascrizione si pongono solo sul piano dell’opponibilità verso terzi
degli atti giuridici dispositivi di diritti reali, ma non disciplinano la
validità e l’efficacia giuridica degli stessi. Pertanto, se l’atto non è
idoneo a determinare il passaggio del bene in capo all’amministrazione
espropriante non potrà essere trascrivibile e l’ordine del giudice contenuto
nella sentenza non potrebbe avere adeguata base legale;
f) in secondo luogo, la rinuncia viene
ricostruita quale atto implicito senza averne le caratteristiche essenziali,
in quanto:
f1) la rinuncia abdicativa, se
riferita al ricorso giurisdizionale, non viene effettuata dalla parte, né
personalmente, né attraverso un soggetto dotato di idonea procura;
f2) nel diritto amministrativo
è ammessa la sussistenza del provvedimento implicito quando
l’amministrazione, pur non adottando formalmente un provvedimento, ne
determina univocamente i contenuti sostanziali, o attraverso un
comportamento conseguente, ovvero determinandosi in una direzione, anche con
riferimento a fasi istruttorie coerentemente svolte, a cui non può essere
ricondotto altro volere che quello equivalente al contenuto del
provvedimento formale corrispondente, congiungendosi tra loro i due elementi
di una manifestazione chiara di volontà dell’organo competente e della
possibilità di desumere in modo non equivoco una specifica volontà
provvedimentale, nel senso che l’atto implicito deve essere l’unica
conseguenza possibile della presunta manifestazione di volontà.
Nella dogmatica degli atti impliciti nel diritto amministrativo emerge la
sussistenza di un atto formale, perfetto e validamente emanato che contiene
per implicito un’ulteriore volontà provvedimentale, oltre a quella espressa
nel testo del provvedimento medesimo.
In questa ricostruzione non si riscontrano violazioni del principio di
legalità dell’azione amministrativa perché la volontà amministrativa esiste
ed è contenuta in un atto avente tutte le caratteristiche previste dalla
legge per conferirle validità, con la peculiarità che detta volontà è
ricavabile da una interpretazione non meramente letterale dell’atto. Nel
caso di specie, la rinuncia abdicativa è totalmente estranea alla teorica
degli atti impliciti che riguarda solo gli atti amministrativi e non quelli
del privato;
f3) non sembra possibile utilizzare lo stesso paradigma dei provvedimenti
amministrativi impliciti per ricondurre la volontà di chiedere il
risarcimento del danno alla volontà di abdicare alla proprietà privata.
Sul piano sostanziale non sembra che da una domanda risarcitoria sia
possibile univocamente desumere la rinuncia del privato al diritto sul bene.
Sul piano formale la domanda di risarcimento del danno contenuta nel ricorso
giurisdizionale amministrativo è una domanda redatta e sottoscritta dal
difensore e non dalla parte proprietaria del bene che ne ha la disponibilità
e che è l’unico soggetto avente la legittimazione ad abdicarvi.
D’altro canto, nel mandato difensivo della parte al proprio difensore non
può rinvenirsi una procura a rinunciare alla proprietà del bene;
g) in terzo luogo, in senso decisivo e assorbente, la
ricostruzione della rinuncia abdicativa non è provvista di base legale in
ambito espropriativo, dove il rispetto del principio di legalità è
richiamato con forza a vari livelli;
g1) ai sensi dell’art. 42, commi 2 e 3, Cost. la proprietà privata è
riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i modi di acquisto e
può essere, nei casi previsti dalla legge e salvo indennizzo, espropriata
per motivi di interesse generale. La rinuncia abdicativa non costituisce uno
dei casi previsti dalla legge;
g2) l’istituto sembra inoltre presentare gli stessi problemi e dubbi
interpretativi che avevano caratterizzato l’occupazione acquisitiva, di cui
la Corte europea dei diritti dell’uomo ha evidenziato la contrarietà alla
convenzione europea. In particolare, la c.d. occupazione appropriativa o
acquisitiva, istituto di origine pretoria, determinava l’acquisizione della
proprietà del fondo a favore della pubblica amministrazione per accessione
invertita in caso di irreversibile trasformazione dell’area.
L’istituto risulta peraltro privo di base legale ed è stato pertanto
ritenuto illegittimo dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, con la
conseguenza che, attualmente, il mero fatto dell’intervenuta realizzazione
dell’opera pubblica non costituisce titolo di acquisto del diritto, non
determina il trasferimento della proprietà e non fa venire meno l’obbligo
dell’amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente
appreso;
g3) nel delineato contesto il legislatore nazionale è intervenuto per
regolare la fattispecie in esame, fornendo una base legale, sistematica e
coerente, dapprima con l’art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001 e, quindi, dopo
la dichiarazione di incostituzionalità della disposizione per eccesso di
delega, con l’art. 42-bis, il quale, tra l’altro: prevede che l’autorità che
utilizza sine titulo un bene immobile per scopi di interesse
pubblico, dopo aver valutato,
con un procedimento d’ufficio, gli interessi in conflitto, adotta un
provvedimento conclusivo del procedimento con cui sceglie se acquisire il
bene o restituirlo, al fine di adeguare la situazione di diritto a quella di
fatto; comporta che, nel caso di occupazione sine titulo, l’Autorità
commette un illecito di carattere permanente; esclude che il giudice possa
decidere la sorte del bene nel giudizio di cognizione instaurato dal
proprietario; non può che escludere che la ‘sorte’ del bene sia
decisa dal proprietario e che l’Autorità acquisti coattivamente il bene,
solo perché il proprietario dichiari di averlo perso o di volerlo perdere, o
di volere il controvalore del bene;
g4) “l’art. 42-bis ha, quindi, definito in maniera esaustiva la
disciplina della fattispecie, con una normativa autosufficiente, rispetto
alla quale non trovano spazio elaborazioni giurisprudenziali che, se forse
giustificate in assenza di una base legale, non si giustificano più una
volta che intervenga un’esplicita disciplina normativa, ritenuta conforme al
diritto europeo e alla Costituzione, che viene a costituire la base legale
espressa della fattispecie in questione”.
La disposizione non obbliga l’amministrazione ad acquisire il bene, ma
impone che la stessa eserciti il potere di valutare se apprendere il bene
definitivamente o restituirlo al soggetto privato, secondo una concezione di
doverosità delle funzioni amministrative che discende dai principi di
imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione;
g5) pertanto, per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis, una rigorosa
applicazione del principio di legalità richiede una base legale certa perché
si determini l’effetto dell’acquisto della proprietà in capo
all’espropriante;
g6) nessuna norma attribuisce al soggetto espropriato, pur a fronte
dell’illegittimità del titolo espropriativo, un diritto, sostanzialmente
potestativo, di determinare il trasferimento della proprietà
all’amministrazione espropriante, previa corresponsione del risarcimento del
danno. Al contrario, è stato introdotto nell’ordinamento giuridico un
istituto che attribuisce all’amministrazione una funzione autoritativa in
forza della quale essa può scegliere tra restituzione e acquisizione del
bene nel rispetto dei requisiti sostanziali e secondo le modalità ivi
previste;
g7) inoltre, poiché la disposizione in esame prevede che il titolo di
acquisto sia un atto espressione di scelta dell’autorità, alcun rilievo può
essere attribuito a tal fine a un atto diverso, ossia al successivo atto di
liquidazione del danno, peraltro emanato in esecuzione di una sentenza; “né
dall’art. 42-bis né da altra norma può ricavarsi l’attribuzione dell’effetto
giuridico di rinuncia abdicativa alla fattispecie complessa derivante dalla
coesistenza della sentenza di condanna e dell’atto di liquidazione del danno”;
h) pertanto, con riferimento alle scelte del
privato e dell’amministrazione:
h1) nel caso in cui
l’amministrazione non adotti l’atto discrezionale, il privato potrà esperire
gli ordinari rimedi di tutela, compreso quello restitutorio, non residuando
alcuno spazio per giustificare la perdurante inerzia dell’amministrazione;
h2) la scelta tra acquisizione e restituzione va effettuata
dall’amministrazione (o dal commissario ad acta nominato dal giudice
amministrativo, all’esito del giudizio di cognizione o del giudizio di
ottemperanza ai sensi dell’art. 34 o dell’art. 114 c.p.a.). In sede di
giurisdizione di legittimità, né il giudice amministrativo né il
proprietario possono sostituire le proprie valutazioni a quelle attribuite
alla competenza e alla responsabilità dell’autorità individuata dalla norma.
Il giudice amministrativo, in caso di inerzia dell’amministrazione e di
ricorso avverso il silenzio ai sensi dell’art. 117 c.p.a., può nominare il
commissario ad acta che provvederà a esercitare i poteri previsti
dalla disposizione o nel senso della acquisizione o nel senso della
restituzione del bene illegittimamente espropriato;
h3) qualora sia invocata la sola tutela risarcitoria o restitutoria prevista
dal codice civile, senza richiamare l’art. 42-bis, il giudice deve
pronunciarsi tenuto conto del quadro normativo delineato e del carattere
doveroso della funzione attribuita dalla disposizione in esame
all’amministrazione. Non sarebbe, quindi, ammissibile una richiesta solo
risarcitoria in quanto essa si porrebbe al di fuori dello schema legale
tipico previsto dalla legge per disciplinare la materia ponendosi anzi in
contrasto con lo stesso, anche se il giudice potrà, ove ne ricorrano i
presupposti, accogliere la domanda.
La domanda risarcitoria consiste essenzialmente nell’accertamento della
illegittimità degli atti della procedura espropriativa e nella scelta del
rimedio previsto dalla legge. Nel caso di espropriazione senza titolo
valido, la legge speciale prevede che il trasferimento del bene non avvenga,
per carenza di titolo, e il bene vada restituito al privato. La restituzione
può essere impedita dall’amministrazione, la quale è tenuta, nell’esercizio
di una funzione doverosa, a valutare se procedere alla restituzione del
bene, previa riduzione in pristino, o all’acquisizione del bene nel rispetto
di tutti i presupposti declinati dall’art. 42-bis e con la corresponsione di
un’indennità pari al valore del bene maggiorato del 10 per cento;
h4) in ogni caso il diritto
processuale amministrativo offre un adeguato strumentario per evitare, nel
corso del giudizio, che le domande proposte in primo grado, congruenti con
quello che allora appariva il vigente quadro normativo e l’orientamento
giurisprudenziale di riferimento siano di ostacolo alla formulazione di
istanze adeguate al diverso contesto normativo e giurisprudenziale vigente
al momento della decisione, quali la conversione della domanda, la
rimessione in termini per errore scusabile, l’invito alla precisazione della
domanda in relazione al definito quadro giurisprudenziale, in tutti i casi
previa sottoposizione della relativa questione processuale, in ipotesi
rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3,
c.p.a., a garanzia del diritto di difesa di tutte le parti processuali.
IV. – Per completezza si segnala quanto segue: i) con riferimento
al rapporto tra rinuncia abdicativa e art. 42-bis:
i1)
Cons. Stato, Ad. plen., 20.01.2020, n. 4 (oggetto di coeva News
US) ha pronunciato il seguente principio di diritto “Per le fattispecie
rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001
la rinuncia abdicativa del proprietario del bene occupato sine titulo dalla
pubblica amministrazione, anche a non voler considerare i profili attinenti
alla forma, non costituisce causa di cessazione dell’illecito permanente
dell’occupazione senza titolo”, restituendo per il resto gli atti alla
sezione rimettente ai sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a.;
i2) le questioni esaminate
dalle citate decisioni dell’Adunanza plenaria sono state oggetto di tre
rimessioni:
Cons. Stato, sez. IV, 30.07.2019, n. 5400 (oggetto della citata
News US n. 104 del 25.09.2019, alla quale si rinvia specie con
riferimento ai precedenti giurisprudenziali sul tema, § t), con riferimento
alla sentenza n. 4 del 2020), nonché le nn. 5399 (sulla quale è intervenuta
la citata sentenza n. 3 del 2020 dell’Adunanza plenaria) e 5391 (sulla quale
è intervenuta la decisione in commento n. 2 del 2020) emesse in pari data,
che hanno deferito all’Adunanza plenaria le seguenti questioni:
“a) se per le fattispecie sottoposte all’esame del giudice amministrativo
e disciplinate dall’art. 42-bis del testo unico sugli espropri, l’illecito
permanente dell’Autorità viene meno solo nei casi da esso previsti
(l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un
contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva;
b) se, pertanto, la ‘rinuncia abdicativa’, salve le questioni concernenti le
controversie all’esame del giudice civile, non può essere ravvisata quando
sia applicabile l’art. 42-bis;
c) se, ove sia invocata la sola tutela restitutoria e/o risarcitoria
prevista dal codice civile e non sia richiamato l’art. 42-bis, il giudice
amministrativo può qualificare l’azione come proposta avverso il silenzio
dell’Autorità inerte in relazione all’esercizio dei poteri ex art. 42-bis;
d) se, in tale ipotesi, il giudice amministrativo può conseguentemente
fornire tutela all’interesse legittimo del ricorrente applicando la
disciplina di cui all’art. 42-bis e, eventualmente, nominando un Commissario
ad acta già in sede di cognizione;
e) se, nella specie, l’atto di acquisizione emesso da Roma Capitale in data
23.11.2018 vada considerato giuridicamente rilevante (ciò che dovrebbe
ammettersi, qualora si dovesse ritenere che l’Amministrazione solo con
l’emanazione dell’atto di data 23.11.2018 ha fatto venire meno l’illecito
permanente conseguente alla occupazione sine titulo)”;
j) sempre con riferimento all’art. 42-bis,
Cons. Stato, sez. IV, ordinanza 15.07.2019, n. 4950 (oggetto
della
News US n. 100 del 10.09.2019, alla quale si rinvia per ulteriori
approfondimenti, specie con riferimento al tema dell’overruling
processuale, § q)), ha deferito all’Adunanza plenaria le seguenti questioni:
“a) se il giudicato civile, sull’obbligo di restituire un’area al
proprietario da parte dell’Amministrazione occupante sine titulo, precluda o
meno l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù di passaggio, col
mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare; b) se la
formazione del giudicato interno -sulla statuizione del TAR per cui il
giudicato civile consente l’attivazione di un ordinario procedimento
espropriativo– imponga nella specie di affermare che sussiste anche il
potere dell’Amministrazione di imporre la servitù di passaggio ex art.
42-bis, comma 6; c) se la preclusione del ‘giudicato restitutorio’ sussista
anche quando la sentenza (nella specie, del giudice civile) non abbia
espressamente precluso l’esercizio dei poteri previsti dall’art. 42-bis per
adeguare lo stato di fatto a quello di diritto; d) se la preclusione del
‘giudicato restitutorio’ sussista solo in relazione ai giudicati formatisi
dopo la pubblicazione della sentenza della Adunanza Plenaria n. 2 del 2016,
ovvero anche in relazione ai giudicati formatisi in precedenza”.
In particolare, con la citata ordinanza, il collegio ha deferito
all’Adunanza plenaria alcune questioni relative alla interpretazione
dell’art. 42-bis del TUEs, con particolare riferimento alla possibilità di
adottare un decreto di acquisizione sanante per la costituzione, in favore
di un Comune, di una servitù pubblica di passaggio per l’accesso ad un parco
pubblico, in presenza di un giudicato civile di restituzione del terreno,
conseguente non ad una procedura espropriativa illegittima ma alla
declaratoria di nullità di un contratto di compravendita con immissione
immediata nel possesso in favore del Comune resistente dinanzi al Tar;
k) di recente, Cass. civ., sez. un., 12.11.2019,
n. 29466, secondo un percorso logico antitetico a quello intrapreso dalla
Plenaria in commento, ha dato per assodato: l’esistenza dell’istituto della
rinuncia abdicativa sia per occupazione usurpativa che acquisitiva;
l’eccezionalità dello strumento previsto dall’art. 42-bis; l’inapplicabilità
in ambito espropriativo degli artt. 2058 e 2033 c.c.; che il giudicato sul
risarcimento del danno, anche per equivalente monetario, blocca l’emanazione
del provvedimento previsto dall’art. 42-bis ispirato a una logica
indennitaria; la necessità di una motivazione rafforzata per giustificare
l’adozione di una delle scelte di cui all’art. 42-bis da parte
dell’amministrazione; l’applicabilità dell’art. 21-octies al provvedimento
ex art. 42-bis. La Corte ha, in particolare, ritenuto che:
k1) il provvedimento di acquisizione
sanante, disciplinato dall’art. 42-bis, “costituisce l'esercizio di uno
speciale, autonomo ed eccezionale potere espropriativo, che è innestato su
un precedente procedimento espropriativo irrimediabilmente viziato o,
comunque, fondato su titolo astrattamente annullabile sub judíce, e che è
teso a sostituire il regolare procedimento ablativo, in quanto contiene uno
actu sia la dichiarazione di pubblica utilità, sia il decreto di esproprio”;
k2) “nel caso in esame, a
differenza che in quelli oggetto di tale orientamento, il giudicato attiene
bensì all'illegittimità della condotta della parte pubblica, ma non
comprende alcuna statuizione di risarcimento del danno per equivalente,
statuizione che presuppone, pur sempre, una rinuncia -espressa o implicita
nella richiesta risarcitoria- al diritto dominicale da parte del
proprietario”;
l) sul carattere permanente dell’illecito
dell’amministrazione in caso di utilizzo sine titulo di un bene
immobile per scopi di interesse pubblico, si veda tra le altre: Cons. Stato,
Ad. plen., 09.02.2016, n. 2 (in Foro it., 2016, III, 185; Corr. giur., 2016,
4, 498, con nota di CARBONE; Giur. it., 2016, 5, 1212, con nota di URBANI),
secondo cui “in linea generale, quale che sia la sua forma di
manifestazione (vie di fatto, occupazione usurpativa, occupazione
acquisitiva), la condotta illecita dell'amministrazione incidente sul
diritto di proprietà non può comportare l'acquisizione del fondo e configura
un illecito permanente ex art. 2043 c.c., con decorrenza del termine di
prescrizione quinquennale dalla proposizione della domanda basata
sull'occupazione contra ius, ovvero, dalle singole annualità per quella
basata sul mancato godimento del bene. Tale illecito viene a cessare solo in
conseguenza:
a) della restituzione del fondo;
b) di un accordo transattivo;
c) della rinunzia abdicativa da parte del proprietario implicita nella
richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte
dell'irreversibile trasformazione del fondo;
d) di una compiuta usucapione, ma solo a condizione che: - sia
effettivamente configurabile il carattere non violento della condotta; - si
possa individuare il momento esatto della interversio possesionis; - si
faccia decorrere la prescrizione acquisitiva dalla data di entrata in vigore
del D.P.R. n. 327/2001 (30.06.2003), per evitare che sotto mentite spoglie
(alleviare gli oneri finanziari altrimenti gravanti sull'Amministrazione
responsabile), si reintroduca una forma surrettizia di espropriazione
indiretta in violazione dell'art. 1 del Protocollo addizionale della Cedu;
e) di un provvedimento emanato ex art. 42-bis del D.P.R. n. 327/2001”;
m) sulla teoria dell’atto implicito nel diritto
amministrativo, si veda, tra le altre, Cons. Stato, sez. VI, 27.11.2014, n.
5887 (in Quotidiano giuridico, 2014) secondo cui “deve ammettersi, seppure
in via restrittiva, la sussistenza di un provvedimento implicito, quando
l'Amministrazione pur non adottando formalmente un provvedimento, ne
determina univocamente i contenuti sostanziali, o attraverso un
comportamento conseguente, ovvero determinandosi in una direzione, anche con
riferimento a fasi istruttorie coerentemente svolte, a cui non può essere
ricondotto altro volere che quello equivalente al contenuto del
provvedimento formale corrispondente. Si congiungono, infatti, i due
elementi di una manifestazione chiara di volontà dell'organo competente e
della possibilità di desumerne in modo non equivoco una specifica volontà provvedimentale nel senso che l'atto implicito deve essere l'unica
conseguenza possibile della presunta manifestazione di volontà”;
n) la rassegna monotematica di giurisprudenza,
sia civile che amministrativa, a cura dell’Ufficio Studi, massimario e
formazione dal titolo “L’occupazione abusiva di immobili da parte della
pubblica amministrazione” (aggiornata al 02.09.2019, cui si rinvia per
ogni approfondimento anche di dottrina); ivi si mette in luce la maggiore
efficienza economica sottesa alla scelta del privato di rinunciare alla
proprietà del bene occupato nonché l’abbattimento del contenzioso invece
incrementato dalla attivazione del procedimento di cui all’art. 42-bis (che
potrà essere contestato innanzi al G.A. per i profili di legittimità e
davanti alla Corte d’appello per tutti i profili indennitari), specie se
emanato a seguito di un giudicato che accerti il silenzio-inadempimento
dell’Amministrazione sulla istanza del privato rivolta all’amministrazione;
è evidente che a fronte della possibilità, offerta dall’istituto della
rinuncia abdicativa, di definire in un unico giudizio innanzi al giudice
amministrativo (per le occupazioni comunque collegate ad una dichiarazione
di pubblica utilità) ovvero a quello civile (per le occupazioni ab
origine sine titulo c.d. usurpative pure) l’intera vicenda contenziosa,
il percorso procedimentale e processuale prescelto dalle Plenarie nn. 2, 3 e
4 dilata i tempi della definizione stabile dell’assetto dei contrapposti
interessi (sul punto cfr. in particolare i paragrafi 11 e da 14 a 21 della
Rassegna e la citata
News US n. 100 del 10.09.2019 relativa a
Cons. Stato, sez. IV, ordinanza 15.07.2019, n. 4950
sull’interpretazione dell’art. 42-bis del T.U. espropriazione in presenza di
un giudicato restitutorio del g.o.);
o) sui limiti alla conversione d’ufficio della
domanda risarcitoria in azione contro il silenzio per l’adozione del
provvedimento ex art. 42-bis, si vedano i principi in materia di conversione
dell’azione di annullamento in azione risarcitoria affermati da Cons. Stato,
Ad. plen., 13.04.2015, n. 4 (in Foro it., 2015, III, 265, con nota di TRAVI;
Urbanistica e appalti, 2015, 917, con nota di MANGANARO, MAZZA LABOCCETTA;
Giur. it., 2015, 1693, con nota di COMPORTI; Guida al dir., 2015, fasc. 20,
92, con nota di MASARACCHIA; Foro amm., 2015, 2206 (m), con nota di
SILVESTRI; Corriere giur., 2015, 1596, con nota di SCOCA; Dir. proc. amm.,
2016, 173, con nota di TURRONI), secondo cui posto che il processo
amministrativo è soggetto al principio della domanda, il giudice
amministrativo non può emettere d'ufficio una pronuncia di risarcimento del
danno, in presenza di una domanda di annullamento della parte ricorrente; si
veda altresì Cons. Stato, Ad. plen., 27.04.2015, n. 5 (in Foro it., 2015,
III, 265, con nota di TRAVI; Urbanistica e appalti, 2015, 1177, con nota di
VAIANO; Riv. neldiritto, 2015, 2084, con nota di COLASCILLA NARDUCCI; Riv.
dir. proc., 2015, 1256, con nota di FANELLI; Giur. it., 2015, 2192, con nota
di FOLLIERI; Dir. proc. amm., 2016, 205, con nota di PERFETTI, TROPEA; Dir.
proc. amm., 2016, 830, con nota di BERTONAZZI);
p) nel senso della improcedibilità della domanda
di risarcimento del danno (per equivalente) o di restituzione, se
sopravviene nel corso del giudizio il provvedimento ex art. 42-bis, è
unanime la giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 25.05.2018, n. 3148;
Cons. Stato, sez. IV, 09.05.2018, n. 2765; Cass. civ., sez. I, 31.05.2016,
n. 11258; sul punto si rinvia al § 9 della citata rassegna monotematica);
q) sulla immanenza del principio dispositivo che
caratterizza la giurisdizione amministrativa di legittimità, dovendosi
escludere per tale via suggestive ricostruzioni incentrate sull’indole
oggettiva di tale giurisdizione, cfr. da ultimo
Corte cost., 13.12.2019, n. 271 (oggetto della
News US n. 2 dell’08.01.2020 cui si rinvia per ogni
approfondimento sul punto)
(Consiglio di Stato, Adunanza
plenaria,
sentenza 20.01.2020 n. 2 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
presunta formazione del silenzio-assenso del richiesto permesso di
costruire, secondo un granitico orientamento della giurisprudenza
amministrativa, il provvedimento tacito non si può ritenere formato se
mancano i presupposti per la realizzazione dell’intervento edilizio, in
quanto l’eventuale inerzia della p.a. non può consentire al richiedente di
ottenere un’utilità che gli sarebbe invece preclusa da un provvedimento
espresso.
---------------
Considerato che:
- con il ricorso in esame la società istante ha impugnato il provvedimento
indicato in epigrafe –di cui ha chiesto l’annullamento, vinte le spese–
con il quale il Comune di Agrigento ha respinto l’istanza di permesso di
costruire presentata dalla predetta per la costruzione di un complesso
commerciale polivalente, in via ..., in
Agrigento, nel lotto individuato in catasto al foglio 165, particella 1318
del C.T.;
- ha dedotto avverso tale atto le censure di:
1) Violazione e falsa
applicazione dell’art. 20, comma 8, T.U. 06.06.2001 n. 380 e dell’art. 20,
comma 3, della legge n. 241 del 1990;
2) Violazione degli artt. 17, 3° comma,
e 18 della Legge n. 765/1967 (c.d. Legge Ponte, che ha integrato l’art. 41-quinques legge n. 1150/1942) – Violazione degli artt. 1, 5 e 7 del D.M.
02/04/1968 n. 1444 – Violazione e falsa applicazione delle norme Tecniche di
Attuazione (N.T.A.) del vigente PRG di Agrigento - Falsa applicazione del
principio giurisprudenziale sancito dal Consiglio di Stato con la
sentenza n. 2215/2019 – Difetto di motivazione;
- con lo stesso mezzo ha chiesto il risarcimento del danno asseritamente
subito a causa dell’illegittimità del provvedimento negativo, nonché per il
ritardo nell’adozione del provvedimento finale;
- si è costituito in giudizio il Comune di Agrigento, chiedendo il rigetto
del ricorso, in quanto infondato; con replica di parte ricorrente;
- alla camera di consiglio del giorno 13.01.2020, presenti i difensori
delle parti come da verbale, il Presidente del Collegio ha dato avviso della
possibilità di definizione del giudizio con sentenza in forma semplificata;
la difesa di parte ricorrente ha insistito per l’accoglimento dell’istanza
istruttoria e la causa è stata posta in decisione;
...
Ritenuto che il ricorso non è fondato;
Ritenuto in particolare che:
- con riferimento al primo motivo, sulla presunta formazione del silenzio-assenso, secondo un granitico orientamento della giurisprudenza
amministrativa, il provvedimento tacito non si può ritenere formato se
mancano i presupposti per la realizzazione dell’intervento edilizio, in
quanto l’eventuale inerzia della p.a. non può consentire al richiedente di
ottenere un’utilità che gli sarebbe invece preclusa da un provvedimento
espresso (Consiglio di Stato Sez. II, 29.07.2019, n. 5333; TAR
Calabria, Catanzaro, Sez. II, 16.10.2019, n. 1743; 30.05.2019, n.
1106; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 02.07.2018, n. 1640; TAR
Puglia, Bari, Sez. III, 12.05.2017, n. 492; TAR Campania, Napoli, 29.02.2016, n. 110; TAR Puglia, Lecce, 19.01.2015,
n. 3342)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 17.01.2020 n. 133 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile
di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata
non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento
del rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non
solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la
cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione
all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più superficie
impegnata dalla costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di
cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere
su una parte del lotto catastalmente divisa e dovendosi considerare
irrilevanti i frazionamenti delle proprietà private medio tempore
intervenuti.
Al riguardo, risulta irrilevante la mancanza di un formale atto di
asservimento del precedente fabbricato.
---------------
Considerato che:
- con il ricorso in esame la società istante ha impugnato il provvedimento
indicato in epigrafe –di cui ha chiesto l’annullamento, vinte le spese–
con il quale il Comune di Agrigento ha respinto l’istanza di permesso di
costruire presentata dalla predetta per la costruzione di un complesso
commerciale polivalente, in via ..., in
Agrigento, nel lotto individuato in catasto al foglio 165, particella 1318
del C.T.;
- ha dedotto avverso tale atto le censure di:
1) Violazione e falsa
applicazione dell’art. 20, comma 8, T.U. 06.06.2001 n. 380 e dell’art. 20,
comma 3, della legge n. 241 del 1990;
2) Violazione degli artt. 17, 3° comma,
e 18 della Legge n. 765/1967 (c.d. Legge Ponte, che ha integrato l’art. 41-quinques legge n. 1150/1942) – Violazione degli artt. 1, 5 e 7 del D.M.
02/04/1968 n. 1444 – Violazione e falsa applicazione delle norme Tecniche di
Attuazione (N.T.A.) del vigente PRG di Agrigento - Falsa applicazione del
principio giurisprudenziale sancito dal Consiglio di Stato con la
sentenza n. 2215/2019 – Difetto di motivazione;
- con lo stesso mezzo ha chiesto il risarcimento del danno asseritamente
subito a causa dell’illegittimità del provvedimento negativo, nonché per il
ritardo nell’adozione del provvedimento finale;
- si è costituito in giudizio il Comune di Agrigento, chiedendo il rigetto
del ricorso, in quanto infondato; con replica di parte ricorrente;
- alla camera di consiglio del giorno 13.01.2020, presenti i difensori
delle parti come da verbale, il Presidente del Collegio ha dato avviso della
possibilità di definizione del giudizio con sentenza in forma semplificata;
la difesa di parte ricorrente ha insistito per l’accoglimento dell’istanza
istruttoria e la causa è stata posta in decisione;
...
Ritenuto che il ricorso non è fondato;
...
- con riguardo al secondo motivo, la motivazione del rigetto si pone in
linea con il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui
“…un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di
ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non
esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non
solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la
cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione
all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più superficie
impegnata dalla costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di
cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere
su una parte del lotto catastalmente divisa e dovendosi considerare
irrilevanti i frazionamenti delle proprietà private medio tempore
intervenuti (v. Cons. Stato, Sez. III, parere 28.04.2009, n. 965/2009; Cons. Stato, IV, 29.01.2008, n. 255; Cons. Stato, Sez. V, 12.07.2004, n. 5039);…” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 26.01.2018, n.
545; nello stesso senso: Cons. Stato, VI, 03.04.2019, n. 2215; IV, 07.08.2017, n. 3949; 22.05.2012, n. 2941, che ritiene irrilevante la
mancanza di un formale atto di asservimento del precedente fabbricato;
Adunanza Plenaria n. 3/2009, citata da Consiglio di Stato n. 545/2018);
- nel caso in esame, dalla documentazione in atti si evince che nell’area
contraddistinta oggi come particella 1318 (foglio 165) –derivante dal
frazionamento dell’originaria particella 29, lotto unico al momento della
costruzione dell’albergo realizzatovi- è stato realizzato un parcheggio a
servizio dell’albergo (v. licenza di costruzione n. 1029, in atti), per il
quale, del resto, la ricorrente ha chiesto l’autorizzazione allo spostamento
di tale vincolo all’interno della particella 29 (quale oggi risultante dal
frazionamento successivo); e in tale area, nella quale è presente un
cancello con strada interna che conduce all’albergo, vi insiste un boschetto
e una piscina aperta al pubblico (v. osservazioni presentate dalla
ricorrente al Comune; v. anche provvedimento impugnato);
- il lotto originario è stato, pertanto, unitariamente utilizzato, con
conseguente irrilevanza del successivo frazionamento del lotto; e non è
contestato che, in base ai parametri edilizi vigenti, il volume della
struttura esistente (l’albergo) non consentirebbe la realizzazione del
volume dell’immobile oggetto dell’istanza (complesso commerciale
polivalente);
- la domanda di annullamento deve, pertanto, essere respinta
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 17.01.2020 n. 133 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Per la risarcibilità del danno da ritardo, secondo una giurisprudenza consolidata,
oltre alla constatazione della violazione dei termini del procedimento,
l’accertamento che l’inosservanza è imputabile a dolo o colpa
dell’amministrazione medesima, che il danno è conseguenza diretta del
ritardo, si richiede anche una valutazione sulla spettanza del bene della
vita all’interessato, ossia che il risarcimento del danno da ritardo,
relativo ad un interesse pretensivo, non sia avulso da una valutazione
positiva sul titolo del privato al rilascio del provvedimento.
---------------
Ritenuto, quanto alla domanda risarcitoria, che:
- dalla reiezione della domanda di annullamento consegue il rigetto della
domanda di risarcimento del danno, attesa la ritenuta legittimità del
diniego impugnato;
- va, altresì, respinta la domanda di risarcimento del danno da ritardo, in
ordine alla quale –in disparte il peculiare evolversi, in concreto,
dell’iter amministrativo sull’istanza della ricorrente– va richiamato il
consolidato orientamento, anche del Giudice di appello, secondo cui “…Per la risarcibilità del danno da ritardo, secondo una giurisprudenza consolidata,
oltre alla constatazione della violazione dei termini del procedimento,
l’accertamento che l’inosservanza è imputabile a dolo o colpa
dell’amministrazione medesima, che il danno è conseguenza diretta del
ritardo, si richiede anche una valutazione sulla spettanza del bene della
vita all’interessato, ossia che il risarcimento del danno da ritardo,
relativo ad un interesse pretensivo, non sia avulso da una valutazione
positiva sul titolo del privato al rilascio del provvedimento (Cons. St.
sez. IV, n. 4580/2016)…” (cfr. C.G.A., 10.09.2018, n. 490; v. anche
Consiglio di Stato, Sez. V, 12.11.2018, n. 6342; TAR Sicilia, Sez.
III, 16.10.2018, n. 2113)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 17.01.2020 n. 133 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuto di atti d'ufficio per il sindaco che non si occupa dello
smaltimento dell'amianto.
Rifiuto di atti d'ufficio per il sindaco pro-tempore che non si attiva per
far smaltire le lastre di eternit accatastate alla rinfusa sul terreno di un
privato.
Lo ha confermato la Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con
la
sentenza 16.01.2020 n. 1657 in linea con i
precedenti gradi di giudizio.
La vicenda si incardina sulla decisone della Corte d'appello di Milano che
aveva ribadito la responsabilità, affermata in primo grado dal Tribunale di
Pavia, in ordine al reato di rifiuto di atti d'ufficio (articolo 328 del
codice penale) per il sindaco pro tempore di un Comune.
L'uomo, a fronte di reiterate denunce di organi pubblici nonché di privati
cittadini, in un arco temporale di alcuni anni (maggio 2010-marzo 2014),
aveva omesso di assumere qualunque iniziativa atta a imporre al proprietario
dell'area lo smaltimento del materiale di amianto accatastato alla rinfusa e
all'aperto su un terreno. Iniziativa, invece, immediatamente assunta dal
sindaco a lui subentrato con un'ordinanza contingibile e urgente che aveva
risolto il problema ed evitato il pericolo di contaminazione delle aree
limitrofe.
Contro questa sentenza, il sindaco imputato ha proposto ricorso per
cassazione. La Suprema corte ha confermato quanto deciso nei precedenti
gradi di giudizio. Il reato di rifiuto, esplicito 0 implicito, di un atto
d'ufficio, imposto da una delle ragioni espressamente indicate dalla legge
(giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico, igiene e sanità), può
manifestarsi come reato continuato quando -come si legge nella sentenza- «a
fronte di formali sollecitazioni a agire rivolte al pubblico ufficiale e
rimaste senta esito, la situazione potenzialmente pericolosa continui a
esplicare i suoi effetti negativi e l'adozione dell'atto dovuto sia
suscettibile di farla cessare».
La precisazione dei giudici è, poi, che nella fattispecie considerata, il
reato si è consumato ogni volta che l'imputato ha rifiutato di intervenire a
fronte di tutti i solleciti ricevuti che rendevano indifferibile l'adozione
dell'atto d'ufficio (nella specie, un'ordinanza contingibile e urgente)
imposto da esigenze di protezione sanitaria (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
17.01.2020).
---------------
MASSIMA
3. Possono ora essere esaminati congiuntamente il secondo, il
terzo e parzialmente il quarto motivo di ricorso che, al di là
dell'impropria individuazione dei bersagli oggetto di censura, investono
tutti la questione centrale del presente giudizio e vale a dire la struttura
dell'illecito penale contestato al ricorrente ai sensi dell'art. 328 cod.
pen.
Dalla lettura coordinata della sentenza impugnata e degli atti delle parti
private si ricava che a seguito del rigetto dell'iniziale richiesta di
archiviazione e della imposizione coattiva di procedere ex art. 409, comma
5, cod. proc. pen., il PM ha configurato il delitto di cui all'art. 328 cod.
pen. come reato permanente a partire dalla prima segnalazione dell'esistenza
del problema sanitario (l'abbandono a cielo aperto di rifiuti contaminati da
amianto in un'area privata) da parte del Corpo Forestale dello Stato nel
maggio 2010 fino al marzo 2014, epoca in cui ancora una volta lo stesso
Corpo segnalava la persistenza della situazione pericolosa.
Nella motivazione della sentenza impugnata, la Corte d'Appello dà conto di
sei inviti formali rivolti al Sindaco, il primo il 21/05/2010 e l'ultimo il
21/03/2014 da parte di organi pubblici o da privati cittadini, tra cui la
parte offesa Gi.Al. nonché lo stesso proprietario dell'area su cui era stata
riscontrata la presenza dei rifiuti (Gu.Gi.), tutti rimasti senza effetto,
tanto che la vicenda avrebbe trovato soluzione solo con l'insediamento del
nuovo Sindaco che, non appena insediato, emanava ordinanza urgente, tra
l'altro prontamente ottemperata dall'interessato, di provvedere allo
smaltimento controllato dei rifiuti in questione.
Ciò premesso riguardo alla ricostruzione della fattispecie concreta, vanno
svolte le seguenti considerazioni in diritto.
Risultano infondate le doglianze concernenti la presunta genericità ed
imprecisione del capo d'imputazione nonché la violazione del principio di
correlazione tra accusa e sentenza.
Come anticipato, la mancata indicazione nel capo d'imputazione delle
specifiche sollecitazioni a dispetto delle quali il ricorrente omise di
adottare atti del suo ufficio non ha inciso affatto sul nucleo fondamentale
dell'accusa, rappresentata per l'appunto dalla mancata adozione di
provvedimenti al configurarsi di quella particolare situazione di fatto da
cui scaturiva l'obbligo giuridico di agire.
La giurisprudenza di questa Corte di legittimità, infatti,
ha più volte affermato il principio che il delitto di cui all'art. 328,
comma 1, cod. pen. è integrato, ogni qualvolta si configuri una situazione
di fatto che qualifichi l'atto omesso come dovuto
(v. oltre per la giurisprudenza).
Risulta, inoltre, infondata anche la doglianza relativa alla mancata
correlazione tra accusa e sentenza, dal momento che l'imputazione è rimasta
anche formalmente inalterata e le specifiche occasioni prese in
considerazione dalla Corte di merito per valutare la sussistenza
dell'omissione penalmente rilevante (pag. 7 sent.) erano tutte a conoscenza
dell'imputato fin dalla fase successiva all'articolazione formale
dell'accusa e da cui ha potuto ampiamente difendersi.
E' noto, infatti, che una o meglio la ragione fondamentale che sostanzia il
principio di cui all'art. 521 cod. proc. pen. è quella di consentire
all'imputato il pieno dispiegarsi del suo diritto a difendersi, che sarebbe
vanificato ove la condanna intervenisse per un fatto non contestato e su cui
non si è instaurato contraddittorio nel corso del giudizio (ex pluribus
v. Sez. 2, sent. n. 11459 del 10/03/2015, Tribuzio, Rv. 263306; Sez. 3, sent.
n. 15655 del 27/02/2008, Fontanesi, Rv. 239866; Sez. 6, sent. n. 34879 del
10/01/2007, Sartori e altri, Rv. 237415).
Come parimenti anticipato, il tema che viene veramente in
rilievo riguarda la struttura del reato di cui all'art. 328, comma 1 cod.
pen. di rifiuto di atti d'ufficio.
La giurisprudenza di questa Corte di Cassazione è ferma nel
ritenerlo reato a consumazione istantanea
(Sez. 6, sent. n. 43903 del 13/07/2018, Mango, Rv. 274574; Sez. 6, sent. n.
27044 del 19/02/2008, Mascia, Rv. 240979; Sez. 6, sent. n. 35837 del
26/04/2007, Civisca, Rv. 237706; Sez. 6, sent. n. 12238 del 27/01/2004, PG
in proc. Bruno ed altri, Rv. 228277), che può, tuttavia,
palesarsi sotto forma di rifiuto implicito ovvero di persistente inerzia
omissiva (Sez. 6, sent. n. 47531
del 20/11/2012, Cambria, Rv. 254039; Sez. 6, n. 10051 del 20/11/2012, dep.
2013, Nolè, Rv. 255717; Sez. 6, sent. n. 7766 del 09/12/2002, dep. 2003, PM
in proc. Masi, Rv. 223955) a fronte di un'urgenza
sostanziale (Sez. 4, sent. n.
17069 del 16/02/2012, Ranasinghe Arachchige Samudri e altri, Rv. 253067)
o di una situazione che qualifichi l'atto omesso come dovuto
(Sez. 6, n. 33857/2014 cit.; Sez. 6, n. 13519 del 29/01/2009, Gardali e
altri, Rv. 243684).
Non v'è dubbio, tuttavia, che l'affermazione dell'eguale rilevanza
penalistica della persistente inerzia omissiva rispetto al rifiuto formale
può suscitare incertezze interpretative circa la struttura dell'illecito
penale, con la possibilità per taluni di consideralo reato eventualmente
permanente, atteso che solo la relativamente recente Sez. 6 sent. n.
43903/2018 cit. ha espressamente stabilito che esso rimane istantaneo anche
ove si palesi sotto forma di inerzia omissiva.
Questa è verosimilmente una delle ragioni che ha indotto il Pubblico
Ministero, a fronte dell'ordine di formulazione coattiva dell'imputazione da
parte del GIP, a contestare il reato come permanente, ferma restando, però,
la primaria esigenza di fotografare con l'imputazione la peculiare
fattispecie emersa dalle indagini.
Tanto premesso, il Collegio non intende discostarsi dalla
concezione e dalla affermazione giurisprudenziale tradizionali che quello di
cui all'art. 328, comma 1, cod. pen. costituisce reato di natura istantanea,
ma deve confrontarsi con la fattispecie in esame che ha visto il pubblico
ufficiale reiteratamente e formalmente sollecitato ad adottare un atto del
proprio ufficio, da intendersi come atto dovuto per le più volte segnalate
esigenze di tutela sanitaria.
Pur essendovi, dunque, la possibilità di rifarsi a specifici precedenti
giurisprudenziali circa la configurabilità del reato in caso di mancata
adozione da parte del Sindaco di atti del suo ufficio in situazioni <potenzialmente
pregiudizievoli per l'igiene e la salute pubblica> (Sez. 6, sent. n.
12147 del 12/02/2009, Sodano, Rv. 242937; Sez. 6, n. 13519/2009, Gardali e
altri cit.), sembra opportuno affermare con nettezza che
nella fattispecie considerata il reato si è consumato ogni volta che
l'imputato ha rifiutato di intervenire a fronte di formali sollecitazioni
prospettanti la sussistenza di quella particolare situazione concreta (la
presenza di rifiuti di amianto accatastati a cielo aperto in prossimità di
abitazioni limitrofe) che rendeva indifferibile l'adozione dell'atto
d'ufficio (nella specie: ordinanza contingibile e urgente) imposto dalle più
volte ricordate esigenze di protezione sanitaria.
Conclusivamente il reato istantaneo di rifiuto, esplicito o
implicito, di un atto dell'ufficio, imposto da una delle ragioni
espressamente indicate dalla legge (giustizia, sicurezza pubblica, ordine
pubblico, igiene e sanità), può manifestarsi come reato continuato (concorso
materiale omogeneo) quando, a fronte di formali sollecitazioni ad agire
rivolti al pubblico ufficiale rimaste senza esito, la situazione
potenzialmente pericolosa continui ad esplicare i suoi effetti negativi e
l'adozione dell'atto dovuto sia suscettibile di farla cessare.
Alla luce delle precedenti considerazioni, deve escludersi che la Corte
territoriale abbia ravvisato la sussistenza di una pluralità di reati,
limitandosi unicamente a precisare le modalità di manifestazione del reato.
La qualificazione come reato continuato comporterebbe a rigore, ai sensi
dello art. 158, comma 1, cod. pen., la necessità di dichiararne la
prescrizione in relazione alle condotte omissive manifestatesi prima del
12/05/2012 (termine di prescrizione massima: la data odierna del 12/11/2019)
e concretamente al rifiuto implicito maturato dopo la prima segnalazione
dell'abbandono all'aperto delle lastre di eternit da parte del Corpo
Forestale dello Stato del 21/05/2010, ma l'irrogazione della pena minima di
quattro mesi di reclusione rende priva di effetto sul piano sanzionatorio
tale pur doverosa precisazione. |
URBANISTICA: Il
rapporto di vicinitas, ossia di stabile collegamento con l'area interessata
dall'intervento contestato, è idoneo a fondare tanto la legittimazione
(ossia la titolarità di una posizione giuridica qualificata e differenziata
rispetto a quella di quisque de populo) quanto l'interesse a ricorrere
(ossia la sussistenza di una lesione concreta e attuale alla detta
situazione giuridica per effetto del provvedimento amministrativo
impugnato), solo nella ipotesi di impugnazione di titoli edilizi, mentre nel
caso di impugnazione di strumenti urbanistici, anche particolareggiati, o di
loro varianti, il semplice rapporto di vicinitas vale al più a dimostrare la
sussistenza di una generica legittimazione ma non è, invece, sufficiente a
fondare anche l'interesse a ricorrere, occorrendo l'allegazione e la prova
della insorgenza di uno specifico e concreto pregiudizio a carico dei suoli
in proprietà della parte ricorrente per effetto degli atti di pianificazione
che siano impugnati, dai quali, per definizione, quei suoli non sono incisi
direttamente.
---------------
Preliminarmente occorre esaminare le eccezioni processuali formulate dalla
Provincia autonoma e dalla controinteressato G.A.. Le parti eccepiscono
l’inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione ed interesse ad
agire, non avendo l’istante dimostrato –al di là del rapporto della
vicinitas– di patire uno specifico e concreto pregiudizio dagli atti
impugnati.
...
L’eccezione è fondata.
Il ricorrente prospetta di essere leso dalla modifica PUC in quanto la zona
individuata quale nuova zona produttiva D2 è soggetta a frequenti
inondazioni e –come riportato a pag. 5 del ricorso- “per ridurre la
propria esposizione al pericolo, chi costruisce nella zona produttiva
dovrebbe alzare il livello del proprio terreno scaricando il rischio suoi
terreni circostanti fra cui quello dell’odierno ricorrente”.
Secondo costante giurisprudenza il rapporto di vicinitas, ossia di
stabile collegamento con l'area interessata dall'intervento contestato, è
idoneo a fondare tanto la legittimazione (ossia la titolarità di una
posizione giuridica qualificata e differenziata rispetto a quella di
quisque de populo) quanto l'interesse a ricorrere (ossia la sussistenza
di una lesione concreta e attuale alla detta situazione giuridica per
effetto del provvedimento amministrativo impugnato), solo nella ipotesi di
impugnazione di titoli edilizi, mentre nel caso di impugnazione di strumenti
urbanistici, anche particolareggiati, o di loro varianti, il semplice
rapporto di vicinitas vale al più a dimostrare la sussistenza di una
generica legittimazione ma non è, invece, sufficiente a fondare anche
l'interesse a ricorrere, occorrendo l'allegazione e la prova della
insorgenza di uno specifico e concreto pregiudizio a carico dei suoli in
proprietà della parte ricorrente per effetto degli atti di pianificazione
che siano impugnati, dai quali, per definizione, quei suoli non sono incisi
direttamente (Cons. Stato n. 6938/2019)
(TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano,
sentenza 16.01.2020 n. 16 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
cambio della destinazione d'uso (con opere) da chiesa sconsacrata ad
immobile direzionale-bancario sostanzia un intervento di ristrutturazione
edilizia.
In via generale <<ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett.
c), T.U. Edilizia, le opere di ristrutturazione edilizia necessitano di
permesso di costruire se consistenti in interventi che portino ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che
comportino modifiche del volume, dei prospetti ovvero che, limitatamente
agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della
destinazione d'uso (ristrutturazione edilizia), anche se di dimensioni
modeste. In via residuale, la SCIA assiste, invece, i restanti interventi di
ristrutturazione c.d. leggera (compresi gli interventi di demolizione e
ricostruzione che non rispettino la sagoma dell'edificio preesistente)>>.
Più precisamente, <<gli interventi edilizi che alterino l'originaria
consistenza fisica di un immobile e comportino l'inserimento di nuovi
impianti o la modifica e ridistribuzione dei volumi, non possono
configurarsi né come manutenzione straordinaria né come restauro o
risanamento conservativo, ma rientrano nell'ambito della ristrutturazione
edilizia. Non può essere ascritto, pertanto, al restauro o risanamento
conservativo un intervento edilizio implicante un incremento di superficie o
un mutamento di sagome o di destinazione d'uso che devono essere, in ogni
caso, preceduti dall'acquisizione del relativo titolo edilizio, ravvisabile
nel c.d. permesso di costruire>>.
In questo stesso senso, <<per la normativa edilizia [art. 3 comma 1, lettere
a) e c) del T.U. n. 380 del 2001, in combinato disposto con l'art. 10, comma
1, lett. c) e con l'art. 23-ter del medesimo T.U.], le opere interne e gli
interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione
straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del
preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qualvolta comportino
mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome>>.
---------------
La modificazione della destinazione d'uso e la trasformazione di una chiesa
sconsacrata in una banca, con l'esecuzione di lavori edilizi, necessita del
permesso di costruire poiché trattasi non di restauro o risanamento
conservativo ma di ristrutturazione edilizia.
---------------
In via generale <<ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), T.U.
Edilizia, le opere di ristrutturazione edilizia necessitano di permesso di
costruire se consistenti in interventi che portino ad un organismo edilizio
in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche del
volume, dei prospetti ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle
zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso
(ristrutturazione edilizia), anche se di dimensioni modeste. In via
residuale, la SCIA assiste, invece, i restanti interventi di
ristrutturazione c.d. leggera (compresi gli interventi di demolizione e
ricostruzione che non rispettino la sagoma dell'edificio preesistente)>>
(TAR Campania, sez. IV, 05/02/2019, n. 6209).
Più precisamente, <<gli interventi edilizi che alterino l'originaria
consistenza fisica di un immobile e comportino l'inserimento di nuovi
impianti o la modifica e ridistribuzione dei volumi, non possono
configurarsi né come manutenzione straordinaria né come restauro o
risanamento conservativo, ma rientrano nell'ambito della ristrutturazione
edilizia. Non può essere ascritto, pertanto, al restauro o risanamento
conservativo un intervento edilizio implicante un incremento di superficie o
un mutamento di sagome o di destinazione d'uso che devono essere, in ogni
caso, preceduti dall'acquisizione del relativo titolo edilizio, ravvisabile
nel c.d. permesso di costruire>> (TAR Campania, sez. III, 03/04/2018, n.
2141).
In questo stesso senso, <<per la normativa edilizia [art. 3 comma 1,
lettere a) e c) del T.U. n. 380 del 2001, in combinato disposto con l'art.
10, comma 1, lett. c) e con l'art. 23-ter del medesimo T.U.], le opere
interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli
di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo,
necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qualvolta
comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente
autonome>> (TAR Lazio, sez. II, 04/04/2017, n. 4225).
Applicando i principi giurisprudenziali predetti alla fattispecie in esame,
quindi, l’intervento edilizio per il quale è causa rientra certamente tra le
ipotesi di cui all’art. 10, comma 1, lett. c), trattandosi di modificazione
di destinazione dell’immobile sito in zona A (centro storico di Verona),
attuata mediante opere che, per vero, non possono nemmeno qualificarsi “minime”,
non essendo tali né la realizzazione di un servizio igienico per disabili
prima inesistente, né l’installazione degli impianti, opere queste
assolutamente necessarie per consentire l’utile modificazione della
destinazione dell’immobile che in tal modo è venuto ad assumere una “struttura
funzionale” del tutto diversa, determinando, peraltro, come si dirà più
avanti, un evidente aumento del carico urbanistico.
Con riferimento, in particolare, alla modificazione della destinazione
d’uso, nel caso di specie tale presupposto di fatto è evidente se solo si
considera che l’immobile in esame era un edificio di culto e che solo in
seguito alla “sconsacrazione” è divenuto suscettibile di diverso
utilizzo: si tratta di un caso estremo di passaggio di categoria funzionale,
ricorrendo l’ipotesi di un edificio che, prima della sconsacrazione, aveva
una funzione “pubblica”, quale luogo di culto, divenuto, ora, sede di
un’attività privata con funzione direzionale-bancaria.
Ulteriore argomento ostativo alla qualificazione dell’opera in termini di “restauro
conservativo” come asserito in giudizio da parte ricorrente è dato dal
fatto che solo a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 65-bis, d.l. n. 50
del 2017, convertito in l. 21.06.2017, n. 96, l’art. 3, comma 1, lettera c),
d.p.r. 06.06.2001, n. 380, è stato modificato nel senso che all’espressione
<<ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili>> è stata
sostituita quella secondo la quale <<ne consentano anche il mutamento
delle destinazioni d'uso purché con tali elementi compatibili, nonché
conformi a quelle previste dallo strumento urbanistico generale e dai
relativi piani attuativi>>.
In tal senso, solo con la predetta modifica legislativa è possibile porsi il
problema se il mutamento di destinazione d’uso con opere non integri
un’ipotesi di ristrutturazione edilizia ex art. 10, comma 1, lett. c),
laddove siano rispettati i presupposti indicati dalla norma così “novellata”
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 15.01.2020 n. 40 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere di scavo in area vincolata – Sbancamento e
livellamento del terreno per uso non agricolo –
Autorizzazione paesaggistica – Permesso di costruire –
Necessità – Art. 181 d.lgs. n. 42/2004 – Artt. 3, 10 44,
D.P.R. n. 380/2001.
In tema di reati urbanistici, le opere
di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno,
finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto
incidono sul tessuto urbanistico del territorio, sono
assoggettate a titolo abilitativo edilizio.
Così come per la realizzazione di una stradina di accesso al
fondo, è del pari evidente la necessità del permesso di
costruire, essendo la costruzione di reti viarie, sia pur in
terra battuta, riconducibile agli interventi di
urbanizzazione (art. 3, comma 1, lett. e.2, T.U.E.) ovvero
infrastrutturali che comportano la trasformazione in via
permanente di suolo inedificato (art. 3, comma 1, lett. e.3,
T.U.E.), come pure si è ritenuto nel caso di interventi
finalizzati a realizzare un piazzale mediante apporto di
terreno e materiale inerte e successivo sbancamento e
livellamento del terreno, in quanto tale attività determina
una modificazione permanente dello stato materiale e della
conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso
da quello che gli è proprio.
Del resto, il permesso di costruire (come pure
l’autorizzazione paesaggistica, se si tratti di area
vincolata) è necessario anche nel caso di mera modificazione
o allargamento di una strada preesistente
(Cass. Sez. 3, n. 26193 del 28/03/2019, Vullo).
...
Interventi in zone protette e/o vincolate – Titoli
abilitativi – Autonomia dei profili paesaggistici ed
ambientali da quelli urbanistici – Interventi esclusi
dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura
autorizzatoria semplificata – Individuazione – Evidente
insignificante impatto paesaggistico – D.P.R. n. 31/2017 –
Art. 149 d.lgs. n. 42/2004.
Le previsioni contenute nel d.P.R.
13.02.2017, n. 31 (“Regolamento recante individuazione degli
interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o
sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata”), avendo
natura regolamentare rispetto alle disposizione di legge di
cui al d.lgs. 42/2004, individuano, tra l’altro, interventi
che non richiedono la necessità dell’autorizzazione
paesaggistica, o per loro riconducibilità alle tre categorie
delineate dall’art. 149 d.lgs. 42/2004, ovvero perché, già
in astratto, ne è evidente l’insignificante impatto
paesaggistico.
Tenendo, comunque, presente che la realizzazione di
interventi in zone protette e/o vincolate deve di regola
essere sottoposta al preventivo rilascio di distinti
provvedimenti, ciascuno dei quali segue regole proprie, vale
a dire il permesso di costruire (o altro titolo edilizio)
disciplinato dal T.U. delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia, d.P.R. 06.06.2001 n. 380
e l’autorizzazione paesaggistica di cui al d.lgs. 22.01.2004
n. 42 (eventualmente, se ne ricorrano le condizioni, il
nulla osta dell’ente parco, di cui alla L. 06.12.1991 n.
394), stante l’autonomia dei profili paesaggistici ed
ambientali da quelli urbanistici (Corte
di Cassazione, Sez. III poenale,
sentenza 14.01.2020 n. 1053 - link a www.ambientediritto.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
L'azione ex art. 53, comma 7, d.lgs. n. 165 del
2001 promossa dal Procuratore della Corte dei Conti nei confronti
di dipendente della P.A., che abbia omesso di versare alla propria
Amministrazione i corrispettivi percepiti nello svolgimento di un
incarico non autorizzato, rimane attratta alla giurisdizione del giudice
contabile, anche se la percezione dei compensi si è avuta in epoca
precedente all'introduzione del comma 7-bis del medesimo art. 53,
giacché tale norma non ha portata innovativa, vertendosi in ipotesi di
responsabilità erariale, che il legislatore ha tipizzato non solo nella
condotta ma altresì annettendo valenza sanzionatoria alla
predeterminazione legale del danno, al fine di tutelare la compatibilità
dell'incarico extraistituzionale in termini di conflitto di interesse,
dovendo privilegiarsi il proficuo svolgimento di quello principale e
l'adeguata destinazione di energie lavorative al rapporto pubblico.
L'obbligo di versamento ex art. 53, comma 7, d.lgs. n. 165 del
2001 si configura dunque come una particolare sanzione ex lege,
volta a rafforzare la fedeltà del pubblico dipendente. E la giurisdizione
contabile è ravvisabile solo se alla violazione del dovere di fedeltà o
all'omesso versamento della somma pari al compenso indebitamente
percepito dal dipendente si accompagnino specifici profili di danno.
Altresì, allorquando non sia la P.A. ad agire per il recupero dei compensi
erogati al dipendente pubblico per incarichi espletati in assenza di
autorizzazione e per fatti antecedenti alla introduzione del comma 7-bis dell'art. 53 ma l'azione nei confronti di soggetto legato alla P.A. da
un rapporto d'impiego o di servizio venga promossa dal Procuratore
contabile, questa trova giustificazione nella violazione del dovere di
chiedere l'autorizzazione allo svolgimento degli incarichi
extralavorativi e del conseguente obbligo di riversare
all'Amministrazione i compensi ricevuti, trattandosi di prescrizioni -come
detto- volte a garantire il corretto e proficuo svolgimento delle
mansioni attraverso il previo controllo dell'Amministrazione sulla
possibilità per il dipendente d'impegnarsi in un'ulteriore attività senza
pregiudizio dei compiti d'istituto.
Ed ancora, la disposizione di cui all'art. 53,
comma 7-bis, d.lgs. n. 165 del 2001 (introdotta dalla L. n. 190 del
2012) non riveste carattere innovativo ma si pone in rapporto di
continuità con l'orientamento giurisprudenziale in precedenza venuto
a delinearsi, essendosi dal legislatore attribuita natura di fonte legale
alla precedente regola di diritto effettivo di fonte giurisprudenziale.
A tale stregua, l'azione di responsabilità erariale non interferisce
con l'eventuale azione di responsabilità amministrativa della P.A.
contro il soggetto tenuto alla retribuzione, l'azione ex art. 53, comma
7, d.lgs. n. 165 del 2001 ponendosi rispetto ad essa in termini di
indefettibile alternatività.
Non si è d'altro canto mancato di sottolineare che laddove la
P.A. di appartenenza del dipendente percipiente il compenso in difetto
di autorizzazione non si attivi (anche) in via giudiziale per far valere
l'inadempimento degli obblighi del rapporto di lavoro, e il Procuratore
contabile abbia viceversa promosso azione di responsabilità contabile
in relazione alla tipizzata fattispecie legale ex art. 53, commi 7 e 7-bis, d.lgs. n. 165 del 2001, alla detta P.A. rimane precluso
promuovere la detta azione, essendo da escludere -stante il divieto
del bis in idem- una duplicità di azioni attivate contestualmente che,
seppure con la specificità di ciascuna di esse propria, siano volte a
conseguire, avanti al giudice munito di giurisdizione, lo stesso
identico petitum (predeterminato dal legislatore) in danno del
medesimo soggetto obbligato in base ad un'unica fonte (quella
legale), e cioè i compensi indebitamente percepiti in difetto di
autorizzazione allo svolgimento dell'incarico che li ha determinati e
non riversati, al fine di effettivamente destinarli al bilancio
dell'Amministrazione di appartenenza del pubblico dipendente.
---------------
Il motivo è infondato.
Come queste Sezioni Unite hanno già avuto modo di porre in
rilievo, all'esito della pronunzia Cass., Sez. Un., n. 19072 del 2016 si
è consolidato il principio in base al quale la controversia avente ad
oggetto la domanda della P.A. volta a ottenere dal proprio dipendente
il versamento dei corrispettivi percepiti nello svolgimento di un
incarico non autorizzato appartiene alla giurisdizione del giudice
ordinario anche dopo l'inserimento, nell'art. 53 d.lgs. n. 165 del
2001, del comma 7-bis ad opera dell'art. 1, comma 42, lett. b), L. n.
190 del 2012 (in base al quale l'«omissione del versamento del
compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore
costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione
della Corte dei conti»), attesa la natura sanzionatoria dell'obbligo
di versamento previsto dal comma 7, che prescinde dalla sussistenza
di specifici profili di danno richiesti per la giurisdizione del giudice
contabile (v. Cass., Sez. Un., 19/01/2018, n. 1415; Cass., Sez. Un.,
10/01/2017, n. 8688; Cass., Sez. Un., 19/01/2018, n. 16722; Cass.,
Sez. Un., 16/04/2018, n. 1415; Cass., Sez. Un., 09/03/2018, n. 5789;
Cass., Sez. Un., 28/05/2018, n. 13239; Cass., Sez. Un., 03/08/2018, n.
20533).
Queste Sezioni Unite hanno peraltro al riguardo da ultimo
diversamente ritenuto che l'azione ex art. 53, comma 7, d.lgs. n. 165 del
2001 promossa dal Procuratore della Corte dei Conti nei confronti
di dipendente della P.A., che abbia omesso di versare alla propria
Amministrazione i corrispettivi percepiti nello svolgimento di un
incarico non autorizzato, rimane attratta alla giurisdizione del giudice
contabile, anche se la percezione dei compensi si è avuta in epoca
precedente all'introduzione del comma 7-bis del medesimo art. 53,
giacché tale norma non ha portata innovativa, vertendosi in ipotesi di
responsabilità erariale, che il legislatore ha tipizzato non solo nella
condotta ma altresì annettendo valenza sanzionatoria alla
predeterminazione legale del danno, al fine di tutelare la compatibilità
dell'incarico extraistituzionale in termini di conflitto di interesse,
dovendo privilegiarsi il proficuo svolgimento di quello principale e
l'adeguata destinazione di energie lavorative al rapporto pubblico (v.,
da ultimo, Cass., Sez. Un., 26/06/2019, n. 17124).
L'obbligo di versamento ex art. 53, comma 7, d.lgs. n. 165 del
2001 si configura dunque come una particolare sanzione ex lege,
volta a rafforzare la fedeltà del pubblico dipendente. E la giurisdizione
contabile è ravvisabile solo se alla violazione del dovere di fedeltà o
all'omesso versamento della somma pari al compenso indebitamente
percepito dal dipendente si accompagnino specifici profili di danno (v. Cass., Sez. Un., 26/06/2019, n. 17124).
Queste Sezioni Unite hanno ulteriormente posto in rilievo come
allorquando non sia la P.A. ad agire per il recupero dei compensi
erogati al dipendente pubblico per incarichi espletati in assenza di
autorizzazione e per fatti antecedenti alla introduzione del comma 7-bis dell'art. 53 ma l'azione nei confronti di soggetto legato alla P.A. da
un rapporto d'impiego o di servizio venga promossa dal Procuratore
contabile, questa trova giustificazione nella violazione del dovere di
chiedere l'autorizzazione allo svolgimento degli incarichi
extralavorativi e del conseguente obbligo di riversare
all'Amministrazione i compensi ricevuti, trattandosi di prescrizioni -come
detto- volte a garantire il corretto e proficuo svolgimento delle
mansioni attraverso il previo controllo dell'Amministrazione sulla
possibilità per il dipendente d'impegnarsi in un'ulteriore attività senza
pregiudizio dei compiti d'istituto.
Hanno altresì sottolineato che la disposizione di cui all'art. 53,
comma 7-bis, d.lgs. n. 165 del 2001 (introdotta dalla L. n. 190 del
2012) non riveste carattere innovativo ma si pone in rapporto di
continuità con l'orientamento giurisprudenziale in precedenza venuto
a delinearsi, essendosi dal legislatore attribuita natura di fonte legale
alla precedente regola di diritto effettivo di fonte giurisprudenziale (v. Cass., Sez. Un., 22/12/2015, n. 25769; Cass., Sez. Un., 02/11/2011,
n. 22688, e, da ultimo, Cass., Sez. Un., 26/06/2019, n. 17124).
A tale stregua, l'azione di responsabilità erariale non interferisce
con l'eventuale azione di responsabilità amministrativa della P.A.
contro il soggetto tenuto alla retribuzione, l'azione ex art. 53, comma
7, d.lgs. n. 165 del 2001 ponendosi rispetto ad essa in termini di
indefettibile alternatività (v. Cass., Sez. Un., 26/06/2019, n. 17124).
Non si è d'altro canto mancato di sottolineare che laddove la
P.A. di appartenenza del dipendente percipiente il compenso in difetto
di autorizzazione non si attivi (anche) in via giudiziale per far valere
l'inadempimento degli obblighi del rapporto di lavoro, e il Procuratore
contabile abbia viceversa promosso azione di responsabilità contabile
in relazione alla tipizzata fattispecie legale ex art. 53, commi 7 e 7-bis, d.lgs. n. 165 del 2001, alla detta P.A. rimane precluso
promuovere la detta azione, essendo da escludere -stante il divieto
del bis in idem- una duplicità di azioni attivate contestualmente che,
seppure con la specificità di ciascuna di esse propria, siano volte a
conseguire, avanti al giudice munito di giurisdizione, lo stesso
identico petitum (predeterminato dal legislatore) in danno del
medesimo soggetto obbligato in base ad un'unica fonte (quella
legale), e cioè i compensi indebitamente percepiti in difetto di
autorizzazione allo svolgimento dell'incarico che li ha determinati e
non riversati, al fine di effettivamente destinarli al bilancio
dell'Amministrazione di appartenenza del pubblico dipendente (v. Cass., Sez. Un., 26/06/2019, n. 17124).
Si è infine posto in rilievo che, rientrando l'accertamento delle
condizioni di insorgenza della tipizzata responsabilità erariale (e in
particolare la necessità o meno di autorizzazione per lo svolgimento
dello specifico incarico extralavorativo) nei limiti interni della
giurisdizione contabile, il richiamo alla differente violazione prevista
dal comma 9 dello stesso art. 53, punita come illecito amministrativo
di cui all'art. 6 D.L. n. 79 del 1997, convertito L. n. 140 del 1997, risulta inconferente ai fini della questione di giurisdizione, con
conseguente giurisdizione del giudice ordinario sull'opposizione
all'ordinanza ingiunzione di pagamento della relativa sanzione
pecuniaria (v. Cass., 29/04/2008, n. 10852) (Corte di Cassazione, Sezz.
unite civili,
ordinanza 14.01.2020 n. 415). |
EDILIZIA PRIVATA: Va
ricordato il consolidato orientamento giurisprudenziale in
ordine all’impugnativa dei titoli edilizi.
Invero, si è detto che la decorrenza del termine per ricorrere
in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi all’edificazione deve
essere collegata, per i soggetti diversi da quelli cui l’atto è rilasciato,
al momento in cui l’interessato sia in grado di percepire la concreta entità
del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione
giuridica. Pertanto, salvo che non venga fornita la prova certa di una
conoscenza anticipata del titolo edilizio, il termine decadenziale per
l’impugnazione del titolo stesso viene fatto decorrere al più tardi dal
completamento dei lavori, che segna il momento in cui è
materialmente apprezzabile la portata definitiva dell’intervento assentito.
Il completamento dei lavori è, quindi, considerato indizio idoneo a far
presumere la data della piena conoscenza del titolo edilizio, salvo che
venga fornita la prova di una conoscenza anticipata.
Peraltro, tali affermazioni vengono contemperate in giurisprudenza con
la tutela delle esigenze di certezza dell’ordinamento, per cui il terzo non
può essere considerato libero di decidere, se e quando attivarsi per
accedere agli atti al fine di valutarne la legittimità.
La giurisprudenza, nel ricostruire la tutela del terzo alla luce dei
principi di effettività e satisfattività, ha, infatti, cercato un punto di
equilibrio tra i menzionati principi e quello della certezza degli atti
amministrativi ritenendo equo fissare il dies a quo del termine
decadenziale, al momento in cui, in relazione allo stato dei lavori, sia
oggettivamente apprezzabile lo scostamento dal paradigma legale.
Così, se ha un senso l’attesa, da parte del terzo, del completamento
dell’opera quando questi non sia in condizione, in un precedente stadio
d’avanzamento, di apprezzare l’illegittimità del titolo abilitante, se lo
stato di avanzamento dei lavori sia già tale da indurre il sospetto di una
possibile violazione della normativa urbanistica, il ricorrente ha l’onere
di documentarsi in ordine alle previsioni progettuali, al fine di verificare
la sussistenza di un vizio del titolo ed inibire l’ulteriore attività realizzativa. Non può, quindi, limitarsi ad attendere il completamento
dell’opera omettendo di esercitare il diritto di accesso.
Quindi, se il termine di impugnazione inizia a decorrere in linea di
principio dal completamento dei lavori o, comunque, dal momento in cui la
costruzione realizzata è tale che non si possono avere dubbi in ordine alla
portata dell’intervento, al contempo, il principio di certezza delle
situazioni giuridiche e di tutela di tutti gli interessati comporta che non
si possa lasciare il soggetto titolare di una concessione edilizia
nell’incertezza circa la sorte del proprio titolo oltre una ragionevole
misura, poiché, nelle more, il ritardo dell’impugnazione si risolverebbe in
un danno aggiuntivo connesso all’ulteriore avanzamento dei lavori che, ex
post, potrebbero essere dichiarati illegittimi.
Infatti, se da un lato deve essere assicurata al vicino la tutela in
sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento
edilizio ritenuto illegittimo, dall’altro lato deve parimenti essere
salvaguardato l’interesse del titolare della concessione edilizia a che
l’esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non
irragionevolmente o colposamente differito nel tempo, determinando una
situazione di incertezza delle situazioni giuridiche in contrasto con gli
evidenziati principi ordinamentali.
In conclusione, la “piena conoscenza”, ai fini della decorrenza
del termine per l’impugnazione di un titolo edilizio viene individuata
nell’inizio dei lavori, nel caso si sostenga che nessun manufatto poteva
essere edificato sull’area. Laddove si contesti invece il quomodo
dell’attività edilizia autorizzata (distanze, consistenza ecc.) il dies a
quo per la tempestiva proposizione del ricorso coincide con il completamento
dei lavori o, in relazione al grado di sviluppo degli stessi, nel momento in
cui si renda comunque palese l’esatta dimensione, consistenza, finalità, del
manufatto in costruzione.
In questo quadro la vicinitas di un soggetto rispetto all’area su cui
insistono le opere edilizie contestate, oltre ad incidere sull’interesse ad
agire, induce a ritenere che lo stesso abbia potuto avere più facilmente
conoscenza della loro entità anche prima della conclusione dei lavori. In
ogni caso chi intende contestare adeguatamente un titolo edilizio ha l’onere
di esercitare sollecitamente l’accesso documentale.
---------------
56. Al fine di decidere la pregiudiziale e dirimente eccezione di irricevibilità per tardività dell’impugnazione delle concessioni edilizie n.
108/2016, n. 231/2016, n. 290/2016, n. 333/2016, n. 176/2018 e n. 301/2018,
va ricordato il consolidato orientamento giurisprudenziale (ex multis,
Cons. Stato, Sezione IV, 20.08.2018, n. 4969; TRGA, Trento, 01.04.2019, n.
56 e 27.02.2019, n. 42; TAR Lombardia, Brescia, Sezione I, 21.01.2019, n.
70), anche di questo Tribunale (da ultimo TRGA Bolzano 04.03.2019, n. 55) in
ordine all’impugnativa dei titoli edilizi.
Si è detto nelle citate pronunce che la decorrenza del termine per ricorrere
in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi all’edificazione deve
essere collegata, per i soggetti diversi da quelli cui l’atto è rilasciato,
al momento in cui l’interessato sia in grado di percepire la concreta entità
del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione
giuridica. Pertanto, salvo che non venga fornita la prova certa di una
conoscenza anticipata del titolo edilizio, il termine decadenziale per
l’impugnazione del titolo stesso viene fatto decorrere al più tardi dal
completamento dei lavori (cfr. Cons. Stato, Sezione IV, 23.06.2017, n. 3067,
15.11.2016, n. 4701 e 21.03.2016, n. 1135), che segna il momento in cui è
materialmente apprezzabile la portata definitiva dell’intervento assentito.
57. Il completamento dei lavori è, quindi, considerato indizio idoneo a far
presumere la data della piena conoscenza del titolo edilizio, salvo che
venga fornita la prova di una conoscenza anticipata (Cons. Stato, Sezione II,
11.11.2019, n. 7692; Cons. Stato, Sezione IV, 20.01.2014, n. 264 e Cons.
Stato, Sezione VI, 10.12.2010, n. 8705).
58. Peraltro, tali affermazioni vengono contemperate in giurisprudenza con
la tutela delle esigenze di certezza dell’ordinamento, per cui il terzo non
può essere considerato libero di decidere, se e quando attivarsi per
accedere agli atti al fine di valutarne la legittimità.
La giurisprudenza, nel ricostruire la tutela del terzo alla luce dei
principi di effettività e satisfattività, ha, infatti, cercato un punto di
equilibrio tra i menzionati principi e quello della certezza degli atti
amministrativi ritenendo equo fissare il dies a quo del termine
decadenziale, al momento in cui, in relazione allo stato dei lavori, sia
oggettivamente apprezzabile lo scostamento dal paradigma legale.
59. Così, se ha un senso l’attesa, da parte del terzo, del completamento
dell’opera quando questi non sia in condizione, in un precedente stadio
d’avanzamento, di apprezzare l’illegittimità del titolo abilitante, se lo
stato di avanzamento dei lavori sia già tale da indurre il sospetto di una
possibile violazione della normativa urbanistica, il ricorrente ha l’onere
di documentarsi in ordine alle previsioni progettuali, al fine di verificare
la sussistenza di un vizio del titolo ed inibire l’ulteriore attività
realizzativa. Non può, quindi, limitarsi ad attendere il completamento
dell’opera omettendo di esercitare il diritto di accesso.
60. Quindi, se il termine di impugnazione inizia a decorrere in linea di
principio dal completamento dei lavori o, comunque, dal momento in cui la
costruzione realizzata è tale che non si possono avere dubbi in ordine alla
portata dell’intervento, al contempo, il principio di certezza delle
situazioni giuridiche e di tutela di tutti gli interessati comporta che non
si possa lasciare il soggetto titolare di una concessione edilizia
nell’incertezza circa la sorte del proprio titolo oltre una ragionevole
misura, poiché, nelle more, il ritardo dell’impugnazione si risolverebbe in
un danno aggiuntivo connesso all’ulteriore avanzamento dei lavori che, ex
post, potrebbero essere dichiarati illegittimi (Cons. Stato, IV Sez.,
28.10.2015, n. 4909).
61. Infatti, se da un lato deve essere assicurata al vicino la tutela in
sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento
edilizio ritenuto illegittimo, dall’altro lato deve parimenti essere
salvaguardato l’interesse del titolare della concessione edilizia a che
l’esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non
irragionevolmente o colposamente differito nel tempo, determinando una
situazione di incertezza delle situazioni giuridiche in contrasto con gli
evidenziati principi ordinamentali.
62. La richiesta di accesso, invero, non è idonea ex se a far
differire i termini di proposizione del ricorso (cfr. Cons. Stato, Sezione
II, 26.06.2019, n. 4390; Sezione IV, 23.05.2018, n. 3075), in quanto il
terzo ha l’onere di attivare il diritto alla piena conoscenza della
documentazione amministrativa, non appena abbia contezza od anche il
ragionevole sospetto che l’attività materiale pregiudizievole, che si compie
sotto i suoi occhi, sia sorretta da un titolo amministrativo abilitante, non
conosciuto o non conosciuto sufficientemente (Cons. Stato, Sez. IV,
21.01.2013, n. 322). Diversamente opinando la disciplina dei motivi aggiunti
non avrebbe alcun significato, se non meramente residuale.
63. In conclusione, la “piena conoscenza”, ai fini della decorrenza
del termine per l’impugnazione di un titolo edilizio viene individuata
nell’inizio dei lavori, nel caso si sostenga che nessun manufatto poteva
essere edificato sull’area. Laddove si contesti invece il quomodo
dell’attività edilizia autorizzata (distanze, consistenza ecc.) il dies a
quo per la tempestiva proposizione del ricorso coincide con il
completamento dei lavori o, in relazione al grado di sviluppo degli stessi,
nel momento in cui si renda comunque palese l’esatta dimensione,
consistenza, finalità, del manufatto in costruzione (Cons. Stato, Sezione II,
11.11.2019, n. 7692, Sezione II, 12.08.2019, n. 5664; Sezione IV,
26.07.2018, n. 4583; id., 23.05.2018, n. 3075).
In questo quadro la vicinitas di un soggetto rispetto all’area su cui
insistono le opere edilizie contestate, oltre ad incidere sull’interesse ad
agire, induce a ritenere che lo stesso abbia potuto avere più facilmente
conoscenza della loro entità anche prima della conclusione dei lavori. In
ogni caso chi intende contestare adeguatamente un titolo edilizio ha l’onere
di esercitare sollecitamente l’accesso documentale (Cons. Stato, Sezione II,
26.06.2019, n. 4390)
(TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano,
sentenza 10.01.2020 n. 4 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La condizione di mera vicinitas non è
di per sé sola sufficiente a radicare la legittimazione ad impugnare i
titoli edilizi rilasciati dall’amministrazione con riguardo ad ambiti
confinanti con quello che è nella disponibilità del soggetto proponente il
ricorso.
Se, invero, la vicinitas assume principale rilievo per
qualificare e differenziare l’interesse fatto valere, è tuttavia altrettanto
indiscutibile come detta circostanza debba essere valutata nel caso concreto
con riferimento alla situazione di fatto e alle caratteristiche
dell’intervento da realizzare nell’area confinante con quella dei
ricorrenti, onde accertare quale sia il reale pregiudizio che il rilascio
del titolo autorizzatorio produrrebbe sulla vicina proprietà dei ricorrenti.
In altre parole, il requisito della vicinitas rappresenta uno dei
criteri, indubbiamente il primo, per qualificare una posizione
differenziata, necessaria per radicare l’interesse e la legittimazione a
ricorrere, ma non è di per sé solo sufficiente a rendere ammissibile la
proposizione del gravame.
Occorre, infatti, che la posizione del vicino risulti qualificata e
quindi emerga dalla mera posizione di quisque de populo,
qualificazione che dovrà essere caratterizzata dal pregiudizio che, anche se
in termini astratti o possibilistici, il rilascio del titolo edilizio
impugnato e la realizzazione dell’intervento assentito potrebbe produrre a
carico dell’area posta nelle vicinanze di quella dell’intervento.
In tali termini, il
mero principio della vicinitas è stato interpretato ed integrato in
rapporto alla dimostrazione da parte del soggetto che intende ottenere
l’annullamento del titolo edilizio rilasciato al vicino, del vulnus da tale
atto derivante alla propria sfera giuridica, quale deminutio economica e
patrimoniale del bene di proprietà.
---------------
89.
Orbene, osserva il Collegio che la condizione di mera vicinitas non è
di per sé sola sufficiente a radicare la legittimazione ad impugnare i
titoli edilizi rilasciati dall’amministrazione con riguardo ad ambiti
confinanti con quello che è nella disponibilità del soggetto proponente il
ricorso.
90. Se, invero, in termini di principio (cfr. TRGA Bolzano, 06.06.2019, n.
134 e 06.03.2019, n. 60), la vicinitas assume principale rilievo per
qualificare e differenziare l’interesse fatto valere, è tuttavia altrettanto
indiscutibile come detta circostanza debba essere valutata nel caso concreto
con riferimento alla situazione di fatto e alle caratteristiche
dell’intervento da realizzare nell’area confinante con quella dei
ricorrenti, onde accertare quale sia il reale pregiudizio che il rilascio
del titolo autorizzatorio produrrebbe sulla vicina proprietà dei ricorrenti.
91. In altre parole, il requisito della vicinitas rappresenta uno dei
criteri, indubbiamente il primo, per qualificare una posizione
differenziata, necessaria per radicare l’interesse e la legittimazione a
ricorrere, ma non è di per sé solo sufficiente a rendere ammissibile la
proposizione del gravame.
92. Occorre, infatti, che la posizione del vicino risulti qualificata e
quindi emerga dalla mera posizione di quisque de populo,
qualificazione che dovrà essere caratterizzata dal pregiudizio che, anche se
in termini astratti o possibilistici, il rilascio del titolo edilizio
impugnato e la realizzazione dell’intervento assentito potrebbe produrre a
carico dell’area posta nelle vicinanze di quella dell’intervento.
93. Ritiene il Collegio che, stante l’impossibilità dell’annullamento per
violazioni inerenti la quota zero, l’altezza e la cubatura delle precedenti
concessioni edilizie per l’accertata tardività delle relative censure, nel
caso di specie si deve esigere con riguardo al gravame proposto contro il
titolo edilizio afferente le sole sistemazioni del terreno esterno del
fabbricato, la dimostrazione del pregiudizio derivante a carico dei
ricorrenti, costituito dall’incidenza negativa che il nuovo progetto
assentito potrà avere sul bene di proprietà o in godimento dei vicini.
94. In tali termini (cfr. Cons. Stato, Sezione IV, 30.11.2010, n. 8364), il
mero principio della vicinitas è stato interpretato ed integrato in
rapporto alla dimostrazione da parte del soggetto che intende ottenere
l’annullamento del titolo edilizio rilasciato al vicino, del vulnus da tale
atto derivante alla propria sfera giuridica, quale deminutio economica e
patrimoniale del bene di proprietà (cfr. TRGA Bolzano, 22.11.2018, n. 336)
(TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano,
sentenza 10.01.2020 n. 4 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA: Il
principio di omogeneità della zona non
costituisce un limite alla pianificazione
comunale.
Il principio di
omogeneità della zona (criterio
ordinariamente invocabile nella
pianificazione generale) non costituisce un
limite all’attività pianificatoria del
Comune, il quale resta libero di imprimere
alle varie parti del territorio la
destinazione urbanistica che ritiene più
confacente ai bisogni della collettività.
Secondo una giurisprudenza condivisibile il
modello della zonizzazione del territorio ha
assunto forme flessibili nella prassi
applicativa, sino a pervenire, nell’ambito
della stessa zona omogenea, alla
microzonizzazione o alla previsione di
sottozone distinte da ulteriori peculiarità
strutturali o funzionali, sicché il processo
di conformazione del territorio non esclude
che a livello di pianificazione generale
possano essere previsti differenti regimi
urbanistici all’interno della stessa zona
omogenea.
Il principio di tipicità degli strumenti
urbanistici, che riflette il limite di
legalità dell’azione amministrativa, non
esclude infatti che il pianificatore
comunale, stante la progressiva espansione
degli interessi affidati al governo di
prossimità, introduca un sistema di
“lettura” del territorio diverso o ulteriore
rispetto al modello per zone, purché al pari
di questo sia iscritto nel medesimo
referente normativo, nazionale e regionale,
e ad esso si conformi.
Se così non fosse infatti l’azione
amministrativa sarebbe non discrezionale, ma
del tutto arbitraria e il nuovo modello di
conformazione del territorio risulterebbe
sostanzialmente abrogativo del sistema
delineato dalla l. 1150/1942, il cui nucleo
essenziale inderogabile, tanto da costituire
principio fondamentale per la legislazione
regionale concorrente, esige che siano
identificate previamente le categorie
generali e astratte ove iscrivere le
porzioni di territorio, sulla base di
descrittori anch’essi previamente definiti,
in funzione degli obiettivi che l’azione
pianificatrice si prefigge.
Allora sarà del tutto irrilevante che la
conformazione del territorio, come detto
funzionale alla dislocazione dei servizi di
interesse generale, sia concepita per zone,
contesti, ambiti, comparti, zone miste o
microzone, purché –qualunque essa sia–
corrisponda a categorie prefissate ex ante,
tali cioè da costituire il parametro di
legittimità della successiva azione
amministrativa
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 09.01.2020 n. 63 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
2. Venendo al primo motivo di merito,
occorre precisare che le contestazioni
relative alla disparità di trattamento ed al
mancato rispetto della vocazione naturale
delle aree saranno esaminate con riferimento
alle singole aree. In merito invece alla
contestata assenza di una disciplina
omogenea il motivo è infondato.
Il principio di omogeneità della zona
(criterio ordinariamente invocabile nella
pianificazione generale), infatti, non
costituisce un limite all’attività
pianificatoria del Comune, il quale resta
libero di imprimere alle varie parti del
territorio la destinazione urbanistica che
ritiene più confacente ai bisogni della
collettività (v., tra le altre, TAR
Lombardia, Milano, Sez. II, 23.09.2008 n.
4102).
Secondo una giurisprudenza condivisibile
(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza
23.04.2015 n. 651) il modello della
zonizzazione del territorio ha assunto forme
flessibili nella prassi applicativa, sino a
pervenire, nell’ambito della stessa zona
omogenea, alla microzonizzazione o alla
previsione di sottozone distinte da
ulteriori peculiarità strutturali o
funzionali, sicché il processo di
conformazione del territorio non esclude che
a livello di pianificazione generale possano
essere previsti differenti regimi
urbanistici all’interno della stessa zona
omogenea.
Il principio di tipicità degli
strumenti urbanistici, che riflette il
limite di legalità dell’azione
amministrativa, non esclude infatti che il
pianificatore comunale, stante la
progressiva espansione degli interessi
affidati al governo di prossimità, introduca
un sistema di “lettura” del territorio
diverso o ulteriore rispetto al modello per
zone, purché al pari di questo sia iscritto
nel medesimo referente normativo, nazionale
e regionale, e ad esso si conformi.
Se così
non fosse infatti l’azione amministrativa
sarebbe non discrezionale, ma del tutto
arbitraria e il nuovo modello di
conformazione del territorio risulterebbe
sostanzialmente abrogativo del sistema
delineato dalla l. 1150/1942, il cui nucleo
essenziale inderogabile, tanto da costituire
principio fondamentale per la legislazione
regionale concorrente, esige che siano
identificate previamente le categorie
generali e astratte ove iscrivere le
porzioni di territorio, sulla base di
descrittori anch’essi previamente definiti,
in funzione degli obiettivi che l’azione
pianificatrice si prefigge.
Allora sarà del
tutto irrilevante che la conformazione del
territorio, come detto funzionale alla
dislocazione dei servizi di interesse
generale, sia concepita per zone, contesti,
ambiti, comparti, zone miste o microzone,
purché –qualunque essa sia– corrisponda a
categorie prefissate ex ante, tali
cioè da costituire il parametro di
legittimità della successiva azione
amministrativa. |
URBANISTICA:
Secondo consolidata
giurisprudenza, “le osservazioni
formulate dai proprietari interessati nei
confronti di uno strumento urbanistico
generale costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli
strumenti urbanistici e non danno luogo a
peculiari aspettative; pertanto, il loro
rigetto non richiede una dettagliata
motivazione”.
---------------
In sede di previsioni di zona di piano
urbanistico, la valutazione dell'idoneità
delle aree a soddisfare, con riferimento
alle possibili destinazioni, specifici
interessi urbanistici, rientra nei limiti
dell'esercizio del potere discrezionale,
rispetto al quale, a meno che non siano
riscontrabili errori di fatto o abnormi
illogicità, non è neppure configurabile il
vizio di eccesso di potere per disparità di
trattamento basata sulla comparazione con la
destinazione impressa agli immobili
adiacenti.
Con riferimento al fatto che (nel caso di
specie) si tratterebbe
di una piccola area inserita in un complesso
urbanizzato, la giurisprudenza ha affermato
che le evenienze che, invece, giustificano
una più incisiva e singolare motivazione
nelle scelte pianificatorie degli strumenti
urbanistici generali sono state ravvisate
nel superamento
degli standards urbanistici ed edilizi,
nella lesione dell’affidamento qualificato
del privato basato su precedenti
determinazioni dell’amministrazione o su
provvedimenti giurisdizionali (ad es.,
derivante dall’avvenuta stipula di
convenzioni di lottizzazione, da accordi di
diritto privato intercorsi tra il Comune e i
proprietari delle aree, da sentenze passate
in giudicato di annullamento di dinieghi di
concessione edilizia o di silenzio rifiuto
su una domanda di concessione), o nella
modificazione in zona agricola della
destinazione di un’area limitata, interclusa
da fondi edificati in modo non abusivo.
---------------
Con riferimento alla vocazione funzionale
dell’area agricola occorre rammentare che la
giurisprudenza ha riconosciuto che la sua
funzione non è solo quella di valorizzare
l’attività agricola vera e propria, ma anche
quella di garantire ai cittadini
l’equilibrio delle condizioni di vivibilità,
assicurando loro quella quota di valori
naturalistici necessaria a compensare gli
effetti dell’espansione dell'aggregato
urbano.
Ne consegue
che la previsione di aree agricole che non
siano intercluse in ambito limitrofo a
nucleo di antica formazione non pare macroscopicamente irragionevole.
-----------------
In sede di previsioni di zona di piano
regolatore, la valutazione dell'idoneità
delle aree a soddisfare, con riferimento
alle possibili destinazioni, specifici
interessi urbanistici, rientra nei limiti
dell'esercizio del potere discrezionale,
rispetto al quale, a meno che non siano
riscontrabili errori di fatto o abnormi
illogicità, non è neppure configurabile il
vizio di eccesso di potere per disparità di
trattamento basata sulla comparazione con la
destinazione impressa agli immobili
adiacenti.
---------------
3. Venendo al punto 1.1 del ricorso, con il
quale i ricorrenti contestano la reiezione
dell’osservazione presentata con riferimento
ai terreni siti in via per Cabiate, occorre
rilevare che l’osservazione è stata respinta
in quanto “la richiesta comporterebbe
ulteriore consumo di suolo in aree
attualmente libere in rete ecologica
provinciale da PTCP e altrettante verifiche
VAS, anche a livello provinciale,
determinando quindi sostanziali innovazioni
al PGT, tali da mutare le caratteristiche
del piano stesso a livello strategico. Si
veda anche il parere provinciale di
compatibilità tra PTCP e PGT. L'AC ritiene
comunque apprezzabile l'interesse pubblico
contenuto nella proposta dell'osservante
(permuta edificabilità contenuta con aree a
servizi zona centro sportivo di via per
Cabiate), tenendolo in debita attenzione”.
In merito alla genericità della motivazione
occorre rilevare che, secondo una
consolidata giurisprudenza (da ultimo TAR
Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza
16.10.2019 n. 2176), “le osservazioni
formulate dai proprietari interessati nei
confronti di uno strumento urbanistico
generale costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli
strumenti urbanistici e non danno luogo a
peculiari aspettative; pertanto, il loro
rigetto non richiede una dettagliata
motivazione”.
Nel caso di specie la controdeduzione non
pare generica in quanto diversa dalle altre
versate in giudizio ed ancorata ad elementi
concreti e precisi quali l’effetto di
determinare ulteriore consumo di suolo in
aree attualmente libere in rete ecologica
provinciale prevista dal PTCP.
Con riferimento poi al fatto che il PGT
abbia introdotto ulteriori ambiti di
trasformazione, non sussiste prova che ciò
abbia comportato un aumento del consumo di
suolo complessivo, rendendo così
irragionevole la motivazione della
controdeduzione.
Circa invece la circostanza
che le osservazioni dei vicini siano state
accolte, il motivo è infondato in quanto va
ricordato il principio per cui, in sede di
previsioni di zona di piano urbanistico, la
valutazione dell'idoneità delle aree a
soddisfare, con riferimento alle possibili
destinazioni, specifici interessi
urbanistici, rientra nei limiti
dell'esercizio del potere discrezionale,
rispetto al quale, a meno che non siano
riscontrabili errori di fatto o abnormi
illogicità, non è neppure configurabile il
vizio di eccesso di potere per disparità di
trattamento basata sulla comparazione con la
destinazione impressa agli immobili
adiacenti (v. Consiglio Stato sez. IV,
21.04.2010, n. 2264; Consiglio di Stato,
Sez. IV, 06.08.2013 n. 4150).
Con riferimento al fatto che si tratterebbe
di una piccola area inserita in un complesso
urbanizzato, la giurisprudenza ha affermato
che le evenienze che, invece, giustificano
una più incisiva e singolare motivazione
nelle scelte pianificatorie degli strumenti
urbanistici generali sono state ravvisate
(v. sul punto, per tutte, Cons. Stato, Ad.
Plen., 22.12.1999, n. 24) nel superamento
degli standards urbanistici ed edilizi,
nella lesione dell’affidamento qualificato
del privato basato su precedenti
determinazioni dell’amministrazione o su
provvedimenti giurisdizionali (ad es.,
derivante dall’avvenuta stipula di
convenzioni di lottizzazione, da accordi di
diritto privato intercorsi tra il Comune e i
proprietari delle aree, da sentenze passate
in giudicato di annullamento di dinieghi di
concessione edilizia o di silenzio rifiuto
su una domanda di concessione), o nella
modificazione in zona agricola della
destinazione di un’area limitata, interclusa
da fondi edificati in modo non abusivo
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza
16.05.2013 n. 2653).
Nel caso di specie non
risulta provato che l’area abbia i caratteri
del lotto intercluso. Sotto il profilo fattuale l’area appare inserita in zona a
bassa densità abitativa, nella quale rientra
nella discrezionalità dell’amministrazione
stabilire se assegnarle i caratteri
dell’area di completamento o mantenerla ad
edificazione rada.
Neppure il riferimento alla disciplina
provinciale può valere a dimostrare
l’irragionevolezza delle scelte comunali in
quanto la controdeduzione fa riferimento
alla presenza della rete ecologica
provinciale, di cui i ricorrenti non fanno
menzione, ed inoltre non risulta che la
disciplina del PTCP escluda la possibilità
del Comune di dettare una disciplina
dell’edificazione più restrittiva di quella
prevista in sede provinciale.
4. Con riferimento alle aree site nel
compendio di via Matteotti (motivo 1.2), i
ricorrenti non contestano le controdeduzioni
alle osservazioni presentate, bensì
direttamente la disciplina di zona “AG1”
agricola assegnata.
Con riferimento alla vocazione funzionale
dell’area agricola occorre rammentare che la
giurisprudenza ha riconosciuto che la sua
funzione non è solo quella di valorizzare
l’attività agricola vera e propria, ma anche
quella di garantire ai cittadini
l’equilibrio delle condizioni di vivibilità,
assicurando loro quella quota di valori
naturalistici necessaria a compensare gli
effetti dell’espansione dell'aggregato
urbano (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.04.2013 n. 1882). Ne consegue
che la previsione di aree agricole che non
siano intercluse in ambito limitrofo a
nucleo di antica formazione non pare
macroscopicamente irragionevole.
Neppure rientra tra i poteri del giudice
ritenere più confacente ai caratteri
dell’area la destinazione R5, ovvero di zona
di espansione a bassa intensità, in quanto
si tratta di scelta di merito sottratta ai
poteri del giudice.
Con riferimento poi al fatto che le
osservazioni dei vicini siano state accolte,
il motivo è infondato in quanto va ribadito
il principio per cui in sede di previsioni
di zona di piano regolatore, la valutazione
dell'idoneità delle aree a soddisfare, con
riferimento alle possibili destinazioni,
specifici interessi urbanistici, rientra nei
limiti dell'esercizio del potere
discrezionale, rispetto al quale, a meno che
non siano riscontrabili errori di fatto o
abnormi illogicità, non è neppure
configurabile il vizio di eccesso di potere
per disparità di trattamento basata sulla
comparazione con la destinazione impressa
agli immobili adiacenti (v. Consiglio Stato
sez. IV, 21.04.2010, n. 2264; Consiglio di
Stato, Sez. IV, 06.08.2013 n. 4150)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 09.01.2020 n. 63 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
L’applicazione della tecnica della
perequazione urbanistica è preclusa
per le aree agricole dall’art. 11 della L.R.
12/2005, il quale al
comma 2 (ed al comma 2-bis che richiama il
comma 2) prevede che sono escluse dalla
perequazione urbanistica le aree destinate
all’agricoltura e quelle non soggette a
trasformazione urbanistica.
-----------------
5. Anche il secondo profilo di
ricorso è infondato.
L’applicazione della tecnica della
perequazione urbanistica è infatti preclusa
per le aree agricole dall’art. 11 della L.R.
12/2005 invocato dai ricorrenti, il quale al
comma 2 (ed al comma 2-bis che richiama il
comma 2) prevede che sono escluse dalla
perequazione urbanistica le aree destinate
all’agricoltura e quelle non soggette a
trasformazione urbanistica
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 09.01.2020 n. 63 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sotto il primo profilo, è pacifico che non è necessario comunicare l’avvio
del procedimento per i provvedimenti sanzionatori degli abusi edilizi,
aventi natura vincolata (cfr. per tutte, specificamente, la sentenza della
Sezione del 28/10/2019 n. 5094: “poiché il provvedimento di acquisizione
costituisce un atto dovuto senza alcun contenuto discrezionale, subordinato
unicamente all'accertamento dell'inottemperanza, non è necessario che venga
preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 L. 241/1990”).
Sotto l’ulteriore profilo, resta parimenti esclusa la doverosità della
notifica del verbale con cui è accertato che il destinatario dell’ordine di
demolizione non vi ha ottemperato (cfr. la sentenza della Sezione del
26/03/2019 n. 1683: “Posto che il verbale di accertamento dell'inottemperanza
all'ordinanza di demolizione non ha alcun contenuto dispositivo, essendo
unicamente finalizzato alla rilevazione in via ricognitiva e vincolata
dell'inottemperanza dell'ingiunzione di demolizione, è da escludere che la
notifica dello stesso al responsabile dell'abuso sia un presupposto
necessario per l’emanazione della dichiarazione di acquisizione gratuita”).
---------------
2. - Il ricorso è infondato.
2.1. Sono destituite di fondamento le censure con cui si intende far valere
che occorreva la comunicazione di avvio del procedimento e dovevano essere
notificati i verbali di accertamento dell’inottemperanza.
Sotto il primo profilo, è pacifico che non è necessario comunicare l’avvio
del procedimento per i provvedimenti sanzionatori degli abusi edilizi,
aventi natura vincolata (cfr. per tutte, specificamente, la sentenza della
Sezione del 28/10/2019 n. 5094: “poiché il provvedimento di acquisizione
costituisce un atto dovuto senza alcun contenuto discrezionale, subordinato
unicamente all'accertamento dell'inottemperanza, non è necessario che venga
preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 L. 241/1990
(da ultimo, TAR Lazio, sez. II-quater, 08.10.2018, n. 9799)”).
Sotto l’ulteriore profilo, resta parimenti esclusa la doverosità della
notifica del verbale con cui è accertato che il destinatario dell’ordine di
demolizione non vi ha ottemperato (cfr. la sentenza della Sezione del
26/03/2019 n. 1683: “Posto che il verbale di accertamento dell'inottemperanza
all'ordinanza di demolizione non ha alcun contenuto dispositivo, essendo
unicamente finalizzato alla rilevazione in via ricognitiva e vincolata
dell'inottemperanza dell'ingiunzione di demolizione, è da escludere che la
notifica dello stesso al responsabile dell'abuso sia un presupposto
necessario per l’emanazione della dichiarazione di acquisizione gratuita”; conf., 13/06/2019
n. 3232 e 16/10/2019 n. 4927)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 07.01.2020 n. 53 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La sottoposizione di un manufatto abusivo a sequestro penale non
costituisce impedimento assoluto ad ottemperare all’ordine di demolizione.
Pertanto l’indisponibilità derivante da tale misura non può essere invocata
quale causa di forza maggiore all’emanazione o all’esecuzione
dell’ingiunzione, dal momento che il soggetto interessato ha la facoltà (e
l’onere) di attivarsi, nei tempi strettamente necessari, presso l'Autorità
Giudiziaria, secondo la procedura prevista dall'art. 85 disp. att. c.p.p.,
al fine di ottenere il dissequestro, se intende ottemperare all’ingiunzione
amministrativa.
È solo a seguito dell’eventuale reiezione
dell’istanza di dissequestro da parte del Giudice penale che è possibile
configurare una effettiva impossibilità ad adempiere, sicché è solo la prova
del comportamento attivo dell’interessato che può escludere
l’inottemperanza.
---------------
2.3. Relativamente all’addotta sottoposizione a sequestro penale (che, nella
prospettazione del ricorrente, avrebbe impedito la demolizione ed
escluderebbe di poter procedere all'acquisizione), va osservato che tale
circostanza non può essere invocata per sottrarsi alle conseguenze
scaturenti dalla realizzazione dell’abuso, in mancanza di un comportamento
attivo dell’interessato.
Nella specie, il ricorrente lamenta che il Giudice penale non avrebbe
acconsentito al dissequestro per effettuare il rispristino, senza fornire
alcuna dimostrazione di ciò (cfr. la sentenza della Sezione del 27/06/2019 n.
3526: “La sottoposizione di un manufatto abusivo a sequestro penale non
costituisce impedimento assoluto ad ottemperare all’ordine di demolizione.
Pertanto l’indisponibilità derivante da tale misura non può essere invocata
quale causa di forza maggiore all’emanazione o all’esecuzione
dell’ingiunzione, dal momento che il soggetto interessato ha la facoltà (e
l’onere) di attivarsi, nei tempi strettamente necessari, presso l'Autorità
Giudiziaria, secondo la procedura prevista dall'art. 85 disp. att. c.p.p.,
al fine di ottenere il dissequestro, se intende ottemperare all’ingiunzione
amministrativa (cfr. Cons. St., sez. VI, 28/01/2016, n. 335; Cass. pen., sez.
III, 26/09/2013, n. 42637). È solo a seguito dell’eventuale reiezione
dell’istanza di dissequestro da parte del Giudice penale che è possibile
configurare una effettiva impossibilità ad adempiere, sicché è solo la prova
del comportamento attivo dell’interessato che può escludere
l’inottemperanza”)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 07.01.2020 n. 53 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’acquisizione del bene abusivamente realizzato configura
l’esercizio del potere ricompreso nei compiti di
gestione affidati al Dirigente dell’Ente, al pari dell’ordine di demolizione
da cui promana se l’interessato non vi adempie (cfr. la sentenza della
Sezione del 16/10/2019 n. 4927, cit.: “l’art. 31, comma 2, d.p.r. 380/2001,
una volta accertata l’esecuzione di interventi privi di titolo o in
difformità dallo stesso, affida espressamente al dirigente o al responsabile
del competente ufficio comunale il potere di ingiungere, con ordinanza, al
responsabile la rimozione o la demolizione delle opere abusive. L’ordinanza
deve contenere anche la previsione di eventuale acquisizione del bene in
ipotesi di inottemperanza. E’ quindi evidente che, trattandosi di atto
vincolato e successivo al mero verificarsi dell’inadempimento, la competenza
non possa che essere dello stesso organo che ha adottato la presupposta
ordinanza di demolizione”).
---------------
2.4. Infine, è priva di fondamento la censura contenuta nell’ultimo motivo,
secondo cui l’emanazione del provvedimento di acquisizione spetterebbe al
Consiglio comunale, ai sensi dell’art. 42 del T.U.E.L. (poiché ricompresa
nella competenza del Consiglio relativa agli acquisti e alle alienazioni
immobiliari).
Contrariamente a tale assunto, l’acquisizione del bene abusivamente
realizzato configura l’esercizio del potere ricompreso nei compiti di
gestione affidati al Dirigente dell’Ente, al pari dell’ordine di demolizione
da cui promana se l’interessato non vi adempie (cfr. la sentenza della
Sezione del 16/10/2019 n. 4927, cit.: “l’art. 31, comma 2, d.p.r. 380/2001,
una volta accertata l’esecuzione di interventi privi di titolo o in
difformità dallo stesso, affida espressamente al dirigente o al responsabile
del competente ufficio comunale il potere di ingiungere, con ordinanza, al
responsabile la rimozione o la demolizione delle opere abusive. L’ordinanza
deve contenere anche la previsione di eventuale acquisizione del bene in
ipotesi di inottemperanza. E’ quindi evidente che, trattandosi di atto
vincolato e successivo al mero verificarsi dell’inadempimento, la competenza
non possa che essere dello stesso organo che ha adottato la presupposta
ordinanza di demolizione”)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 07.01.2020 n. 53 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
1.- Processo amministrativo – ordine di trattazione dei ricorsi cd.
escludenti – orientamenti espressi dalla Corte UE – necessario esame di
entrambi i ricorsi – si impone.
2.- Processo amministrativo – rito appalti – abrogazione del cd
rito super accelerato – conseguenze.
3.- Appalti pubblici – requisiti - requisito del fatturato
specifico – ricomprensione nel novero di quelli economico finanziari – va
affermata.
4.- Appalti pubblici – avvalimento – caratteristiche generali.
5.- Appalti pubblici – avvalimento – nullità – limiti.
6.- Appalti pubblici – avvalimento – causa – tipicità – sussiste.
1. In base alla più recente
giurisprudenza della Corte di Giustizia il ricorso principale non può essere
dichiarato irricevibile in applicazione di prassi giudiziarie nazionali in
tema di ricorsi cd escludenti e va esaminato in ogni caso, quale che sia il
numero di partecipanti e/o di ricorrenti.
Se ne deve dedurre che per la Corte di Giustizia vada predicato il massimo
rilievo all’interesse strumentale alla riedizione della gara: pertanto non
può interpretarsi la sentenza Fastweb come una mera deroga, in presenza di
specifici presupposti, al generale principio di ordine di esame sancito
dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, che aveva continuato a dare
priorità al ricorso incidentale escludente.
Ne consegue che, in applicazione di tali principi, ove si presentano due
ricorsi reciprocamente escludenti, pur in presenza di più offerenti, che non
hanno tutti partecipato al presente giudizio (anche se alcuni hanno proposto
separata impugnativa) è doveroso l’ esame di entrambi i ricorsi.
2. Va processualmente preso atto che è mutato il quadro normativo
di riferimento a seguito dell’avvenuta abrogazione del cosiddetto rito super
accelerato di cui all’articolo 120, comma 2-bis cpa, con effetto a partire
dal 19.04.2019, secondo il disposto del D.L: n. 32 del 2019, convertito in
legge numero 55 del 14.06.2019.
In particolare il legislatore, eliminando l’onere di immediata impugnazione
delle ammissioni di altre imprese concorrenti alla gara, ha assunto quale
riferimento temporale non già la pubblicazione del bando di gara o la
spedizione dell’invito(secondo i consueti criteri adottati allo scopo nella
materia, che guardano al momento dell’avvio della procedura di affidamento)
bensì l’inizio del processo.
Pertanto, per processi “iniziati dopo la data di entrata in vigore del
decreto” devono intendersi, nell’ottica di chi agisce in giudizio ovvero di
chi lo ha “iniziato”, quelli in cui il ricorso introduttivo venga notificato
dopo il 19 aprile 2019 , fattispecie in cui rientra il presente giudizio.
Conseguentemente le censure relative all’ammissione alla gara dei
concorrenti per carenza di requisiti soggettivi ovvero economico finanziari
e tecnico professionali ,vanno attivate nelle forme ordinarie, e per quanto
riguarda la reazione dell’aggiudicataria, nelle forme del ricorso
incidentale, ai sensi dell’articolo 42 CPA, che prevede il termine di 60
giorni (nella specie dimezzato in virtù del rito appalti ) dalla notifica
del ricorso principale.
Invero l’impugnazione delle ammissioni di altre ditte, in virtù della
disposizione abrogante, ritorna a dover essere posticipata al momento
dell’aggiudicazione definitiva ovvero a quello in cui (per la prima volta)
l’interesse a ricorrere da parte del concorrente, insoddisfatto dall’esito
della gara, diventa concreto ed attuale - nella specie - la notifica del
ricorso principale da parte della seconda graduata.
3. Benché sia stata particolarmente controversa in giurisprudenza
la questione se il requisito relativo al fatturato specifico sia inerente
alla capacità economico finanziaria, ovvero a quella tecnico operativa, la
disposizione di cui all’articolo 83 comma 4 lettera a) del decreto
legislativo 50/2016 è intervenuta a chiarire che ai fini del possesso dei
requisiti di capacità economica e finanziaria le stazioni appaltanti possono
richiedere “che gli operatori economici abbiano un fatturato minimo annuo,
compreso un determinato fatturato minimo nel settore di attività oggetto
dell’ appalto“, con ciò evidentemente includendo anche il requisito del
fatturato specifico nel novero di quelli economico finanziari: ne deriva che
il fatturato specifico assume il ruolo di elemento indicativo della solidità
finanziari a del concorrente, e qualora non sia direttamente posseduto, può
essere acquisito in avvalimento nelle forme e modi del cd. avvalimento di
garanzia.
4. L’avvalimento è un istituto di derivazione comunitaria che
consente all’operatore economico privo dei requisiti necessari per la
partecipazione ad una gara di soddisfare quanto richiesto dalla stazione
appaltante avvalendosi di risorse, mezzi e strumenti di altri operatori
economici. La finalità̀ di segno pro-concorrenziale dell’istituto è quella
di ampliare la platea dei possibili contraenti della pubblica
amministrazione.
A livello comunitario si è parlato per la prima volta di “avvalimento” con
la sentenza del 14 aprile 1994 in Causa - 389/92 (cd. Ballast), con cui la
Corte di Giustizia Europea ha stabilito che una holding può dimostrare la
sussistenza dei requisiti di qualificazione tramite una società del suo
gruppo di appartenenza.
Successivamente, i principi elaborati dai giudici comunitari sono stati
recepiti a livello normativo nelle Direttive UE 2004/17 e 2004/18. A mente
della norma contenuta nell’art. 47 della Direttiva 2004/18/CE, infatti, «Un
operatore economico può, se del caso e per un determinato appalto, fare
affidamento sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura
giuridica dei suoi legami con questi ultimi». Il successivo art. 48
aggiunge, inoltre, che: «In tal caso deve dimostrare all’amministrazione
aggiudicatrice che disporrà dei mezzi necessari, ad esempio mediante
presentazione dell’impegno a tal fine di questi soggetti».
Le prime direttive comunitarie del 2004 sono state poi recepite nel nostro
ordinamento con l’art. 49 del d.lgs. n. 163 del 2006. Di recente, nel 2016,
con il d.lgs. n. 50, nel recepire le seconde direttive del 2014, si è
assistito ad una specificazione dell’istituto, per ciò che concerne i
requisiti essenziali del contratto: la norma contenuta nell’art. 89, co. 1,
ult. cpv prevede, infatti, che “…il contratto di avvalimento contiene, a
pena di nullità, la specificazione dei requisiti forniti e delle risorse
messe a disposizione dall’impresa ausiliaria”.
5. La “sanzione” della nullità, assente nella previgente normativa,
è il risultato di un percorso giurisprudenziale consacrato con la pronuncia
dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato il 04.11.2016 n. 23 pubblicata
sotto la vigenza del d.lgs. n. 163 del 2006, ove si era evidenziato che
l’articolo 88 del d.p.r. 207/2010, per la parte in cui prescrive che il
contratto di avvalimento deve riportare “in modo compiuto, esplicito ed
esauriente (…) le risorse e i mezzi prestati in modo determinato e
specifico”, deve essere interpretato nel senso che esso osta a configurare
la nullità̀ del contratto di avvalimento in ipotesi in cui una parte
dell’oggetto del contratto, pur non essendo puntualmente determinata, sia
tuttavia agevolmente determinabile dal tenore complessivo del documento, e
ciò̀ anche in applicazione degli articoli 1346, 1363 e 1367 del codice
civile.
6. Sotto l’aspetto strutturale, l’avvalimento è un contratto
causalmente orientato a colmare le carenze dell’impresa partecipante,
proprio al fine di integrare i requisiti di partecipazione alla gara.
Discussa la sua ascrivibilità o meno alla categoria dei contratti tipici o
atipici, anche ai fini dell’indagine sulla meritevolezza della causa, va
tuttavia superata l’impostazione che ascrive il contratto di avvalimento
nello schema del contratto atipico, ravvisandosi elementi ordinamentali di
novità tali da indurre ad un ripensamento della definizione, sì da poter
qualificare il contratto di avvalimento come contratto tipico: in
particolare, il contratto in esame trova oggi nell’ordinamento una specifica
disciplina legale nell’art. 89 del d.lgs. n. 50 del 2016, così descrivendosi
dettagliatamente il contenuto del contratto e prescrivendo i requisiti al
ricorrere dei quali un contratto di avvalimento possa essere considerato
valido ed efficace.
Ne deriva che il contratto di avvalimento rientra a pieno titolo nella
categoria del “tipo”contrattuale, laddove per “tipo” si intende una figura o
un modello di contratto, avente determinate caratteristiche e volto a
realizzare una operazione economica.
Sebbene il Codice civile dedichi il Titolo III del Libro IV ai “singoli
contratti”, descrivendo e disciplinando un ampio numero di “tipi”
contrattuali, quali la vendita, la locazione, l’appalto, il deposito e tutti
gli altri schemi che si trovano ivi menzionati (artt. 1470 ss. del C.C.),
non v’è una previsione normativa in forza della quale un contratto è tipico
solo se trova una specifica disciplina nel codice civile.
Sul punto, ai fini della definizione del contratto atipico , non rileva la
limitata frequenza della sua stipulazione o la peculiarità del suo oggetto,
ma solo l'elemento negativo della non rispondenza a nessuno degli schemi
predisposti dal legislatore.
Pertanto, il contratto di avvalimento, che trova una sua compiuta
definizione nell’art. 89 del d.lgs. n. 50 del 2016, deve ritenersi “tipico”.
L’autonomia contrattuale, nel caso di specie è peraltro condizionata dagli
obiettivi fissati dalla norma e che le parti contrattuali devono perseguire
all’atto della stipula del contratto di avvalimento.
Da ciò consegue che lo schema contrattuale definito dalla norma contenuta
nell’art. 89 del d.lgs. n. 50 del 2016 non può essere in alcun modo
alterato. È necessario, infatti, che attraverso il contenuto specifico del
contratto di avvalimento prescritto dal Codice dei contratti pubblici, si
offra alla Stazione appaltante una garanzia di solidità del concorrente
oltre che di corretta esecuzione dell’appalto; ed in determinati casi, anche
di un particolare standard di qualità dell’esecuzione dello stesso.
Ai fini della valutazione della causa in concreto, va quindi affermato che
il controllo di legittimità si attua verificando l’effettiva realizzabilità
della causa concreta, da intendersi come obiettivo specifico perseguito dal
procedimento (massima free
tratta da e link a www.giustamm.it -
TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza
07.01.2020 n. 51).
---------------
Al riguardo si legga anche:
●
G. Gabriele,
Il contratto di
avvalimento incontra la causa in concreto - nota a sentenza a TAR Campania,
III Sez., 07.01.2020 n. 51
(07.02.2020 - link a
www.giustamm.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
consolidata giurisprudenza, “l'abuso edilizio costituisce illecito permanente e
l'ordinanza di demolizione ha carattere ripristinatorio, non richiedente
l'accertamento del dolo o della colpa grave del soggetto cui si imputa la
trasgressione. Pertanto, l'ordine di demolizione di opere abusive è
legittimamente notificato al proprietario catastale dell'area, il quale fino
a prova contraria è quantomeno corresponsabile dell'abuso”.
E’ pur vero che altra condivisibile giurisprudenza ha osservato che "è
illegittima l'ingiunzione di demolizione che non venga notificata al
responsabile dell'abuso né al proprietario dell'opera abusiva, ma solo al
proprietario dell'area sulla quale è stata realizzata la stessa opera".
---------------
E' noto come, per giurisprudenza costante, la sola sanzione
dell’acquisizione del bene e dell’area di sedime al patrimonio comunale
prevista dall’art. 31 D.P.R. 380/2001, -e dunque non l’ordinanza di
demolizione delle opere abusive- a determinate condizioni, non possa
trovare applicazione nei confronti del proprietario del bene incolpevole
dell’abuso edilizio realizzato da altri.
In particolare, “il proprietario incolpevole
di abuso edilizio commesso da altri, che voglia sfuggire all’effetto sanzionatorio di cui all’art. 31 del testo unico dell’edilizia della
demolizione o dell’acquisizione come effetto della inottemperanza all’ordine
di demolizione, deve provare la intrapresa di iniziative che, oltre a
rendere palese la sua estraneità all’abuso, siano però anche idonee a
costringere il responsabile dell’attività illecita a ripristinare lo stato
dei luoghi nei sensi e nei modi richiesti dall’autorità amministrativa.
Perché vi siano misure concretanti le “azioni idonee” ad escludere
l’esclusione di responsabilità o la partecipazione all’abuso effettuato da
terzi, prescindendo dall’effettivo riacquisto della materiale disponibilità
del bene, si ritiene necessario un comportamento attivo, da estrinsecarsi in
diffide o in altre iniziative di carattere ultimativo nei confronti del
conduttore (“che si sia adoperato, una volta venutone a conoscenza, per la
cessazione dell’abuso”), al fine di evitare l’applicazione di una norma che, in caso
di omessa demolizione dell’abuso, prevede che l’opera abusivamente costruita
e la relativa area di sedime siano, di diritto, acquisite gratuitamente al
patrimonio del Comune, non bastando invece a tal fine un comportamento
meramente passivo di adesione alle iniziative comunali”.
---------------
Posto che primaria finalità del provvedimento impugnato è l’ingiunzione
dell’ordine di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi nel termine
di giorni 90, la mancata esatta indicazione delle aree da acquisire al
patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine impartito non
comporta da sola l’illegittimità del provvedimento impugnato, considerato
che l’acquisizione gratuita delle opere e relativa area di sedime al
patrimonio comunale costituisce una conseguenza ex lege dell’inottemperanza
all’ordine impartito, e ben può essere operata “con un successivo e separato
atto”, come affermato da condivisibile giurisprudenza.
---------------
Condivisibile giurisprudenza ha da tempo osservato che “l’adozione
dell'ordine di demolizione di opere abusive presuppone soltanto la
constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto
titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto
dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e
non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse
pubblico alla rimozione dell'abuso stesso -che è in re ipsa, consistendo
nel ripristino dell'assetto urbanistico violato- ed alla possibilità di
adottare provvedimenti alternativi”, atteso che “al Comune compete, ai sensi
dell'art. 27 del D.P.R. 380/2001, l'esercizio della vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio comunale e, pertanto,
una volta accertata l'esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso
di costruire l'amministrazione comunale deve disporne senz'altro la
demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente la sanabilità
delle stesse”.
Tale orientamento evidenzia infatti come la verifica della sanabilità di
un’opera non costituisca onere dell'Amministrazione comunale, essendo per
legge rimessa ogni iniziativa al riguardo all'impulso del privato
interessato.
---------------
Parimenti infondate si palesano le doglianze inerenti l’asserita violazione
degli artt. 3 e 7 della legge n. 241/1990, posto che, come è stato chiarito
da condivisibile giurisprudenza in tema di D.I.A., con principio
pacificamente applicabile anche al caso di interventi di nuova costruzione
realizzati in assenza o difformità dal titolo edilizio, "i provvedimenti
repressivi di abusi edilizi non devono essere preceduti dall’avviso di
inizio del relativo procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e
vincolati emessi all’esito di una mero accertamento tecnico della
consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime
che, in quanto tali, non richiedono neppure una specifica motivazione.
Pertanto, in caso di adozione di misure sanzionatorie conseguenti alla
violazione di disposizioni in materia di denuncia di inizio di attività -trattandosi di provvedimenti vincolati e basati su presupposti verificabili
in modo immediato- non sussistono le esigenze di garanzia e trasparenza cui
sovviene il principio di partecipazione del privato al procedimento
amministrativo".
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Qualora il Comune disponga ai
sensi dell'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 l'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale dell'opera abusiva, tale acquisizione -in assenza di motivazioni che ne giustifichino
l'estensione ad un'area ulteriore- deve essere limitata all'area su cui
insistono le sole opere abusive e non all'intera e più ampia area in cui
tali opere sono ricomprese, in quanto l'automatismo dell'effetto acquisitivo
rende superflua ogni motivazione solo con riguardo all'area di su cui poggia
l'opera abusiva.
---------------
Invero, quanto al ricorso principale, il Tribunale evidenzia
come sia in primo luogo infondato il primo motivo, in cui la ricorrente
Cr., proprietaria del suolo ed asseritamente non responsabile
dell’abuso, lamenta che l’ordinanza di demolizione sia stata emessa anche
nei suoi confronti, pur essendo la medesima totalmente estranea alla
costruzione delle opere abusive, e però, destinata a subire le conseguenze
dell’altrui condotta, anche in termini di eventuale successiva acquisizione
gratuita del suolo al patrimonio comunale per il caso di inottemperanza alla
demolizione.
Al riguardo, il Tribunale evidenzia in primo luogo come, secondo consolidata
giurisprudenza, “l'abuso edilizio costituisce illecito permanente e
l'ordinanza di demolizione ha carattere ripristinatorio, non richiedente
l'accertamento del dolo o della colpa grave del soggetto cui si imputa la
trasgressione. Pertanto, l'ordine di demolizione di opere abusive è
legittimamente notificato al proprietario catastale dell'area, il quale fino
a prova contraria è quantomeno corresponsabile dell'abuso” (cfr. C.d.S. Sez.VI
n. 6148 del 15.12.2014).
E’ pur vero che altra condivisibile giurisprudenza ha osservato che "è
illegittima l'ingiunzione di demolizione che non venga notificata al
responsabile dell'abuso né al proprietario dell'opera abusiva, ma solo al
proprietario dell'area sulla quale è stata realizzata la stessa opera" (cfr.
TAR Lazio, Roma n. 5968 del 03.07.2007).
Tuttavia, nel caso di specie, si osserva che l’ordinanza di demolizione
impugnata risulta notificata non solo alla ricorrente in qualità di
proprietaria dell’opera abusiva, ma altresì all’altro ricorrente Ru.Gi. nella qualità di responsabile dell’abuso.
Sotto tale profilo, pertanto, le doglianze spiegate nel primo motivo di
ricorso risultano infondate, considerato non solo che l’ordinanza di
demolizione risulta notificata anche al responsabile dell’abuso, ma che la
ricorrente Cr. è sicuramente proprietaria, oltre che dell’area di sedime, anche dello stesso fabbricato realizzato in assenza di titolo
edilizio.
Ed invero, è noto come, per giurisprudenza costante, la sola sanzione
dell’acquisizione del bene e dell’area di sedime al patrimonio comunale
prevista dall’art. 31 D.P.R. 380/2001, -e dunque non l’ordinanza di
demolizione delle opere abusive- a determinate condizioni, non possa
trovare applicazione nei confronti del proprietario del bene incolpevole
dell’abuso edilizio realizzato da altri.
In particolare, secondo il Consiglio di Stato “il proprietario incolpevole
di abuso edilizio commesso da altri, che voglia sfuggire all’effetto sanzionatorio di cui all’art. 31 del testo unico dell’edilizia della
demolizione o dell’acquisizione come effetto della inottemperanza all’ordine
di demolizione, deve provare la intrapresa di iniziative che, oltre a
rendere palese la sua estraneità all’abuso, siano però anche idonee a
costringere il responsabile dell’attività illecita a ripristinare lo stato
dei luoghi nei sensi e nei modi richiesti dall’autorità amministrativa.
Perché vi siano misure concretanti le “azioni idonee” ad escludere
l’esclusione di responsabilità o la partecipazione all’abuso effettuato da
terzi, prescindendo dall’effettivo riacquisto della materiale disponibilità
del bene, si ritiene necessario un comportamento attivo, da estrinsecarsi in
diffide o in altre iniziative di carattere ultimativo nei confronti del
conduttore (“che si sia adoperato, una volta venutone a conoscenza, per la
cessazione dell’abuso”, tra tante, si veda Cassazione penale, 10.11.1998, n. 2948), al fine di evitare l’applicazione di una norma che, in caso
di omessa demolizione dell’abuso, prevede che l’opera abusivamente costruita
e la relativa area di sedime siano, di diritto, acquisite gratuitamente al
patrimonio del Comune, non bastando invece a tal fine un comportamento
meramente passivo di adesione alle iniziative comunali” (cfr. Cons. Stato
sent. n. 2211 del 04.05.2015, Cons. Stato sent. n. 3897 del 07.08.2015).
Tuttavia appare evidente come tale giurisprudenza mal si attagli alla
fattispecie oggetto del presente giudizio, non solo perché in tal caso
risulta impugnata la sola ordinanza di demolizione delle opere abusivamente
realizzate che, per le ragioni anzidette, risulta legittimamente notificata
anche all’odierna ricorrente, ma anche perché, in ogni caso, il
comportamento concretamente assunto dalla ricorrente, -che appare piuttosto
preordinato ad evitare l’abbattimento dell’immobile abusivo che a
ripristinare la legalità violata- non è tale da integrare le condizioni
richieste dalla condivisibile giurisprudenza amministrativa per evitare gli
effetti riconnessi all’eventuale inottemperanza all’ordinanza di
demolizione, ed in particolare l’acquisizione del bene al patrimonio
comunale.
Peraltro, non è nemmeno ravvisabile la dedotta violazione dell'art. 31, II
comma, D.P.R. n. 380/2001, a cagione dell’erronea indicazione, nel
provvedimento in oggetto, dell'area che verrebbe acquisita al patrimonio
comunale in caso di inottemperanza all'ordine impartito; ed invero, posto
che primaria finalità del provvedimento impugnato è l’ingiunzione
dell’ordine di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi nel termine
di giorni 90, la mancata esatta indicazione delle aree da acquisire al
patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine impartito non
comporta da sola l’illegittimità del provvedimento impugnato, considerato
che l’acquisizione gratuita delle opere e relativa area di sedime al
patrimonio comunale costituisce una conseguenza ex lege dell’inottemperanza
all’ordine impartito, e ben può essere operata “con un successivo e separato
atto”, come affermato da condivisibile giurisprudenza (cfr. TAR Napoli
Campania, Sez. VI, 05.06.2012 n. 2635).
Parimenti infondato si palesa il secondo motivo di gravame del ricorso
principale in cui i ricorrenti si dolgono che il Comune non abbia
previamente valutato l’eventuale sanabilità dell’intervento edilizio
realizzato; al riguardo, il Tribunale si limita ad evidenziare come
condivisibile giurisprudenza abbia da tempo osservato che “l’adozione
dell'ordine di demolizione di opere abusive presuppone soltanto la
constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto
titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto
dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e
non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse
pubblico alla rimozione dell'abuso stesso -che è in re ipsa, consistendo
nel ripristino dell'assetto urbanistico violato- ed alla possibilità di
adottare provvedimenti alternativi”, atteso che “al Comune compete, ai sensi
dell'art. 27 del D.P.R. 380/2001, l'esercizio della vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio comunale e, pertanto,
una volta accertata l'esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso
di costruire l'amministrazione comunale deve disporne senz'altro la
demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente la sanabilità
delle stesse” (cfr. ad es. TAR Campania, II Sezione, n. 3645 del
12.07.2013); tale orientamento evidenzia infatti come la verifica della
sanabilità di un’opera non costituisca onere dell'Amministrazione comunale,
essendo per legge rimessa ogni iniziativa al riguardo all'impulso del
privato interessato (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. VI, 03.08.2015 n.
4190; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 24.09.2002 n. 5556)” (cfr. TAR
Campania, Napoli, VI Sez., n. 942 del 16.02.2018).
Parimenti infondate si palesano le doglianze inerenti l’asserita violazione
degli artt. 3 e 7 della legge n. 241/1990, posto che, come è stato chiarito
da condivisibile giurisprudenza in tema di D.I.A., con principio
pacificamente applicabile anche al caso di interventi di nuova costruzione
realizzati in assenza o difformità dal titolo edilizio, "i provvedimenti
repressivi di abusi edilizi non devono essere preceduti dall’avviso di
inizio del relativo procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e
vincolati emessi all’esito di una mero accertamento tecnico della
consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime
che, in quanto tali, non richiedono neppure una specifica motivazione.
Pertanto, in caso di adozione di misure sanzionatorie conseguenti alla
violazione di disposizioni in materia di denuncia di inizio di attività -trattandosi di provvedimenti vincolati e basati su presupposti verificabili
in modo immediato- non sussistono le esigenze di garanzia e trasparenza cui
sovviene il principio di partecipazione del privato al procedimento
amministrativo" (TAR Campania, sez. V, 15.01.2015, n. 225).
Per tutte le suesposte ragioni il ricorso principale è infondato.
...
Al contrario, risultano fondati e meritevoli di accoglimento i motivi
aggiunti notificati in data 03.05.2013, nella sola parte in cui i ricorrenti
lamentano che l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale, disposta con
l’impugnata determinazione del Dirigente dell'Area tecnica – Settore
Urbanistica n. 10/13 del 21.02.2013 notificata il 26.02.2013, riguardi non solo
l’edificio di 100 mq. realizzato in assenza di titolo edilizio ed oggetto
dell’ingiunta demolizione, ma altresì l'intera area di sedime e l'area
circostante, corrispondente a mq. 415 della particella n. 193 del foglio 34,
pur risultando la stessa occupata da immobili regolarmente assentiti, in
assenza di qualsivoglia motivazione in ordine alle ragione sottese alla
disposta acquisizione dell’intera area di sedime (e non solo di quella
occupata dal manufatto abusivo di cui è stato –legittimamente per le
ragioni anzidette– disposto l’abbattimento).
Al riguardo, occorre evidenziare come, secondo la condivisibile
giurisprudenza, qualora il Comune disponga ai sensi dell'art. 31 del D.P.R.
n. 380/2001 l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'opera
abusiva, tale acquisizione -in assenza di motivazioni che ne giustifichino
l'estensione ad un'area ulteriore- deve essere limitata all'area su cui
insistono le sole opere abusive e non all'intera e più ampia area in cui
tali opere sono ricomprese, in quanto l'automatismo dell'effetto acquisitivo
rende superflua ogni motivazione solo con riguardo all'area di su cui poggia
l'opera abusiva (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VII, n. 4259/2011 e sez.
VI, n. 4336/2005, TAR Sicilia-Catania, Sez. I, n. 2268/2016)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 07.01.2020 n. 49 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia edilizia, ai fini della legittimazione e dell’interesse a ricorrere
o a intervenire in giudizio, è sufficiente la mera vicinitas,
ossia la dimostrazione di uno stabile collegamento materiale tra l’immobile
del soggetto istante e quello interessato dalle opere abusive (nella specie,
come visto, palesemente sussistente), escludendosi in linea di principio la
necessità di comprovare l’esistenza di un pregiudizio specifico ed
ulteriore, atteso che tale pregiudizio deve ragionevolmente ritenersi
integrato in re ipsa, in quanto conseguenza ineludibile della minore qualità
urbanistica, panoramica, ambientale e paesaggistica dell’area compromessa
dall’illecita edificazione.
---------------
2. In via preliminare, occorre soffermarsi sull’eccezione di
inammissibilità dell’intervento ad opponendum formulata dal ricorrente,
fondata sul rilievo della carenza di interesse all’attivazione di tale mezzo
processuale, atteso che il terzo “non subirebbe alcun pregiudizio
all’interno della propria sfera giuridica dall’annullamento dei
provvedimenti gravati”.
L’eccezione va disattesa in virtù del dato pacifico che il Sig. Sa. è
proprietario di un’unità immobiliare situata nello stesso fabbricato
interessato dall’attività edilizia sanzionata, più precisamente di una
porzione immobiliare posta nelle immediate vicinanze del manufatto abusivo.
Invero in materia edilizia, ai fini della legittimazione e dell’interesse a
ricorrere o a intervenire in giudizio, è sufficiente la mera vicinitas,
ossia la dimostrazione di uno stabile collegamento materiale tra l’immobile
del soggetto istante e quello interessato dalle opere abusive (nella specie,
come visto, palesemente sussistente), escludendosi in linea di principio la
necessità di comprovare l’esistenza di un pregiudizio specifico ed
ulteriore, atteso che tale pregiudizio deve ragionevolmente ritenersi
integrato in re ipsa, in quanto conseguenza ineludibile della minore qualità
urbanistica, panoramica, ambientale e paesaggistica dell’area compromessa
dall’illecita edificazione (orientamento consolidato: cfr. per tutte
Consiglio di Stato, Sez. II, 30.09.2019 n. 6519; Consiglio di Stato, Sez. VI, 23.05.2019 n. 3386; TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 17.09.2019
n. 4515)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 07.01.2020 n. 46 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La veranda realizzata su un terrazzo e/o su un balcone facenti
parte di un immobile principale, essendo materialmente incorporata
all’immobile principale di cui costituisce parte integrante e zona di
ampliamento volumetrico, non può essere ricondotta alla nozione di
pertinenza urbanisticamente rilevante, la quale, invece, postula indefettibilmente
l’individualità fisica e strutturale del manufatto destinato a servizio od
ornamento di quello principale, con conseguente assoggettabilità
dell’intervento al regime del permesso di costruire ed al corrispondente
sistema sanzionatorio di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001.
Invero, è
principio consolidato che l’opera pertinenziale è collegata alla costruzione
preesistente in termini non di integrazione ma di asservimento, per cui deve
renderne più agevole e funzionale l’uso, ma non deve divenire parte
essenziale della costruzione stessa, come avvenuto nel caso di specie.
Ad ogni modo, il Collegio ritiene che il manufatto in questione, in sé
considerato ed indipendentemente dalla denegata qualificazione di
pertinenza, sia stato correttamente inquadrato quale nuova costruzione
soggetta al trattamento sanzionatorio contemplato dal succitato art. 31,
poiché la ristrutturazione edilizia sussiste solo quando viene modificato un
immobile già esistente nel rispetto delle caratteristiche fondamentali dello
stesso, mentre nel caso di specie è stata aggiunta alla precedente unità
abitativa una nuova struttura verandata di due vani, adibita a cucina e
servizio igienico, con conseguente creazione non solo di un non trascurabile
aumento di volume ma anche di un disegno sagomale con connotati alquanto
diversi da quelli dell’edificio originario.
Invero, pur consentendo l’art.
10, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380/2001 di qualificare come interventi
di ristrutturazione edilizia anche le attività volte a realizzare un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, implicanti
modifiche della volumetria complessiva, della sagoma o dei prospetti,
tuttavia occorre conservare sempre una identificabile linea distintiva tra
le nozioni di ristrutturazione edilizia e di nuova costruzione, potendo
configurarsi la prima solo quando le modifiche volumetriche e di sagoma
siano di portata limitata e comunque riconducibili all’organismo
preesistente.
---------------
3. Passando allo scrutinio del merito della causa, vale cominciare dalle
censure articolate avverso l’ordinanza di demolizione n. 6/2013, le quali
possono essere così riassunte:
a) il provvedimento demolitorio, in violazione del principio del ne bis in
idem e del collegato principio del previo intervento in autotutela, è stato
indebitamente adottato, in costanza di identità di parti e di fatti già
sanzionati, “in difetto di un preventivo provvedimento di revoca o
annullamento ex artt. 21-quinquies e nonies della L. n. 241/1990 e s.m.i.
ovvero di qualsivoglia menzione della precedente ordinanza n. 48/2003, mercé
la quale il Comune di Arzano aveva qualificato l’opera realizzata dal sig.
Se. quale intervento di ristrutturazione edilizia edificato in assenza
di permesso di costruire o in totale difformità, per tal via irrogando
l’ammenda ai sensi e per gli effetti dell’art. 33, comma 2, del D.P.R. n.
380/2001, poi pagata dall’odierno ricorrente nel termine assegnato dal
Dirigente”;
b) la veranda posta in essere non è riconducibile al regime del permesso di
costruire per nuova costruzione ed al relativo corredo sanzionatorio, ma
viceversa è assoggettabile, per la sua natura pertinenziale, alla disciplina
dell’attività di ristrutturazione edilizia, connotata dall’eventuale
applicazione del più mite sistema sanzionatorio pecuniario di cui all’art.
33 del d.P.R. n. 380/2001.
Le prefate doglianze non meritano condivisione per le ragioni di seguito
esplicitate.
4. Come correttamente eccepito dalla difesa comunale, gli abusi sanzionati
con l’ordinanza di demolizione n. 6/2013 e con la precedente ordinanza n.
48/2003 non sono tra loro sovrapponibili in quanto, come si evince
dall’esame testuale delle stesse, sono rinvenibili le seguenti incolmabili
differenze di contenuto:
i) l’ordinanza di demolizione del 2013 sanziona
l’edificazione di una struttura verandata adibita a cucina e servizio
igienico, con conseguente creazione di due nuovi vani abitabili, mentre
l’ordinanza del 2003 si occupa della realizzazione di un locale per servizi
tecnologici, che viceversa è destinato ad ospitare la dotazione
impiantistica dell’unità immobiliare di riferimento senza creare nuovi spazi
abitabili;
ii) l’opera abusiva sanzionata nel 2013 insiste sia sul terrazzo
che sul balcone dell’appartamento di proprietà del ricorrente, mentre il
manufatto colpito dall’ordinanza del 2003 trova collocazione esclusivamente
sul predetto terrazzo.
Ne deriva che, trattandosi di attività illecite di diversa consistenza, non
può affatto ritenersi che l’amministrazione comunale avesse duplicato per la
stessa fattispecie il trattamento sanzionatorio applicabile, addirittura
aggravandolo in seconda battuta mediante l’irrogazione della più incisiva
misura demolitoria.
5. La veranda realizzata su un terrazzo e/o su un balcone facenti parte di
un immobile principale, essendo materialmente incorporata all’immobile
principale di cui costituisce parte integrante e zona di ampliamento
volumetrico, non può essere ricondotta alla nozione di pertinenza
urbanisticamente rilevante, la quale, invece, postula indefettibilmente
l’individualità fisica e strutturale del manufatto destinato a servizio od
ornamento di quello principale, con conseguente assoggettabilità
dell’intervento al regime del permesso di costruire ed al corrispondente
sistema sanzionatorio di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001.
Invero, è
principio consolidato che l’opera pertinenziale è collegata alla costruzione
preesistente in termini non di integrazione ma di asservimento, per cui deve
renderne più agevole e funzionale l’uso, ma non deve divenire parte
essenziale della costruzione stessa, come avvenuto nel caso di specie (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. IV, 16.05.2013 n. 2678; Cass. Pen., Sez. III, 08.04.2015 n. 20544; TAR Liguria, Sez. I, 13.02.2014 n. 269; TAR
Campania Napoli, Sez. VIII, 07.02.2014 n. 883; TAR Trentino Alto Adige
Trento, Sez. I, 11.02.2012 n. 264; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 16.12.2011 n. 5912).
5.1 Ad ogni modo, il Collegio ritiene che il manufatto in questione, in sé
considerato ed indipendentemente dalla denegata qualificazione di
pertinenza, sia stato correttamente inquadrato quale nuova costruzione
soggetta al trattamento sanzionatorio contemplato dal succitato art. 31,
poiché la ristrutturazione edilizia sussiste solo quando viene modificato un
immobile già esistente nel rispetto delle caratteristiche fondamentali dello
stesso, mentre nel caso di specie è stata aggiunta alla precedente unità
abitativa una nuova struttura verandata di due vani, adibita a cucina e
servizio igienico, con conseguente creazione non solo di un non trascurabile
aumento di volume ma anche di un disegno sagomale con connotati alquanto
diversi da quelli dell’edificio originario.
Invero, pur consentendo l’art.
10, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380/2001 di qualificare come interventi
di ristrutturazione edilizia anche le attività volte a realizzare un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, implicanti
modifiche della volumetria complessiva, della sagoma o dei prospetti,
tuttavia occorre conservare sempre una identificabile linea distintiva tra
le nozioni di ristrutturazione edilizia e di nuova costruzione, potendo
configurarsi la prima solo quando le modifiche volumetriche e di sagoma
siano di portata limitata e comunque riconducibili all’organismo
preesistente (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. II, 09.01.2017 n. 189; TAR
Emilia Romagna Bologna, Sez. II, 25.02.2010 n. 1613).
6. Pertanto, resistendo la gravata ordinanza di demolizione a tutte le
censure prospettate, l’impugnativa mossa nei suoi confronti deve essere
respinta per infondatezza
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 07.01.2020 n. 46 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Collegio osserva, alla luce della circostanza pacifica della comunione
insistente sull’area cortilizia tra i comproprietari del fabbricato, che il
meccanismo sanzionatorio predisposto dal testo unico sull’edilizia in caso
di mancata ottemperanza all’ordine demolitorio, esclude assolutamente che
l’acquisizione gratuita possa determinare il sacrificio di diritti reali di
terzi su beni diversi da quello abusivo o da quelli ad esso strettamente
pertinenziali di proprietà dei destinatari dell’ingiunzione a demolire:
tanto nell’ovvio rispetto delle garanzie costituzionali poste a presidio
della proprietà privata, le quali non consentono che un soggetto possa
rispondere con i propri beni dell’attività illecita commessa da altri.
Ne discende che la gravata ordinanza di acquisizione gratuita, determinando
l’acquisto di una porzione immobiliare, adibita ad area cortilizia,
appartenente a soggetti non coinvolti nella realizzazione dell’abuso e non
interessati dalla precedente sanzione demolitoria, si palesa illegittima per
violazione dell’art. 42 della Costituzione e dell’art. 31 del d.P.R. n.
380/2001, con la conseguenza che merita di essere annullata in parte qua.
---------------
8. Rimangono da esaminare le ulteriori censure, formulate nei motivi
aggiunti, con cui il ricorrente mira ad infirmare l’ordinanza acquisitiva
nella parte in cui ha disposto l’acquisizione gratuita di quota parte
dell’area del cortile di pertinenza del fabbricato.
Con una prima doglianza, dedotta in via principale, parte ricorrente
denuncia che tale porzione di area è stata indebitamente acquisita pur
appartenendo in comunione ai comproprietari del fabbricato, con conseguente
violazione del principio di tutela della proprietà privata di cui all’art.
42 della Costituzione e dello stesso art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, che
impediscono che la misura repressiva in questione possa incidere su beni
appartenenti ad altri soggetti totalmente estranei all’abuso.
La censura è fondata e merita accoglimento.
Il Collegio osserva, alla luce della circostanza pacifica della comunione
insistente sull’area cortilizia tra i comproprietari del fabbricato, che il
meccanismo sanzionatorio predisposto dal testo unico sull’edilizia in caso
di mancata ottemperanza all’ordine demolitorio, esclude assolutamente che
l’acquisizione gratuita possa determinare il sacrificio di diritti reali di
terzi su beni diversi da quello abusivo o da quelli ad esso strettamente
pertinenziali di proprietà dei destinatari dell’ingiunzione a demolire:
tanto nell’ovvio rispetto delle garanzie costituzionali poste a presidio
della proprietà privata, le quali non consentono che un soggetto possa
rispondere con i propri beni dell’attività illecita commessa da altri (cfr.
Cass. Civ. Sez. III, 04.06.2013 n. 14022; TAR Lazio Roma, Sez. II, 08.10.2018 n. 9799).
Ne discende che la gravata ordinanza di acquisizione gratuita, determinando
l’acquisto di una porzione immobiliare, adibita ad area cortilizia,
appartenente a soggetti non coinvolti nella realizzazione dell’abuso e non
interessati dalla precedente sanzione demolitoria, si palesa illegittima per
violazione dell’art. 42 della Costituzione e dell’art. 31 del d.P.R. n.
380/2001, con la conseguenza che merita di essere annullata in parte qua
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 07.01.2020 n. 46 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
chiusura di un terrazzo con dei pannelli trasparenti frangivento scorrevoli
senza telai e montanti non richiede alcuna licenza edilizia.
Il manufatto in contestazione viene descritto nel
verbale di sopralluogo, e nell'ordinanza di demolizione, come segue:
“chiusura di due balconi di pertinenza dell’unità immobiliare delle
dimensioni, rispettivamente, di mt. 7,00 x 1,00 e mt. 5,00 x 1,00, con
struttura composta di pannelli in plexiglass che scorrono su guide.”.
Negli atti non vi è alcuna ulteriore precisazione circa le caratteristiche
effettivamente rilevanti per ascrivere il manufatto piuttosto ad una
veranda (disciplinata dal regolamento edilizio e necessitante di titolo
edilizio), ovvero a semplici tende; non si comprende infatti, dagli
atti del procedimento, se la struttura contestata sia movibile o meno e
tanto meno si comprende se essa implichi la presenza di elementi fissi
oppure no.
Nel contraddittorio procedimentale l’amministrazione ha apoditticamente
sostenuto che per le “consuetudini applicative” del Comune i manufatti
sarebbero inquadrabili nelle verande che l’art. 122.2 del regolamento
edilizio comunale definisce “costruzioni accessorie alle abitazioni
costituite da pareti e copertura vetrate e da struttura in legno o metallo
strettamente limitata alla funzione portante…”.
Confrontando la definizione del regolamento edilizio con la scarna
descrizione riportata nel verbale di sopralluogo non si comprende dove
l’amministrazione abbia individuato una struttura portante in legno o
metallo e con quali caratteristiche tali da giustificare l’assimilazione ad
una veranda piuttosto che ad una semplice tenda, che pure
necessita quantomeno di una guida per l’installazione, e che la stessa
amministrazione colloca in regime di edilizia libera.
Secondo la descrizione fornita in ricorso, e comunque non smentita
dall’amministrazione (su cui grava l’onere di provare il fondamento del
provvedimento adottato), i pannelli in plexiglass non sono tra loro
“accostati” e lasciano passare l’aria, limitandosi, appunto, a scorrere su
guide e potendosi interamente ripiegare, sicché in pratica alcuna struttura
o elemento rimane visibile sul balcone; non è presente alcun montante
laterale e il manufatto è interamente trasparente; tanto meno si realizza
una chiusura tale da rendere il balcone potenzialmente idoneo ad essere
utilizzato come locale abusivo.
---------------
Il manufatto in contestazione viene descritto nel verbale di sopralluogo
come segue: “chiusura di due balconi di pertinenza dell’unità immobiliare
delle dimensioni, rispettivamente, di mt. 7,00 x 1,00 e mt. 5,00 x 1,00, con
struttura composta di pannelli in plexiglass che scorrono su guide.” La
medesima frase è riporta nell’ordinanza di demolizione.
Negli atti non vi è alcuna ulteriore precisazione circa le caratteristiche
effettivamente rilevanti per ascrivere il manufatto piuttosto ad una
veranda (disciplinata dal regolamento edilizio e necessitante di titolo
edilizio), ovvero a semplici tende; non si comprende infatti, dagli
atti del procedimento, se la struttura contestata sia movibile o meno e
tanto meno si comprende se essa implichi la presenza di elementi fissi
oppure no.
Nel contraddittorio procedimentale l’amministrazione ha apoditticamente
sostenuto che per le “consuetudini applicative” del Comune i
manufatti sarebbero inquadrabili nelle verande che l’art. 122.2 del
regolamento edilizio comunale definisce “costruzioni accessorie alle
abitazioni costituite da pareti e copertura vetrate e da struttura in legno
o metallo strettamente limitata alla funzione portante…”.
Confrontando la definizione del regolamento edilizio con la scarna
descrizione riportata nel verbale di sopralluogo non si comprende dove
l’amministrazione abbia individuato una struttura portante in legno o
metallo e con quali caratteristiche tali da giustificare l’assimilazione ad
una veranda piuttosto che ad una semplice tenda, che pure necessita
quantomeno di una guida per l’installazione, e che la stessa amministrazione
colloca in regime di edilizia libera.
Secondo la descrizione fornita in ricorso, e comunque non smentita
dall’amministrazione (su cui grava l’onere di provare il fondamento del
provvedimento adottato), i pannelli in plexiglass non sono tra loro “accostati”
e lasciano passare l’aria, limitandosi, appunto, a scorrere su guide e
potendosi interamente ripiegare, sicché in pratica alcuna struttura o
elemento rimane visibile sul balcone; non è presente alcun montante laterale
e il manufatto è interamente trasparente; tanto meno si realizza una
chiusura tale da rendere il balcone potenzialmente idoneo ad essere
utilizzato come locale abusivo.
Le fotografie prodotte dai ricorrenti non aiutano in modo specifico,
limitandosi a proporre il balcone vuoto; le fotografie allegate al
sopralluogo da parte dell’amministrazione, se pure sembrano rappresentare i
pannelli in apertura, non consentono in alcun modo di individuare strutture
portanti che giustificherebbero il più severo inquadramento scelto
dall’amministrazione.
In definiva, a fronte di un manufatto nuovo che non presenta le
caratteristiche standard né della veranda né della semplice tenda,
è evidente che la contestazione avrebbe richiesto a supporto la puntuale
analisi degli elementi discriminanti (quali ad esempio la presenza di
strutture portanti verticali, ancorché leggere, inamovibili) che possano
giustificare l’addebito.
Per contro, e mentre la parte ha ampiamente prodotto documentazione e
descritto il manufatto, l’amministrazione si è limitata all’apodittica
affermazione che una non meglio chiarita “consuetudine applicativa”
porterebbe ad assimilare la struttura ad una veranda senza neppure farsi
carico, visto che la descrizione che ne offre lo stesso verbale di
sopralluogo non collima esattamente con quella prevista per le verande dal
regolamento comunale, di giustificare in concreto il proprio assunto.
Il primo motivo di ricorso deve quindi trovare accoglimento, con
annullamento del provvedimento impugnato (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 07.01.2020 n. 18 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Impugnazione di una variante ad un permesso
di costruire già oggetto di gravame.
L'omessa impugnazione di
una variante non essenziale di un permesso
di costruire, che si innesta su un
precedente titolo edilizio, non determina l’improcedibilità
del ricorso avverso il permesso edilizio
originario, restando infatti caducata
dall'annullamento del permesso originario,
in considerazione del rapporto di
presupposizione e continuità intercorrente
fra i titoli edilizi succedutisi nel tempo
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 07.01.2020 n. 13 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
I.2) Sotto altro profilo, la difesa comunale
deduce l’improcedibilità del ricorso in
relazione alla mancata impugnazione del
permesso di costruire in variante n.
4025/2009, rilasciato nelle more del
giudizio.
Anche tale eccezione va respinta.
Successivamente alla presentazione del
ricorso, il controinteressato si è infatti
limitato a chiedere ed ottenere una variante
per la realizzazione di talune opere
marginali, quali la riduzione di un
intercapedine mediante la realizzazione di
c.d. “bocche di lupo”, ed altre
interne, finalizzate al mero consolidamento
della struttura, che non hanno alterato in
modo significativo il progetto originario.
Per giurisprudenza costante, l’omessa
impugnazione di una variante non essenziale,
che si innesta su un precedente titolo
edilizio, non determina l’improcedibilità
del ricorso, restando infatti caducata
dall'annullamento del permesso originario,
in considerazione del rapporto di
presupposizione e continuità intercorrente
fra i titoli edilizi succedutisi nel tempo (C.S.,
Sez. VI, 12.11.2014, n. 5552, che ha
confermato TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
n. 1956/2012). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nelle controversie che hanno ad
oggetto i titoli edilizi, la vicinitas,
intesa come situazione di stabile
collegamento con l'immobile interessato
dalle opere, costituisce infatti elemento di
per sé sufficiente a fondare l'interesse ad
agire
---------------
I.3) Infine, contrariamente a quanto
sostenuto dalla difesa comunale, va
pacificamente riconosciuta la legittimazione
ad agire dei ricorrenti, in quanto
proprietari di immobili contigui a quello
oggetto del provvedimento impugnato.
Nelle controversie che hanno ad oggetto i
titoli edilizi, la vicinitas, intesa
come situazione di stabile collegamento con
l'immobile interessato dalle opere,
costituisce infatti elemento di per sé
sufficiente a fondare l'interesse ad agire
(TAR Campania, Salerno, Sez. II, 06.11.2017,
n. 1580) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 07.01.2020 n. 13 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La
volumetria del piano interrato non è
computabile solo qualora i relativi locali
siano destinati ad usi episodici o meramente
complementari, diversamente da quanto accade
se gli stessi, come nel caso di specie,
siano adibiti ad attività di tipo
continuativo, in cui occorre invece
considerarli a tutti gli effetti.
---------------
II.2) In ogni
caso, le specifiche censure indirizzate
avverso l’attività del verificatore
risultano inconsistenti.
In particolare, secondo il tecnico nominato
dal Comune, il verificatore sarebbe giunto
al calcolo dei volumi applicando criteri
errati, in quanto contrastanti con quanto
previsto dall’art. 4.14 delle Norme Tecniche
di Attuazione vigenti al momento del
rilascio del permesso di costruire
impugnato, la cui corretta interpretazione,
avrebbe invece reso necessario escludere la
parte interrata del manufatto.
Osserva il Collegio che, come sostenuto
dallo stesso resistente nella sua memoria
finale, in base a quanto previsto nella L.R.
11.3.2005 n. 12, la “quantità di
volumetria o superficie abitabile”, va
calcolata con riferimento alla c.d. SLP, che
costituisce “l’unico parametro che deve
essere utilizzato ai fini del rispetto
dell’indice di utilizzazione fondiaria”.
A sua volta, l’art 4.3 delle NTA vigenti al
momento della realizzazione dell’intervento
oggetto del presente giudizio, prevedeva che
la Superficie Lorda di Pavimento consistesse
nella “somma delle superfici dei singoli
piani abitabili o agibili, eventualmente
anche interrati”, ciò che pertanto
conferma la correttezza del criterio seguito
dal verificatore.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla
resistente e dalla controinteressata, l’art.
4.14 non consente di escludere dal computo
della SLP la superficie dei locali adibiti a
seminterrato. Malgrado la lettera B) di tale
disposizione preveda il computo della SLP
dei soli “piani fuori terra”, ciò
vale solo per i locali con le destinazioni
ivi menzionate, e pertanto, per quelli “con
funzione di disimpegno interno
all’appartamento o con funzione accessoria,
come ad esempio le scale, i disimpegni, i
ripostigli, i servizi igienici, i locali da
gioco per uso famigliare, le cantine, le
lavanderie, le stirerie, ecc.”.
Nel caso di specie, come accertato dal
verificatore, il piano seminterrato è
attualmente occupato da “bovini ed
attrezzature”, essendo sostanzialmente
destinato a stalla, ciò che rappresenta la
funzione principale dell’edificio in cui si
trova, non potendo pertanto essere
considerata “accessoria”, ciò che,
come detto, è invece richiesto dall’art.
4.14.B cit., ai fini dello scorporo dalla
relativa SLP da quella complessiva.
Quanto precede, oltre a risultare
dall’interpretazione letterale delle NTA,
trova inoltre conferma nella giurisprudenza
consolidata, secondo cui la volumetria del
piano interrato non è computabile solo
qualora i relativi locali siano destinati ad
usi episodici o meramente complementari,
diversamente da quanto accade se gli stessi,
come nel caso di specie, siano adibiti ad
attività di tipo continuativo, in cui
occorre invece considerarli a tutti gli
effetti (Cass. Civ. Sez. Trib., 18.05.2016,
n. 10191, TAR Lazio, Roma, Sez. I,
09.12.2011, n. 9646, TAR Puglia, Lecce, Sez.
I, 11.03.2009, n. 475)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 07.01.2020 n. 13 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Associazioni
di categoria in giudizio, ma con giudizio. Sono legittimate a stare in
giudizio solo in caso di lesione di un interesse omogeneo comune all’intera
categoria. Lo ha precisato il Tar per la Lombardia.
Le associazioni di categoria sono legittimate a stare in giudizio solo in
caso di lesione di un interesse omogeneo comune all'intera categoria.
Lo ha precisato il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, con la
sentenza 02.01.2020 n. 2.
La controversia verte sulla delibera della Regione Lombardia con la quale
era stata riorganizzata la rete di offerta e modalità di presa in carico dei
pazienti cronici e fragili. A seguito di tale delibera i medici di medicina
generale non avrebbero più potuto assumere il ruolo di clinical manager
del proprio assistito e redigere il Piano di assistenza individuale in modo
autonomo, ma lo avrebbero fatto solo in forma associata, previa iscrizione
in un apposito elenco di idonei, con altri medici generici o assumendo il
ruolo di co-gestore.
Il sindacato Italiano medici del territorio aveva, quindi, impugnato la
delibera lamentando la lesione e la dequotazione del ruolo del medico di
medicina generale nella presa in carico del paziente cronico.
Il Tribunale amministrativo regionale dichiara il difetto di legittimazione
ad agire del sindacato.
Il collegio premette, infatti, che il sistema di tutela giurisdizionale
amministrativa ha «il carattere di giurisdizione soggettiva e non di difesa
dell'oggettiva legittimità dell'azione amministrativa, alla stregua di
un'azione popolare». Non è concesso, pertanto, un ampliamento della
legittimazione attiva al di fuori dei casi espressamente previsti dalla
legge.
Detto ciò, le associazioni di categoria sono legittimate a stare in giudizio
solo in caso di lesione di un interesse omogeneo comune all'intera categoria
e non anche quando si verta su questioni capaci di dividere la categoria in
posizioni contrastanti.
L'interesse collettivo dell'associazione, infatti, deve identificarsi con
l'interesse di tutti gli appartenenti alla categoria unitariamente
considerata non potendo l'associazione agire dove vi sia disomogeneità delle
posizioni al suo interno.
Ora, nel caso di specie va osservato che diversi medici iscritti al
sindacato ricorrente hanno aderito, fin dall'esordio, al nuovo modello
gestionale, manifestando dunque un interesse contrario a quello tutelato con
il presente ricorso dal sindacato di appartenenza.
In altri termini i giudici rilevano l'eterogeneità delle posizioni assunte
dal sindacato e da alcuni medici appartenenti allo stesso e il conflitto di
interessi tra l'associazione e alcuni dei suoi iscritti.
Tale circostanza porta inevitabilmente all'inammissibilità del ricorso
(articolo ItaliaOggi dell'11.01.2020). |
EDILIZIA PRIVATA: L'individuazione
della superficie dell'area di sedime da acquisire al patrimonio del Comune
in caso di inottemperanza dell'ordinanza di demolizione non deve essere
contenuta necessariamente in quest'ultimo provvedimento, bensì, a pena
d'illegittimità, nel successivo atto d'acquisizione gratuita del bene,
costituendo quest'ultimo il titolo per l'immissione in possesso dell'opera e
per la trascrizione nei registri immobiliari.
---------------
9. Il primo motivo va respinto alla luce dei consolidati principi
giurisprudenziali, più volte affermati anche da questo Tribunale, secondo
cui “l'individuazione della superficie dell'area di sedime da acquisire
al patrimonio del Comune in caso di inottemperanza dell'ordinanza di
demolizione non deve essere contenuta necessariamente in quest'ultimo
provvedimento, bensì, a pena d'illegittimità, nel successivo atto
d'acquisizione gratuita del bene, costituendo quest'ultimo il titolo per
l'immissione in possesso dell'opera e per la trascrizione nei registri
immobiliari” (ex multis: TAR Torino, sez. II, 05.04.2019, n. 405;
TAR Torino, sez. II, 14/11/2018, n. 1246; Consiglio di Stato, sez. VI,
06/02/2018, n. 755)
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 02.01.2020 n. 1 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell'art. 27, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 deve sempre
essere disposta la rimozione delle opere abusive che risultino essere state
realizzate in difformità dalle previsioni delle norme e prescrizioni
edilizie ed urbanistiche, ancorché, in ipotesi, soggette a mero regime
autorizzativo, dovendosi applicare la sola pena pecuniaria alle opere
abusivamente realizzate soggette a d.i.a. o s.c.i.a. ma che non siano
difformi dallo strumento urbanistico, e per le quali non sia stata
tempestivamente presentata istanza per il rilascio di sanatoria ex art. 36,
cit. d.P.R. n. 380 del 2001.
Altresì, le opere edilizie abusive, anche qualora abbiano natura
pertinenziale o precaria e, quindi, siano assentibili con mera Dia, se
realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico, debbono considerarsi
comunque eseguite in totale difformità dalla concessione, laddove non sia
stata ottenuta alcuna preventiva autorizzazione paesaggistica e,
conseguentemente, deve essere applicata la sanzione demolitoria.
---------------
10. L’affermazione del ricorrente, secondo cui le opere abusivamente
realizzate sarebbero state soggette a d.i.a., e non già a permesso di
costruire, risulta destituita di fondamento: infatti, secondo quanto emerge
dalla descrizione dei manufatti effettuata dai tecnici che hanno eseguito il
sopralluogo il -OMISSIS-, non smentita dal ricorrente, i manufatti
sanzionati hanno comportato una rilevante modificazione del territorio, con
la realizzazione di un terrapieno, prima inesistente, eseguito mediante
riporto di oltre 1000 mc di terreno, e di un nuovo fabbricato chiaramente
destinato ad uso antropico. Si tratta, all’evidenza, di opere edilizie
integranti “nuova costruzione”, come tali soggette a preventivo
rilascio del permesso di costruire.
10.1. Peraltro occorre rammentare che “Ai sensi dell'art. 27, d.P.R.
06.06.2001, n. 380 deve sempre essere disposta la rimozione delle opere
abusive che risultino essere state realizzate in difformità dalle previsioni
delle norme e prescrizioni edilizie ed urbanistiche, ancorché, in ipotesi,
soggette a mero regime autorizzativo, dovendosi applicare la sola pena
pecuniaria alle opere abusivamente realizzate soggette a d.i.a. o s.c.i.a.
ma che non siano difformi dallo strumento urbanistico, e per le quali non
sia stata tempestivamente presentata istanza per il rilascio di sanatoria ex
art. 36, cit. d.P.R. n. 380 del 2001” (TAR Piemonte, sez. II,
09/06/2016, n. 780), e che “Le opere edilizie abusive, anche qualora
abbiano natura pertinenziale o precaria e, quindi, siano assentibili con
mera Dia, se realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico, debbono
considerarsi comunque eseguite in totale difformità dalla concessione,
laddove non sia stata ottenuta alcuna preventiva autorizzazione
paesaggistica e, conseguentemente, deve essere applicata la sanzione
demolitoria” (C.d.S. sez. IV, 26/09/2018, n. 5524): nel caso di specie
non risulta che le opere fosse conformi alle norme urbanistiche vigenti per
la zona; anche l’insistenza, sul fondo, di ben due vincoli, uno dei quali
(quello di rispetto stradale) comportante inedificabilità assoluta, imponeva
in ogni caso la demolizione
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 02.01.2020 n. 1 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura
abusiva delle opere edilizie, come tutti i provvedimenti sanzionatori
edilizi, è un atto dovuto e, in quanto tale, non deve essere preceduto
dall'avviso ex art. 7 della L. 07.08.1990, n. 241, trattandosi di una misura
sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni
urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente
tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge.
Pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso
sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia l'abuso, di cui il
ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella
propria sfera di controllo.
---------------
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha definitivamente acclarato che
il decorso del tempo non incide sull’obbligo, delle Amministrazioni, di
perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione,
affermando che, nel caso di tardiva adozione del provvedimento di
demolizione, la mera inerzia da parte dell’amministrazione non consuma il
potere di reprimere l’abuso, non è idonea a far divenire legittimo ciò che
(l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo, realizzando una
forma di sanatoria automatica o praeter legem, e neppure può radicare un
affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario dell’abuso.
---------------
12. Il quarto motivo, volto al lamentare l'omissione della
comunicazione di avvio del procedimento, va respinto in applicazione della
giurisprudenza secondo cui l'ordine di demolizione conseguente
all'accertamento della natura abusiva delle opere edilizie, come tutti i
provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto e, in quanto tale, non
deve essere preceduto dall'avviso ex art. 7 della L. 07.08.1990, n. 241,
trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza
di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata
precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla
legge; pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio,
esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia l'abuso, di cui il
ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella
propria sfera di controllo (Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.06.2017, n.
2681; V, 28.04.2014, n. 2194).
13. Per la medesima ragione, ovvero per la natura vincolata della sanzione
demolitoria, conseguente al rilievo della abusività delle opere, va respinto
il quinto motivo, con il quale il ricorrente invoca a proprio favore
il lungo lasso di tempo trascorso dalla realizzazione delle opere abusive.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 9 del
17.10.2017, ha infatti definitivamente acclarato che il decorso del tempo
non incide sull’obbligo, delle Amministrazioni, di perseguire l’illecito
attraverso l’adozione della relativa sanzione, affermando che, nel caso di
tardiva adozione del provvedimento di demolizione, la mera inerzia da parte
dell’amministrazione non consuma il potere di reprimere l’abuso, non è
idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo)
è sin dall’origine illegittimo, realizzando una forma di sanatoria
automatica o praeter legem, e neppure può radicare un affidamento di
carattere “legittimo” in capo al proprietario dell’abuso
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 02.01.2020 n. 1 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il vincolo
cimiteriale ha ulteriori finalità, quali quella di assicurare il
“decoro del luogo di culto” e, soprattutto, la funzione di assicurare una
cintura sanitaria attorno a luoghi insalubri.
Quest’ultima finalità costituisce la principale
ratio delle zone di rispetto dei cimiteri, che per tale motivo di superiore
interesse pubblico è stata fissata dall’art. 338 del TU n. 1265/1934 in 200
metri dai centri abitati, una fascia di rispetto nella quale è vietato
costruire nuovi edifici o ampliare quelli preesistenti, salvo deroghe ed
eccezioni normativamente previste.
Successivamente, il disposto normativo è stato completato con la
precisazione “salvo deroghe ed eccezioni normativamente previste”, dall'art.
28 della l. 01.08.2002, n. 166, che ha ripreso alcune previsioni previgenti (art. 57, co. 3-4, DPR 285/1990 Regolamento di polizia mortuaria,
art. 1 Legge n. 983/1957- DPR n. 803/1975) –che consentivano, in
determinate circostanze, la possibilità di ridurre tale distanza– che sono
state abrogate dall'art. 28 della l. 01.08.2002, n. 166 e sostituiti dai
commi quarto, quinto e settimo dell'art. 338 del r.d. 1265 del 1934,
novellato dalla stessa legge, a partire dalla sua entrata in vigore.
Va da subito ricordato che, secondo la lettura della giurisprudenza in
materia l'istituto della riduzione della fascia di rispetto, derivante dal
combinato disposto dell'art. 338, quarto comma, del r.d. 1265 del 1934 e
dell'art. 57, comma 4, del d.P.R. 285 del 1990, “attiene solo ed
esclusivamente alle predette ipotesi di estensione dell'area cimiteriale, e
non contempla una correlativa facoltà del privato di insediarsi in deroga
alla fascia vigente. L'istituto stesso risulta infatti essenzialmente
deputato a soddisfare il pubblico interesse al reperimento di aree per le
sepolture anche in deroga all'ordinario limite dei duecento metri nei "casi
di speciali condizioni locali", ferma restando la necessità della tutela
dell'igiene pubblica e della sacralità dei luoghi. In questo senso, quindi,
l'istituto assolve a necessità che trascendono l'interesse del singolo, che
non può per certo sostenerne la correlativa applicabilità uti singuli”.
Inoltre, per quanto attiene al quinto comma dell'art. 338 del r.d. 1265 del
1934 come sostituito dall'art. 1 della l. 983 del 1957, si ribadiva che la
riduzione della fascia di rispetto su richiesta del Consiglio Comunale per
"gravi e giustificati motivi" poteva a sua volta avvenire soltanto per
esigenze di interesse pubblico, come del resto accade a tutt'oggi
nell'attuale vigenza della corrispondente disciplina novellata dello stesso
art. 338, quinto comma e “sempre ad
esclusiva iniziativa del pubblico potere a ciò competente, e non già ad
iniziativa del privato (…). In questo caso, quindi, la mera previsione da
parte del legislatore di una possibile azione amministrativa finalizzata
alla riduzione dell'estensione della fascia di rispetto non identificava, e
non identifica, un mutamento della natura intrinsecamente e indefettibilmente assoluta del vincolo, ma consentiva e consente ai pubblici
poteri di disporre, nel contesto delle proprie funzioni di pianificazione
del territorio e mediante il procedimento speciale inderogabilmente al
riguardo contemplato, la localizzazione di opere pubbliche o di pubblico
interesse e di standard e, in genere, la realizzazione di opere edilizie e
l'insediamento di attività reputate compatibili, sotto il profilo sia
igienico-sanitario, sia del mantenimento della sacralità del luogo, con la
perdurante insistenza del vincolo. Pertanto si tratta di una possibilità
riservata all’iniziativa dei pubblici poteri, nelle particolari circostanze
e con le finalità previste dalla normativa.”
La prescrizione della fascia di inedificabilità in contestazione, ribadita
dalla legge soprarichiamata, è stata da sempre considerata,
indipendentemente dal livello della fonte, come norma che ha rango superiore
agli strumenti urbanistici comunali per cui opera con efficacia diretta ed
immediata a prescindere dal recepimento in questi ultimi, che non sono
idonei ad incidere sull’esistenza o sui limiti di tale vincolo, e prevale su
eventuali previsioni difformi dello strumento urbanistico, ed il limite
all’attività costruttiva in tale fascia è stato sempre considerato, specie
nella giurisprudenza recente, come “vincolo che ha carattere assoluto” e non consente in alcun modo l'allocazione sia
di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in
considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto
intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la
salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla
inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di possibile
espansione della cinta cimiteriale”, confermando “il vincolo, d'indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione
urbanistica, esso si impone di per sé, con efficacia diretta,
indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali
non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza
o sui suoi limiti”.
La deroga prevista per il caso in cui, per accertate particolari condizioni
locali, non sia possibile una localizzazione diversa per rispettare tale
distanza nella costruzione del nuovo cimitero, per cui un tempo il Prefetto
ed ora il Comune può ridurla, seguendo un apposito procedimento che prevede
il coinvolgimento anche dell’autorità sanitaria locale, entro il limite
fissato inderogabilmente a minimo 50 metri dall’art. 57 del DPR n. 285/1990), la struttura cimiteriale oppure qualora esistano ostacoli naturali o
artificiali che risultino idonei a creare un “cordone sanitario” (strade
pubbliche, fiumi, laghi, dislivelli etc.).
Tale norma introduce una deroga ispirata alla ratio di interesse pubblico di
assicurare il servizio obbligatorio cimiteriale nel Comune in cui questo
altrimenti non potrebbe essere espletato e non può essere invocata, stante
la sua natura, a tutela dell’interesse privato del proprietario a costruire
nella fascia di rispetto. Ed in tale prospettiva, la pretesa del ricorrente
ad applicare la norma, a contrario, per consentirgli di edificare –o
ampliare edifici preesistenti- in zona inedificabile non è compatibile né
con la lettera, né con la finalità della norma derogatoria in esame.
Al riguardo la giurisprudenza in materia ha sottolineato che si tratta di
una deroga eccezionale, ispirata a finalità di interesse pubblico, per cui
tale istituto va usato con particolare cautela, qualora non sia possibile
fronteggiare altrimenti le esigenze emergenti, chiarendo che tale norma “non opera certamente al fine di
consentire l'edificazione da parte di privati derogando al limite generale
(ed al vincolo di in edificabilità assoluta così posto) contemplato dal
primo comma dell'articolo 338".
---------------
L’art. 338 al comma 7 del TU n. 1265/1934 prevede che
“All'interno della zona di rispetto per gli edifici esistenti sono
consentiti interventi di recupero ovvero interventi funzionali all'utilizzo
dell'edificio stesso, tra cui l'ampliamento nella percentuale massima del 10
per cento e i cambi di destinazione d'uso, oltre a quelli previsti dalle
lettere a), b), c) e d) del primo comma dell'art. 31 della legge 05.08.1978, n. 457”.
Il Collegio, pur riconoscendo che la genericità della formulazione testuale
della disposizione in esame -che non specifica quali destinazioni d’uso
possano ritenersi ammissibili– si presti a fraintendimenti, dando origine a
pretese di interpretazioni “estensive”, quali quella avanzata dalla parte
ricorrente, che però non sono condivisibili.
La vaghezza ed incompletezza di tale norma è dovuta alla frettolosità della
sua formulazione, trattandosi di un emendamento al Disegno di Legge n.
2032/2002, apportato all’ultimo ad uno provvedimenti collegati alla manovra
finanziaria per il 2002, ed al fatto che essa è stata inserita in un
contesto normativo totalmente diverso (volto a disciplinare una materia
“infrastrutture e trasporti”), innovando, senza operare un coordinamento con
la previgente disciplina del vincolo cimiteriale, sollevando i rilievi, in
merito a carenze di tecnica normativa e scarsa “progettazione”
dell’intervento normativo, segnalati già nel corso dei lavori parlamentari
da parte degli organi chiamati a rendere il parere sulla ammissibilità e
formulazione dell’emendamento (nonché dai commentatori esterni).
Ciò impone di coordinare i risultati di una lettura meramente letterale
della norma in parola con le esigenze dell’interpretazione
logico-sistematica per ricostruirne il significato e la portata della stessa
in modo da scegliere, tra le diverse opzioni interpretative, quella che
meglio s’accorda con i principi fondamentali e la ratio dell’art. 338 del
TULS, che non sono rimessi in discussione, nel loro valore fondamentale,
dall’intervento normativo in contestazione.
In tale prospettiva la giurisprudenza ha sottolineato l’esigenza di
un’interpretazione “restrittiva” delle norme derogatorie ai limiti delle
distanze previste per le opere d’interesse pubblico, sottolineando che tale
esigenze vale anche -ed a maggior ragione- per la deroga, intesa a
salvaguardia dell’interesse meramente privato del proprietario, prevista dal
comma 7 dell’art. 338 sopra richiamato –introdotta dall’articolo 28, comma
1, lettera b), della legge 01.08.2002, n. 166– che ha natura ancora più
eccezionale.
Pertanto è stato ribadito che il comma 7 dell’art. 338 in quanto tale norma
eccezionale va interpretata con “particolare rigore”, operando con
particolare cautela nell’individuare portata e limiti delle modifiche
apportate all'art. 338 cit. dalla novella del 2002 rispetto a richieste di
privati.
Il Collegio condivide appieno le ragioni e le preoccupazioni del Supremo
Consesso nell’evidenziare come tale comma introduca nel sistema un elemento
di stridente contrasto nel momento in cui, oltre a consentire interventi di
manutenzione, ristrutturazione ed adeguamento funzionale dell’edificio
pre-esistente –in fondo comprensibili in quanto trovano “giustificazione”
nella salvaguardia di uno stato di fatto dell’edificato storico già presente
da tempo in loco– ne permette addirittura il “cambio di destinazione
d’uso”, con conseguente possibilità di utilizzare il manufatto per finalità
diverse da quelle cui era destinato inizialmente, per un uso abitativo del
tutto incompatibile con i valori tutelati dal vincolo, consentendo un “nuovo
insediamento” che infrange il principio cardine del sistema della
separazione del camposanto (spazio chiuso destinato ad ospitare
esclusivamente salme) dai luoghi di vita e dagli spazi dedicati ad ospitare
stabilmente l’uomo (abitazioni, scuole, ospedali), che costituisce -sin
dall’epoca napoleonica– un principio di “civiltà urbanistica” per evidenti
ragioni di dignità tanto dei defunti quanto dei viventi (ragioni
riconosciute anche da quella giurisprudenza che ha ritenuto “non assoluto”
il vincolo cimiteriale e che però ha ribadito limite della destinazione
abitativa dell’immobile sito nella fascia di rispetto cimiteriale.
Il Collegio, condividendo tale impostazione ermeneutica, ritiene che si
debba dare un’interpretazione ragionevole alla disposizione sopra richiamata,
evitando di incorrere nell’equivoco cui potrebbe indurre la vaghezza della
sua formulazione testuale, che, potrebbe, ad una prima lettura, in mancanza
di ulteriori precisazioni, indurre a ritenere ammissibile qualunque “cambio
di destinazione”, incluso quello volto a creare nuove abitazioni in
prossimità del cimitero.
In realtà tale apparente “lacuna”, scaturente dall’interpretazione meramente
letterale, può essere meglio compresa ricorrendo alla lettura
logico-sistematica del comma 7 dell’art. 338 in contestazione e facendo
riferimento al contesto testuale in cui è inserito, che è evidentemente
inteso ad autorizzare interventi “funzionali” all’edificio (per cui, ad
esempio, si potrebbe convertire un locale magazzino preesistente in garage o
servizio igienico o locale per impianti) con esclusione totale di qualunque
nuovo intervento, volto alla creazione di un’abitazione, in violazione del
divieto, sancito dal comma 1 dello stesso art. 338, di costruirvi di nuovi
edifici.
In tale prospettiva, si deve ritenere che il cambio di destinazione d’uso
previsto dalla norma in parola è solo quello compatibile con il vincolo
(assoluto) in questione, per cui va escluso quello volto a trasformare in
abitazione un edificio preesistente destinato ad uso diverso da quello
abitativo; altrimenti, finirebbe per consentire non solo la sanatoria
generalizzata dei manufatti esistenti, ma anche l’ulteriore trasformazione
della loro destinazione, legittimandone l’uso abitativo in contrasto con la
natura assoluta del vincolo e la finalità di interesse generale dallo stesso
perseguita.
Ciò condurrebbe a risultati inaccettabili in quanto finirebbe per consentire
l’autorizzazione generalizzata, proprio a partire dal nuovo millennio, alla
creazione di nuovi insediamenti umani in prossimità del cimitero, segnando
un notevole arretramento rispetto agli elementari principi di civiltà
consacrati due secoli prima dalla legislazione cimiteriale dell’età
napoleonica.
Pertanto, siccome nel caso in esame, l’intervento abusivo non consiste solo
nel mero ampliamento del manufatto pre-esistente, ma anche nel cambio di
destinazione d’uso, con la trasformazione in abitazione di un manufatto
costruito per uso non abitativo (deposito e tettoia) -quindi eventualmente
allora compatibile con le esigenze di igiene pubblica tutelate dal vincolo– la sanatoria non si limiterebbe a legittimare solo il mantenimento in loco
dell’opera realizzata sine titulo nella fascia di rispetto cimiteriale, ma
anche il suo utilizzo abusivo per finalità che sono invece incompatibili con
il vincolo cimiteriale, qual è l’attuale destinazione residenziale
dell’immobile.
Né assume rilievo l’eventuale illegittima adozione di provvedimenti di
sanatoria di altri fabbricati siti nella medesima area, dato che la natura
inderogabile del vincolo deve semmai giustificare l’adozione di
provvedimenti di ritiro dei condoni concessi contra legem.
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La giurisprudenza in materia che ha da tempo chiarito che la natura insuperabilmente ostativa della collocazione dell’abuso
all’interno della zona di rispetto cimiteriale obbliga l’Amministrazione a rifiutarne la
sanatoria, senza che sia necessario effettuare alcuna “valutazione di
compatibilità” dell’opera con i valori tutelati dal vincolo, dato che la
legge stessa configurando tale vincolo come assoluto implicitamente esclude
tale accertamento, in quanto assegna priorità agli interessi pubblici da
salvaguardare nelle zone contigue al cimitero.
---------------
Con il primo motivo il ricorrente, premesso un richiamo alla
disciplina sulla fascia di rispetto cimiteriale ed alle possibilità di
deroga previste, sostiene che l’autorità pubblica possa “modularne”
l’ampiezza, in base alla valutazione dell'ente locale; comunque la natura
assoluta del vincolo mira essenzialmente ad impedire l'ulteriore
addensamento edilizio dell'area al fine di garantire la futura espansione
del cimitero (esigenza che nel caso di specie non ricorre dato che il
Cimitero si trova proprio sulla strada pubblica in cui è sito il manufatto,
che costituisce “un limite visto che al di là di tale strada il cimitero non
potrà mai espandersi”) e non esclude che siano mantenuti nella medesima area
edifici preesistenti o che ad essi vengano assegnate destinazioni
compatibili con il vincolo.
La prospettazione del ricorrente non può essere condivisa.
Lo stesso ricorrente riconosce che oltre alla ratio del vincolo cimiteriale
dallo stesso menzionata, e da lui ritenuta superabile nel caso di specie,
detto vincolo ha anche ulteriori finalità, quali quella di assicurare il
“decoro del luogo di culto” e, soprattutto, la funzione di assicurare una
cintura sanitaria attorno a luoghi insalubri.
Il Collegio ricorda che quest’ultima finalità costituisce la principale
ratio delle zone di rispetto dei cimiteri, che per tale motivo di superiore
interesse pubblico è stata fissata dall’art. 338 del TU n. 1265/1934 in 200
metri dai centri abitati, una fascia di rispetto nella quale è vietato
costruire nuovi edifici o ampliare quelli preesistenti, salvo deroghe ed
eccezioni normativamente previste.
Successivamente, il disposto normativo è stato completato con la
precisazione “salvo deroghe ed eccezioni normativamente previste”, dall'art.
28 della l. 01.08.2002, n. 166, che ha ripreso alcune previsioni previgenti (art. 57, co. 3-4, DPR 285/1990 Regolamento di polizia mortuaria,
art. 1 Legge n. 983/1957- DPR n. 803/1975) –che consentivano, in
determinate circostanze, la possibilità di ridurre tale distanza– che sono
state abrogate dall'art. 28 della l. 01.08.2002, n. 166 e sostituiti dai
commi quarto, quinto e settimo dell'art. 338 del r.d. 1265 del 1934,
novellato dalla stessa legge, a partire dalla sua entrata in vigore.
Va da subito ricordato che, secondo la lettura della giurisprudenza in
materia l'istituto della riduzione della fascia di rispetto, derivante dal
combinato disposto dell'art. 338, quarto comma, del r.d. 1265 del 1934 e
dell'art. 57, comma 4, del d.P.R. 285 del 1990, “attiene solo ed
esclusivamente alle predette ipotesi di estensione dell'area cimiteriale, e
non contempla una correlativa facoltà del privato di insediarsi in deroga
alla fascia vigente. L'istituto stesso risulta infatti essenzialmente
deputato a soddisfare il pubblico interesse al reperimento di aree per le
sepolture anche in deroga all'ordinario limite dei duecento metri nei "casi
di speciali condizioni locali", ferma restando la necessità della tutela
dell'igiene pubblica e della sacralità dei luoghi. In questo senso, quindi,
l'istituto assolve a necessità che trascendono l'interesse del singolo, che
non può per certo sostenerne la correlativa applicabilità uti singuli”.
Inoltre, per quanto attiene al quinto comma dell'art. 338 del r.d. 1265 del
1934 come sostituito dall'art. 1 della l. 983 del 1957, si ribadiva che la
riduzione della fascia di rispetto su richiesta del Consiglio Comunale per
"gravi e giustificati motivi" poteva a sua volta avvenire soltanto per
esigenze di interesse pubblico, come del resto accade a tutt'oggi
nell'attuale vigenza della corrispondente disciplina novellata dello stesso
art. 338, quinto comma (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 06.10.2017, n. 4656 e Sez. VI, 17.03.2014, n. 131) e “sempre ad
esclusiva iniziativa del pubblico potere a ciò competente, e non già ad
iniziativa del privato (…). In questo caso, quindi, la mera previsione da
parte del legislatore di una possibile azione amministrativa finalizzata
alla riduzione dell'estensione della fascia di rispetto non identificava, e
non identifica, un mutamento della natura intrinsecamente e indefettibilmente assoluta del vincolo, ma consentiva e consente ai pubblici
poteri di disporre, nel contesto delle proprie funzioni di pianificazione
del territorio e mediante il procedimento speciale inderogabilmente al
riguardo contemplato, la localizzazione di opere pubbliche o di pubblico
interesse e di standard e, in genere, la realizzazione di opere edilizie e
l'insediamento di attività reputate compatibili, sotto il profilo sia
igienico-sanitario, sia del mantenimento della sacralità del luogo, con la
perdurante insistenza del vincolo. Pertanto si tratta di una possibilità
riservata all’iniziativa dei pubblici poteri, nelle particolari circostanze
e con le finalità previste dalla normativa.”
La prescrizione della fascia di inedificabilità in contestazione, ribadita
dalla legge soprarichiamata, è stata da sempre considerata,
indipendentemente dal livello della fonte, come norma che ha rango superiore
agli strumenti urbanistici comunali per cui opera con efficacia diretta ed
immediata a prescindere dal recepimento in questi ultimi (Cons. st., sez. V,
n. 1006/1999; TAR Lazio, II-quater, 6896/2015; Cons. St., n. 2405/2014), che
non sono idonei ad incidere sull’esistenza o sui limiti di tale vincolo, e
prevale su eventuali previsioni difformi dello strumento urbanistico (Cons.
st., sez. IV, n. 4415/2007; CdS, sez. IV, 05/12/2018 n. 6891), ed il limite
all’attività costruttiva in tale fascia è stato sempre considerato, specie
nella giurisprudenza recente, come “vincolo che ha carattere assoluto” (Cons.
Stato Sez. II, n. 4587/2019) e non consente in alcun modo l'allocazione sia
di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in
considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto
intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la
salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla
inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di possibile
espansione della cinta cimiteriale”, confermando “il vincolo, d'indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione
urbanistica, esso si impone di per sé, con efficacia diretta,
indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali
non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza
o sui suoi limiti” (Consiglio di Stato, sez. IV, 08/07/2019, n. 4692)..
La deroga prevista per il caso in cui, per accertate particolari condizioni
locali, non sia possibile una localizzazione diversa per rispettare tale
distanza nella costruzione del nuovo cimitero, per cui un tempo il Prefetto
ed ora il Comune può ridurla, seguendo un apposito procedimento che prevede
il coinvolgimento anche dell’autorità sanitaria locale, entro il limite
fissato inderogabilmente a minimo 50 metri dall’art. 57 del DPR n. 285/1990), la struttura cimiteriale oppure qualora esistano ostacoli naturali o
artificiali che risultino idonei a creare un “cordone sanitario” (strade
pubbliche, fiumi, laghi, dislivelli etc.).
Tale norma introduce una deroga ispirata alla ratio di interesse pubblico di
assicurare il servizio obbligatorio cimiteriale nel Comune in cui questo
altrimenti non potrebbe essere espletato e non può essere invocata, stante
la sua natura, a tutela dell’interesse privato del proprietario a costruire
nella fascia di rispetto. Ed in tale prospettiva, la pretesa del ricorrente
ad applicare la norma, a contrario, per consentirgli di edificare –o
ampliare edifici preesistenti- in zona inedificabile non è compatibile né
con la lettera, né con la finalità della norma derogatoria in esame.
Al riguardo la giurisprudenza in materia ha sottolineato che si tratta di
una deroga eccezionale, ispirata a finalità di interesse pubblico, per cui
tale istituto va usato con particolare cautela, qualora non sia possibile
fronteggiare altrimenti le esigenze emergenti (Cons. St., sez. V, n.
52/1987), chiarendo che tale norma “non opera certamente al fine di
consentire l'edificazione da parte di privati derogando al limite generale
(ed al vincolo di in edificabilità assoluta così posto) contemplato dal
primo comma dell'articolo 338" (Consiglio di Stato, sez. VI, 09/03/2016,
n. 949).
La parte ricorrente, tuttavia, ritiene che l’Amministrazione comunale abbia
illegittimamente negato il rilascio del permesso di costruire in sanatoria
per condonare l’intervento abusivo in contestazione ed illegittimamente ne
abbia precluso la sua trasformazione in edificio ad uso abitativo, ritenendo
del tutto ininfluente che il manufatto sia stato o meno realizzato negli
anni '60, incorrendo in tal modo nella violazione dell’art. 338, comma 7,
del TU n. 1265/1934, come sostituito dall’articolo 28, comma 1, lettera b),
della legge 01.08.2002, n. 166.
L’art. 338 al comma 7 invocato dal ricorrente, in effetti, prevede che
“All'interno della zona di rispetto per gli edifici esistenti sono
consentiti interventi di recupero ovvero interventi funzionali all'utilizzo
dell'edificio stesso, tra cui l'ampliamento nella percentuale massima del 10
per cento e i cambi di destinazione d'uso, oltre a quelli previsti dalle
lettere a), b), c) e d) del primo comma dell'art. 31 della legge 05.08.1978, n. 457”.
Secondo la parte ricorrente sarebbe stato in tal modo superato, a seguito
dell’intervento del legislatore, quell’orientamento della giurisprudenza in
materia, che ha costantemente ribadito che il divieto di costruire attorno
ai cimiteri comporta anche quello di ampliare gli edifici preesistenti e si
applica anche alle sopraelevazioni (Cons. st., IV, n. 222/1996), che
l’esigenza di tutela perseguita mediante l’apposizione del vincolo
cimiteriale comporta sia il diniego di approvazione di un intervento
edilizio (anche solo di mera ristrutturazione dell’edificio pre-esistente:
Cons. St., sez. V, n. 275/1987), sia il rigetto dell’istanza di sanatoria
del manufatto abusivamente realizzato all’interno della fascia di rispetto (Cons.
St., sez. V, n. 4256/2008) e di conseguenza esclude la possibilità di
condonare opere abusive realizzate all'interno della fascia di rispetto
cimiteriale, dato che il vincolo cimiteriale determina “una situazione di inedificabilità ex lege ed integra una limitazione legale della proprietà a
carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non
suscettibile di deroghe di fatto” (CdS, sez. VI, 15/10/2018 n. 5911).
In
tale ottica la giurisprudenza aveva ritenuto che la natura insuperabilmente
ostativa della collocazione dell’abuso all’interno della zona predetta
obbliga l’Amministrazione a rifiutarne il condono, senza che sia necessario
effettuare alcuna “valutazione di compatibilità” dell’opera con i valori
tutelati dal vincolo (Cons. St., sez. V, n. 4256/2008).
Il Collegio, pur riconoscendo che la genericità della formulazione testuale
della disposizione in esame -che non specifica quali destinazioni d’uso
possano ritenersi ammissibili– si presti a fraintendimenti, dando origine a
pretese di interpretazioni “estensive”, quali quella avanzata dalla parte
ricorrente, che però non sono condivisibili.
La vaghezza ed incompletezza di tale norma è dovuta alla frettolosità della
sua formulazione, trattandosi di un emendamento al Disegno di Legge n.
2032/2002, apportato all’ultimo ad uno provvedimenti collegati alla manovra
finanziaria per il 2002, ed al fatto che essa è stata inserita in un
contesto normativo totalmente diverso (volto a disciplinare una materia
“infrastrutture e trasporti”), innovando, senza operare un coordinamento con
la previgente disciplina del vincolo cimiteriale, sollevando i rilievi, in
merito a carenze di tecnica normativa e scarsa “progettazione”
dell’intervento normativo, segnalati già nel corso dei lavori parlamentari
da parte degli organi chiamati a rendere il parere sulla ammissibilità e
formulazione dell’emendamento (nonché dai commentatori esterni).
Ciò impone di coordinare i risultati di una lettura meramente letterale
della norma in parola con le esigenze dell’interpretazione
logico-sistematica per ricostruirne il significato e la portata della stessa
in modo da scegliere, tra le diverse opzioni interpretative, quella che
meglio s’accorda con i principi fondamentali e la ratio dell’art. 338 del TULS, che non sono rimessi in discussione, nel loro valore fondamentale,
dall’intervento normativo in contestazione.
In tale prospettiva la giurisprudenza ha sottolineato l’esigenza di
un’interpretazione “restrittiva” delle norme derogatorie ai limiti delle
distanze previste per le opere d’interesse pubblico, sottolineando che tale
esigenze vale anche -ed a maggior ragione- per la deroga, intesa a
salvaguardia dell’interesse meramente privato del proprietario, prevista dal
comma 7 dell’art. 338 sopra richiamato –introdotta dall’articolo 28, comma
1, lettera b), della legge 01.08.2002, n. 166– che ha natura ancora più
eccezionale.
Pertanto è stato ribadito che il comma 7 dell’art. 338 in quanto tale norma
eccezionale va interpretata con “particolare rigore”, operando con
particolare cautela nell’individuare portata e limiti delle modifiche
apportate all'art. 338 cit. dalla novella del 2002 rispetto a richieste di
privati (Cons. Stato sez. IV n. 4656 del 2017; sez. VI, n. 3667 del 2015; nn.
3410 e 1317 del 2014; Consiglio di Stato, sez. VI, 09/03/2016, n. 949).
Il Collegio condivide appieno le ragioni e le preoccupazioni del Supremo
Consesso nell’evidenziare come tale comma introduca nel sistema un elemento
di stridente contrasto nel momento in cui, oltre a consentire interventi di
manutenzione, ristrutturazione ed adeguamento funzionale dell’edificio
pre-esistente –in fondo comprensibili in quanto trovano “giustificazione”
nella salvaguardia di uno stato di fatto dell’edificato storico già presente
da tempo in loco– ne permette addirittura il “cambio di destinazione
d’uso”, con conseguente possibilità di utilizzare il manufatto per finalità
diverse da quelle cui era destinato inizialmente, per un uso abitativo del
tutto incompatibile con i valori tutelati dal vincolo, consentendo un “nuovo
insediamento” che infrange il principio cardine del sistema della
separazione del camposanto (spazio chiuso destinato ad ospitare
esclusivamente salme) dai luoghi di vita e dagli spazi dedicati ad ospitare
stabilmente l’uomo (abitazioni, scuole, ospedali), che costituisce -sin
dall’epoca napoleonica– un principio di “civiltà urbanistica” per evidenti
ragioni di dignità tanto dei defunti quanto dei viventi (ragioni
riconosciute anche da quella giurisprudenza che ha ritenuto “non assoluto”
il vincolo cimiteriale e che però ha ribadito limite della destinazione
abitativa dell’immobile sito nella fascia di rispetto cimiteriale (TAR
Lombardia, sez. III, n. 2295/2011; TAR Umbria, n. 470/2004).
Il Collegio, condividendo tale impostazione ermeneutica, ritiene che si
debba dare un’interpretazione ragionevole alla disposizione sopra richiamata,
evitando di incorrere nell’equivoco cui potrebbe indurre la vaghezza della
sua formulazione testuale, che, potrebbe, ad una prima lettura, in mancanza
di ulteriori precisazioni, indurre a ritenere ammissibile qualunque “cambio
di destinazione”, incluso quello volto a creare nuove abitazioni in
prossimità del cimitero.
In realtà tale apparente “lacuna”, scaturente dall’interpretazione meramente
letterale, può essere meglio compresa ricorrendo alla lettura
logico-sistematica del comma 7 dell’art. 338 in contestazione e facendo
riferimento al contesto testuale in cui è inserito, che è evidentemente
inteso ad autorizzare interventi “funzionali” all’edificio (per cui, ad
esempio, si potrebbe convertire un locale magazzino preesistente in garage o
servizio igienico o locale per impianti) con esclusione totale di qualunque
nuovo intervento, volto alla creazione di un’abitazione, in violazione del
divieto, sancito dal comma 1 dello stesso art. 338, di costruirvi di nuovi
edifici.
In tale prospettiva, si deve ritenere che il cambio di destinazione d’uso
previsto dalla norma in parola è solo quello compatibile con il vincolo
(assoluto) in questione, per cui va escluso quello volto a trasformare in
abitazione un edificio preesistente destinato ad uso diverso da quello
abitativo; altrimenti, finirebbe per consentire non solo la sanatoria
generalizzata dei manufatti esistenti, ma anche l’ulteriore trasformazione
della loro destinazione, legittimandone l’uso abitativo in contrasto con la
natura assoluta del vincolo e la finalità di interesse generale dallo stesso
perseguita.
Ciò condurrebbe a risultati inaccettabili in quanto finirebbe per consentire
l’autorizzazione generalizzata, proprio a partire dal nuovo millennio, alla
creazione di nuovi insediamenti umani in prossimità del cimitero, segnando
un notevole arretramento rispetto agli elementari principi di civiltà
consacrati due secoli prima dalla legislazione cimiteriale dell’età
napoleonica.
Pertanto, siccome nel caso in esame, l’intervento abusivo non consiste solo
nel mero ampliamento del manufatto pre-esistente, ma anche nel cambio di
destinazione d’uso, con la trasformazione in abitazione di un manufatto
costruito per uso non abitativo (deposito e tettoia) -quindi eventualmente
allora compatibile con le esigenze di igiene pubblica tutelate dal vincolo– la sanatoria non si limiterebbe a legittimare solo il mantenimento in loco
dell’opera realizzata sine titulo nella fascia di rispetto cimiteriale, ma
anche il suo utilizzo abusivo per finalità che sono invece incompatibili con
il vincolo cimiteriale, qual è l’attuale destinazione residenziale
dell’immobile.
Né assume rilievo l’eventuale illegittima adozione di provvedimenti di
sanatoria di altri fabbricati siti nella medesima area (circostanza
verbalmente dedotta, ma senza supporto documentale), dato che la natura
inderogabile del vincolo deve semmai giustificare l’adozione di
provvedimenti di ritiro dei condoni concessi contra legem (vedi, nel senso
dell’annullamento di titoli edilizi rilasciati in violazione delle distanze
di rispetto dal cimitero, Cons. st., sez. V 379/1991; cfr., Cons. St., sez.
7329/2019-sull’impossibilità di invocare la disparità di trattamento per
superare l’illegittimità dell’operato dell’Amministrazione che ha permesso
costruzione in violazione del vincolo di inedificabilità nella fascia
cimiteriale, anche successivamente alla modifica dell’art. 338 operata dalla
legge n. 166/2002).
Il primo motivo va quindi respinto.
Con il secondo motivo il ricorrente lamenta il difetto di motivazione del
provvedimento impugnato, sostenendo che, a seguito della riforma
dell'articolo 338 T.U. leggi sanitarie il vincolo cimiteriale comporta un’inedificabilità
relativa, con conseguente onere dell’autorità preposta alla tutela del
vincolo di specificare i motivi ostativi alla sanatoria; motivazione che,
comunque, risultava necessaria anche in considerazione del pregresso operato
dell'amministrazione comunale resistente che aveva rilasciato concessione
edilizia in sanatoria ed anche dalla presenza di altre unità immobiliari,
nonché dall'esclusione dell’esigenza di salvaguardare l’estensione del
cimitero, che trova confine naturale nella strada pubblica.
La prospettazione del ricorrente non merita condivisione in quanto si pone
in contrasto con la giurisprudenza in materia che ha da tempo chiarito che
la natura insuperabilmente ostativa della collocazione dell’abuso
all’interno della zona predetta obbliga l’Amministrazione a rifiutarne la
sanatoria, senza che sia necessario effettuare alcuna “valutazione di
compatibilità” dell’opera con i valori tutelati dal vincolo, dato che la
legge stessa configurando tale vincolo come assoluto implicitamente esclude
tale accertamento, in quanto assegna priorità agli interessi pubblici da
salvaguardare nelle zone contigue al cimitero (Cons. St., sez. VI, n.
4692/2019; n. 949/2016; sez. V, n. 6671/2010; n. 4256/2008; n. 1935/2007).
Il ricorso va pertanto respinto
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 24.12.2019 n. 14866 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costruzioni in cemento armato in zone sismiche – Deposito
degli elaborati progettuali “a sanatoria” dopo la
realizzazione delle opere – Effetti sulle contravvenzioni
urbanistiche e sulle contravvenzione antisismica –
Estinzione dei reati previsti dalle norme urbanistiche ma
non quelli previsti dalla normativa antisismica.
Il deposito allo sportello unico, dopo
la realizzazione delle opere e, quindi, “a sanatoria”, della
comunicazione richiesta dall’art. 93 d.P.R. 06.06.2001, n.
380 e degli elaborati progettuali non estingue la
contravvenzione antisismica, che punisce l’omesso deposito
preventivo di detti elaborati, in quanto l’effetto estintivo
è limitato dall’art. 45 del d.P.R. 380 del 2001 alle sole
contravvenzioni urbanistiche.
Tale principio è certamente estensibile anche ai reati
previsti dagli artt. 71 e ss. del T.U.E. per la violazione
della disciplina delle opere in conglomerato cementizio
armato, normale e precompresso ed a struttura metallica.
Diversamente dalla previsione di cui all’art. 45, comma 3,
d.P.R. 380 del 2001, non v’è, di fatti, alcuna disposizione
che preveda l’estinzione di detti reati nel caso di tardivo
adempimento degli obblighi omessi, o, più in generale, di
“sanatoria” amministrativa delle violazioni e, in forza
della citata disposizione, lo stesso accertamento di
conformità ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n.
380 comporta l’estinzione dei reati contravvenzionali
previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non di quelli
previsti dalla normativa antisismica e sulle opere di
conglomerato cementizio (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.12.2019 n. 51652 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi – Aumento di volume rispetto al progetto
autorizzato e variazione della sagoma – Permesso di
costruire – Totale difformità – Qualificazione del reato
urbanistico in mera parziale difformità – Esclusione – Artt.
44, 71, 72 e 95 d.P.R. n. 380/2001.
L’art. 31, comma 1, prima parte, T.U.E.
prevede che, la totale difformità ricorre quando gli
interventi «comportano la realizzazione di un organismo
edilizio integralmente diverso per caratteristiche… planivolumetriche… da quello oggetto del permesso stesso».
Sicché, un significativo aumento di volume rispetto al
progetto (in specie, pari quasi al doppio di quello
consentito) e la descritta variazione della sagoma
(perimetrale ed in altezza) integra certamente gli estremi
di quell’allud pro alio che rende corretta la qualificazione
giuridica in termini di totale difformità ed impedisce
invece di ritenere la mera parziale difformità (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.12.2019 n. 51652 - link a www.ambientediritto.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Telecamere
in azienda: intesa sindacale o sì dell’Ispettorato.
Per la Corte di cassazione non basta l'unanimità dei lavoratori interessati.
Per le telecamere in azienda, l'unanimità dei lavoratori
non basta. Anche dopo il regolamento Ue sulla privacy (Gdpr) ci vuole o
l'accordo con i sindacati oppure, in mancanza, l'autorizzazione
dell'Ispettorato del lavoro.
È quanto deciso dalla Corte di Cassazione, Sez. III penale, (sentenza
17.12.2019 n.
50919).
Il consenso dei lavoratori non fa evitare la condanna penale per
videosorveglianza illecita. La pronuncia ha ritenuto che il Gdpr non ha
modificato il quadro normativo e che non c'è spazio per giustificare la
condotta del datore di lavoro, anche quando tutti i suoi i dipendenti
abbiano acconsentito alle telecamere.
In particolare, non ha rilevanza l'assenso dei lavoratori, in quanto la
disposizione di riferimento, e cioè l'articolo 4 dello Statuto dei
lavoratori (legge 300 del 1970), non assegna alcun rilievo alla volontà dei
singoli lavoratori; viene, invece, considerata la volontà manifestata dal
sindacato o, in secondo piano, l'autorizzazione da parte dell'autorità
amministrativa.
La Cassazione è esplicita nell'affermare che il consenso in qualsiasi forma
(scritta od orale, preventiva o successiva all'installazione) prestato dai
singoli lavoratori non valga a scriminare la condotta del datore di lavoro,
che abbia installato gli impianti di videosorveglianza in violazione delle
prescrizioni dettate dall'articolo 4 dello Statuto dei lavoratori.
Non ha significato assolutorio neppure il fatto che il datore di lavoro non
abbia visionato le riprese eventualmente effettuate.
La trafila che l'imprenditore deve seguire per installare telecamere, da cui
possa derivare un controllo indiretto dei lavoratori, anche dopo il Gdpr,
prevede, in prima battuta, un accordo con i sindacati aziendali. Il
rapporto, in relazione all'installazione, non si sviluppa, infatti, tra
datore di lavoro e singoli lavoratori, ma tra imprenditore e ente
rappresentativo dei lavoratori.
La norma presuppone che il singolo lavoratore sia succube del proprio datore
di lavoro e che, nel rapporto uno a uno, la parte debole finisca per
acconsentire solo per il timore delle conseguenze negative in caso di
dissenso.
La spersonalizzazione dei rapporti dovrebbe riequilibrare le posizioni.
Così l'impostazione della legge 300/1970. Tutto questo non deve però fare
dimenticare che, in relazione, non all'installazione, ma all'esercizio dei
diritti relativi alle registrazioni il protagonista è il singolo lavoratore,
che può agire individualmente, senza obbligo di intermediazione
dell'organizzazione sindacale. È al lavoratore, in quanto soggetto ripreso e
quindi «interessato», ai sensi delle norme sulla privacy, che è
dovuta l'informazione su installazione e condizioni di utilizzo della
telecamere; è il singolo lavoratore che può esercitare i diritti previsti
dal Gdpr: ad esempio accesso alle registrazione, cancellazione, opposizione
al trattamento.
Quindi, nella fase dell'installazione il lavoratore, parte debole del
rapporto, è, nel suo interesse, spogliato del potere di acconsentire, ma
dopo l'installazione sorgono diritti individuali del singolo dipendente.
Può, però, capitare che il datore di lavoro e i sindacati non trovino un
accordo. A questo punto l'impresa non deve fare l'errore di rivolgersi ai
singoli dipendenti: anche se tutti concordano e, magari, lo fanno
spontaneamente senza subire pressioni, questo non elimina il reato commesso.
Il datore di lavoro, prima dell'installazione, deve rivolgersi
all'ispettorato del lavoro, sede territoriale, spiegare bene come e perché
si installano le telecamere e come funzionano e ottenere l'autorizzazione.
Solo dopo si possono montare i dispositivi e si possono far funzionare.
Da non dimenticare che l'accordo sindacale o l'autorizzazione
dell'ispettorato non eliminano gli obblighi previsti dal Gdpr. Quindi, oltre
ad accordo/autorizzazione, si deve dare l'informativa ai lavoratori, si
devono programmare e applicare le misure di sicurezza, si deve fare la
valutazione di impatto privacy (nei casi dell'articolo 35 Gdpr), si devono
nominare i fornitori del servizio quali responsabili esterni del
trattamento.
Tra i due profili (quello dello Statuto e quello del Gdpr) c'è, però, sempre
un collegamento: la mancanza dell'accordo/autorizzazione compromette anche
la liceità del trattamento dei dati
(articolo ItaliaOggi del 07.01.2020). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Telecamere, iter inderogabile. Necessario l’accordo sindacale o
l’autorizzazione dell’Itl. Per la Corte di cassazione non basta il consenso
dei lavoratori alla videosorveglianza.
Il consenso espresso dai lavoratori non elimina la illiceità del
comportamento datoriale che ha installato un impianto di videosorveglianza
senza il prescritto accordo sindacale o, in alternativa, senza
l'autorizzazione dell'Itl. Infatti, ai fini del corretto rispetto della
procedura prevista dall'art. 4 della legge 300/1970 (cosiddetto «Statuto dei
lavoratori») è sempre necessario ottenere l'accordo sindacale (Rsa o Rsu) o,
se non presenti, l'autorizzazione dell'Itl. Solo le rappresentanze dei
lavoratori o, in alternativa, l'Itl, attraverso il proprio provvedimento,
sono deputati a esprimere il consenso, in quanto i lavoratori interessati
sono «parte debole» nel rapporto, e ciò impone di ritenere inderogabile
quanto previsto dal predetto articolo.
A
stabilirlo è la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza
17.12.2019 n.
50919.
Il caso. La
vicenda portata all'attenzione dei giudici della Suprema corte riguarda un
datore di lavoro, condannato alla pena di 1.000 euro di ammenda, per avere
installato, in violazione degli artt. 114 e 171 del dlgs 196/2003 e
dell'art. 4, comma 1 della legge 300/1970, all'interno della propria
azienda, n. 16 telecamere di un impianto di videosorveglianza, senza aver
ottenuto un preventivo accordo sindacale ovvero un'autorizzazione della sede
locale dell'Itl.
Nonostante lo scopo delle telecamere fosse di controllare l'accesso al
locale e fungere da deterrente per eventi criminosi, le stesse, in realtà,
finivano per controllare i lavoratori nell'atto di espletare le loro
mansioni.
Sul punto, affermava il tribunale di Milano, sebbene il datore di lavoro
avesse rimosso l'impianto in questione una volta che la sua installazione
gli era stata contestata, non aveva provveduto al pagamento della somma
determinata a titolo di oblazione amministrativa, ritenendo che il fatto da
lui compiuto non fosse penalmente rilevante.
Inoltre, ad avviso dei giudici, a nulla poteva valere la circostanza che
l'imputato avesse depositato una liberatoria sottoscritta da tutti i propri
dipendenti, e precedentemente inviata all'Ispettorato, posto che il
documento in questione non solo era stato formato successivamente alla
materiale realizzazione della condotta a lui ascritta ed alla constatazione
della sua esistenza, ma, in ogni caso, esso non poteva fungere da sostituto
o dell'esistenza dell'accordo sindacale ovvero della autorizzazione
rilasciata dall'organo pubblico.
La difesa.
Avverso tale pronuncia ricorreva il datore di lavoro, lamentando che i
giudici non avessero considerato il tipo di attività svolta dall'imputato,
gestione di un locale pubblico, tale da giustificare, nell'interesse stesso
delle maestranze, una forma di controllo volto a evitare il verificarsi di
possibili eventi avversi all'interno del locale.
Inoltre, sottolineava il ricorrente, la circostanza che le eventuali parti
offese del reato contestato avessero prestato il loro assenso, doveva
intendersi come elemento atto a escludere la rilevanza penale della condotta
datoriale.
La sentenza. I
giudici della Suprema corte ritengono manifestamente infondato il ricorso
del datore di lavoro.
Secondo gli Ermellini, non ha alcun rilievo la circostanza, dedotta dal
ricorrente, secondo la quale l'impianto di registrazione visiva era stato
installato onde garantire la sicurezza degli stessi dipendenti, posto che la
finalità di garantire la sicurezza sul lavoro è uno dei fattori che, in
linea astratta, rendono possibile l'attivazione di tale tipo di impianti.
Così come irrilevante è, ai fini della possibile integrazione della
contravvenzione contestata, la circostanza che il datore di lavoro non abbia
avuto personalmente accesso al contenuto delle videoriprese essendo
l'impianto attraverso il quale esse vengono effettuate gestito da un
soggetto terzo rispetto al datore di lavoro.
Pertanto, il consenso dei lavoratori che operano nell'impresa non risulta
idoneo a sanare l'illecito, anche in considerazione del ruolo di «parte
debole» che connota il lavoratore rispetto alla parte datoriale.
In definitiva, conclude la Cassazione, il consenso o l'acquiescenza che il
lavoratore potrebbe, in ipotesi, prestare o avere prestato, non svolge
alcuna funzione esimente, atteso che, in tal caso, l'interesse collettivo
tutelato, quale bene di cui il lavoratore non può validamente disporne,
rimane fuori della teoria del consenso dell'avente diritto
(articolo ItaliaOggi Sette del 23.12.2019). |
TRIBUTI: ICI,
per l'edificabilità di un terreno si tiene conto anche del piano
paesaggistico regionale.
In tema di Ici, ai fini della valutazione dell'area come edificabile, non va
preso in considerazione soltanto l'inserimento del fondo nel piano
regolatore generale, ma si deve aver riguardo anche alle previsioni del
piano paesaggistico regionale che possono prevedere dei limiti di
inedificabilità, rendendo di fatto il pagamento dell'imposta non dovuto.
Lo afferma la Sez. V civile della Corte di Cassazione con la
sentenza 14.12.2019 n. 33012.
Il caso
Oggetto della controversia è il regime fiscale da attribuire a un terreno,
edificabile secondo il piano regolatore generale del Comune, ma al tempo
stesso gravato da numerosi vincoli di inedificabilità sia nazionali che
regionali, come risulta dal certificato di destinazione urbanistica.
In particolare, per via delle caratteristiche naturalistiche proprie, il
fondo era inserito in "Zona parco pubblico" G2, venendo perciò
assoggettato ai vincoli del Dlgs 42/2004 (Codice dei beni culturali e del
paesaggio) e della Legge regionale 24/1998, oltre che dallo stesso
regolamento comunale in materia. Per l'amministrazione locale però, così
come per i giudici delle Commissioni tributarie provinciale e regionale, il
pagamento dell'Ici era dovuto per via dell'inserimento del fondo nel piano
regolatore generale.
Il piano paesaggistico prevale sul Prg
Il contribuente si è rivolto in Cassazione, sottolineando in buona sostanza
l'incongruenza logico-giuridica del dover pagare l'imposta per l'edificabilità
di un terreno ritenuto inedificabile da un piano paesaggistico inderogabile.
La Suprema corte ha riconosciuto l'errore dei giudici di merito e rinviato
la decisione ad altra sezione della Commissione tributaria regionale,
ricordando che è sì vero che l'edificabilità dell'area ai fini Ici discende
dalla inclusione del fondo, in quanto tale, nel piano regolatore generale,
ma ciò non significa che «disposizioni contenute negli atti di
pianificazione territoriale diversi dal piano regolatore comunale» siano
irrilevanti.
Anzi, puntualizza il Collegio, nel rapporto tra piano regolatore generale e
piano paesaggistico regionale, c'è la netta prevalenza di quest'ultimo, con
la conseguenza che i vincoli di inedificabilità posti dalla Regione sono «idonei
ad escludere la natura edificabile dell'area». Ciò d'altra parte,
chiosano i giudici di legittimità, è ribadito dall'articolo 145 del Dlgs
24/2004, secondo cui le previsioni dei piani paesaggistici regionali non
possono in alcun modo essere derogate da disposizioni urbanistiche comunali,
prevalendo in ogni caso su quest'ultime (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
17.12.2019).
-------------------
MASSIMA
Con riferimento in particolare al primo ed al terzo motivo,
fermo restando il principio espresso dalle Sezioni Unite con la sentenza n.
25506 del 2006 -secondo il quale la edificabilità dell'area ai fini ICI
discende dalla sua inclusione, come tale, nel PRG, indipendentemente dalla
adozione di strumenti attuativi, salva la rilevanza dei vincoli di
destinazione in sede di commisurazione del valore venale del terreno e,
dunque, della base imponibile (Cass. SU, 30/11/2006, n. 25506, Rv. 593375 -
01)- questa Corte ha in altre occasioni anche precisato che da tale
affermazione "non discende l'irrilevanza delle disposizioni contenute
negli atti di pianificazione territoriale diversi dal piano regolatore
comunale".
Come ben posto in evidenza dalla sentenza n. 23106/2019, riguardante altra
controversia con lo stesso Comune, la citata sentenza delle Sezioni Unite n.
25506 del 2006 si è limitata ad individuare il momento temporale, inteso
come stato di avanzamento dell'iter procedimentale di approvazione dell'atto
di pianificazione urbanistica o territoriale, in relazione al quale un'area
può considerarsi come edificabile dal punto di vista dell'imposizione
fiscale, ma non è intervenuta sul tema della relazioni tra piani paesistici
e piani urbanistici.
Per quanto concerne,
in particolare, il rapporto tra PRG e piano paesaggistico
regionale, è stata evidenziata,
con orientamento al quale il Collegio intende dare continuità,
"l'assoluta prevalenza delle prescrizioni del piano paesaggistico
regionale, comunque denominato, sulla pianificazione urbanistica comunale",
ne deriva che la regola secondo cui «la presenza sull'area di vincoli di
destinazione influisce unicamente sulla maggiore o minore potenzialità
edificatoria, ma non sulla natura edificabile ex se dell'area ai fini
tributari», non concerne la diversa ipotesi in cui l'area, ancorché
edificabile secondo il PRG, tale non sia all'esito della valutazione
complessiva ed integrata di quest'ultimo con lo strumento di pianificazione
paesaggistica ed ambientale regionale
(cfr. Cass. sez. 6, 09.07.2014, n. 15729, non massimata, e, da ultimo, Cass.,
sez. 5, 19.04.2019, n. 11080, non massimata).
Nella sentenza impugnata non si fa alcun riferimento concreto al certificato
di destinazione urbanistica che pure viene citato come prodotto nel prologo
del provvedimento e dal quale, a tenore delle puntuali notazioni del
ricorrente, emergerebbe che il terreno del contribuente è radicalmente
inedificabile (e non semplicemente gravato da più o meno intensi vincoli di
destinazione), dal momento che sull'area insiste il perimetro di
inedificabilità imposto dalla Regione Lazio.
Il provvedimento impugnato, nel dare prevalenza esclusiva all'inserimento
del terreno in PRG, non ha valutato la presenza di vincoli più o meno
limitanti la potenzialità edificatoria, considerando la diversità tra
vincoli di inedificabilità assoluta (nella specie derivanti dallo strumento
regionale, avente portata prevalente sul piano regolatore comunale), come
tali idonei ad escludere la natura edificabile dell'area interessata (Cass.,
sez. 5, 28/12/2017, n. 31048, Rv. 646686 — 01, che ha affermato analogo
principio in tema di imposta di registro), ancorché posti da strumenti
regionali, i quali prevalgono sulla pianificazione urbanistica comunale, e
vincoli di inedificabilità specifica, i quali, invece, possono incidere
unicamente sul valore venale dell'immobile.
Il principale riferimento normativo a sostegno di questo indirizzo va
individuato nel Codice dei beni culturali e dell'ambiente di cui al d.lgs.
n. 42 del 2004, che nell'art. 145 cit. stabilisce (3° co.): «Le
previsioni dei piani paesaggistici di cui agli articoli 143 e 156 non sono
derogabili da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di
sviluppo economico, sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni,
delle città metropolitane e delle province, sono immediatamente prevalenti
sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti
urbanistici, stabiliscono norme di salvaguardia applicabili in attesa
dell'adeguamento degli strumenti urbanistici e sono altresì vincolanti per
gli interventi settoriali. Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le
disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle
disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad incidenza
territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli
enti gestori delle aree naturali protette».
Va ancora rilevato che non risulta corretta l'affermazione riguardante la
necessità della "...dichiarazione prescritta dagli artt. 136 e sgg. D.Lgs.
n. 42/2004 non viene altresì fornita dal contribuente alcuna prova che tale
dichiarazione sia trascritta nei registri immobiliari...".
L'articolo 136 del D.Lgs. n. 42 del 2004 definisce ed enumera gli immobili
ed aree di notevole interesse pubblico stabilendo che sono definibili come
aree di notevole interesse pubblico:
a) le cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza
naturale o di singolarità geologica;
b) le ville, i giardini e i parchi, non tutelati dalle disposizioni
della Parte seconda del presente codice, che si distinguono per la loro non
comune bellezza;
c) i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico
aspetto avente valore estetico e tradizionale;
d) le bellezze panoramiche considerate come quadri e così pure quei
punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo
spettacolo di quelle bellezze.
L'articolo 140 dello stesso decreto stabilisce presupposti e procedura della
dichiarazione di notevole interesse pubblico e relative misure di
conoscenza, prevedendo che:
1. La regione, sulla base della proposta della commissione,
esaminate le osservazioni e tenuto conto dell'esito dell'eventuale inchiesta
pubblica, emana il provvedimento di dichiarazione di notevole interesse
pubblico degli immobili indicati alle lettere a) e b) e delle aree indicate
alle lettere c) e d) dell'articolo 136.
2. Il provvedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico
degli immobili indicati alle lettere a) e b) dell'articolo 136 è altresì
notificato al proprietario, possessore o detentore, depositato presso il
comune, nonché trascritto a cura della regione nei registri immobiliari.
3. I provvedimenti di dichiarazione di notevole interesse pubblico
sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana e nel
Bollettino Ufficiale della regione.
Come si evince chiaramente dalle disposizioni normative su riportate non
tutti i beni di notevole interesse pubblico richiedono la procedura di
notifica, rimanendone esclusi quelli indicati alle lettere c) e d) dell'art.
136 D.Lgs. n. 42/2004, ai quali si ascrive il terreno in questione. |
EDILIZIA PRIVATA: La
decadenza del permesso edilizio per mancato inizio dei lavori entro il
termine normativamente prescritto di per sé si verifica ope legis e per
quanto attiene all’oggettiva circostanza del decorso del termine medesimo
non è rimessa a valutazioni discrezionali dell’Amministrazione, trattandosi
di riscontrare l’inerzia materiale del soggetto privato, peraltro con la
precisazione che la circostanza medesima, pur costituendo un effetto
discendente direttamente dalla legge, necessita comunque di un provvedimento
dell’Amministrazione comunale (nella presente fattispecie –per l’appunto–
regolarmente adottato) che dichiari l’intervenuta decadenza.
Nondimeno, l’accertamento dell’avvenuto inizio dei lavori entro l’anno dal
rilascio del permesso di costruire, necessario ad evitarne la decadenza, è
questione di fatto, da valutarsi caso per caso con riguardo al complesso
delle circostanze concrete.
Non va pertanto sottaciuto che quella di effettivo inizio dei lavori è una
nozione -per così dire– “elastica”, posto che il rispetto del surriferito
termine annuale si desume dagli indizi rilevati sul sito dell’intervento,
che devono essere di entità tale da scongiurare il rischio che il termine
legale di decadenza venga invero ad essere eluso attraverso opere fittizie e
simboliche, fermo in tal senso restando che l’onere della prova del mancato
inizio dei lavori assentiti incombe comunque sull’Amministrazione comunale
che ne dichiara la decadenza: e ciò alla stregua del principio generale in
forza del quale i presupposti del provvedimento adottato devono essere
accertati dall’autorità emanante.
Si ritiene comunque che l’“inizio lavori” deve intendersi riferito a
concreti lavori edilizi che possono desumersi dagli indizi rilevati sul
posto e che i lavori possano ritenersi “iniziati” quando consistano nella
compiuta organizzazione del cantiere, nell’innalzamento di elementi
portanti, nell’elevazione di muri, nell’esecuzione di scavi preordinati al
gettito delle fondazioni del costruendo edificio, e non, ad esempio, in
presenza di soli lavori di livellamento del terreno o di sbancamento.
La mera esecuzione di lavori di sbancamento è, infatti, di per sé inidonea
per ritenere soddisfatto il presupposto dell’effettivo inizio dei lavori,
essendo necessario che lo sbancamento medesimo sia accompagnato dalla
“compiuta organizzazione del cantiere” e da altri indizi idonei a confermare
l’effettivo intendimento del titolare del permesso di costruire di
realizzare l’opera assentita.
---------------
La giurisprudenza afferma l’illegittimità dell’eventuale provvedimento
dell’Amministrazione comunale di declaratoria di decadenza del permesso di
costruire allorquando l’impedimento non sia riferibile alla condotta del
destinatario del titolo edilizio e sia tale da costituire causa di forza
maggiore.
---------------
3.1. Tutto ciò premesso, l’appello in epigrafe va respinto.
Come è ben noto, l’art. 15, comma 2, del t.u. approvato con d.P.R.
06.06.2001, n. 380, disponeva, nel testo vigente all’epoca dei fatti di
causa, che “il termine per l’inizio dei lavori non può essere superiore
ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale
l’opera deve essere completata non può superare i tre anni dall’inizio dei
lavori. Entrambi i termini possono essere prorogati, con provvedimento
motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del
permesso. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte
non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza venga richiesta una
proroga. La proroga può essere accordata, con provvedimento motivato,
esclusivamente in considerazione della mole dell’opera da realizzare o delle
sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti
di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi
finanziari”.
A sua volta l’art. 60, comma 8, della l.r. 12.04.1983, n. 18, recante “Norme
per la conservazione, tutela, trasformazione del territorio della Regione
Abruzzo” dispone che “le concessioni relative ai singoli edifici non
possono avere validità complessiva superiore a tre anni dall’inizio dei
lavori, i quali devono, comunque, essere iniziati entro un anno dal rilascio
della concessione. Nei casi di edifici mono e bifamiliari costruiti in
economia dal concessionario per uso proprio, consentito un ulteriore periodo
di due anni per la ultimazione dei lavori”; inoltre il susseguente comma
9 dispone che “un periodo più lungo per la ultimazioni dei lavori può
essere consentito dal Sindaco in relazione alla mole delle opere da
realizzare ed alle sue particolari caratteristiche costruttive”, e il
comma 10 dispone –altresì– che “qualora entro i termini suddetti i lavori
non siano stati iniziati o ultimati, il concessionario deve richiedere una
nuova concessione”).
Il terzo comma dell’art. 9 del Regolamento edilizio del Comune di Vasto,
all’epoca vigente e peraltro alquanto risalente nel tempo in quanto adottato
con deliberazione del Consiglio Comunale n. 160 dd. 24.07.1971, disponeva
che “il titolare della licenza (edilizia) può iniziare i lavori
autorizzati entro e non oltre un anno dalla data di autorizzazione”, nel
mentre il comma successivo precisava che “trascorso tale periodo di tempo
senza che i lavori stessi abbiano avuto inizio, la licenza di costruzione
sarà considerata decaduta”.
La decadenza del permesso edilizio per mancato inizio dei lavori entro il
termine normativamente prescritto di per sé si verifica ope legis e
per quanto attiene all’oggettiva circostanza del decorso del termine
medesimo non è rimessa a valutazioni discrezionali dell’Amministrazione,
trattandosi di riscontrare l’inerzia materiale del soggetto privato (così,
recentemente, Cons. Stato, Sez. IV, 27.08.2019, n. 5899), peraltro con la
precisazione che la circostanza medesima, pur costituendo un effetto
discendente direttamente dalla legge, necessita comunque di un provvedimento
dell’Amministrazione comunale (nella presente fattispecie –per l’appunto–
regolarmente adottato) che dichiari l’intervenuta decadenza (così, ex
plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 19.04.2019, n. 2546).
Nondimeno, l’accertamento dell’avvenuto inizio dei lavori entro l’anno dal
rilascio del permesso di costruire, necessario ad evitarne la decadenza, è
questione di fatto, da valutarsi caso per caso con riguardo al complesso
delle circostanze concrete (Cons. Stato, Sez. IV, 20.12.2013, n. 6151).
Non va pertanto sottaciuto che quella di effettivo inizio dei lavori è una
nozione -per così dire– “elastica”, posto che il rispetto del
surriferito termine annuale si desume dagli indizi rilevati sul sito
dell’intervento, che devono essere di entità tale da scongiurare il rischio
che il termine legale di decadenza venga invero ad essere eluso attraverso
opere fittizie e simboliche (così, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV,
24.01.2018, n. 467), fermo in tal senso restando che l’onere della prova del
mancato inizio dei lavori assentiti incombe comunque sull’Amministrazione
comunale che ne dichiara la decadenza: e ciò alla stregua del principio
generale in forza del quale i presupposti del provvedimento adottato devono
essere accertati dall’autorità emanante (cfr. sul punto Cons. Stato, Sez. V,
11.04.1990, n. 343).
Si ritiene comunque che l’“inizio lavori” deve intendersi riferito a
concreti lavori edilizi che possono desumersi dagli indizi rilevati sul
posto e che i lavori possano ritenersi “iniziati” quando consistano nella
compiuta organizzazione del cantiere, nell’innalzamento di elementi
portanti, nell’elevazione di muri, nell’esecuzione di scavi preordinati al
gettito delle fondazioni del costruendo edificio, e non, ad esempio, in
presenza di soli lavori di livellamento del terreno o di sbancamento (cfr.,
ad es., Cons. Stato, sez. IV, 24.01.2018, n. 467).
La mera esecuzione di lavori di sbancamento è, infatti, di per sé inidonea
per ritenere soddisfatto il presupposto dell’effettivo inizio dei lavori,
essendo necessario che lo sbancamento medesimo sia accompagnato dalla “compiuta
organizzazione del cantiere” e da altri indizi idonei a confermare
l’effettivo intendimento del titolare del permesso di costruire di
realizzare l’opera assentita (così, puntualmente, Cons. Stato, Sez. VI,
19.09.2017, n. 4381).
Venendo al caso di specie, il controllo della Polizia Municipale è avvenuto
in data 21.10.2009, ossia sei giorni dopo la scadenza del termine annuale
decorrente dalla data in cui l’attuale appellante aveva dato notizia
all’Amministrazione comunale dell’avvenuto inizio dei lavori (15.10.2008).
Lo stesso appellante -come si è visto innanzi, al § 1.1 della presente
sentenza- descrive le opere complessivamente sino a quel momento realizzate
nella “recinzione e messa in sicurezza del sito attraverso palificazione
metallica con rete di cantiere”, nella “realizzazione di un muro di
sostegno della scarpata superiore”, nell’“eliminazione della
vegetazione olivicola”, nello “sbancamento dell’area per l’intera
estensione del corpo di fabbrica progettato, per una profondità di m. 2,50
circa ed un’ampiezza di ml. 40 x ml, 15 = mq. 600, creando lo spazio idoneo
a contenere le fondazioni e il posizionamento del piano seminterrato”, nel “picchettamento
degli ingombri massi per le travi di fondazione” e nell’“asportazione
del terreno risultante da tali operazioni”.
Tale descrizione comprende, quindi, anche quelle opere –segnatamente
costituite dall’avvenuta realizzazione del muretto di contenimento della
scarpata superiore e dalla recinzione dell’area di cantiere– che non erano
state menzionate nel verbale redatto dalla Polizia Municipale al momento
dell’accesso al cantiere e che, comunque, l’Amministrazione comunale non ha
avuto difficoltà di sorta ad ammettere poi, in corso di causa, come
effettivamente esistenti alla stessa data in cui era stato compiuto
l’accertamento.
Tuttavia, l’insieme delle opere testé menzionate dallo stesso Ma., e pur
probatamente realizzate nel corso dell’anno intercorrente tra la data del
15.10.2008 e quella dell’accertamento compiuto dall’Amministrazione
comunale, non può comunque ricondursi ad un effettivo “inizio dei lavori”,
così come presupposto dall’art. 15, comma 2, del t.u. approvato con d.P.R.
06.06.2001, n. 380, e dalle anzidette e concorrenti fonti legislative
regionali e regolamentari locali, nonché così come inteso dalla
giurisprudenza dianzi menzionata.
In tal senso va infatti rilevato che l’edificazione del muro di contenimento
della scarpata intuitivamente si configura –di per sé– quale opera
certamente funzionale per l’assetto del sedime del costruendo edificio e,
allo stesso tempo, come del tutto prioritaria per la stessa sicurezza del
cantiere, ma non determinante agli effetti dell’accertamento del concreto
avvio dei lavori di costruzione dell’edificio assentito.
Alle stesse conclusioni si perviene con riguardo alla recinzione dell’area
di cantiere, allo sbancamento dell’area destinata a contenere le fondazioni
e il seminterrato del corpo di fabbrica, all’asporto del materiale
rinveniente dallo scavo e alla rimozione della vegetazione ivi insistente e
incompatibile con la realizzazione dell’edificio.
Anche tali opere risultano infatti -all’evidenza- meramente preliminari
rispetto al concreto avvio dei lavori di costruzioni; e ciò –si badi– anche
a prescindere dal divergente apprezzamento da parte dell’appellante e da
parte dell’Amministrazione comunale circa la congruità dello sbancamento
fino a quel momento realizzato rispetto alle dimensioni dell’edificio
progettato, posto che –come dianzi affermato– i lavori di sbancamento
risultano in ogni caso irrilevanti se non accompagnati anche dalla “compiuta
organizzazione del cantiere”: circostanza, quest’ultima, in alcun modo
documentata agli atti di causa.
Va da ultimo evidenziato che presumibilmente la volontà dell’attuale
appellante non era preordinata alla realizzazione di opere fittizie o
comunque meramente simboliche, posto che egli ammette nell’atto introduttivo
del presente grado di giudizio che il ritardo nel concreto inizio dei lavori
è stato nella specie determinato dalla difficile congiuntura che a decorrere
da quello stesso periodo di tempo ha interessato la maggior parte delle
attività economiche, con particolare riguardo a quella delle imprese edili.
L’esistenza di tale crisi è fatto notorio che non necessita di particolari
prove (cfr. art. 39 c.p.a. con riferimento all’art. 115, secondo comma,
c.p.c.): e, pur tuttavia, ai fini del mancato inizio dei lavori
normativamente assunto a presupposto per la dichiarazione di decadenza del
titolo edilizio rileva di per sé l’avvenuto decorso del termine annuale
unitamente all’oggettiva insufficienza delle opere realizzate.
Ma, se così è, il medesimo appellante imputet sibi la circostanza di
non aver chiesto prima della scadenza annuale la proroga del termine
medesimo “per fatti sopravvenuti estranei alla (propria) volontà”,
come già a quel tempo innovativamente previsto dall’art. 15, comma 2,
seconda parte, del t.u. approvato dal d.P.R. n. 380 del 2001 rispetto alla
surriferita e pro-tempore concorrente disciplina di fonte regionale e
comunale: e ciò anche in considerazione che la giurisprudenza afferma
l’illegittimità dell’eventuale provvedimento dell’Amministrazione comunale
di declaratoria di decadenza del permesso di costruire allorquando
l’impedimento non sia riferibile alla condotta del destinatario del titolo
edilizio e sia tale da costituire causa di forza maggiore (cfr., ad es.,
Cons. Stato, Sez. V, 29.01.2003, n. 453)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 12.12.2019 n. 8448 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Zonizzazione acustica del territorio e
pianificazione urbanistica.
In materia di
zonizzazione acustica del territorio, le
scelte dell’Amministrazione non possono
sovrapporsi meccanicamente alla
pianificazione urbanistica, ma devono tener
conto del disegno urbanistico voluto dal
pianificatore, ovverosia delle preesistenti
destinazioni d’uso del territorio.
Ciò rileva sotto un duplice aspetto. Da un
lato, rileva l’interesse pubblico generale
alla conservazione del disegno di governo
del territorio programmato dal
pianificatore, il quale riflette un ben
preciso interesse della comunità ad un certo
utilizzo del proprio territorio, sul quale
la medesima è stanziata. Da un altro lato,
rileva l’interesse dei privati alla
conservazione delle potenzialità
edificatorie connesse alla titolarità dei
diritti sui beni immobili e derivanti dalle
pregresse e già effettuate scelte di
pianificazione, le quali devono poter essere
attuate pro futuro, avendo una natura
tipicamente programmatoria
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.12.2019 n.
8443 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
l) La Sezione condivide il ragionamento
logico-giuridico seguito dal primo giudice,
il quale si è sostanziato nei seguenti
principali snodi argomentativi:
- l’attività di “omogeneizzazione” è
soggetta a determinati limiti, in presenza
dei quali essa rimane comunque attività non
dovuta, in quanto espressione di
discrezionalità amministrativa, tendente a
contemperare opposte esigenze, e non già a
fare applicazione di norme tecniche o di
regole scientifiche: il soggetto che deduce
l’illegittimità della “omogeneizzazione” per
l’insussistenza delle condizioni in presenza
delle quali essa può essere effettuata, ha
l’onere di dimostrare in modo compiuto
l’assenza delle condizioni legittimanti, non
potendo limitarsi a darne enunciazione;
- l’inserimento delle fasce cuscinetto tra
aree completamente urbanizzate ad
“accostamento critico” non è obbligatoria e
non è prevista, né a livello legislativo, né
dalle linee guida regionali; di converso, le
linee guida fanno carico ai Comuni,
nell’attività di zonizzazione acustica, di
procedere all’individuazione delle suddette
“fasce cuscinetto”, a fronte di accostamenti
critici tra aree che non siano entrambe
completamente urbanizzate;
- il concetto di “urbanizzazione” di
un’area, ai fini della applicazione del
divieto di accostamenti critici, è enucleata
in base al concetto di “densità urbanistica”
(si afferma che “un’area si considera non
completamente urbanizzata qualora la densità
urbanistica sia inferiore al 12.5% della sua
superficie”; ciò equivale a dire che, se
l’area è caratterizzata da una percentuale
di “densità urbanistica” superiore al 12,5%,
si dovrà affermare che tale area è
completamente urbanizzata, mentre laddove
non sia apprezzabile alcuna “densità
urbanistica” si potrà affermare che l’area
non è urbanizzata);
- i concetti di “densità fondiaria” e di
“densità edilizia territoriale” fanno
riferimento al rapporto tra il volume
realizzato e la superficie di una data
particella fondiaria o di una data zona o
maglia urbanistica; il concetto di “rapporto
di copertura” indica il rapporto tra la
superficie coperta per effetto di
edificazione e la superficie del fondo
edificato o della intera area urbanistica
considerata. Il concetto di “densità
urbanistica”, invece, allude al rapporto tra
la superficie dell’area interessata e la
superficie di essa sulla quale le previsioni
del piano regolatore generale abbiano già
ricevuto attuazione (l’attuazione può
avvenire anche con modalità diverse
dall’edificazione).
La Sezione aggiunge, a queste condivisibili
osservazioni, le seguenti ulteriori.
In materia di zonizzazione acustica del
territorio, le scelte dell’Amministrazione
non possono sovrapporsi meccanicamente alla
pianificazione urbanistica, ma devono tener
conto del disegno urbanistico voluto dal
pianificatore, ovverosia delle preesistenti
destinazioni d’uso del territorio.
Ciò rileva sotto un duplice aspetto.
Da un lato, rileva l’interesse pubblico
generale alla conservazione del disegno di
governo del territorio programmato dal
pianificatore, il quale riflette un ben
preciso interesse della comunità ad un certo
utilizzo del proprio territorio, sul quale
la medesima è stanziata.
Da un altro lato, rileva l’interesse dei
privati alla conservazione delle
potenzialità edificatorie connesse alla
titolarità dei diritti sui beni immobili e
derivanti dalle pregresse e già effettuate
scelte di pianificazione, le quali devono
poter essere attuate pro futuro, avendo una
natura tipicamente programmatoria.
Pertanto, contrariamente a quanto sostenuto
dalla società ricorrente, ai fini
dell’esegesi del concetto di “densità
urbanistica” (e, a valle, di quello di
“urbanizzazione”), non può essere dato
rilievo agli usi effettivi in atto sul
territorio (nell’ambito dei quali, peraltro,
la ricorrente parrebbe anche dare
preminente, se non esclusivo rilievo, al
solo stato dell’edificazione privata),
perché essi si limitano a rappresentare
(staticamente) la realtà dell’uso del
territorio, trascurando l’aspetto dinamico
del suo governo.
Ed è su tale dinamicità che si regge,
invece, la ratio della disciplina
legislativa statale e di quella regionale,
entrambe sostanzialmente rivolte a
perseguire l’obiettivo del contemperamento
tra due interessi generali: quello della
pianificazione urbanistica e quello della
tutela dall’inquinamento acustico.
Questi due interessi generali, che
potrebbero entrare materialmente in
conflitto nel momento in cui al
pianificatore comunale venissero imposti
limiti troppo stringenti, vengono per
l’appunto regolati, dall’astratta previsione
legislativa, col dare rilievo alle
preesistenti destinazioni urbanistiche.
Laddove, invece -come prospetta la società
ricorrente- tale meccanismo regolatorio e di
composizione del conflitto dovesse essere
esteso alla considerazione dello stato
effettivo e reale dell’edificazione, si
verrebbe a creare -in via esegetica e senza
una base legale legittimante- una duplice
limitazione: quella a carico dello strumento
urbanistico già adottato e approvato, il
quale non potrebbe più essere attuato
secondo le originarie previsioni; quella a
carico dei privati, che vedrebbero
inevitabilmente ridotte le capacità
edificatorie espresse dai propri fondi,
attraverso l’imposizione di fasce
cuscinetto. |
EDILIZIA PRIVATA: La
legnaia realizzata è identificabile come edificio, in quanto si tratta di
costruzione completamente chiusa da muri perimetrali, pur destinata ad
attività di servizio (quali deposito, ricovero attrezzi, legnaie etc.);
pertanto essa è computabile in termini volumetrici ed è rilevante ai fini
delle distanze e, come tale, è perciò realizzabile solo in quelle aree ove
sono consentite nuove costruzioni.
In via generale, la giurisprudenza amministrativa è univoca nell’affermare
che la realizzazione di una tettoia necessita di permesso di costruire quale
“nuova costruzione”, comportando una trasformazione del territorio e
dell’assetto edilizio anteriore; essa arreca, infatti, un proprio impatto
volumetrico e, se e in quanto priva di connotati di precarietà, è destinata
a soddisfare esigenze non già temporanee e contingenti, ma durevoli nel
tempo, con conseguente incremento del godimento dell’immobile cui inerisce e
del relativo carico urbanistico.
E’ evidente che occorre sempre esaminare ogni intervento, caso per caso,
considerando dimensioni, struttura, materiali e finalità dell’opera.
Ad esempio, è stata esclusa la rilevanza volumetrica di una tettoia in legno
ad una sola falda, di forma rettangolare, avente dimensioni di mq. 31,42 e
altezza in gronda di m. 2,50 ed alla gronda di m. 2,65, realizzata sul
terrazzo di proprietà, ad esclusivo servizio di detto piano, poggiante per
un lato direttamente sulla struttura esistente del fabbricato e per l’altro
su pilastrini in legno: e ciò in quanto, come affermato già in precedenza
dalla giurisprudenza, detto manufatto è aperto su tre lati. In questo caso
la tettoia è aperta su tre lati e non viene considerata nuova costruzione.
Nel caso di tettoie chiuse, come quella di specie, la giurisprudenza
amministrativa è ferma nel ritenerle nuove costruzioni, con applicazione del
relativo regime giuridico, in considerazione del fatto che, se sono chiuse,
non possono più definirsi soltanto “tettoie”, bensì veri e propri edifici.
---------------
2. Ritiene il Collegio, in conformità alla corretta sentenza del TAR qui
impugnata, che la legnaia realizzata dall’attuale appellante è
identificabile come edificio, in quanto si tratta di costruzione
completamente chiusa da muri perimetrali, pur destinata ad attività di
servizio (quali deposito, ricovero attrezzi, legnaie etc.); pertanto essa è
computabile in termini volumetrici ed è rilevanti ai fini delle distanze e,
come tale, è perciò realizzabili solo in quelle aree ove sono consentite
nuove costruzioni (nel caso di specie, nell’area in esame non sono
consentite nuove costruzioni).
In via generale, la giurisprudenza amministrativa è univoca nell’affermare
che la realizzazione di una tettoia necessita di permesso di costruire quale
“nuova costruzione”, comportando una trasformazione del territorio e
dell’assetto edilizio anteriore; essa arreca, infatti, un proprio impatto
volumetrico e, se e in quanto priva di connotati di precarietà, è destinata
a soddisfare esigenze non già temporanee e contingenti, ma durevoli nel
tempo, con conseguente incremento del godimento dell’immobile cui inerisce e
del relativo carico urbanistico (Tar Piemonte, sez. II, n. 435
dell’08.04.2016; Tar Salerno, sez. II, n. 9 del 07.01.2015; Tar Lazio, sez.
I Roma, n. 13449 del 27.11.2015; Tar Napoli, sez. II, n. 4959 del
22.10.2015; Tar Perugia, sez. I, n. 377 dell’11.09.2015; Tar Pescara, sez.
I, n. 276 del 01.07.2015; Tar Ancona, sez. I, n. 469 del 05.06.2015; Tar
Genova, sez. I, n. 1367 dell’11.07.2007 e, ancor più di recente, Consiglio
di Stato, sez. II, 13/06/2019, n. 3991)”.
E’ evidente che occorre sempre esaminare ogni intervento, caso per caso,
considerando dimensioni, struttura, materiali e finalità dell’opera.
Ad esempio, è stata esclusa la rilevanza volumetrica di una tettoia in legno
ad una sola falda, di forma rettangolare, avente dimensioni di mq. 31,42 e
altezza in gronda di m. 2,50 ed alla gronda di m. 2,65, realizzata sul
terrazzo di proprietà, ad esclusivo servizio di detto piano, poggiante per
un lato direttamente sulla struttura esistente del fabbricato e per l’altro
su pilastrini in legno: e ciò in quanto, come affermato già in precedenza
dalla giurisprudenza, detto manufatto è aperto su tre lati (Tar Campania,
sez. I Salerno, n. 109 del 16.01.2017).
In questo caso la tettoia è aperta su tre lati e non viene considerata nuova
costruzione.
3. Nel caso di tettoie chiuse, come quella di specie, la giurisprudenza
amministrativa è ferma nel ritenerle nuove costruzioni, con applicazione del
relativo regime giuridico, in considerazione del fatto che, se sono chiuse,
non possono più definirsi soltanto “tettoie”, bensì veri e propri
edifici
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 11.12.2019 n. 8417 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Appalti,
chi fa parte della commissione non può approvare gli atti di gara.
Chi fa parte della commissione di gara, anche se responsabile del servizio
interessato dall'appalto, non può approvare gli atti di gara. Nel
procedimento d'appalto, a differenza di quanto accade in generale nel
procedimento amministrativo, esiste un principio di terzietà tra i soggetti
che hanno predisposto gli atti e il soggetto chiamato a effettuare il
controllo sulla regolarità delle operazioni compiute e quindi ad adottare la
determinazione di aggiudicazione.
È questa, in sintesi, la riflessione statuita con la
sentenza
06.12.2019 n. 2926 del TAR Sicilia-Catania, Sez. III.
La censura
Il ricorrente, come secondo motivo di ricorso, ha sollevato la questione
della incompatibilità tra funzioni di commissario di gara e funzioni di
controllo e conseguente approvazione della proposta di aggiudicazione.
L'organo che ha provveduto all'approvazione degli atti di gara (la proposta
di aggiudicazione) era anche il responsabile del servizio presente in
commissione come uno degli esperti. La commissione è stata nomina dal
responsabile del servizio gare della centrale unica che ne assumeva anche la
presidenza.
Il ricorrente ha censurato anche questo aspetto ritenendo che, tanto la
nomina quanto il ruolo di presidente dovevano ritenersi di competenza del
responsabile del servizio interessato (del comune richiedente la gara).
Quest'ultima doglianza è stata respinta in quanto inammissibile considerato
che queste modalità risultavano disciplinate nei regolamenti della Cuc con
cui sono stati fissati i «criteri di nomina dei componenti le commissioni
giudicatrici interne alla centrale unica di committenza nel periodo
transitorio», non tempestivamente impugnati.
L'aspetto interessante della pronuncia, quindi, è quello relativo alla
pretesa incompatibilità di ruoli tra organo controllato e soggetto deputato
al controllo.
La sentenza
La paventata incompatibilità, e quindi la censura di illegittimità, è
ritenuta fondata dal giudice. Il fatto che la proposta di aggiudicazione sia
stata approvata dal responsabile del servizio del Comune richiedente la
gara, anche commissario del collegio giudicatore, rende gli atti
illegittimi.
Il giudice siciliano non ha ravvisato ragioni per discostarsi «dal
condivisibile orientamento della giurisprudenza amministrativa secondo cui
sussisterebbe incompatibilità all'approvazione degli atti di gara da parte
del membro della commissione (Consiglio di Stato sentenza n. 6135/2019)».
Questa incompatibilità esprime l'esigenza di terzietà tra «amministrazione
attiva ed amministrazione di controllo, essendo l'alterità presupposto della
imparzialità».
Esisterebbe, pertanto, nella materia degli appalti un principio di terzietà
in realtà estraneo al diritto amministrativo in generale. Estraneità che
emerge con palese evidenza nell'articolo 6, comma 1, della legge 241/1990,
laddove si precisa che il responsabile del procedimento, solo se ne ha la
competenza (ovvero dispone dei poteri gestionali e può adottare atti che
impegnano l'ente all'esterno) può adottare il provvedimento definitivo.
Questa possibilità, invece, deve rienersi preclusa nel diritto degli
appalti: pertanto chi valuta/giudica le offerte non può pretendere,
legittimamente, anche di approvare gli atti conclusivi del procedimento.
Non c'è dubbio che questa sia una affermazione di grande implicazione
pratico/operativa se si considera quanto avviene negli enti locali dove il
responsabile del servizio, normalmente presidente della commissione di gara,
procede anche all'approvazione degli atti e all'adozione della
determinazione di affidamento.
In virtù anche della consolidata fictio iuris secondo cui nel momento
del controllo sulle operazioni compiute dalla commissione, il responsabile
del servizio, anche se presidente/componente del collegio, si porrebbe in
posizione di terzietà.
L'accoglimento del secondo motivo ha determinato l'annullamento degli atti
della commissione e della determinazione di aggiudicazione con rimessione
alla stazione appaltante degli stessi atti per l'esigenza di rinnovare il
controllo e procedere con un nuovo provvedimento (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
18.12.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: Al
dipendente assolto niente rimborso delle spese di difesa se i fatti non sono
connessi con il servizio.
L'articolo 18, comma 1, del Dl 67/1997, convertito dalla legge 135/1997,
prevede la possibilità per l'Amministrazione statale di rimborsare le spese
legali sostenute dal proprio dipendente per la difesa, tra l'altro, nel
giudizio
penale, come nel caso in esame, solamente in presenza di due presupposti.
Il
primo, costituito dalla pronuncia di un provvedimento del Giudice che abbia
escluso in via definitiva la responsabilità del dipendente; il secondo, se
sussiste una connessione tra i fatti oggetto del giudizio e l'espletamento
del
servizio e/o l'assolvimento degli obblighi istituzionali.
Se, però, come nel
caso di specie, la condotta oggetto di contestazione è stata posta in essere
unicamente in occasione dell'attività d'istituto, non sorge alcun interesse
legittimo al rimborso.
Lo ha ribadito il Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza
28.11.2019 n. 8137.
Il caso
Un finanziere, imputato nel
procedimento penale per il reato di rivelazione di segreto d'ufficio,
previsto e
punito dall'articolo 326 Cp, per avere nell'ipotesi d'accusa rivelato
telefonicamente al titolare di un night che la sera
stessa si sarebbe svolto anche nel suo locale un controllo della Guardia di
finanza, è stato assolto in primo grado per
insussistenza del fatto.
A seguita di tale sentenza, egli ha chiesto alla
propria Amministrazione l'applicazione
dell''articolo 18, comma 1, del Dl 67/1997, che gli è però stata negata dalla Pa competente, perché ... i fatti valutati
non erano connessi all'espletamento del servizio o con l'assolvimento di
compiti istituzionali, in quanto solo
casualmente legati allo status di militare della Guardia di finanza. Il
giudizio di primo grado Avverso il diniego,
l'interessato ha ricorso al Tar che lo ha respinto, rilevando che:
- con la
condotta oggetto di contestazione il
ricorrente non ha agito nell'interesse dell'Amministrazione;
- l'assoluzione
è stata disposta perché i fatti sono stati
solo parzialmente provati, risultando infatti ambigua per il Giudice penale
la frase occhio stasera pronunciata dal
finanziere al titolare del locale.
Il ricorso in appello
Il ricorrente ha
quindi impugnato la sentenza del Giudice di Prime
Cure, deducendo che:
- in sede penale, è risultato che presso il locale del
destinatario della telefonata non sono stati
effettuati controlli per la data prevista;
- la telefonata ha riguardato
un'attività di prevenzione di reati;
- il fatto
contestato, per il quale egli è stato assolto non con la formula dubitativa,
va considerato connesso al servizio svolto.
La sentenza di secondo grado
Il Consiglio di Stato ha respinto il gravame,
provvedendo ad un'accurata ricognizione
della giurisprudenza formatasi sui presupposti legittimanti l'accoglimento
della richiesta di rimborso delle spese
legali in questione, ed osservato preliminarmente che:
- la norma scrutinata
... attribuisce un peculiare potere valutativo all'Amministrazione con
riferimento all'an ed al quantum, poiché essa deve verificare in concreto i
presupposti per disporre il rimborso, nonché quando sussistano tali
presupposti se siano congrue le spese di cui sia
chiesto il rimborso con l'ausilio dell'Avvocatura dello Stato, il cui parere
di congruità ha natura obbligatoria e
vincolante (Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 3593/2013).
I
presupposti per l'applicazione della norma sono
due:
- una pronuncia giurisdizionale definitiva che escluda la
responsabilità del dipendente e non per ragioni diverse,
quale, ad esempio, l'estinzione del reato per prescrizione;
- la ravvisabilità nella condotta oggetto del giudizio del
nesso di immedesimazione organica tra agente e Pa.
In ordine al secondo
presupposto, i Giudici di Palazzo Spada
ne hanno rilevato la non ricorrenza nel caso esaminato, dal momento che la
condotta ascritta al finanziere risulta del
tutto estranea allo svolgimento del lavoro istituzionale e del tutto
irriferibile all'Amministrazione di appartenenza, in
quanto non espressione della sua volontà e non finalizzata all'adempimento
dei suoi fini istituzionali.
Conclusioni
In
conclusione, l'articolo 18, comma 1, Dl 67/1997 è di stretta applicazione e
si applica quando il dipendente sia stato
coinvolto nel processo per aver svolto il proprio lavoro e non anche quando
la condotta sia stata posta in essere in
occasione dell'attività lavorativa o quando sia di per sé meritevole di una
sanzione disciplinare (cfr., per tutti, Consigli
di Stato, Sezione VI, sentenza 1154/2017 e Consiglio di Stato, sezione IV,
sentenza 1190/2013) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
12.12.2019).
---------------
MASSIMA
6. Ritiene la Sezione che l’appello vada respinto, perché infondato.
7. Per comodità di lettura, va riportato il contenuto dell’art. 18, comma 1,
del decreto legge n. 67 del 1997, come convertito nella legge n. 135 del
1997.
“Le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e
amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni
statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del
servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con
sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate
dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui
dall'Avvocatura dello Stato. Le amministrazioni interessate, sentita
l'Avvocatura dello Stato, possono concedere anticipazioni del rimborso,
salva la ripetizione nel caso di sentenza definitiva che accerti la
responsabilità”.
Per i casi in cui sussiste la giurisdizione amministrativa esclusiva,
rilevano i principi generali per i quali, in presenza di un potere
valutativo dell’Amministrazione, la posizione del dipendente va qualificata
come interesse legittimo (pur se è stata talvolta definita come di ‘diritto
condizionato’ all’accertamento dei relativi presupposti:
Cons. Stato, Sez. III, 29.12.2017, n. 6194; Sez. VI, 21.01.2011, n. 1713).
L’art. 18 sopra riportato attribuisce un peculiare potere valutativo
all’Amministrazione con riferimento all’an ed al quantum,
poiché essa deve verificare se sussistano in concreto i presupposti per
disporre il rimborso delle spese di giudizio sostenute dal dipendente,
nonché –quando sussistano tali presupposti -se siano congrue le spese di cui
sia chiesto il rimborso– con l’ausilio della Avvocatura dello Stato, il cui
parere di congruità ha natura obbligatoria e vincolante
(Cons. Stato, Sez. II, 31.05.2017, n. 1266; Sez. IV, 08.07.2013, n. 3593).
Di per sé il parere –per la sua natura tecnico-discrezionale– non deve
attenersi all’importo preteso dal difensore
(Cons. Stato, Sez. II, 20.10.2011, n. 2054/2012),
o a quello liquidato dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati per quanto
rileva nei rapporti tra il difensore e l’assistito
(Cons. Stato, Sez. II, 31.05.2017, n. 1266; Sez. VI, 08.10.2013, n. 4942),
ma deve valutare quali siano state le effettive necessità difensive
(Cass. Sez. Un., 06.07.2015, n. 13861; Cons. Stato, Sez. IV, 07.10.2019, n.
6736; Sez. II, 31.05.2017, n. 1266; Sez. II, 20.10.2011, n. 2054/12)
ed è sindacabile in sede di giurisdizione di legittimità per errore di
fatto, illogicità, carenza di motivazione, incoerenza, irrazionalità o per
violazione delle norme di settore
(Cons. Stato, Sez. II, 30.06.2015, n. 7722).
Qualora il diniego (totale o parziale) di rimborso risulti illegittimo, il
suo annullamento non comporta di per sé l’accertamento della spettanza del
beneficio, dovendosi comunque pronunciare sulla questione l’Amministrazione,
in sede di emanazione degli atti ulteriori.
8.
Per quanto riguarda i presupposti indefettibili per l’applicazione dell’art.
18, si è formata una univoca e convergente giurisprudenza della Corte di
Cassazione e di questo Consiglio di Stato.
Tali presupposti sono due:
a) la pronuncia di una sentenza o di un provvedimento del giudice,
che abbia escluso definitivamente la responsabilità del dipendente;
b) la sussistenza di una connessione tra i fatti e gli atti oggetto
del giudizio e l’espletamento del servizio e l’assolvimento degli obblighi
istituzionali.
9.
Quanto alla pronuncia definitiva sull’esclusione della responsabilità del
dipendente, qualora si tratti di una sentenza penale si deve trattare di un
accertamento della assenza di responsabilità, anche quando –in assenza di
ulteriori specificazioni contenute nell’art. 18- sia stato applicato l’art.
530, comma 2, del codice di procedura penale
(Cons. Stato, Sez. IV, 04.09.2017, n. 4176, cit.; Ad. Gen., 29.11.2012, n.
20/13; Sez. IV, 21.01.2011, n. 1713, cit.).
L’art. 18, invece, non può essere invocato quando il proscioglimento sia
dipeso da una ragione diversa dalla assenza della responsabilità, cioè
quando sia stato disposto a seguito dell’estinzione del reato, ad esempio
per prescrizione, o quando vi sia stato un proscioglimento per ragioni
processuali, quali la mancanza delle condizioni di promovibilità o di
procedibilità dell’azione
(cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 04.09.2017, n. 4176, cit.; Sez. VI, 2005, n.
2041).
10. Oltre alla pronuncia del giudice che espressamente abbia escluso la
responsabilità del dipendente,
l’art. 18 ha disciplinato un ulteriore presupposto per la spettanza del
beneficio, e cioè la sussistenza di una connessione tra i fatti e gli atti
oggetto del giudizio e l’espletamento del servizio e l’assolvimento degli
obblighi istituzionali: l’art. 18 si applica a favore del dipendente che
abbia agito in nome e per conto, oltre che nell’interesse della
Amministrazione (e cioè quando per la condotta oggetto del giudizio sia
ravvisabile il ‘nesso di immedesimazione organica’).
10.1.
Tale connessione sussiste –sia pure in modo peculiare- qualora sia stata
contestata al dipendente la violazione dei doveri di istituto e, all’esito
del procedimento, il giudice abbia constatato non solo l’assenza della
responsabilità, ma che esso sia sorto in esclusiva conseguenza di condotte
illecite di terzi, di natura diffamatoria o calunniosa, oppure qualificabili
come un millantato credito (si pensi al funzionario, al dirigente o al
magistrato accusato di corruzione, ma in realtà del tutto estraneo ai fatti,
perché vittima di una orchestrata attività calunniosa o di un millantato
credito emerso dopo l’attivazione del procedimento penale).
Sotto tale profilo, l’art. 18 tutela senz’altro –col rimborso delle spese
sostenute- il dipendente statale che sia stato costretto a difendersi, pur
innocente, nel corso del procedimento penale nel quale –esclusivamente in
ragione del suo status e non per l’aver posto in essere specifici
atti- sia stato coinvolto nel procedimento penale perché sostanzialmente
vittima di illecite condotte altrui, che per un qualsiasi motivo illecito
hanno coinvolto il dipendente, a maggior ragione se è stato designato come
vittima proprio quale appartenente alle Istituzioni e per il servizio
prestato.
Qualora in tali casi il giudice penale disponga il proscioglimento del
dipendente statale, non rileva pertanto la natura attiva od omissiva della
condotta oggetto della contestazione, perché ciò che conta è l’accertamento
da parte del giudice penale dell’estraneità del dipendente ai fatti
contestati, nonché il carattere diffamatorio o calunnioso delle
dichiarazioni altrui.
10.2.
A parte l’ipotesi del coinvolgimento del dipendente estraneo ai fatti, ma
vittima di una illecita condotta altrui, quanto alla ‘connessione’
tra i fatti e gli atti oggetto del giudizio e l’espletamento del servizio e
l’assolvimento degli obblighi istituzionali, la giurisprudenza ha più volte
chiarito che si deve trattare di condotte (estrinsecatesi in atti o
comportamenti) che di per sé siano riferibili all’Amministrazione di
appartenenza e che, di conseguenza, comportino a questa l’imputazione dei
relativi effetti
(Cons. Stato, Sez. IV, 07.06.2018, n. 3427; Sez. IV, 05.04.2017, n. 1568;
Sez. IV, 26.02.2013, n. 1190):
la condotta oggetto della contestazione deve essere espressione della
volontà della Amministrazione di appartenenza e finalizzata all’adempimento
dei suoi fini istituzionali.
L’art. 18 è di stretta applicazione e si applica quando il dipendente sia
stato coinvolto nel processo per l’aver svolto il proprio lavoro, e cioè
quando si sia trattato dello svolgimento dei suoi obblighi istituzionali e
vi sia un nesso di strumentalità tra l’adempimento del dovere ed il
compimento dell’atto o del comportamento (e dunque quando l’assolvimento
diligente dei compiti specificamente lo richiedeva), e non anche quando la
condotta oggetto della contestazione sia stata posta in essere ‘in
occasione’ dell’attività lavorativa
(Cass., 03.01.2008, n. 2; Cons. Stato, Sez. VI, 13.03.2017, n. 1154; Sez.
III, 08.04.2016, n. 1406; Sez. IV, 26.02.2013, n. 1190; Sez. IV, 14.04.2000,
n. 2242) o quando sia di per sé meritevole di una sanzione disciplinare (Cons.
Stato, Sez. IV, 26.02.2013, n. 1190).
Invece, esso non si applica quando la contestazione in sede penale si sia
riferita ad un atto o ad un comportamento, in ipotesi, che:
a) di per sé costituisca una violazione dei doveri d’ufficio
(cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 07.06.2018, n. 3427);
b) sia stato comunque posto in essere per ragioni personali,
sia pure durante e ‘in occasione’ dello svolgimento del servizio, e
dunque non sia riferibile all’Amministrazione
(Cass. civ., Sez. I, 31.01.2019, n. 3026; Sez. lav., 06.07.2018, n. 17874;
Sez. lav., 03.02.2014, n. 2297; Sez. lav., 30.11.2011, n. 25379; Sez. lav.,
10.03.2011, n. 5718; Cons. Stato, Sez. V, 05.05.2016, n. 1816; Sez. III,
2013, n. 4849; Sez. IV, 26.02.2013, n. 1190),
ad esempio, quando la contestazione si sia riferita a una condotta che
riguardi la propria vita di relazione, ancorché nell’ambiente di lavoro
(Cons. Stato, Sez. V, 2014, n. 6389; Sez. II, 15.05.2013, n. 3938/13),
o che non sia riconducibile strettamente alla attività istituzionale, quale
l’accettazione di un regalo o il coinvolgimento in un alterco con colleghi,
ma che all’esito del giudizio non sia stata qualificata come reato.
c) sia potenzialmente idoneo a condurre ad un conflitto con gli
interessi dell’Amministrazione (ad esempio quando, malgrado l’assenza di una
responsabilità penale, sussistano i presupposti per ravvisare un illecito
disciplinare e per attivare il relativo procedimento:
cfr. Cons. Stato, Sez. II, 27.08.2018, n. 2055; Sez. IV, 04.09.2017, n.
4176, cit.; Sez. IV, 2013, n. 1190; Sez. IV, 2012, n. 423).
Infatti, la ratio della regola del rimborso delle spese –per i
giudizi conseguenti alle condotte attinenti al servizio- è quella di ‘evitare
che il dipendente statale tema di fare il proprio dovere’: occorre uno
specifico nesso causale tra il fatto contestato e lo svolgimento del dovere
d’ufficio
(Cons. Stato, Sez. II, 21.11.2018, n. 2735; Sez. IV, 11.04.2007, n. 1681)
e il rimborso non spetta per il solo fatto che in sede penale vi sia il
proscioglimento per un reato proprio (commesso per la qualità di dipendente
dello Stato).
10.3.
In materia non rilevano di per sé le disposizioni del codice civile sul
contratto di mandato, proprio perché l’art. 18 sopra riportato ha indicato i
presupposti –sostanziali e procedimentali– indefettibili per la spettanza
del rimborso.
11. Tenuto conto dei principi sopra evidenziati, vanno integralmente
confermate le statuizioni della sentenza appellata. |
APPALTI: Il
bando deve pubblicare come si dà il punteggio. Attribuzione all'offerta
economica.
La formula per l'attribuzione dei punteggi
nell'offerta economica deve essere indicata negli atti di gara e non nella
piattaforma telematica.
Lo ha affermato il TAR Toscana -Sez. I- con la
sentenza 27.11.2019 n. 1617 con la quale era
stata eccepita la mancata pubblicizzazione della formula di assegnazione del
punteggio, che, si diceva nel ricorso, non sarebbe stata individuata nemmeno
per relationem dal bando, posto che il mero rinvio agli atti della
piattaforma telematica usata per la gestione della procedura di gara non
sarebbe idoneo ad individuare quali delle diverse formule previste
l'amministrazione avrebbe poi utilizzato.
La vicenda riguardava una gara per l'esecuzione dei lavori di
ristrutturazione di una scuola, da aggiudicarsi con il criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa. Il Tar ha accolto il ricorso affermando che
«la giurisprudenza nazionale e comunitaria ha stabilito che i criteri che
determinano l' attribuzione dei punteggi devono essere pubblicizzati nel
bando o nella lettera di invito».
Per i giudici la stazione appaltante non poteva legittimamente «saltare»
il passaggio delle informazioni attraverso gli atti di gara, sostituito
dalla pubblicazione sul portale della piattaforma perché «i dati
contenuti nella pagina del portale non possono surrogare tale fondamentale
atto (bando o lettera di invito) in quanto si tratta di mezzo avente diversa
finalità e soprattutto non soggetto alle medesime forme di pubblicità della
lex specialis».
Per i giudici, quindi, l'omessa pubblicazione «viola il fondamentale
canone di pubblicità e trasparenza che preside allo svolgimento delle gare
pubbliche la cui rilevanza è stata sottolineata anche dalla richiamata
giurisprudenza della Corte di giustizia Ue».
Va oltretutto rilevato, secondo i giudici, che il rinvio alla disciplina
regionale di Start non potrebbe assolutamente colmare la lacuna in quanto «il
manuale della piattaforma prevede una pluralità di formule matematiche
utilizzabili per assegnare il punteggio alla offerta economica» e, come
sottolineato dal ricorrente, sarebbe difficile l'individuazione, al punto
che, nella sostanza, il ricorrente è stato edotto della formula matematica
utilizzata per la assegnazione del punteggio soltanto in corso di giudizio
(articolo ItaliaOggi del 27.12.2019). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Servizi
analoghi, non identici. Sufficiente rientrare nello stesso settore
dell'appalto. Tar Veneto sull'esclusione di uno
studio legale da una gara di un'azienda ospedaliera.
Nelle gare pubbliche, qualora il bando di gara richieda
quale requisito il pregresso svolgimento di «servizi analoghi», tale nozione
non può essere assimilata a quella di «servizi identici».
Lo
ha precisato il TAR Veneto, Sez. III con la
sentenza
27.11.2019 n. 1290.
La controversia ha per oggetto l'esclusione di uno studio legale da una gara
di appalto indetta dall'Azienda Ospedaliera di Padova per l'affidamento «del
servizio di supporto e assistenza legale specialistica nell'attività di
redazione e sottoscrizione di un Accordo di Programma». Le ragioni
dell'esclusione sono state ricondotte alla mancata dimostrazione di aver
svolto nell'ultimo triennio servizi analoghi a quelli oggetto della gara
(accordi di programma) per l'importo complessivo a base di gara.
Lo studio
legale aveva lamentato che pur avendo allegato alla domanda di
partecipazione lo stesso elenco di servizi analoghi svolti nel corso
dell'ultimo triennio, come già presentato in occasione dell'indagine di
mercato e grazie al quale la stazione appaltante aveva ritenuto di invitarlo
alla gara, l'amministrazione aveva attivato prima il soccorso istruttorio al
fine di accertare lo svolgimento da parte dei partecipanti di servizi per
attività analoga a quella oggetto di gara, salvo disporre con successivo
provvedimento l'esclusione dello studio dalla gara.
Il Tar accoglie il
ricorso.
La nozione di «servizi analoghi», infatti, non deve essere
assimilata a quella di «servizi identici» e la prescrizione della legge di
gara deve ritenersi soddisfatta tutte le volte in cui il concorrente abbia
dimostrato lo svolgimento di servizi rientranti nel medesimo settore
imprenditoriale o professionale che riguarda l'appalto.
Il concetto di «servizio analogo» deve essere inteso non come identità, ma
come mera similitudine tra le prestazioni richieste, tenendo conto che
l'interesse pubblico sottostante non è certamente la creazione di una
riserva a favore degli imprenditori già presenti sul mercato ma, al
contrario, l'apertura del mercato attraverso l'ammissione alle gare di tutti
i concorrenti per i quali si possa raggiungere un giudizio complessivo di
affidabilità (articolo ItaliaOggi Sette del 23.12.2019).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è fondato e meritevole di accoglimento per le seguenti
considerazioni.
La tesi, sostenuta dalla difesa resistente a supporto della decisione di non
ammettere lo studio ricorrente alla gara per l’affidamento del servizio di
assistenza legale in vista della redazione dell’accordo di programma tra i
soggetti pubblici coinvolti nella realizzazione del nuovo ospedale padovano,
argomenta in ordine alla specificità dell’attività richiesta, specificità
riconducibile alla complessità e peculiarità insite nel modulo
procedimentale che caratterizza la predisposizione dell’accordo di
programma, istituto riconducibile al genus più ampio degli accordi ex
art. 11 della Legge n. 241/1990.
Se quindi –secondo la resistente– risulta imprescindibile la conoscenza
delle materie appartenenti al diritto amministrativo, con specifico
riferimento ai settori dell’urbanistica, dell’ambiente, delle
espropriazioni, della contrattualistica, in quanto profili che verranno ad
essere oggetto dei vari passaggi per addivenire alla conclusione e
sottoscrizione dell’accordo di programma, la specificità delle competenze
richieste nel caso in esame non può prescindere da una esperienza maturata e
documentata proprio in ordine alla specifica attività di
redazione/sottoscrizione di accordi di programma o più in generale di
accordi ex art. 11 della L. 214/1990.
Ciò, quindi, senza voler intendere la richiesta in termini di servizi
identici, ma ribadendo la necessità che le precedenti esperienze siano tali
da essere ricondotte, quali servizi analoghi, a tale specifica attività di
assistenza legale.
Ritiene il Collegio che l’assunto difensivo della resistente non possa
essere condiviso.
Come noto e costantemente affermato dalla giurisprudenza,
la nozione di “servizi analoghi” non deve essere assimilata a quella
di “servizi identici”, dovendo ritenersi soddisfatta la prescrizione
della legge di gara tutte le volte in cui il concorrente abbia dimostrato lo
svolgimento di servizi rientranti nel medesimo settore imprenditoriale o
professionale cui afferisce l’appalto: il concetto di “servizio analogo”,
deve essere inteso non come identità, ma come mera similitudine tra le
prestazioni richieste, tenendo conto che l’interesse pubblico sottostante
non è certamente la creazione di una riserva a favore degli imprenditori già
presenti sul mercato ma, al contrario, l’apertura del mercato attraverso
l’ammissione alle gare di tutti i concorrenti per i quali si possa
raggiungere un giudizio complessivo di affidabilità.
E’ stato così ribadito che “nelle gare pubbliche,
laddove il bando di gara richieda quale requisito il pregresso svolgimento
di «servizi analoghi», tale nozione non può essere assimilata a quella di
«servizi identici» dovendosi conseguentemente ritenere, in chiave di favor
partecipationis, che un servizio possa considerarsi analogo a quello posto a
gara se rientrante nel medesimo settore imprenditoriale o professionale cui
afferisce l'appalto in contestazione, cosicché possa ritenersi che grazie ad
esso il concorrente abbia maturato la capacità di svolgere quest'ultimo”
(cfr. da ultimo, Cons. Stato, sez. V, 18.12.2017 n. 5944).
Analogamente, “quando la lex specialis di gara richiede,
come nella fattispecie, di dimostrare il pregresso svolgimento di servizi
simili, non è consentito alla stazione appaltante di escludere i concorrenti
che non abbiano svolto tutte le attività rientranti nell'oggetto
dell'appalto, né le è consentito di assimilare impropriamente il concetto di
servizi analoghi con quello di servizi identici, considerato che la ratio di
siffatte clausole è proprio quella di perseguire un opportuno
contemperamento tra l'esigenza di selezionare un imprenditore qualificato ed
il principio della massima partecipazione alle gare pubbliche”
(Cons. Stato, V, 25.06.2014, n. 3220)”; cfr. anche TAR Sicilia, Palermo,
sez. II, 18.11.2014, n. 2892.
In buona sostanza, sulla base di tali principi ermeneutici,
la valutazione che l’amministrazione procedente è chiamata a fare ai
fini dell’ammissione alla partecipazione alla gara deve essere ricondotta in
termini complessivi, valutando tutti i servizi resi dal concorrente, a
comprova delle proprie esperienze professionali, di talché possa essere
considerata quale indice della idoneità tecnica e professionale alla
corretta esecuzione del servizio oggetto dell’appalto.
“Laddove la lex specialis chieda ai partecipanti di
documentare il pregresso svolgimento di “servizi analoghi”, la stazione
appaltante non è legittimata ad escludere i concorrenti che non abbiano
svolto tutte le attività oggetto dell'appalto né ad assimilare
impropriamente il concetto di “servizi analoghi” con quello di “servizi
identici”, atteso che la ratio sottesa alla succitata clausola del bando è
il contemperamento tra l'esigenza di selezionare un imprenditore qualificato
ed il principio della massima partecipazione alle gare pubbliche, dal
momento che la locuzione “servizi analoghi” non s'identifica con “servizi
identici” (C.d.S, Sez. V, n.
5040/2018 e n. 3267/2018).
Naturalmente dovrà essere valorizzata la contestuale
ricerca di elementi di similitudine tra i servizi presi in considerazione,
che possono scaturire solo dal confronto tra le prestazioni oggetto
dell'appalto da affidare e le prestazioni oggetto dei servizi indicati dai
concorrenti. |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
precisazione del concetto di “piena conoscenza” del provvedimento, vale a dire di quella
conoscenza idonea a far decorrere il termine perentorio di sessanta giorni
per l’impugnazione.
La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che la “piena conoscenza” non deve essere
intesa quale “conoscenza piena ed integrale” del provvedimento stesso,
ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità sia idonea
a viziare, in via derivata, il provvedimento finale, dovendosi invece
ritenere che sia sufficiente ad integrare il concetto la percezione
dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne
rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale
ricorrente, in modo da rendere riconoscibile l’attualità dell’interesse ad
agire contro di esso.
La norma intende per “piena conoscenza”, quindi, la consapevolezza
dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività e tale consapevolezza
determina la sussistenza di una condizione dell’azione, l’interesse al
ricorso, mentre la conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti
del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta
definizione delle ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi.
Con specifico riferimento alla impugnazione dei titoli edilizi, va
innanzitutto rilevato che la vicinitas, come nella fattispecie in esame, di
un soggetto rispetto all’area e alle opere edilizie contestate induce a
ritenere che lo stesso abbia potuto avere più facilmente conoscenza della
loro entità anche prima della conclusione dei lavori.
Ai fini della decorrenza del termine di impugnazione di un permesso di
costruire da parte di terzi, l’effetto lesivo si atteggia diversamente a
seconda che si contesti l’illegittimità del titolo per il solo fatto che
esso sia stato rilasciato (ad esempio, per contrasto con l’inedificabilità
assoluta dell’area) ovvero che si contesti il contenuto specifico del
permesso (ad esempio, per eccesso di volumetria o per violazione delle
distanze minime tra fabbricati).
Il momento da cui computare i termini decadenziali di proposizione del
ricorso, nell’ambito dell’attività edilizia, è infatti individuato, secondo
la giurisprudenza, nell’inizio dei lavori, nel caso si sostenga che nessun
manufatto poteva essere edificato sull’area; ovvero, laddove si contesti il quomodo (distanze, consistenza ecc.), dal completamento dei lavori o dal
grado di sviluppo degli stessi, se si renda comunque palese l’esatta
dimensione, consistenza, finalità, dell’erigendo manufatto, ferma restando:
a) la possibilità, da parte di chi solleva l’eccezione di tardività, di
provare, anche in via presuntiva, la concreta anteriore conoscenza del
provvedimento lesivo in capo al ricorrente (ad esempio, ai sensi del
combinato disposto degli artt. 20, comma 6, e 27, comma 4, t.u. edilizia,
avuto riguardo alla presenza in loco del cartello dei lavori [specie se
munito di rendering e indicazione puntuale del titolo edilizio] ovvero alla
effettiva comunicazione all’albo pretorio del comune del rilascio del titolo
edilizio; alla consistenza del tempo trascorso fra l’inizio dei lavori e la
proposizione del ricorso; alla effettiva residenza del ricorrente in zona
confinante con il lotto su cui sono in corso i lavori; ecc. ecc.);
b) l’onere di chi intende contestare adeguatamente un titolo edilizio di
esercitare sollecitamente l’accesso documentale.
In altri termini, la giurisprudenza di questo Consiglio ha sistematizzato i seguenti principi sulla verifica della
piena conoscenza dei titoli edilizi, al fine di ponderare il rispetto del
termine decadenziale per proporre l’azione di annullamento:
- il termine per impugnare il permesso di costruire decorre dalla
piena conoscenza del provvedimento, che ordinariamente s'intende avvenuta al
completamento dei lavori, a meno che sia data prova di una conoscenza
anticipata da parte di chi eccepisce la tardività del ricorso anche a mezzo
di presunzioni semplici;
- l’inizio dei lavori segna il dies a quo per la tempestiva
proposizione del ricorso laddove si contesti l’an dell’edificazione;
- dal momento della constatazione della presenza dello scavo, è ben
possibile ricorrere enucleando le censure (ivi comprese quelle in ordine
all'asserito divieto di nuova edificazione) senza differire il termine di
proposizione del ricorso all'avvenuto positivo disbrigo della pratica di
accesso agli atti avviata né, a monte, che si possa differire quest'ultima;
- la richiesta di accesso non è idonea ex se a far differire i
termini di proposizione del ricorso, perché se, da un lato, deve essere
assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi
nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall'altro
lato, deve parimenti essere salvaguardato l'interesse del titolare del
permesso di costruire a che l'esercizio di detta tutela venga attivato senza
indugio e non irragionevolmente differito nel tempo, determinando una
situazione di incertezza delle situazioni giuridiche contraria ai principi ordinamentali.
---------------
3.1. La statuizione di irricevibilità dell’azione di annullamento
del permesso di costruire n. 27 del 10.04.2014 e delle altre censure ad
esso concernenti deve essere confermata.
L’art. 41, comma 2, c.p.a. dispone che, qualora sia stata proposta azione di
annullamento, il ricorso deve essere notificato, a pena di decadenza, alla
pubblica amministrazione e ad almeno uno dei controinteressati che sia
individuato nell’atto stesso entro il termine previsto dalla legge,
decorrente dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza, ovvero,
per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione individuale, dal
giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione se questa sia
prevista dalla legge o in base alla legge.
Ne consegue che la decisione della presente controversia impone di precisare
il concetto di “piena conoscenza” del provvedimento, vale a dire di quella
conoscenza idonea a far decorrere il termine perentorio di sessanta giorni
per l’impugnazione.
La giurisprudenza (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, 23.05.2018, n.
3075) ha avuto modo di chiarire che la “piena conoscenza” non deve essere
intesa quale “conoscenza piena ed integrale” del provvedimento stesso,
ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità sia idonea
a viziare, in via derivata, il provvedimento finale, dovendosi invece
ritenere che sia sufficiente ad integrare il concetto la percezione
dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne
rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale
ricorrente, in modo da rendere riconoscibile l’attualità dell’interesse ad
agire contro di esso.
La norma intende per “piena conoscenza”, quindi, la consapevolezza
dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività e tale consapevolezza
determina la sussistenza di una condizione dell’azione, l’interesse al
ricorso, mentre la conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti
del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta
definizione delle ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi.
Con specifico riferimento alla impugnazione dei titoli edilizi, va
innanzitutto rilevato che la vicinitas, come nella fattispecie in esame, di
un soggetto rispetto all’area e alle opere edilizie contestate induce a
ritenere che lo stesso abbia potuto avere più facilmente conoscenza della
loro entità anche prima della conclusione dei lavori.
Ai fini della decorrenza del termine di impugnazione di un permesso di
costruire da parte di terzi, l’effetto lesivo si atteggia diversamente a
seconda che si contesti l’illegittimità del titolo per il solo fatto che
esso sia stato rilasciato (ad esempio, per contrasto con l’inedificabilità
assoluta dell’area) ovvero che si contesti il contenuto specifico del
permesso (ad esempio, per eccesso di volumetria o per violazione delle
distanze minime tra fabbricati).
Il momento da cui computare i termini decadenziali di proposizione del
ricorso, nell’ambito dell’attività edilizia, è infatti individuato, secondo
la giurisprudenza (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, n. 5754 del 2017;
Sez. VI, n. 4830 del 2017; Sez. IV, n. 3067 del 2017; Sez. IV, 15.11.2016, n. 4701; Sez. IV, n. 1135 del 2016; Sez. IV, nn. n. 4909 e 4910 del
2015; Sez. IV, 22.12.2014 n. 6337; Sez. V, 16.04.2013, n. 2107; Sez. VI, 18.04.2012, n. 2209, che si conformano sostanzialmente
all’insegnamento dell'Adunanza Plenaria n. 15 del 2011 sviluppandone i
logici corollari): nell’inizio dei lavori, nel caso si sostenga che nessun
manufatto poteva essere edificato sull’area; ovvero, laddove si contesti il
quomodo (distanze, consistenza ecc.), dal completamento dei lavori o dal
grado di sviluppo degli stessi, se si renda comunque palese l’esatta
dimensione, consistenza, finalità, dell’erigendo manufatto, ferma restando:
a) la possibilità, da parte di chi solleva l’eccezione di tardività, di
provare, anche in via presuntiva, la concreta anteriore conoscenza del
provvedimento lesivo in capo al ricorrente (ad esempio, ai sensi del
combinato disposto degli artt. 20, comma 6, e 27, comma 4, t.u. edilizia,
avuto riguardo alla presenza in loco del cartello dei lavori [specie se
munito di rendering e indicazione puntuale del titolo edilizio] ovvero alla
effettiva comunicazione all’albo pretorio del comune del rilascio del titolo
edilizio; alla consistenza del tempo trascorso fra l’inizio dei lavori e la
proposizione del ricorso; alla effettiva residenza del ricorrente in zona
confinante con il lotto su cui sono in corso i lavori; ecc. ecc.);
b) l’onere di chi intende contestare adeguatamente un titolo edilizio di
esercitare sollecitamente l’accesso documentale.
In altri termini, la giurisprudenza di questo Consiglio (ex multis: Cons.
Stato, Sez. IV; n. 5675 del 2017; Sez. IV, n. 4701 del 2016; Sez. IV, n.
1135 del 2016) ha sistematizzato i seguenti principi sulla verifica della
piena conoscenza dei titoli edilizi, al fine di ponderare il rispetto del
termine decadenziale per proporre l’azione di annullamento:
- il termine per impugnare il permesso di costruire decorre dalla
piena conoscenza del provvedimento, che ordinariamente s'intende avvenuta al
completamento dei lavori, a meno che sia data prova di una conoscenza
anticipata da parte di chi eccepisce la tardività del ricorso anche a mezzo
di presunzioni semplici;
- l’inizio dei lavori segna il dies a quo per la tempestiva
proposizione del ricorso laddove si contesti l’an dell’edificazione;
- dal momento della constatazione della presenza dello scavo, è ben
possibile ricorrere enucleando le censure (ivi comprese quelle in ordine
all'asserito divieto di nuova edificazione) senza differire il termine di
proposizione del ricorso all'avvenuto positivo disbrigo della pratica di
accesso agli atti avviata né, a monte, che si possa differire quest'ultima;
- la richiesta di accesso non è idonea ex se a far differire i
termini di proposizione del ricorso, perché se, da un lato, deve essere
assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi
nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall'altro
lato, deve parimenti essere salvaguardato l'interesse del titolare del
permesso di costruire a che l'esercizio di detta tutela venga attivato senza
indugio e non irragionevolmente differito nel tempo, determinando una
situazione di incertezza delle situazioni giuridiche contraria ai principi ordinamentali
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.11.2019 n. 7966 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: «No»
alla decadenza dall'azione disciplinare fuori tempo se l'Ente deve accertare
la violazione.
Il termine per l'avvio dell'azione disciplinare, in caso di una infrazione
ai doveri d'ufficio che preveda il licenziamento del dipendente, non è
automaticamente e rigidamente connesso alla momento della segnalazione o
della denuncia del fatto, perché se lo fosse l'amministrazione non avrebbe i
necessari margini di tempo e l'autonomia di valutazione per sondare la
fondatezza della denuncia e l'attendibilità della fonte della notitia
criminis.
Questo il principio formulato dalla Corte d'appello di Ancona, Sez. lavoro,
con la
sentenza 22.11.2019 n. 370.
La massima è importante perché dà tempo e modo all'amministrazione di
valutare al meglio l'infrazione del dipendente per le conseguenti misure del
caso, senza il rischio di incorrere nella decadenza dall'azione disciplinare
per inottemperanza del termine previsto dall'articolo 55-bis, comma 4, del
Dlgs 165/2001, fissato in massimo 40 giorni, articolato in più fasi, tra la
data in cui l'ufficio abbia acquisito notizia dell'infrazione e la data
della contestazione dell'addebito.
Secondo questo disposto, nel caso di infrazione che preveda l'irrogazione di
sanzioni superiori al rimprovero verbale «il responsabile della struttura
presso cui presta servizio il dipendente, segnala immediatamente, e comunque
entro 10 giorni, all'ufficio competente per i procedimenti disciplinari i
fatti ritenuti di rilevanza disciplinare di cui abbia avuto conoscenza.
L'ufficio competente per i procedimenti disciplinari, con immediatezza e
comunque non oltre 30 giorni decorrenti dal ricevimento della predetta
segnalazione (…) provvede alla contestazione scritta dell'addebito e convoca
l'interessato, con un preavviso di almeno 20 giorni, per l'audizione in
contraddittorio a sua difesa».
Il fatto
Un dipendente comunale, con profilo di istruttore responsabile del servizio
cimiteri, ha presentato appello contro la decisione con cui il Tribunale di
Urbino ha rigettato l'opposizione all'ordinanza che, in fase sommaria, aveva
respinto l'impugnativa del licenziamento disciplinare comminato al
ricorrente dal Comune con provvedimento del 27.04.2016.
Alla base della grave sanzione inflitta c'era un episodio di indebita
appropriazione di circa 20 mila euro da parte del dipendente de quo, che
aveva trattenuto i corrispettivi pagati dagli utenti anziché riversarli
nelle casse dell'ente.
Senza considerare i profili connessi all'azione penale esperita in seguito
all'evento, la Corte d'appello si è occupata della doglianza del lavoratore
in ordine alla presunta tardività dell'azione disciplinare intrapresa dal
Comune nei suoi riguardi.
Secondo il ricorrente, il tribunale avrebbe errato nel non ritenere decaduta
l'azione disciplinare dell'amministrazione, in relazione alla cronologia dei
fatti in causa e tenuto conto dei termini imposti dal suddetto articolo
55-bis del Dlgs 165/2001.
Il Comune era venuto a conoscenza dell'infrazione del dipendente nel
novembre del 2013, mentre il procedimento disciplinare era stato avviato
dall'ente con una comunicazione del 02.02.2015, e quindi ben oltre il
termine perentorio dei 40 giorni prescritto dal disposto di cui sopra.
Il ricorrente ha osservato che l'ente locale nel novembre 2014 aveva attuato
un piano di rotazione dei dipendenti assegnati al ruolo di responsabili dei
servizi cimiteriali, da cui si poteva agevolmente dedurre la piena
consapevolezza del Comune circa l'elevato rischio di commissione di fatti di
corruzione nell'ambito dell'ufficio in questione.
La decisione
Tutte le ragioni addotte dal lavoratore sono state ritenute infondate dalla
Corte, che ha invece confermato la legittimità del licenziamento disposto
dalla Pa, ancorché avvenuto senza il puntuale rispetto dei termini
prescritti dall'articolo 55-bis sopra richiamato.
I giudici hanno osservato, in primo luogo, che «lo sviluppo storico dei
fatti di causa è incontestato tra le parti», dato che «il reclamante
ha prestato totale acquiescenza all'accertamento di merito compiuto dal
primo giudice in ordine alla sussistenza dell'illecito disciplinare e alla
proporzionalità e adeguatezza, rispetto a esso, della massima sanzione
espulsiva».
Il collegio ha chiarito che la sequenza procedimentale prevista
dall'articolo 55-bis del Dlgs 165/2001 non può applicarsi alla lettera senza
tenere conto «della possibilità, anzi della necessità, per la pubblica
amministrazione datrice di lavoro di compiere gli accertamenti più
opportuni, onde ricostruire l'ipotizzato illecito in tutti i suoi elementi
costitutivi, verificando la sussistenza non solo dell'elemento materiale o
oggettivo, ma anche e soprattutto dell'elemento soggettivo».
In caso contrario, hanno scritto ancora i giudici, l'interpretazione
normativa incorrerebbe in «un aberrante automatismo tra qualsiasi
segnalazione o denuncia del terzo e l'avvio dell'azione disciplinare»
che finirebbe per tradire lo spirito della legge.
La necessità di superare un'interpretazione letterale, che si giustifica in
rapporto a chiare finalità di interesse pubblico, ha peraltro trovato
un'autorevole conferma da parte della Corte di cassazione, la quale ha
asserito che «la contestazione dell'addebito deve essere effettuata entro
40 giorni dall'acquisizione della notizia dell'infrazione da parte
dell'ufficio competente, sempre che si tratti di notizia che contenga gli
elementi sufficienti a dare un corretto avvio al procedimento disciplinare,
mentre il termine non può decorrere se la notizia, per la sua genericità,
non consenta la formulazione dell'incolpazione, ma richieda accertamenti di
carattere preliminare, volti ad acquisire i dati necessari per
circostanziare l'addebito» (Cassazione lavoro, sentenza n. 16706/2018) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
18.12.2019). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti, classificazione rigorosa. Analisi mirate. Nel dubbio, scarti da
qualificare pericolosi. Cassazione
e Corte di giustizia Ue allineate sui metodi per l’identificazione dei
residui.
Al
fine di classificare correttamente un rifiuto il detentore deve acquisire
una conoscenza sufficiente della sua composizione, utilizzando metodologie
di raccolta informazioni previste da norme Ue e verificando la presenza
delle sostanze pericolose che possono ragionevolmente trovarvisi.
Laddove l'esito delle indagini lasci però dubbi, il rifiuto deve sempre
essere classificato come pericoloso.
Questi, in sintesi, i principi di diritto da osservare nella procedura di
identificazione di un residuo di produzione o consumo accolti dalla Corte di
Cassazione -Sez. III penale- con la
sentenza 21.11.2019 n. 47288, pronunciata sulla base
dell'interpretazione delle norme comunitarie offerta dalla Corte di
Giustizia Ue mesi addietro con sentenza del 28.03.2019.
Il contesto processuale. Il giudice nazionale di legittimità, investito di
un caso relativo alla classificazione di rifiuti con «codici a specchio», e
ritenendo sussistere un ragionevole dubbio sull'ambito di operatività delle
norme Ue da applicarsi, aveva nel 2017 sospeso il processo rimettendo gli
atti alla Corte di Lussemburgo interrogandola sull'interpretazione da dare
alle regole di interesse.
Giunta dall'Ue con sentenza del marzo 2019 la risposta ai quesiti formulati
dall'Italia e ripreso il procedimento nazionale, con la sentenza del
novembre 2019 la Cassazione ha quindi dato conto dei principi di diritto
espressi dal giudice comunitario (vincolanti ai fini della soluzione della
controversia interna).
Il contesto normativo. I rifiuti con i c.d. «codici a specchio» sono i
residui per i quali l'Elenco europeo dei rifiuti («Eer», decisione
2000/532/Ce) prevede due potenziali voci di classificazione, una pericolosa
(quella accompagnata da asterisco) e una non pericolosa; la corretta
attribuzione dell'una o dell'altra voce è rimessa al soggetto responsabile
della classificazione del rifiuto (il detentore), che deve scegliere il
codice appropriato all'esito di una valutazione che accerti la pericolosità
o meno del residuo in base alle sostanze in esso contenute.
Sotto tale profilo classificatorio, i rifiuti con codici speculari si
distinguono così dalle altre due tipologie di rifiuti previsti dall'Eer,
quali: i rifiuti a monte seccamente individuati come non pericolosi e per i
quali non sono necessarie ulteriori valutazioni; i rifiuti, invece, definiti
univocamente pericolosi (attraverso un unico codice con asterisco), in
relazione ai quali ultimi occorre procedere direttamente alla ricerca delle
specifiche caratteristiche di pericolo da associarvi (identificate dalle
diverse categorie «Hp» ex direttiva 2008/98/Ce).
Sebbene dettata in relazione ad una fattispecie vertente sulla
classificazione di rifiuti a specchio, l'interpretazione delle norme
comunitarie offerta dalle Corti assume respiro di carattere generale, poiché
interessa le regole cardine del delicato procedimento di identificazione dei
residui.
I principi di diritto: individuazione della composizione. Punto di partenza,
si evince dalle indicazioni della recente giurisprudenza, è l'articolo 7
della direttiva 2008/98/Ce che impone al detentore del rifiuto di
individuarne origine e composizione nonché, ove necessario, valori limite di
concentrazione delle eventuali sostanze pericolose contenute.
Qualora la composizione del rifiuto non risulti però immediatamente nota
(come il caso, appunto, dei rifiuti con codici speculari) occorre
raccogliere informazioni idonee al fine di acquisirne una conoscenza
«sufficiente».
Raccolta delle informazioni necessarie. La collezione dei dati relativi alla
composizione del rifiuto deve esser condotta secondo metodi specifici.
Le metodologie di prova imposte dall'ordinamento giuridico sono quelle
previste dall'allegato III della direttiva 2008/98/Ce, il quale indica al
riguardo:
- i metodi descritti dal regolamento 440/2008/Ce (relativo alla disciplina
delle sostanze chimiche meglio nota come «Reach»);
- le pertinenti note del Comitato europeo di normazione (c.d. «Cen»);
- altri metodi di prova e linee guida riconosciuti a livello internazionale.
Alla suddetta metodologia sono utilmente affiancabili, secondo le
indicazioni dei sommi giudici:
- le informazioni su processo chimico o di fabbricazione che genera il
rifiuto da indentificare;
- le informazioni sulle relative sostanze in ingresso e intermedie, inclusi
i pareri di esperti;
- le informazioni fornite dal produttore originario del bene da cui rifiuto
è derivato (dati rintracciabili nelle schede dati di sicurezza, nelle
etichette e nelle schede di prodotto);
- banche dati su analisi dei rifiuti disponibili a livello di Stati Ue;
- campionamento e analisi chimiche.
Le analisi chimiche. Dalle pronunce delle Corti si evince come le analisi
chimiche del rifiuto, in particolare, devono:
- sempre offrire (al pari del campionamento) garanzie di efficacia e
rappresentatività;
- consentire una conoscenza sufficiente della composizione del residuo al
fine di verificare l'eventuale presenza di caratteristiche di pericolo (ex
allegato III, direttiva 2008/98/Ce);
- comprendere come minimo (alla luce del necessario bilanciamento tra tutela
dell'ambiente, fattibilità tecnica e praticabilità economica) la ricerca
delle «sostanze pericolose che possono ragionevolmente trovarvisi», non
essendovi alcun margine di discrezionalità al riguardo.
Valutazione e classificazione. All'esito della raccolta delle informazioni
sulla composizione del rifiuto, occorre infine procedere alla valutazione
della sua (eventuale) pericolosità, secondo le istruzioni recate dal punto 1
(«Valutazione e classificazione») della decisione 2000/532/Ce (ossia, sulla
base del calcolo delle concentrazioni di sostanze pericolose indicate
dall'allegato III alla direttiva del 2008 o sulla base di prove).
Alla valutazione, lo ricordiamo, deve seguire l'attribuzione del corretto
codice previsto dalla decisione 2000/532/Ce e, per i pericolosi, la relativa
categoria «Hp» ex direttiva 2008/98/Ce.
Qualora, però dopo una valutazione dei rischi «quanto più possibile
completa» tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie ci si
trovi nell'impossibilità pratica (non dovuta a comportamento del detentore
dei rifiuti) di determinare la presenza di sostanze pericolose o di valutare
le caratteristiche di pericolo che il residuo presenta, quest'ultimo,
precisano la Corte Ue e la Corte di Cassazione nazionale, deve essere
classificato come pericoloso
(articolo ItaliaOggi Sette del 02.12.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti
(non tutti) trasparenti. Patrimoni sul web? Obbligo solo per ministeri e
fiduciari. Il Tar del Lazio accoglie il ricorso del sindacato avverso una
decisione dell’Asl di Matera.
L'obbligo di pubblicare sul web la situazione
patrimoniale vale solo per la dirigenza di vertice dei ministeri e per chi
ricopre incarichi fiduciari. Esso non si estende dunque a tutta la dirigenza
pubblica.
Per questo motivo il TAR Lazio-Roma, Sez. I, con
ordinanza 21.11.2019
n. 7579, ha
accolto il ricorso presentato dal sindacato Cosmed avverso un provvedimento
dell'azienda sanitaria locale di Matera, sospendendone l'efficacia e
rinviando la trattazione del merito al prossimo 20 giugno. Con questa
delibera l'Asl aveva imposto ai propri dirigenti la pubblicazione su
Internet della propria situazione patrimoniale, in attuazione della
deliberazione dell'Autorità anticorruzione n. 586 del 26.06.2019.
Le
tesi dell'Anac, volte ad estendere all'intera dirigenza pubblica incombenze
gravanti solo sulla dirigenza di vertice dei ministeri o fiduciaria,
risultano dunque ancora una volta soccombenti. L'art. 14, comma 1-bis,
lett. c) e f), del dlgs 33/2013 ha esteso ai dirigenti pubblici obblighi
di pubblicità incombenti, prima, solo sugli organi di governo. Il Garante
della privacy nel 2017 adottò una delibera attuativa delle linee guida Anac
241/2017, attuative della norma, avverso la quale i dirigenti dell'Autorità
presentarono ricorso al Tar Lazio: l'ordinanza 02.03.2017, n. 1030 accolse
il ricorso cautelare. A seguito di questa, l'Anac con delibera 382/2017
sospese le proprie linee guida e quindi l'obbligo per i dirigenti pubblici
di rendere noto il proprio patrimonio. Con successiva ordinanza collegiale
9828/2017 il Tar Lazio sollevò la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 14, comma 1, lettere c) e f).
Tale articolo è stato dichiarato
incostituzionale, nella parte che impone a tutta la dirigenza e non solo a
quella apicale dei ministeri, dalla Corte costituzionale con sentenza
20/2019, ove si sottolinea che «è corretto l'insistito rilievo del giudice
rimettente, che sottolinea come la mancanza di qualsivoglia differenziazione
tra dirigenti risulti in contrasto, ad un tempo, con il principio di
eguaglianza e, di nuovo, con il principio di proporzionalità, che dovrebbe
guidare ogni operazione di bilanciamento tra diritti fondamentali
antagonisti. Il legislatore avrebbe perciò dovuto operare distinzioni in
rapporto al grado di esposizione dell'incarico pubblico al rischio di
corruzione e all'ambito di esercizio delle relative funzioni».
La sentenza
ha dichiarato «l'illegittimità costituzionale dell'art. 14, comma 1-bis, del
decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 (...), nella parte in cui prevede che
le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all'art. 14, comma 1,
lettera f), dello stesso decreto legislativo anche per tutti i titolari di
incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli
conferiti discrezionalmente dall'organo di indirizzo politico senza
procedure pubbliche di selezione, anziché solo per i titolari degli
incarichi dirigenziali previsti dall'art. 19, commi 3 e 4, del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165».
Sebbene secondo la Consulta spetti solo
al legislatore intervenire sul tema per eventualmente distinguere, in
rapporto al grado di esposizione al rischio di corruzione, gli incarichi
soggetti all'intenso obbligo di pubblicare i dati patrimoniali, rispetto a
quelli non soggetti, l'Anac è tornata sul tema con deliberazione 26.06.2019,
n. 586, la quale, in aperto contrasto con la sentenza della Consulta, ha di
fatto esteso nuovamente l'applicazione della norma dichiarata
incostituzionale all'intera dirigenza pubblica e non solo ai dirigenti
ministeriali di prima fascia, indicando alle varie amministrazioni pubbliche
di stabilire con propri regolamenti interni quali dirigenti, considerati
apicali, siano tenuti all'obbligo.
La sospensione cautelare della delibera
dell'azienda sanitaria di Matera da parte del Tar Lazio rende evidente che
l'attuazione della deliberazione 586/2019 (non intaccata dall'ordinanza del
giudice amministrativo), estendendo a tutta la dirigenza gli obblighi di
pubblicazione, espone gli enti a decisioni fortemente a sospetto di
illegittimità, perché ripristinano «il pregiudizio immediato e irreparabile
alla riservatezza» posto a base del ricorso presentato dalla Cosmed e
considerato come elemento decisivo dalla Consulta per l'incostituzionalità
dell'articolo 14, comma 1-bis, del dlgs 33/2013
(articolo ItaliaOggi del 22.11.2019). |
CONDOMINIO: Avvisi,
responsabilità condivisa. Il presidente verifica la regolarità della
convocazione. La Cassazione: non è solo l’amministratore condominiale il
soggetto che risponde degli errori.
In caso di omessa convocazione del condomino
all'assemblea la responsabilità dell'amministratore può concorrere con
quella del soggetto chiamato a presiedere la riunione, il quale in tale
veste dovrebbe controllare la regolarità degli avvisi spediti agli aventi
diritto che risultino assenti.
Questo il principio di diritto desumibile dalla recente
sentenza 18.11.2019 n. 29878 della Corte
di Cassazione, Sez. II civile.
Il caso concreto. Nella specie un condominio aveva citato in giudizio il
proprio amministratore per sentirlo dichiarare responsabile di inadempimento
contrattuale e condannarlo al risarcimento dei danni subiti. Questi ultimi
erano stati individuati nell'ammontare delle spese processuali che la
compagine condominiale era stata condannata a versare a un condomino che
aveva vittoriosamente impugnato una deliberazione assembleare per errata
convocazione.
I condomini imputavano infatti all'amministratore di avere
sbagliato nello svolgimento della procedura di indizione dell'assemblea e di
avere quindi dato causa al vizio di legittimità della volontà comune
successivamente contestata dal condomino risultato vittorioso in sede
giudiziale.
La domanda era stata accolta dal tribunale, ma la sentenza era stata
prontamente appellata dall'amministratore, il quale sosteneva che, in base
all'art. 1136 c.c., sarebbe spettato all'assemblea, dunque ai condomini,
verificare l'avvenuta regolare convocazione di tutti gli aventi diritto.
Inoltre l'amministratore aveva evidenziato come la convocazione del
condomino impugnante fosse avvenuta a mezzo di posta ordinaria, e non
tramite raccomandata, per espressa richiesta di quest'ultimo.
La Corte di appello aveva però confermato la sentenza impugnata,
evidenziando come il procedimento di convocazione dell'assemblea fosse uno
dei compiti assegnati dalla legge all'amministratore e, quindi, rientrasse a
pieno titolo fra i suoi obblighi contrattuali di mandatario della compagine
condominiale, da svolgere secondo i canoni di diligenza di cui agli artt.
1176 e 1710 c.c.. Di qui il ricorso in Cassazione.
La procedura di convocazione dell'assemblea condominiale. Il primo passo da
compiere per procedere all'adozione di una deliberazione assembleare è
quello di provvedere alla regolare convocazione della riunione condominiale,
avvertendo i soggetti legittimati a parteciparvi del giorno, del luogo e
dell'ora della stessa. Il soggetto generalmente deputato alla convocazione
dell'assemblea, come anticipato, è l'amministratore. Questi, oltre ad avere
la possibilità di riunire i condomini in via straordinaria nei casi in cui
lo ritenga opportuno e/o necessario, è altresì obbligato convocarli negli
specifici casi previsti dal codice civile.
Ai sensi del comma 3 dell'art. 66 disp. att. c.c. l'avviso di convocazione
deve essere comunicato agli aventi diritto almeno cinque giorni prima della
data fissata per l'adunanza in prima convocazione. Si tratta di una
disposizione finalizzata a garantire ai condomini la possibilità di
organizzare i propri impegni in modo da poter presenziare alla riunione e
prepararsi in modo adeguato alla discussione dei singoli argomenti posti
all'ordine del giorno.
Il computo del termine in questione si effettua a
partire dalla data fissata per l'assemblea (che non deve essere conteggiata)
e procedendo a ritroso nel tempo. Se, tanto per fare un esempio, l'assemblea
è stata convocata per il 27 marzo, la comunicazione ai condomini dovrà
essere effettuata entro e non oltre il 22 marzo. In caso di avviso che
contenga la data sia della prima che della seconda convocazione, il termine
in questione dovrà quindi essere calcolato sulla prima, anche se sia già
certo che la stessa andrà deserta.
La decisione della Suprema corte. Nel ricorrere in Cassazione
l'amministratore condominiale aveva evidenziato come l'obbligo a suo carico
in ordine alla convocazione dell'assemblea non esimesse quest'ultima dalla
verifica della regolarità dei relativi avvisi spediti agli aventi diritto.
Per l'amministratore la sua responsabilità doveva quindi essere giudicata
quantomeno concorrente con quella dell'assemblea.
A questo proposito i giudici di legittimità hanno evidenziato come, pur
essendo di regola l'amministratore a essere onerato della convocazione
dell'assemblea ex art. 66 disp. att. c.c., è vero anche che l'art. 1136 c.c.
prescrive che l'assemblea non possa deliberare ove non consti che tutti gli
aventi diritto siano stati preventivamente invitati e dunque messi in
condizione di partecipare alla riunione.
Nella sentenza in questione si
legge infatti che è «compito dell'assemblea, e per essa del suo presidente,
controllare la regolarità degli avvisi di convocazione e darne conto tramite
la verbalizzazione, sulla base dell'elenco degli aventi diritto a
partecipare alla riunione eventualmente compilato dall'amministratore
(elenco che può essere a sua volta allegato al verbale o inserito tra i
documenti conservati nell'apposito registro), trattandosi di una delle
prescrizioni di forma richieste dal procedimento collegiale (avviso di
convocazione, ordine del giorno, costituzione, discussione, votazione ecc.),
la cui inosservanza importa l'annullabilità della delibera, in quanto non
presa in conformità alla legge».
Per tale motivo la Suprema corte ha accolto il ricorso dell'amministratore,
cassando la sentenza impugnata e rinviando ad altra sezione della Corte di
appello per riesaminare la questione alla luce dei predetti rilievi e
uniformandosi ai predetti principi. A proposito di quanto sopra occorre
quindi evidenziare come sia buona norma che il soggetto chiamato a
presiedere l'assemblea si premuri, una volta effettuato l'appello, di
verificare se gli assenti siano stati correttamente convocati.
Il presidente, tuttavia, per poter svolgere questo compito, deve
necessariamente poter contare sulla collaborazione dell'amministratore, il
quale dovrà quindi avere portato con sé la documentazione relativa alle
convocazioni effettuate e metterla a sua disposizione. Ove si riscontrasse
che qualcuno degli aventi diritto non sia stato convocato si dovrebbe
pertanto aggiornare la riunione ad altra data per dare al medesimo la
possibilità di partecipare ed evitare per converso che vengano impugnate le
eventuali deliberazioni che sarebbero adottate in quella sede, con
conseguente richiesta di annullamento giudiziale e condanna del condominio
alle spese di lite. È tuttavia evidente come la responsabilità connessa
all'individuazione degli aventi diritto alla partecipazione all'assemblea,
che sottende la corretta tenuta del registro dell'anagrafe condominiale, sia
invece specifica dell'amministratore.
Occorrerà quindi valutare caso per caso l'effettivo comportamento tenuto
dall'amministratore condominiale e dal presidente dell'assemblea per
stabilire se il primo risponda in via esclusiva o concorrente dei danni
subiti dal condominio per l'omessa o errata convocazione degli aventi
diritto (articolo ItaliaOggi Sette del 23.12.2019). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Appalti
e revisione dei prezzi, l'affidatario deve fornire la prova degli eventi
sopravvenuti e imprevedibili.
L'evento sopravvenuto e imprevedibile legittima la richiesta di revisione
dei prezzi da parte dell'aggiudicatario. Il diritto alla revisione dei
prezzi, infatti, inteso come diritto alla rinegoziazione degli stessi
consegue alla sopravvenienza di fattori imprevedibili che hanno alterato
l'originario equilibrio sinallagmatico. È onere dell'aggiudicatario
compulsare la stazione appaltante rappresentando e documentando le proprie
sopraggiunte necessità di aspirare ad un diverso bilanciamento delle
reciproche posizioni economiche, che verranno valutate avuto riguardo alla
comparazione con l'interesse pubblico alla qualità della fornitura.
Lo stabilisce il Consiglio di Stato, Sez. II, con la
sentenza
18.11.2019 n. 7859.
Il caso
Il caso si riferisce ad una gara di servizi. La ricorrente è risultata
aggiudicataria di una procedura ad evidenza pubblica del servizio di
raccolta dei rifiuti solidi urbani. Alla scadenza del contratto
l'Amministrazione prorogava reiteratamente l'affidamento originario, così
che il servizio continuava ad essere effettuato dalla società senza
soluzione di continuità. L'affidataria in ragione di ciò chiedeva la
revisione del corrispettivo.
La Pa tuttavia non rispondeva alle istanze cosicché l'impresa agiva in
giudizio contro il silenzio serbato alle proprie richieste e per ottenere la
modifica del prezzo contrattualizzato. Ma il Giudice amministrativo
territoriale rigettava il ricorso sostenendo che la natura eccezionale del
rimedio, finalizzato a fronteggiare situazioni e criticità imprevedibili, lo
rende ontologicamente incompatibile con la possibilità di rivedere le
condizioni economiche dello stesso, per l'intrinseca immodificabilità delle
condizioni date, incorrendo al contrario nella elusione delle regole
dell'evidenza pubblica.
Dello stesso avviso si è detto il Consiglio di Stato ribadendo
l'inammissibilità del gravame avverso il silenzio serbato
dall'Amministrazione sulle diffide della parte ritenendo non ricorrenti
nella specie i requisiti perché possa operare l'istituto, e giudicando
l'adeguamento richiesto dall'impresa in larga misura come una contestazione
ex post delle condizioni contrattuali.
La decisione
A proposito dell'istituto della revisione dei prezzi il Consiglio di Stato
chiarisce chela determinazione viene effettuata dalla stazione appaltante
all'esito di un'istruttoria condotta dai dirigenti responsabili
dell'acquisizione di beni e servizi, secondo un modello procedimentale volto
al compimento di un'attività di preventiva verifica dei presupposti
necessari per il riconoscimento del compenso revisionale, che sottende
l'esercizio di un potere autoritativo tecnico-discrezionale
dell'Amministrazione nei confronti del privato contraente (in termini anche
Consiglio di Stato, Sezione III, 09.01.2017, n. 25).
Dal canto suo l'operatore economico deve provare la sussistenza di eventuali
circostanze imprevedibili che abbiano determinato aumenti o diminuzioni nel
costo dei materiali o della mano d'opera (non riconducibili alle mere
oscillazioni dei prezzi al consumo determinati dall'Istat). Tali non potendo
essere la mera proroga del termine finale del contratto.
Inoltre risultati del procedimento di revisione dei prezzi sono comunque
espressione di una facoltà discrezionale, che sfocia in un provvedimento
autoritativo. La stazione appaltante, cioè, deve effettuare un bilanciamento
tra l'interesse dell'aggiudicatario alla revisione e l'interesse pubblico
connesso sia al risparmio di spesa, sia alla regolare esecuzione del
contratto aggiudicato.
Il Consiglio di Stato già in passato ha chiarito che «la finalità
dell'istituto è da un lato quella di salvaguardare l'interesse pubblico a
che le prestazioni di beni e servizi alle pubbliche amministrazioni non
siano esposte col tempo al rischio di una diminuzione qualitativa, a causa
dell'eccessiva onerosità sopravvenuta delle prestazioni stesse, e della
conseguente incapacità del fornitore di farvi compiutamente fronte (si veda
Consiglio di Stato, Sezione VI, 07.05.2015 n. 2295; Consiglio di Stato,
Sezione V, 20.08.2008 n. 3994), dall'altro di evitare che il corrispettivo
del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo
tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la
stipulazione del contratto» (si veda Consiglio di Stato, n. 25 del 2017) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
17.12.2019).
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MASSIMA
12. Il giudice di prime cure ha escluso l’applicabilità dell’istituto
della revisione prezzi in toto, avuto riguardo alla natura del rapporto
conseguito alle proroghe successive alla scadenza, avvenuta il 31.03.2005:
esso, infatti, non troverebbe fondamento nel precedente contratto ad
efficacia periodica e continuativa, siccome richiesto dalla legge per la sua
operatività, ma in una relazione di mero fatto tra il Comune e l’impresa.
Ciò peraltro dopo aver affermato che la differenza tra rinegoziazione e
proroga consisterebbe esclusivamente nell’oggetto della modifica, esteso
agli elementi essenziali (in tutto o in parte) del negozio, nel primo caso;
limitato al termine di durata del rapporto, invariato per tutto il resto,
nel secondo.
13. L’istituto del rinnovo dei contratti pubblici ha subito
alterne vicende a seguito di differenti interventi normativi susseguitisi
nel tempo, fino alla più recente disciplina di cui al d.lgs. n. 50/2016, cd.
“Codice dei contratti pubblici”.
A fronte di una volontà del legislatore, soprattutto comunitario, di volerne
limitare al massimo l’applicabilità, vi è da sempre una spinta della prassi
a volerlo conservare con discreti margini di discrezionalità nell’utilizzo.
Le definizioni degli esatti confini di rinnovo, da un lato, e
proroga, dall’altro, date dalla migliore dottrina e giurisprudenza,
hanno dunque risentito delle alterne vicende normative susseguitesi nel
tempo. La proroga, tuttavia, intesa quale mera prosecuzione dell’efficacia
del rapporto contrattuale, consegue di regola ad un patto accessorio, che
lascia immutato il contratto originario, salvo che per il termine di
scadenza che viene spostato in avanti.
Essa comporta pertanto una mera ultrattività degli effetti del contratto.
Soprattutto in passato, veniva distinta in “contrattuale” o “tecnica”,
intendendosi con la prima quella prevista ab origine nel bando di
gara e nel successivo contratto, allo scopo di consentire alla stazione
appaltante, nell’ambito di accordi potenzialmente di lunga durata, di
valutare medio termine l’affidabilità e l’efficienza del contraente, così da
lasciarsi aperta la possibilità di confermarlo (attivando la proroga) o di
avviare una nuova gara per la scelta di un nuovo contraente in caso di
scarsa soddisfazione nei confronti del medesimo; con la seconda, un
prolungamento del rapporto ammesso –in via eccezionale e per brevi periodi–
per garantire la continuità delle prestazioni contrattuali nelle more della
conclusione delle procedure per la scelta del nuovo contraente, laddove il
ritardo di tale conclusione non sia imputabile alla stazione appaltante.
Ed è di quest’ultima che si tratta nell’odierna controversia, come
confermato dall’utilizzo, da parte del Comune di Matera, di una serie di
provvedimenti, talvolta neppure sottoscritti per accettazione da
controparte, ma condivisi per facta concludentia, tutti connotati dal
breve lasso di tempo di riferimento, da ultimo perfino inferiore al mese,
all’evidente scopo di garantire senza soluzione di continuità un servizio
pubblico di tale rilevanza quale la raccolta dei rifiuti.
13.1. La natura eccezionale del rimedio, finalizzato a fronteggiare
situazioni e criticità imprevedibili, non a cauterizzare, come sovente
accaduto, mancate programmazioni ed errori gestionali della P.A., unitamente
al richiamato contenuto immutato del rapporto sottostante, lo rende proprio
per questo ontologicamente incompatibile con la possibilità di rivedere le
condizioni economiche dello stesso, come sinteticamente affermato dal TAR
per la Basilicata.
Ciò non tanto o non solo perché, come affermato dal TAR per la Basilicata,
il rapporto tra le parti sarebbe derubricato a relazione di mero fatto, non
formalizzata in un contratto formale, necessario ad substantiam;
quanto piuttosto (anche) per l’intrinseca immodificabilità delle condizioni
date, la cristallizzazione delle quali consente quanto meno di bilanciare
l’avvenuta elusione delle regole dell’evidenza pubblica.
In sintesi, ove l’impresa aggiudicataria non intenda rispettare l’accordo
originario, per esigenze sopravvenute che ne rendono inadeguato il compenso,
deve ipotizzarne la rinegoziazione, ammesso e non concesso la stessa possa
trovare spazio in ipotesi di sostanziale aggiudicazione -recte,
mantenuta aggiudicazione- diretta.
14. Ma anche ammettendo di estendere ex post l’efficacia nel tempo
del contratto sottoscritto il 06.04.2004, ascrivendo allo stesso la nascita
del rapporto di gestione continuata e periodica del servizio,
perché possa operare l’istituto della revisione dei prezzi si
rendono necessari una serie di requisiti, insussistenti nel caso di specie
(cfr. al riguardo Cons. Stato, sez. III, 02.05.2019, n. 2841).
15. La disciplina della revisione del prezzo dei contratti
pubblici di appalto di fornitura di beni e di servizi era originariamente
prevista dall’art. 6 della l. 24.12.1993, n. 537, come sostituito dall’art.
44 della l. 23.12.1994, n. 724, che introduce la necessità che i contratti
con le pubbliche amministrazioni ad esecuzione periodica o continuata
contemplassero la relativa clausola.
Successivamente l’art. 115 del d.lgs. n. 163/2006,
sopravvenuto in corso di rapporto tra Comune di Matera e società ricorrente,
ha recepito tale indicazione, introducendo la necessità di attivare
ridetta revisione a seguito di apposita istruttoria condotta dai dirigenti
responsabili sulla base dei costi standardizzati per tipo di servizio e
fornitura pubblicati annualmente a cura dell’Osservatorio dei contratti
pubblici.
Metodica comunque non seguita dalla parte, che solo a rapporto cessato ha
inteso avanzare le proprie rimostranze sulla non remuneratività del servizio
a condizioni date.
16. La determinazione della revisione prezzi viene dunque
effettuata dalla stazione appaltante all’esito di un’istruttoria condotta
dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi, secondo un
modello procedimentale volto al compimento di un’attività di preventiva
verifica dei presupposti necessari per il riconoscimento del compenso
revisionale, che sottende l’esercizio di un potere autoritativo
tecnico-discrezionale dell’amministrazione nei confronti del privato
contraente (cfr. al riguardo
Consiglio di Stato, Sez. III, 09.01.2017, n. 25).
Da ciò consegue che perfino la prevista periodicità non
implica affatto che si debba azzerare o neutralizzare l’alea sottesa a tutti
i contratti di durata, che impone alle parti di provare la sussistenza di
eventuali circostanze imprevedibili che abbiano determinato aumenti o
diminuzioni nel costo dei materiali o della mano d’opera (non riconducibili
certo alle mere oscillazioni dei prezzi al consumo determinati dall’ISTAT).
Risulterebbe pertanto ben singolare un’interpretazione che esentasse del
tutto, in via eccezionale, l’appaltatore dall’alea contrattuale,
sottomettendo in via automatica ad ogni variazione di prezzo solo le
stazioni appaltanti pubbliche, pur destinate a far fronte ai propri impegni
contrattuali con le risorse finanziarie provenienti dalla collettività.
17. Allo stesso modo, alla luce della descritta finalità di
contenimento delle conseguenze economiche derivanti dall’alea gravante su
entrambe le parti dell’appalto pubblico in caso di variazione dei prezzi, a
tutela del loro reciproco affidamento, non apparirebbe conforme né ai
principi di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 della
Costituzione, né ai criteri di ragionevolezza e proporzionalità sanciti
dall’ordinamento nazionale e comunitario, un’interpretazione che, una volta
riconosciuta la revisione dei prezzi, dovesse parametrare i conseguenti
effetti economici al dato del tutto astratto e teorico, ad esempio,
dell’aumento del prezzo delle materie prime, anziché al dato concreto e
puntuale della spesa oggettivamente sostenuta per il loro acquisto nel
periodo di riferimento, quali risultanti dalla relativa fatturazione del
produttore o dell’intermediario:
anche di tali oggettive circostanze incrementali sopravvenute non è traccia
in atti.
I risultati del procedimento di revisione dei prezzi sono
comunque espressione di una facoltà discrezionale, che sfocia in un
provvedimento autoritativo, il quale deve essere impugnato nel termine
decadenziale di legge (Cons.
Stato, Sez. V, 27.11.2015, n. 5375; Sez. IV, 06.08.2014, n. 4207; Sez. V,
24.01.2013, n. 465; id., 03.08.2012 n. 4444; Corte di Cassazione, SS.UU.
30.10.2014, n. 23067).
La stazione appaltante, cioè, deve effettuare un
bilanciamento tra l’interesse dell’aggiudicatario alla revisione e
l’interesse pubblico connesso sia al risparmio di spesa, sia alla regolare
esecuzione del contratto aggiudicato. Ciò in quanto “la
finalità dell’istituto è da un lato quella di salvaguardare l’interesse
pubblico a che le prestazioni di beni e servizi alle pubbliche
amministrazioni non siano esposte col tempo al rischio di una diminuzione
qualitativa, a causa dell’eccessiva onerosità sopravvenuta delle prestazioni
stesse, e della conseguente incapacità del fornitore di farvi compiutamente
fronte (cfr. Consiglio di Stato,
Sez. VI, 07.05.2015 n. 2295; Consiglio di Stato, Sez. V, 20.08.2008 n.
3994), dall’altro di evitare che il corrispettivo del
contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo tali
da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la
stipulazione del contratto”
(ancora Cons. Stato, n. 25/2017).
13. Il diritto alla revisione dei prezzi, inteso come
diritto alla rinegoziazione degli stessi, a prescindere dai relativi esiti,
consegue alla sopravvenienza di fattori imprevedibili che hanno alterato
l’originario equilibrio sinallagmatico. E’ onere dell’aggiudicatario
compulsare la stazione appaltante rappresentando e documentando le proprie
sopraggiunte necessità di aspirare ad un diverso bilanciamento delle
reciproche posizioni economiche, che verranno valutate avuto riguardo alla
comparazione con l’interesse pubblico alla qualità della fornitura, siccome
sopra precisato.
Nel caso di specie, tuttavia, tale paradigma normativo non si è affatto
realizzato: l’adeguamento richiesto si palesa piuttosto in larga misura come
una contestazione ex post delle condizioni condivise, invocando
mutamenti che, se mai, avrebbero dovuto precludere suddetto assenso.
14. Ciò vale anche per la distinta pretesa di rivedere il costo del
personale, avuto riguardo sia alla retribuzione base, erroneamente
parametrata al livello di accesso alla funzione, e non a quello effettivo,
conseguente a progressioni economiche; sia con specifico riferimento a
maggiorazioni correlate all’effettuazione della prestazione lavorativa in
giornate festive. La valutazione delle stesse, cristallizzata
ineludibilmente nel bando di gara e nel successivo contratto siglato tra le
parti, non consente di accedere a modifiche, per quanto astrattamente
perfino condivisibili: esse, infatti, avrebbero dovuto se mai essere oggetto
di doglianza avverso gli atti di indizione della gara, non di contestazione
postuma dell’attuazione degli stessi.
Né a tale riguardo assume rilievo, come correttamente rilevato dal giudice
di prime cure, l’avvenuta effettuazione di incontri con amministratori e
dirigenti dell’Ente comprensibilmente preoccupati della salvaguardia dei
livelli occupazionali rispetto alla precedente gestione, così da
verbalizzare un impegno in tal senso da parte delle imprese aggiudicatarie:
la decisione di aderire a siffatte richieste, inerenti le politiche del
lavoro seguite dall’Ente, non è confluita nell’(unico) accordo siglato
all’esito dell’aggiudicazione formale, ovvero quello sottoscritto il
06.04.2004, cioè in data successiva anche ai ridetti incontri (del
19.03.2004 e 27.03.2004), necessariamente conforme agli atti di gara.
15. In sintesi, non può parlarsi di un incremento dei costi successivo alla
condivisione di quello in precedenza pattuito, tale dunque da implicarne la
richiesta revisione; né la società ha formalmente compulsato il Comune
affinché attivasse il contradditorio con gli uffici necessario a concordare
l’eventuale variazione, una volta verificatasi la relativa condizione,
provvedendo in tal senso solo a partire dalla fine del 2008, limitatamente
allo spostamento della discarica, ovvero a rapporto ampiamente esaurito.
16. La qualificazione in termini autoritativi del potere di
verifica dei presupposti per il riconoscimento della revisione prezzi
comporta -in ipotesi di condotta inerte dell’amministrazione compulsata- la
necessità di avvalersi dei rimedi previsti a tutela dell’interesse legittimo
nella forma del silenzio-rifiuto conseguente ad istanza formale
(cfr. Cons. Stato, Sez. V, 24.01.2013, n. 465), ovvero, in
ipotesi di esplicito provvedimento di diniego, l’impugnativa dello stesso.
Il rimedio impugnatorio, pertanto, è egualmente ammesso a fronte del
silenzio dell’amministrazione, ovvero a fronte di un suo diniego espresso,
pur nell’invarianza sia della potestà discrezionale che nell’uno e
nell’altro caso viene in considerazione, sia, conseguentemente, della
posizione giuridica soggettiva che rispetto ad essa può profilarsi in capo
al richiedente.
Correttamente, tuttavia, il giudice di prime cure ha ritenuto inammissibile
il gravame avverso il silenzio serbato dall’Amministrazione sulle diffide
della parte, trattandosi non di istanze volte a compulsare la ridefinizione
dell’assetto economico di un contratto di durata in corso; bensì a
richiedere spettanze economiche autonomamente determinate, salvo quanto di
seguito precisato.
In sintesi, la società ha rivendicato un credito riveniente da un rapporto
contrattuale esaurito, non ha richiesto in corso di rapporto la
rivalutazione delle ragioni delle proprie spettanze.
16. Chiarita nei termini di cui sopra l’inconsistenza in fatto e in diritto
della pretesa vantata dalla parte in relazione alla rettifica delle
condizioni economiche dell’accordo, con particolare riguardo al costo del
lavoro, restano da esaminare le pretese risarcitorie, ovvero indennitarie, a
seconda della qualificazione del comportamento del Comune di Matera come
illecito, ovvero di indebito arricchimento.
Non essendosi ravvisato alcun comportamento illegittimo da parte dell’Ente,
non può che confermarsi l’assunto del TAR laddove ha evidenziato come “le
dinamiche contrattuali tra le parti sono state numerose, ma tutte però
caratterizzate da esplicita accettazione, senza riserva alcuna da parte
della società ricorrente”.
La formazione magmatica dei ricorsi di prime cure, che hanno via via
investito anche i provvedimenti di proroga, da ultimo ravvicinati nel tempo
e circoscritti per durata, dell’affidamento originario, non consente infatti
di ravvisare nel concatenarsi degli stessi tale ipotetica scorrettezza
procedurale: se, infatti, la reiterazione degli affidamenti diretti si
palesa di dubbia legittimità ove riguardata nell’ottica, già richiamata,
della conseguente deroga alle regole sull’evidenza pubblica, con conseguenti
ipotetiche responsabilità di altro genere concernenti le modalità di
organizzazione e gestione del servizio, anche in ragione del ritardo
nell’istituzione dell’apposito A.T.O., ciò non impatta sulle ragioni della
ricorrente, che non solo non le contesta sotto tale profilo, ma ne è altresì
la beneficiaria, avendo di fatto mantenuto la gestione del servizio ben
oltre l’originaria annualità di affidamento.
17. A ciò consegue anche la mancanza di qualsivoglia indebito arricchimento
da parte del Comune di Matera, in quanto esso si è sì giovato del servizio
di gestione dei rifiuti solidi urbani per la parte di territorio e nei
limiti di cui al lotto l della gara originaria; ma ha regolarmente
corrisposto le previste spettanze all’azienda, che le ha a sua volta
introitate, senza dolersi degli importi ovvero dei loro criteri di
determinazione.
18. Resta infine da scrutinare l’ultima richiesta della società appellante,
ovvero quella inerente la rideterminazione del prezzo del servizio in
ragione dell’avvenuto sequestro del sito di discarica originariamente
individuato come destinazione finale dei rifiuti raccolti.
Al riguardo, il TAR per la Basilicata ha ritenuto dirimente la mancata
integrazione, da parte della società, della richiesta presentata in data
17.12.2008, laddove risulta effettivamente chiaro, e riferito in atti dallo
stesso Comune di Matera, che ciò ha comportato l’aumento del chilometraggio
necessario all’accesso, essendo il nuovo sito ubicato a 24 km. e non a 12,
come il precedente.
Da quanto sopra, discende che tale pretesa costituiva l’unica ascrivibile al
concetto di evento sopravvenuto e imprevedibile, tale da legittimare
l’avanzata richiesta di valutare una revisione del prezzo, approfondendo in
tale sede l’entità della spettanza, oggi ampliata da parte ricorrente fino a
ricomprendere nuovamente i costi del personale (in relazione ai quali in
verità il tempo impiegato per i viaggi appare neutro rispetto alla durata
complessiva e astrattamente immutabile della giornata lavorativa, siccome
previsto dalla vigente contrattazione di settore), ma sicuramente
individuabile nel maggiore esborso per carburante.
Il diritto alla revisione dei prezzi,
infatti, inteso come diritto alla rinegoziazione degli
stessi, a prescindere dai relativi esiti, consegue alla sopravvenienza di
fattori imprevedibili che hanno alterato l’originario equilibrio
sinallagmatico. E’ onere dell’aggiudicatario compulsare la stazione
appaltante rappresentando e documentando le proprie sopraggiunte necessità
di aspirare ad un diverso bilanciamento delle reciproche posizioni
economiche, che verranno valutate avuto riguardo alla comparazione con
l’interesse pubblico alla qualità della fornitura, siccome sopra precisato.
18.1. Per il limitato aspetto dell’incremento dei costi conseguiti allo
spostamento della discarica –e dunque per il periodo successivo allo stesso-
la società ha compulsato il Comune chiedendo la revisione del prezzo.
Il Collegio ritiene che tale richiesta andasse doverosamente vagliata
nell’ambito del procedimento delineato dall’art. 115 del d.lgs. n. 163/2006
in contraddittorio con la parte, onerata di documentare l’effettivo aumento
dei costi conseguitine dalla data di temporanea chiusura della discarica di
destinazione originaria dei rifiuti sulla base degli intercorsi accordi
contrattuali al 24.10.2009, di cessazione definitiva del servizio da parte
della società ricorrente.
19. Per tutto quanto sopra, gli appelli devono essere accolti limitatamente
alla richiesta valutazione di revisione del prezzo in conseguenza del
verificarsi dell’evento imprevedibile ed eccezionale costituito
dall’avvenuto sequestro della discarica; respinti, per tutti gli ulteriori
profili, con conseguente conferma delle sentenze del TAR per la Basilicata
nn. 64 e 65 del 10.02.2012. |
APPALTI: Iscrizione
camerale requisito di idoneità. Se c'è congruenza con l'appalto in gara.
In una gara di appalto non è necessaria la piena sovrapponibilità
dell'oggetto sociale con le attività indicate nel certificato camerale
dell'impresa concorrente.
Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez V, con la
sentenza 15.11.2019 n. 7846 in relazione a una gara di appalto per
l'affidamento di un accordo quadro di una manutenzione in merito a una
esclusione dettata dalla mancata corrispondenza del certificato alle
attività da affidare.
Nel riprendere precedenti orientamenti della stessa sezione, i giudici hanno
permesso che, nell'impostazione del nuovo codice appalti, l'iscrizione
camerale è assurta a requisito di idoneità professionale anteposto ai più
specifici requisiti attestanti la capacità tecnico professionale ed
economico-finanziaria dei partecipanti alla gara. Quasi un «filtro».
Di qui la necessità di una congruenza o corrispondenza contenutistica,
tendenzialmente completa, tra le risultanze descrittive della
professionalità dell'impresa, come riportate nell'iscrizione alla camera di
commercio, e l'oggetto del contratto d'appalto, evincibile dal complesso di
prestazioni in esso previste.
Eventuali imprecisioni della descrizione dell'attività risultanti dal
certificato camerale non possono determinare l'esclusione della concorrente
che ha dimostrato l'effettivo possesso dei requisiti soggettivi di
esperienza e qualificazione richiesti dal bando. Ma non si può anche negare
la legittimità del comportamento della stazione appaltante che richieda
l'iscrizione alla Cciaa per l'attività oggetto dell'appalto, poiché tale
iscrizione è finalizzata a dar atto dell'effettivo ed attuale svolgimento di
tale attività, laddove le indicazioni dell'oggetto sociale individuano
solamente i settori, potenzialmente illimitati, nei quali la stessa potrebbe
astrattamente venire ad operare, esprimendo soltanto ulteriori indirizzi
operativi dell'azienda, non rilevanti ove non attivati.
I giudici hanno precisato che la corrispondenza contenutistica, sebbene non
debba intendersi nel senso di una perfetta e assoluta sovrapponibilità tra
tutte le singole componenti dei due termini di riferimento, va accertata
secondo un criterio di rispondenza alla finalità di verifica della richiesta
idoneità professionale
(articolo ItaliaOggi del 22.11.2019).
---------------
MASSIMA
7. Come chiarito dalla recente giurisprudenza di questo Consiglio, che
la Sezione condivide e alla quale intende dare continuità,
nell’impostazione del nuovo codice appalti l’iscrizione camerale è assurta a
requisito di idoneità professionale [art. 83, comma 1, lett. a), e 3, d.lgs.
n. 50/2016], anteposto ai più specifici requisiti attestanti la capacità
tecnico professionale ed economico-finanziaria dei partecipanti alla gara di
cui alle successive lettere b) e c) del medesimo comma: la sua utilità
sostanziale è infatti quella di filtrare l’ingresso in gara dei soli
concorrenti forniti di una professionalità coerente con le prestazioni
oggetto dell’affidamento pubblico
(in tal senso Cons. di Stato, III, 08.11.2017, n. 5170; Cons. di Stato, V,
25.07.2019, 5257).
Pertanto, da tale ratio delle certificazioni
camerali, nell’ottica di una lettura del bando che tenga conto della
funzione e dell’oggetto dell’affidamento, si è desunta la necessità di una
congruenza o corrispondenza contenutistica, tendenzialmente completa, tra le
risultanze descrittive della professionalità dell’impresa, come riportate
nell’iscrizione alla Camera di Commercio, e l’oggetto del contratto
d’appalto, evincibile dal complesso di prestazioni in esso previste:
l’oggetto sociale viene così inteso come la “misura” della capacità
di agire della persona giuridica, la quale può validamente acquisire diritti
ed assumere obblighi solo per le attività comprese nello stesso, come
riportate nel certificato camerale
(Cons. di Stato, V, 07.02.2012, n. 648; IV, 23.09.2015, n. 4457).
Quando, dunque,
il bando richiede il possesso di una determinata qualificazione
dell’attività e l’indicazione nel certificato camerale dell’attività stessa,
quest’ultima va intesa in senso strumentale e funzionale all’accertamento
del possesso effettivo del requisito soggettivo di esperienza e fatturato,
costituente il requisito di interesse sostanziale della stazione appaltante:
pertanto, sebbene eventuali imprecisioni della descrizione dell’attività
risultanti dal certificato camerale non possono determinare l’esclusione
della concorrente che ha dimostrato l’effettivo possesso dei requisiti
soggettivi di esperienza e qualificazione richiesti dal bando, nondimeno non
può ritenersi irragionevole o illogica la previsione della legge di gara che
richieda l’iscrizione alla CCIAA per l’attività oggetto dell’appalto, poiché
tale iscrizione è finalizzata a dar atto dell’effettivo ed attuale
svolgimento di tale attività, laddove le indicazioni dell’oggetto sociale
individuano solamente i settori, potenzialmente illimitati, nei quali la
stessa potrebbe astrattamente venire ad operare, esprimendo soltanto
ulteriori indirizzi operativi dell’azienda, non rilevanti ove non attivati.
La su indicata corrispondenza contenutistica, sebbene non debba intendersi
nel senso di una perfetta e assoluta sovrapponibilità tra tutte le singole
componenti dei due termini di riferimento (il che porterebbe ad ammettere in
gara i soli operatori aventi un oggetto pienamente speculare, se non
identico, rispetto a tutti i contenuti del servizio da affidarsi, con
conseguente ingiustificata restrizione della platea dei partecipanti), va
accertata secondo un criterio di rispondenza alla finalità di verifica della
richiesta idoneità professionale, in virtù di una considerazione non già
atomistica, parcellizzata e frazionata, ma globale e complessiva delle
prestazioni dedotte in contratto. L’interesse pubblico
tutelato da tale disciplina normativa non è, infatti, la creazione e il
rafforzamento di riserve di mercato in favore di determinati operatori
economici, ma piuttosto quello di assicurare l’accesso al mercato (nel
contemperamento con i principi della massima partecipazione e
concorrenzialità) anche ai concorrenti per i quali è possibile pervenire ad
un giudizio di globale affidabilità professionale
(cfr. Cons. di Stato, III, 08.11.2017, n. 5170; III, 10.11.2017, n. 5182; V,
07.02.2018, n. 796).
In definitiva, se è vero che la recente giurisprudenza ha
affermato che l’identificazione dell’attività prevalente non può essere
basata solo sui codici ATECO (aventi “preminente funzione statistica, in
quanto finalizzati ad indicare l’attività nella domanda di iscrizione nel
Registro delle imprese senza alcun rilievo sulla connotazione come attività
prevalente o accessoria”: così
Cons. di Stato, V, 17.01.2018, n. 262) -specie allorquando (come nella
fattispecie in esame) la lex specialis non ne abbia prescritto uno
specifico come requisito di idoneità professionale ai fini della
partecipazione alla gara- è anche vero che l’accertamento
della concreta coerenza della descrizione delle attività riportate nel
certificato camerale con i requisiti di ammissione richiesti dalla lex
specialis e con l’oggetto del contratto di appalto complessivamente
considerato va svolto sulla base del confronto tra tutte le risultanze
descrittive del certificato camerale e l’oggetto del contratto di appalto
(cfr. Cons. di Stato, V, 25.09.2019, n. 6431; V, 25.07.2019, n. 5257). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: In
generale, l'autore di un esposto o di una segnalazione all'Amministrazione
non assume necessariamente la veste di controinteressato nel giudizio contro
l'annullamento di un provvedimento amministrativo a seguito di esso
adottato, anche se all'esposto e al suo autore la Pubblica amministrazione
faccia esplicito riferimento nel provvedimento impugnato; vanno quindi
considerati estranei al processo amministrativo i soggetti autori di esposti
o di segnalazioni, i quali possono semmai intervenire volontariamente ad opponendum
nel giudizio, non quali titolari di un interesse sostanziale alla
conservazione dell'atto impugnato, ma quali portatori di un interesse di
mero fatto, mediato, e riflesso.
---------------
Più specificamente, “Nel
giudizio di impugnazione del provvedimento di annullamento della concessione
edilizia, assume la veste di controinteressato non il generico "vicino", ma
quello che ha un interesse qualificato a difendere la propria posizione
giuridica di titolare di un diritto di proprietà”, ovvero che “Il vicino confinante, che sia anche
autore della segnalazione o dell'esposto che ha determinato l'esercizio del
potere, assume la qualità di controinteressato formale rispetto
all'impugnazione dei provvedimenti sanzionatori o di autotutela in materia
edilizia a condizione che sia titolare di una situazione giuridica
soggettiva che trae diretto ed immediato vantaggio dal provvedimento
impugnato e che si presenta come contrapposta e speculare a quella del
destinatario dell'atto e a condizione che la sua posizione sia stata
considerata dall'Amministrazione nello svolgimento dell'attività finalizzata
all'esercizio del potere in modo riconoscibile da parte del destinatario del
provvedimento”.
---------------
Ciò posto, osserva in via preliminare il Tribunale che, in generale,
l'autore di un esposto o di una segnalazione all'Amministrazione non assume
necessariamente la veste di controinteressato nel giudizio contro
l'annullamento di un provvedimento amministrativo a seguito di esso
adottato, anche se all'esposto e al suo autore la Pubblica amministrazione
faccia esplicito riferimento nel provvedimento impugnato; vanno quindi
considerati estranei al processo amministrativo i soggetti autori di esposti
o di segnalazioni, i quali possono semmai intervenire volontariamente ad opponendum nel giudizio, non quali titolari di un interesse sostanziale alla
conservazione dell'atto impugnato, ma quali portatori di un interesse di
mero fatto, mediato, e riflesso (cfr. TAR Campania-Salerno n. 882 del
28.5.2019; TAR Marche n. 533 del 27.09.2016); e, più specificamente, che “Nel
giudizio di impugnazione del provvedimento di annullamento della concessione
edilizia, assume la veste di controinteressato non il generico "vicino", ma
quello che ha un interesse qualificato a difendere la propria posizione
giuridica di titolare di un diritto di proprietà” (così TAR Sicilia-Palermo
n. 616 del 15.03.2018), ovvero che “Il vicino confinante, che sia anche
autore della segnalazione o dell'esposto che ha determinato l'esercizio del
potere, assume la qualità di controinteressato formale rispetto
all'impugnazione dei provvedimenti sanzionatori o di autotutela in materia
edilizia a condizione che sia titolare di una situazione giuridica
soggettiva che trae diretto ed immediato vantaggio dal provvedimento
impugnato e che si presenta come contrapposta e speculare a quella del
destinatario dell'atto e a condizione che la sua posizione sia stata
considerata dall'Amministrazione nello svolgimento dell'attività finalizzata
all'esercizio del potere in modo riconoscibile da parte del destinatario del
provvedimento” (così TAR Lombardia-Milano n. 1606 del 12.08.2016; nonché cfr.
TAR Abruzzo-Pescara, n. 34 del 25.1.2012) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIIII,
sentenza 13.11.2019 n. 5352 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia edilizia,
l'ordinanza di demolizione di un'opera abusiva può legittimamente essere
emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile
dell'abuso, considerato che l'abuso edilizio costituisce illecito permanente
e che l'ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede
l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la
trasgressione.
In sostanza, affinché il proprietario di una costruzione
abusiva possa essere destinatario dell'ordinanza di demolizione, non occorre
stabilire se egli sia responsabile dell'abuso, poiché la stessa normativa
nazionale si limita a prevedere la legittimazione passiva del proprietario
all'esecuzione dell'ordine di demolizione, senza richiedere l'effettivo
accertamento di una qualche sua responsabilità: il presupposto per
l'adozione di un'ordinanza di ripristino non è l'accertamento di
responsabilità storiche nella commissione dell'illecito, ma l'esistenza di
una situazione dei luoghi contrastante con quella codificata nella normativa
urbanistica ed edilizia e l'individuazione di un soggetto che abbia la
titolarità ad eseguire l'ordine ripristinatorio e, quindi, il proprietario
in virtù del suo diritto dominicale. In considerazione di ciò, la misura
ripristinatoria è posta a carico non solo dell'autore dell'illecito, ma
anche del proprietario del bene e dei suoi aventi causa.
Più specificamente, in materia di abusi edilizi commessi da persona diversa
dal proprietario, perché quest'ultimo possa andare esente dalla misura
consistente nell'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di
sedime sulla quale insiste il bene (ai sensi dell' art. 31, comma 3, del
d.P.R. 06.06.2001, n. 380), occorre che risulti, in modo inequivocabile,
la sua completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone
lo stesso venuto a conoscenza, si sia poi adoperato per impedirlo con gli
strumenti offertigli dall'ordinamento. Il proprietario incolpevole, se è
ancora pendente il termine fissato nella ordinanza di demolizione, deve
dunque provare la intrapresa di iniziative idonee a ripristinare lo stato
dei luoghi nei sensi e nei modi richiesti dall'autorità amministrativa. Tale
assunto vale a maggior ragione nelle ipotesi in cui il nuovo proprietario
sia subentrato iure hereditatis nella sfera giuridica del responsabile
dell'abuso, continuandone la personalità.
In definitiva, quindi, le norme sanzionatorie del DPR 380/2001 (in
particolare il comma 3 dell’art. 31) si riferiscono non solo all’”autore”,
ma anche al “responsabile” di un abuso, tale dovendo intendersi non solo lo
stesso esecutore materiale, ma anche il proprietario dell’immobile o chi
abbia titolo per disporne al momento dell’emissione della misura repressiva,
essendo il fine ultimo perseguito quello di pervenire alla rimessa in
pristino ad opera dei soggetti che abbiano la proprietà o, comunque, la
disponibilità del bene.
---------------
Va
premesso che, in materia edilizia, l'ordinanza di demolizione di un'opera
abusiva può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario
attuale, anche se non responsabile dell'abuso, considerato che l'abuso
edilizio costituisce illecito permanente e che l'ordinanza stessa ha
carattere ripristinatorio e non prevede l'accertamento del dolo o della
colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione (cfr. TAR Campania-Napoli
n. 1915 del 5.4.2019; TAR Emilia Romagna–Parma n. 340 dell’11.12.2018; TAR Lombardia-Milano n. 2098 del 18.9.2018; TAR Campania-Napoli n. 5149
dell’01.08.2018).
In sostanza, affinché il proprietario di una costruzione
abusiva possa essere destinatario dell'ordinanza di demolizione, non occorre
stabilire se egli sia responsabile dell'abuso, poiché la stessa normativa
nazionale si limita a prevedere la legittimazione passiva del proprietario
all'esecuzione dell'ordine di demolizione, senza richiedere l'effettivo
accertamento di una qualche sua responsabilità: il presupposto per
l'adozione di un'ordinanza di ripristino non è l'accertamento di
responsabilità storiche nella commissione dell'illecito, ma l'esistenza di
una situazione dei luoghi contrastante con quella codificata nella normativa
urbanistica ed edilizia e l'individuazione di un soggetto che abbia la
titolarità ad eseguire l'ordine ripristinatorio e, quindi, il proprietario
in virtù del suo diritto dominicale. In considerazione di ciò, la misura
ripristinatoria è posta a carico non solo dell'autore dell'illecito, ma
anche del proprietario del bene e dei suoi aventi causa (così TAR Lazio-Roma n. 10933 del 02.11.2017).
Più specificamente, in materia di abusi edilizi commessi da persona diversa
dal proprietario, perché quest'ultimo possa andare esente dalla misura
consistente nell'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di
sedime sulla quale insiste il bene (ai sensi dell' art. 31, comma 3, del
d.P.R. 06.06.2001, n. 380), occorre che risulti, in modo inequivocabile,
la sua completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone
lo stesso venuto a conoscenza, si sia poi adoperato per impedirlo con gli
strumenti offertigli dall'ordinamento. Il proprietario incolpevole, se è
ancora pendente il termine fissato nella ordinanza di demolizione, deve
dunque provare la intrapresa di iniziative idonee a ripristinare lo stato
dei luoghi nei sensi e nei modi richiesti dall'autorità amministrativa. Tale
assunto vale a maggior ragione nelle ipotesi in cui il nuovo proprietario
sia subentrato iure hereditatis nella sfera giuridica del responsabile
dell'abuso, continuandone la personalità (così Cons. di Stato sez. VI, n.
755 del 06.02.2018).
In definitiva, quindi, le norme sanzionatorie del DPR 380/2001 (in
particolare il comma 3 dell’art. 31) si riferiscono non solo all’”autore”,
ma anche al “responsabile” di un abuso, tale dovendo intendersi non solo lo
stesso esecutore materiale, ma anche il proprietario dell’immobile o chi
abbia titolo per disporne al momento dell’emissione della misura repressiva,
essendo il fine ultimo perseguito quello di pervenire alla rimessa in
pristino ad opera dei soggetti che abbiano la proprietà o, comunque, la
disponibilità del bene (cfr. Cons. di Stato sez. VI, n. 1517 del 31.03.2014;
TAR Campania-Napoli n. 5909 del 15.12.2017) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIIII,
sentenza 13.11.2019 n. 5352 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia urbanistico-edilizia, il potere sanzionatorio di
cui all’art. 31 D.P.R. n. 380/2001, tenuto conto della relativa natura non
già afflittiva bensì meramente ripristinatoria, è correttamente indirizzato
non soltanto nei confronti del “responsabile dell’abuso” ma anche del
“proprietario”, indipendentemente dal fatto di aver quest’ultimo concorso o
meno nella realizzazione dell’abuso medesimo.
---------------
L’incidenza del vincolo
paesaggistico sull’area oggetto di intervento obbliga
il comune, ai sensi degli artt. 27 e art. 31 D.P.R. n. 380/2001, a
sanzionare gli abusi edilizi mediante l’irrogazione della più grave
delle misure ripristinatorie, ossia quella di cui all’art. 31 citato D.P.R.
ed art. 167 D.lgs. n. 42/2004, e ciò a prescindere dal regime autorizzatorio
in concreto applicabile, sia esso coincidente con il permesso di costruire
ovvero con la d.i.a./s.c.i.a.
---------------
6. Deve, innanzitutto, essere rigettata la censura che si appunta
sulla pretesa estraneità dell’odierno ricorrente all’edificazione delle
opere edilizie oggetto di demolizione, a suo dire risalenti ad epoca
antecedente al 1967, in relazione alle quali si sarebbe limitato a porre in
essere delle mere attività manutentive, di adeguamento funzionale alle
esigenze degli animali domestici ivi ricoverati, rientranti, a suo dire,
nella cd. attività edilizia libera, al più qualificabili in termini di
“risanamento e restauro conservativo”, per i quali non sarebbe stata
necessaria alcuna preventiva autorizzazione né di natura urbanistico-edilizia né di natura paesaggistico-ambientale.
6.1 Ed invero, il ricorrente non ha supportato, dal punto di vista
probatorio, le suddette affermazioni ricorsuali, non avendo comprovato,
neanche in forma indiziaria, né l’epoca di costruzione di siffatte opere né
l’effettiva natura dell’attività edilizia allo stesso imputabile.
Costituiva, infatti, onere dell’odierno istante comprovare, in modo
adeguato, la risalenza dei manufatti in questione, nell’attuale consistenza
plano-volumetrica, ad epoca anteriore alla c.d. legge ponte n. 765 del 1967,
con la quale venne esteso l'obbligo di previa licenza edilizia alle
costruzioni realizzate al di fuori del perimetro del centro urbano.
7. Dal mancato assolvimento del suddetto onus probandi discende la
legittimità dell’ordine demolitorio oggetto di gravame, indirizzato al
ricorrente quale attuale proprietario dei beni in questione (cfr. TAR
Campania, Salerno, sez. II, 24/07/2019, n. 14711; Napoli, sez. VII,
15/01/2015, n. 292).
Ciò in quanto, in materia urbanistico-edilizia, il potere sanzionatorio di
cui all’art. 31 D.P.R. n. 380/2001, tenuto conto della relativa natura non
già afflittiva bensì meramente ripristinatoria, è correttamente indirizzato
non soltanto nei confronti del “responsabile dell’abuso” ma anche del
“proprietario”, indipendentemente dal fatto di aver quest’ultimo concorso o
meno nella realizzazione dell’abuso medesimo (cfr. TAR Campania, Salerno,
sez. II, 04/11/2019, n. 1886; Calabria, Catanzaro, sez. II, 21.01.2019, n.
89; TAR Lazio Roma, sez. II, 04/01/2019, n. 126; Consiglio di Stato sez.
VI, 23/11/2017, n. 5472; Cons. Stato, Ad. Pl., 17.10.2017 n. 9, Cons.
Stato, sez. VI, 21.03.2017 n. 1267; Id., sez. VI, 06.03.2017 n. 1060;
TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 24.12.2018, n. 2186; TAR Campania,
Napoli, sez. II, 12/11/2018, n. 6555; TAR, Milano, sez. II, 18/09/2018, n.
2098).
...
8. Parimenti infondata risulta la censura relativa alla pretesa incoerenza
tra il potere in questione e la natura degli abusi sanzionati.
8.1 Ed invero, tutte le opere edilizie in contestazione risultano edificate
in zona soggetta a vincolo paesaggistico-ambientale di cui al D.lgs.
42/2004.
L’incidenza di siffatto vincolo sull’area oggetto di intervento ha obbligato
il comune, ai sensi degli artt. 27 e art. 31 D.P.R. n. 380/2001, a
sanzionare gli abusi in questione mediante l’irrogazione della più grave
delle misure ripristinatorie, ossia quella di cui all’art. 31 citato D.P.R.
ed art. 167 D.lgs. n. 42/2004, e ciò a prescindere dal regime autorizzatorio
in concreto applicabile, sia esso coincidente con il permesso di costruire
ovvero con la d.i.a./s.c.i.a (cfr. TAR Campania, Salerno, sez. II,
23/08/2019, n. 1481; Napoli, sez. VII, 03/08/2017, n. 4032; sez. VI,
12/09/2013, n. 4254)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 12.11.2019 n. 1986 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli interventi pertinenziali di cui alla lettera e.6)
dell’art. 3 del D.P.R. n. 380/2001, differenti rispetto alle cd. pertinenze
“civilistiche”, devono non soltanto rispettare il limite dimensionale del
20% del volume dell'edificio principale ma anche presentare specifiche
caratteristiche “funzionali” e “strutturali”.
Sul punto, la giurisprudenza ha più volte chiarito che per poter qualificare
un’opera edilizia in termini di “pertinenza” occorre avere riguardo a “tre
ordini di parametri: il primo, positivo, di tipo funzionale, dovendo esso
avere un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della
costruzione; il secondo ed il terzo, negativi, ossia ricollegati,
rispettivamente, all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse e ad un
rapporto di necessaria proporzionalità che deve sussistere fra le esigenze
edilizie e il volume realizzato.
Quest'ultimo deve essere completamente privo di una propria autonomia
funzionale, anche potenziale, in quanto esclusivamente destinato a contenere
gli impianti serventi di una costruzione principale, che non possono essere
ubicati all'interno di essa. L'applicazione di tali criteri induce a
concludere che i volumi tecnici degli edifici, per essere esclusi dal
calcolo della volumetria, non devono assumere le caratteristiche di vano
chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità”.
Ed ancora: “a differenza della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere considerato una
pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza
dell'edificio principale ed è funzionalmente inserito al suo servizio, ma
anche allorquando è sfornito di un autonomo valore di mercato e non comporta
un cosiddetto "carico urbanistico" proprio in quanto esaurisce la sua
finalità nel rapporto funzionale con l'edificio principale”.
---------------
9. Né è possibile sostenere che gli interventi de quibus non siano soggetti
alla preventiva autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 D.lgs. n.
42/2004.
Trattasi, invero, di manufatti che, per dimensioni (pari a complessivi 35
mq. circa), caratteristiche costruttive e materiali impiegati (lapillo,
cemento e calcestruzzo), appaiono al Collegio idonei ad alterare in modo
permanente lo stato dei luoghi, così rimanendo sottratti al regime di
esenzione dall’autorizzazione paesaggistica previsto dall’art. 149 D.lgs. n.
42/2004 (“Interventi non soggetti ad autorizzazione") e dal relativo
Regolamento attuativo (D.P.R. n. 31/2017).
9.1 Tenuto conto del mancato rilascio dell’autorizzazione de qua, il Comune
di Tramonti non avrebbe potuto far altro che ingiungere la demolizione,
secondo quanto disposto dagli artt. 27, 31 D.P.R. n. 380/2001 e 167 D.lgs.
n. 42/2004.
10. Le superiori considerazioni circa il carattere dovuto e vincolato del
potere sanzionatorio attivato dall’ente locale a fronte del mancato
preventivo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146
D.lgs. n. 42/2004, consentirebbero al Collegio di ritenere superata la
censura relativa alla pretesa natura pertinenziale delle opere oggetto di
causa.
11. In ogni caso, il Collegio ritiene che siffatta censura sia infondata.
Diversamente da quanto affermato in ricorso, le caratteristiche costruttive
e dimensionali, la tipologia dei materiali utilizzati -per come sopra
precisati- nonché la strumentalità dei manufatti in contestazione al
soddisfacimento di esigenze non già temporanee e transitorie bensì stabili e
durevoli nel tempo, consentono di escluderne la natura pertinenziale, avendo
gli stessi determinato una permanente alterazione dell’assetto edilizio e
urbanistico del territorio, con conseguente aggravio del carico urbanistico.
11.1 Ed invero gli interventi pertinenziali di cui alla lettera e.6)
dell’art. 3 del D.P.R. n. 380/2001, differenti rispetto alle cd. pertinenze
“civilistiche”, devono non soltanto rispettare il limite dimensionale del
20% del volume dell'edificio principale ma anche presentare specifiche
caratteristiche “funzionali” e “strutturali”.
Sul punto, la giurisprudenza ha più volte chiarito che per poter qualificare
un’opera edilizia in termini di “pertinenza” occorre avere riguardo a “tre
ordini di parametri: il primo, positivo, di tipo funzionale, dovendo esso
avere un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della
costruzione; il secondo ed il terzo, negativi, ossia ricollegati,
rispettivamente, all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse e ad un
rapporto di necessaria proporzionalità che deve sussistere fra le esigenze
edilizie e il volume realizzato. Quest'ultimo deve essere completamente
privo di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto
esclusivamente destinato a contenere gli impianti serventi di una
costruzione principale, che non possono essere ubicati all'interno di essa.
L'applicazione di tali criteri induce a concludere che i volumi tecnici
degli edifici, per essere esclusi dal calcolo della volumetria, non devono
assumere le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di
abitabilità” (così TAR Campania, Napoli, IV, 02.04.2015, n. 1927; III,
09.12.2014, n. 6431; VI, 06.02.2014, n. 785; TAR Molise, 31.03.2014, n. 225; Cons. Stato, IV,
04.05.2010, n. 2565)” (così TAR Campania, Napoli, sez. II,
23/06/2017, n. 3439).
Ed ancora: “a differenza della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere considerato una
pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza
dell'edificio principale ed è funzionalmente inserito al suo servizio, ma
anche allorquando è sfornito di un autonomo valore di mercato e non comporta
un cosiddetto "carico urbanistico" proprio in quanto esaurisce la sua
finalità nel rapporto funzionale con l'edificio principale” (così Consiglio
di Stato sez. II, 22/07/2019, n. 5130; cfr. anche TAR Lazio, Roma, sez. II,
11/07/2019, n. 9223; Consiglio di Stato sez. II, 04/07/2019, n. 4586).
11.2 L’operazione di verifica dei parametri sopra indicati non può che
avere, nel caso in esame, esito negativo, giacché le opere edilizie oggetto
di demolizione non sono legate né al fondo agricolo del ricorrente né
all’abitazione di quest’ultimo da un rigido rapporto di strumentalità
“necessaria”, essendo al contrario dotate di una propria autonomia
funzionale, oltre che strutturale tali da comportare un’evidente alterazione
dell’assetto urbanistico-edilizio del territorio (cfr. TAR Campania,
Salerno, sez. II, 11/10/2019, n. 1728; 04/09/2019, n. 1508; 18.06.2019, n.
1061).
12. In conclusione, il ricorso è infondato e, come tale, deve essere
rigettato
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 12.11.2019 n. 1986 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: Le
cave estrattive sono soggette al pagamento delle imposte locali.
Il terreno destinato ad attività estrattiva, adibito a cava di travertino
debitamente autorizzata, non può essere considerato agricolo perché ha una
destinazione industriale. Il terreno anche se finalizzato solo alla
realizzazione di fabbricati strumentali, è soggetto al pagamento delle
imposte locali come area edificabile, con un valore modesto, tenuto conto
della sua destinazione a attività estrattiva.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con
l'ordinanza 28.10.2019 n. 27558.
Per la Cassazione, il terreno è adibito a cava di travertino ed è «suscettibile
di potenzialità edificatoria, ancorché limitata perché strumentalmente
finalizzata all'attività estrattiva». Dunque è soggetto a Ici, e alle
altre imposte locali, poiché l'area adibita a attività estrattiva secondo il
regolamento urbanistico è suscettibile «di edificazione, ancorché
limitata alla realizzazione di fabbricati strumentali». Ciò «induce ad
escludere la sua natura agricola ai fini della determinazione della base
imponibile». Naturalmente, il valore di mercato è ridotto, tenuto conto
della sua destinazione.
Va ricordato che sempre la Cassazione (ordinanza 6431/2019) ha chiarito che
un'area è edificabile e soggetta al pagamento dell'Ici, dell'Imu, della Tasi
e dell'imposta di registro, anche se sussiste un vincolo d'inedificabilità
che interrompe il procedimento di trasformazione urbanistica. Allo stesso
modo va considerata fabbricabile qualora sia previsto un vincolo
paesaggistico che subordini l'edificabilità concreta dell'area al parere
della Sovraintendenza ai beni culturali e ambientali. Un vincolo temporaneo,
infatti, non può avere alcuna incidenza sull'assoggettamento a imposizione
del terreno.
Tuttavia, in presenza di vincoli, il contribuente è tenuto a pagare le
imposte su un valore dell'immobile notevolmente ridotto. In base
all'articolo 2 del decreto legislativo 504/1992, per area fabbricabile si
intende quella utilizzabile a scopo edificatorio in base agli strumenti
urbanistici generali o attuativi oppure in base alle possibilità effettive
di edificazione determinate secondo i criteri previsti agli effetti delle
indennità di espropriazione per pubblica utilità.
Il valore di un'area edificabile deve essere calcolato in base ai seguenti
criteri: zona territoriale di ubicazione, indice di edificabilità,
destinazione d'uso consentita, oneri per eventuali lavori di adattamento del
terreno necessari per la costruzione e, infine, prezzi medi rilevati sul
mercato di aree aventi le stesse caratteristiche
(articolo ItaliaOggi del 23.11.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
la giurisprudenza prevalente, “i provvedimenti sanzionatori di abusi
edilizi non abbisognano di particolare motivazione, posto che l’esercizio
del potere repressivo-sanzionatorio risulta sufficientemente giustificato,
quanto al presupposto, dalla mera (oggettiva) descrizione delle opere
abusivamente realizzate (in assenza di titolo edilizio) e dalla
assoggettabilità di queste ultime al regime del permesso di costruire,
stante la previsione legislativa della conseguente misura sanzionatoria.
---------------
1. - La ricorrente deduce (prima censura) la contraddittorietà degli
atti gravati, che sostiene essere “resa evidente dalla mera lettura del
verbale di accertamento della Polizia Locale in data 14.05.2013”, laddove
“dapprima si afferma che la superficie coperta dell’immobile asseritamente
abusivo sia pari a mq. 125, per poi affermare che il medesimo sarebbe
costituito da tre ambienti”, la cui superficie complessiva “è pari a mq.
100,29”.
1.1 - La doglianza va disattesa.
Ed invero, in linea generale, secondo la giurisprudenza prevalente e
condivisa da questo Tribunale, “i provvedimenti sanzionatori di abusi
edilizi non abbisognano di particolare motivazione, posto che l’esercizio
del potere repressivo-sanzionatorio risulta sufficientemente giustificato,
quanto al presupposto, dalla mera (oggettiva) descrizione delle opere
abusivamente realizzate (in assenza di titolo edilizio) e dalla
assoggettabilità di queste ultime al regime del permesso di costruire,
stante la previsione legislativa della conseguente misura sanzionatoria (ex
multis, TAR Puglia, Lecce, III, 05.03.2018, n. 367; TAR Puglia,
Lecce, III, 29.03.2018, n. 524; TAR Puglia, Lecce, III, 25.05.2018, n.
889; TAR Puglia, Lecce, III, 16/08/2018, n. 1302)” (TAR Puglia, Lecce,
Sezione Terza, 15.10.2018, n. 1507).
1.2 - Ciò premesso, nella fattispecie concreta in esame, le opere edilizie
abusive di che trattasi sono sufficientemente descritte negli atti impugnati
e inequivocamente individuabili; né si ravvisa la denunciata discrasia tra
la superficie complessiva del fabbricato di (“circa”) mq 125 e la sommatoria
della superficie analiticamente indicata dei tre vani, che è “superficie
utile” (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 24.10.2019 n. 1635 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza amministrativa ha affermato che il titolo edilizio è
necessario in presenza di opere che implicano una stabile, benché non
irreversibile, trasformazione del territorio, preordinata a soddisfare
esigenze non precarie.
Infatti, costituisce «principio consolidato in giurisprudenza
che la precarietà dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del
permesso di costruire, postula un uso specifico ma temporalmente limitato
del bene: infatti, ai fini della ricorrenza del requisito della precarietà
di una costruzione, che esclude la necessità del rilascio di un titolo
edilizio, si deve prescindere dalla temporaneità della destinazione
soggettivamente data dal manufatto dal costruttore e si deve, invece,
valutare l'opera alla luce della sua obiettiva ed intrinseca destinazione
naturale, con la conseguenza che rientrano nella nozione giuridica di
costruzione, per la quale occorre la concessione edilizia, tutti quei
manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo o pur
semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo
stabile, non irrilevante e non meramente occasionale.
Per individuare la natura precaria di un'opera, si deve quindi seguire «non
il criterio strutturale, ma il criterio funzionale», per cui un'opera se è
realizzata per soddisfare esigenze che non sono temporanee non può
beneficiare del regime proprio delle opere precarie anche quando le opere
sono state realizzate con materiali facilmente amovibili.
La giurisprudenza
consolidata ha inoltre evidenziato che produce trasformazione urbanistica
ogni intervento che alteri in maniera rilevante e duratura lo stato del
territorio, a nulla rilevando l’eventuale precarietà strutturale e
l’amovibilità, ove ad essa non si accompagni un uso assolutamente temporaneo
e per fini contingenti e specifici».
---------------
2. - La ricorrente lamenta, poi (secondo motivo di gravame), che, con
riferimento al “vano posto a nord ... coperto da lastre ondulate in
fibrocemento”, della “superficie utile di mq 14,49”, “la precarietà della
copertura non consente di computare tale vano ai fini della individuazione
della superficie coperta”.
2.1 - La doglianza è infondata.
Ricorda il Collegio che “La giurisprudenza amministrativa ha affermato che
il titolo edilizio è necessario in presenza di opere che implicano una
stabile, benché non irreversibile, trasformazione del territorio,
preordinata a soddisfare esigenze non precarie (Cons. Stato, sez. IV, 24.07.2012, n. 4214)” (ex multis, Consiglio di Stato, Sezione Sesta,
03.06.2019, n. 3735).
Infatti, costituisce <<costituisce «principio consolidato in giurisprudenza
che la precarietà dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del
permesso di costruire, postula un uso specifico ma temporalmente limitato
del bene: infatti, ai fini della ricorrenza del requisito della precarietà
di una costruzione, che esclude la necessità del rilascio di un titolo
edilizio, si deve prescindere dalla temporaneità della destinazione
soggettivamente data dal manufatto dal costruttore e si deve, invece,
valutare l'opera alla luce della sua obiettiva ed intrinseca destinazione
naturale, con la conseguenza che rientrano nella nozione giuridica di
costruzione, per la quale occorre la concessione edilizia, tutti quei
manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo o pur
semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo
stabile, non irrilevante e non meramente occasionale (ex multis TAR
Campania-Napoli 10.06.2011 n. 3114).
Per individuare la natura precaria di
un'opera, si deve quindi seguire «non il criterio strutturale, ma il
criterio funzionale», per cui un'opera se è realizzata per soddisfare
esigenze che non sono temporanee non può beneficiare del regime proprio
delle opere precarie anche quando le opere sono state realizzate con
materiali facilmente amovibili (fra le decisioni più recenti cfr. Consiglio
di Stato, Sez. VI, n. 1291 del 01.04.2016).
La giurisprudenza
consolidata ha inoltre evidenziato (TAR Puglia, Bari, Sez. III, 10.06.2010, n. 2406) che produce trasformazione urbanistica ogni intervento che
alteri in maniera rilevante e duratura lo stato del territorio, a nulla
rilevando l’eventuale precarietà strutturale e l’amovibilità, ove ad essa
non si accompagni un uso assolutamente temporaneo e per fini contingenti e
specifici» (TAR Puglia, Lecce, Sezione I, 17/07/2018, n. 1174)>> (TAR
Puglia, Lecce, Sezione Terza, 04.02.2019, n. 171; in termini, TAR
Puglia, Lecce, Sezione Prima, 17.07.2018, n. 1180).
2.2 - Nella specie, le caratteristiche del manufatto in questione, come
oggettivamente risultanti dagli stessi atti impugnati (e non contestate),
comportano una evidente e rilevante trasformazione edilizia dell’area (urbanisticamente
rilevante), con la conseguente assoggettabilità al regime del permesso di
costruire
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 24.10.2019 n. 1635 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo il prevalente e
condivisibile indirizzo della giurisprudenza amministrativa “l’indicazione dell’area di sedime, così come di quella necessaria per opere analoghe a quelle abusive,
da acquisire al patrimonio comunale, non deve considerarsi requisito
dell’ordinanza di demolizione -e dunque la mancanza non ne inficia la
legittimità- giacché siffatta specificazione è elemento essenziale del
distinto provvedimento con cui l’Amministrazione accerta la mancata
ottemperanza alla demolizione da parte dell’ingiunto”.
Trattasi, quindi, “di precisazione che l’Amministrazione è tenuta a fare
in seguito, ovvero all’atto dell’adozione (eventuale) del successivo
provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale”.
---------------
3. - La ricorrente deduce, ancora, la violazione dell’art. 31, comma 3, del
D.P.R. 380/2001, stante l’erroneità dell’indicazione, contenuta nella
gravata ordinanza di demolizione, “dell’ulteriore area” da acquisire
gratuitamente al patrimonio comunale, “pari a mq. 1.250”.
3.1 - Anche tale doglianza va disattesa, atteso che, nella specie, non
rileva la pretesa erroneità dell’indicazione della superficie utile da
acquisire gratuitamente, ai sensi dell’art. 31, comma 3, del D.P.R. n.
380/2001, considerato che nell’ordinanza di demolizione non occorre -comunque- l’indicazione dell’area esatta da acquisire (successivamente) in
caso di (eventuale) inottemperanza.
Ed invero, ricorda questa Sezione che, <<secondo il prevalente e
condivisibile indirizzo della giurisprudenza amministrativa, <<(… TAR
Campania Napoli, VII, 13.01.2012, n. 143) “l’indicazione dell’area di sedime, così come di quella necessaria per opere analoghe a quelle abusive,
da acquisire al patrimonio comunale, non deve considerarsi requisito
dell’ordinanza di demolizione -e dunque la mancanza non ne inficia la
legittimità- giacché siffatta specificazione è elemento essenziale del
distinto provvedimento con cui l’Amministrazione accerta la mancata
ottemperanza alla demolizione da parte dell’ingiunto” (Tar Puglia Lecce,
III, 15.12.2011, n. 2172; Tar Puglia Lecce, III, 28.07.2011, n.
1461)>> (TAR Puglia, Sezione Terza, 27.03.2012, n. 558; in termini,
Consiglio di Stato, Sezione Quarta, 26.09.2008, n. 4659; TAR
Campania, Napoli, Sezione Seconda, 20.04.2009, n. 2035; TAR Campania,
Napoli, Sezione Sesta, 04.12.2013, n. 5509 e giurisprudenza ivi citata
- “TAR Napoli Campania sez. II, 06.09.2013, n. 4199; v., anche,
TAR Napoli Campania sez. VI, 04.07.2013, n. 3492; Tar Campania, …
sesta sezione, 16.06.2011, n. 3194, 11.05.2011, n. 2624; Tar Lazio,
Roma, sez. I, 07.03.2011, n. 2031; Tar Puglia, Lecce, sez. III, 09.12.2010, n. 2809”)>> (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 27.06.2018, n. 1075).
Trattasi, quindi, “di precisazione che l’Amministrazione è tenuta a fare
in seguito, ovvero all’atto dell’adozione (eventuale) del successivo
provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale” (TAR
Puglia, Lecce, Sezione Terza, 19.11.2018, n. 1710)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 24.10.2019 n. 1635 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: WhatsApp
è sacro. No ai licenziamenti causa chat. Tribunale
Firenze sulle offese rivolte ai superiori.
I messaggi dal contenuto offensivo e diffamatorio, scambiati tra alcuni
colleghi di lavoro in una chat privata, aventi ad oggetto i superiori di
lavoro, non costituiscono una giusta causa di licenziamento. Essi devono più
correttamente qualificarsi come uno scambio di corrispondenza privata tra
colleghi di lavoro, ovvero un'espressione del diritto di corrispondenza
privata, senza che il contenuto dei messaggi, proprio a causa del contesto
chiuso e non suscettibile di diffusione all'esterno, possa avere alcun
rilievo sul piano disciplinare. Proprio la circolazione ristretta ed
esclusiva tra pochi soggetti della chat fa venire meno la portata
diffamatoria allargata.
È quanto ha stabilito il TRIBUNALE di Firenze, Sez. lavoro, con
sentenza 16.10.2019.
Secondo il tribunale, l'invio su una chat di whatsApp tra
colleghi di lavoro di messaggi dal contenuto offensivo nei confronti di un
superiore gerarchico non ha rilievo sul piano disciplinare, stante il
carattere riservato della comunicazione.
Il caso era sorto a seguito di un'impugnazione del licenziamento per giusta
causa deciso dalla sua azienda per l'invio, all'interno di un gruppo su
chat creato con i colleghi, di messaggi vocali riferiti al superiore
gerarchico e ad altri dipendenti dal contenuto offensivo, denigratorio,
minatorio e razzista. Secondo il lavoratore, proprio perché diffusi
nell'ambito esclusivo di un gruppo ristretto di soggetti e non pubblico,
veniva a mancare la rilevanza esterna dei giudizi espressi dal lavoratore e,
con esso, il licenziamento.
Mentre il lavoratore deduceva l'irrilevanza disciplinare di tali messaggi,
essendo stati registrati in una chat privata, la società datrice sosteneva
di aver legittimamente intimato il licenziamento mirato a tutelare
l'integrità fisica e morale dei dipendenti oggetto delle espressioni
offensive e minacciose del ricorrente.
Il tribunale ha escluso la sussistenza di una giusta causa di licenziamento
proprio in quanto la circolazione ristretta dei commenti era incompatibile
con i requisiti propri della condotta diffamatoria, che richiede quale
destinazione delle comunicazioni la divulgazione nell'ambiente sociale. «I
messaggi vocali indirizzati a un gruppo chiuso sono equiparabili a
corrispondenza privata e non possono configurare atti idonei a comunicare
pubblicamente affermazioni offensive, discriminatorie o minatorie, con
conseguente insussistenza di fatto connotato dal carattere di illiceità»,
spiega il tribunale.
Da ciò consegue l'insussistenza del fatto addebitato al dipendente
disponendo, per l'effetto, la propria reintegra nel posto di lavoro
(articolo ItaliaOggi del 07.01.2020). |
EDILIZIA PRIVATA: Opere
abusive, multe carissime. Irrilevante che al rogito non si individuino
irregolarità. Ricognizione della giurisprudenza: l’attività del notaio non
esclude il potere di accertamento.
Se il comune scopre opere abusive nell'immobile,
scatta la multa pari al doppio dell'incremento di valore realizzato grazie
alla violazione della normativa edilizia e urbanistica. E il proprietario è
costretto a pagare anche se il notaio non ha rilevato irregolarità al
momento di stipulare l'atto di acquisto del cespite: l'attività compiuta
dall'ufficiale rogante, infatti, non esclude il potere di accertamento
dell'amministrazione, che può essere esercitato anche anni dopo il
compimento degli interventi realizzati senza il titolo edilizio.
È
quanto emerge dalla
sentenza
15.10.2019 n. 775, pubblicata
dalla I Sez. del TAR Liguria.
Il caso. Niente
da fare per il privato: pagherà all'ente locale oltre 56 mila euro perché i
lavori non autorizzati hanno incrementato di circa 23 mila euro il valore
dell'immobile, almeno secondo le stime dell'Agenzia delle entrate. Pesano
sulla sanzione la recinzione, il cancello pedonale e carrabile, l'area di
parcheggio e il pavimento impermeabile della piscina.
Inutile invocare un preteso affidamento di mero fatto che sarebbe stato
indotto nell'acquirente dalla condotta del notaio, il quale non individua
alcuna difformità edilizia o urbanistica al momento del rogito: l'attività
del professionista non interferisce con i poteri del comune, che non sono
soggetti ad alcun termine di decadenza. E ciò perché sanzionare gli abusi
edilizi costituisce un atto dovuto e vincolato alla ricognizione dei
presupposti.
Non giova contestare che il manufatto incriminato sia una vera e propria
piscina, per quanto piccola: lo dimostra la scaletta, mentre non è credibile
che si tratti di una vasca per l'acqua piovana.
Ricognizione sui precedenti.
Il rimedio contro gli atti dell'amministrazione, comunque, non può sempre
essere impugnato. È escluso che possa essere proposto dal privato il ricorso
al giudice amministrativo contro il verbale della Municipale che verifica
l'inottemperanza all'ordine di demolire l'opera abusiva e ne dispone la
restituzione al comune: l'atto della polizia non è di per sé impugnabile in
quanto costituisce un mero accertamento dello stato dei luoghi, privo di
valore provvedimentale e dunque di efficacia lesiva. L'amministrazione
locale deve poi far proprio il cespite con un atto ad hoc ed è contro
la una misura acquisitiva che la parte privata dovrà rivolgere
l'impugnazione.
È quanto stabilito dalla
sentenza
12.04.2019 n. 2083,
pubblicata dalla III Sez. del TAR Campania-Napoli.
Il responsabile dell'abuso, a parere dei giudici, precorre i tempi. Il
verbale dei vigili urbani non cambia la situazione giuridica
dell'interessato ma serve a certificare che il manufatto contro legge non è
stato abbattuto; il tutto con la fede privilegiata tipica dell'atto redatto
dai funzionari pubblici: si attesta unicamente che è passato il tempo ma
l'interessato non ha provveduto da sé a demolire l'opera.
Né può essere impugnato in modo autonomo l'ordine di restituzione del
manufatto al sindaco del comune in esecuzione della sentenza penale di
condanna: costituisce invero un atto endoprocedimentale che ha una mera
funzione preparatoria e strumentale; il comune, infatti, ne deve far proprio
l'esito con un atto formale che determina l'immissione nel possesso e la
trascrizione nei registri immobiliari, possibile solo con la notifica del
verbale che accerta l'inottemperanza.
Insomma: il privato che vuole contestare l'acquisizione del manufatto da
parte dell'ente locale deve impugnare l'atto successivo e soltanto per i
vizi di quest'ultimo mentre non può più contestare l'ordinanza di
demolizione.
Di più.
L'immobile abusivo va abbattuto anche se è sotto sequestro penale. È il
privato che deve farsi parte diligente per adempiere l'ordine di demolizione
notificato dal comune chiedendo all'autorità giudiziaria la restituzione del
fabbricato: altrimenti paga le sanzioni e comunque dopo 90 giorni il
manufatto contro-legge è acquisito al patrimonio dell'ente locale.
Lo prevede la
sentenza
10.07.2019 n. 1409, pubblicata
dalla II Sez. del TAR Calabria-Catanzaro.
Per i destinatari dell'ordinanza emessa dal responsabile del settore
urbanistica del comune, il sequestro penale che grava sui fabbricati abusivi
non costituisce un impedimento assoluto a eseguire l'ingiunzione a demolire
emessa dall'amministrazione locale. Anzi, è il privato che deve chiedere al
giudice penale il dissequestro dell'immobile, secondo la procedura ex
articolo 85 disp. att. cpp, per poi abbattere a proprie spese il fabbricato;
il tutto per non incorrere nelle sanzioni previste dall'articolo 31 del
Testo unico dell'edilizia: va infatti escluso che l'interessato possa
addurre a sua esimente la misura cautelare cui egli stesso ha dato causa.
Il comune, fra l'altro, è consapevole che sugli immobili incriminati penda
il sequestro: i termini per effettuare la demolizione, spiega l'ordinanza
dell'ente, decorrono dal dissequestro dei manufatti che gli interessati
devono ottenere dal giudice e comunicare all'amministrazione locale (nel
frattempo sulla misura cautelare interviene peraltro l'annullamento senza
rinvio della Cassazione).
Quando poi l'abuso edilizio lo compie il vicino, bisogna denunciare subito
altrimenti si rischia di dover tacere per sempre. L'istanza affinché il
comune verifichi la regolarità delle opere, infatti, deve essere presentata
entro sessanta giorni da quando si ha conoscenza della segnalazione
certificata di inizio attività del confinante: dopo scatta la decadenza
perché la soggezione al termine generale deve ritenersi necessaria ai fini
della certezza degli effetti prodotti dalla Scia.
È quanto emerge dalla
sentenza
15.10.2018 n. 302,
pubblicata dalla I Sez. del TAR Abruzzo-Pescara.
Notizie amare per la proprietaria dell'edificio, anche se il rivale sta
costruendo una mansarda tale da oscurare una finestra che dà luce e aria
all'immobile: dopo la sopraelevazione il bagno della signora si trova ad
affacciare nel locale di nuova costruzione. E nei locali scatta il
sopralluogo dell'Asl, benché l'ordinanza contingibile e urgente del sindaco
del comune sia stata poi annullata dal Tar perché mancano i presupposti di
urgenza e rischi per l'igiene pubblica per ingiungere i lavori al
proprietario. Contro le opere realizzate, peraltro, pende una causa al
Tribunale civile.
Ma attenzione: la Scia non è direttamente impugnabile e in caso di inerzia
il controinteressato può soltanto agire contro il silenzio
dell'amministrazione, come avviene nella specie. Il punto è che deve farlo
in modo tempestivo: l'osservanza del termine di 60 giorni risulta necessaria
per l'interesse pubblico e priva ad assicurare la certezza degli effetti
all'azione amministrativa.
Ancora. Non va al condominio ma ai singoli proprietari l'ordine di demolire
gli abusi sulle parti comuni dell'edificio. Va annullato perché illegittimo
l'ordine di demolizione degli abusi edilizi compiuti nel sottotetto. E ciò
perché il comune emette il provvedimento repressivo nei confronti del
condominio, che è un mero ente di gestione privo di legittimazione: la
misura va invece rivolta nei confronti dei singoli condomini in quanto unici
comproprietari delle parti comuni del fabbricato.
È quanto si legge nella
sentenza
29.07.2019 n. 1764,
pubblicata dalla II Sez. del TAR Lombardia-Milano, che ha accolto il
ricorso del condominio: non deve provvedere alla rimessa in pristino entro
novanta giorni disposta dal responsabile del servizio edilizia privata.
Il punto è che in base all'articolo 1117 Cc le parti comuni del fabbricato
appartengono ai singoli proprietari esclusivi mentre il condominio non vanta
alcun diritto reale su di esse. Quest'ultimo costituisce un mero ente di
gestione privo di personalità giuridica, una condizione confermata dalla
riforma contenuta nella legge 120/2012 che attribuisce al condominio un
attenuato grado di soggettività (articolo ItaliaOggi Sette del 30.12.2019). |
TRIBUTI: IMU
a carico della società di leasing anche con la risoluzione anticipata del
contratto
La società di leasing è tenuta a pagare l'Imu anche se non ha ancora
acquisito la materiale disponibilità dell'immobile per mancata riconsegna da
parte dell'utilizzatore.
Lo ha deciso la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la
sentenza
09.10.2019 n.
25249, segnando un punto a favore per i Comuni
dopo la posizione contraria assunta dalla stessa sezione tributaria con la
sentenza n. 19166/2019 (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa
del 29 luglio).
Il quadro normativo e le prime due sentenze della Cassazione
Per comprendere i termini della questione, occorre preliminarmente
evidenziare che in ordine agli immobili concessi in leasing la normativa
sull'Imu prevede uno spostamento della soggettività passiva dal proprietario
(locatore) all'utilizzatore (locatario).
In particolare, l'articolo 9, comma 1, del Dlgs 23/2011 stabilisce che per
gli immobili concessi in locazione finanziaria «soggetto passivo è il
locatario a decorrere dalla data della stipula e per tutta la durata del
contratto». Mentre sulla data di inizio dell'obbligazione tributaria non
sussistono problemi, sorge invece il dubbio sulla data finale
dell'obbligazione in caso di risoluzione anticipata del contratto di leasing
senza riconsegna dell'immobile.
La giurisprudenza di merito si è mostrata piuttosto oscillante, ma a
dirimere il contrasto ci ha pensato la Cassazione con la sentenza n.
13793/2019, accogliendo il ricorso del Comune evidenziando che con la
risoluzione del contratto di leasing la soggettività passiva ai fini Imu si
determina in capo alla società di leasing, anche se essa non ha ancora
acquisito la materiale disponibilità del bene per mancata riconsegna da
parte dell'utilizzatore.
Ciò in quanto l'articolo 9 del Dlgs 23/2011 ha
ritenuto rilevante non già la consegna del bene -e quindi la detenzione
materiale dello stesso- bensì l'esistenza di un vincolo contrattuale che
legittima la detenzione qualificata dell'utilizzatore. Tuttavia dopo appena
due mesi è nuovamente intervenuta la Cassazione con la sentenza n. 19166 che
in maniera del tutto inaspettata perviene a un'opposta conclusione rispetto
alla decisione n. 13793 ritenendo che, in caso di risoluzione anticipata del
contratto di leasing senza riconsegna dell'immobile, l'Imu va pagata dal
locatario-utilizzatore e non dalla società di leasing.
La sentenza di ieri
Con la sentenza in commento, la Cassazione è tornata per la terza volta
sulla questione riprendendo il filone originario favorevole ai Comuni,
ritenuto «maggiormente rispettoso delle esigenze di certezza dei rapporti
giuridici e dei rapporti tributari, dovendo l'ente impositore fare
riferimento a dati certi e conoscibili come la risoluzione del contratto».
La Cassazione ha evidenziato peraltro che la ritardata riconsegna può al più
essere oggetto di una pretesa risarcitoria all'interno del rapporto
obbligatorio tra locatore e locatario, ma non può assolutamente interferire
nel rapporto tra l'ente impositore e il soggetto passivo come individuato
per legge. Una sentenza condivisibile e persuasiva.
Non altrettanto condivisibile è invece la decisione n. 19166 che -oltre a
basarsi sul quadro normativo e giurisprudenziale civilistico (non
tributario)- mette sullo stesso piano l'Imu e la Tasi che, com'è noto, sono
due tributi diversi sotto il profilo della soggettività passiva. Pertanto
trarre argomenti dal comma 672 della legge 147/2013 (riguardante solo la
Tasi) ci sembra del tutto inappropriato oltre che in contrasto con il
principio di riserva di legge sancito dall'articolo 23 della Costituzione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
10.10.2019). |
APPALTI: Ove
si lamenta la violazione del divieto di commistione tra offerta tecnica ed
economica occorre ricordare che il suddetto divieto risponde alla finalità
di garantire la segretezza dell’offerta economica fino al completamento
della valutazione delle offerte tecniche ed è perciò funzionale a evitare
che l’offerta tecnica contenga elementi che consentano di ricostruire, nel
caso concreto, l’entità dell’offerta economica.
Coerentemente con tale finalità, “l’applicazione
del divieto di commistione va effettuata in concreto (e non in astratto),
con riguardo alla concludenza degli elementi economici esposti o desumibili
dall'offerta tecnica, che debbono essere tali da consentire di ricostruire
in via anticipata l'offerta economica nella sua interezza ovvero, quanto
meno, in aspetti economicamente significativi, idonei a consentire
potenzialmente al seggio di gara di apprezzare “prima del tempo” la
consistenza e la convenienza di tale offerta"..
Non è escluso, di conseguenza, che possano essere inserite nell’offerta
tecnica voci a connotazione (anche) economica o elementi tecnici declinabili
in termini economici, se rappresentativi di soluzioni realizzative
dell’opera o del servizio oggetto di gara.
Il divieto di commistione non è quindi violato ove
nell’offerta tecnica siano presenti “alcuni elementi economici, resi
necessari dagli elementi qualitativi da fornire, purché tali elementi
economici non consentano di ricostruire la complessiva offerta economica”
---------------
18. Va infine scrutinato il motivo E, ove si lamenta la violazione del
divieto di commistione tra offerta tecnica ed economica.
18.1. Al riguardo, occorre ricordare che, secondo i principi, il suddetto
divieto risponde alla finalità di garantire la segretezza dell’offerta
economica fino al completamento della valutazione delle offerte tecniche (Cons.
Stato, Sez. VI, 22.11.2012, n. 5928) ed è perciò funzionale a evitare
che l’offerta tecnica contenga elementi che consentano di ricostruire, nel
caso concreto, l’entità dell’offerta economica (Cons. Stato, Sez. V, 21.11.2017, n. 5392).
Coerentemente con tale finalità, “l’applicazione
del divieto di commistione va effettuata in concreto (e non in astratto),
con riguardo alla concludenza degli elementi economici esposti o desumibili
dall'offerta tecnica, che debbono essere tali da consentire di ricostruire
in via anticipata l'offerta economica nella sua interezza ovvero, quanto
meno, in aspetti economicamente significativi, idonei a consentire
potenzialmente al seggio di gara di apprezzare “prima del tempo” la
consistenza e la convenienza di tale offerta” (Cons. Stato, Sez. III, 03.04.2017, n. 1530).
Non è escluso, di conseguenza, che possano essere inserite nell’offerta
tecnica voci a connotazione (anche) economica o elementi tecnici declinabili
in termini economici, se rappresentativi di soluzioni realizzative
dell’opera o del servizio oggetto di gara (Cons. Stato, Sez. V, 22.02.2016, n. 703).
Il divieto di commistione non è quindi violato ove
nell’offerta tecnica siano presenti “alcuni elementi economici, resi
necessari dagli elementi qualitativi da fornire, purché tali elementi
economici non consentano di ricostruire la complessiva offerta economica” (Cons.
Stato, III, 20.01.2016, n. 193).
18.2. In applicazione dei suddetti principi, il motivo va respinto, atteso
che la mera indicazione dei vantaggi derivanti dall’impiego di un mezzo di
trasporto dotato di targa CRI non è da ritenere idoneo a determinare una
commistione indebita tra offerta tecnica e offerta economica, e ciò anche in
quanto, contrariamente alle allegazioni della ricorrente, le spese di
gestione non sono le uniche spese suscettibili di ribasso da parte
dell’operatore, atteso che anche gli altri costi, tra i quali quelli di
personale, risentono significativamente dell’organizzazione aziendale.
18.3. Non può neppure accedersi alla tesi secondo la quale l’impiego di un
mezzo di trasporto con targa CRI e la presenza di operatori con
abbigliamento e protezioni adeguate agli interventi tipici di un servizio di
emergenza avrebbero dovuto essere considerati idonei a indurre in errore gli
utenti in ordine alla titolarità del servizio e le sue caratteristiche.
L’attività che il concorrente si candida a svolgere è, infatti, quella
oggetto di affidamento, mentre le specifiche modalità di erogazione, come
descritte nell’offerta tecnica dell’aggiudicataria, corrispondono a una
scelta dell’operatore, che è stata valutata positivamente dalla Commissione,
il cui giudizio non presenta profili di manifesta arbitrarietà o illogicità
sotto i profili dedotti dalla ricorrente
(TAR
Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 07.10.2019 n. 11594 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Abitabilità,
la Cila non basta. Titolo insufficiente per cambiare destinazione dei
locali. Secondo il Tar Lazio la nozione di restauro impone di rispettare
forma e struttura degli edifici.
Non basta la Cila a trasformare la cantina in cucina
nell'immobile del centro storico. E ciò anche dopo lo Sblocca Italia e la
manovra correttiva del 2017: la nuova definizione di restauro e risanamento
conservativo, infatti, presuppone che si rispettino gli elementi formali e
strutturali che identificano l'organismo edilizio, il che è escluso quando
vani accessori diventano abitabili nel fabbricato a uso residenziale.
È
quanto emerge dalla
sentenza
20.09.2019 n. 11155,
pubblicata dalla Sez. II-quater del TAR Lazio-Roma.
Il caso.
Legittimo lo stop ai lavori da parte del comune dopo che il dirigente
dell'ufficio ha dichiarato inefficace la comunicazione di lavori asseverata.
Non basta la relazione tecnica allegata al progetto che fa riferimento al
risanamento leggero di cui al punto 5 della tabella A allegato al decreto
Scia 2, il dlgs 222/2016, a salvare i comproprietari dell'immobile, uno dei
quali è anche direttore dei lavori.
L'intervento è comunicato in corso di
esecuzione ai sensi dell'articolo 6-bis, comma quinto, del testo unico
dell'edilizia: si punta a trasformare in una cucina di 17 metri quadrati un
ambiente composto da due vani destinati in precedenza a deposito o cantina,
con il ripristino del collegamento preesistente con il fabbricato
principale, un'ex caserma dei carabinieri.
In realtà, secondo il progetto
approvato dal comune, i locali dovrebbero essere destinati a uffici, mentre
l'iniziativa del privato è fondata sulle risultanze catastali e lo stato di
fatto dell'immobile. Ma non è questo che fa scattare l'alt ai lavori. Il
mutamento di destinazione d'uso con realizzazione di opere, infatti, va
inquadrato nell'ambito della ristrutturazione edilizia «pesante» o
«maggiore» alla quale fa riferimento l'articolo 33 del testo unico per
l'edilizia. E ciò perché si tratta di un elemento che qualifica la
connotazione del bene immobile e risponde a precisi obiettivi di interesse
pubblico, a partire dalla pianificazione territoriale. L'intervento
progettato dal privato nell'ex caserma, dunque, può essere realizzato
soltanto se prima si chiede il permesso di costruire e si paga il contributo
di costruzione previsto dalla diversa destinazione d'uso.
In generale vanno
evidenziati i punti di contatto fra gli interventi di ristrutturazione
edilizia e quelli di manutenzione straordinaria, restauro e risanamento
conservativo: agli uni come agli altri serve il permesso di costruire quando
comportano un cambio di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico; fuori dai centri storici devono
possono essere realizzati soltanto con la denuncia di attività quando il
mutamento avviene all'interno di una stessa categoria omogenea, mentre
dentro il cuore antico della città la segnalazione non è sufficiente anche
quando la destinazione varia all'interno della medesima categoria.
Non conta
poi che con lo Sblocca Italia si possano frazionare o accorpare unità
immobiliari con opere che implicano la variazione di superfici dei locali
oltre che del carico urbanistico. La nuova nozione di restauro e risanamento
conservativo impone il rispetto degli elementi formali e strutturali
dell'organismo edilizio: i primi riguardano la disposizione dei volumi, i
secondi lo scheletro che vi è sotteso ma entrambi esprimono l'identità del
fabbricato a uso residenziale e vanno non giustapposti ma considerati
insieme. Nella specie, poi, il permesso di costruire è richiesto a maggior
ragione perché l'immobile si trova nel centro storico e dunque il titolo
edilizio risulta necessario anche per il mutamento di destinazione d'uso
all'interno della categoria.
I precedenti.
Attenzione, però: se il comune non ha titolo per sindacare la Cila, può
sempre reprimere gli abusi edilizi. La comunicazione di inizio attività
asseverata è un atto di natura privatistica e l'amministrazione non può
valutare l'ammissibilità o meno dell'intervento ma conserva comunque il
potere di controllare che l'immobile sia conforme alle prescrizioni delle
leggi vigenti. È escluso, poi, che il privato possa ottenere dal giudice un
accertamento sulla regolarità del fabbricato: la verifica spetta
all'amministrazione e la prima autorità non può sconfinare nella sfera
riservata alla seconda.
Lo ha stabilito la sentenza 2052/2018, pubblicata
dalla seconda sezione del Tar Calabria, con cui è accolto solo in parte il
ricorso del proprietario del manufatto.
La Cila introdotta dal decreto
legislativo Scia 2 ha carattere residuale: si applica agli interventi non
riconducibili all'edilizia libera, alle opere che richiedono il permesso di
costruire e alle iniziative sottoposte a Scia. A differenza di quest'ultima
la comunicazione di inizio lavori asseverata non è soggetta a un controllo
sistematico: il comune deve soltanto verificare che le opere progettate
implicano un modesto impatto sul territorio. E ha in proposito un potere
soltanto sanzionatorio.
Il diniego della Cila, dunque, è nullo perché
espressione di un potere non tipizzato dall'articolo 6-bis del testo unico
dell'edilizia, fermo restando che l'amministrazione deve vigilare contro i
manufatti contro legge. Il motivo di ricorso che chiede l'accertamento di
regolarità del fabbricato è bocciato perché la sentenza richiesta dal
privato sarebbe un'invasione di campo nei poteri dell'amministrazione al di
fuori delle ipotesi tassative di giurisdizione di merito previste
dall'articolo 134 Cpa.
L'inerzia, tuttavia, può costare cara all'amministrazione.
Rischia che arrivi il commissario dalla prefettura a far abbattere l'abuso
edilizio il comune che fa finta di non vederlo dopo la comunicazione di
inizio lavori asseverata: la presentazione della Cila, infatti, non dispensa
l'ente locale dall'esercitare i suoi poteri repressivi contro le
irregolarità, mentre risulta illecita la condotta dell'amministrazione che
non riscontra entro 30 giorni la diffida del vicino, il quale punta alla
demolizione della veranda.
È quanto si legge nella sentenza 522/2017,
pubblicata dalla settima sezione del Tar Campania, «Accolto il ricorso del
condomino, atto che va qualificato come soggetto al rito del silenzio ex
articoli 31 e 117 Cpa».
Sbaglia l'ente locale a non compiere entro un mese
le verifiche sulla Cila richieste nella diffida perché il parere della
Soprintendenza allegato parla chiaro: va ridimensionato il terrazzo che
costituisce la copertura della veranda. Soltanto così si può ottenere la
sanatoria. Risulta quindi illegittimo il silenzio serbato dal comune perché
dai documenti emerge che il manufatto è abusivo, mentre l'ente locale è
deputato al controllo del territorio in base all'articolo 27 del Testo unico
sull'edilizia e doveva dunque controllare la sussistenza dei requisiti per
la Cila. Insomma: non soltanto l'amministrazione deve riscontrare la diffida
entro trenta giorni, ma nello stesso termine deve ordinare la demolizione
della veranda e del terrazzo soprastante. E se non provvederà sarà
«commissariato» da un funzionario della prefettura.
Il comune, comunque, non può bloccare i lavori avviati con Cila per dividere
in tre l'appartamento in centro invocando la contrarietà al regolamento
urbanistico dell'ente: l'attività edilizia libera, infatti, rientra ormai
nella manutenzione ordinaria e straordinaria che soltanto in casi
eccezionali risulta soggetta alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.
D'altronde il frazionamento dell'immobile non incrementa il carico
urbanistico ammesso nella zona né incide sull'aspetto esteriore
dell'edificio.
È quanto emerge dalla sentenza 1625/2016, pubblicata dalla
terza sezione del Tar Toscana, che ha accolto il ricorso proposto dal
proprietario dell'appartamento da suddividere: è annullato il regolamento
urbanistico del comune nella parte in cui vieta l'aumento di unità
immobiliari nell'ambito di operazioni di frazionamento che costituiscono
manutenzione straordinaria ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera c), del
testo unico dell'edilizia.
Non si capisce, osservano dunque i giudici, quali
siano le superiori ragioni di interesse pubblicano che spingono il comune a
stoppare di fatto la Cila
(articolo ItaliaOggi Sette del 02.12.2019). |
TRIBUTI: Imposta
sulla Pubblicità ridotta sui cartelli a due facce nei carrelli della spesa
se il messaggio è lo stesso.
La pubblicità effettuata tramite messaggi pubblicitari di identico contenuto
e riferiti al medesimo soggetto, riportati sui cartelli mobili bifacciali
posti fronte-retro su ogni carrello della spesa presso supermercati o centri
commerciali, va considerata come se effettuata su un unico mezzo
pubblicitario.
Con l'ordinanza
18.09.2019 n. 23240, la Corte di
Cassazione -Sez. V civile- è intervenuta in tema di imposta sulla pubblicità per chiarire
che ogni cartello pubblicitario esposto sui carrelli della spesa non ha
autonoma rilevanza ai fini del calcolo della superficie imponibile ma che vi
siano invece i presupposti per l'applicazione del Dlgs 507/1993, articolo 7,
comma 5, in quanto la pluralità dei cartelli assolve a un'unitaria funzione
pubblicitaria di un determinato soggetto.
È quindi irrilevante che il
messaggio pubblicitario sia apposto su differenti carrelli, ove questi siano
nei pressi di un medesimo supermercato o centro commerciale e riguardino il
medesimo soggetto, in quanto in questo caso possono considerarsi un unico
messaggio pubblicitario.
La controversia
La questione da chiarire alla base della controversia è se la pubblicità
realizzata attraverso cartelli mobili bifacciali posti fronte-retro in ogni
carrello della spesa presso supermercati o centri commerciali sia o meno da
considerarsi quale diffusione di messaggi collocati in connessione tra loro
e se, quindi, agli effetti del calcolo della superficie pubblicitaria, i
cartelli debbano o meno intendersi come un unico mezzo pubblicitario.
La decisione
Nell'affrontare la questione i giudici aderiscono all'orientamento
consolidato della Suprema Corte secondo cui: «In tema di imposta sulla
pubblicità, il D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 7, comma 5, considera come un
unico mezzo pubblicitario, agli effetti del calcolo della superficie
imponibile, una pluralità di messaggi che presentino un collegamento
strumentale inscindibile fra loro ed abbiano identico contenuto, anche se
non siano tutti collocati in un unico spazio o in un'unica sequenza».
Secondo questo orientamento, l'intento del legislatore è quello di evitare
che l'imposta colpisca singolarmente pluralità di messaggi che ne integrano
funzionalmente uno solo.
Il collegio ha condiviso il principio secondo cui il requisito del
collegamento funzionale tra i vari messaggi non richieda necessariamente la
contiguità fisica dei mezzi pubblicitari che, al limite, lo può solo
testimoniare ma non condizionare. Per l'applicazione dell'imposta in forma
ridotta è necessario, in primo luogo, che i mezzi pubblicitari siano di
identico contenuto o riferiti a un medesimo soggetto e, in secondo luogo,
che siano in collegamento funzionale tra loro, indipendentemente
dall'allocazione dei mezzi utilizzati (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'11.10.2019). |
APPALTI: ICI,
la pianificazione urbanistica regionale prevale sul Prg.
Lo strumento di pianificazione urbanistica regionale prevale sulle
prescrizioni del piano regolatore generale. Di conseguenza, se un terreno è
sottoposto ad un vincolo regionale di inedificabilità assoluta, in quanto
destinato a verde pubblico, lo stesso non sarà assoggettabile a Ici, anche
se risulta inserito nel piano regolatore generale quale terreno edificabile.
Questo è quanto emerge dalla
sentenza
18.09.2019
n.
23206 della Sez. V
civile della Corte di Cassazione.
Il caso
La controversia ha preso le mosse dall'impugnazione di un avviso di
accertamento con cui la società concessionaria delle entrate tributarie del
Comune di Pomezia ha chiesto il pagamento dell'imposta Ici per l'annualità
2004, in relazione a un terreno edificabile inserito nel piano regolatore
generale. Il ricorrente ha sostenuto l'esistenza di un vincolo regionale di
inedificabilità assolutache, in quanto terreno con destinazione a «verde
pubblico», in conseguenza del quale il pagamento dell'imposta non è dovuto.
In primo grado la Commissione tributaria ha accolto il ricorso, mentre in
appello i giudici tributari hanno ritenuto che la mera circostanza
dell'inserimento nel piano regolatore generale rende tale terreno
assoggettabile all'Ici, restando irrilevante il vincolo regionale.
La decisione
Giunta la questione in Cassazione, il ricorrente ha sottolineato
l'illogicità di assoggettare a Ici un terreno inedificabile per l'esistenza
di un vincolo regionale. La Suprema corte condivide tale tesi e accoglie il
ricorso originariamente proposto dal contribuente. Ebbene, i giudici di
legittimità ricordano come è sì vero che ai fini Ici è sufficiente
l'inclusione del terreno nel piano regolatore generale, ma è altrettanto
necessario raffrontare quest'ultimo provvedimento con il piano paesaggistico
regionale. Per il Collegio, infatti, le prescrizioni regionali prevalgono
sempre sulla pianificazione urbanistica comunale, come si desume chiaramente
dall'articolo 145 del Dlgs 42/2004.
Pertanto, un'area ancorché edificabile secondo il piano regolatore comunale,
può non esserlo «all'esito della valutazione complessiva ed integrata di quest'ultimo con lo strumento di pianificazione paesaggistica e ambientale
regionale. In altri termini, spiega la Corte, l'errore dei giudici di merito
è stato quello di affermare genericamente l'irrilevanza di qualsiasi
vincolo, senza dare rilevanza ai vincoli di inedificabilità assoluta, nella
specie derivanti dallo strumento regionale, avente portata prevalente sul
piano regolatore comunale, come tali idonei ad escludere la natura
edificabile dell'area interessata» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
20.09.2019). |
TRIBUTI: TARI
sul garage anche senza luce.
I box auto sono soggetti al pagamento della tassa sui rifiuti,
indipendentemente dal loro allaccio alla rete elettrica. Ciò che conta
infatti è la potenziale utilizzabilità del locale o dell'area.
Questo è
quanto ha recentemente affermato la Corte di Cassazione, Sez. V civile, nella
sentenza 17.09.2019 n. 23058.
La questione esaminata
La Corte di cassazione ha esaminato la vicenda relativa all'applicabilità
della Tarsu sui garage delle abitazioni. In particolare, il contribuente
oggetto di accertamento da parte del comune sosteneva che il box auto non
fosse da assoggettare al prelievo in quanto non produttivo di rifiuti, non
essendo peraltro allacciato alla rete elettrica.
La Corte di cassazione ha sconfessato tale tesi, in aderenza al consolidato
orientamento in base al quale "non si vede sotto quale profilo la
destinazione di locali a cantine o a garages potrebbe farli considerare
esclusi dalla possibilità di produrre rifiuti, in quanto le aree adibite a
parcheggio di autovetture o quelle utilizzate come deposito, quali le
cantine, sono aree frequentate da persone e, quindi, produttive di rifiuti
in via presuntiva" (Cass. 2634/2017; Cass. n. 14770/2000; Cass. n. 5047/2015;
Cass. n. 2202/2011; Cass. 11351/ 2012).
La potenzialità a produrre rifiuti
Ciò che conta, ai fini dell'applicazione del tributo, è la potenzialità di
produzione dei rifiuti nei locali e nelle aree possedute o detenute. Quanto
sopra valeva nella tarsu, così come oggi nella tari ai sensi dell'art. 1,
comma 641, della L. 147/2013 il quale stabilisce: "il presupposto della TARI
è il possesso o la detenzione a qualsiasi titolo di locali o di aree
scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti urbani".
La Corte ha ritenuto che non sia una prova idonea a dimostrare l'oggettiva
impossibilità di produrre rifiuti il fatto che il garage non è allacciato
alla rete elettrica. Circostanza che potrebbe limitare il suo utilizzo alle
sole ore diurne, ma non impedisce di per se che nel locale possano generarsi
rifiuti.
Decisione in linea col passato
La decisione della Corte è conforme a numerose altre della Cassazione.
Peraltro la Corte ha anche ritenuto che non fosse valida la giustificazione
fornita dal contribuente relativa al fatto che la superficie mancante del
garage, non inserita nella dichiarazione del tributo, rientrava nella
"tolleranza" contenuta nell'art. 70 del D.Lgs. 507/1993. Tale norma stabiliva
che la superficie di riferimento non poteva in ogni caso essere inferiore
all'80 per cento della superficie catastale determinata secondo i criteri
stabiliti dal regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica
23.03.1998, n. 138. Tuttavia, l'osservazione è irrilevante poiché la
superficie tassabile della tarsu rimaneva quella calpestabile dei locali e
delle aree, rappresentando l'80% della superficie catastale solo un limite
minimo da dichiarare.
Oggi nella tari la superficie tassabile è ancora quella calpestabile, almeno
fino a quando non sarà completato il processo di allineamento tra dato
catastale e dato toponomastico di ogni singola unità immobiliare (art. 1,
comma 645, L. 147/2013). Ferma restando la facoltà per il comune di
utilizzare il dato catastale in sede di accertamento, seppure con valenza
presuntiva.
Omessa o infedele denuncia?
Nella sentenza viene anche affrontata la questione relativa alla tipologia
di violazione commessa dal contribuente che non ha inserito il garage nella
dichiarazione del tributo, insieme all'abitazione. Infatti, il contribuente
lamentava il fatto che si trattasse in questo caso di denuncia incompleta e
non di una dichiarazione omessa. La Corte ha invece evidenziato che "non si
tratta di una dichiarazione incompleta non sanzionabile in quanto relativa a
superficie inferiore al limite di tolleranza, ma, come sopra chiarito, di
una omessa denuncia di autonoma unità immobiliare tassabile".
In altri termini, al fine di valutare l'omissione o l'infedeltà della
denuncia la Corte fa riferimento alla singola unità immobiliare, seguendo un
principio già consolidato nell'ICI (Cassazione, n. 932 del 16/01/2009 –
5927/2010- 8849 del 14/04/2010). Occorre però considerare che, almeno fino
ad alcuni anni fa, era prassi degli uffici tributi far inserire nella
dichiarazione dell'abitazione anche le superfici delle pertinenze,
quantomeno fino a quando non ha avuto rilievo anche nella tarsu il dato
catastale dell'immobile. Dato oggi invece obbligatorio nella dichiarazione
della TARI (art. 1, comma 685, L. 147/2013), nella quale quindi l'unità
impositiva minima, anche ai fini dell'individuazione della violazione di
omessa denuncia, è senz'altro l'unità immobiliare.
Conclusioni
La decisione della Corte è in linea con il dettato normativo della tarsu,
peraltro del tutto analogo nella tari, ed ha il pregio di chiarire che nel
caso dei box auto la prova dell'improduttività potenziale dei rifiuti non
deriva dal semplice mancato allacciamento alle utenze (specie elettrica), ma
richiede una situazione di sostanziale inutilizzabilità del locale, per
motivazioni di carattere oggettivo (ad esempio inagibilità, inaccessibilità,
degrado, ecc.).
In altri termini, non basta che il locale non sia utilizzato dal
contribuente, ma occorre che lo stesso si presenti in una situazione di
obiettiva inutilizzabilità, il cui onere probatorio grava sul contribuente
(da ultimo, Cassazione, ordinanza n. 22705 del 11/09/2019) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
27.09.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: Le «tensostrutture» sono opere
edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera, senza necessità
del
preventivo rilascio del permesso di costruire, solo quando sono funzionali a
soddisfare esigenze contingenti e temporanee e destinate ad essere
immediatamente rimosse entro un termine non superiore ai novanta giorni.
Ciò posto, è irrilevante, ai fini del giudizio sulla temporaneità o
stabilità
della «tensostruttura», la tipologia dei materiali utilizzati. Costituisce,
infatti,
principio assolutamente consolidato in giurisprudenza quello secondo cui, in
materia edilizia, ai fini del riscontro del connotato della precarietà e
della relativa
esclusione della modifica dell'assetto del territorio, non sono rilevanti le
caratteristiche costruttive, i materiali impiegati e l'agevole rimovibilità,
ma le
esigenze temporanee alle quali l'opera eventualmente assolva.
---------------
L'ignoranza della legge penale incriminatrice, a norma dell'art. 5
cod.
pen., a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 364 del 1988,
rileva
solo se «inevitabile».
Nella specie,
non
può invocarsi l'ignoranza inevitabile della legge penale con riferimento
alla
realizzazione di una «tensostruttura» da parte di chi è titolare di una
ditta
specializzata nella realizzazione di opere di tale natura.
Ed invero, ad identiche conclusione è pervenuta la giurisprudenza in
fattispecie analoghe. In particolare, si può richiamare il precedente
relativo al
caso di realizzazione abusiva di un impianto di serra che, per le sue
caratteristiche, necessiti di concessione edilizia: si è affermato che in
tale ipotesi non può essere escluso il reato sotto il profilo soggettivo,
per errore sulla non
necessità della concessione edilizia, perché nemmeno in virtù del criterio
della ignoranza inevitabile, teorizzato nella sentenza 24.03.1988, n.
364,
della Corte costituzionale, è lecito scusare chi eserciti una impresa
agricola,
ancorché piccola (cioè una attività professionale assistita anche da
organizzazioni
di categoria) senza informarsi delle leggi penali che disciplinano la
materia.
---------------
1. Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito precisate.
2. Infondate sono le censure formulate nel primo motivo, che contestano la
qualificazione del fatto come illecito penale, deducendo che l'opera
realizzata ha
natura non definitiva, è facilmente rimuovibile, e consiste in una
«tensostruttura», ossia in un manufatto espressamente indicato come oggetto
di
attività edilizia libera nel D.M. Ministero Infrastrutture 02.03.2018,
pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale del 07.04.2018.
2.1. Ai fini della soluzione della questione appena indicata, occorre
preliminarmente chiarire quale sia il significato della previsione delle
opere
qualificabili come «tensostruttura» da parte del D.M. cit. tra quelli
oggetto di
attività edilizia libera.
Il D.M. Ministero Infrastrutture 02.03.2018, pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale del 07.04.2018, riporta il «glossario» relativo alle opere
edilizie
realizzabili in regime di attività edilizia libera «in fase di prima
attuazione dell'art.
1, comma 2, del decreto legislativo 25.11.2016, n. 222», il quale
aveva
previsto la formazione di un «glossario unico, che contiene l'elenco delle
principali opere edilizie, con l'individuazione della categoria di
intervento a cui le
stesse appartengono e del conseguente regime giuridico a cui sono
sottoposte».
Di conseguenza, è ragionevole ritenere che le opere previste nelle tipologie
elencate nel glossario si individuano non in astratto, ma solo se sussumibili nella
«categoria di intervento a cui le stesse appartengono», ossia in una delle
categorie previste dalla legge. Del resto, deve considerarsi, da un lato,
che un
decreto ministeriale non può derogare a disposizioni di legge, salvo il caso
di delegificazione espressa, e, dall'altro, che lo stesso «glossario» si cura
di
abbinare analiticamente le opere edilizie da esso previste alle categorie di
intervento contemplate dall'art. 6 del d.lgs. n. 380 del 2001 come oggetto
di
attività edilizia libera.
In particolare, per quanto di specifico interesse in questa sede, il
«glossario»
prevede sì le «tensostrutture» come opere edilizie realizzabili in regime di
attività edilizia libera, ma in riferimento alla categoria di intervento di
cui alla
lett. e-bis) dell'art. 6 d.P.R. n. 380 del 2001, la quale, riformulata
proprio dalla
legge n. 222 del 2016, ha riguardo alle «opere dirette a soddisfare
obiettive
esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al
cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a
novanta
giorni, previa comunicazione di avvio lavori all'amministrazione comunale».
Sembra quindi corretto concludere che le «tensostrutture» sono opere
edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera, senza necessità
del
preventivo rilascio del permesso di costruire, solo quando sono funzionali a
soddisfare esigenze contingenti e temporanee e destinate ad essere
immediatamente rimosse entro un termine non superiore ai novanta giorni.
Ciò posto, poi, è irrilevante, ai fini del giudizio sulla temporaneità o
stabilità
della «tensostruttura», la tipologia dei materiali utilizzati. Costituisce,
infatti,
principio assolutamente consolidato in giurisprudenza quello secondo cui, in
materia edilizia, ai fini del riscontro del connotato della precarietà e
della relativa
esclusione della modifica dell'assetto del territorio, non sono rilevanti le
caratteristiche costruttive, i materiali impiegati e l'agevole rimovibilità,
ma le
esigenze temporanee alle quali l'opera eventualmente assolva (cfr. tra le
tante,
Sez. 3, n. 966 del 26/11/2014, dep. 2015, Manfredini, Rv. 261636-01,
relativa
ad una stalla costruita con pali in legno saldamente ancorati al suolo e
copertura
in lamiera per soddisfare esigenze permanenti e durature nel tempo, e Sez.
3, n.
22054 del 25/02/2009, Frank, Rv. 243710-01).
2.2. Nel caso di specie, la sentenza impugnata ha evidenziato che la
«tensostruttura», realizzata in difetto di permesso di costruire, aveva
caratteristiche di stabilità e non certo di temporaneità o di transitorietà,
in
considerazione delle sue caratteristiche tipologiche e funzionali.
In particolare, si è evidenziato che l'opera: a) era realizzata con tubolari
in
metallo ed aveva copertura con tendone plastificato retrattile; b) "copriva"
una superficie di 30 metri per 9,30, con altezza variabile tra 2,40 metri e
3,85 metri;
c) era addossata ed imbullonata alla parete esterna di un fabbricato nella
parte
superiore; d) era inoltre appoggiata a piantane metalliche nella parte
inferiore, le
quali, a loro volta, erano in attesa di essere stabilmente fissate su di una
sottostante platea di cemento; e) necessitava dell'ancoraggio stabile al
suolo e
del fissaggio definitivo a parete per le sue «poderose» dimensioni; f) era
funzionale allo svolgimento dell'attività di ristorazione esercitata nei
contigui
locali in muratura.
2.3. Le conclusioni della sentenza impugnata sono correttamente motivate.
Invero, si è osservato che le «tensostrutture» sono opere edilizie
realizzabili
in regime di attività edilizia libera, senza necessità del preventivo
rilascio del
permesso di costruire, solo quando sono funzionali a soddisfare esigenze
contingenti e temporanee e destinate ad essere immediatamente rimosse entro
un termine non superiore ai novanta giorni, e che, ai fini del giudizio
sulla
precarietà delle stesse, è irrilevante la tipologia dei materiali impiegati.
Si è dato
conto, inoltre, della consistenza e delle funzioni dell'opera indicata in
contestazione, nei termini puntualmente descritti dal giudice di merito.
Sulla base di queste premesse, non può dirsi certo lacunosa o
manifestamente illogica la conclusione secondo cui la «tensostruttura» in
questione non è inquadrabile tra gli interventi di cui alla lett. e-bis)
dell'art. 6
d.P.R. n. 380 del 2001, ma poteva essere realizzata solo dopo l'acquisizione
del
permesso di costruire; di conseguenza, è immune da vizi l'affermazione della
sussistenza del reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 380
del 2001.
3. Manifestamente infondate sono le censure che contestano l'affermazione
della sussistenza dell'elemento soggettivo del reato, deducendo la
bassissima
scolarità del ricorrente e la sua fiducia nelle indicazioni ricevute
dall'architetto del
committente.
Invero, l'ignoranza della legge penale incriminatrice, a norma dell'art. 5
cod.
pen., a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 364 del 1988,
rileva
solo se «inevitabile».
Nella specie, come correttamente osservato dalla sentenza impugnata, non
può invocarsi l'ignoranza inevitabile della legge penale con riferimento
alla
realizzazione di una «tensostruttura» da parte di chi è titolare di una
ditta
specializzata nella realizzazione di opere di tale natura.
Ed invero, ad identiche conclusione è pervenuta la giurisprudenza in
fattispecie analoghe. In particolare, si può richiamare il precedente
relativo al
caso di realizzazione abusiva di un impianto di serra che, per le sue
caratteristiche, necessiti di concessione edilizia: si è affermato che in
tale ipotesi non può essere escluso il reato sotto il profilo soggettivo,
per errore sulla non
necessità della concessione edilizia, perché nemmeno in virtù del criterio
della ignoranza inevitabile, teorizzato nella sentenza 24.03.1988, n.
364,
della Corte costituzionale, è lecito scusare chi eserciti una impresa
agricola,
ancorché piccola (cioè una attività professionale assistita anche da
organizzazioni
di categoria) senza informarsi delle leggi penali che disciplinano la
materia (Sez.
3, n. 6968 del 02/05/1988, Cecere, Rv. 178593-01)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
17.09.2019 n. 38473). |
APPALTI SERVIZI:
Società in house, decide la Corte dei Conti anche senza
affidamento diretto.
La giurisdizione della Corte dei conti si estende alla
società in house, anche se essa ha ottenuto la gestione del servizio non già
in base a un affidamento diretto, bensì in forza di un contratto d'appalto
stipulato in esito a una procedura di gara.
Questo il principio affermato dalle Sezz. unite civili della
Corte di Cassazione con la
sentenza 30.08.2019 n. 21871, che ha confermato il
danno erariale, per l'importo di 200 mila euro oltre accessori, a carico di
una società in house titolare della gestione del servizio rifiuti sul
territorio comunale, a causa della prolungata omissione della raccolta
differenziata dei rifiuti.
Il fatto
Il danno emerso in relazione a questa fattispecie era stato configurato
dalla Corte dei conti I sezione giurisdizionale centrale d'appello sotto il
duplice profilo del mancato raggiungimento delle percentuali minime
prescritte e del mancato introito della vendita di materiale riciclabile,
tenuto conto altresì dei maggiori costi di smaltimento dei rifiuti conferiti
in discarica.
La società in house ha impugnato la sentenza con ricorso in Cassazione
sollevando un'eccezione connessa al titolo che legittimava la gestione del
servizio pubblico svolto a favore del Comune, che non era costituito da un
affidamento diretto in base all'articolo 16 del Dlgs 175/2016 e articolo 5
del Dlgs 50/2016, bensì dall'aggiudicazione di un appalto al quale la
società aveva partecipato in qualità di mandataria in Ati con un'altra
impresa del settore.
Sotto questo profilo, la difesa della società ha argomentato in giudizio che
la Corte d'appello avrebbe erroneamente desunto la sussistenza di un
rapporto di servizio «senza tenere conto che nella specie il rapporto tra
[la società] e il Comune (…) avrebbe natura contrattuale privatistica
essendo derivato da un contratto di appalto pubblico, non da un
provvedimento amministrativo di concessione».
La sentenza
L'argomentazione non è stata condivisa dalla Cassazione che ha rigettato il
ricorso proposto confermando in toto il verdetto di condanna.
Il punto è che la giurisdizione contabile nei confronti delle società in
house non si radica, sotto il profilo giuridico, esclusivamente in base al
«controllo analogo» e al disposto di cui all'articolo 12, comma 1, del Dlgs
175/2016, che fa «salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno
erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in
house».
Infatti, secondo i principi generali il presupposto che legittima la
giurisdizione contabile permane il rapporto di servizio con un soggetto
terzo legato da un vincolo giuridico con la Pubblica amministrazione.
Si osserva che la responsabilità amministrativa si configura, di norma, in
relazione a una condotta dolosa o gravemente colposa, posta in essere da un
soggetto collegato da un rapporto di servizio con la Pa, che abbia causato
un danno risarcibile quale conseguenza diretta della condotta stessa.
Ciò che rileva, ai fini della responsabilità amministrativa, non è tanto la
violazione di legittimità in cui sia incorso un atto o di un comportamento
posto in essere da pubblici funzionari e/o amministratori, quanto il fatto
che da un loro comportamento sia sostanzialmente derivato un danno
patrimoniale per l'ente.
Rispetto al danno erariale emerso si rileva, per inciso, che esso può essere
diretto o indiretto, a seconda che l'ente pubblico abbia subito direttamente
il danno da un proprio amministratore o dipendente, oppure, nel caso di
danno indiretto, allorché l'ente debba risarcire soggetti terzi, in ragione
del danno cagionato da propri amministratori o dipendenti.
Ricollegandosi alla nozione del rapporto di servizio, i giudici sostengono
che questo presupposto ricorre «allorché un ente privato esterno
all'amministrazione venga incaricato di svolgere, nell'interesse di quest'ultima
e con risorse pubbliche, un'attività o un servizio pubblico in sua vece, in
tal modo inserendosi pur temporalmente nell'apparato organizzativo della Pa».
Da questo punto di vista, sottolinea il collegio, «resta irrilevante il
titolo in base al quale la gestione è svolta, che può consistere in un
rapporto di pubblico impiego o di servizio, in una concessione
amministrativa, in un contratto e perfino mancare del tutto».
Da quanto sopra esposto deriva che, integrando certamente un rapporto di
servizio con la Pa lo svolgimento continuativo del servizio di raccolta
rifiuti sul territorio, la condanna alla società in house è stata confermata (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
13.09.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: In via generale, per consolidata giurisprudenza, la posa di una recinzione -manufatto essenzialmente destinato a delimitare una determinata proprietà
allo scopo di separarla dalle altre, di custodirla e difenderla da
intrusioni- è solo diretta a far valere lo ius excludendi alios che
costituisce il contenuto tipico del diritto dominicale, di talché anche la
presenza di un vincolo dello strumento pianificatorio non può incidere (di
per sé) negativamente sulla potestà del dominus di chiudere in qualunque
tempo il proprio fondo ai sensi dell' art. 841 c.c..
Il titolo abilitativo edilizio non risulta quindi necessario per modeste
recinzioni di fondi rustici senza opere murarie e cioè per la mera
recinzione con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno, priva
di muretti di sostegno, in quanto entro tali limiti il manufatto rientra tra
le manifestazioni del diritto di proprietà.
Una specifica autorizzazione risulta necessaria solo nell’ipotesi in cui
sull’area sia imposto un vincolo paesaggistico e comunque solo
se sia accertato che non si tratti della mera sostituzione di un’opera
preesistente, nel qual caso non è richiesto il rilascio di alcuna
autorizzazione, in quanto riconducibile, ai sensi dell'art. 149, comma 1, d.lgs.
n. 42/2004, nell'alveo degli interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria.
---------------
Deduce in proposito la ricorrente che debba essere escluso che per
la recinzione e le opere connesse fosse necessario il rilascio del permesso
di costruire, attesa l’assenza di rilevanza edilizia delle medesime.
In dettaglio si lamenta che la recinzione in pali di ferro infissi
direttamente nel terreno e la rete metallica con il relativo cancello in
legno vanno annoverate nell’ambito dell’attività edilizia libera ex artt.
137, comma 1, n. 7, e 136, comma 1, lett. g) l.reg. n. 65/2014.
Si assume,
inoltre, che gli elementi infissi nel suolo sul lato strada della proprietà
si sono resi necessari all’esclusivo fine di contenimento del rialzo del
piano stradale per circa 50 cm. eseguito dal Comune a ridosso della
recinzione stessa.
La tesi merita condivisione.
In via generale, per consolidata giurisprudenza, la posa di una recinzione -manufatto essenzialmente destinato a delimitare una determinata proprietà
allo scopo di separarla dalle altre, di custodirla e difenderla da
intrusioni- è solo diretta a far valere lo ius excludendi alios che
costituisce il contenuto tipico del diritto dominicale, di talché anche la
presenza di un vincolo dello strumento pianificatorio non può incidere (di
per sé) negativamente sulla potestà del dominus di chiudere in qualunque
tempo il proprio fondo ai sensi dell' art. 841 c.c..
Il titolo abilitativo
edilizio non risulta quindi necessario per modeste recinzioni di fondi
rustici senza opere murarie e cioè per la mera recinzione con rete metallica
sorretta da paletti di ferro o di legno, priva di muretti di sostegno, in
quanto entro tali limiti il manufatto rientra tra le manifestazioni del
diritto di proprietà (TAR Lombardia, Brescia, sez. II , 25/09/2018, n.
907; TAR Lazio, sez. II, 04/09/2017, n. 9529; TAR Campania, Salerno,
sez. II, 11/09/2015 n. 1902; TAR Umbria, 18/08/2016 n. 571).
Una specifica autorizzazione risulta necessaria solo nell’ipotesi in cui
sull’area sia imposto un vincolo paesaggistico (titolo che tuttavia, come si
è visto, è stato nel frattempo richiesto dalla ricorrente) e comunque solo
se sia accertato che non si tratti della mera sostituzione di un’opera
preesistente, nel qual caso non è richiesto il rilascio di alcuna
autorizzazione, in quanto riconducibile, ai sensi dell'art. 149, comma 1,
d.lgs. n. 42/2004, nell'alveo degli interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria (TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 25/09/2018, n. 907).
Peraltro è la stessa amministrazione a rilevare che “le sanzioni
paesaggistiche … sono assorbite dall’ingiunzione di demolizione prevedendo
entrambe le norme il ripristino… dovendosi ritenere prevalente la più severa
sanzione edilizia”.
Priva di pregio, giacché sfornita di supporto normativo, si palesa poi
l’affermazione del Comune secondo cui l’assenza di rilevanza edilizia delle
recinzioni sarebbe ammissibile a condizione che esse delimitino giardini e
spazi pertinenziali.
E’ sufficiente in proposito rinviare a quanto disposto dall’art. 137, co. 1,
n. 7, l.reg. n. 65/2014 secondo cui “Sono privi di rilevanza urbanistico-edilizia …7) le recinzioni realizzate in rete con sostegni
semplicemente infissi al suolo senza opere murarie e le staccionate in legno
semplicemente infisse al suolo”.
Quanto a quello che nel provvedimento viene definito un “piccolo cordolo di
cemento lato strada” la relazione depositata dall’amministrazione non reca
alcun ulteriore apporto conoscitivo così che pare ragionevole ritenere
confermata la tesi di parte secondo cui si tratti in realtà di “elementi
prefabbricati in calcestruzzo, semplicemente appoggiati per far fronte
all’esigenza di contenere lo smottamento del terreno”.
Ciò comporta, in relazione al materiale utilizzato e alla facile amovibilità
dello stesso, che anche per tale aspetto dell’opera non fosse necessario il
rilascio di uno specifico titolo edilizio.
Segue da quanto esposto che il ricorso va accolto per quanto ancora di
interesse, per l’effetto annullando in parte qua il provvedimento impugnato
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 22.08.2019 n. 1208 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
SEGRETARI COMUNALI: Segretari
comunali, niente risarcimento danni per la revoca delle funzioni senza fatti
specifici.
Impostata per rigettare il ricorso con il quale un segretario comunale
chiedeva di essere reintegrato a seguito di revoca per violazione dei doveri
di ufficio, la
sentenza 02.08.2019 n. 20842 della
Sez. lavoro della Corte di Cassazione offre spunti importanti sulla
disciplina del rapporto di lavoro dei segretari.
Il rapporto di lavoro
La vicenda ha coinvolto un segretario comunale il cui incarico è stato
revocato prima della scadenza per violazione dei doveri d'ufficio. Il
Tribunale, a cui ha fatto ricorso, ha annullato il provvedimento di revoca,
respinto la domanda di reintegra e accolto parzialmente quella risarcitoria.
La decisione è stata confermata in appello. È stata quindi chiamata in causa
la Suprema Corte che, nell'esaminare il primo motivo relativo al
coinvolgimento del ministero dell'Interno nel processo, ripercorre i
principi che regolano il rapporto di lavoro dei segretari comunali:
a) il rapporto di impiego è caratterizzato dalla non coincidenza
dell'amministrazione datrice di lavoro (Agenzia) con quella che ne utilizza
le prestazioni (Comune o Provincia);
b) in ragione di questa distinzione, nelle controversie giudiziarie non
sussiste una situazione di litisconsorzio necessario con l'Agenzia;
c) tutti gli atti di gestione del rapporto di lavoro rappresentano
manifestazione di poteri propri del privato datore di lavoro;
d) la non coincidenza dell'amministrazione datrice di lavoro con quella
presso la quale il segretario presta servizio può tuttavia avere quale
conseguenza che entrambi i soggetti siano stati tenuti a cooperare per
consentire al dipendente di riprendere la propria prestazione lavorativa e
che l'inadempimento di ciascuna delle proprie e specifiche obbligazioni
generi l'obbligazione risarcitoria.
La fiduciarietà
La Cassazione ha rilevato che tra cessazione del mandato sindacale e
cessazione dell'incarico non vi è alcun automatismo. Ricorda in particolare
che la dipendenza funzionale del segretario dall'organo di vertice dell'ente
locale si traduce nella configurazione di un rapporto caratterizzato
dall'elemento fiduciario, che si esprime nella regola secondo cui la nomina
ha durata corrispondente a quella del mandato del sindaco o del presidente
della provincia che lo ha nominato, con cessazione automatica dall'incarico
con la fine del mandato. Il procedimento di nomina, come la revoca, ha
natura negoziale di diritto privato.
Non sussiste dunque alcun diritto soggettivo alla riconferma, posto che il
segretario è destinato a cessare automaticamente al mutare del
sindaco/presidente, ma c'è la garanzia della stabilità del suo status
giuridico ed economico e del suo rapporto d'ufficio restando iscritto
all'albo nazionale anche dopo la mancata conferma.
Danno alla professionalità
I giudici poi hanno esaminato il motivo secondo cui la perdita delle
mansioni e il collocamento in disponibilità fossero già significativi del
danno alla professionalità affermando che, se è vero che il demansionamento
può essere foriero di danni alla dignità professionale del lavoratore, è del
pari vero che non lo sono di per sé e devono essere dimostrati da chi si
ritiene danneggiato.
Il risarcimento del danno professionale non ricorre automaticamente in tutti
i casi di inadempimento datoriale e non può per questo prescindere da una
specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio.
Non è allora sufficiente a fondare una corretta inferenza presuntiva il
semplice richiamo di categorie generali (nel caso di specie la qualità e
quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della
professionalità coinvolta, la gravità del demansionamento, la sua durata),
ma occorre una precisa individuazione dei fatti idonei e rilevanti.
La retribuzione
Circa il mancato riconoscimento della maggiorazione della retribuzione di
posizione, la Cassazione ha ricordato che il contratto fa riferimento anche
a ulteriori condizioni che devono ricorrere affinché possa essere pretesa,
con rinvio alla contrattazione decentrata integrativa nazionale in modo che
la disposizione contrattuale non può far sorgere il diritto soggettivo a una
equiparazione che prescinda del tutto dalla disponibilità delle risorse,
perché ciò equivarrebbe a legittimare spese non compatibili con le capacità
dell'ente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
13.09.2019).
---------------
MASSIMA
E' comunque opportuno ricordare che la disciplina del rapporto di
lavoro dei segretari comunali è stata ripetutamente interpretata dalla
giurisprudenza di questa Corte (v. in particolare Cass. 15.05.2012, n.
7510) che ha delineato i seguenti principi:
a) il rapporto di impiego di questi dipendenti è sempre stato
caratterizzato dalla non coincidenza dell'amministrazione datrice di lavoro
con quella che ne utilizza le prestazioni (così Cass., Sez. Un., 20.06.2007, n. 14288);
con l'importante riforma del relativo ordinamento
introdotta dalla l. n. 127 del 1997 e dal d.P.R. n. 465 del 1997 (le cui
norme sono state, poi, trasfuse nel d.lgs. 18.08.2000, n. 267 Testo
unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, contenente il regime
definitivo), l'amministrazione datrice di lavoro dei segretari è diventata
l'Agenzia autonoma per la gestione dell'albo dei segretari comunali e
provinciali, avente personalità giuridica di diritto pubblico (d.lgs. n. 267
del
2000, art. 102, oggi abrogato a seguito dell'intervenuta soppressione
dell'Agenzia per effetto del d.l. n. 78 del 2010, convertito con legge n.
122
del 2010);
b) è rimasta confermata la peculiarità della non coincidenza -di
regola, salvo i pochi casi di permanenza in disponibilità, con utilizzazione
diretta da parte dell'Agenzia, ai sensi del d.P.R. n. 465 del 1997, art. 7,
comma 1,- dell'amministrazione datrice di lavoro (Agenzia) con quella che
ne utilizza le prestazioni (Comune o Provincia);
c) in ragione di tale distinzione, nelle controversie giudiziarie
relative
al rapporto tra segretario comunale ed ente utilizzatore non sussiste una
situazione di litisconsorzio necessario con la predetta Agenzia (v. Cass. 16.07.2010, n. 16698; Cass. 11.08.2016, n. 17065);
d) tutti gli atti di gestione del rapporto di lavoro del segretario
comunale, compresi quelli posti in essere dall'amministrazione locale
nell'ambito del rapporto di lavoro con la stessa instaurata (tra cui la
revoca
dall'incarico ai sensi della l. 15.05.1997, n. 127, art. 17, comma 71),
rappresentano manifestazione di poteri propri del privato datore di lavoro
(così Cass., Sez. Un., 24.05.2006 n. 12224);
e) la non coincidenza dell'amministrazione datrice di lavoro con
quella
presso la quale il segretario presta servizio può tuttavia avere quale
conseguenza che entrambi tali soggetti, ciascuno per la propria parte,
siano stati tenuti a cooperare per consentire al dipendente di riprendere la
propria prestazione lavorativa e che l'inadempimento di ciascuna di tali
proprie e specifiche obbligazioni generi l'obbligazione risarcitoria di cui
all'art. 1218 cod. civ. (questa Corte, infatti, ha da tempo affermato che è
da riconoscere al privato una tutela piena nei confronti di un atto che
appartiene alla gestione di un rapporto di lavoro assunto dalla PA con le
capacità e i poteri del datore di lavoro privato: vedi, per tutte: Cass.,
Sez.
Un., 19.10.1998, n. 10370; Cass., Sez. Un., 16.02.2009, n.
3677; Cass. 03.03.2012, n. 3419).
...
4.
Il motivo è infondato.
Va innanzitutto ricordato che
la dipendenza funzionale del segretario
dall'organo di vertice dell'ente locale (competente per la nomina e la
revoca) si traduce nella configurazione di un rapporto caratterizzato
dall'elemento fiduciario, che si esprime nella regola secondo cui la nomina
ha durata corrispondente a quella del mandato del sindaco o del presidente
della provincia che lo ha nominato, con cessazione automatica
dall'incarico con la fine del mandato, pur dovendo il titolare della carica
continuare ad esercitare le funzioni sino alla nomina del
nuovo segretario (d.lgs. n. 267/2000, art. 99, comma 2).
La nomina è
disposta non prima di sessanta giorni e non oltre centoventi giorni dalla
data di insediamento del sindaco e del presidente della provincia, decorsi
i quali il segretario già in carica è confermato (art. 99, comma 3). A tal
fine il sindaco, o il presidente della provincia, individua il nominativo
del
segretario prescelto, a norma delle disposizioni contenute nell'articolo 11,
e ne chiede l'assegnazione al competente consiglio di amministrazione
dell'Agenzia, il quale provvede entro sessanta giorni dalla richiesta.
Quanto al procedimento di nomina del segretario comunale o
provinciale questa Corte ha affermato che lo stesso (al pari di quello di
revoca) ha natura negoziale di diritto privato, in quanto posto in essere
dall'ente locale con la capacità e i poteri del datore di lavoro (v. Cass.
31.10.2017, n. 25960; Cass. 15.05.2012, n. 7510; Cass. 09.02.2007, 25969; Cass., Sez. Un., 20.06.2005, n. 16876; Cass., Sez. Un.,
12.08.2005, n. 166876).
La natura fiduciaria dell'incarico, che termina con la scadenza
dell'organo amministrativo elettivo di riferimento, è stata, in particolare,
affermata da questa Corte con riferimento alla tipologia e alla varietà dei
compiti di collaborazione e di assistenza giuridico-amministrativa nei
confronti degli organi comunali in ordine alla conformità dell'azione
amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti in piena coerenza
con il ruolo del segretario quale controllore di legalità (art. 97, comma
2, del d.lgs. n. 267 del 2000) nonché alle funzioni consultive, referenti e
di assistenza alle riunioni del consiglio e della giunta (art. 97, comma 4,
lett. a, del d.lgs. n. 267 del 2000) -v. Cass. 23.08.2008, n. 12403;
Cass. 01.07.2008, n. 17974 e da ultimo Corte Costituzionale n. 23 del
22.02.2019-.
Peraltro le indicate funzioni si sono anche arricchite con la legislazione
successiva: in particolare, con la l. n. 190 del 2012 (Disposizioni per la
prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella
pubblica
amministrazione), nonché con il d.lgs. n. 33 del 2013 (Riordino della
disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di
pubblicità,
trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche
amministrazioni) che attribuiscono al segretario comunale, di norma,
il ruolo di responsabile della prevenzione della corruzione e quello di
responsabile della trasparenza.
Né, in ragione di detta fiduciarietà, che evidentemente non si esaurisce
con l'atto di nomina, può dirsi che sussista un diritto soggettivo alla
riconferma.
Il segretario comunale è, infatti, destinato a cessare automaticamente
dalle proprie funzioni al mutare del sindaco (salvo conferma), eppure
anche in tal caso è garantito nella stabilità del suo status giuridico ed
economico e del suo rapporto d'ufficio, restando iscritto all'Albo dopo la
mancata conferma e restando perciò a disposizione per successivi
incarichi.
La legge è chiara nello stabilire che il segretario decade
"automaticamente dall'incarico con la cessazione del mandato del
sindaco", tuttavia lo stesso è chiamato a continuare nelle sue funzioni per
un periodo non inferiore a due e non superiore a quattro mesi, in attesa di
eventuale conferma, a garanzia della stessa continuità dell'azione
amministrativa.
Tale essendo il quadro in cui si colloca la pretesa reintegratoria del
ricorrente, va detto che, anche a voler ritenere applicabile (per l'analoga
fiduciarietà che caratterizza l'affidamento dell'incarico dirigenziale) il
principio affermato da Cass. n. 3677/2009 cit. con riferimento alla revoca
dell'incarico dirigenziale in ipotesi di non sussistenza della giusta causa
per
il recesso anticipato dal contratto a tempo determinato ed al diritto del
dirigente alla riassegnazione di tale incarico precedentemente revocato,
per il tempo residuo di durata (che, nel caso in esame, comprenderebbe
anche quello dell'automatica obbligatoria prosecuzione in attesa di
eventuale conferma), detratto il periodo di illegittima revoca, tuttavia la
stessa non è decisiva perché sconta la circostanza, pacifica agli atti, che
la
Fr. a far data dal 03/01/2012 (e dunque ben prima della pronuncia di
primo grado) prestava servizio presso la Prefettura di Bergamo ed era
stata cancellata dall'Albo dei Segretari Comunali (v. pag. 6 del ricorso per
cassazione).
Dunque aveva perso uno dei requisiti necessari perché si
potesse ricostituire il rapporto.
5.
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt. 97, 99, 100 e 101 del d.lgs. n. 267/2000, dell'art.
19 del d.lgs. n. 165/2001, dell'art. 2103 cod. civ., degli artt. 1218, 1223
e 2059 cod. civ. nonché omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio
in relazione al rigetto della domanda di risarcimento del danno alla
professionalità.
Sostiene che la perdita delle mansioni e il collocamento in disponibilità
fossero già significativi del danno alla professionalità.
6. Il motivo è infondato.
Se è vero che il demansionamento ben può essere foriero di danni al
bene immateriale della dignità professionale del lavoratore, è del pari vero
che -per costante giurisprudenza di questa S.C.-
essi non sono in re ipsa
e devono pur sempre essere dimostrati (seppure, eventualmente, a mezzo
presunzioni e/o massime di esperienza) da chi si assume danneggiato (cfr.,
ex aliis, Cass., Sez. Un., 24.03.2006, n. 6572).
Il principio è stato ulteriormente precisato in successive decisioni in
particolare evidenziandosi che
il risarcimento del danno professionale, non
ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, non
può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del
giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo
(così
Cass. 14.11.2016, n. 23146; Cass. 17.11.2016, n. 23432)
e che, se la relativa prova può essere acquisita in giudizio con tutti i
mezzi
consentiti dall'ordinamento, assumendo precipuo rilievo quella per
presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi
dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno ed
all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione
di
precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti
negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) potendosi,
attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto
ignoto, ossia all'esistenza del danno (così Cass. 19.12.2008, n.
29832 e negli stessi termini Cass. 18.09.2015, n. 18431),
tuttavia
il ricorso alle presunzioni è consentito a condizione che sia stata allegata
la natura del pregiudizio e che il ricorrente abbia dedotto e provato
circostanze diverse ed ulteriori rispetto al mero inadempimento, che
possano essere valorizzate per risalire dal fatto noto a quello ignoto (v.
Cass. 19.08.2016, n. 17214).
In tema di prova del danno da dequalificazione professionale ex art.
2729 cod. civ., non è allora sufficiente a fondare una corretta inferenza
presuntiva il semplice richiamo di categorie generali (come la qualità e
quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della
professionalità coinvolta, la gravità del demansionamento, la sua durata e
altre simili), dovendo il giudice di merito procedere, pur nell'ambito di
tali
categorie, ad una precisa individuazione dei fatti che assume idonei e
rilevanti ai fini della dimostrazione del fatto ignoto, alla stregua di
canoni
di probabilità e regole di comune esperienza (v. Cass. 18.08.2016, n.
17163).
Nella specie, il giudice di merito, facendo corretta applicazione degli
indicati principi, con accertamento di fatto non surrogabile in questa sede,
ha ritenuto che la Fr. si fosse limitata a prospettare un danno in re ipsa senza dedurre una sola circostanza concreta atta a dimostrare la
sussistenza di un danno risarcibile e così omettendo di fornire al
giudicante
i parametri necessari per giungere ad una valutazione seppure presuntiva.
Alle suddette considerazioni la ricorrente oppone, in modo
inammissibile, una diversa lettura delle risultanze di cause.
Né del resto è sostenibile che la perdita dell'incarico, proprio per il
peculiare funzionamento e per la dinamica professionale del segretario
comunale, possa identificare un fatto ex se generatore di un danno alla
professionalità. |
PUBBLICO IMPIEGO: Il
patteggiamento legittima il licenziamento disciplinare.
Ai fini della responsabilità disciplinare e del conseguente licenziamento
intimato al dipendente pubblico, la sentenza di patteggiamento divenuta
irrevocabile equivale a una pronuncia di condanna.
Sulla base di questo principio la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la
sentenza 31.07.2019 n. 20721 ha rigettato il ricorso del tecnico di un Comune,
addetto al settore lavori pubblici, contro la decisione del Tribunale che
aveva respinto l'impugnativa del licenziamento disciplinare intimato al
dipendente, quale conseguenza della sentenza penale di patteggiamento per i
reati di turbativa d'asta e corruzione pronunciata dal medesimo Tribunale,
in sede penale.
La Corte d'Appello adita dal tecnico comunale aveva respinto il gravame
avverso la sentenza di primo grado, e la Suprema Corte ha confermato la
linea di giudizio, anche perché l'ha ritenuta coerente con il tenore
letterale dell'articolo 445 del codice di procedura penale, che prevede, per
quanto riguarda gli effetti dell'applicazione della pena su richiesta, che
la sentenza sia equiparata a una pronuncia di condanna (comma 1-bis).
Il presupposto per il licenziamento disciplinare
Non è la prima volta che la giurisprudenza si occupa della questione per il
fatto che, nella generalità dei casi, le norme della contrattazione
collettiva afferente il pubblico impiego citano, quale presupposto per
attivare il licenziamento disciplinare, la sentenza penale di condanna
passata in giudicato, mentre sul punto si è sostenuto che l'applicazione
della pena su richiesta dell'imputato non sarebbe tecnicamente configurabile
come una sentenza di condanna.
Il dubbio è stato risolto dall'orientamento dominante, secondo cui il
giudice di merito, nell'interpretare la clausola contrattuale frutto della
volontà delle parti collettive, può ben ritenere che queste, nell'usare
l'espressione «sentenza di condanna» abbiano inteso evocare il concetto in
senso lato, tenuto conto che nell'ipotesi di patteggiamento, articolo 444
del codice di procedura penale, l'imputato non nega la propria
responsabilità ma esonera l'accusa dell'onere della relativa prova in cambio
di una riduzione di pena.
Ne deriva che la sentenza di patteggiamento assume efficacia di sentenza
irrevocabile di condanna nel procedimento disciplinare, con riguardo
all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e
dell'affermazione che l'imputato lo ha commesso.
L'orientamento della giurisprudenza
A onor del vero, non è mancata qualche pronuncia fuori dal coro, che ha
osservato come «la sentenza pronunciata a norma dell'articolo 444 del Cpc
non è una vera e propria sentenza di condanna (…) con la conseguenza che,
dovendosi escludere che siffatta sentenza possa acquisire autorità di
giudicato, la stessa non può rilevare ai fini della definizione di un
processo civile avente a oggetto la legittimità di un licenziamento fondato
esclusivamente su una disposizione del contratto collettivo che consente la
risoluzione del rapporto di lavoro nell'ipotesi di condanna a pena detentiva
comminata al lavoratore con sentenza passata in giudicato» (Cassazione
sentenza n. 7196/2006).
Si tratta però di pronunce isolate, che nel corso del tempo sono state
superate da un orientamento di segno opposto.
L'analisi della Corte
La Cassazione ha avallato l'indirizzo dominante sostenendo che, a fronte di
un chiaro orientamento normativo, «non vi è ragione di trasporre, sul piano
disciplinare, distinguo e varianti fondate sulle caratteristiche intrinseche
della sentenza di patteggiamento che sono proprie dell'ambito penale in
senso stretto».
Di qui il principio secondo cui la sentenza di patteggiamento divenuta
irrevocabile produce effetti di giudicato nel giudizio sulla responsabilità
disciplinare del dipendente pubblico quanto all'accertamento del fatto,
della sua illiceità penale e riferibilità al dipendente stesso (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
04.09.2019). |
ATTI AMMINISTRATIVI: In
materia di risarcimento del danno.
Il principio generale dell’onere della prova previsto
nell’art. 2697 cod. civ. si applica anche all’azione di risarcimento per
danni proposta dinanzi al giudice amministrativo, con la conseguenza che
spetta al danneggiato dare in giudizio la prova di tutti gli elementi
costitutivi della fattispecie risarcitoria, e quindi del danno di cui si
invoca il ristoro per equivalente monetario, con la conseguenza che, laddove
la domanda di risarcimento manchi dalla prova del danno da risarcire, la
stessa deve essere respinta.
Pertanto, il danno ingiusto va dimostrato sia sotto il profilo
dell’esistenza, sia sotto il profilo dell’ammontare, sicché in mancanza di
idonea allegazione e di prova da parte di colui che assume di essere stato
danneggiato, non può essere accordato alcun risarcimento.
Né al riguardo può sopperire la liquidazione equitativa del giudice, che ha
natura sussidiaria e non sostitutiva dell’onere di allegazione e di prova
della parte: essa interviene laddove l’impossibilità o l’estrema difficoltà
di una stima esatta dei danni patiti dal danneggiato dipenda da fattori
oggettivi e non dalla negligenza di questi nell’adempiere all’onere su di
esso incombente
---------------
La domanda di risarcimento dei danni avanzata dal ricorrente, deve essere
respinta, in quanto assolutamente generica e sfornita di prova, atteso che
il ricorrente si limita a chiedere il risarcimento di € 50.000, ovvero della
somma “che sarà per risultare ovvero ritenuta per equità”.
Per costante giurisprudenza, invero, il principio generale dell’onere della
prova previsto nell’art. 2697 cod. civ. si applica anche all’azione di
risarcimento per danni proposta dinanzi al giudice amministrativo, con la
conseguenza che spetta al danneggiato dare in giudizio la prova di tutti gli
elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria, e quindi del danno di
cui si invoca il ristoro per equivalente monetario, con la conseguenza che,
laddove la domanda di risarcimento manchi dalla prova del danno da
risarcire, la stessa deve essere respinta (v., tra le altre, Cons. Stato,
Sez. VI, 19/11/2018 n. 6506).
Pertanto, il danno ingiusto va dimostrato sia sotto il profilo
dell’esistenza, sia sotto il profilo dell’ammontare, sicché in mancanza di
idonea allegazione e di prova da parte di colui che assume di essere stato
danneggiato, non può essere accordato alcun risarcimento; né al riguardo può
sopperire la liquidazione equitativa del giudice, che ha natura sussidiaria
e non sostitutiva dell’onere di allegazione e di prova della parte: essa
interviene laddove l’impossibilità o l’estrema difficoltà di una stima
esatta dei danni patiti dal danneggiato dipenda da fattori oggettivi e non
dalla negligenza di questi nell’adempiere all’onere su di esso incombente
(v. TAR Lombardia, Sez. II, 06/02/2019 n. 269)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 15.07.2019 n. 1629 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: A)
ai sensi dell'art. 37, ult. comma, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, “la
mancata denuncia di inizio dell'attività non comporta l'applicazione delle
sanzioni previste dall'articolo 44. Resta comunque salva, ove ne ricorrano i
presupposti in relazione all'intervento realizzato, l'applicazione delle
sanzioni di cui agli articoli 31, 33, 34, 35 e 44 e dell'accertamento di
conformità di cui all'articolo 36”;
B) secondo la costante giurisprudenza, “in presenza di
abusivismo edilizio, ai sensi degli artt. 22 e 37, comma 1, d.p.r. n.
380/2001 (T.U. Edilizia), l'applicabilità della sanzione pecuniaria è
limitata ai soli interventi astrattamente realizzabili previa denuncia
d'inizio attività che siano, altresì, conformi agli strumenti urbanistici
vigenti”;
C) pertanto, laddove manchino i presupposti per l'intervento, come,
per l'appunto, nel caso in cui l'opera sia stata posta in essere in
violazione del norme edilizie, è ammessa l'adozione
dell'ordinanza di demolizione.
Da ciò ne consegue che, sebbene l'intervento in esame possa dirsi sottoposto
a DIA, lo stesso, in ragione della descritta contrarietà alla normativa
comunale (per quanto si è detto e quindi che l’opera in concreto
realizzata non può considerarsi organismo edilizio completamente interrato,
come invece il proprietario aveva rappresentato di voler realizzare
presentando la d.i.a iniziale e quella in variante e che la predetta opera è
stata costruita grazia ad un innalzamento del piano di campagna oltre i
limiti consentiti dall’art. 4, comma 3, punto 5, delle N.T.A. al vigente
P.R.G.), rientra nelle ipotesi eccezionali che, in considerazione della
gravità dell'illecito, giustificano l'adozione della massima sanzione della
demolizione, così derogando alla regola che prevede per tali casi
l'applicazione della sola sanzione pecuniaria.
---------------
8. – Quanto poi alle rimanenti censure (ri)proposte nei motivi di appello,
non resta che rammentare che:
A) ai sensi dell'art. 37, ult. comma, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, “la
mancata denuncia di inizio dell'attività non comporta l'applicazione delle
sanzioni previste dall'articolo 44. Resta comunque salva, ove ne ricorrano i
presupposti in relazione all'intervento realizzato, l'applicazione delle
sanzioni di cui agli articoli 31, 33, 34, 35 e 44 e dell'accertamento di
conformità di cui all'articolo 36”.
B) secondo la costante giurisprudenza, “in presenza di
abusivismo edilizio, ai sensi degli artt. 22 e 37, comma 1, d.p.r. n.
380/2001 (T.U. Edilizia), l'applicabilità della sanzione pecuniaria è
limitata ai soli interventi astrattamente realizzabili previa denuncia
d'inizio attività che siano, altresì, conformi agli strumenti urbanistici
vigenti” (così Cons. Stato, Sez. VI, 24.05.2013 n. 2873);
C) pertanto, laddove manchino i presupposti per l'intervento, come,
per l'appunto, nel caso in cui l'opera sia stata posta in essere in
violazione del norme edilizie come è stato evidenziato dalla sentenza che
qui viene appellata e come è confermato dall’esame della documentazione
depositata (anche) nella sede di appello, è ammessa l'adozione
dell'ordinanza di demolizione.
Da ciò ne consegue che, sebbene l'intervento in esame possa dirsi sottoposto
a DIA, lo stesso, in ragione della descritta contrarietà alla normativa
comunale (per quanto si è sopra detto e quindi che l’opera in concreto
realizzata non può considerarsi organismo edilizio completamente interrato,
come invece il proprietario aveva rappresentato di voler realizzare
presentando la d.i.a iniziale e quella in variante e che la predetta opera è
stata costruita grazia ad un innalzamento del piano di campagna oltre i
limiti consentiti dall’art. 4, comma 3, punto 5, delle N.T.A. al vigente
P.R.G.), rientra nelle ipotesi eccezionali che, in considerazione della
gravità dell'illecito, giustificano l'adozione della massima sanzione della
demolizione, così derogando alla regola che prevede per tali casi
l'applicazione della sola sanzione pecuniaria
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.05.2019 n. 3110 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L'Amministrazione
che abbia richiesto e ottenuto un parere, sia pure solo facoltativo, non può
adottare determinazioni in contrasto con l'avviso dell'organo consultato,
senza esternare, mediante congrua motivazione, le ragioni che la inducono a
disattendere le considerazioni e le conclusioni contenute nel parere
medesimo.
Altresì, "Quando la pubblica amministrazione ha volontariamente acquisito un
parere non obbligatorio, essa ha autonomamente vincolato la formazione della
propria volontà alla acquisizione di chiarimenti o conoscenze non in suo
possesso e dunque non può, successivamente, non tenerne conto".
Alla luce di quanto appena riportato consegue che l'amministrazione,
allorché richieda sia pure facoltativamente un dato parere ad un organo
tecnico-amministrativo (ai sensi dell'art. 16, comma 1, secondo periodo,
della legge n. 241 del 1990), deve successivamente tenerne conto in sede di
decisione definitiva. Con l'ulteriore obbligo di specificare i motivi per
cui ritenga eventualmente di discostarsene.
E ciò anche in ossequio ad un principio di coerenza dell'azione
amministrativa che risiede nel più generale canone della certezza e della
sicurezza giuridica, in particolare laddove taluni interessi dei singoli
cittadini e delle singole imprese siano affidati, proprio come nel caso di
specie, alle cure di una pubblica amministrazione.
---------------
Analogamente deve essere disattesa l’ulteriore censura, a mezzo della quale
si lamenta l’allegata incongruenza tra la richiesta di parere all’avvocatura
comunale e la delibera tutoria impugnata, essendo sufficiente, in proposito,
rilevare che, con la richiesta di un parere facoltativo l'amministrazione
richiedente non opera una sorta di autolimitazione, nel senso che non può
certamente procedere all'adozione dell'atto provvedimentale se non dopo che
l'organo consultato si sia espresso.
In tal senso si è, del resto, espressa nel tempo la prevalente
giurisprudenza amministrativa: "L'Amministrazione che abbia richiesto e
ottenuto un parere, sia pure solo facoltativo, non può adottare
determinazioni in contrasto con l'avviso dell'organo consultato, senza
esternare, mediante congrua motivazione, le ragioni che la inducono a
disattendere le considerazioni e le conclusioni contenute nel parere
medesimo" (TAR Marche, sez. I, 13.12.2005, n. 1646); ed ancora: "Quando
la pubblica amministrazione ha volontariamente acquisito un parere non
obbligatorio, essa ha autonomamente vincolato la formazione della propria
volontà alla acquisizione di chiarimenti o conoscenze non in suo possesso e
dunque non può, successivamente, non tenerne conto" (Cons. giust. amm.
Sicilia, sez. giurisd., 21.11.2007, n. 1049).
Alla luce di quanto appena riportato consegue che l'amministrazione,
allorché richieda sia pure facoltativamente un dato parere ad un organo
tecnico-amministrativo (ai sensi dell'art. 16, comma 1, secondo periodo,
della legge n. 241 del 1990), deve successivamente tenerne conto in sede di
decisione definitiva. Con l'ulteriore obbligo di specificare i motivi per
cui ritenga eventualmente di discostarsene. E ciò anche in ossequio ad un
principio di coerenza dell'azione amministrativa che risiede nel più
generale canone della certezza e della sicurezza giuridica, in particolare
laddove taluni interessi dei singoli cittadini e delle singole imprese siano
affidati, proprio come nel caso di specie, alle cure di una pubblica
amministrazione
(TAR
Lazio-Latina,
sentenza 24.08.2018 n. 465 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA:
L’onere motivazionale,
gravante sull’amministrazione nel caso di annullamento in autotutela di un
piano attuativo in precedenza adottato, deve ritenersi comunque attenuato in
ragione della natura generale dell’atto e della rilevanza degli interessi
pubblici tutelati.
Pertanto laddove venga in rilievo la tutela di preminenti valori pubblici di
carattere ‘autoevidente’, l’onere motivazionale gravante
sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il richiamo alle
pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che
risultano in concreto violate le quali normalmente possano integrare le
ragioni di interesse pubblico che depongono nel senso dell’esercizio del ius
poenitendi.
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Non possono ritenersi violati i principi di presunzione di legittimità
dell’atto amministrativo e di tipicità nominativa dei provvedimenti
amministrativi stante, da un lato, che per condivisa giurisprudenza
"la legittimità di un atto amministrativo va accertata con riguardo allo
stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione,
secondo il principio del tempus regit actum. Sicché non si può validare ex
post un'azione amministrativa che al momento in cui fu adottata si
appalesava illegittima, se non con le regole e nei limiti della autotutela"
e dall’altro che l’autotutela d’ufficio rientra a pieno diritto tra i
tipi funzionali che il legislatore prevede espressamente per realizzare il
fine pubblico.
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Con specifico riguardo alla
motivazione, va osservato quanto segue:
- il commissario straordinario, con la delibera n. 208/2016
impugnata, si è soffermato sulla sussistenza di plurimi profili di
illegittimità nei piani attuativi approvati dall’ente regionale per
silentium, enucleando le specifiche ragioni ostative ad intraprendere
possibili rimedi in chiave conservativa;
- l'intervento contemplato nel piano attuativo di che trattasi
riguarda una superficie estesa di territorio e prevede la realizzazione di
una volumetria di rilevante entità che esula dalle previsioni del p.r.g., e
perciò non può essere giustificata se non con un intervento volto a variare
l’esistente;
- l’istituto invocato della compensazione/perequazione, a parte il
fatto che il relativo regolamento non è stato recepito dagli strumenti di
pianificazione generale, non può ragionevolmente costituire un valido
correttivo idoneo a sanare il contestato Piano;
- l'esigenza di evitare la compromissione di una porzione così
ampia di territorio non sembra potersi ricondurre al solo ripristino della
legalità violata, ma costituisce valida ragione di interesse pubblico che
sorregge l'adozione di un provvedimento di autotutela come quello impugnato.
I vizi sostanziali riscontrati dal commissario straordinario -tra cui una
decurtazione del 20% della volumetria rilevata che avrebbe consentito una
maggiore disponibilità di volumetria realizzabile di circa 277,722 mc oltre
a quella di mc 130.388 ancora da realizzare- fanno del piano
particolareggiato, solo formalmente tale, un vero e proprio strumento in
variante al p.r.g., che avrebbe dovuto essere sottoposto all’adozione del
Consiglio Comunale e all’approvazione della Regione.
La società ricorrente richiama norme inconferenti o invoca in modo assai
generico lo strumento della perequazione (anzi l’aumento della volumetria
privata dimostra il mancato esercizio della perequazione).
Tanto è sufficiente a dare riscontro alla ritenuta illegittimità del P.P.E.
Il metodo seguito è corretto: procedimento analogo a quello compiuto per
l’approvazione dell’atto oggetto dell’annullamento d’ufficio, con pubblicità
per l’avvio del procedimento (senza comunicazione individuale, dato che non
ci sono soggetti nominati nel p.p.e. quali specifici destinatari), raccolta
delle osservazioni e loro valutazione, quindi adozione del provvedimento di
autotutela.
Va rilevato che l’onere motivazionale, comunque gravante
sull’amministrazione nel caso di annullamento in autotutela del strumento
attuativo in precedenza adottato, deve ritenersi comunque attenuato in
ragione della natura generale dell’atto e della rilevanza degli interessi
pubblici tutelati.
Pertanto laddove venga in rilievo la tutela di preminenti valori pubblici di
carattere ‘autoevidente’, l’onere motivazionale gravante
sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il richiamo alle
pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che
risultano in concreto violate le quali normalmente possano integrare le
ragioni di interesse pubblico che depongono nel senso dell’esercizio del
ius poenitendi.
Né possono ritenersi violati i principi di presunzione di legittimità
dell’atto amministrativo e di tipicità nominativa dei provvedimenti
amministrativi stante, da un lato, che per condivisa giurisprudenza (si veda
ancora di recente Consiglio di Stato, Sez. IV, 28.06.2016, n. 2892) "la
legittimità di un atto amministrativo va accertata con riguardo allo stato
di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo il
principio del tempus regit actum. Sicché non si può validare ex post
un'azione amministrativa che al momento in cui fu adottata si appalesava
illegittima, se non con le regole e nei limiti della autotutela" e
dall’altro che l’autotutela d’ufficio rientra a pieno diritto tra i tipi
funzionali che il legislatore prevede espressamente per realizzare il fine
pubblico (TAR
Lazio-Latina,
sentenza 24.08.2018 n. 465 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
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