e-mail
info.ptpl@tiscali.it

APPALTI
CONVEGNI
FORUM
G.U.R.I. - G.U.U.E. - B.U.R.L.
LINK
NEWS PUBBLICATE:
1-aggiornam. pregressi
2-Corte dei Conti
3-
dite la vostra ...
4-dottrina e contributi
5-funzione pubblica
6-giurisprudenza
7-modulistica
8-news
9-normativa
10-note, circolari e comunicati
11-quesiti & pareri
12-utilità
- - -
DOSSIER
:
13-
ABBAINO
14-
ABUSI EDILIZI
15-
AFFIDAMENTO IN HOUSE
16-AGIBILITA'
17-AMIANTO
18-ANAC (già AVCP)
19
-APPALTI
20-ARIA
21-ASCENSORE
22-ASL + ARPA
23-ATTI AMMINISTRATIVI
24-ATTI AMMINISTRATIVI (accesso esposto e/o permesso di costruire e/o atti di P.G.)
25-ATTI AMMINISTRATIVI (impugnazione-legittimazione)
26-ATTIVITA' COMMERCIALE IN LOCALI ABUSIVI
27-BARRIERE ARCHITETTONICHE
28-BOSCO
29-BOX
30-CAMBIO DESTINAZIONE D'USO (con o senza opere)
31-CANCELLO, BARRIERA, INFERRIATA, RINGHIERA in ferro - SBARRA/STANGA
32-CANNE FUMARIE e/o COMIGNOLI
33-CARTELLI STRADALI
34-CARTELLO DI CANTIERE - COMUNICAZIONE INIZIO LAVORI
35-CERTIFICATO DESTINAZIONE URBANISTICA
36-CERIFICAZIONE ENERGETICA e F.E.R.
37
-C.I.L. e C.I.L.A.
38
-COMPETENZE GESTIONALI
39
-COMPETENZE PROFESSIONALI - PROGETTUALI
40-CONDIZIONATORE D'ARIA
41-CONDOMINIO
42-CONSIGLIERI COMUNALI
43-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE
44-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (gratuità per oo.pp. e/o private di interesse pubblico)
45-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (prescrizione termine dare/avere e legittimazione alla restituzione)
46-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (rateizzato e/o ritardato versamento)
47-DEBITI FUORI BILANCIO
48-DEFINIZIONI INTERVENTI EDILIZI
49-DIA e SCIA
50-DIAP
51-DISTANZA dagli ALLEVAMENTI ANIMALI
52-DISTANZA dai CONFINI
53-DISTANZA dai CORSI D'ACQUA - DEMANIO MARITTIMO/LACUALE
54-DISTANZA dalla FERROVIA

55-DISTANZA dalle PARETI FINESTRATE
56-DURC
57-EDICOLA FUNERARIA
58-EDIFICIO UNIFAMILIARE
59-ESPROPRIAZIONE
60-GESTIONE ASSOCIATA FUNZIONI COMUNALI
61-INCARICHI LEGALI e/o RESISTENZA IN GIUDIZIO
62-INCARICHI PROFESSIONALI E PROGETTUALI
63-INCENTIVO PROGETTAZIONE (ora INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE)
64-INDUSTRIA INSALUBRE
65-L.R. 12/2005
66-L.R. 23/1997
67-L.R. 31/2014
68-LEGGE CASA LOMBARDIA
69-LICENZA EDILIZIA (necessità)
70-LOTTO EDIFICABILE - ASSERVIMENTO AREA - CESSIONE CUBATURA
71-LOTTO INTERCLUSO
72-MAPPE e/o SCHEDE CATASTALI (valore probatorio o meno)
73-MOBBING
74-MURO DI CINTA/RECINZIONE, DI CONTENIMENTO/SOSTEGNO, ECC.
75-OPERE PRECARIE
76-PARERE DI REGOLARITA' TECNICA, CONTABILE E DI LEGITTIMITA'
77-PATRIMONIO
78-PERGOLATO e/o GAZEBO e/o BERCEAU e/o DEHORS e/o POMPEIANA e/o PERGOTENDA e/o TETTOIA
79-PERMESSO DI COSTRUIRE (annullamento e/o impugnazione)
80-PERMESSO DI COSTRUIRE (decadenza)
81-PERMESSO DI COSTRUIRE (deroga)
82-PERMESSO DI COSTRUIRE (legittimazione richiesta titolo)
83-PERMESSO DI COSTRUIRE (parere commissione edilizia)
84-PERMESSO DI COSTRUIRE (prescrizioni)
85-PERMESSO DI COSTRUIRE (proroga)
86-PERMESSO DI COSTRUIRE (verifica in istruttoria dei limiti privatistici al rilascio)
87
-
PERMESSO DI COSTRUIRE (volturazione)
88-
PERTINENZE EDILIZIE ED URBANISTICHE
89-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI
90-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI (aree a standard)
91-PIF (Piano Indirizzo Forestale)
92-PISCINE
93-PUBBLICO IMPIEGO
94-PUBBLICO IMPIEGO (quota annuale iscrizione ordine professionale)
95-RIFIUTI E BONIFICHE
96-
RINNOVO/PROROGA CONTRATTI
97-RUDERI
98-
RUMORE
99-SAGOMA EDIFICIO
100-SANATORIA GIURISPRUDENZIALE E NON (abusi edilizi)
101-SCOMPUTO OO.UU.
102-SEGRETARI COMUNALI
103-SEMINTERRATI
104-SIC-ZSC-ZPS - VAS - VIA
105-SICUREZZA SUL LAVORO
106
-
SILOS
107-SINDACATI & ARAN
108-SOPPALCO
109-SOTTOTETTI
110-SUAP
111-SUE
112-STRADA PUBBLICA o PRIVATA o PRIVATA DI USO PUBBLICO
113-
TELEFONIA MOBILE
114-TENDE DA SOLE
115-TINTEGGIATURA FACCIATE ESTERNE
116-TRIBUTI LOCALI
117-VERANDA
118-VINCOLO CIMITERIALE
119-VINCOLO IDROGEOLOGICO
120-VINCOLO PAESAGGISTICO + ESAME IMPATTO PAESISTICO + VINCOLO MONUMENTALE
121-VINCOLO STRADALE
122-VOLUMI TECNICI / IMPIANTI TECNOLOGICI

123-ZONA AGRICOLA
124-ZONA SISMICA E CEMENTO ARMATO

NORMATIVA:
dt.finanze.it
entilocali.leggiditalia.it

leggiditaliaprofessionale.it

SITI REGIONALI
STAMPA
 
C.A.P.
Codice Avviamento Postale

link 1 - link 2
CONIUGATORE VERBI
COSTO DI COSTRUZIONE
(ag
g. indice istat):

link 1-BG - link 2-MI
link 3-CR
DIZIONARI
indici ISTAT:
link 1 - link 2 - link 3-BG
link 4-MI

interessi legali:
link 1
MAPPE CITTA':
link 1 - link 2
METEO
1 - PAGINE bianche
2 - PAGINE gialle
P.E.C. (indirizzi):
delle PP.AA.
delle IMPRESE e PROFESSIONISTI
PREZZI:
osservatorio prezzi e tariffe

prodotti petroliferi
link 1
- link 2
PUBBLICO IMPIEGO:
1 - il portale pubblico per il lavoro
2
- mobilità
 

AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di FEBBRAIO 2020

Alcuni files sono in formato Acrobat (pdf): se non riesci a leggerli, scarica gratuitamente il programma Acrobat Reader (clicca sull'icona a fianco riportata).  -      segnala un errore nei links                                                                                

aggiornamento al 29.02.2020 (ore 23,59)

aggiornamento al 12.02.2020

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 29.02.2020 (ore 23,59)

ã

BONUS FACCIATE:
tutto quello che c'è da saperne ... anche, e soprattutto, sulla questione della corretta individuazione delle zone "A" e "B" che, in Lombardia, col P.G.T. non esistono più.

     La risposta è riscontrabile in un passaggio della nota 19.02.2020 n. 4961 di prot. emanata dal MIBACT laddove si legge quanto segue:

     "... Per usufruire del beneficio fiscale, occorre semplicemente che gli edifici si trovino in aree che, indipendentemente dalla loro denominazione, siano riconducibili o comunque equipollenti a quelle A o B descritte dal d.m. n. 1444 del, 1968: una informazione ricavabile proprio come quando le amministrazioni debbono applicare i limiti di densità edilizia, le altezze o le distanze, anche nei casi in cui intendano o debbano derogarli mediante gli strumenti di pianificazione.
     Sulla base di queste considerazioni, è evidente che nella maggior parte dei centri abitati per i cittadini non sarà necessario rivolgersi all'amministrazione locale per sapere in quale zona si trova un immobile, potendo ricavare agevolmente tale informazioni dagli strumenti urbanistici ed edilizi comunali. Nei casi in cui l'amministrazione locale sia invece interpellata, essa potrà fare riferimento al d.m. n. 1444 del 1968 nello stesso modo in cui ha già dovuto, o deve farlo, in sede di redazione degli strumenti urbanistici.
     Peraltro, la certificazione dell'assimilazione alle zone A o B dell'area nella quale ricade l'edificio oggetto dell'intervento, che la guida dell'Agenzia delle entrate richiede sia rilasciata dagli enti competenti, andrebbe riferita ai soli casi, verosimilmente limitati, in cui un Comune mai ha adottato un qualsiasi atto che abbia implicato l'applicazione del d.m. n. 1444 del 1968 nel proprio territorio.
     In  tutte le altre ipotesi, infatti, la stessa guida non richiede specifici adempimenti e la ubicazione dell'immobile in area A o B, o equipollente in base agli strumenti urbanistici ed edilizi del Comune, può facilmente essere accertata dai soggetti interessati. ...
".

     Detto altrimenti, ed in estrema sintesi, tenuto conto che prima del P.G.T. tutti i comuni della Lombardia avevano approvato il P.R.G. (con la classificazione delle aree territoriali secondo il Dm 1444/1968) è auspicabile che i vari UTC non siano intasati di richieste (inutili) laddove ben possono provvedere (all'individuazione dell'immobile in zona "A" oppure "B") i progettisti all'uopo incaricati.

EDILIZIA PRIVATA: Bonus facciate senza comunicazione alle Entrate. È stato superato l'avviso al Centro operativo di Pescara.
Anche per il bonus facciate, come per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio, non è necessario, alla fine dei lavori, inviare al Centro operativo di Pescara, la «dichiarazione di esecuzione» degli stessi, se questi sono di importo superiore a 5.645,69 euro. La norma istitutiva della nuova detrazione Irpef e Ires del 90% a sulle facciate esterne degli edifici prevede che si applichino le disposizioni del decreto del ministro delle Finanze 41/1998.
Pertanto, tutti i contribuenti (anche se imprese) devono indicare nella propria dichiarazione (730 o Redditi) i dati catastali dell'immobile e gli eventuali estremi di registrazione dell'atto di detenzione (locazione o comodato). Questo adempimento ha sostituito dal 14.05.2011 la comunicazione che doveva essere effettuata al Centro di Pescara, prima dell'inizio degli interventi di recupero del patrimonio edilizio (articolo 7, comma 2, lettera q, decreto legge 70/2011); in ogni caso, i dati catastali non vanno riportati se gli interventi sono influenti dal punto di vista termico o interessano oltre il 10% dell'intonaco della superficie disperdente lorda dell'edificio (circolare 2/E/2020).
Ancora oggi l'articolo 1, comma 1, lettera d), del decreto 41/1998 prevede che, per gli interventi oltre 51.645,69 euro, si debba inviare al Centro di Pescara, al termine dei lavori, una dichiarazione di esecuzione lavori, sottoscritta da un soggetto iscritto all'albo ingegneri, architetti e geometri o altro soggetto abilitato all'esecuzione degli stessi. Anche per il bonus facciate, però, dovrebbe valere il chiarimento della circolare 13/E/2013, secondo la quale, dall'01.01.2012, questa dichiarazione non è più necessaria ai fini dei controlli, considerando che il provvedimento delle Entrate 149646/2011, relativo ai documenti da conservare, dall'01.01.2012, ai fini della detrazione per gli interventi sul recupero del patrimonio edilizio non ha citato questa comunicazione.
Una conferma di ciò deriva anche dal silenzio su questo adempimento da parte della circolare del 2/E/2020.
Anche per il bonus facciate, invece, i contribuenti devono conservare ed esibire, in caso di controllo, i documenti indicati nel citato provvedimento del 02.11.2011:
   • le abilitazioni amministrative richieste (Scia, Cila o altro) o l'autocertificazione relativa al non obbligo di alcun titolo abilitativo (come per la manutenzione ordinaria) e della data di inizio lavori;
   • l'eventuale accatastamento per gli immobili non censiti;
   • le ricevute di pagamento dell'Imu, se dovuta;
   • le ricevute di pagamento degli altri «tributi locali sugli immobili» (adempimento aggiunto dalla circolare 2/E/2020);
   • l'eventuale delibera di approvazione di esecuzione lavori per parti comuni e tabella millesimale;
   • l'eventuale dichiarazione di consenso del possessore all'esecuzione dei lavori, se gli stessi sono effettuati dal detentore del bene che non è un convivente;
   • l'eventuale comunicazione preventiva all'Asl, se prevista dall'articolo 99, comma 1, Dlgs 81/2008;
   • fatture e ricevute fiscali della spesa e ricevute dei bonifici «parlanti».
La mancata effettuazione dei predetti adempimenti non consente la fruizione del bonus facciate (articolo Il Sole 24 Ore 29.02.2020 - tratto da www.fondazionecni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Bonus Facciate: il MEF risponde a una interrogazione sulle zone A e B.
L’emanazione di tavole di raccordo finalizzate ad individuare le equipollenze delle zone A e B a quelle attualmente classificate con sigle differenti da parte degli enti locali esula dalle competenze dell’Amministrazione finanziaria. Sarà cura dell’Amministrazione finanziaria valutare la spettanza dell’agevolazione in argomento sulla base delle peculiarità del caso concreto”.
Interrogazione a risposta immediata in commissione 5-03670 - risposta 26.02.2020 in Commissione VI (Finanze) Camera dei Deputati (On. Gian Mario Fragomeli).
---------------
INTERROGAZIONE
Per sapere –premesso che:
   - l'articolo 1, commi da 219 a 224, della legge 27.12.2019, n. 160, recante la legge di bilancio 2020, ha introdotto l'agevolazione fiscale per gli interventi finalizzati al recupero o al restauro degli edifici esistenti che, nello specifico, consente una detrazione dall'imposta lorda pari al 90 per cento delle spese sostenute per gli interventi finalizzati al recupero o al restauro della facciata esterna degli edifici esistenti ubicati in zona A o B, ai sensi del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, cosiddetto «bonus facciate»;
   - in particolare, la parte corrispondente alla zona A è spesso identificata con l'ambito storico del comune e la parte corrispondente alla zona B è associata agli ambiti residenziali; la legge esclude invece dall'agevolazione i proprietari di immobili situati nelle Zona C, le cosiddette «aree di espansione urbanistica»;
   - la guida dell'Agenzia delle entrate afferma che è possibile riferirsi a zone assimilabili alle categorie A o B, specificando che: «L'assimilazione alle zone A o B della zona territoriale nella quale ricade l'edificio oggetto dell'intervento dovrà risultare dalle certificazioni urbanistiche rilasciate dagli enti competenti»;
   - in alcuni piani urbanistici predisposti dalle amministrazioni comunali non vi è alcun riferimento alle zone A o B sostituite, invece, da altre sigle;
   - nella regione Lombardia, ad esempio, i piani delle regole (Pdr) più recenti, utilizzano il concetto di tessuto urbano consolidato (Tuc) del territorio che ha sostituito il lessico originario della zonizzazione; in questo caso si parla di aree P1, considerate non completate e quindi escluse dal «bonus facciate» e di aree P2 coincidenti con le zone che in altre regioni danno diritto al bonus;
   - è necessario, al fine di applicare il «bonus facciate» in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale, predisporre una ricognizione urbanistica per individuare in maniera ufficiale le equipollenze–:
se non ritenga necessario assumere le iniziative di competenza per definire quanto prima, le tavole di raccordo, anche a seguito di un intervento di ricognizione urbanistica, in particolare nella regione Lombardia, volte ad individuare in maniera ufficiale le equipollenze delle zone che attualmente sono individuate in maniera differente ma che risultano comunque compatibili, al fine di applicare il «bonus facciate» in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale.
RISPOSTA
Con il documento in esame gli Onorevoli interroganti fanno riferimento all'agevolazione fiscale introdotta dall'articolo 1, commi da 219 a 224, della legge n. 160 del 2019, per gli interventi finalizzati al recupero o restauro degli edifici esistenti ubicati nelle zone A o B ai sensi del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444 (c.d. bonus facciate).
In relazione a detta agevolazione la Guida predisposta dall'Agenzia delle entrate afferma che è possibile riferirsi a zone assimilabili alle categorie A o B in base alle risultanze delle certificazioni urbanistiche rilasciate dagli enti competenti.
Gli Onorevoli interroganti, evidenziano tuttavia che «in alcuni piani urbanistici predisposti dalle amministrazioni comunali non vi è alcun riferimento alle zone A o B sostituite invece da altre sigle», e, pertanto, chiedono di sapere se non si ritiene necessario «emanare quanto prima le tavole di raccordo, anche a seguito di un intervento di ricognizione urbanistica, in particolare nella regione Lombardia, volte ad individuare in maniera ufficiale le equipollenze delle zone che attualmente sono individuate in maniera differente ma che risultano comunque compatibili al fine di applicare il bonus facciate in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale».
Al riguardo, si precisa che l'emanazione di tavole di raccordo finalizzate ad individuare le equipollenze delle zone A e B a quelle attualmente classificate con sigle differenti da parte degli enti locali esula dalle competenze dell'Amministrazione finanziaria.
Sarà cura dell'Amministrazione finanziaria valutare la spettanza dell'agevolazione in argomento sulla base delle peculiarità del caso concreto.

EDILIZIA PRIVATAFacciate, agevolazione estesa ai titolari di reddito d’impresa. I chiarimenti delle Entrate sulla detrazione per la riqualificazione esterna degli edifici.
Detrazione del 90% in dieci quote annuali costanti per chi, nel 2020, decida di riqualificare la facciata esterna del proprio edificio. Platea ampia inoltre tra i soggetti beneficiari dell'agevolazione vista l'estensione, oltre che alle persone fisiche e ai lavoratori autonomi, anche al mondo delle imprese. Agevolabili infine non solo la semplice pulitura o tinteggiatura della facciata ma anche interventi su balconi, su grondaie, sui cornicioni nonché sui cappotti termici.

Sono questi i principali aspetti presenti nella
circolare 14.02.2020 n. 2/E dell'Agenzia delle entrate.
L'agevolazione. Pubblicate le istruzioni dell'Agenzia delle entrate per usufruire del cosiddetto bonus facciate. La detrazione, da ripartire in dieci quote annuali costanti, è pari al 90% della spesa sostenuta senza limiti di tetto massimo detraibile e di spesa ammissibile. Gli edifici sui quali si eseguiranno interventi finalizzati al recupero della struttura opaca del perimetro esterno (vale a dire tutti gli elementi che compongono l'involucro esterno dell'edificio esclusi infissi e vetrate) dovranno però interessare gli immobili (di qualsiasi categoria catastale) che si trovino nelle zone A e B del decreto ministeriale 1444/1968.
L'art. 2 di tale decreto definisce la zona A come quella parte del territorio interessata da agglomerati urbani che rivestano carattere storico, artistico e di particolare pregio ambientale. La zona B invece comprende le parti del territorio urbano edificato ove la superficie coperta dagli edifici esistenti non sia inferiore al 12,5% della superficie fondiaria della zona. Ciò detto, sarà comunque fondamentale farsi rilasciare un certificato da parte del comune competente che attesti la localizzazione dell'immobile in una delle due zone descritte.
Veniamo ora alle modalità di fruizione: a differenza se i beneficiari siano persone fisiche (o esercenti arti e professioni) o titolari di reddito d'impresa (imprese individuali, società di persone, società di capitali o enti commerciali) il criterio da seguire varierà. Nel primo caso infatti varrà il principio di cassa: si terrà dunque conto della data dell'effettivo pagamento a prescindere da quando siano effettivamente iniziati gli interventi cui i pagamenti si riferiscono: l'intervento per esempio iniziato nel 2019 ma con pagamenti nel 2020 beneficerà pienamente del bonus.
Viceversa, pagamenti avvenuti in parte nel 2019 e in parte nel 2020, renderanno ammissibile il bonus facciate solo rispetto a questi ultimi. Discorso ben diverso va fatto rispetto ai titolari di reddito di impresa per cui varrà il principio di competenza: il riferimento è ai lavori effettuati durante l'arco 2020 a prescindere dalla data dei pagamenti e dalla data di avvio degli interventi.
I beneficiari e i titoli abilitativi. La platea, rispetto alle altre agevolazioni fiscali, è estremamente amplia coinvolgendo tutti i contribuenti residenti e non che sostengono spese per l'esecuzione degli interventi agevolati a prescindere dalla tipologia di reddito di cui sono titolari. Gli unici esclusi sono i redditi assoggettati a tassazione separata o a imposta sostitutiva (come per esempio le attività che aderiscono al regime forfettario) a meno che gli stessi non posseggano altri redditi che concorrano alla formazione del reddito complessivo.
Volendo dare un elenco esaustivo, rientrano nell'agevolazione le persone fisiche (includendo tra queste gli esercenti arti e professioni), gli enti pubblici e privati che non svolgono attività commerciale, le società semplici, le associazioni tra professionisti e i soggetti che conseguono reddito d'impresa (includiamo in tale categoria le ditte individuali, gli enti commerciali, le società di persone e le società di capitali). Il bonus spetta infine ai possessori o ai detentori dell'immobile in base a un titolo idoneo al momento dell'avvio dei lavori o al sostenimento della spesa se antecedente l'avvio.
Ai fini del possesso, varrà la qualifica di proprietario, di nudo proprietario o di titolare di diritto reale di godimento (usufrutto, uso, abitazione o superficie). Nel caso di detenzione invece, bisognerà disporre di regolare contratto di affitto o di comodato registrato oltre ad avere il consenso all'esecuzione dei lavori da parte del proprietario.
I lavori agevolabili. La ratio dell'agevolazione è quella di incentivare interventi che vadano a migliorare il decoro urbano pur conservando l'organismo edilizio nel rispetto della forma e della struttura. Oltre dunque al classico intervento di pulitura e tinteggiatura esterna sulle strutture opache della facciata, la circolare ha chiarito che vi rientrano anche quelli su balconi, ornamenti e fregi.
Ancora, sono agevolabili lavori riferiti alle grondaie, ai pluviali, ai parapetti, ai cornicioni e alla sistemazione di tutte le parti impiantistiche che insistono sulla parte opaca della facciata oltre all'acquisto di materiali (utile nel caso di lavori in economia o di utilizzo di sola manodopera). Vi sono inoltre una serie di spese «collaterali» che beneficiano comunque del 90% come per esempio la progettazione e le prestazioni professionali connesse, l'effettuazione di perizie e il rilascio di eventuali attestati di prestazione energetica, l'installazione di ponteggi, lo smaltimento di materiali rimossi e l'Iva qualora non vi siano le condizioni per poterla detrarre.
In ultimo (si veda l'approfondimento nella pagina seguente), accedono al beneficio del 90% anche gli interventi sulla facciata influenti da un punto di vista termico (i cosiddetti cappotti termici) o che interessino oltre il 10% dell'intonaco della superficie disperdente lorda complessiva dell'edificio.
---------------
Per le società vale la competenza.
La grande novità del bonus facciate riguarda il diverso principio applicativo nel caso di ristrutturazione della facciata esterna da parte di persone fisiche e in quello di reddito d'impresa. Mentre per le prime varrà, come siamo abituati oramai anche per gli altri bonus casa, il principio di cassa, per le società bisognerà invece guardare alla competenza economica.
Ciò sarà valido, non solo per le società in contabilità ordinaria ma, in generale, per tutti i soggetti titolari di reddito d'impresa (non vien fatta eccezione per i soggetti che applichino il principio di cassa pura né per quelli che applichino il principio di cassa con presunzione di incassi e pagamenti delle fatture registrate): la circolare, prevede infatti che la competenza si applichi «a prescindere dalla circostanza che il soggetto beneficiario applichi tale regola per la determinazione del proprio reddito imponibile ai fini delle imposte sul reddito».
Diverrà dunque fondamentale la data di ultimazione lavori: trattandosi infatti di servizi, in base all'art. 109 del Tuir, comma 2, lett. b), la spesa si intenderà sostenuta alla data di ultimazione della prestazione. Soprattutto nelle ipotesi di chiusura lavori a cavallo tra due esercizi dunque, il suggerimento, onde evitare che venga disconosciuto il primo decimo di detrazione, sarà proprio quello di ultimare i lavori entro il 31/12 (questo anche da un punto di vista formale mediante le relative comunicazioni da fare ai competenti enti).
---------------
L’iter per non fare passi falsi. Fondamentali alcuni adempimenti per evitare il futuro disconoscimento del bonus.
Pagamenti mediante bonifico dal quale risultino causale, codice fiscale del beneficiario e numero di partita Iva del fornitore, indicazione in dichiarazione dei redditi dei dati catastali identificativi dell'immobile oggetto dell'agevolazione, conservazione delle ricevute di pagamento dei tributi locali sugli immobili e copia della delibera assembleare qualora gli interventi riguardino parti comuni di edifici residenziali.
Sono questi, in breve, alcuni degli adempimenti da porre in essere per evitare un possibile disconoscimento del bonus facciate da parte del fisco.
Adempimenti delle persone fisiche. Le persone fisiche (compresi gli esercenti arti e professioni) sono chiamate a porre estrema attenzione nelle procedure da seguire per ottenere il riconoscimento fiscale. Innanzitutto le modalità di pagamento: come per l'ecobonus e per il bonus casa è previsto, anche in questo caso, il cosiddetto bonifico parlante (cui la banca applicherà la ritenuta di acconto dell'8%).
La circolare prevede espressamente che il bonifico, bancario o postale, debba contenere la causale del versamento, il codice fiscale del beneficiario e il numero di partita Iva del soggetto a favore del quale è effettuato. Considerando che la modulistica non è ancora adeguata con la nuova causale relativa al «bonus facciate», sarà comunque possibile utilizzare i bonifici parlanti utilizzati per l'ecobonus o per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio.
Altro aspetto formale su cui bisogna porre attenzione è la compilazione del modello unico. Andranno infatti indicati non solo i dati catastali identificativi dell'immobile ma anche, qualora i lavori fossero eseguiti dal detentore, gli estremi di registrazione dell'atto che ne costituisce titolo. Ancora, andrà comunicato da un lato alla Asl competente, in maniera preventiva, l'inizio lavori qualora tale comunicazione sia obbligatoria in base alle disposizioni in materia di sicurezza dei cantieri e, dall'altro, andranno richieste (sempre prima dell'inizio lavori) al comune le abilitazioni necessarie sulla base della tipologia dei lavori da realizzare.
Infine, in caso di lavori effettuati dal detentore dell'immobile, sarà necessaria una dichiarazione di consenso del proprietario all'esecuzione dei lavori. Veniamo ora alla documentazione che va conservata e, se del caso, esibita in seguito a controlli. Innanzitutto andranno conservate tutte le fatture e le relative ricevute del bonifico di pagamento (bonifici eseguiti con le modalità descritte sopra).
Nel caso in cui l'agevolazione si riferisca ad immobili non ancora censiti, andrà conservata copia della domanda di accatastamento. Qualora invece oggetto del bonus facciate sia una parte comune di edifici residenziali, andrà conservata copia della delibera assembleare di approvazione dell'esecuzione dei lavori e tabella millesimale di ripartizione delle spese valida in quel momento. Infine, la circolare precisa espressamente che andranno conservate le ricevute di pagamento dei tributi locali sugli immobili qualora dovute.
Adempimenti in caso di interventi di efficienza energetica. Nel caso in cui l'intervento sulla facciata esterna sia influente da un punto di vista termico o interessi più del 10% dell'intonaco, oltre agli adempimenti sopra descritti se ne aggiungeranno degli altri tipici della riqualificazione energetica. Stiamo parlando, nello specifico, di due ulteriori adempimenti e di una comunicazione.
Il primo adempimento si riferisce all'acquisizione e alla conservazione dell'asseverazione di un tecnico abilitato che certifichi la corrispondenza degli interventi effettuati rispetto ai requisiti tecnici richiesti. Tale asseverazione può anche essere sostituita con quella resa dal direttore lavori sulla conformità al progetto.
Il secondo riguarda invece l'attestato di prestazione energetica (Ape) che dovrà essere redatto da un tecnico non coinvolto nei lavori e per ogni singola unità immobiliare per cui si richiedono le detrazioni fiscali. Per quanto riguarda invece la comunicazione, così come previsto per gli interventi da ecobonus, dovrà essere inviata all'Enea, entro i successivi 90 giorni dall'ultimazione dei lavori, la scheda descrittiva relativa agli interventi realizzati.
Adempimenti dei titolari di reddito d'impresa. Tutti gli adempimenti previsti per le persone fisiche e tutta la documentazione da conservare sono validi anche per i titolari di reddito d'impresa con un'unica differenza: non è obbligatorio il pagamento mediante bonifico in quanto il momento dell'effettivo pagamento è irrilevante valendo, per tale categoria di contribuenti, il principio di competenza economica e non quello di cassa. Andranno inoltre rispettati gli ulteriori adempimenti descritti nel precedente paragrafo qualora l'intervento sia influente da un punto di vista termico o interessi più del 10% dell'intonaco del bene.
---------------
Anche il cappotto termico è agevolabile.
Gli interventi di efficienza energetica sulla facciata esterna dell'edificio seguono il bonus del 90%. Da un lato il cappotto termico, dall'altro tutti gli interventi che interessano oltre il 10% dell'intonaco della superficie disperdente lorda complessiva dell'edificio sono infatti agevolabili con il vantaggioso bonus facciate invece del 65%.
È quanto chiarito dalle Entrate sia nella guida fiscale sia nella circolare 14.02.2020 n. 2/E, emanate la scorsa settimana.
Affinché ciò sia dunque possibile, occorre che i suddetti lavori soddisfino contemporaneamente due requisiti: da un lato i requisiti indicati dal Mise nel decreto del 26.06.2015 e dall'altro i valori limite di trasmittanza termica delle strutture componenti l'involucro edilizio. Gli unici immobili esclusi da tale agevolazione sarebbero quelli di notevole interesse pubblico quando, il rispetto delle suddette prescrizioni, implichi un'alterazione sostanziale del loro carattere o aspetto (si pensi ai profili storici, artistici o paesaggistici).
Viene chiarito inoltre come approcciare al calcolo del 10% dell'intonaco: in sostanza l'intervento dovrà interessare l'intonaco per oltre il 10% della superficie lorda complessiva disperdente (pareti verticali, pavimenti, tetti, infissi) confinanti con l'esterno, vani freddi o terreno. Se l'intervento dovesse riferirsi ad una facciata rivestita di piastrelle o altri materiali che impossibilitano interventi termicamente influenti (se non mutando l'aspetto dell'edificio), il limite del 10% andrà calcolato rapportando la superficie della facciata interessata dall'intervento e la superficie totale della superficie disperdente.
La circolare ricorda infine che per gli interventi di efficienza energetica sulle facciate, ai fini delle verifiche e dei controlli, si applicano le stesse procedure previste per la riqualificazione energetica degli edifici
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.02.2020).

EDILIZIA PRIVATA: Bonus facciate, cosa fare se si pensa che il Comune sbagli. Esistono tre strade.
Sul bonus facciate c’è ancora da chiarire. Ovviamente non per chi è palesemente in zona A e B e quindi ha accesso al bonus del 90 per cento. Stiamo parlando invece di chi va in Comune e gli viene detto che l’immobile è in zona è C e quindi escluso dall’agevolazione. Ma se il cittadino non fosse pienamente convinto?
Il quesito
Il tema odierno è quindi il seguente: se un privato cittadino/amministratore di condominio si reca all’ufficio tecnico del Comune A dove un geometra gli fa vedere la planimetria dove sorge l’edificio dicendo: «Guardi, essendo la sua area classificata “Ambito urbano consolidato (R1)“ per quanto mi riguarda è zona C. Quindi non ha diritto all’esenzione» cosa può fare se non è convinto?
La dicitura "ambito urbano consolidato" gli sembra lessicalmente idonea per avere il bonus del 90% ma di fronte alla sicurezza del dipendente comunale non gli resta che incassare e informarsi per vedere se tante le volte il giudizio del Comune è in qualche modo modificabile.
Anche un professore universitario, interpellato, ha espresso perplessità sulla risposta del tecnico comunale.
E anche un collega del geometra del Comune A gli dice che è probabile che si stia sbagliando. Quindi? Mettiamo i primi punti fermi.
La certificazione ai fini del bonus
L’agenzia delle Entrate la considera obbligatoria mentre il ministero no. Comunque sia, questo il contenuto della mail dell’ufficio tecnico del Comune B.
«Le certificazioni di ordine urbanistico emesse da questo ufficio, assimilabili a quella indicata nella circolare che cita (la
circolare 14.02.2020 n. 2/E), genericamente riportano la zona urbanistica in cui ricade il mappale di cui si richiede, appunto, la certificazione oltre ogni altro vincolo posto all’attività edilizia.
Di norma nella certificazione non riportiamo gli indicatori planivolumetrici previsti dal piano urbanistico (indici di fabbricazione, rapporto di copertura e così via), perché riportati nelle norme tecniche, tra l’altro non utili per la finalità fiscale di cui chiede; ciò non toglie che se ne avesse bisogno, basterà specificarlo nella domanda di certificato di destinazione urbanistica e l’ufficio li espliciterà nel testo del provvedimento.
Debbo però rammentarle che questo ufficio non si occupa di incentivi e di sgravi fiscali applicabili alle opere edilizie, quindi per ogni approfondimento in merito le converrà sentire dei commercialisti o fiscalisti
».
Prima presunta certezza
Per avere nel certificato gli indicatori planivolumetrici -cioè per verificare se la superficie coperta dall’edificio sia superiore al 12,5% (un ottavo) della superficie fondiaria della zona e nelle quali la densità territoriale sia superiore a 1,5 m3/m2- bisogna chiederli appositamente.
Zone A, B e C a macchia di leopardo
Con il Comune B c’è stata anche una conversazione telefonica al termine della quale si è saputo che:
   1) ci sono Comuni della Lombardia dove i documenti urbanistici fanno ancora riferimento alle zone A, B e C;
   2) che nel caso di specie è possibile che il Comune A, in cui è utilizzato un piano del governo del territorio con la nuova terminologia (R1, R2 e così via), per sapere se l’edificio dove si trova l’edificio vada a vedere il vecchio piano regolatore, per esempio degli anni 80, e dica cosa risulta lì. «Ma -sempre per il Comune B- sarebbe sbagliato fare così perché la zonizzazione degli anni ’80 va sostituita con quella attuale tramite un’interpretazione e un’attualizzazione della norma».
Cosa fare/1
Bisogna cercare sul sito del Comune A il piano delle regole e vedere cosa dice la relazione illustrativa a proposito della zonizzazione dell’edificio. Nel caso in questione l’“Ambito consolidato urbano” R1 viene definitivo «la categoria caratterizzata da un’edificazione con tipologia edilizia mista. Tale ambito connota la gran parte del terreno edificato e rappresenta la crescita storica e recente del paese nella sua complessità».
Poi va preso il decreto 1444/1968 in cui come zona B viene definita quella «composta dalle parti del territorio totalmente o parzialmente edificate, diverse dalle zone A, cioè quella a carattere storico, artistico e di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi».
Sempre nel decreto 1444/1968 si definiscono parzialmente edificate le zone in cui la superficie coperta degli edifici esistenti non sia inferiore al 12,5% (un ottavo) della superficie fondiaria della zona e nelle quali la densità territoriale sia superiore a 1,5 mc/mq;
In conclusione
Il Comune B -che peraltro come detto ha ancora planimetrie indicanti le zone A, B e C- suggerisce di convincere il Comune A che bisogna andare al di là degli indicatori planivolumetrici ma non è così facile. Ecco l’ultima risposta:
«Purtroppo il nostro mandato è fornire un supporto nell’interpretazione delle norme urbanistiche vigenti nel nostro comune, mentre lei necessita di un professionista di parte che analizzi il suo caso e controbatta l’interpretazione del collega del lecchese.
Potrebbe
   1) contattare l’estensore del Piano per chiedergli un’interpretazione univoca della corrispondenza fra azzonamento vigente e zone ex Dm 1444/1968, oltre
   2) a sollecitare un confronto con il tecnico comunale -il tema, del resto, non interessa solo lei, ma tutti i cittadini nella stessa condizione.
Detto questo, le rammento comunque che:
a) le Zone C sono di espansione, qui ciò che è già costruito all’approvazione del piano dovrebbe essere o B o A;
b) se si prendessero a riferimento solo i parametri urbanistici per definire le zone di appartenenza,
   3) basta verificare se le zone edificate classificate come R1 e simili hanno residui volumetrici oppure no; nel secondo caso, indipendentemente dai parametri stabiliti dal Dm, i lotti saranno da considerarsi “saturi” (cioè senza ulteriore possibilità di ampliarsi) e conseguentemente non posso essere classificati come zone C (zone di espansione
)
».
Il problema è che un amministratore di condominio non ha tempo per aspettare la risposta (articolo Il Sole 24 Ore del 24.02.2020).

EDILIZIA PRIVATABonus Facciate: le modalità e gli adempimenti necessari per ottenere le agevolazioni.
Uno degli adempimenti previsti consiste nell'obbligo per le persone fisiche non titolari di reddito di impresa di effettuare il pagamento con bonifico bancario o postale, utilizzando la stessa tipologia di bonifico predisposto da banche e Poste Spa per il pagamento delle spese che danno diritto al bonus ristrutturazioni o all'ecobonus (...continua) (24.02.2020 - link a www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATABonus facciate, il Mibact «corregge» le Entrate sulle zone. Il documento servirebbe solo se il Comune non ha mai applicato il Dm 1444/1968.
La nebbia si va diradando sulla questione delle zone A e B, nelle quali deve trovarsi l’edificio per beneficiare del bonus facciate con la detrazione del 90% delle spese.
Mentre passano i giorni (i pagamenti devono essere effettuati nel 2020) la circolare 14.02.2020 n. 2/E delle Entrate ha già chiarito molti aspetti importanti (si veda il Sole 24 Ore del 15 e 16 febbraio) ma rimane un aspetto centrale, legato all’ubicazione degli edifici su cui effettuare i lavori. La legge 160/2019 parla infatti delle sole zone A e B indicate nel Dm 1444/1968.
Nel concreto, l’individuazione delle zone non sembra semplice, perché nei Piani di governo del territorio o nei Prgc (ma si tratta solo di due sigle tra molte) le denominazioni A e B non esistono più, sostituite a volte da “R” o “AC-R” o altre ancora, dove la lettera R di solito indica la destinazione residenziale di un'area o una zona di riqualificazione. Insomma, a poco a che fare con le zone da A a F indicate nel decreto del 1968 e avere un piano regolatore con la zonizzazione da A a F, a quanto risulta al Sole 24 Ore, sembra piuttosto raro.
Il Mibact, con la lettera del Capo di gabinetto Lorenzo Casini (nota 19.02.2020 n. 4961 di prot.) inviata a una serie di sindaci piemontesi, ha però spiegato che il decreto 1444/1968 non imponeva ai Comuni «di applicare meccanicamente la suddivisione in zone e la conseguente denominazione ivi previste. Il decreto, invece, identifica zone omogenee al fine di stabilire le dotazioni urbanistiche, i limiti di densità edilizia, le altezze e le distanze tra gli edifici».
Per ottenere il beneficio, quindi, basta «che gli edifici si trovino in aree che, indipendentemente dalla loro denominazione, siano riconducibili o comunque equipollenti a quelle A o B descritte dal Dm 1444/1968: un’informazione ricavabile proprio come quando le amministrazioni debbono applicare i limiti di densità edilizia (...)».
Quindi, prosegue il Mibact, «è evidente che nella maggior parte dei centri abitati per i cittadini non sarà necessario rivolgersi all’amministrazione locale per sapere in quale zone si trova l’immobile, potendo ricavare agevolmente tale informazione dagli strumenti urbanistici ed edilizi comunali».
Anzi, il Mibact si spinge anche più in là, affermando che la certificazione urbanistica, che per la guida delle Entrate (e per la circolare 14.02.2020 n. 2/E, pagina 7) è indispensabile per l’assimilazione alle zone A e B della zone in cui sorge l’edificio, va richiesta solo nei casi «verosimilmente limitati, in cui un Comune mai ha adottato un qualsiasi atto che abbia implicato l’applicazione del Dm 1444/1968 nel proprio territorio. In tutte le altre ipotesi, infatti, la stessa guida non richiede specifici adempimenti e la ubicazione dell’immobile in area A o B, o equipollente in base agli strumenti urbanistici ed edilizi del Comune, può facilmente essere accertata dai soggetti interessati».
Ogni comune interessato, su richiesta dei cittadini e dei condomìni, dovrà quindi fare una ricognizione sul proprio territorio e individuare le «equipollenze» ed eventualmente rilasciare la certificazione urbanistica indicata dalle Entrate (articolo Il Sole 24 Ore del 21.02.2020).

EDILIZIA PRIVATABonus Facciate, dal Mibact chiarimenti sulle zone A e B.
Diversamente dal parere dell'Agenzia delle Entrate, il Mibact ritiene che la certificazione urbanistica deve essere richiesta solamente nei casi in cui un Comune non ha mai adottato un qualsiasi atto che abbia implicato l’applicazione del Dm 1444/1968 nel proprio territorio (...continua) (21.02.2020 - link a www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATAChiedo chiarimenti su modalità e adempimenti necessari per ottenere le agevolazioni previste per il bonus facciate.
I primi chiarimenti sul bonus facciate sono arrivati con la circolare 14.02.2020 n. 2/E dell’Agenzia delle entrate, che illustra tutte le regole e gli adempimenti da osservare per usufruire dell’agevolazione fiscale introdotta dalla legge di bilancio 2020.
Anzitutto, vi è l’obbligo per le persone fisiche non titolari di reddito di impresa di effettuare il pagamento con bonifico bancario o postale, utilizzando la stessa tipologia di bonifico predisposto da banche e Poste Spa per il pagamento delle spese che danno diritto alla detrazione per il recupero del patrimonio edilizio o per la riqualificazione energetica degli edifici (ecobonus).
Tra gli altri principali adempimenti:
   • l’invio all’Enea, entro 90 giorni dal termine dei lavori, di una scheda descrittiva, solo per gli interventi influenti dal punto di vista termico o che interessano oltre il 10% dell’intonaco della superficie disperdente lorda complessiva dell’edificio;
   • la comunicazione preventiva all’Asl di competenza, se prevista dalla normativa sulla sicurezza dei cantieri;
   • l’indicazione in dichiarazione dei redditi dei dati catastali identificativi dell’immobile.
Occorre poi conservare una serie di documenti inerenti gli interventi realizzati: fatture, ricevute del bonifico, abilitazioni amministrative, delibera assembleare e tabella millesimale per i lavori condominiali, asseverazione di un tecnico abilitato e attestazione di prestazione energetica (Ape) per gli interventi per i quali va fatta comunicazione all’Enea.
Per maggiori informazioni e approfondimenti si consiglia di consultare la citata circolare dall’Agenzia delle entrate e la guida pubblicata nella sezione l’Agenzia informa del suo sito internet (21.02.2020 - tratto da e link a www.fiscooggi.it).

EDILIZIA PRIVATABonus facciate, cappotto termico limitato da piastrelle e rivestimenti. Se la copertura è integrale non scatta l’obbligo dei lavori «termici». In caso di interventi solo su una parte «trasmittanza» calcolata in proporzione.
Poche righe in una circolare di venti pagine, ed ecco il risparmio energetico previsto nel bonus facciate molto ridimensionato. Nonostante le battaglie di chi, in fase di predisposizione della norma, aveva chiesto di incentivare in maniera robusta, oltre al decoro urbano, anche la realizzazione dei cappotti termici.
La circolare 14.02.2020 n. 2/E delle Entrate, dedicata al bonus facciate, afferma infatti che, a differenza di quanto indicato nella legge 160/2019 (dove di fatto si rende obbligatorio il cappotto termico per gli edifici quando si rifanno gli intonaci per oltre il 10% della superficie opaca), quando le facciate sono rivestite in piastrelle o con altri materiali «che non rendono possibile realizzare interventi influenti dal punto di vista termico se non mutando completamente l’aspetto dell’edificio», bisogna fare un conto diverso.
È necessario, cioè, eseguire «il rapporto tra la restante superficie della facciata interessata dall’intervento e la superficie totale lorda complessiva della superficie disperdente». Quindi, se la superficie opaca della facciata è di mille metri quadrati, ma di questi sono coperti di piastrelle (in genere il “klinker”), il 20% risulta essere la parte da considerare.
Ma se le piastrelle ricoprono tutto l’edificio, allora non c’è alcun obbligo di fare lavori per il risparmio energetico. In pratica, i lavori di rifacimento delle parti ammalorate beneficeranno della detrazione del 90% senza investimenti ulteriori.
In questo modo, allora, si limitano moltissimo i casi nei quali sarà obbligatorio investire in un cappotto termico.
Per non parlare degli edifici dove siano presenti anche gli «altri materiali» di cui parla la circolare delle Entrate. Si tratta di una definizione parecchio ampia che include praticamente tutti gli edifici di un certo pregio realizzati tra l’inizio del Novecento e gli anni Venti: in tutti questi casi, niente lavori di risparmio energetico.
C’è poi da considerare che tutte queste esclusioni avranno un impatto molto significativo sul calcolo dell’efficienza energetica dell’edificio.
Sarà, cioè, molto frequente il caso di facciate nelle quali alcune parti non saranno considerate nella misurazione di quella che tecnicamente viene definita “trasmittanza”.
Un vero e proprio slalom per i tecnici, che dovranno capire come verificare il rispetto dei parametri fissati dal ministero dello Sviluppo economico e richiamati dalla circolare dell’agenzia delle Entrate.
Per Diego Zoppi, consigliere nazionale degli architetti, la soluzione è semplice: «La trasmittanza si misura su singole sezioni murarie omogenee e si moltiplica per la superficie di riferimento. Cioè, ogni volta che c’è un certo tipo di muro si calcola la trasmittanza e poi si applica quel valore all’area della parete verticale». In base a questo principio è allora possibile misurare la trasmittanza anche su superfici disomogenee.
All’atto pratico, per Zoppi, questo calcolo «non dovrebbe creare problemi». Nel caso di chi interviene su facciate storiche o che comunque non possono essere modificate, sarà però possibile -conclude Zoppi- usufruire «delle agevolazioni anche non soddisfacendo i parametri di legge sul risparmio energetico».
---------------
IN SINTESI
   1. Le piastrelle - Se la facciata è ricoperta da piastrelle o altri materiali per cui gli interventi “termici” non si potrebbero realizzare senza cambiare l’aspetto dell’edificio, scompare l’obbligo di effettuare questi interventi, che negli altri casi scatta quando i lavori sulle parti ammalorate superano il 10% delle superfici opache
   2. La trasmittanza - Anche quando si interviene solo su una parte della facciata, quella priva di piastrelle o di materiali particolari, il rispetto dei requisiti di trasmittanza per i lavori termici (qualora obbligatori) è possibile perché il calcolo verrà fatto sulla parte interessata
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.02.2020).

EDILIZIA PRIVATABonus Facciate 2020: come avere la detrazione del 90% (20.02.2020 - link a www.lavoripubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Bonus facciate, Italia divisa in due sulle aree ammesse al credito d’imposta. Alcune Regioni (come la Lombardia) nelle planimetrie non usano la divisione in zone A, B e C. Serve una tabella di corrispondenza tra le definizioni.
Il bonus facciate presenta un punto critico in merito all’ubicazione dell’edificio ammesso al credito d’imposta del 90% delle spese sostenute. Una problematica che accomuna le facciate esterne tanto degli edifici condominiali quanto di quelli con un unico proprietario. I riferimenti generali sono la legge di Bilancio 2020, la circolare 14.02.2020 n. 2/E e il decreto ministeriale 1444/1968.
Il problema si pone perché in regioni come, per esempio, la Lombardia e la Liguria ci sono Comuni che non usano più, nei propri strumenti urbanistici, le definizioni zona A, B e C come invece, a titolo esemplificativo fanno ancora oggi la Puglia e la Sicilia, ma utilizzano nuovi termini. Come ambito storico, ambiti residenziali -con sigle da R1 a R4- e ambiti di trasformazione .
Un problema di «traduzione»
Definizioni su cui si è cimentato un cattedratico di urbanistica da noi sentito per il quale -anche se guardando solo una legenda e non la relativa planimetria di un Comune lombardo- «è sicuramente zona omogenea A l’ambito storico ed è quasi sicuramente zona omogenea B l’ambito residenziale consolidato mentre non si evince se gli altri ambiti residenziali R2 e R3 e soprattutto gli ambiti di trasformazione abbiano i requisiti previsti dal Dm 1444/1968 per essere considerati zona omogenea B oppure zona omogenea C».
Questa l’opinione di Roberto Mascarucci, professore ordinario di urbanistica all’università d’Annunzio di Chieti-Pescara e presidente dell'Inu (Istituto nazionale di urbanistica), sezione Abruzzo e Molise.
Invece, a detta dell’ufficio tecnico del Comune in oggetto, all’interno dell’ambito residenziale, quello consolidato (R1) è invece assimilato all’area C e quindi escluso dal bonus. Dietro al parere del Comune -l’ente competente citato dalle Entrate per il rilascio della certificazione- non c’è una delibera in cui ogni nuova definizione è stata ricondotta alle zone A, B e C ma il rinvio al vecchio piano regolatore che andrebbe però interpretato e attualizzato.
Altra cosa è farsi domande sulla praticabilità di un’istanza di un cittadino che, a seguito di una relazione tecnica, riuscisse a provare al Comune che nella planimetria c’è un errore e che il proprio immobile soddisfa i requisiti dell’area B e ha diritto alla certificazione (articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2020).

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: richiesta di chiarimenti in merito all'applicazione del c.d. "bonus facciate" (MIBACT, Ufficio di Gabinetto, nota 19.02.2020 n. 4961 di prot.).

EDILIZIA PRIVATABonus facciate 2020: gli interventi che accedono alla detrazione fiscale del 90% (18.02.2020 - link a www.lavoripubblici.it).

EDILIZIA PRIVATABonus facciate 2020 escluso per i cortili chiusi. Detrazione del 90% anche sui cappotti termici. Sono inclusi i costi dei progetti, dei ponteggi, dei balconi e delle grondaie.
Sono state pubblicate le indicazioni dell’agenzia delle Entrate per usufruire del «bonus facciate», la detrazione fiscale del 90% delle spese sostenute per gli interventi di recupero o restauro della facciata esterna degli edifici esistenti, prevista dalla legge di Bilancio 2020.
Nel testo si ricorda che la super detrazione fiscale si recupera in dieci rate annuali di pari importo e che è esclusa la formula della cessione del credito/sconto in fattura prevista per gli ecobonus.
Solo sul perimetro esterno
La circolare 14.02.2020 n. 2/E spiega che l’agevolazione riguarda gli interventi effettuati sull’involucro esterno visibile dell’edificio, vale a dire sia sulla parte anteriore, frontale e principale dell’edificio, sia sugli altri lati dello stabile (intero perimetro esterno).
Tra i lavori agevolabili rientrano quelli per il rinnovo e consolidamento della facciata esterna dell’edificio, inclusa la mera tinteggiatura o pulitura della superficie, e lo stesso vale per i balconi o per eventuali fregi esterni. E ancora, lavori sulle grondaie, sui pluviali, sui parapetti, sui cornicioni e su tutte le parti impiantistiche coinvolte perché parte della facciata dell’edificio.
  
Il cappotto in facciata è al 90%
Anche le spese per perizie, sopralluoghi, progettazione dei lavori, installazioni di ponteggi sono comprese nell’agevolazione. Inoltre anche gli interventi influenti dal punto di vista termico, o che interessino oltre il 10% dell'intonaco della superficie disperdente lorda complessiva dell'edificio, rientrano nel campo del bonus facciate.
Inquilini tra i beneficiari
I soggetti beneficiari devono possedere o detenere l’immobile oggetto dell’intervento in qualità di proprietario, nudo proprietario o di titolare di altro diritto reale di godimento (usufrutto, uso, abitazione o superficie) oppure detenere l’immobile in base a un contratto di locazione, anche finanziaria, o di comodato, regolarmente registrato, ed essere in possesso del consenso all’esecuzione dei lavori da parte del proprietario.
Per i privati bonifici entro il 2020
Per il calcolo del «bonus facciate», per le persone fisiche, compresi gli esercenti arti e professioni, e per gli enti non commerciali, si deve far riferimento al criterio di cassa, ovvero, alla data dell’effettivo pagamento, indipendentemente dalla data di avvio degli interventi. Ad esempio, un intervento ammissibile iniziato a luglio 2019, ma con pagamenti effettuati sia nel 2019 che nel 2020, consentirà sì la fruizione del “bonus facciate” ma solo con riferimento alle spese sostenute nel 2020.
   
Per le imprese individuali, le società e gli enti commerciali, si guarderà al “criterio di competenza” e, quindi, alle spese da imputare al periodo di imposta in corso al 31.12.2020, indipendentemente dalla data di avvio degli interventi cui le spese si riferiscono e indipendentemente dalla data dei pagamenti (articolo Il Sole 24 Ore del 14.02.2020).

EDILIZIA PRIVATABonus facciate 2020: on-line circolare attuativa e guida dell’Agenzia delle Entrate (14.02.2020 - link a www.lavoripubblici.it).

EDILIZIA PRIVATABonus facciata - Documento di approfondimento tecnico (ANIT - Associazione Nazionale per l’Isolamento Termico e acustico, 14.02.2020).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Detrazione per gli interventi finalizzati al recupero o restauro della facciata esterna degli edifici esistenti prevista dall’articolo 1, commi da 219 a 224 della legge 27.12.2019 n. 160 (Legge di bilancio 2020) (Agenzia delle Entrate, circolare 14.02.2020 n. 2/E).

EDILIZIA PRIVATABonus facciate (ANCE, 12.02.2020).

EDILIZIA PRIVATA: Bonus facciate (Agenzia delle Entrate, febbraio 2020).

EDILIZIA PRIVATA: Bonus facciate in stand-by. Cosa fare senza istruzioni.
Lo sconto fiscale c'è, le istruzioni no. Il bonus facciate del 90% è in vigore dallo scorso 1° gennaio. Ma il ritardo del Fisco nel fornire le indicazioni applicative -unito a un testo di legge poco comprensibile- sta bloccando molti cantieri. Partendo dalle istruzioni emanate dalle Entrate in oltre 20 anni di bonus casa, comunque, si può tentare di mettere qualche punto fermo. (...continua) (articolo Il Sole 24 Ore 10.02.2020 - tratto da www.fondazionecni.it).

IN EVIDENZA

COMPETENZE PROGETTUALISecondo l’art. 16 del r.d. 11.02.1929 n. 274 la competenza professionale dei geometri riguarda “progetto, direzione, sorveglianza e liquidazione di costruzioni rurali e di edifici per uso d'industrie agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria, comprese piccole costruzioni accessorie in cemento armato, che non richiedono particolari operazioni di calcolo e per la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone” (lett. l), nonché “progetto, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili” (lett. m).
Il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta e, quindi, se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei geometri, consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l’esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle; a questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben potendo anche una costruzione “non modesta” essere realizzata senza di esso), assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla l. 02.02.1974 n. 64, la quale impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri.
Peraltro, in caso di complessiva modestia dell’opera, la circostanza che comunque i calcoli relativi alle opere in cemento armato siano stati curati da un professionista abilitato consente di considerare legittimo il titolo abilitativo rilasciato su progetto redatto da un geometra.
In base al principio generale della collaborazione tra titolari di diverse competenze professionali, nulla impedisce che la progettazione e direzione dei lavori relativi alle opere in cemento armato sia affidata al tecnico in grado di eseguire i calcoli necessari e di valutare i pericoli per la pubblica incolumità, e che l’attività di progettazione e direzione dei lavori, incentrata sugli aspetti architettonici della “modesta” costruzione civile, sia affidata, invece, al geometra.
Non si tratta, quindi, di assicurare la mera presenza di un ingegnere progettista delle opere in cemento armato, che controfirmi o si limiti ad eseguire i calcoli.
Il professionista, che svolge la progettazione con l’uso del cemento armato, deve pertanto essere competente a progettare e ad assumersi la responsabilità del segmento del progetto complessivo riferito alle opere in cemento armato, nel senso appunto che l’incarico non può essere affidato al geometra, che si avvarrà della collaborazione dell’ingegnere, ma deve essere sin dall’inizio affidato anche a quest’ultimo per la parte di sua competenza e sotto la sua responsabilità.
---------------

9.2. Anche il motivo con cui si contesta la competenza professionale del geometra, direttore dei lavori, è infondato.
Le opere in contestazione consistono nella “realizzazione di una fondazione in cls. armato per la successiva posa in opera dei capannoni da allevamento a tunnel prefabbricati. Le sovrastrutture saranno realizzate in acciaio, con tamponature e copertura in pannelli ‘sandwich’”.
Al riguardo, sono stati gli stessi originari ricorrenti ad evidenziare, nel corpo del ricorso introduttivo che “il progetto c.d. strutturale è stato –correttamente– redatto da un Ingegnere, che ha proceduto al deposito ai fini dell’ottenimento dell’autorizzazione sismica” (pag. 16).
Essi hanno contestato, invece, che il geometra De Ca. sia stato designato “Direttore dei Lavori” e abbia firmato il “progetto architettonico”.
9.2.1. Secondo l’art. 16 del r.d. 11.02.1929 n. 274 la competenza professionale dei geometri riguarda “progetto, direzione, sorveglianza e liquidazione di costruzioni rurali e di edifici per uso d'industrie agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria, comprese piccole costruzioni accessorie in cemento armato, che non richiedono particolari operazioni di calcolo e per la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone” (lett. l), nonché “progetto, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili” (lett. m).
Il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta e, quindi, se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei geometri, consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l’esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle; a questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben potendo anche una costruzione “non modesta” essere realizzata senza di esso), assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla l. 02.02.1974 n. 64, la quale impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri (cfr. Cons. Stato, sez. V, 23.02.2015, n. 883).
Peraltro, in caso di complessiva modestia dell’opera, la circostanza che comunque i calcoli relativi alle opere in cemento armato siano stati curati da un professionista abilitato consente di considerare legittimo il titolo abilitativo rilasciato su progetto redatto da un geometra (Cons. Stato, sez. IV, 28.11.2012, n. 6036).
Giova altresì richiamare quanto argomentato nel parere della Sez. II di questo Consiglio, n. 2539 del 04.09.2015.
In base al principio generale della collaborazione tra titolari di diverse competenze professionali, nulla impedisce che la progettazione e direzione dei lavori relativi alle opere in cemento armato sia affidata al tecnico in grado di eseguire i calcoli necessari e di valutare i pericoli per la pubblica incolumità, e che l’attività di progettazione e direzione dei lavori, incentrata sugli aspetti architettonici della “modesta” costruzione civile, sia affidata, invece, al geometra.
Non si tratta, quindi, di assicurare la mera presenza di un ingegnere progettista delle opere in cemento armato, che controfirmi o si limiti ad eseguire i calcoli (Cass. civ., Sez. II, 02.09.2011, n. 18038).
Il professionista, che svolge la progettazione con l’uso del cemento armato, deve pertanto essere competente a progettare e ad assumersi la responsabilità del segmento del progetto complessivo riferito alle opere in cemento armato (TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, 18.04.2013, n. 361, ed implicitamente TAR Marche, Ancona, 11.07.2013, n. 559), nel senso appunto che l’incarico non può essere affidato al geometra, che si avvarrà della collaborazione dell’ingegnere, ma deve essere sin dall’inizio affidato anche a quest’ultimo per la parte di sua competenza e sotto la sua responsabilità (Cass. Civ. Sez. II, 30.08.2013, n. 19989).
Nel caso di specie risulta, per come ammesso dagli stessi ricorrenti, che il “progetto c.d. strutturale è stato –correttamente– redatto da un Ingegnere, che ha proceduto al deposito ai fini dell’ottenimento dell’autorizzazione sismica”.
Si deve pertanto ritenere che lo stesso abbia redatto anche il segmento del progetto complessivo riferito alle opere in cemento armato, assumendosene la responsabilità (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.02.2020 n. 1341 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

COMPETENZE PROFESSIONALIE' legittima la possibilità per un geometra di svolgere consulenze tecniche d'ufficio (CTU) per la valutazione di opere che incidono sulla statica degli edifici.
---------------

2. Con il secondo motivo si lamenta violazione degli artt. 16, 17, 18 del r.d. 11.02.1929, n. 274 nonché omessa valutazione di un punto decisivo della controversia, rilevando che solo ingegneri e architetti hanno la competenza a valutare opere che incidono sulla statica degli edifici, con la conseguenza che il parere espresso dal semplice geometra non potrebbe essere posto a fondamento di alcuna decisione.
La ricorrente aggiunge che la Corte d'appello e, prima ancora, il Tribunale ben avrebbero potuto disporre una consulenza tecnica d'ufficio.
La doglianza è infondata.
Secondo il costante orientamento di questa Corte, dal quale non vi è motivo di discostarsi, le norme relative alla scelta del consulente tecnico d'ufficio hanno natura e finalità esclusivamente direttive, essendo la scelta riservata, anche per quanto riguarda la categoria professionale di appartenenza del consulente e la competenza del medesimo a svolgere le indagini richieste, all'apprezzamento discrezionale del giudice di merito.
Ne consegue che la decisione di affidare l'incarico ad un professionista (nella specie, geometra) iscritto ad un albo diverso da quello pertinente alla materia al quale si riferisce la consulenza (nella specie, ingegneri), ovvero non iscritto in alcun albo professionale, non è censurabile in sede di legittimità e non richiede specifica motivazione (Cass. 12.03.2010, n. 6050; per la riaffermazione del principio generale, v., di recente, Cass. 28.09.2015, n. 19173).
Alla luce di tali rilievi, la doglianza che investe la mancata nomina di un diverso consulente tecnico è priva di qualunque fondamento (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 20.02.2020 n. 4439).

COMPETENZE PROGETTUALIL’attività professionale dei geometri è disciplinata dal R.D. 11.02.1929, n. 274 “Regolamento per la professione di geometra”.
Afferma a tal riguardo consolidata giurisprudenza che è estranea alla competenza dei geometri la progettazione di costruzioni civili con strutture in cemento armato, atteso che si tratta di attività che, qualunque ne sia l'importanza, è riservata solo agli ingegneri ed agli architetti iscritti nei relativi albi professionali.
Solo in via di eccezione la competenza dei geometri si estende, a norma della lett. l) dell'art. 16 del R.D. n. 274 del 1929, anche alle strutture in cemento armato, purché si tratti di piccole costruzioni accessorie nell'ambito di edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone.
Per il resto, la suddetta competenza è comunque esclusa nel campo delle costruzioni civili ove si adottino strutture in cemento armato, la cui progettazione e direzione, qualunque ne sia l'importanza, è riservata solo agli ingegneri e agli architetti iscritti nei relativi albi professionali.
Pertanto, la progettazione e la direzione di opere da parte di un geometra in materia riservata alla competenza professionale degli ingegneri o degli architetti sono illegittime, a nulla rilevando in proposito che un progetto redatto da un geometra sia controfirmato o vistato da un ingegnere o da un architetto ovvero che un ingegnere o un architetto esegua i calcoli in cemento armato, atteso che il professionista competente deve essere altresì titolare della progettazione, trattandosi di competenze inderogabilmente affidate dal committente al professionista abilitato secondo il proprio statuto professionale, sul quale gravano le relative responsabilità.
---------------

Tra quelli formulati nel ricorso ritiene il Collegio che sia fondato, con portata assorbente di ogni altra censura, quello che attiene al dedotto difetto di competenza in capo al professionista (geometra) che ha elaborato il progetto posto a base dell’impugnata concessione edilizia, con conseguente illegittimità della stessa.
L’attività professionale dei geometri è disciplinata dal R.D. 11.02.1929, n. 274 “Regolamento per la professione di geometra”.
Afferma a tal riguardo consolidata giurisprudenza che è estranea alla competenza dei geometri la progettazione di costruzioni civili con strutture in cemento armato, atteso che si tratta di attività che, qualunque ne sia l'importanza, è riservata solo agli ingegneri ed agli architetti iscritti nei relativi albi professionali.
Solo in via di eccezione la competenza dei geometri si estende, a norma della lett. l) dell'art. 16 del R.D. n. 274 del 1929, anche alle strutture in cemento armato, purché si tratti -diversamente dal caso di specie- di piccole costruzioni accessorie nell'ambito di edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone.
Per il resto, la suddetta competenza è comunque esclusa nel campo delle costruzioni civili ove si adottino strutture in cemento armato, la cui progettazione e direzione, qualunque ne sia l'importanza, è riservata solo agli ingegneri e agli architetti iscritti nei relativi albi professionali (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. V, 13.01.1999, n. 25; Cass., sez. II, 07.09.2009, n. 19292).
Pertanto, la progettazione e la direzione di opere da parte di un geometra in materia riservata alla competenza professionale degli ingegneri o degli architetti sono illegittime, a nulla rilevando in proposito che un progetto redatto da un geometra sia controfirmato o vistato da un ingegnere o da un architetto ovvero che un ingegnere o un architetto esegua i calcoli in cemento armato, atteso che il professionista competente deve essere altresì titolare della progettazione, trattandosi di competenze inderogabilmente affidate dal committente al professionista abilitato secondo il proprio statuto professionale, sul quale gravano le relative responsabilità (cfr. Cass., sez. 2, 26.07.2006, n. 17028; Cass., sez. 2, 21.03.2011, n. 6402; Cass., sez. 2, 02.09.2011, n. 18038).
Tenuto conto del quadro normativo e giurisprudenziale così sintetizzato, il Collegio rileva come l’impugnata concessione edilizia consenta al controinteressato di eseguire l’ampliamento qualitativo e quantitativo del “Residence Si.”, mediante la realizzazione di opere che esulano dalla competenza dei geometri, come sopra definita.
Non è sufficiente a superare il dedotto vizio di incompetenza l’apposizione sul progetto medesimo, in un secondo tempo e a seguito di rimostranze, anche del timbro e della firma di un ingegnere, quest’ultimo dotato di competenza, atteso che difettano chiari e incontrovertibili elementi dai quali potersi desumere la riferibilità della progettazione in questione a tale figura professionale (TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 13.02.2020 n. 45 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: E' nullo il contratto di affidamento della direzione dei lavori di costruzioni civili ad un geometra, ove la progettazione richieda l'esecuzione, anche parziale, dei calcoli in cemento armato, attività demandata agli ingegneri, attese le limitate competenze attribuite ai geometri dall'art. 16 del r.d. n. 274 del 1929.
Il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta, e quindi se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei geometri, ai sensi dell'art. 16, lett. m), r.d. n. 274 del 1929, consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle; a questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben potendo anche una costruzione non modesta essere realizzata senza di esso), assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla l. 64 del 1974, la quale impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri.
La corte di merito, ha verificato che
la costruzione sorgeva in zona sismica (tanto bastava per affermare l'esclusiva competenza professionale degli ingegneri e degli architetti ed escludere la competenza del geometra) e riguardava una casa rurale a due piani fuori terra con struttura portante in cemento armato, costituita da travi e pilastri, e quindi di una struttura architettonica particolarmente complessa, che comportava l'esecuzione, di complicati calcoli.
Ne consegue che,
correttamente, la corte ha ritenuto che la prestazione professionale del Ri. fosse contra legem ed ha dichiarato la nullità del contratto, ai sensi degli artt. 1418 c.c. e 2229 c.c., trattandosi di prestazioni non rientranti tra quelle consentite ai geometri.
---------------
Con il secondo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 16 del R.D. 274/1929, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c, per avere la Corte d'appello dichiarato nullo il contratto intercorso tra la committente ed il geometra Ri., in qualità di progettista della costruzione e direttore delle opere murarie, nonostante si trattasse della progettazione di un edificio rurale e destinato all'azienda agricola, che non richiedeva operazioni di calcolo o pericolo per l'incolumità delle persone.
In ogni caso -afferma il ricorrente- si tratterebbe di una "semplice costruzione civile" e non di un'opere in cemento armato, per la quale non sussiste il divieto per i geometri di redigere progetti esecutivi e di massima.
Il motivo non è fondato.
Le competenze del geometra, ai sensi dell'art. 16 del R.D. 274/1929 sono le seguenti:
   l) progetto, direzione, sorveglianza e liquidazione di costruzioni rurali e di edifici per uso d'industrie agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria, comprese piccole costruzioni accessorie in cemento armato, che non richiedono particolari operazioni di calcolo e per la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone; nonché di piccole opere inerenti alle aziende agrarie, come strade vicinali senza rilevanti opere d'arte, lavori d'irrigazione e di bonifica, provvista d'acqua per le stesse aziende e riparto della spesa per opere consorziali relative, esclusa, comunque, la redazione di progetti generali di bonifica idraulica ed agraria e relativa direzione;
   m) progetto, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili.
Questa Corte ha pacificamente affermato che è nullo il contratto di affidamento della direzione dei lavori di costruzioni civili ad un geometra, ove la progettazione richieda l'esecuzione, anche parziale, dei calcoli in cemento armato, attività demandata agli ingegneri, attese le limitate competenze attribuite ai geometri dall'art. 16 del r.d. n. 274 del 1929 (Cassazione civile sez. II, 24/03/2016, n. 5871, Cass. Civ., sez. 02, del 26/07/2006, n. 17028, Cass. Civ., sez. 02, del 21/03/2011, n. 6402).
Il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta, e quindi se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei geometri, ai sensi dell'art. 16, lett. m), r.d. n. 274 del 1929, consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle; a questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben potendo anche una costruzione non modesta essere realizzata senza di esso), assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla l. 64 del 1974, la quale impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri (Cassazione civile sez. II, 17/11/2015, n. 23510).
La corte di merito, con accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, ha verificato che la costruzione sorgeva in zona sismica (tanto bastava per affermare l'esclusiva competenza professionale degli ingegneri e degli architetti ed escludere la competenza del geometra) e riguardava una casa rurale a due piani fuori terra con struttura portante in cemento armato, costituita da travi e pilastri, e quindi di una struttura architettonica particolarmente complessa, che comportava l'esecuzione, di complicati calcoli (pag. 9-10 della sentenza impugnata).
Ne consegue che, correttamente, la corte ha ritenuto che la prestazione professionale del Ri. fosse contra legem ed ha dichiarato la nullità del contratto, ai sensi degli artt. 1418 c.c. e 2229 c.c., trattandosi di prestazioni non rientranti tra quelle consentite ai geometri (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 07.02.2020 n. 2913).

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso ai documenti amministrativi e detenzione degli atti di cui si chiede l’ostensione.
L’Amministrazione, in sede di istanza di accesso ai documenti amministrativi, è tenuta unicamente a rendere gli atti di cui abbia la disponibilità giuridica e materiale e non anche a compiere un’attività di ricerca degli stessi presso terzi, anche se soggetti pubblici, ciò al fine di coniugare il diritto alla trasparenza con l’esigenza di non pregiudicare, attraverso l'esercizio del diritto di accesso, il buon andamento dell’Amministrazione, non potendosi azionare il rimedio di cui all’art. 25 della l. n. 241/1990 allo scopo di riversare su quest’ultima l’onere di reperire la documentazione richiesta bensì esclusivamente al fine di ottenere il rilascio di copie di documenti già in possesso della stessa.
---------------
Il ricorso non è meritevole di accoglimento risultando dagli atti di causa che, come rappresentato in atti dall’Ateneo resistente, il competente ufficio dell’Area Risorse Umane dell’Università abbia già l’08.08.2019 consentito al legale di parte ricorrente di accedere al fascicolo personale del ricorrente e di estrarne copia di tutta la documentazione ivi contenuta, per un totale di “374 fogli”, come da relativo verbale redatto in pari data, richiamato anche nella contestata nota del 15.11.2019, in cui, con riferimento a “l’ulteriore richiesta di acquisizione atti …inerente l’attività assistenziale del Prof. Vi.Al. nella sua qualità di docente medico strutturato presso l’Azienda Ospedaliera Policlinico Umberto I”, si evidenziava “la necessità di rivolgere analoga richiesta ai competenti Uffici dell’A.O.U. Policlinico Umberto I”.
Ne discende come risulti incontestato che l’Ateneo intimato, già nel riscontrare la prima richiesta di accesso avanzata dal ricorrente, abbia già messo a disposizione del ricorrente tutta la documentazione di cui dispone e che è tenuta a detenere, residuando rispetto ad essa i soli atti relativi all’attività assistenziale da costui svolta presso un diverso ente (l’Azienda Ospedaliero Universitaria Policlinico Umberto I) -avente autonoma personalità giuridica ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 517/1999- al quale egli afferma di aver, tra l’altro, già avanzato la relativa richiesta.
La giurisprudenza amministrativa è, infatti, consolidata nell’affermare come l’Amministrazione, in sede di istanza di accesso ai documenti amministrativi, sia tenuta unicamente a rendere gli atti di cui abbia la disponibilità giuridica e materiale e non anche a compiere un’attività di ricerca degli stessi presso terzi, anche se soggetti pubblici, ciò al fine di coniugare il diritto alla trasparenza con l’esigenza di non pregiudicare, attraverso l'esercizio del diritto di accesso, il buon andamento dell’Amministrazione, non potendosi azionare il rimedio di cui all’art. 25 della l. n. 241/1990 allo scopo di riversare su quest’ultima l’onere di reperire la documentazione richiesta bensì esclusivamente al fine di ottenere il rilascio di copie di documenti già in possesso della stessa (in tal senso, ex multis, questo TAR Lazio, Roma, Sezione I, n. 4695/2018, e Sezione III, n. 11291/2017) (TAR Lazio-Roma, Sez. III, sentenza 19.02.2020 n. 2189 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il presupposto necessario perché sia ammissibile l'istanza di accesso civico generalizzato è che sia strumentale alla tutela di un interesse generale.
Uno solo è il presupposto imprescindibile di ammissibilità dell'istanza di accesso civico generalizzato, ossia la sua strumentalità alla tutela di un interesse generale. La relativa istanza, dunque, andrà in ogni caso disattesa ove tale interesse generale della collettività non emerga in modo evidente, oltre che, a maggior ragione, nel caso in cui la stessa sia stata proposta per finalità di carattere privato ed individuale.
Lo strumento in esame può pertanto essere utilizzato solo per evidenti ed esclusive ragioni di tutela di interessi propri della collettività generale dei cittadini, non anche a favore di interessi riferibili, nel caso concreto, a singoli individui od enti associativi particolari: al riguardo, il giudice amministrativo è tenuto a verificare in concreto l'effettività di ciò, a nulla rilevando  tanto meno in termini presuntivi- la circostanza che tali soggetti eventualmente auto-dichiarino di agire quali enti esponenziali di (più o meno precisati) interessi generali.
Pertanto, sebbene il legislatore non chieda all'interessato di formalmente motivare la richiesta di accesso generalizzato, la stessa vada disattesa, ove non risulti in modo chiaro ed inequivoco l'esclusiva rispondenza di detta richiesta al soddisfacimento di un interesse che presenti una valenza pubblica, essendo del tutto estraneo al perimetro normativo della fattispecie la strumentalità (anche solo concorrente) ad un bisogno conoscitivo privato.
In tal caso, invero, non si tratterebbe di imporre per via ermeneutica un onere non previsto dal legislatore, bensì di verificare se il soggetto agente sia o meno legittimato a proporre la relativa istanza
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.02.2020 n. 1121 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sul diritto all'accesso civico generalizzato.
Il "diritto all'accesso civico generalizzato" riguarda la possibilità di accedere a dati, documenti e informazioni detenuti dalle pubbliche amministrazioni ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria previsti dal d.lgs. n. 33/2013. La legittimazione a esercitare il diritto è riconosciuta a chiunque, a prescindere da un particolare requisito di qualificazione.
La richiesta deve consentire all'amministrazione di individuare il dato, il documento o l'informazione; sono pertanto ritenute inammissibili richieste generiche. Nel caso di richiesta relativa a un numero manifestamente irragionevole di documenti, tale da imporre un carico di lavoro in grado di compromettere il buon funzionamento dell'amministrazione, la stessa può ponderare, da un lato, l'interesse all'accesso ai documenti, dall'altro, l'interesse al buon andamento dell'attività amministrativa (Linee guida Agenzia Nazionale Anticorruzione-ANAC su accesso civico generalizzato, par. 4.2).
L'esercizio di tale diritto deve svolgersi nel rispetto delle eccezioni e dei limiti relativi alla tutela di interessi pubblici e privati giuridicamente rilevanti (articolo 5-bis, comma 2, lettera a), del d.lgs. n. 33/2013)
(TAR Valle d'Aosta, sentenza 05.02.2020 n. 3 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATADifferenza tra i presupposti dell'accesso normale e quelli dell'accesso civico generalizzato, in relazione all'impugnativa di un diniego di permesso di costruire.
---------------
  
Accesso ai documenti – Istanza – Reiterazione – Possibilità – Condizione.
  
Accesso ai documenti – Accesso generalizzato – Ambito di applicazione – Individuazione.
  
La reiterazione di una domanda di accesso agli atti è ammissibile se articolata su fatti nuovi non rappresentati nell'originaria istanza ed a fronte di diversa prospettazione dell'interesse giuridicamente rilevante (1).
  
Il diritto all'accesso civico generalizzato riguarda la possibilità di accedere a dati, documenti e informazioni detenuti dalle Pubbliche amministrazioni ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria previsti dal d.lgs. n. 33 del 2013; la legittimazione a esercitare tale diritto è riconosciuta a chiunque, a prescindere da un particolare requisito di qualificazione (2).
---------------
   (1) Ha chiarito il Tar che tale conclusione discende, nonostante la qualificazione dell'accesso come diritto, dalla natura impugnatoria del processo in materia di accesso ai documenti amministrativi; sicché deve ritenersi inammissibile il ricorso nella sola ipotesi avente ad oggetto la medesima domanda di accesso a suo tempo già proposta e sulla quale si era già formata una preclusione procedimentale-processuale.
Nel caso di specie (ove dalla conoscenza di alcuni atti -segnatamente il citato preavviso di diniego– si ritiene scaturire l'esigenza di ulteriori acquisizioni documentali, senza che possa configurarsi un utilizzo frazionato e protratto nel tempo dello strumento procedurale e processuale del diritto di accesso) non viene in rilievo una ripetuta reiterazione delle istanze di accesso che si rivela di per sé non conforme alle finalità della normativa in materia, circa la consentita conoscenza di tutta la documentazione che l'interessato può ritenere utile per l'accertamento di fatti che lo riguardano.
   (2) Ha chiarito il Tar che la richiesta deve consentire all’amministrazione di individuare il dato, il documento o l'informazione; sono pertanto ritenute inammissibili richieste generiche. Nel caso di richiesta relativa a un numero manifestamente irragionevole di documenti, tale da imporre un carico di lavoro in grado di compromettere il buon funzionamento dell’amministrazione, la stessa può ponderare, da un lato, l’interesse all’accesso ai documenti, dall’altro, l’interesse al buon andamento dell’attività amministrativa (Linee guida Autorità Nazionale Anticorruzione-ANAC n. 1309/2016 su accesso civico generalizzato, paragrafo 4.2).
L’esercizio di tale diritto deve svolgersi nel rispetto delle eccezioni e dei limiti relativi alla tutela di interessi pubblici e privati giuridicamente rilevanti (art. 5-bis, comma 2, lett. a), d.lgs. n. 33 del 2013) (
TAR Valle d'Aosta, sentenza 05.02.2020 n. 3 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
Con il ricorso in epigrafe, ex art. 166 D.Lgs. 104/2010, il ricorrente, il Sig.re Gu.Pe., ha impugnato il provvedimento negativo rilasciato dal Comune di Courmayeur in data 10.06.2019, nell’ambito di un procedimento avviato presso lo Sportello Unico Enti Locali (la domanda presenta il 04.03.2019; il preavviso di diniego di rilascio di permesso di costruire emesso il 18.06.2019) per la realizzazione di dortoirs (strutture ricettive di basso impatto ambientale) ivi asserendosi che l’intervento in oggetto non è ammissibile in quanto in contrasto con le norme urbanistiche di cui all’art. 14.4 delle N.T.A. del vigente PRGC, riguardante una zona specifica la sottozona Ec.
Viene precisato fin da subito che il Comune ha immediatamente rappresentato, nei colloqui con i tecnici della proprietà e nel parere reso allo Sportello Unico, che a suo avviso, nelle zone E del Territorio Comunale sarebbe preclusa l’edificazione; l’opposto da quanto rappresentato dalla famiglia dell’odierno ricorrente, titolare di una struttura alberghiera nel Comune di Courmayeur, e che secondo quanto asserito in atti, le aree destinate all’intervento si trovano in zona E sottozona Ec09 di cui alle N.T.A. del Piano Regolatore Generale del Comune di Courmayeur, nelle quali, sulla base dell’art. 14.1 delle stesse, è ammessa la realizzazione di tali strutture.
Infatti, tale norma prevede che nelle zone E entro cui ricade l’area del ricorrente è ammessa “la realizzazione di [...] bivacchi e posti di tappa escursionistici o dortoirs, ai sensi di legge ad esclusione delle sottozone Ed, Ee, Eg, ed Ei”. Ergo, nelle zone Ec quale quella de qua, non indicate nell’elenco di quelle ove è inibita la realizzazione di dortoirs.
Si è costituito il Comune intimato concludendo per l’inammissibilità ed il rigetto del ricorso.
Ciò detto, il ricorso è parzialmente fondato e va accolto in parte per le ragioni e nei limiti (segnatamente temporali ove riferiti alla data della documentazione richiesta) che seguono, non potendosi condividere le eccezioni in rito formulate dall’Amministrazione resistente.
Ed, invero, l’eccepita inammissibilità del ricorso per tardività dello stesso in ragione della mera reiterazione di identiche istanze di accesso non appare condivisibile nella misura in cui, per un verso, rilevano tra le stesse significative differenze soggettive ed oggettive; e, per altro verso e soprattutto, vengono in rilievo sopravvenienze giuridiche e fattuali (favorevole responso del Difensore Civico interpellato il 20.06.2019 che ha ritenuto ammissibile l’istanza avanzata dall’odierno ricorrente; preavviso di diniego di rilascio di permesso di costruire emesso il 18.06.2019, cui, da un lato, si correla un’autonoma e ulteriore esigenza conoscitivo-ostensiva in ragione, da un lato, del conseguente esercizio di poteri partecipativo-procedimentali in punto di osservazione varianti progettuali; e, dall’altro, in quanto oggetto di distinto ricorso giurisdizionale presso questo Tribunale, del conseguente, effettivo esercizio del diritto di difesa); per altro verso, il nuovo ed odiernamente impugnato atto di riscontro anche alla prima istanza di accesso (nota del Comune di Courmayeur 29.08.2019).
La reiterazione di una domanda di accesso agli atti, nel caso di specie quindi, è ammissibile in quanto articolata su fatti nuovi non rappresentati nell'originaria istanza ed a fronte di diversa prospettazione dell'interesse giuridicamente rilevante. Tale conclusione discende, nonostante la qualificazione dell'accesso come diritto, dalla natura impugnatoria del processo in materia di accesso ai documenti amministrativi; sicché deve ritenersi inammissibile il ricorso nella sola ipotesi, qui non verificatasi, avente ad oggetto la medesima domanda di accesso a suo tempo già proposta e sulla quale si era già formata una preclusione procedimentale-processuale.
Conclusivamente sul punto, appare sì condivisibile in astratto il principio di diritto per cui la ripetuta reiterazione delle istanze di accesso si rivela di per sé non conforme alle finalità della normativa in materia, circa la consentita conoscenza di tutta la documentazione che l'interessato può ritenere utile per l'accertamento di fatti che lo riguardano, ma non è questo il caso che ci occupa.
Invero, in ragione dei fatti che hanno connotato l’origine e il successivo sviluppo della vicenda in contestazione è ragionevole ritenere che dalla conoscenza di alcuni atti (segnatamente il citato preavviso di diniego), può dimostratamente scaturire l'esigenza di ulteriori acquisizioni documentali; senza che possa configurarsi nella specie un utilizzo frazionato e protratto nel tempo dello strumento procedurale e processuale del diritto di accesso, comportamento, questo sì idoneo ad introdurre una sorta di mera indagine sull’attività amministrativa che certamente non può trovare legittimazione per l’attivazione della relativa azione giurisdizionale, ipotesi che qui, appunto, non ricorre.
Così definiti i profili di ammissibilità, nel merito si rileva che l’interesse che muove la domanda d’accesso agli atti –e che è altresì misura della genericità o meno dell’istanza ostensiva, rispetto alla quale viene in rilievo l’ulteriore eccezione in rito dell’amministrazione comunale, parimenti da disattendere- si concretizza nel presupposto di tutela di proprie situazioni e interessi giuridici di parte in un procedimento edilizio, così qualificandosi in termine di interesse diretto, concreto e attuale: l’istante viene, dunque, in rilievo quale portatore di una posizione giuridica soggettiva tutelata, qualificata e differenziata; l’esigenza di tutela non è quindi astratta o meramente ipotetica ed, ancora, vi sono riflessi attuali del documento sulla posizione giuridica tutelata (l’interesse non è meramente storico documentativo).
Nel caso di specie, infatti, l’interesse è diretto, in quanto il Sig. Pe. è il titolare della domanda di permesso di costruire -insieme alla sorella- in esito alla successione dal padre deceduto il 26.03.2019; è altresì concreto in quanto non volto a una tutela meramente astratta e ipotetica, ma la documentazione attiene direttamente le questioni relative alla domanda di permesso di costruire agli atti; ed infine vi è l’attualità dell’interesse in quanto rileva al fine di evitare un provvedimento di diniego di titolo edilizio e far valere le posizioni in sede di procedimento (o in denegata ipotesi in sede giurisdizionale).
Ciò posto quanto all’interesse all’accesso, per quel che attiene l’oggetto della richiesta, la domanda attiene documenti riconosciuti come accessibili anche dalla giurisprudenza di questo Tribunale (Tar Valle d’Aosta, sentenza n. 12/2017).
Il ricorrente ha infatti evidenziato la possibilità e la disponibilità di voler e poter apportare delle modifiche al progetto, rispetto alle prescrizioni impartite, esortando il Comune a rivedere la sua posizione negatoria e a rilasciare parere positivo. Inoltre, al ricorrente risulta che nelle zone E, sottozone EC09, del territorio Comunale di cui alle Norme Tecniche di Attuazione, del Piano Regolatore Generale di Courmayeur, esistono e sono stati assentiti diversi interventi di edificazione; pertanto, non risulta preclusa l’oggetto di intervento di domanda di permesso di costruire. Si fa presente, inoltre per completezza, che i dortoirs sono a basso impatto ambientale e sono in sostanza rifugi di montagna, ideati per soste brevi.
Per verificare tali aspetti la famiglia Pe. ha inviato ed invitato l’arch. Ma., a presentare il 05.03.del 2019, con procura speciale rilasciata dalla famiglia Pe. prima della morte del padre avvenuta il 26.03.2019, una propria istanza di accesso agli atti per ottenere i titoli relativi agli interventi realizzati nelle zone E, con possibilità anche di presa di visione del registro cronologico relativo alle medesime zone delle relative pratiche edilizie, al fine di verificare come prevedere l’edificazione dell’area, motivando l’istanza in relazione alle proprie esigenze professionali, accludendone parere legale a riprova delle ragioni che legittimavano la sua richiesta, rimasta senza riscontro.
Allora, il Sig.re Gu.Pe. ha presentato il progetto edilizio presso gli Uffici comunali il 12.03.2019, difatti, in data 21.03.2019 richiedeva alla medesima Amministrazione di avere accesso a tutto quanto già detto in epigrafe del ricorso. È evidente che l’interesse all’accesso, risulta essere essenziale per la cura dei propri interessi giuridici (ex art. 24, comma 7, l. n. 241/1990 “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi, la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”.
E la giurisprudenza è uniformemente orientata nell’affermare che “- è jus receptum il principio (cfr., per tutti, Cons. St., IV, 19.04.2017 n. 1832) per cui, di regola, il diritto di accesso non soffre limitazioni se non quelle espressamente previste con legge o in base, comunque, a norme evincibili da ordinamenti di settore” (Cons. Stato, sez. VI, 06.09.2018, n. 5257).
Ovviamente, tale interesse è rivolto a far valere in sede procedimentale le ragioni del ricorrente, ragioni per le quali il procedimento di rilascio del permesso di costruire è, ancora, in corso e in quella sede, si puntualizza la disponibilità asseveratrice e servizievole del ricorrente medesimo, alla revisione di alcuni degli aspetti progettuali presentati e valutati in maniera favorevole anche alle Amministrazioni coinvolte nel Procedimento Unico in parola, per permettere di apportare con le dovute modifiche “a compimento” il progetto, in concerto con gli Enti emittenti, previo rilascio del permesso.
Anche questa richiesta, però, veniva palesemente archiviata e respinta ritenendola inammissibile, il 12.04.2019 da parte dell’Amministrazione, in quanto ritenuta “non ammissibile” ai sensi degli artt. 40, c. 2; 41, c. 2; 43, c. 3 e 4 della Legge Regionale Valle d’Aosta 06.08.2007, n. 19.
A seguito di apposito sollecito presentato dal Sig.re Pe. in data 14.05.2019, il ricorrente il 03.06.2019 invitava ed ammoniva ancora una volta l’Amministrazione ed pungolava il Difensore Civico della Regione Valle d’Aosta ad esercitare funzioni d’intervento nei confronti del Comune in indirizzo, in forza della vigente Convenzione stipulata tra l’Amministrazione Comunale e il Consiglio regionale il 03.08.2018, in combinato disposto con l’art. 11, c. 2, della Legge Regionale Valle d’Aosta n. 17/2001.
A questo punto, il Difensore Civico interpellato il 20.06.2019 ha ritenuto ammissibile l’istanza avanzata dallo scrivente disponendo che: “le concessioni edilizie sono atti pubblicati all’Albo Pretorio, non solo, non si fa luogo, come nel caso di specie, a scrutinio in ordine alla protezione di dati personali, ai sensi dell’art. 5-bis, comma 2, lett. a), d.lgs. n. 33/2013”. Non è questo il caso di opporre il diritto alla riservatezza dei dati, “poiché il titolo abilitativo non attiene alla sfera privata del titolare, ma ad un atto di gestione del territorio”. Ha riconosciuto il diritto di accesso del ricorrente, seppure qualificando la posizione come “accesso civico generalizzato”, trattandosi di atti pubblici esposti per estratto all’albo.
Sul punto appare utile precisare che il “diritto all'accesso civico generalizzato” riguarda la possibilità di accedere a dati, documenti e informazioni detenuti dalle pubbliche amministrazioni ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria previsti dal d.lgs. n. 33/2013. La legittimazione a esercitare il diritto è riconosciuta a chiunque, a prescindere da un particolare requisito di qualificazione.
La richiesta deve consentire all’amministrazione di individuare il dato, il documento o l'informazione; sono pertanto ritenute inammissibili richieste generiche. Nel caso di richiesta relativa a un numero manifestamente irragionevole di documenti, tale da imporre un carico di lavoro in grado di compromettere il buon funzionamento dell’amministrazione, la stessa può ponderare, da un lato, l’interesse all’accesso ai documenti, dall’altro, l’interesse al buon andamento dell’attività amministrativa (Linee guida Agenzia Nazionale Anticorruzione-ANAC su accesso civico generalizzato, paragrafo 4.2).
L’esercizio di tale diritto deve svolgersi nel rispetto delle eccezioni e dei limiti relativi alla tutela di interessi pubblici e privati giuridicamente rilevanti (articolo 5-bis, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 33/2013).
Nel caso di specie, pur coesistendo diversi livelli di esercizio del diritto di accesso, non appare necessario procedere in astratto alla perimetrazione dei rispettivi ambiti di operatività ed ai reciproci rapporti di interferenza.
Sul punto, come noto, recentemente (Cons. St., sez. III, ord., 16.12.2019, n. 8501), sono state rimesse al vaglio dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, tre progressive questioni ermeneutiche scaturenti dal complesso intreccio normativo sulla materia de qua e rispettivamente volte a chiarire, al di là dello specifico riferimento al settore dei contratti pubblici, per un verso, se, in presenza di un’istanza di accesso ai documenti espressamente motivata con esclusivo riferimento alla disciplina generale di cui alla l. n. 241 del 1990, o ai suoi elementi sostanziali, l’amministrazione, una volta accertata la carenza del necessario presupposto legittimante della titolarità di un interesse differenziato in capo al richiedente, ai sensi dell’art. 22, l. n. 241 del 1990, sia comunque tenuta ad accogliere la richiesta, qualora sussistano le condizioni dell’accesso civico generalizzato di cui al d.lgs. n. 33 del 2013; per altro verso, se, di conseguenza, il giudice, in sede di esame del ricorso avverso il diniego di una istanza di accesso motivata con riferimento alla disciplina ordinaria di cui alla l. n. 241 del 1990 o ai suoi presupposti sostanziali, abbia il potere-dovere di accertare la sussistenza del diritto del richiedente, secondo i più ampi parametri di legittimazione attiva stabiliti dalla disciplina dell’accesso civico generalizzato.
Nella odierna vicenda, come sopra argomentato e con la precisazione temporale di cui si dirà, non emerge un problema di previa qualificazione in ragione della riscontrata sussistenza dei presupposti normativi di riferimento.
Ed, invero, deve aggiungersi, per questo caso, che, a far data dall’entrata in vigore della legge 10/1977, che operò la separazione tra diritto di proprietà e diritto a costruire, o ad edificare, sottratto alla privata disponibilità in quanto ritenuto afferente a preminente interesse collettivo (TAR Valle d’Aosta, Sez. I, sent. n. 12/2017), sussiste il diritto di accedere ai titoli abilitativi rilasciati per atti progettuali interventistici, risultando per tanto allo stato della controversia attuale illegittimo il diniego all’ostensione dei documenti. Nel caso di specie, il difensore civico ha chiaramente rappresentato l’ammissibilità della richiesta, senza riscontro alcuno del Comune, con ciò contravvenendo al disposto dell’art. 12, c. II, l.r. 17/2001, in forza del quale “qualora l'amministrazione non intenda uniformarsi alle osservazioni, deve fornire adeguata motivazione scritta del dissenso al Difensore civico”. La domanda d’accesso deve essere evasa alla luce del pronunciamento del difensore civico, la cui mancata ottemperanza profila l’omissione ai propri doveri d’ufficio riconosciuti tali dal difensore civico regionale.
Inoltre, al fine di contestare il preavviso di diniego e il provvedimento di diniego del permesso di costruire, il ricorrente ha necessità della documentazione richiesta, atteso che riguarda titoli edilizi rilasciati su aree aventi la medesima destinazione urbanistica di quella del ricorrente e perché risulta essere essenziale ai fini di un corretto esercizio di difesa e che sussistono fatti nuovi su cui si fonda.
Non vi è inoltre ragione per pretese difficoltà di reperimento della documentazione, sia perché si riferisce ad alcune aree specifiche, sia perché l’accesso potrà essere esercitato progressivamente, senza nessuna altra procrastinazione.
Deve invece osservarsi, in ciò condividendosi il rilievo comunale, che, proprio in ragione della complessiva tipologia di bisogno conoscitivo che sorregge l’istanza ostensiva, non possa consentirsi il suo esercizio con riferimento all’intero intervallo di tempo richiesto (01.01.2008/31.12.2018, come da istanza dell’08/07/2019), trattandosi di un’estensione cronologica della domanda di accesso ultronea rispetto all’interesse fatto valere e che, come detto, si concentra sulla portata ermeneutica n.t.a. de quibus (che, non prevedendo indici per le zone E, avrebbero con ciò inteso precludere interventi su di esse) e ad appurare a tal fine l’orientamento espresso in precedenza dal medesimo Comune in aree con la stessa destinazione.
Ne consegue che –posto che, per un verso, il testo definitivo delle N.T.A. è stato approvato con deliberazione del Consiglio comunale del 22/02/2013, n. 8 ed è divenuto efficace in data 19/03/2013; e, per altro verso, le norme di carattere generale dettate per le zone di tipo E paragrafo 14.1, lett. e) confermano “le destinazioni d’uso in atto al 31.03.2012”, ancorché diverse da quelle previste nelle rispettive sottozone-, l’istanza di accesso non può operare nei confronti dei titoli rilasciati dopo il 2008 e prima dell’entrata in vigore delle N.T.A. (19.3.2013), così come per quelli rilasciati dopo il 2008 e relativi a destinazioni d’uso diverse ma in atto al 31/03/2012: ed, invero, non potendo le N.T.A. costituire rispetto a tali atti valido parametro giuridico di riferimento, difetta un interesse giuridicamente rilevante alla loro acquisizione documentale.
Non appare invece parimenti condivisibile l’ulteriore limitazione tipologica invocata dal Comune resistente e relativa ad interventi post. 19.03.2013 ed sottozone diverse dalla Ec: ed, invero, operando per talli interventi edilizi il medesimo regime tecnico-giuridico, sussiste comunque un qualificato interesse all’acquisizione della relativa documentazione onde verificare, sia pure in diverse sottozone, ma assoggettate alla medesima regula juris, quale ne sia stata l’interpretazione del comune per differentiam.
Analoghi rilievi, anche in ragione della identità di tipologia edilizia, concernono la piena ammissibilità dell’istanza di accesso rispetto ai segnalati ai titoli edilizi rilasciati per le aree relative agli edifici Rifugio Bertone, Rifugio Elisabetta, Cabane du ombal, Le Randonneur.
In conclusione il ricorso va in parte accolto, ordinando, nei limiti sopradescritti, l’esibizione ed il rilascio della documentazione richiesta con riferimento ai titoli successivi al 19.03.2013.

ATTI AMMINISTRATIVIL’accesso ai documenti amministrativi è oggi regolamentato da tre sistemi generali, ognuno caratterizzato da propri limiti e presupposti:
   a) il tradizionale accesso documentale (artt. 22 ss. l. n. 241/1990), che consente ai (soli) soggetti portatori di un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata” di accedere ai dati incorporati in supporti documentali formati o, comunque, detenuti da soggetti pubblici;
   b) l'accesso civico, concesso a “chiunque” per ottenere “documenti, informazioni o dati” di cui sia stata omessa la pubblicazione normativamente imposta (art. 5, comma 1, d.lgs. n. 33/2013);
   c) l’accesso civico generalizzato, concesso “senza alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva” e, perciò, senza necessità di apposita “motivazione” giustificativa in relazione a “dati, informazioni o documenti” ancorché non assoggettati all’obbligo di pubblicazione (art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33/2013).
Si tratta di istituti a carattere generale ma ognuno con oggetto diverso, e sono applicabili ognuno a diverse e specifiche fattispecie: ne segue che ognuno di essi opera nel proprio ambito di azione senza assorbimento della fattispecie in un’altra, e senza abrogazione tacita o implicita ad opera della disposizione successiva poiché diverso è l’ambito di applicazione di ciascuno di essi. Ognuno di questi presenta caratteri di specialità rispetto all’altro. Di conseguenza, come ritenuto in tale arresto che il Collegio condivide, laddove il richiedente abbia espressamente optato per un modello è precluso all’Amministrazione qualificare diversamente l’istanza, al fine di individuare la disciplina applicabile.
Correlativamente il richiedente, una volta effettuata la propria istanza motivata dai presupposti di una specifica forma di accesso, non potrà effettuare una conversione della stessa in corso di causa. Questa infatti si radica su una specifica richiesta e sulla relativa risposta negativa dell’Amministrazione che concorrono a formare l’oggetto del contendere. Non può quindi ammettersi un mutamento del titolo giuridico dell’accesso in corso di controversia poiché il rapporto tra richiedente ed Amministrazione (o soggetto equiparato) si è formato non attorno ad un generico (asserito) diritto del primo di accedere a una determinata documentazione ma su una richiesta precisamente connotata nei suoi presupposti giuridici e fattuali. È su questo rapporto che la controversia verte, ed è questo l’oggetto del contendere.
La coesistenza di tre diverse specie di accesso agli atti, ciascuna distintamente regolata nei suoi presupposti, induce a ritenere che non esista, nel nostro ordinamento, un unico e generale diritto del privato ad accedere agli atti amministrativi che possa farsi valere a titolo diverso. Esistono invece specifiche situazioni nei rapporti di pubblico all’interno delle quali, al venire in essere di determinati presupposti (diversi in ognuna di esse), il privato assume titolo ad accedere alla documentazione amministrativa, con limiti e modalità diversificate nelle varie ipotesi. È onere del richiedente individuare quale sia la sua situazione e, pertanto, quale tipologia di accesso azionare, eventualmente in via cumulativa. Una volta effettuata la scelta, è su tale rapporto che si incardina la controversia e lo stesso non può dunque essere riqualificato in sede giudiziaria.
---------------
Ai fini della qualificazione della sua natura l'atto amministrativo va interpretato in base al suo specifico contenuto risalendo al potere concretamente esercitato dall'amministrazione, prescindendo dal nomen iuris che gli è stato assegnato.
---------------

2. La domanda di accesso è stata formulata dalla ricorrente ai sensi della legge n. 241/1990 assumendo di avere un interesse “diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento” richiesto, come prevede l’articolo 22, comma 1, lett. b), della citata normativa.
Nel ricorso chiede però che la sua domanda venga accolta non solo ai sensi di questa normativa, ma anche a titolo di accesso civico generalizzato e, inoltre, in quanto avrebbe ad oggetto informazioni ambientali ai sensi del d.lgs. n. 195/2005.
La difesa di ARPAT replica che tale riqualificazione della domanda di accesso in sede processuale non sarebbe possibile.
Ai fini della trattazione della controversia occorre quindi, in via preliminare, stabilire se tale riqualificazione sia legittima ed individuare dunque se alla fattispecie sia applicabile la sola legge n. 241/1990 o, invece, anche le altre normative invocate dalla ricorrente. A tal fine il Collegio reputa di ripercorrere le considerazioni contenute nella sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, 02.08.2019 n. 5503 la quale, se pure resa in tema di accesso agli atti di una gara d’appalto, contiene principi applicabili in via generale e quindi anche al caso di specie.
L’accesso ai documenti amministrativi è oggi regolamentato da tre sistemi generali, ognuno caratterizzato da propri limiti e presupposti:
   a) il tradizionale accesso documentale (artt. 22 ss. l. n. 241/1990), che consente ai (soli) soggetti portatori di un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata” di accedere ai dati incorporati in supporti documentali formati o, comunque, detenuti da soggetti pubblici;
   b) l'accesso civico, concesso a “chiunque” per ottenere “documenti, informazioni o dati” di cui sia stata omessa la pubblicazione normativamente imposta (art. 5, comma 1, d.lgs. n. 33/2013);
   c) l’accesso civico generalizzato, concesso “senza alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva” e, perciò, senza necessità di apposita “motivazione” giustificativa in relazione a “dati, informazioni o documenti” ancorché non assoggettati all’obbligo di pubblicazione (art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33/2013).
Si tratta di istituti a carattere generale ma ognuno con oggetto diverso, e sono applicabili ognuno a diverse e specifiche fattispecie: ne segue che ognuno di essi opera nel proprio ambito di azione senza assorbimento della fattispecie in un’altra, e senza abrogazione tacita o implicita ad opera della disposizione successiva poiché diverso è l’ambito di applicazione di ciascuno di essi. Ognuno di questi presenta caratteri di specialità rispetto all’altro. Di conseguenza, come ritenuto in tale arresto che il Collegio condivide, laddove il richiedente abbia espressamente optato per un modello è precluso all’Amministrazione qualificare diversamente l’istanza, al fine di individuare la disciplina applicabile.
Correlativamente il richiedente, una volta effettuata la propria istanza motivata dai presupposti di una specifica forma di accesso, non potrà effettuare una conversione della stessa in corso di causa. Questa infatti si radica su una specifica richiesta e sulla relativa risposta negativa dell’Amministrazione che concorrono a formare l’oggetto del contendere. Non può quindi ammettersi un mutamento del titolo giuridico dell’accesso in corso di controversia poiché il rapporto tra richiedente ed Amministrazione (o soggetto equiparato) si è formato non attorno ad un generico (asserito) diritto del primo di accedere a una determinata documentazione ma su una richiesta precisamente connotata nei suoi presupposti giuridici e fattuali. È su questo rapporto che la controversia verte, ed è questo l’oggetto del contendere.
La coesistenza di tre diverse specie di accesso agli atti, ciascuna distintamente regolata nei suoi presupposti, induce a ritenere che non esista, nel nostro ordinamento, un unico e generale diritto del privato ad accedere agli atti amministrativi che possa farsi valere a titolo diverso. Esistono invece specifiche situazioni nei rapporti di pubblico all’interno delle quali, al venire in essere di determinati presupposti (diversi in ognuna di esse), il privato assume titolo ad accedere alla documentazione amministrativa, con limiti e modalità diversificate nelle varie ipotesi. È onere del richiedente individuare quale sia la sua situazione e, pertanto, quale tipologia di accesso azionare, eventualmente in via cumulativa. Una volta effettuata la scelta, è su tale rapporto che si incardina la controversia e lo stesso non può dunque essere riqualificato in sede giudiziaria.
La richiesta della ricorrente, effettuata ai sensi della legge n. 241/1990, non può quindi essere (ri)esaminata alla luce del d.lgs. n. 33/2013.
Le medesime considerazioni valgono con riferimento alla richiesta qualificazione dell’istanza di accesso della ricorrente alla stregua di una domanda di informazioni ambientali ex d.lgs. n. 195/2005, poiché questa a sua volta costituisce un sottosistema normativo disciplinante una fattispecie specifica di accesso ed operante solo nel proprio ambito.
Non si tratta di lettura formalistica della normativa, ma di individuare l’ambito preciso della presente controversia e del rapporto su cui verte.
ARPAT ha fornito risposta negativa ad un’istanza di accesso formulata ai sensi della legge n. 241/1990 e ove il giudizio venisse esteso alla verifica della sua fondatezza ai sensi di normative non richiamate nella stessa, e sulle quali quindi la stessa ARPAT non ha fornito alcuna risposta (e non doveva farlo), sarebbe violato il divieto a carico di questo Giudice di pronunciarsi con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati posto dall’articolo 34, comma 2, del codice di rito.
A prescindere dalla qualificazione della posizione dell’accedente in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo, questione ancora irrisolta, è certo che la decisione sulla richiesta di ostensione di un documento deve essere preceduta da un’attività amministrativa volta a verificare la sua corrispondenza allo schema normativamente prefigurato e alla tutela normativamente stabilita dei contrapposti interessi, in primo luogo quello alla riservatezza dei soggetti i cui dati sono rappresentati nei documenti oggetto di domanda. Al Giudice, ex art. 34, comma 2, c.p.a. non può quindi che essere interdetta la riqualificazione dell’istanza presentata dalla ricorrente poiché si sostituirebbe inammissibilmente all’Amministrazione in poteri non ancora esercitati.
Sotto tale profilo appare irrilevante il regolamento dell’ARPAT richiamato dalla ricorrente in memoria, così come irrilevante è la circostanza che le premesse del provvedimento negativo impugnato contengano un riferimento all’art. 5, comma 3, del d.lgs. 33/2013 in tema di accesso civico generalizzato poiché questo appare frutto di refuso e comunque non è vincolante ai fini del decidere, in base al principio secondo il quale ai fini della qualificazione della sua natura l'atto amministrativo va interpretato in base al suo specifico contenuto risalendo al potere concretamente esercitato dall'amministrazione, prescindendo dal nomen iuris che gli è stato assegnato (C.d.S. II, 30.09.2019 n. 6534).
L’ARPAT ha inteso negare l’accesso in base alla legge n. 241/1990 come mostra il contenuto del dispositivo, nel quale si respinge l’istanza della ricorrente “ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. b, L. 241/1990” poiché essa “non risulta titolare di un interesse diretto, concreto ed attuale corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata ai documenti richiesti”.
ARPAT ha esaminato e statuito sull’istanza della ricorrente valutando la sussistenza dei presupposti stabiliti, ai fini dell’accesso, dalla legge n. 241/1990 e in base a questa sarà deciso la controversia. Questa si è infatti formata in ordine ad un rapporto giuridico con una sua precisa qualificazione, attribuita dalla ricorrente stessa alla propria istanza, ed è su tale tipo di rapporto, con tale specifica qualificazione, che questo Giudice deve statuire.
3. Venendo quindi alle conclusioni, in applicazione delle coordinate normative desumibili dalla legge n. 241/1990 ai sensi della quale, si ripete, l’istanza è stata formulata, il ricorso deve essere respinto. ARPAT nel provvedimento di diniego ha infatti chiarito che le terre movimentate dall’impresa Au. vengono depositate su un terreno distante da quello della ricorrente e, pertanto, in alcun modo potrebbero apportarle danni.
La ricorrente valorizza, a sostegno delle proprie posizioni, il suo interesse a verificare se i lavori nel fondo confinante avvengano nel rispetto della normativa ambientale. Una volta però appurato che, con riferimento alle terre movimentate, alcun danno può derivare al fondo di sua proprietà, tale interesse legittimo sfuma in interesse di mero fatto poiché se l’attività della controinteressata non è in grado di incidere in alcun modo su posizioni giuridicamente tutelate della ricorrente (almeno per quanto concerne l’oggetto della presente controversia, ovvero le terre di risulta dei lavori effettuati), ebbene detto interesse in nulla si differenzia dall’interesse non qualificato né differenziato facente capo al quivis de populo ad esercitare un controllo generalizzato sulla legittimità dell’operato amministrativo, e non costituisce pertanto “situazione giuridicamente tutelata” che legittimi l’accesso alla dichiarazione di utilizzo delle terre e rocce di scavo inoltrata dalla controinteressata.
Non è conferente il parallelo effettuato della ricorrente con l’accesso alla documentazione riguardante il rispetto, da parte del confinante, della normativa edilizia ed urbanistica nell’esecuzione di interventi edificatori poiché le modalità di questi possono sempre incidere sulle caratteristiche del fondo confinante e, in particolare, sul suo valore, stante il collegamento materiale stabile fra i terreni, collegamento che deve comunque sempre essere oggetto di dimostrazione (C.d.S. V, 27.03.2019 n. 2025).
Il rispetto della normativa ambientale, una volta appurato che non esiste alcun collegamento fra il materiale potenzialmente inquinante e il fondo vicino a quello oggetto di intervento, rappresenta un interesse che non si differenzia da quello generale, proprio della collettività indifferenziata, al rispetto della legge da parte della pubblica amministrazione.
Per queste ragioni il ricorso deve essere respinto (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 20.12.2019 n. 1748 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Sul potere che l'amministrazione esercita quando concede provvedimenti attributivi di vantaggi economici.
L’art. 12 L. 07.08.1990, n. 241 (provvedimenti attributivi di vantaggi economici) esprime un principio di carattere generale dell’azione amministrativa in forza del quale l’erogazione di somme di denaro da parte di un’amministrazione pubblica, in qualsiasi forma avvenga, e, dunque, anche a prescindere dalla comparazione tra diverse domande nell’ambito di uno stanziamento contingentato, non può considerarsi completamente libera, essendo necessario che la discrezionalità che connota tale attività sia incanalata mediante la preventiva predisposizione di criteri e modalità di scelta del progetto o dell’attività da beneficiare.
La preventiva predisposizione dei suddetti criteri e il correlativo richiamo ad essi nel provvedimento di concessione costituisce condizione di validità del provvedimento.
Il carattere necessariamente limitato delle risorse a disposizione dell’amministrazione impone che sia possibile il controllo e la verifica delle ragioni dell’impegno di spesa, affinché l’erogazione non dia luogo ad ingiusti favoritismi, cosa che può avvenire solamente mediante la preventiva predisposizione di una griglia di criteri cui l’amministrazione debba attenersi nella scelta del beneficiario.
In questo modo l’art. 12 esprime il principio della necessaria predeterminazione del contenuto delle decisioni amministrative da attuare mediante la tecnica del c.d. autolimite
.
---------------
... per la riforma della sentenza 15.01.2016 n. 19 del TAR SARDEGNA, Sez. I, resa tra le parti, concernente l’annullamento della determinazione n. 272 del 02.12.2014 del Commissario straordinario dell’Agenzia governativa Sardegna promozione, con la quale è stato annullato in autotutela il finanziamento concesso alla ricorrente per l’evento “tnatura italy Sardegna 2014”.
...
8. Il motivo di appello è infondato.
8.1. L’art. 12 l. 07.08.1990 n. 241, rubricato “Provvedimenti attributivi di vantaggi economici” stabilisce che “La concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinati alla predeterminazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi”. Il secondo comma, poi, specifica che “L’effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1”.
8.2. La giurisprudenza amministrativa ha da tempo assunto una posizione rigorosa nell’interpretazione della riportata disposizione; si è affermato, infatti, che l’art. 12 esprime un principio di carattere generale dell’azione amministrativa in forza del quale l’erogazione di somme di denaro da parte di un’amministrazione pubblica, in qualsiasi forma avvenga, e, dunque, anche a prescindere dalla comparazione tra diverse domande nell’ambito di uno stanziamento contingentato, non può considerarsi completamente libera, essendo, invece, necessario che la discrezionalità che connota tale attività sia incanalata mediante la preventiva predisposizione di criteri e modalità di scelta del progetto o dell’attività da beneficiare.
La preventiva predisposizione dei suddetti criteri e il correlativo richiamo ad essi nel provvedimento di concessione costituisce, dunque, condizione di validità del provvedimento (cfr. Cons. Stato, sez V, 14.06.2017 n. 2914, Cons. Stato, sez. V, 23.03.2015, n. 1552).
8.3. Si tratta di orientamento da cui non vi è motivo per discostarsi: il carattere necessariamente limitato delle risorse a disposizione dell’amministrazione impone che sia possibile il controllo e la verifica delle ragioni dell’impegno di spesa, affinché l’erogazione non dia luogo ad ingiusti favoritismi, cosa che può avvenire solamente mediante la preventiva predisposizione di una griglia di criteri cui l’amministrazione debba attenersi nella scelta del beneficiario.
In questo modo l’art. 12 esprime il principio della necessaria predeterminazione del contenuto delle decisioni amministrative da attuare mediante la tecnica del c.d. autolimite (per una prima enunciazione, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 06.06.1984 n. 365) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.11.2017 n. 5149 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVISecondo consolidati principi elaborati in materia di esercizio del potere di autotutela su provvedimenti di illegittima erogazione di denaro pubblico, non è necessario, in queste ipotesi, motivare specificamente in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico specifico né tener conto dell’interesse del privato e dell’affidamento maturato, nonché di quanto previsto, sul piano del diritto positivo, dall’art. 1, comma 136, della legge 30.12.2004, n. 311, applicabile ratione temporis, nella parte in cui prevede che l’annullamento di ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi, finalizzato al conseguimento di risparmi o minori oneri finanziari, «può sempre essere disposto».
---------------

7. – Come anticipato, nel contestare che nella vicenda in esame potesse essere legittimamente esercitato il potere di annullamento d’ufficio, la società ricorrente sostiene che non sussistessero le illegittimità rilevate dall’Agenzia regionale.
E in particolare rileva come non corrisponda al vero che la decisione di inserire l’evento tra le azioni programmate per la BI. 2014 abbia preceduto la presentazione del progetto da parte di Is.Gr.; decisione che sarebbe dipesa esclusivamente dal fatto che si trattava di evento già finanziato dall’Agenzia nel 2013 (e dall’Assessorato regionale al Turismo nel 2001 e 2012) e che, per gli ottimi risultati conseguiti, l’Agenzia ha provveduto a inserire nella programmazione del 2014.
7.1. - La censura non è fondata.
In primo luogo, occorre rilevare che dalle note del 12.12.2013, n. 3609, e del 19.12.2013, n. 3814, con le quali il Direttore Centrale dell’Agenzia comunicava alla società ricorrente la concessione del contributo (cfr. doc. 5 e 9, di parte ricorrente), non emergono richiami a precedenti determinazioni dalle quali evincere la predeterminazione dei criteri e modalità per la selezione dei progetti e l’erogazione dei finanziamenti, come prescritto dall’art. 12 della legge n. 241 del 1990.
Anche la determinazione del 16.12.2013, n. 428, con la quale il direttore centrale dell’Agenzia assumeva l’impegno di spesa relativo al contributo, non contiene alcun riferimento ai criteri in base ai quali è stata effettuata la scelta di finanziare l’evento, né richiama precedenti provvedimenti che abbiano disposto in tal senso.
E d’altronde non sarebbe stato sufficiente nemmeno il rinvio agli atti di approvazione delle linee programmatiche e degli obiettivi e degli scopi che l’Agenzia intendeva perseguire nel corso del 2013, posto che –come già sottolineato- l’art. 12 della legge n. 241/1990 prescrive la specifica indicazione di criteri e modalità per operare la selezione dei soggetti (proponenti i progetti conformi agli obiettivi approvati con l’atto programmatico) destinatari dei finanziamenti.
7.2. - Le considerazioni appena svolte implicano l’accertamento della fondatezza di (almeno) uno dei vizi di legittimità posti dall’amministrazione a base dell’annullamento d’ufficio; sufficiente, peraltro, per giustificare l’esercizio del potere contemplato dall’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990. Ne deriva come ulteriore conseguenza la irrilevanza delle restanti censure con le quali parte ricorrente intende confutare gli altri vizi individuati dall’Agenzia; censure che, quindi, possono ritenersi assorbite.
8. - Conservano rilevanza, invece, le critiche (sempre basate sulla violazione dell’art. 21-nonies cit.) volte a inficiare, sotto altri profili, la legittimità della determinazione impugnata dalla ricorrente.
8.1. - In particolare, la ricorrente deduce:
   - l’omessa valutazione degli interessi della Is.Gr., che ha fatto legittimo affidamento sulla certezza e stabilità dei vantaggi derivanti dalla concessione del contributo, anche in considerazione del tempo trascorso dalla concessione all’annullamento in autotutela;
   - omessa valutazione comparativa tra l’interesse pubblico all’annullamento e l’interesse del privato alla conservazione dell’atto;
   - violazione del termine ragionevole entro il quale l’amministrazione avrebbe dovuto procedere all’annullamento d’ufficio, posto che dalla concessione del contributo (12 e 19.12.2013) alla adozione della determinazione impugnata è trascorso quasi un anno;
   - conseguente difetto di motivazione su ciascuno degli elementi contestati.
8.2. - Anche le censure sopra riassunte non sono suscettibili di favorevole apprezzamento, ove si tenga conto dei consolidati principi elaborati in materia di esercizio del potere di autotutela su provvedimenti di illegittima erogazione di denaro pubblico, secondo cui non è necessario, in queste ipotesi, motivare specificamente in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico specifico né tener conto dell’interesse del privato e dell’affidamento maturato (cfr., ex multis, Cons. St., sez. III, 11.11.2014, n. 5539), nonché di quanto previsto, sul piano del diritto positivo, dall’art. 1, comma 136, della legge 30.12.2004, n. 311, applicabile ratione temporis, nella parte in cui prevede che l’annullamento di ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi, finalizzato al conseguimento di risparmi o minori oneri finanziari, «può sempre essere disposto».
Il che consente di ritenere irrilevante anche il dedotto difetto di motivazione per la mancata considerazione dell’interesse della società ricorrente sotto il profilo dell’affidamento suscitato dalla concessione del contributo, anche in relazione al tempo trascorso (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 15.01.2016 n. 19 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA - CONDOMINIO:  L'abc del condominio Un elenco, in ordine alfabetico, dei principali termini utilizzati in ambito condominiale e delle più importanti questioni che possono coinvolgere i condomini.
Da cani e gatti in condominio all'installazione di impianti di videosorveglianza: le principali questioni, proposte in ordine alfabetico, che riguardano la vita condominiale e le ultime novità in materia. (...continua) (articolo ItaliaOggi Sette del 10.02.2020).

EDILIZIA PRIVATAFISCO E RIGENERAZIONE URBANA - Un processo sostenibile (ANCE, febbraio 2020).

EDILIZIA PRIVATASismabonus sull’acquisto di unità immobiliari antisismiche (ANCE, febbraio 2020).
----------------
L’ANCE aggiorna la Guida alla luce delle ultime modifiche intervenute in relazione alle modalità applicative della disciplina (Legge di Bilancio 2020; Risposte dell’Agenzia delle Entrate n. 5 del 16.01.2020, n. 70 del 20.02.2020; DM n. 24 del 09.01.2020).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Guida ANCE al “Sismabonus sull’acquisto di unità immobiliari antisismiche” (ANCE di Bergamo, circolare 28.02.2020 n. 70).

APPALTI: Oggetto: Ritenute e compensazioni negli appalti e subappalti - Chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate - Circolare n. 1/E del 12.02.2020 (ANCE di Bergamo, circolare 14.02.2020 n. 58).
---------------
ALLEGATI: 1. Circolare n. 1/E del 12.02.2019 - 2. Fac-simile autocertificazione - 3. Schema di sintesi dei controlli.

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Compendio di normativa ambientale. Edizione num. 10 – anno 2020 (ANCE di Bergamo, circolare 14.02.2020 n. 53).

APPALTI: Oggetto: Ritenute e compensazioni negli appalti e subappalti - Dossier aggiornato di ANCE - Certificato per esonero dall’applicazione della normativa (ANCE di Bergamo, circolare 07.02.2020 n. 43).
---------------
ALLEGATI:
1. Dossier ANCE - 2. Provvedimento Agenzia delle Entrate 06.02.2020 n. 54730 di prot. - 3. Schema del certificato fiscale - 4. Tabella delle ritenute.

LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Prescrizione per i crediti di lavoro – Diffida accertativa – Nota I.N.L. (ANCE di Bergamo, circolare 07.02.2020 n. 41).

APPALTI: Oggetto: Impianti di distribuzione ad uso privato – nuovi obblighi (ANCE di Bergamo, circolare 07.02.2020 n. 40).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: “Sismabonus acquisti” – i chiarimenti forniti dall’Agenzia delle Entrate con la risposta n. 5 del 16.01.2020 (ANCE di Bergamo, circolare 31.01.2020 n. 37).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Aliquota IVA opere finalizzate al superamento delle barriere architettoniche - Risposta n. 3 del 13.01.2020 dell’Agenzia delle Entrate (ANCE di Bergamo, circolare 31.01.2020 n. 35).

APPALTI: Oggetto: Nuove soglie comunitarie per gli appalti pubblici dal 01.01.2020 (ANCE di Bergamo, circolare 31.01.2020 n. 32).

VARI: Oggetto: Variazione del tasso di interesse legale per l’anno 2020 (ANCE di Bergamo, circolare 31.01.2020 n. 31).

APPALTI: Oggetto: Ritenute e compensazioni negli appalti e subappalti - Chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate - Circolare n. 1/E del 12.02.2020 (ANCE di Bergamo, circolare 21.02.2020 n. 63).

APPALTI: Oggetto: Ritenute e compensazioni negli appalti – alcuni chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate (ANCE di Bergamo, circolare 17.01.2020 n. 16).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Oggetto: Legge di bilancio 2020 (L. 160/2019) - Principali misure di natura fiscale (ANCE di Bergamo, circolare 10.01.2020 n. 12).

A.N.AC.

APPALTISe non conviene alla p.a la gara non si aggiudica. Anac: facoltà esercitabile anche se c’è un solo concorrente.
La facoltà di non aggiudicare una gara di appalto risponde a un'immanente valutazione dell'interesse pubblico attuale da parte del committente che trova fondamento nel principio generale di buon andamento dell'azione amministrativa; da verificare i concetti di non convenienza dell'offerta e di inidoneità; la facoltà è esercitabile anche in presenza di una sola offerta da aggiudicarsi con il criterio del prezzo più basso.

È quanto ha precisato l'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) con il Parere di Precontenzioso 29.01.2020 n. 79 - rif. PREC 201/19/S-PB  in tema di esercizio della facoltà di non procedere all'aggiudicazione di una gara di appalto pubblico.
La delibera ricorda preliminarmente che secondo consolidata giurisprudenza, la facoltà di non aggiudicare una gara, in caso di ritenuta non convenienza economica o di idoneità tecnica dell'offerta, risponde ad un'immanente valutazione dell'interesse pubblico attuale da parte del committente. Tale interesse trova fondamento nel principio generale di buon andamento, che impegna le pubbliche amministrazioni all'adozione di atti quanto più possibile coerenti e proporzionali alle esigenze effettive di provvista per i loro compiti.
La delibera rammenta che è stato di recente precisato che, nonostante il dlgs n. 50/2016 non abbia riprodotto l'art. 55, comma 4, del dlgs n. 163/2006 (che consentiva alla stazione appaltante di prevedere nella legge di gara che non si sarebbe proceduto all'aggiudicazione nel caso di unica offerta valida), la facoltà di non aggiudicare, contemplata dal citato comma 12 dell'art. 95 del vigente Codice, si applica anche in caso di unica offerta purché ricorrano i presupposti ivi previsti.
In sostanza, si tratta di un potere che ha «carattere amplissimo» ed altamente discrezionale, sindacabile solo qualora sia manifestamente illogico o viziato da travisamento dei fatti, in quanto è conseguenza di un apprezzamento di merito riservato alla stazione appaltante.
Venendo ai due presupposti alternativi richiesti dall'art. 95, comma 12, del codice dei contratti pubblici, si evidenzia che ai fini dell'esercizio del potere di non aggiudicare («non convenienza» o «inidoneità» dell'offerta in relazione all'oggetto del contratto), il concetto di non convenienza dell'offerta va riferito a elementi di tipo prettamente economico, mentre quello della non idoneità ha una portata più ampia, in quanto attiene alla non conformità dell'offerta rispetto alla soddisfazione delle esigenze per le quali la procedura era stata bandita.
L'Anac ha chiarito che anche nel caso di gara da aggiudicarsi secondo il criterio più basso (come quella oggetto della delibera), la stazione appaltante ha sempre il potere discrezionale di effettuare una valutazione di convenienza economica dell'unica offerta rimasta in gara.
Infatti, nonostante il potere dell'amministrazione sia sensibilmente più ampio nel caso di criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, non può a priori escludersi, si legge nella delibera, che, a prescindere dal giudizio di anomalia o di congruità dell'offerta presentata dall'unico operatore rimasto in gara, la stazione appaltante possa pervenire a una valutazione di non convenienza dell'offerta nonostante questa presenti un ribasso rispetto all'importo posto a base di gara (articolo ItaliaOggi del 21.02.2020).

---------------
MASSIMA
Provvedimento di mancata aggiudicazione – potere discrezionale della stazione appaltante – sindacato – limiti.
Provvedimento di mancata aggiudicazione - criterio di aggiudicazione del prezzo più basso – valutazione di non convenienza dell’unica offerta rimasta in gara – motivazione – confronto con i prezzi di mercato e con il prezzo offerto dallo stesso operatore in altra gara - legittimità.
Ai sensi dell’art. 95, comma 12, del D.Lgs. n. 50/2016, la stazione appaltante ha la facoltà discrezionale di non aggiudicare la gara (anche in caso di unica offerta) quando nessuna offerta sia ritenuta conveniente o idonea in relazione all’oggetto del contratto, purché tale facoltà sia indicata espressamente nel bando di gara o nella lettera di invito (tale ultimo inciso è stato introdotto dal nuovo Codice, in un’ottica di maggiore trasparenza e di valorizzazione della lex specialis).
Tale potere ha carattere amplissimo ed altamente discrezionale, sindacabile solo qualora sia manifestamente illogico o viziato da travisamento dei fatti, in quanto è conseguenza di un apprezzamento riservato alla stazione appaltante.
Anche nel caso di gara da aggiudicarsi secondo il criterio del prezzo più basso, la stazione appaltante ha il potere discrezionale di effettuare una valutazione di convenienza economica dell’unica offerta rimasta in gara.
Infatti, nonostante tale potere sia sensibilmente più ampio nel caso di criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, non può a priori escludersi che, a prescindere dal giudizio di anomalia o di congruità dell’offerta, la stazione appaltante possa pervenire ad una valutazione di non convenienza dell’offerta nonostante il ribasso formulato sull’importo posto a base di gara.
Nell’ambito di tale giudizio, è legittimo che la stazione appaltante effettui un’indagine di mercato per comparare l’offerta con i prezzi medi di mercato, nonché con quelli praticati dallo stesso operatore nell’ambito di altra gara relativa all’affidamento di prestazioni analoghe.

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOAnac, stop incarichi pubblici anche ai condannati per danno erariale.
L'Autorità pubblica una guida sull'applicazione delle regole di inconferibilità per chi si macchia di reati contro la Pa chiedendo al Governo di estenderne il raggio di azione
Niente incarichi pubblici ai condannati per danno erariale, estensione delle regole di inconferibilità anche ai presidenti di amministrazioni pubbliche privi di deleghe gestionali, aggiunta di nuovi reati come la «turbata liberta di scelta del contraente» e il «traffico di influenze illecite» tra le fattispecie che fanno scattare il cartellino rosso dai ruoli di vertice pubblici, applicazione dei divieti anche ai casi in cui la condanna riguarda anche il solo tentativo (non riuscito) di corruzione.

Sono alcune delle richieste che l'Autorità Anticorruzione, ora guidata da Francesco Merloni, rivolge al Governo attraverso un provvedimento (delibera 18.12.2019 n. 1201 - Indicazioni per l'applicazione della disciplina delle inconferibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico in caso di condanna per reati contro la pubblica amministrazione - art. 3 d.lgs. n. 39/2013 e art. 35 bis d.lgs. n. 165/2001) mirato a guidare le amministrazioni nell'applicazione delle non semplicissime regole che riguardano l'inconferibilità degli incarichi (e la conseguente espulsione dai ruoli pubblici di vertice) ai condannati anche in via non definitiva per i reati commessi contro la Pa, da chi riveste il ruolo di «pubblico ufficiale» (peculato, malversazione, concussione, corruzione, abuso d'ufficio ecc.).
Il documento non è però solo una bussola per l'applicazione di norme che sono ormai in vigore da qualche anno (le norme di riferimento sono contenute nei decreti legislativi 165/2001 e 39/2013). La delibera, oltre a ricostruire il quadro normativo e a dare gli indirizzi per la sua applicazione, fa tesoro delle richieste di chiarimenti arrivate nel tempo per chiedere al Governo e al Parlamento di sciogliere i nodi insuperabili per via interpretativa e di estendere l'applicazione dei divieti di attribuzione degli incarichi anche a figure apicali delle Pa e a fattispecie di reato che l'Autorità giudica ingiustificatamente esclusi.
Due le richieste di maggiore impatto. La prima riguarda l'estensione dell'inconferibilità degli incarichi di vertice delle Pa e delle società controllate (amministratore, dirigente , direttore generale, amministrativo e sanitario delle Asl) non solo ai condannati in sede penale, ma anche a chi si vede sanzionare dalla Corte dei Conti per danno erariale. Secondo l'Anac, infatti, le condanne della Corte dei Conti al risarcimento del danno «si portano dietro un giudizio di disvalore», «analogo a quello delle sentenze di condanna emesse all'esito del giudizio penale».
Sempre per motivi di analogia, l'Anac chiede di estendere l'applicazione dei divieti di incarico anche ai presidenti delle amministrazioni che non abbiano espresse deleghe gestionali, nonostante la norme facciano riferimento soltanto ai presidenti «con deleghe gestionali dirette». Anche i presidenti «tout court», si legge nel documento, svolgono il ruolo di rappresentanti verso l'esterno dell'immagine dell'amministrazione, «immagine che risulta senz'altro intaccata dalla condanna penale che abbia interessato proprio il soggetto posto al vertice di quell'amministrazione, indipendentemente dalla tipologia delle funzioni esercitate».
Da segnalare anche la richiesta di includere i nuovi reati di «traffico di influenze illecite», «turbata libertà degli incanti» e «turbata libertà di scelta del contraente» nel raggio d'azione delle regole di inconferibilità e di commisurare il periodo di applicazione del cartellino rosso all'entità della pena di reclusione piuttosto che a quella di applicazione della pena accessoria di interdizione di pubblici uffici che risulta spesso di difficile applicazione e rischia di condurre a casi di disparità di trattamento (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.01.2020).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI - PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI - TRIBUTI: G.U. 29.02.2020 n. 51, suppl. ord, n. 10/L, "Testo del decreto-legge 30.12.2019, n. 162, coordinato con la legge di conversione 28.02.2020, n. 8, recante: «Disposizioni urgenti in materia di proroga di termini legislativi, di organizzazione delle pubbliche amministrazioni, nonché di innovazione tecnologica»".
---------------
Di particolare interesse si leggano:

● Articolo 1, commi 1 e 1-bis (Stabilizzazione di personale nelle pubbliche amministrazioni)
  
Viene modificata la disciplina transitoria che consente l'assunzione a tempo indeterminato di soggetti che abbiano rapporti di lavoro dipendente a termine con pubbliche amministrazioni. In particolare, la novella di cui al comma 1 proroga il termine di applicazione dal 31.12.2020 al 31.12.2021, consentendo, dunque, le assunzioni, in base alla normativa specifica in oggetto, entro quest’ultima data. La novella di cui al comma 1-bis differisce dal 31.12.2017 al 31.12.2020 il termine temporale entro cui si deve conseguire il requisito relativo all'anzianità di servizio - che è uno dei requisiti stabiliti per l'applicazione della disciplina.

● Articolo 1, comma 1-ter (Procedure selettive per la progressione tra le aree riservate al personale di ruolo)
  
Viene prorogata fino al 2022 la possibilità riconosciuta alle pubbliche amministrazioni di attivare procedure selettive per la progressione tra le aree riservate al personale di ruolo; la percentuale dei posti per tali procedure selettive riservate è elevata (dal 2020) al 30 per cento dei posti previsti nei piani dei fabbisogni come nuove assunzioni consentite per la relativa area o categoria.

● Articolo 1, commi da 7 a 7-quater (Pubblicazione dei compensi e dei redditi dei dirigenti pubblici)
  
Si dispone che, fino al 31.12.2020, non costituisce causa di responsabilità dirigenziale e non si applicano le relative sanzioni per la mancata pubblicazione da parte delle pubbliche amministrazioni dei compensi e dei dati reddituali e patrimoniali dei dirigenti pubblici, come stabilito dal D.Lgs. 33/2013. Fanno eccezione i dirigenti di cui all’art. 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo 165 del 2001 (segretario generale, capo dipartimento, dirigente con incarichi di funzione dirigenziale di livello generale) per i quali continua a trovare applicazione la disciplina vigente relativa agli obblighi di pubblicazione (ex art. 14 D.Lgs. 33/2013).

● Articolo 1, comma 8 (Proroga in materia di piattaforma digitale per i pagamenti verso le pubbliche amministrazioni)
  
Viene prorogato al 30.06.2020 il termine di decorrenza dell'obbligo, per i prestatori di servizi di pagamento abilitati, di avvalersi esclusivamente della apposita piattaforma per i pagamenti verso le pubbliche amministrazioni (PagoPA).
   Viene disposto, inoltre, un obbligo per le amministrazioni pubbliche di avvalersi della medesima piattaforma.

● Articolo 1, comma 10-septies (Contributi agli enti locali per la progettazione definitiva ed esecutiva per la messa in sicurezza del territorio)
  
Viene differito, dal 15.01.2020 al 15.05.2020, il termine (previsto dall’art. 1, comma 52, della legge di bilancio 2020) per la richiesta del contributo da parte degli enti locali, a copertura della spesa di progettazione definitiva ed esecutiva per interventi di messa in sicurezza del territorio, e proroga, altresì, dal 28.02.2020 al 30.06.2020, il termine (previsto dall’art. 1, comma 53, della legge di bilancio 2020) per la definizione dell’ammontare del previsto contributo, attribuito a ciascun ente locale.

● Articolo 1, comma 10-octies (Pubblicazione bandi mobilità tra amministrazioni)
  
Si stabilisce che, a decorrere dal 01.03.2020, le amministrazioni pubblichino i bandi di mobilità relativi al passaggio diretto di personale tra amministrazioni diverse sul Portale del Dipartimento per la funzione pubblica di cui all’articolo 30, comma 1, del d.lgs. 165/2001.

● Articolo 1, commi 10-novies e 10-decies (Disposizioni in materia di personale delle società a partecipazione pubblica)
  
Viene disciplinata la ricognizione del personale delle società controllate da enti pubblici per gli anni 2020-2022 al fine di individuare eventuali eccedenze (comma 10-bis) estendendola anche al personale dei consorzi e delle aziende degli enti locali (comma 10-ter).

● Articolo 3, comma 5 (Adeguamento antincendio strutture ricettive)
  
Si interviene sul termine per il completamento dell’adeguamento alle disposizioni di prevenzione incendi per alcune categorie di strutture ricettive turistico-alberghiere, modificando a tal fine.

● Articolo 4, commi 1 e 2 (Assunzioni Agenzia dogane e monopoli - Blocco degli adeguamenti ISTAT dei canoni dovuti dalla PA)
  
Il comma 2 estende all'anno 2020 il blocco degli adeguamenti dell'ISTAT relativi ai canoni dovuti sia dalle pubbliche amministrazioni sia dalle autorità indipendenti, inclusa la CONSOB.

● Articolo 6, comma 4 (Proroghe di termini in materia di edilizia scolastica)
  
Viene prorogato (dal 31.12.2019) al 31.12.2020 il termine per alcuni pagamenti in materia di edilizia scolastica. In particolare, la proroga riguarda il termine per i pagamenti da parte degli enti locali, secondo gli stati di avanzamento, debitamente certificati, di lavori di riqualificazione e messa in sicurezza degli istituti scolastici statali, di cui all’art. 18, commi da 8-ter a 8-sexies, del D.L. 69/2013 (L. 98/2013). A tal fine, novella il termine contenuto nel co. 8-quinquies, ultimo periodo, del citato art. 18, fissato inizialmente al 31 dicembre 2014 e successivamente prorogato, di anno in anno, fino al 31.12.2019.

● Articolo 6, commi 5-novies e 5-decies (Verifica di vulnerabilità sismica degli edifici scolastici, degli edifici di interesse strategico e delle opere infrastrutturali)
  
Viene differito, al 31.12.2021, il termine entro il quale deve essere sottoposto a verifica di vulnerabilità sismica ogni immobile adibito ad uso scolastico situato nelle zone a rischio sismico classificate 1 e 2, con priorità per quelli situati nei comuni compresi negli allegati del D.L. 189/2016, relativo alle regioni del centro Italia colpite dagli eventi sismici 2016 e 2017 (Abruzzo, Lazio, Marche ed Umbria).
   Il comma 5-decies differisce al 31.12.2021 il termine, per la verifica di vulnerabilità sismica sia degli edifici di interesse strategico e delle opere infrastrutturali la cui funzionalità durante gli eventi sismici assume rilievo fondamentale per le finalità di protezione civile, sia degli edifici e delle opere infrastrutturali che possono assumere rilevanza in relazione alle conseguenze di un eventuale collasso.

● Articolo 13, commi 5-quinquies e 5-sexies (Utilizzo dei proventi da oneri di urbanizzazione e sanzioni in materia edilizia)
   Il comma 5-quinquies prevede che a decorrere dal 01.04.2020 le risorse provenienti dal rilascio dei titoli abilitativi edilizi e dalle sanzioni previste dal Testo unico sull’edilizia di cui al D.P.R. n. 380/2001, da destinare, ai sensi dell’art. 1, comma 460, della legge di bilancio 2017, alle finalità ivi previste e non utilizzate, possono essere altresì utilizzate per promuovere la formazione di programmi diretti al completamento delle infrastrutture e delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria dei piani di zona esistenti, fermo restando l’obbligo per i comuni di porre in essere le iniziative necessarie per l’adempimento da parte degli operatori coinvolti nei piani di zona delle obbligazioni convenzionali in materia.
   Il comma 5-sexies dispone, inoltre, che in relazione agli immobili costruiti secondo la normativa sull'edilizia agevolata, può essere disposta dall’autorità giudiziaria la sospensione del procedimento di sfratto a partire dall'avvio del procedimento di decadenza dalla convenzione da parte del comune, ovvero di revoca del finanziamento pubblico da parte della regione, ovvero dalla richiesta di rinvio a giudizio in procedimenti penali.

● Articolo 16-ter (Disposizioni urgenti in materia di reclutamento dei segretari comunali e provinciali)
   Si riduce la durata del corso-concorso di formazione e del tirocinio pratico per i segretari comunali e provinciali e introduce una verifica da effettuare durante il corso e obblighi formativi suppletivi dopo la prima nomina. Inoltre:
   ► viene prevista poi la possibilità di riservare ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni il 30 per cento dei posti al concorso pubblico per esami che consente l’accesso al corso-concorso per segretari comunali e provinciali;
   ► si istituisce una sessione aggiuntiva al corso-concorso bandito nel 2018 finalizzata all’iscrizione di ulteriori 172 segretari comunali nella fascia iniziale;
   ► si prevede la possibilità di conferire, in via transitoria, le funzioni di vicesegretario a funzionari di ruolo del comune con determinati requisiti;
   ► si interviene sulla disciplina relativa alle classi demografiche dei comuni ai fini dell’assegnazione dei segretari comunali, prevedendo che esse siano determinate, in caso di convenzione, dalla sommatoria degli abitanti di tutti i comuni.

● Articolo 18, commi 1, 2 e 2-bis (Misure per il ricambio generazionale e la funzionalità della PA nei piccoli comuni)
   ► si prevedono di misure procedimentali che consentono al Dipartimento per la funzione pubblica di accelerare la capacità assunzionale delle P.A. nel triennio 2020-2022 (comma 1);
   ► si autorizza Formez PA, in via sperimentale, a fornire adeguate forme di assistenza ai comuni fino a 5.000 abitanti e dei comuni in dissesto per il sostegno delle attività fondamentali (comma 2),
   ► si autorizzano i comuni con ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato o con piano di riequilibrio pluriennale approvato ad assumere personale di livello apicale (comma 2-bis).

● Articolo 18-bis (Modifiche in materia di funzioni fondamentali dei comuni)
   Viene differito al 31.12.2020 il termine a partire dal quale diventa obbligatoria la gestione in forma associata delle funzioni fondamentali per i piccoli comuni, nelle more dell’attuazione della sentenza della Corte costituzionale n. 33 del 2019.

● Articolo 18-ter (Durata del contratto del personale degli uffici di diretta collaborazione negli enti locali)
  
Si tratta di una norma di interpretazione autentica dell’articolo 90 del Testo unico degli enti locali nella parte in cui dispone, relativamente agli uffici di supporto agli organi di direzione politica, che il personale è assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato. Tale previsione si interpreta nel senso che il contratto stesso non può avere in ogni caso durata superiore al mandato elettivo del sindaco o del presidente della provincia in carica.

ENTI LOCALI: G.U. 28.02.2020 n. 50 "Ulteriore differimento del termine per la deliberazione del bilancio di previsione 2020/2022 degli enti locali dal 31.03.2020 al 30.04.2020" (Ministero dell'Interno, decreto 28.02.2020).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 28.02.2020 n. 50 "Proroga delle scadenze in materia di prevenzione incendi per le strutture sanitarie, previste dal decreto del Ministro dell’interno del 19.03.2015" (Ministero dell'Interno, decreto 20.02.2020).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 9 del 26.02.2020, "Trasmissione informatizzata della scheda per la registrazione al catasto comunale delle torri di raffreddamento-condensatori evaporativi (art 61-bis l.r. 33/2009 s.m.i.)" (decreto D.S. 20.02.2020 n. 2097).
---------------
Per saperne di più qui la pagina web della Regione Lombardia.

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 9 del 25.02.2020, "Aggiornamento della modulistica edilizia unificata e standardizzata approvata con deliberazione n. XI/784 del 12.11.2018" (decreto D.S. 19.02.2020 n. 2018).
---------------
ATTENZIONE: l'aggiornata modulistica, qui sotto elencata, è da applicarsi dal 25.02.2020:
   • Allegato 1 - Modulo unico titolare
   • Allegato 2 - Relazione tecnica asseverazione unica
   • Allegato 3 - Comunicazione inizio lavori – CIL
   • Allegato 4 - Comunicazione fine lavori – CFL
   • Allegato 5 - Segnalazione certificata agibilità
   • Allegato 6 - Relazione tecnica asseverazione agibilità

la quale, in formato editabile, è consultabile nella nostra pagina MODULISTICA.
OBBLIGHI PER I COMUNI
I Comuni senza sistemi informativi per la gestione delle procedure edilizie devono:
   • esporre con libero accesso (senza registrazione) sul proprio portale il link a questa piattaforma su cui sono pubblicati i nuovi moduli approvati con Decreto n. 2018 del 19/02/2020;
   • far utilizzare i moduli edilizi unificati in formato pdf compilabile pubblicati su questa piattaforma, per la presentazione delle segnalazioni, comunicazioni e istanze in materia di attività edilizia.
I Comuni con sistemi informativi per la gestione delle procedure edilizie dovranno garantire l'integrazione, nei propri sistemi informativi, dei nuovi moduli unici edilizi standardizzati e dei relativi schemi dati XSD, non appena saranno ripubblicati sulla pagina istituzionale "Moduli edilizi unificati e specifiche di interoperabilità".

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 25.02.2020 n. 47 "Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19. Regione Lombardia" (Ministero della Salute, ordinanza 23.02.2020).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARI: G.U. 23.02.2020 n. 45 "Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19" (D.L. 23.02.2020 n. 6).

APPALTI: G.U. 13.02.2020 n. 36 "Saggio degli interessi da applicare a favore del creditore nei casi di ritardo nei pagamenti nelle transazioni commerciali" (Ministero dell'Economia ed elle Finanze).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI SERVIZI: Affidamento in concessione di spazio per la distribuzione di coffe (27.02.2020 - link a www.mauriziolucca.com).

URBANISTICA: Vicinitas, dimostrazione del pregiudizio e interesse ad agire in ambito urbanistico (25.02.2020 - link a www.mauriziolucca.com).

EDILIZIA PRIVATA: F. D'Angelo, Il permesso di costruire: la giurisprudenza recente (20.02.2020 - link a www.quotidianogiuridico.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: M. Mazzon, È illecito mantenere attivo l’account di posta dell’ex dipendente (19.02.2020 – link a www.filodiritto.com).
---------------
Commette un illecito il datore di lavoro che mantiene attivo l’account di posta aziendale di un dipendente dopo l’interruzione del rapporto di lavoro e accede alle mail contenute nella sua casella di posta elettronica. La protezione della vita privata si estende anche all’ambito lavorativo. (...continua).

SEGRETARI COMUNALI: A. Mitrotti, Considerazioni sulla tormentata figura del Segretario comunale dopo la sentenza n. 23/2019 della Corte costituzionale (19.02.2020 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Abstract: Mai come prima della sentenza n. 23 del 22.02.2019 la giurisprudenza costituzionale si era trovata a ricostruire i complessi profili della poliedrica figura del Segretario comunale e le sue relazioni con il meccanismo dello spoils system.
Con il presente lavoro si vuole offrire un’essenziale chiave di lettura nella complessità delle argomentazioni esposte nel Considerato in diritto della decisione della Consulta: ancorché sviluppando i termini del ragionamento fatto dal Collegio il presente contributo perviene a soluzioni del tutto differenti, ravvisando nel ruolo e nelle funzioni del Segretario comunale una figura necessariamente espressione della ‘effettiva’ garanzia costituzionale del principio di legalità, di trasparenza, imparzialità e buon andamento delle Pubbliche Amministrazioni comunali e delle discendenti attività di ‘amministrazione attiva'.
Da qui l’impossibilità di poter ammettere la legittima applicazione dello spoils system anche alla figura del Segretario comunale.
---------------
Sommario: 1. Il caso all’attenzione della Corte. - 2. Un Approccio alla figura del segretario comunale. - 3. Conclusioni.

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Paiano, I casi speciali di accesso: le interazioni con l’accesso civico generalizzato (19.02.2020 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Abstract: A tre anni dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 97/2016, è necessaria una riflessione sull’interazione fra le forme speciali di accesso esistenti nell’ordinamento e l’istituto dell’accesso civico generalizzato.
Poiché, infatti, il legislatore non ha proceduto ad una revisione delle disposizioni previgenti, si è posto il problema di comprendere in che modo il nuovo diritto di accesso interagisse con quelli precedenti, all’interno di un sistema di norme stratificato e caotico. Il saggio si propone di analizzare tali rapporti, con specifico riferimento all’informazione ambientale, all’accesso negli enti locali e nelle procedure di evidenza pubblica. Si tratta di discipline settoriali, che presentano propri presupposti e finalità.
Tali specificità hanno determinato una scarsa attenzione da parte dei primi commentatori della riforma, concentrati soprattutto sullo studio dei rapporti fra accesso tradizionale e accesso civico. Tuttavia, l’analisi della casistica giurisprudenziale dimostra come stiano diventando oggetto di crescente interesse e meritino un maggior grado di approfondimento.
---------------
Sommario: 1. L’accesso all’informazione ambientale alla luce del Decreto Trasparenza. - 2. I diritti informativi nell’ordinamento degli Enti locali: analogie e differenze con l’accesso civico generalizzato. - 3. La trasparenza nelle procedure di evidenza pubblica: l’applicabilità dell’accesso civico generalizzato agli atti di gara.

ATTI AMMINISTRATIVI: L. Previti, Riflessioni sull’ambito soggettivo di applicazione della responsabilità amministrativa: tra esigenze di prevedibilità e tentativi di correzione della mala gestio pubblica (19.02.2020 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Abstract: L’articolo cerca di mettere in luce le principali implicazioni di carattere sistematico che derivano dall’eccessiva elasticità del campo soggettivo di applicazione dell’istituto della responsabilità amministrativa.
Dopo aver brevemente richiamato il concetto di rapporto di servizio, oggetto di frequenti riletture giurisprudenziali negli ultimi anni, il contributo prende in esame alcune significative categorie di soggetti nei cui confronti è oggi possibile instaurare un giudizio di responsabilità davanti alla Corte dei Conti.
Nell’analizzare le ragioni sottese ai più rilevanti approdi interpretativi della giurisprudenza in materia, viene dedicata particolare attenzione alla possibilità di configurare ipotesi di responsabilità erariale in relazione al fenomeno delle società pubbliche, anche alla luce del recente d.lgs. 19.08.2016, n. 175.
---------------
Sommario: 1. Premessa. - 2. L’ambito soggettivo di applicazione della responsabilità amministrativa: il rapporto di servizio. - 3. La responsabilità amministrativa come tentativo di correzione della mala gestio pubblica. - 4. L’elasticità dei confini giurisdizionali nel contesto societario. - 5. Segue. Giurisdizione contabile e società in house. 6. Considerazioni conclusive

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: E. Romani, La responsabilità civile della p.a. per il fatto penalmente illecito commesso da un proprio dipendente alla luce delle Sezioni Unite n. 13246/2019 (19.02.2020 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Abstract: Con la recente pronuncia n. 13246/2019, le Sezioni Unite hanno innovato il sistema previgente della responsabilità civile della p.a., introducendo un regime di responsabilità a doppio binario, in cui coesistono due diverse forme di responsabilità a seconda del carattere della finalità perseguita dal dipendente pubblico nella commissione dell’illecito.
Si avrà, infatti, la responsabilità diretta della p.a. ex art. 2043 c.c. laddove sussista un interesse istituzionale e, quindi, il rapporto di immedesimazione organica; al contrario, ogni qual volta l’autore dell’illecito sia mosso soltanto da un interesse strettamente personale ed egoistico, la p.a. sarà chiamata a rispondere a titolo di responsabilità indiretta ex art. 2049 c.c..
Dopo aver ricostruito i diversi orientamenti dottrinali e giurisprudenziali che si sono espressi in tema di responsabilità civile della p.a., il lavoro si propone di verificare se la ricostruzione accolta dalle Sezioni Unite sia condivisibile o se, piuttosto, sarebbe preferibile introdurre alcuni correttivi che tengano conto delle peculiarità della persona giuridica pubblica e dell’esigenza di tutelare le finanze pubbliche.
---------------
Sommario: 1. La responsabilità civile della p.a. e l’art. 28 Cost. - 2. Il carattere istituzionale o personale del fine perseguito dal funzionario. Gli opposti orientamenti che si sono formati in giurisprudenza. - 3. La recente posizione assunta dalle Sezioni Unite. - 4. Considerazioni critiche: dalla visione vittimologica alla tutela delle finanze pubbliche. - 5. Riflessioni conclusive.

APPALTI: Immutabilità dell’offerta: niente soccorso istruttorio (17.02.2020 - link a www.mauriziolucca.com).

ENTI LOCALI: Volontariato, erogazione contributi e rimborsi spesa, trattamento fiscale (13.02.2020 - link a www.mauriziolucca.com).

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Sola, La giurisprudenza e la sfida dell’utilizzo di algoritmi nel procedimento amministrativo. Nota a sentenza a CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI - 13.12.2019, n. 8472 (11.02.2020 - link a www.giustamm.it).
---------------
Indice: 1. Il recentissimo caso all’attenzione del Consiglio di Stato. Una nuova conferma dell’ammissibilità di decisioni amministrative automatizzate tramite l’utilizzo di algoritmi. - 2. L’utilizzo delle nuove tecnologie e l’intelligenza artificiale quali sfide globali. - 3. L’utilizzo delle nuove tecnologie da parte delle Pubbliche Amministrazioni. Il caso degli algoritmi. – 4. Brevi considerazioni a margine.

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOViolazioni privacy e PA, il dirigente rischia di tasca propria: ecco perché (10.02.2020 - link a www.agendadigitale.eu).

INCARICHI PROFESSIONALI: Dieci regole per l'affidamento degli incarichi legali (U.N.A.A., comunicazione 09.01.2020 n. 1/2020).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - TRIBUTI: T. Tessaro, PROFILI DI RESPONSABILITÀ CONTABILE: LIMITI DI SCOMPUTO ONERI PER INTERVENTI DI RECUPERO URBANO E PER CESSIONE IMMOBILI PUBBLICI IN CAMBIO DI OPERE (artt. 189-190-191 D.Lgs. 50/2016 c.d. Cod. contratti) (03.12.2019 - tratto da www.amministrativistiveneti.it).

INCARICHI PROFESSIONALIL’affidamento degli incarichi relativi ai servizi legali. Note di indirizzo a cura della Commissione Incarichi della Pubblica Amministrazione, costituita presso il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Verona (29.11.2019 - tratto da www.amministrativistiveneti.it).

EDILIZIA PRIVATA: P. Vitullo, Procedura semplificata di autorizzazione per impianti di produzione di energie rinnovabili (minieolico), tutela indiretta anche inibitoria delle aree contermini a quelle vincolate e rilevanza in materia paesaggistica del silenzio-assenso. Profili sostanziali e processuali - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.09.2018 n. 5181 - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.03.2019 n. 1729 (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2019).
---------------
Sommario: 1. Premessa ricostruttiva - 1.1. la questione controversa - 2. l’approccio giurisprudenziale alla tematica - 3. Conclusioni: 3.1. Profili processuali - 3.2. l’insopprimibilità del contributo partecipativo dell’Amm.ne b.A.C.t. al procedimento autorizzatorio semplificato per impianti “minori” - 3.3. (continua) insussistenza di conflitto tra linee guida e normativa statale di riferimento (art. 152 d.lgs. 42/2004, art. 6 l. 28/2011) - 3.4. Potere di vigilanza dell’Amm.ne b.A.C.t. e tutela inibitoria - 3.5. inconfigurabilità del silenzio-assenso in materia specifica.

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: G. Natale e A. Grumetto, Recenti sviluppi dell’innovazione tecnologica nel mondo del diritto (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2019).
----------------
Sommario: 1. il processo di digitalizzazione e i suoi riflessi nel diritto - 2. Vantaggi e criticità delle nuove tecnologie - 3. responsabilità amministrativa nei casi in cui le decisioni vengano adottate da un algoritmo - 4. Vantaggi della blockchain in materia di contratti pubblici.

ENTI LOCALI: M. Gerardo, Soggetti pubblici operanti nell’economia (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2019).
---------------
Sommario: 1. Soggetti operanti nell’economia: aspetti generali - 2. Pubblica amministrazione che esercita direttamente attività economica (cd. impresa di diritto pubblico o impresa- organo) - 3. Enti pubblici economici (cd. impresa pubblica di diritto comune) - 4. Enti privati partecipati da enti pubblici - 5. (segue) Enti privati partecipati da enti pubblici. in specie associazioni e fondazioni - 6. (segue) Enti privati partecipati da enti pubblici. in specie le società - 7. (segue) Enti privati partecipati da enti pubblici. in specie le società in house - 8. imprese che agiscono in settori di rilevante interesse per la collettività (cd. public utilities) - 9. Enti “funzionalizzati”: organismi di diritto pubblico - 10. Conclusioni.

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHENiente incentivi per funzioni tecniche con il project financing.
Gli incentivi per funzioni tecniche non spettano nel caso di contratti di locazione finanziaria.

Lo ha affermato la Corte dei conti, Sezione di controllo del Veneto, con il parere 22.01.2020 n. 20.
Il sindaco di un Comune ha chiesto se fosse possibile riconoscere gli incentivi per funzioni tecniche (articolo 113 del Codice dei contratti pubblici) svolte dal personale dipendente nel caso della locazione finanziaria per la realizzazione di un'opera pubblica, qualora:
   a) nel quadro economico del progetto esecutivo dedotto nel contratto di locazione finanziaria sia allocata anche la quota per gli incentivi per funzioni tecniche, quantificata, nel rispetto del regolamento dell'ente, sull'importo dei lavori affidati al soggetto realizzatore;
   b) la quota, a fronte dello svolgimento da parte del personale comunale delle funzioni tecniche previste dall'articolo 113 (verifica e validazione del progetto, funzioni di responsabile unico del procedimento, direzione lavori, eccetera) venga poi effettivamente trasferita al Comune da parte del soggetto finanziatore;
   c) sia rispettata la condizione prevista dall'articoli 187, comma 1, del Codice dei contratti pubblici, ossia che i lavori non abbiano un carattere meramente accessorio rispetto all'oggetto del contratto principale.
Gli incentivi per le funzioni tecniche sono compensi previsti in favore dei dipendenti delle Pa aggiudicatrici, a fronte dello svolgimento di determinate attività finalizzate alla conclusione di appalti di lavori, servizi e forniture, che operano in deroga al principio di onnicomprensività della retribuzione (articolo 24 del Dlgs 165/2001) e per questo oggetto di stretta interpretazione.
Il comma 5-bis dell'articolo 113 precisa che le spese per gli incentivi fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture.
C'è, dunque, una diretta corrispondenza tra incentivo e attività compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche, nell'ambito dello svolgimento di attività tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche procedure. La correlazione normativa tra la provvista delle risorse e la singola opera con riferimento all'importo a base di gara commisurato al costo preventivato, consente l'allocazione della spesa al di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale.
La deliberazione della Sezione Veneto, in primo luogo, analizza in modo egregio il rapporto fra appalto, concessione e locazione finanziaria (contratto di partnership pubblico-privata/Ppp a causa variabile), per inquadrare il problema dell'ammissibilità o meno dell'incentivo. Si segnala che appalti e concessioni sono trattati in parti diverse del codice. Il legislatore, quando ha voluto, ha specificamente richiamato insieme le due tipologie oppure ha fatto genericamente riferimento alla nozione di contratti pubblici.
Sotto il profilo contabile, nel caso delle concessioni manca uno specifico stanziamento. Gli incentivi sono stati individuati in forma tipica dal legislatore nell'articolo 113, comma 5-bis, che, riferendosi ai capitoli di spesa per contratti d'appalto, ha escluso l'assoggettabilità degli incentivi medesimi ai vincoli di spesa in materia di personale.
Appalti e concessioni sono tipologie di contratti differenti per cui nel primo caso la determinazione del fondo per i compensi incentivanti è da individuarsi nell'importo a base di gara, mentre per le concessioni si dovrebbe fare ricorso ad uno stanziamento di spesa specifico non previsto per legge, la cui copertura, essendo legata alla riscossione dei canoni concessori, è connotata da margini di aleatorietà.
L'articolo 187 del codice, tuttavia, equipara, per molti aspetti, la locazione finanziaria (Ppp) all'appalto pubblico di lavori. La Sezione, entrando nel merito, afferma che, in base all'articolo articolo 187 del codice «se in conformità alla causa variabile che caratterizza in generale il contratto di PPP, la locazione finanziaria può, in concreto, avere causa prevalente di appalto, potrebbe sostenersi la sua incentivabilità in base al fatto che a tale fattispecie si riferisce espressamente l'art. 113».
Ma questo aspetto non è sufficiente. Dirimenti, secondo i magistrati veneti, sono invece le altre circostanze per cui la Sezione delle Autonomie (deliberazione 25.06.2019 n. 15) ha negato l'incentivabilità delle funzioni connesse alle concessioni, e, in particolare, l'assenza di uno specifico stanziamento riconducibile ai capitoli dei singoli lavori, servizi e forniture. Mentre nei contratti di appalto gli incentivi gravano sul capitolo di spesa previsto per i singoli lavori/servizi/forniture, con accantonamento di una parte per la specifica finalità dell'erogazione del compenso incentivante, tale meccanismo non opera né nelle concessioni né nei contratti di locazione finanziaria.
L'ostacolo al riconoscimento dell'incentivabilità delle funzioni connesse alla locazione finanziaria di opere pubbliche o di pubblica utilità consiste nella funzione (anche) di finanziamento del contratto. Questo implica che manchi nel bilancio della Pa lo specifico stanziamento di spesa cui parametrare la misura del fondo incentivante, determinando oneri non aleatori e su cui pertanto sono fondate tanto la mancata assoggettabilità alla normativa vincolistica di spesa per il personale, quanto la legittima erogazione degli incentivi per funzioni tecniche.
Questa problematica non può essere superata dal fatto che il bene oggetto della locazione finanziaria venga poi trasferito dal finanziatore al patrimonio della Pa, dato che questo non solo non risolve il problema della aleatorietà della copertura, ma rende evidente come non si possa affermare che le risorse eventualmente destinabili alla copertura dell'onere troverebbero capienza in uno stanziamento specificamente previsto a questo fine.
Non si può nemmeno parametrare l'incentivo sulla spesa per il riscatto, poiché in tal caso si sarebbe fuori dell'ambito applicativo della norma incentivante; se si parametrasse, invece, l'incentivo alla spesa per l'appalto, si farebbe riferimento ad una spesa che non compare nel bilancio della Pa.
La Sezione conclude che, pur essendo teoricamente ipotizzabile un approccio estensivo in favore di un loro riconoscimento anche in relazione a contratti diversi dall'appalto, il quadro normativo vigente non consenta di riconoscere gli incentivi per funzioni tecniche svolte dal personale del Comune per la realizzazione di un contratto di locazione finanziaria per opere pubbliche o di pubblica utilità.
In definitiva, l'equiparazione della locazione finanziaria al contratto d'appalto prevista dall'articolo 187 del Codice non trova applicazione per il riconoscimento degli incentivi di dell'articolo 113, comma 2, del Codice stesso (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.02.2020).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Ai fini della liquidazione dell’incentivo occorre, quanto meno, la previa pubblicazione del bando o la spedizione delle lettere d’invito.
La Corte dei conti, nell’esercizio della funzione consultiva, ha chiarito come l’incentivo vada erogato solo a seguito della pubblicazione del bando o della spedizione delle lettere d’invito.
Invero,
“Perché maturi il diritto all’incentivo non basta, peraltro, che l’attività progettuale sia stata compiuta. Occorre, anche, che il progetto sia stato formalmente approvato e posto a base di gara. Del resto, se così non fosse, l’Ente si troverebbe a dover impegnare risorse ordinarie del proprio bilancio per fronteggiare oneri che, invece, la norma intende porre soltanto a carico degli stanziamenti complessivi previsti per la realizzazione dell’opera o del lavoro. In questo senso depone sia l’originaria formulazione del comma 5 dell’art. 92, sia, seppure con la prevista costituzione del fondo, il comma 7-bis dell’art. 93 del Codice”.
---------------

Nel merito la vicenda riguarda l’erogazione dell’incentivo previsto dall’art. 92, comma 5, del D.lgs. n. 163/2006 vigente all’epoca dei fatti, con particolare riferimento alla tempistica per la sua corresponsione.
La suddetta norma così recitava: “Una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti; limitatamente alle attività di progettazione, l'incentivo corrisposto al singolo dipendente non può superare l'importo del rispettivo trattamento economico complessivo annuo lordo; le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. I soggetti di cui all'articolo 32, comma 1, lettere b) e c), possono adottare con proprio provvedimento analoghi criteri”.
Alla luce della suddetta norma l’incentivo in questione non può essere superiore al 2 per cento dell’importo posto a base di gara.
Per quanto riguarda il regolamento attuativo, applicabile alla fattispecie in esame, esso va identificato in quello emanato con il D.M. Giustizia n. 139/2008, come correttamente rilevato dalla difesa e come ammesso dalla stessa Procura in sede di udienza.
L’esame dell’art. 3, comma 1, del suddetto D.M. Giustizia, peraltro, attuativo del citato d.leg.vo, aggiunge solo che si consenta di ripartire l’incentivo anche nell’ipotesi in cui le procedure di affidamento non abbiano avuto seguito per ragioni non derivanti da errori od omissioni progettuali, il che presuppone, comunque, che vi sia stato l’avvio delle procedure stesse.
Tanto esclude che, dal mancato riferimento in citazione di tale norma, possa derivare un effetto invalidante della domanda attrice, infatti, con riferimento alla problematica in esame la Corte dei conti, nell’esercizio della funzione consultiva, ha chiarito come l’incentivo vada erogato solo a seguito della pubblicazione del bando o della spedizione delle lettere d’invito; si è espressa, in tal senso, la Sezione regionale di controllo per il Piemonte (
parere 17.03.2014 n. 44) e la Sezione regionale di controllo per la Basilicata, con la parere 12.02.2015 n. 3, che ha precisato quanto segue: “Perché maturi il diritto all’incentivo non basta, peraltro, che l’attività progettuale sia stata compiuta. Occorre, anche, che il progetto sia stato formalmente approvato e posto a base di gara. Del resto, se così non fosse, l’Ente si troverebbe a dover impegnare risorse ordinarie del proprio bilancio per fronteggiare oneri che, invece, la norma intende porre soltanto a carico degli stanziamenti complessivi previsti per la realizzazione dell’opera o del lavoro. In questo senso depone sia l’originaria formulazione del comma 5 dell’art. 92, sia, seppure con la prevista costituzione del fondo, il comma 7-bis dell’art. 93 del Codice”.
Nel caso in esame è pacifico che l’incentivo sia stato erogato a prescindere dalla fase di gara; inoltre è stato quantificato in assenza di un preciso importo da porre a base di gara, come risulta, inequivocabilmente, dalla Relazione sulla realizzazione degli interventi delegati al 31.07.2014 e dall’allegata scheda n. 45.
Pertanto, il Collegio ritiene sia stato violato l’art. 92 del D.lgs. n. 163/2006 e l’art. 3 del D.M. Giustizia, in quanto, ai fini della liquidazione dell’incentivo in questione, occorre, quanto meno, la previa pubblicazione del bando o la spedizione delle lettere d’invito.
Sussiste, quindi, il danno erariale derivante dall’indebita erogazione dell’incentivo, danno imputabile in parti eguali ai convenuti, la cui condotta è connotata da colpa grave in ragione del chiaro quadro normativo e della loro elevata professionalità.
Con riferimento alla quantificazione del danno, il Collegio è dell’avviso che debba tenersi conto anche degli oneri previdenziali e delle ritenute fiscali, trattandosi di somme indebitamente erogate dall’amministrazione (negli stessi termini Corte conti, Sezione di Appello per la Sicilia, sent. n. 108/2017 e la giurisprudenza ivi richiamata).
Ciò precisato, il Collegio ritiene di esercitare il potere riduttivo, tenuto conto di una serie di elementi oggettivi desumibili dalla documentazione in atti, così riducendo il danno da € 217.662,33 alla somma di € 140.000,00, comprensiva di rivalutazione monetaria, ripartita in parti eguali (€ 70.000,00 per ciascun convenuto), oltre interessi nella misura legale decorrenti dal deposito della sentenza e fino al soddisfo, in favore del Ministero della Giustizia.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo a favore dello Stato.
P.Q.M.
La Corte dei Conti – Sezione Giurisdizionale per la Regione Lazio, definitivamente pronunciando:
   · respinge l’eccezione di nullità;
   ·
condanna i convenuti al pagamento della somma di € 140.000,00, comprensiva di rivalutazione monetaria, ripartita in parti eguali (€ 70.000,00 per ciascun convenuto), oltre interessi nella misura legale decorrenti dal deposito della sentenza e fino al soddisfo, in favore del Ministero della Giustizia (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lazio, sentenza 11.01.2019 n. 5).

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssenze per provvedimenti Coronavirus.
Domanda
A seguito dell’emissione delle ordinanze ministeriali/regionali recanti “Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-2019“, abbiamo sospeso il servizio dell’asilo nido e della biblioteca civica.
Come devono essere trattate le assenze dal servizio dei questi dipendenti?
Risposta
Le misure urgenti adottate nelle ordinanze di cui al quesito, riguardano interventi volti a contenere la diffusione del COVID-19 più noto come Coronavirus. Allo scopo di evitare il diffondersi del virus è stata disposta la chiusura dei servizi educativi dell’infanzia e delle scuole di ogni ordine e grado, nonché la sospensione dei servizi di apertura al pubblico dei musei e degli altri istituti e luoghi della cultura fino al 1° marzo compreso.
Tale sospensione configura un caso di impossibilità di rendere la prestazione lavorativa non imputabile ad alcuna delle parti del rapporto di lavoro: né al datore di lavoro né al lavoratore.
L’autorità che è intervenuta e ha deciso la sospensione dei servizi non ha infatti agito come datore di lavoro ma come ufficiale di governo.
Peraltro va aggiunto che esistono due diversi tipi di situazioni riconducibili l’una alle ordinanze regionali, le altre alle ordinanze dei sindaci dei comuni sede dei principali focolai del virus.
Le ordinanze regionali sospendono il servizio degli asili nido e delle biblioteche nei rispettivi territori.
Le ordinanze dei sindaci vietano ai residenti nei comuni sedi dei principali focolai, di uscire dal territorio comunale, impedendo quindi al lavoratore di prestare il proprio servizio presso un datore di lavoro al di fuori del territorio comunale oggetto della restrizione.
Non sono rinvenibili nei CCNL vigenti, disposizioni che trattino in modo specifico la complessiva fattispecie e gli effetti che ne possono derivare sul rapporto di lavoro.
Ad oggi, pertanto, possono essere fatte valere le istruzioni fornite dall’ARAN nei casi di eventi calamitosi o eventi atmosferici avversi.
Le indicazioni dell’Agenzia sono quelle di un datore di lavoro che, pur non essendo tenuto a corrispondere la retribuzione per i periodi oggetto di assenza, potrà certamente applicare tutta una serie di istituti e discipline contrattuali che consentono di tutelare la posizione del dipendente.
Le assenze possono pertanto essere giustificate ricorrendo ad istituti contrattuali e di legge come ferie e permessi retribuiti oppure anche concordando con il lavoratore interessato, su un più ampio arco temporale, l’eventuale recupero delle ore non lavorate.
Per quanto riguarda i lavoratori dipendenti degli asili nido e delle biblioteche, agli stessi, potranno essere chieste mansioni da essi esigibili in aree diverse da quelle oggetto di sospensione.
Stessa previsione non è evidentemente applicabile ai lavoratori ai quali sono rivolte le misure restrittive di tipo territoriale.
L’eccezionalità della contingenza in continuo divenire conduce a ritenere che verrà adottata una soluzione per colmare, nell’emergenza, il vuoto normativo che incide negativamente sulla sfera del lavoratore e che si colloca come elemento di differenziazione tra mondo del lavoro privato e pubblico (27.02.2020 - link a www.publika.it).

PATRIMONIOL'ufficio patrimonio di questa Regione chiede di conoscere se, relativamente a contratti di locazione di immobili di proprietà, debba procedere ai sensi del codice degli appalti (anche in relazione agli obblighi di tracciabilità) o se l'ente possa procedere in autonomia applicando le norme del Codice Civile.
L'art. 17 del Codice degli appalti (D.Lgs. 18.04.2016, n. 50) "Esclusioni specifiche per contratti di appalto e concessione di servizi" dopo le modifiche apportate dal D.Lgs. 19.04.2017, n. 56 esclude dal proprio campo di applicazione i contratti "a) aventi ad oggetto l'acquisto o la locazione, quali che siano le relative modalità finanziarie, di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili o riguardanti diritti su tali beni".
Tale esclusione non determina in automatico la piena libertà di azione dell'Amministrazione in quanto, come riconosciuto dalla giurisprudenza "Gli artt. 4 e 17, lett. a), del codice dei contratti vanno interpretati nel senso che per i contratti attivi e passivi della P.A., ad oggetto l'acquisto o la locazione di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili, si devono rispettare i principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica previsti dall'art. 4 per tutti i contratti pubblici esclusi, in tutto o in parte, dall'ambito di applicazione oggettiva del codice, e spetta all'ANAC la relativa vigilanza e il controllo ai sensi dell'art. 213 del D.Lgs. n. 50/2016".
In tale ottica l'ANAC con Comunicato 16.10.2019 del Presidente "Indicazioni relative all'obbligo di acquisizione del CIG e di pagamento del contributo in favore dell'Autorità per le fattispecie escluse dall'ambito di applicazione del codice dei contratti pubblici" ha previsto l'applicazione a tali contratti degli obblighi di tracciabilità mediante acquisizione del codice identificativo gara (smart-cig) a prescindere dall'importo.
Pertanto, allo stato attuale, pur fuori dal campo di applicazione del codice degli appalti, la disciplina applicabile ai contratti di locazione vede comunque l'applicazione di taluni principi e del vincolo di tracciabilità propri della disciplina generale in materia di contratti pubblici.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, art. 17 - D.Lgs. 19.04.2017, n. 56 - Comunicato 16.10.2019 del Presidente ANAC
Riferimenti di giurisprudenza

Cons. Stato Sez. V, 29.01.2020, n. 720 - Cons. Stato Sez. comm. spec. Parere, 10.05.2018, n. 1241
(26.02.2020 - tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

APPALTII poteri del RUP non dirigente/responsabile del servizio.
Domanda
Nel nostro ente (un comune) privo di dirigenti, si sta ponendo la questione dei poteri del RUP (normalmente una categoria D a volte non coincidente con il responsabile del servizio con funzioni gestionali), alla luce di quanto viene espresso in giurisprudenza secondo cui, a titolo esemplificativo, il provvedimento di esclusione dall’appalto compete al responsabile unico del procedimento anche se questo soggetto non coincide con il titolare dei poteri dirigenziali (nel nostro ente assegnati con provvedimento del sindaco ex art. 109 del TUEL).
In tale contesto, è possibile specificare nel bando di gara che i provvedimenti di esclusione verranno adottati direttamente dal responsabile del servizio su proposta del RUP? Oppure in che modo l’ente potrebbe disciplinare questi aspetti nella legge di gara?
Risposta
La tematica prende spunto, evidentemente, dalla recente giurisprudenza e dalla posizione espressa dall’ANAC (finanche nei bandi tipo oltre che nelle linee guida n. 3) di cui si è già parlato. E sul tema, chi scrive, ha avuto modo già di evidenziare la particolarità di un preteso potere attribuito anche al RUP non dirigente e non responsabile del servizio di adottare atti a valenza esterna pur non avendo la competenza esplicita e nonostante il chiaro dettato normativo di cui all’articolo 6 della legge 241/1990 ex art. 6, comma 1, lett. e) che –testualmente– puntualizza che nel caso in cui il responsabile del procedimento non abbia la competenza ad adottare il provvedimento a valenza esterna deve limitarsi a predisporre la proposta per il proprio responsabile di servizio.
Quest’ultimo, sempre in base alla norma in commento, potrà finanche discostarsi dalla proposta ma motivando adeguatamente le ragioni anche per un problema di responsabilità. È chiaro che la decisione di agire diversamente rispetto a quanto proposto dal responsabile del procedimento deve avere una adeguata “tracciatura” per evitare che quest’ultimo risponda per una decisione (contraria alla propria proposta) assunta dal proprio responsabile di servizio.
In tempi recentissimi sul tema dei poteri del RUP a valenza esterna a prescindere dalla circostanza che sia o meno un responsabile di servizio e/o dirigente si è espresso il Consiglio di Stato, sez. V, con la sentenza n. 1104/2020.
Il giudice di Palazzo Spada non manifesta alcuna perplessità nel ritenere che i provvedimenti di esclusione debbano essere adottati dal RUP a prescindere dalla qualifica/categoria di appartenenza. Ad esempio, nel caso di specie il RUP era un istruttore direttivo (cat. D) neanche responsabile del servizio visto che lo stesso è rimesso ad un dirigente.
Ciò nonostante, come da giurisprudenza costante (e, si ripete, secondo la prassi dell’ANAC) la statuizione è stata nel senso che i provvedimenti in parola sono di competenza del RUP.
È chiaro che, nell’ambito di una stazione appaltante priva di dirigenti e nel caso in cui il RUP non coincida neppure con il responsabile del servizio con poteri a valenza esterna, la questione può determinare non poche problematiche soprattutto per la “scarsa” propensione del RUP ad adottare provvedimenti a valenza esterna che, evidentemente, implicano gravose responsabilità.
Fermo restando che la posizione giurisprudenziale è quella appena espressa ovvero che il RUP è tenuto ad adottare i provvedimenti a valenza esterna (ammissioni, esclusioni, aggiudicazioni senza impegno di spesa), si può ritenere –a parere di chi scrive– che probabilmente la legge di gara potrebbe chiarire questo passaggio rimettendo il potere di adottare il provvedimento esterno direttamente in capo al responsabile del servizio piuttosto che al RUP.
La circostanza che ciò risulti esplicitamente chiarito potrebbe essere valutata nell’interpretazione secondo cui la responsabilità del RUP è di tipo residuale ovvero si estende ad una serie di atti (quelli appena sintetizzati) solo quando non sia stati espressamente attribuiti ad altri soggetti (art. 31 del codice dei contratti).
Rimane fermo che –a fronte della giurisprudenza che rimette le incombenze estromissive al RUP (ritenendo, ad esempio, come nel caso della sentenza ultima citata del CdS che l’esclusione comminata dalla commissione di gara –dal presidente– sia illegittima)– è necessario un chiaro intervento del legislatore o dell’ANAC per chiarire il passaggio anzidetto ovvero: se il RUP non è dirigente/responsabile del servizio può adottare atti a valenza esterna? Soprattutto negli enti locali (26.02.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa tutela della privacy nei concorso riservati alle categorie protette.
Domanda
Quali accortezze occorre avere nella gestione di un concorso riservato alle categorie protette, per la parte di pubblicazione dei dati via web?
Risposta
Gli enti che bandiscono procedure concorsuali, riservate alla categorie protette, devono prestare la massima attenzione alla diffusione dei dati dei partecipanti, dal momento che in ballo c’è il trattamento del dato per il quale il legislatore europeo e nazionale hanno previsto il massimo della tutela: lo stato di salute.
La salute, tra tutti i dati sensibili di una persona fisica (il Regolamento UE 2016/679, all’articolo 9, li definisce “particolari”), è certamente quello che deve essere maggiormente protetto, soprattutto nelle comunicazioni via web che l’ente che bandisce il concorso è tenuto a pubblicare, nello svolgimento della selezione.
Qui di seguito, per rispondere al quesito, vengono tracciati una serie di suggerimenti legati alle singole fasi procedimentali del concorso.

Fase 1
Pubblicazione elenco degli ammessi e degli esclusi al concorso.
È possibile convocare i candidati ammessi al concorso (o alla preselezione, se prevista) con un semplice comunicato a firma del presidente della Commissione che recita più o meno così.
AVVISO
Tutti i candidati che hanno presentato domanda di partecipazione al concorso riservato alle categorie protette, per la copertura del posto di ………………. Categoria …………, come da bando pubblicato in data ………….che NON hanno ricevuto lettera di esclusione, sono convocati il giorno……., alle ore…… presso……….. per sostenere la prima prova scritta del concorso.
Sin qui, il problema dei dati, non si pone.


Fase 2
Per la comunicazione dei candidati ammessi alla seconda prova si può procedere con un comunicato del presidente della Commissione, in cui compare solamente l’elenco degli ammessi, con, a fianco, il relativo punteggio. I nominativi dei candidati dovranno essere sostituiti dall’uso delle iniziali o, meglio ancora, da dei codici identificati sostitutivi, attribuiti dalla commissione ad ogni candidato ammesso. Tramite e-mail o telefono, ad ogni candidato verrà comunicato il proprio codice identificativo. Esempio:
Posizione   Candidato                  Punteggio prova scritta
01.            Candidato 014-2020   28/30
02.            Candidato 006-2020   27/30
03.            Candidato 003-2020   26/30


Fase 3
Approvazione graduatoria finale. Anche in questo caso il nominativo del vincitore e dei candidati risultati idonei deve essere sostituito dall’uso di un codice identificativo che sarà lo stesso utilizzato per la comunicazione di ammissione alla seconda prova. Esempio:
Posizione   Candidato                 Punteggio prova scritta   Punteggio prova orale   Punteggio totale   Vincitore / idoneo
01.            Candidato 014-2020   28/30                           27/30                          55                       Vincitore
02.            Candidato 006-2020   27/30                           27/30                          54                       Idoneo
03.            Candidato 003-2020   26/30                           26/30                          52                       Idoneo


Fase 4
Approvazione verbali del concorso e della graduatoria di merito, di norma, con determinazione del responsabile del servizio personale. Anche in questo caso, dovranno essere oscurati tutti i nominativi e sostituiti con dei Codici identificati, già utilizzati in sede concorsuale. Prestare molta attenzione anche al contenuto dei verbali della Commissione che verranno allegati alla determinazione dirigenziale, provvedendo, eventualmente, all’oscuramento di alcuni dati.

Fase 5
Determinazione di assunzione in servizio del vincitore e approvazione schema di contratto individuale.
Nel testo della determinazione e nello schema di contratto individuale, verrà utilizzato il Codice matricola, attribuito preventivamente alla presa in servizio, al neo-dipendente dal servizio personale.

Ricapitolando: sull’argomento occorre prendere a riferimento le seguenti norme:
   • regolamento (UE) 2016/679, in particolare l’articolo 9, Paragrafo 4;
   • decreto legislativo 30.06.2003, n. 196, articolo 2-septies, nel testo inserito dall’art. 2, comma 1, lett. f), del d.lgs. 10.08.2018, n. 101;
   • indicazioni del Garante privacy contenute nel documento del 15.05.2014, recante “Linee guida in materia di trattamento di dati personali, contenuti anche in atti e documenti amministrativi, effettuato per finalità di pubblicità e trasparenza sul web da soggetti pubblici e da altri enti obbligati”, in particolare il Paragrafo 3. rubricato: Fattispecie esemplificative, Parte 3.b – Graduatorie, laddove si specifica che:
Non possono quindi formare oggetto di pubblicazione dati concernenti i recapiti degli interessati (si pensi alle utenze di telefonia fissa o mobile, l’indirizzo di residenza o di posta elettronica, il codice fiscale, l’indicatore ISEE, il numero di figli disabili, i risultati di test psicoattitudinali o i titoli di studio), né quelli concernenti le condizioni di salute degli interessati (cfr. art. 22, comma 8, del Codice), ivi compresi i riferimenti a condizioni di invalidità, disabilità o handicap fisici e/o psichici.

L’insieme di tali disposizioni impedisce, pertanto, agli enti di divulgare i dati sullo stato di salute delle persone fisiche, anche se partecipano a una procedura concorsuale, riservata a soggetti in condizioni di disabilità, compresi i richiami alla legge 12.03.1999, n. 68, recante “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”.
Il divieto risulta ancora più stringente se i dati vengono pubblicati nei siti web, sia nella sezione dedicata all’Albo pretorio on-line che sulla sezione Amministrazione trasparente > Bandi di concorso. La violazione del divieto comporta l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da parte del Garante privacy, come è possibile verificare consultando il seguente link.
Il provvedimento sanzionatorio, nella sua parte narrativa, illustra con precisione le motivazioni che hanno indotto l’Autorità Garante a emanare una ordinanza-ingiunzione, datata 14.03.2019, dell’importo di euro 10mila, nei confronti di un comune del centro Italia, per aver effettuato un trattamento illecito di dati personali mediante la diffusione di dati idonei a rilevare lo stato di salute.
La sanzione –per la quale è stata anche concessa una rateizzazione di 25 rate mensili, da 400 euro ciascuna– rappresenta il minimo edittale previsto, dal momento che la misura della sanzione era stata stabilita (con il “vecchio” Codice privacy) da un minimo di 10.000 a un massimo di 120.000 euro (25.02.2020 - link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consigli, parla lo statuto. Un consigliere non può restare senza gruppo. Se non ci sono le condizioni per costituirne uno, deve confluire nel misto.
Un consigliere può essere espulso dal proprio gruppo consiliare?

Un consigliere comunale è stato espulso dal gruppo consiliare di appartenenza essendo «venuto meno il necessario rapporto di fiducia», e lo stesso amministratore non ha aderito ad alcun altro gruppo compreso il gruppo misto. Nell'ambito dei consigli comunali, i gruppi non sono configurabili quali organi dei partiti e, pertanto, non sembra sussistere in capo a questi ultimi una potestà direttamente vincolante sia per un membro del gruppo di riferimento, che per gli organi assembleari dell'ente.
Si richiama la sentenza n. 16240/2004 con la quale il Tar Lazio ha precisato che i gruppi consiliari hanno una duplice natura; essi rappresentano, per un verso, la proiezione dei partiti all'interno delle assemblee, e, per altro verso, costituiscono parte dell'ordinamento assembleare, in quanto articolazioni interne di un organo istituzionale. Nella citata pronuncia, si legge che «è dunque possibile distinguere due piani di attività dei gruppi: uno, più strettamente politico, che concerne il rapporto del singolo gruppo con il partito politico di riferimento, l'altro, gravitante nell'ambito pubblicistico, in relazione al quale i gruppi costituiscono strumenti necessari per lo svolgimento delle funzioni proprie degli organi assembleari, contribuendo ad assicurare l'elaborazione di proposte e il confronto dialettico tra le diverse posizioni politiche e programmatiche».
L'art. 38, comma 2, del Tuel demanda al regolamento, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto», la disciplina del funzionamento dei consigli; pertanto, le problematiche relative alla costituzione e al funzionamento dei gruppi consiliari devono essere valutate alla stregua delle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l'ente locale si è dotato.
Dalla lettura dello statuto e del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale, emerge che i consiglieri possono costituire gruppi monopersonali solamente nel caso in cui sia stato eletto un solo consigliere nell'ambito di una lista, oppure, «in corrispondenza della nascita di nuovi movimenti politici a livello nazionale». Dall'esame delle norme citate emerge, altresì, che, qualora i consiglieri nel corso della consiliatura abbiano abbandonato il proprio gruppo originario, ove non abbiano diritto a costituire un gruppo di un solo componente, «vanno assegnati al gruppo misto».
Tali disposizioni, nel prevedere l'iscrizione d'ufficio al gruppo misto in assenza dei presupposti previsti a giustificazione del gruppo monopersonale, sembrerebbero escludere la possibilità che il consigliere possa decidere di non appartenere ad alcun gruppo. Nell'ambito delle surriferite fonti di autonomia locale non sembra potersi rinvenire una specifica normativa che preveda l'ipotesi della espulsione di un consigliere dal proprio gruppo di appartenenza originario.
Tanto premesso, nel ribadire che la materia dei gruppi consiliari è interamente demandata allo statuto e al regolamento sul funzionamento del consiglio, si rappresenta che è in tale ambito che dovrebbero trovare adeguata soluzione le relative problematiche applicative. Spetta, infatti, alle decisioni del consiglio comunale, valutare l'opportunità di indicare, con apposita modifica regolamentare, anche le ipotesi in argomento
(articolo ItaliaOggi del 21.02.2020).

PUBBLICO IMPIEGO: Partecipazione impresa famigliare.
Domanda
È possibile per un dipendente pubblico partecipare attivamente alla gestione di un’attività del figlio in qualità di collaboratrice familiare?
Risposta
L’impresa familiare alla quale pare fare riferimento il quesito posto– è disciplinata, nel nostro ordinamento, dall’art. 230 bis del codice civile
[1], ed indica –per definizione– una tipologia di impresa caratterizzata dal lavoro dei familiari nella gestione della stessa, le cui caratteristiche principali sono riconducibili alle seguenti:
   • la presenza di un unico imprenditore;
   • la collaborazione di uno o più familiari nella gestione dell’attività.
I familiari possono lavorare nell’impresa con un contratto di lavoro dipendente, oppure prestare la propria opera in qualità di collaboratori familiari, ed, in tal caso, hanno diritto al mantenimento, alla partecipazione agli utili di impresa, alla gestione dell’attività, limitatamente alla gestione straordinaria, alla destinazione degli utili, alla produzione e alla cessazione dell’impresa. Si tratta, pertanto di una collaborazione attiva alla vita dell’impresa ed anche ai guadagni della stessa.
L’articolo 53, comma 1, del d.lgs. 165/2001, attraverso il richiamo espresso all’articolo 60 del Testo Unico n. 3/1957, sancisce il cosiddetto dovere di esclusività per i pubblici dipendenti, i quali “non possono esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del Ministro competente.”
Tale divieto assoluto risulta mitigato dai successivi commi del citato articolo che prevede che:
   • le pubbliche amministrazioni non possono conferire ai dipendenti incarichi, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, che non siano espressamente previsti o disciplinati da legge o altre fonti normative, o che non siano espressamente autorizzati (comma 2);
   • il conferimento operato direttamente dall’amministrazione, nonché l’autorizzazione all’esercizio di incarichi che provengano da amministrazione pubblica diversa da quella di appartenenza, ovvero da società o persone fisiche, che svolgano attività d’impresa o commerciale, sono disposti dai rispettivi organi competenti secondo criteri oggettivi e predeterminati, che tengano conto della specifica professionalità, tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell’interesse del buon andamento della pubblica amministrazione o situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi, che pregiudichino l’esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente (comma 5).
Al fine di supportare le amministrazioni nell’applicazione della normativa in materia di svolgimento di incarichi da parte dei dipendenti e di orientare le scelte in sede di elaborazione dei propri regolamenti e nella definizione dei “criteri oggettivi e predeterminati”, il tavolo tecnico (a cui hanno partecipato il Dipartimento della funzione pubblica, la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, l’ANCI e l’UPI, avviato ad ottobre 2013, in attuazione di quanto previsto dall’intesa sancita in Conferenza unificata il 24.07.2013) ha formalmente approvato il documento contenente “Criteri generali in materia di incarichi vietati ai pubblici dipendenti”.
In tale documento, è scritto che sono da considerare vietati ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche –con percentuale di tempo superiore al 50%– gli incarichi, sia retribuiti che a titolo gratuito, che presentano la caratteristica della abitualità e professionalità, e si precisa che “l’incarico presenta i caratteri della professionalità laddove si svolga con i caratteri della abitualità, sistematicità/non occasionalità e continuità, senza necessariamente comportare che tale attività sia svolta in modo permanente ed esclusivo.”
D’altra parte, già la Circolare n. 6 del 1997 del Dipartimento della Funzione Pubblica citava il caso partecipazione del dipendente pubblico in società agricole a conduzione familiare, ritenendo che tale attività fosse compatibile solo se l’impegno richiesto è modesto e non abituale o continuato durante l’anno, spettando all’amministrazione di appartenenza –in sede di istruttoria della domanda di autorizzazione– valutare che le modalità di svolgimento siano tali da non interferire sull’attività ordinaria.
Alla luce di quanto sopra esposto, si esclude che la dipendente pubblica di cui al quesito possa partecipare attivamente alla gestione dell’attività di tabaccheria del figlio in qualità di collaboratrice familiare, non rinvenendosi le caratteristiche di saltuarietà ed occasionalità previste per poter legittimamente rilasciare apposita autorizzazione.
---------------
[1] Art. 230-bis Codice Civile: “Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.
Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all’impresa stessa. I familiari partecipanti all’impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la responsabilità genitoriale su di essi.
Il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo
" (20.02.2020 - link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATAA fronte di verifiche antimafia "positive" (con riscontro di interdittive) questa Amministrazione statale operante nella pubblica sicurezza procede a adottare i conseguenti provvedimenti di autotutela o cautelari.
Spesso gli interessati contestano che le informazioni antimafia siano state emesse senza contraddittorio o avvio del procedimento e ne chiedono l’annullamento.
Vi sono margini per accogliere queste lamentele?

La disciplina delle "informazioni antimafia") è contenuta nel D.Lgs. 06.09.2011, n. 159 il quale delinea un procedimento peculiare (rispetto agli ordinari procedimenti amministrativi), di natura cautelare e urgente che deroga, secondo la costante e consolidata giurisprudenza, alla disciplina della L. 07.08.1990, n. 241.
Infatti si sottolinea in modo costante come "Ai fini delle informazioni antimafia non occorre la comunicazione di avvio del procedimento, previsto dall'art. 7 della L. n. 241 e il preavviso di rigetto, previsto dall'art. 10-bis della stessa legge. L'informazione antimafia non richiede la necessaria osservanza del contraddittorio procedimentale, meramente eventuale in questa materia ai sensi dell'art. 93, comma 7, del D.Lgs. n. 159 del 2011". Ciò in quanto procedimento "intrinsecamente caratterizzato da profili di urgenza".
Ciò detto, se non è possibile dare rilievo a eventuali osservazioni concernenti le modalità di rilascio dell’informativa antimafia l’amministrazione procedente deve tuttavia valutare la necessità, nell’ambito del proprio procedimento (es. concessione di contributi, appalti ecc..) di procedere comunque tramite le garanzie previste dalla L. 07.08.1990, n. 241 in quanto, nel caso concreto, potrebbero non sussistere le ragioni di urgenza che legittimano l’omissione del contraddittorio.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
L. 07.08.1990, n. 241, art. 7 - D.Lgs. 06.09.2011, n. 159, art. 93
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. III, 31.01.2020, n. 820 - TAR Piemonte-Torino Sez. I, 18.11.2019, n. 1152 - TAR Campania-Napoli Sez. I, 07.11.2018, n. 6465 - TAR Sicilia-Catania Sez. I, 20.08.2018, n. 1718 - Cons. Stato Sez. III Sent., 27.03.2017, n. 1378 - Cons. Stato Sez. III Sent., 28.10.2016, n. 4555 - Cons. Stato Sez. III Sent., 28.10.2016, n. 4550 - Cons. Stato Sez. III, 01.09.2014, n. 4447 (19.02.2020 - tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

APPALTI FORNITURENuove categorie merceologiche soggette ad obbligo di centralizzazione.
Domanda
È possibile acquistare un’autovettura da destinare ai vari settori comunali mediante richiesta di preventivi alle concessionarie di zona?
Risposta
Con riferimento al quesito in premessa occorre richiamare il comma 581 della legge finanziaria 2020, che intervenire sull’art. 1, co. 7, del d.l. 95/2012, con l’obiettivo di rafforzare la centralizzazione e aggregazione di quelle committenze che presentano caratteristiche standardizzabili e rilevanti economicamente.
Il citato art. 1, co. 7, prevede l’obbligo di approvvigionamento attraverso le convenzioni o gli accordi quadro messi a disposizione da Consip S.p.A. e dalle centrali di committenza regionali di riferimento costituite ai sensi dell’articolo 1, comma 455, della legge 27.12.2006, n. 296, ovvero mediante autonome procedure nel rispetto della normativa vigente, utilizzando i sistemi telematici di negoziazione messi a disposizione dai soggetti sopra indicati.
Autonomia di acquisto che presuppone il rispetto del benchmark, ovvero i parametri di qualità-prezzo delle convenzioni quadro come limiti massimi per l’acquisto di beni e servizi comparabili (art. 26, l 488/1999, art. 1, co. 449-455-456, l. 296/2006).
Obbligo inizialmente previsto per alcune categorie merceologiche, quali, energia elettrica e gas, carburanti rete ed extra rete, combustibili per riscaldamento, telefonia fissa e mobile, buoni pasto (D.M. 22.12.2015), viene con la finanziaria 2020 esteso alle seguenti categorie di veicoli:
   • Autovetture (art. 54, co. 1, lett. a) del d.lgs. 285/1992 C.d.S. (veicoli destinati al trasporto di persone, aventi al massimo nove posti, compreso quello del conducente);
   • Autobus (art. 54, co. 1, lett. b) del d.lgs. 285/1992, (veicoli destinati al trasporto di persone equipaggiati con più di nove posti compreso quello del conducente), ad eccezione di quelli per il servizio di linea per trasporto di persone;
   • Autoveicoli per trasporto promiscuo (art. 54, co. 1, lett. c) del d.lgs. 285/1992, (veicoli aventi una massa complessiva a pieno carico non superiore a 3,5 t. o 4,5 t. se a trazione elettrica o a batteria, destinati al trasporto di persone e di cose e capaci di contenere al massimo nove posti compreso quello del conducente);
   • Autoveicoli e motoveicoli per le forze di polizia e autoveicoli blindati (altre tipologie di veicoli non sono state ritenute standardizzabili in quanto soggette a specifiche personalizzazioni da parte delle PA).
In presenza di queste tipologie merceologiche l’Amministrazione, indipendentemente dall’importo, potrà:
   • Aderire ad una Convenzione/Accordo quadro Consip/Centrale di committenza regionale
   • Utilizzare il Mepa o altro Strumento telematico di negoziazione della Centrale di Committenza Regionale.
Nel caso di specie qualora presente una convenzione attiva la stazione appaltante avrà la possibilità, almeno nell’infra 40.000,00 euro, di affidare direttamente, previa richiesta di preventivi alle concessionarie locali, a condizione che si rispetti il benchmark della convenzione, e che si utilizzino comunque gli strumenti telematici di negoziazione messi a disposizione da Consip o dalla Centrale di Committenza Regionale (19.02.2020 - link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOPubblicazione provvedimenti organi indirizzo e dirigenti.
Domanda
Quali sono i provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo e dai dirigenti, oggetto degli specifici obblighi di pubblicazione, di cui all’art. 23, del d.lgs. n. 33/2013?
Risposta
L’articolo 23, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, nella sua versione iniziale, prevedeva l’obbligo di pubblicare e aggiornare ogni sei mesi, in distinte partizioni della sezione «Amministrazione trasparente», gli elenchi dei provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo politico e dai dirigenti, con particolare riferimento ai provvedimenti finali dei procedimenti di:
   a) autorizzazione o concessione;
   b) scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e servizi, anche con riferimento alla modalità di selezione prescelta ai sensi del codice dei contratti pubblici, relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al d.lgs. n. 163/2006;
   c) concorsi e prove selettive per l’assunzione del personale e progressioni di carriera di cui all’art. 24 del d.lgs. n. 150/2009;
   d) accordi stipulati dall’amministrazione con soggetti privati o con altre amministrazioni pubbliche.
Il successivo comma 2, stabiliva, invece, che per ciascuno dei provvedimenti compresi negli elenchi di cui al comma 1 doveva essere pubblicato:
   • il contenuto;
   • l’oggetto;
   • l’eventuale spesa prevista;
   • gli estremi relativi ai principali documenti contenuti nel fascicolo relativo al procedimento.
La pubblicazione doveva avvenire nella forma di una scheda sintetica, prodotta automaticamente in sede di formazione del documento che contiene l’atto.
La norma originaria –peraltro non cristallina nella sua formulazione, in virtù della presenza della locuzione “con particolare riferimento”– ha subito delle sostanziali modifiche da parte dell’articolo 22, comma 1, del decreto legislativo 25.05.2016, n. 97, che ha abrogato le lettere a) e c), del comma 1 e l’intero comma 2.
Alla luce delle modifiche intervenute, il testo dell’art. 23, del d.lgs. 33/2013, risulta, oggi, così strutturato:
Art. 23 Obblighi di pubblicazione concernenti i provvedimenti amministrativi
   1. Le pubbliche amministrazioni pubblicano e aggiornano ogni sei mesi, in distinte partizioni della sezione «Amministrazione trasparente», gli elenchi dei provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo politico e dai dirigenti, con particolare riferimento ai provvedimenti finali dei procedimenti di:
[a) autorizzazione o concessione;]
b) scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e servizi, anche con riferimento alla modalità di selezione prescelta ai sensi del codice dei contratti pubblici, relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al d.lgs. 18.04.2016, n. 50, fermo restando quanto previsto dall’articolo 9-bis;
[c) concorsi e prove selettive per l’assunzione del personale e progressioni di carriera di cui all’art. 24 del d.lgs. 150/2009;]
d) accordi stipulati dall’amministrazione con soggetti privati o con altre amministrazioni pubbliche, ai sensi degli artt. 11 e 15 della legge 07.08.1990, n. 241.
   [2. Per ciascuno dei provvedimenti compresi negli elenchi di cui al comma 1 sono pubblicati il contenuto, l’oggetto, la eventuale spesa prevista e gli estremi relativi ai principali documenti contenuti nel fascicolo relativo al procedimento. La pubblicazione avviene nella forma di una scheda sintetica, prodotta automaticamente in sede di formazione del documento che contiene l’atto.]
Alla luce di quanto sopra, la risposta al quesito può essere formulata come di seguito riportato:
   – ogni sei mesi e per la durata di anni cinque, occorre pubblicare su Amministrazione trasparente > Provvedimenti, un elenco con i principali provvedimenti degli organi di indirizzo che, nei comuni, sono il Sindaco, la Giunta e il Consiglio comunale
[1], pertanto, andranno pubblicati i seguenti elenchi:
   • deliberazioni di Consiglio comunale;
   • deliberazione di Giunta comunale;
   • ordinanze del sindaco, ex art. 50 del TUEL 267/2000;
   • ordinanze del sindaco, ex art. 54 TUEL 267/2000;
   • decreti del sindaco.
Per ciò che concerne i dirigenti (o posizioni organizzative, in enti senza la dirigenza) occorre pubblicare degli elenchi semestrali di:
   • determinazioni dirigenziali;
   • ordinanze dirigenziali.
La tempistica degli obblighi di pubblicazione può essere indicata nella sezione Trasparenza, del Piano Anticorruzione, prevedendo –ma è solo una nostra indicazione– che gli elenchi del primo semestre dell’anno vengano pubblicati entro il 30 settembre del medesimo anno e gli elenchi del secondo semestre, entro il 31 marzo dell’anno successivo.
Per quanto riguarda, invece, gli atti per la scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e servizi, si ritiene che l’obbligo possa ritenersi già assolto, pubblicando tutti gli atti nella sottosezione Bandi di gara e contratti, come scrupolosamente previsto dall’articolo 37, del d.lgs. 33/2013
[2], mentre per gli accordi con altri soggetti, stipulati ai sensi degli artt. 11 e 15 della legge 241/1990, l’obbligo sarà già assolto con la pubblicazione degli elenchi delle deliberazioni di Giunta e di Consiglio o, in caso di accordi di rilevante impatto sull’organizzazione e sulle funzioni dell’ente, nella sottosezione Disposizioni generali > Atti generali.
L’elenco, in assenza di specifiche indicazioni della legge e dell’ANAC
[3], si ritiene che possa essere formato come da tabella sotto riportata, prestando la massima attenzione e cautela al contenuto dell’oggetto dell’atto, soprattutto alla luce delle vigenti disposizioni in materia di tutela dei dati personali (si pensi, a titolo di esempio per tutti, alle ordinanze sindacali di TSO e ASO [4]).

ATTO                     NUM.   DATA           OGGETTO
Delibera consiliare   01       07.01.2020   Approvazione …


Contrariamente a ciò che si trova pubblicato in alcuni siti web di qualche ente locale, chi scrive, ritiene che non sia più pubblicabile il contenuto (cioè il testo integrale) degli atti adottati dagli amministratori e dai dirigenti. Ciò in virtù dell’introduzione, nella legislazione italiana, proprio dal d.lgs. 97/2016, dell’innovativo (e per certi versi rivoluzionario) istituto dell’accesso civico generalizzato (cosiddetto: FOIA)
[5].
Istituto attraverso il quale, qualsiasi cittadino del mondo, potrà avanzare richiesta di accesso ai dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, in forma totalmente gratuita e senza necessità di motivazione. Una volta consultati gli elenchi e avuto contezza dell’oggetto dell’atto, sarà estremamente agevole presentare istanza di accesso con il FOIA o con la legge 241/1990 (Titolo V, motivando la richiesta ex art. 22, comma 1, lettera b
[6]). I relativi modelli per garantire l’accesso (FOIA o legge 241), dovranno essere pubblicati e resi facilmente scaricabili e compilabili, dagli enti nella sottosezione Altri contenuti > Accesso civico.
---------------
[1] Si veda articolo 36, comma 1, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267;
[2] Si veda Allegato 1, delibera ANAC n. 1310 del 28/12/2016, sottosezione “Provvedimenti”;
[3] Si veda Paragrafo 5.5, della delibera ANAC n. 1310 del 28/12/2016, recante “Prime linee guida recanti indicazioni sull’attuazione degli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni contenute nel d.lgs. 33/2013 come modificato dal d.lgs. 97/2016”;
[4] TSO = Trattamento Sanitario Obbligatorio; ASO = Assistenza Sanitaria Obbligatoria;
[5] Si veda articolo 5, comma 2 e seguenti e articolo 5-bis, d.lgs. 33/2013;
[6] Legge 241/1990, art. 22, co. 1, lettera b): per “interessati”, tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso
(18.02.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALINuove regole per la nomina dei revisori dei conti: già in vigore, ma solo a metà.
Domanda
Il revisore del mio Ente scadrà a metà marzo. Si applicano già le nuove regole introdotte dal decreto fiscale oppure no?
Risposta
Il quadro normativo che disciplina la nomina degli organi di revisione degli enti locali è stato profondamente modificato dall’art. 57-ter del decreto fiscale 2020 (d.l. 124/2019).
La norma ha infatti modificato il comma 25 dell’articolo 16 del decreto legge n. 138/2011, sostituendo alle parole: “a livello regionale” le parole: “a livello provinciale” ed inserito ex novo il comma 25-bis del medesimo articolo. Le novità principali che il Legislatore ha introdotto sono pertanto essenzialmente due:
   1) i nuovi revisori sono estratti a sorte da un elenco costituito su base provinciale e non più su base regionale come avveniva in passato;
   2) negli enti in cui l’organo di revisione non è monocratico bensì collegiale ai sensi dell’art. 234 del TUEL, i consigli comunali, provinciali e delle città metropolitane e le unioni di comuni che esercitano in forma associata tutte le funzioni fondamentali eleggono, a maggioranza assoluta dei membri, il componente dell’organo di revisione che ricoprirà il ruolo di presidente del collegio.
Questi è scelto tra i soggetti validamente inseriti nella fascia tre formata ai sensi del regolamento di cui al decreto del Ministro dell’Interno 15/02/2012, n. 23, o comunque nella fascia di più elevata qualificazione professionale in caso di modifiche a tale regolamento. Il comma 2 dell’art. 57-ter prevede poi che Il Governo modifichi il suddetto decreto prevedendo che l’inserimento nell’elenco dei revisori dei conti degli enti locali avvenga a livello provinciale e non più a livello regionale.
I dubbi emersi fra gli operatori degli enti locali è se tale nuovo quadro normativo sia di immediata applicazione oppure sia necessario attendere l’adeguamento del suddetto decreto ministeriale. La risposta è stata fornita dallo stesso Ministero dell’Interno con un parere reso ad una prefettura e pubblicato sul sito web dello stesso Ministero (il testo integrale è reperibile al seguente link: https://dait.interno.gov.it/pareri/98126).
In esso si afferma che il riferimento dell’articolo 57-ter, comma 2 alla modifica del regolamento menzionato, vale esclusivamente per la formazione dell’elenco dei revisori su base provinciale, al fine di permettere le modifiche tecniche ed i correttivi all’attuale sistema della banca dati su base regionale. A contrario, la disposizione di cui alla lettera b) del medesimo art. 57-ter (ovvero il nuovo comma 25-bis del d.l. 138/2011), esplica i suoi effetti in via diretta dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge in oggetto e non è subordinata alla modifica del decreto ministeriale n. 23 del 15/02/2012.
Pertanto, gli enti con organo collegiale a far data dal 25.12.2019 (data di entrata in vigore della legge di conversione n. 157 del 19/12/2019 del decreto fiscale), hanno la facoltà di applicare la nuova disposizione relativa alla scelta del presidente. Ciò vale anche per quegli enti per i quali si è proceduto ad estrazione dei nominativi prima dell’entrata in vigore della disposizione in esame, ovvero anche dopo la sua entrata in vigore, senza che siano ancora intervenute le relative nomine da parte del consiglio dell’ente. Viceversa, gli enti che hanno un organo di revisione monocratico, nelle more dell’adozione delle necessarie modifiche al d.m. 15/02/2012 n. 23, dovranno fare ancora riferimento agli elenchi su base regionale.
Ciò trova conferma nel parere ministeriale, laddove si afferma che “(…) il riferimento territoriale alla provincia, non sia immediatamente applicabile. Infatti, al fine di realizzare tale modifica, il successivo comma 2, demanda al Governo la modifica del decreto del Ministero dell’Interno 15.02.2012, n. 23, prevedendo l’inserimento nell’elenco dei revisori a livello provinciale”.
Siamo pertanto di fronte ad una norma che al momento è già applicabile ma solo parzialmente, essendone una parte subordinata alla modifica prevista dal comma 2 dell’art. 57-ter del decreto fiscale. Una norma un po’ pasticciata che se da un lato ha il vantaggio di ridurre i costi dell’organo di revisione degli enti locali, con riguardo al rimborso spese di trasferta dei revisori, dall’altro ripropone il tema del controllo politico sull’organo di controllo esterno. Almeno laddove tale organo non è monocratico.
Non a caso la norma è stata fin da subito fortemente osteggiata da Ancrel che, con apposito emendamento al decreto milleproroghe, ne ha chiesto il rinvio al 2021.
Infine, cogliamo l’occasione per segnalare che lo scorso 4 febbraio il Ministero dell’Interno ha pubblicato sul proprio sito un decreto direttoriale di modifica dell’algoritmo di estrazione dei revisori. Esso ha lo scopo di garantire una maggiore probabilità di estrazione per i nominativi che non sono mai stati estratti  (17.02.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Convezione art. 14 per utilizzo P.O..
Domanda
Potreste spiegare meglio come funziona una convenzione tra enti per l’utilizzo congiunto di un dipendente incaricato di posizione organizzativa?
Risposta
L’articolo 14 del CCNL 22/01/2004 ha introdotto la possibilità di utilizzo congiunto di un dipendente tra più enti locali, chiarendo che esso deve essere disciplinato da idoneo accordo tra le amministrazioni interessate, che disponga innanzitutto in merito alla percentuale di ripartizione della prestazione lavorativa del dipendente in favore dell’ente di appartenenza (cui rimane organicamente legato) e in favore dell’ente utilizzatore (dal quale dipenderà funzionalmente per la quota parte ad esso assegnata).
Già tale originaria disposizione pattizia, ripresa nella stessa direzione dall’articolo 17, comma 6, del CCNL 21/05/2018, aveva chiarito che nulla osta a che il dipendente in questione sia titolare di un incarico di posizione organizzativa presso uno o tutti e due gli enti coinvolti: ciascun ente, però, dovrà riproporzionare il valore dell’indennità di posizione attribuita presso di sé e derivante dal processo di pesatura effettuato secondo le proprie regole, in funzione della percentuale di attribuzione della prestazione lavorativa spettante; e ciascun ente si farà carico della propria quota di indennità, dovendo l’ente utilizzatore rimborsare all’ente di provenienza solo le normali voci retributive del dipendente e non certo la quota di indennità di posizione attribuita presso l’altra amministrazione.
Per essere ancora più espliciti, se presso l’ente A (ente di appartenenza), il dipendente è titolare di un incarico di posizione organizzativa cui è attribuita una indennità di posizione di euro 10.000,00/annui, e la convenzione per l’utilizzo congiunto del dipendente prevede una ripartizione della prestazione lavorativa al 50% (18 h/settimanali per ciascun ente), ecco che l’ente di appartenenza dovrà riproporzionare tale indennità al 50%, corrispondendo al dipendente una posizione pari ad euro 5.000,00 annui.
Nulla dovrà l’ente utilizzatore, che chiameremo B, in relazione a tale somma, che resta di esclusiva competenza e interesse dell’ente A.
Ove lo ritenga, e secondo il proprio regolamento in materia, l’ente B potrà certamente attribuire altro incarico di posizione organizzativa allo stesso dipendente, procedendo, quanto alla sua pesatura, esattamente come A, ovvero seguendo il proprio disciplinare in materia e riproporzionandola al 50%.
L’art. 16, comma 6, del CCNL 21/05/2018, all’ultimo capoverso, aggiunge solo che “al fine di compensare la maggiore gravosità della prestazione svolta in diverse sedi di lavoro, i soggetti di cui al precedente alinea possono altresì corrispondere con oneri a proprio carico, una maggiorazione della retribuzione di posizione attribuita ai sensi del precedente alinea, di importo non superiore al 30% della stessa”, intendendo che il solo ente utilizzatore, ovvero B, può riconoscere, se lo ritiene, una maggiorazione della posizione eventualmente attribuita presso di sé (e riproporzionata come illustrato sopra) fino al 30% della stessa. Tale facoltà non è concessa all’ente di provenienza.
Nell’esempio (con cifre puramente indicative) proposto, perciò:
   • Ente A è posizione euro 10.000,00 – utilizzo 50% è nuovo importo posizione euro 5.000,00 (interamente a carico di A)
   • Ente B è posizione euro 9.000,00 – utilizzo 50% è nuovo importo 4.500,00 + (eventualmente) maggiorazione 30% pari a euro 1.350,00, per un totale di euro 5.850,00 (interamente a carico di B) (13.02.2020 - link a www.publika.it).

APPALTI: La gara nell’ambito dei 40mila euro e l’esigenza di rispettare l’evidenza pubblica.
Domanda
Con numerosi quesiti, spesso, viene posta la questione dell’affidamento diretto entro i 40mila euro e della necessità (o meno) di una particolare motivazione soprattutto ora alla luce delle drastiche modifiche apportate all’articolo 36 del codice ed alla introduzione delle fattispecie di affidamento diretto previa consultazione di preventivi, per i servizi e per le forniture, fino al sopra soglia comunitaria che legittimerebbero il RUP ad agire discrezionalmente sugli inviti.
Risposta
Come si è rilevato in altre circostanze, la previsione dell’affidamento diretto “puro” entro i 40mila euro, tanto per forniture/servizi/lavori è una fattispecie introdotta dal legislatore che ha cercato –in questo modo– di conciliare i principi classici della trasparenza/oggettività con l’esigenza di assicurare l’assegnazione del micro-appalto in modo tempestivo.
In sostanza, in relazione ad affidamenti di importo contenuto, il legislatore ha effettuato una “prevalutazione” ritenendo preferibile far “retrocedere” –come importanza/intensità– i principi classici dell’evidenza pubblica (rigorosissimi) facendo prevalere il fattore “tempo di esperimento della procedura”. In certi casi, evidentemente, la celerità della procedura e, soprattutto, l’utilizzo di contenuti/contingentati strumenti istruttori rappresenta un valore aggiunto. Soprattutto, come detto, in relazione ai micro-appalti.
Non può sfuggire, anche ad un RUP inesperto, che avviare una autentica gara (ad esempio con bando pubblico) per aggiudicare una commessa di importi contenuti (es. 20mila) rappresenta sicuramente un aggravio di procedura. Non si può negare che l’obiettivo dell’assegnazione della commessa verrebbe raggiunto con un “costo” della stazione appaltante, in termini di tempo e di risorse finanziarie, inaccettabile/spropositato.
Per contemperare, quindi, le diverse esigenze il legislatore ha ipotizzato il c.d. affidamento diretto “puro”. Puro nel senso che –come esplicitato con il decreto correttivo 56/2017– il RUP non ha alcuna necessità di far competere più operatori e/o di richiedere più preventivi. E, a ben vedere, neppure l’obbligo di effettuare una indagine di mercato (peraltro sempre consigliabile).
Nel caso di specie, pertanto, di affidamento nell’ambito dei 40mila euro, la motivazione può essere esplicitata, in primo luogo con riferimento al dato normativo, in secondo luogo con le sottolineature che lo strumento dell’affidamento diretto appare congeniale alle necessità di speditezza dell’affidamento e che lo stesso avviene nel rigoroso rispetto della rotazione.
Come già ampiamente ribadito, il RUP non può prescindere –soprattutto nell’affidamento diretto– dal rispetto rigoroso della rotazione. Il riaffido diretto dell’appalto al precedente affidatario richiede una motivazione talmente circostanziata che, oggettivamente, il riaffido deve essere limitato ad ipotesi realmente necessarie in assenza di ogni alternativa.
Un problema di motivazione e di strutturazione corretta del procedimento amministrativo si impone, evidentemente, qualora il RUP decidesse –pur nell’ambito dei 40mila euro– di utilizzare un procedimento diverso dall’affidamento diretto valutando l’opportunità di richiedere e confrontare più preventivi.
In questo caso, il RUP non si può esimere dal rispetto massimo dei principi classici riconducibili all’evidenza pubblica a pena di illegittimità degli atti compiuti.
In tema si può citare la recentissima sentenza del Tar Basilicata, Potenza, sez. I, n. 79/2020 in cui –testualmente– si legge che “nelle gare (…)” ovvero nel caso di utilizzo di una gara vera e propria piuttosto che dell’affidamento diretto, “relative agli appalti di importo inferiore a € 40.000,00, devono essere garantiti i principi di non discriminazione e di trasparenza di cui all’art. 30, comma 1, D.Lg.vo n. 50/2016, espressamente richiamati dall’art. 36, comma 1, dello stesso D.Lg.vo n. 50/2016, che disciplina i contratti di appalto sotto soglia (...)” (12.02.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOQuesta Amministrazione (Azienda partecipata da Enti Locali) si trova a dover bandire alcuni concorsi per l'assunzione di personale di vari profili.
Quali sono i limiti legittimi per la previsione di concorsi non solo per esami ma anche per titoli volendo selezionare per alcuni di questi personale particolarmente qualificato?

Le Amministrazioni pubbliche possono prevedere, nell'ambito della propria autonomia organizzativa e discrezionalità di procedere a bandi di concorso per soli esami o per titoli ed esami. Tale scelta non è sindacabile nel merito dal giudice amministrativo anche se l'individuazione dei titoli valutabili e del peso da attribuire agli stessi incontra qualche limitazione.
Il DPR 09.05.1994, n. 487, art. 8 "Regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi" detta all'art. 8 alcuni vincoli di carattere generale che sono:
   - la valutazione dei titoli va effettuata previa individuazione dei criteri (da inserire nel bando)
   - la valutazione è effettuata dopo le prove scritte e prima che si proceda alla correzione dei relativi elaborati
   - ai titoli non può essere attribuito un punteggio complessivo superiore ad un terzo del massimo (10/30 o equivalente)
   - il bando indica i titoli valutabili ed il punteggio massimo agli stessi attribuibile singolarmente e per categorie di titoli.
   - la votazione complessiva è determinata sommando il voto conseguito nella valutazione dei titoli al voto complessivo riportato nelle prove d'esame.
Entro questi limiti la giurisprudenza consolidata e costante (anche recente) riconosce un ampio potere discrezionale nell'individuazione della tipologia dei titoli richiesti per la partecipazione da esercitare tenendo conto della professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire, suscettibile di sindacato giurisdizionale esclusivamente sotto i profili della illogicità, arbitrarietà e contraddittorietà e ciò sia in fase di predeterminazione (bando) che di valutazione.
Infatti "la Commissione esaminatrice di un pubblico concorso è titolare di ampia discrezionalità nel catalogare i titoli valutabili in seno alle categorie generali predeterminate dal bando, nell'attribuire rilevanza ai titoli e nell'individuare i criteri per attribuire i punteggi ai titoli nell'ambito del punteggio massimo stabilito, senza che l'esercizio di tale discrezionalità possa essere oggetto di censura in sede di giudizio di legittimità, a meno che non venga dedotto l'eccesso di potere per manifesta irragionevolezza e arbitrarietà".
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.R. 09.05.1994, n. 487, art. 8
Riferimenti di giurisprudenza

Cons. Stato Sez. VI, 24.01.2020, n. 590 - TAR Campania-Napoli Sez. II, 07.01.2020, n. 47 - TAR Campania-Salerno Sez. I, 07.01.2020, n. 5 - TAR Basilicata Sez. I, 05.12.2019, n. 879 - TAR Sicilia-Catania Sez. I, 15.11.2019, n. 2737 - Cons. Stato Sez. VI, 14.10.2019, n. 6971 - TAR Lazio-Roma Sez. III-bis, 30.09.2019, n. 11420 - TAR Campania-Napoli Sez. II, 25.09.2019, n. 4571 - TAR Lazio-Roma Sez. III-ter, 24.09.2019, n. 11306 - TAR Sardegna Sez. I, 11.12.2018, n. 1015 - TAR Lazio-Roma Sez. II-quater, 05.06.2018, n. 6227
(12.02.2020 - tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

VARI: Rinuncia al diritto di proprietà immobiliare. L’eventuale esperimento dell’actio nullitatis (parere 14.03.2018 - 137948-137949, AL 37243/2017 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2019).

NEWS

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOGraduatorie, non c'è pace.
Possibile scorrere le graduatorie vigenti anche nel caso di posti istituiti ex novo, successivamente alle graduatorie stesse.

Non c'è pace per le norme che regolano il rapporto di lavoro pubblico, in particolare per gli enti locali. La legge di conversione del d.l. 162/2019 lo testimonia, con un nuovo colpo di scena. Si tratta dell'articolo 17, comma 1-bis, della legge di conversione, ai sensi del quale «per l'attuazione del piano triennale dei fabbisogni di personale di cui all'articolo 6 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, gli enti locali possono procedere allo scorrimento delle graduatorie ancora valide per la copertura dei posti previsti nel medesimo piano, anche in deroga a quanto previsto dal comma 4 dell'articolo 91 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267».
Si tratta di una vera e propria abolizione non manifesta della previsione contenuta nell'articolo 91, comma 4, del Tuel, che prevede: «per gli enti locali le graduatorie concorsuali rimangono efficaci per un termine di tre anni dalla data di pubblicazione per l'eventuale copertura dei posti che si venissero a rendere successivamente vacanti e disponibili, fatta eccezione per i posti istituiti o trasformati successivamente all'indizione del concorso medesimo».
Una misura tesa a scongiurare il pericolo di scorrimenti «ad personam», finalizzati, cioè, ad assumere persone gradite alla politica. L'articolo 17, comma 1-ter, della legge di conversione del d.l. 162/2019, consente agli enti di disapplicare la previsione dell'articolo 91, comma 4. Lo scopo è consentire un'attuazione più semplice della programmazione dei fabbisogni.
Tuttavia, non è dato riscontrare la correlazione tra attuazione del piano dei fabbisogni e possibilità di ampliare o modificare la dotazione organica (articolo ItaliaOggi del 21.02.2020).

VARIBonus mobili, sconti vincolati. Sì alle detrazioni per interventi iniziati dall’01/01/2019. Le Entrate aggiornano la guida fiscale sull’agevolazione, prorogata fino al 31 dicembre.
Agevolazione da bonus mobili anche per gli acquisti effettuati nel 2020 ma usufruibile solo per chi realizza un intervento di ristrutturazione edilizia iniziato a partire dal 01.01.2019. Necessario inoltre che la data di inizio lavori sia precedente l'acquisto dei mobili stessi seppur sia irrilevante che le spese di ristrutturazione (impresa edile, elettricista ecc.) si sostengano prima o dopo quelle sostenute per l'arredo.
Sono questi i principali aspetti presenti nell'aggiornata guida fiscale sul bonus mobili ed elettrodomestici pubblicata sul sito dell'Agenzia delle entrate.
Si tratta della detrazione Irpef al 50% prevista per l'acquisto di mobili e di elettrodomestici di classe non inferiore ad A+ (A per i forni), per le apparecchiature per le quali sia prevista l'etichetta energetica, destinati ad arredare un immobile oggetto di ristrutturazione. La misura è concessa per ogni unità abitativa.
Le condizioni del nuovo bonus. È un bonus mobili in chiaro scuro quello prorogato dalla recente legge di bilancio, dato lo stringente vincolo imposto sulla data inizio lavori che, nella fattispecie, non può essere anteriore al primo gennaio 2019 qualora si vogliano detrarre spese per mobili ed elettrodomestici durante l'anno 2020. D'altronde, questo meccanismo riduttivo era già presente lo scorso anno quando si diceva che le spese per arredo sostenute nel 2019 erano detraibili solo se legate a una ristrutturazione iniziata non prima del 2018. Ancora, stesso leitmotiv si era ripetuto due anni prima.
A questo punto diventa dunque fondamentale individuare con certezza la data inizio lavori vista la sua importanza rispetto alla detrazione in questione. La guida precisa, in prima battuta, che la stessa può essere dimostrata dalla richiesta di abilitazioni amministrative presentate al comune e necessarie per l'avvio di determinati interventi. In seconda battuta, si può far riferimento alla comunicazione preventiva alla Asl quando la stessa sia obbligatoria per la particolare fattispecie (per esempio se è prevista la presenza di più imprese esecutrici). In ultimo, laddove ci trovassimo nell'ambito di edilizia libera, sarà sufficiente una dichiarazione sostitutiva di atto notorio.
Resta inteso che mai i mobili e gli elettrodomestici potranno essere acquistati prima della data di inizio lavori onde evitare di perdere il diritto alla detrazione. Non è fondamentale invece che le spese inerenti la ristrutturazione edilizia siano sostenute prima o dopo quelle relative all'arredo dell'immobile. In altri termini, non ha importanza se dovessi pagare prima il fornitore degli elettrodomestici rispetto all'impresa edile o all'elettricista che hanno contribuito alla ristrutturazione dell'unità immobiliare.
Gli interventi edilizi che fanno scattare il bonus. Seppur la formula del bonus mobili sia oramai invariata da anni, con il solito tetto massimo di 10 mila euro da ripartire in dieci rate costanti, è fondamentale comprendere quali siano gli interventi a monte che fanno da apripista all'agevolazione in questione.
A seconda infatti che l'intervento avvenga su singola abitazione, su parti comuni di edifici o riguardi la ricostruzione o il ripristino di un immobile, cambieranno i lavori con i quali si potrà ottenere anche il bonus mobili. Nel caso di singoli appartamenti per esempio, parliamo di manutenzione straordinaria come qualifica di intervento minimo per poi godere del bonus mobili: la sostituzione di infissi esterni con modifica di materiale, il rifacimento di scale e rampe o la realizzazione di muri di cinta e recinzioni ne sono degli esempi. La semplice tinteggiatura di pareti o il rifacimento di intonaci (manutenzione ordinaria) non darebbe dunque diritto all'ulteriore bonus mobili.
Nel caso invece di parti comuni di edifici residenziali la qualifica di intervento sarà meno stringente in quanto sarà sufficiente una semplice manutenzione ordinaria per beneficiare dell'ulteriore agevolazione sugli arredi. Ancora, scatterà il bonus laddove vi sia una ricostruzione o il ripristino di un immobile in seguito a danneggiamento da eventi calamitosi o laddove vi sia un restauro, un risanamento conservativo o una ristrutturazione edilizia riguardanti interi fabbricati eseguiti da imprese che nei successivi 18 mesi dal termine dei lavori vendono o assegnano l'immobile.
Gli acquisti agevolabili. La detrazione spetta per due categorie di beni: i mobili nuovi e gli elettrodomestici nuovi. Nel primo caso, la guida da un elenco esaustivo dei beni che rientrano in tale categoria vale a dire letti, armadi, cassettiere, librerie, scrivanie, tavoli, sedie, comodini, divani, poltrone, credenze, materassi, apparecchi di illuminazione escludendo unicamente l'acquisto di porte, di pavimentazioni, di tende e tendaggi e di altri complementi di arredo.
Nel caso invece di elettrodomestici nuovi, parliamo di frigoriferi, congelatori, lavatrici, lavasciuga e asciugatrici, lavastoviglie, apparecchi per la cottura, stufe elettriche, forni a microonde, piastre riscaldanti elettriche, apparecchi elettrici di riscaldamento, radiatori elettrici, ventilatori elettrici, apparecchi per il condizionamento. In tal caso, la classe energetica rilevabile dall'etichetta energetica non deve essere inferiore alla A+ (nel caso di forni e lavasciuga A o superiore). Se alcuni elettrodomestici non abbiano l'etichetta in quanto non ne sia previsto l'obbligo, l'acquisto sarà comunque agevolabile.
---------------
Beneficio non trasferibile.
Per le detrazioni da ristrutturazione edilizia o da riqualificazione energetica, in caso di cessione dell'immobile o di morte del contribuente, è possibile il trasferimento del beneficio. Se, infatti, l'immobile sul quale è stato eseguito l'intervento di recupero edilizio è venduto prima del termine per fruire dell'agevolazione, il diritto alla detrazione delle quote non utilizzate è trasferito, salvo diverso accordo tra le parti, all'acquirente dell'unità immobiliare (se persona fisica).
Il venditore ha dunque la possibilità di scegliere se continuare a usufruire delle detrazioni non ancora utilizzate o trasferire il diritto all'acquirente dell'immobile. In caso di decesso dell'avente diritto, ugualmente, la detrazione non fruita in tutto o in parte è trasferita, per i rimanenti periodi d'imposta, all'erede o agli eredi che conservano la «detenzione materiale e diretta dell'immobile».
Tale condizione andrà mantenuta non soltanto per l'anno di accettazione dell'eredità ma anche per ciascun anno per il quale si vuole fruire delle residue rate di detrazione (in altri termini l'immobile non potrà essere concesso per esempio in comodato o locazione per tutta la durata dei rimanenti periodi di imposta).
Stessa cosa non può essere affermata invece per il bonus mobili. La guida prevede, infatti, espressamente l'intrasferibilità sia in caso di decesso sia in caso di cessione dell'immobile oggetto di intervento del recupero edilizio. Questo anche quando, in seguito a cessione dell'immobile, vengono trasferite le restanti rate della detrazione edilizia (o riqualificazione energetica) all'acquirente. Il contribuente continuerebbe dunque a usufruire delle quote di detrazione da bonus mobili non utilizzate anche se l'abitazione ristrutturata sia ceduta prima che sia trascorso l'intero periodo per usufruire del bonus
(articolo ItaliaOggi Sette del 17.02.2020).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOP.a., è stretta sui mediatori. L’intermediazione è a rischio di responsabilità penale. La fattispecie rinnovata dalla Spazzacorrotti: sta ai giudici distinguere caso per caso.
Ogni attività di intermediazione tra privati (o imprese) con la pubblica amministrazione è potenzialmente fonte di responsabilità penale. Il cosiddetto mediatore (o faccendiere nella sua accezione negativa) e il soggetto che lo incarica, infatti, possono rispondere di traffico di influenze illecite (art. 346-bis, c.p.), delitto punito con la reclusione da un anno a quattro anni e sei mesi. E sta ai giudici distinguere, non senza difficoltà, le intermediazioni illecite da quelle lecite, per esempio di lobbying.
La fattispecie, introdotta con la legge Severino (la legge n. 190 del 06/11/2012) e poi modificata con la legge n. 3 del 09.01.2019 (la cosiddetta Spazzacorrotti), punisce innanzitutto la condotta di chi «sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite» con un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, riceve denaro o altra utilità per remunerarlo in relazione all'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri.
La norma prevede anche la responsabilità penale del soggetto (persona fisica, persona giuridica, privato, pubblico, oppure gruppo di persone associate in varie forme) che «… indebitamente dà o promette denaro o altra utilità» proprio per entrare in contatto diretto con la pubblica amministrazione. In buona sostanza, per rientrare nella fattispecie di reato, l'intermediario organizza e condivide con il proprio interlocutore un preciso meccanismo corruttivo finalizzato ad alterare il fisiologico processo decisionale in ambito pubblico.
Le pene sono poi aumentate ove ricorra una delle seguenti circostanze: il mediatore rivesta, lui stesso, un ruolo pubblico, i fatti siano commessi in ambito giudiziario, la remunerazione del pubblico funzionario sia finalizzata al compimento di un atto contrario ai doveri d'ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio.
Il disvalore penale delle condotte sopra richiamate è evidente: per queste ragioni, il legislatore ha voluto stigmatizzare ogni attività anticipatoria di futuri scambi corruttivi, con l'attribuzione della responsabilità penale, a titolo di traffico di influenze illecite, all'intermediario che non abbia concorso negli eventuali successivi fatti di corruzione.
La formulazione dell'art. 346-bis prevede poi la responsabilità dei medesimi soggetti, il venditore e il compratore di influenze illecite, nel caso in cui il primo «… indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio».
La descrizione di questa seconda condotta differisce, in termini significativi, da quella richiamata in precedenza: il corrispettivo («denaro o altra utilità»), in questo caso, non costituisce la remunerazione da destinare al pubblico ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio, bensì rappresenta il prezzo per l'attività di intermediazione con il rappresentante della pubblica amministrazione con cui il mediatore sostiene di avere relazioni o rapporti di conoscenza (veri o presunti non è importante).
La lettera della norma, nella descrizione di questa specifica condotta, attribuisce, senza alcuna distinzione, una connotazione negativa al prezzo (indebito) corrisposto per l'attività dell'intermediario, nonché alla stessa attività di mediazione (illecita), attraverso una sorta di automatismo che assegna potenziale rilevanza penale a un ventaglio di situazioni e operatività tra loro diversissime: dalle intermediazioni realmente distorsive del potere decisionale statale a quelle fisiologiche e addirittura antitetiche a qualsivoglia finalità corruttiva o comunque illecita.
Un modello punitivo formulato in questi termini presenta una serie eterogenea di criticità, con particolare riferimento alla stessa portata offensiva della norma al bene giuridico tutelato (il buon andamento e l'imparzialità della pubblica amministrazione) con inevitabili riflessi che si traducono nella eccessiva anticipazione della soglia punitiva, dal momento che vengono punite anche quelle intermediazioni che potrebbero essere, ma che non sono ancora e forse non saranno mai, strumentali a eventuali condotte illecite (per esempio, corruzioni), con il rischio concreto di consentire troppa discrezionalità alla iniziativa giudiziaria.
La scarsa applicazione giurisprudenziale del delitto in esame, anche dopo la riforma del gennaio 2019, origina proprio dalle oggettive difficoltà di distinguere, con sufficiente precisione e determinatezza, le intermediazioni illecite da quelle lecite, operazione che risulta ancora più complessa ove vengano considerate tutte quelle fisiologiche iniziative di lobbying che non trovano, ancora oggi, una efficace e adeguata regolamentazione.
Il delitto in esame, come altre fattispecie introdotte nel nostro ordinamento, ha una derivazione di matrice sovranazionale.
La convenzione di Strasburgo del 1999 e la convenzione Onu di Merida del 2003 (entrambe ratificate in Italia), infatti, hanno chiesto agli stati membri di valutare tutti i possibili strumenti normativi, compreso quello penale («Party shall consider adopting such legislative and other measures as may be necessary to establish as criminal offences…», Cfr. Convenzione Onu di Merida), per contrastare il fenomeno di «trading in influence».
Nel 2012, il legislatore nazionale, a differenza di altri Paesi firmatari della convenzione di Strasburgo (per esempio, Danimarca, Germania, Regno Unito e Svezia) ha introdotto, direttamente nel codice penale, il nuovo reato di «traffico di influenze illecite» (art. 346-bis, c.p.) con l'intenzione di reprimere tutte quelle intermediazioni che venivano prevalentemente ricondotte, prima della riforma del 2012, al paradigma punitivo della corruzione o del cosiddetto millantato credito (art. 346 c.p.), fattispecie, quest'ultima, che si integrava anche qualora la relazione vantata dal mediatore con il pubblico funzionario fosse reale, ma amplificata a tal punto da ingannare il soggetto che pagava il prezzo della mediazione (e, per questo motivo, non rispondeva penalmente in quanto vittima del reato).
Anche dopo l'intervento del 2012, la giurisprudenza penale ha dovuto spesso riqualificare fatti di traffico di influenze illecite in reati più tradizionali (corruzione, concussione, induzione indebita, millantato credito), con le inevitabili difficoltà di collocare queste particolarissime condotte commesse contro la pubblica amministrazione in modelli delittuosi, in un certo senso, molto diversi. Il legislatore del 2019, da una parte, ha abrogato il millantato credito (art. 346, c.p.), dall'altra, ha riformulato l'art. 346-bis c.p., prevedendo la consumazione del reato anche qualora il rapporto vantato dal mediatore con il pubblico funzionario sia, in realtà, inesistente e nel caso in cui il «denaro o altra utilità» vengano destinati al pubblico funzionario in relazione all'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri.
Significativa, infine, la previsione della responsabilità amministrativa (ex dlgs 231/2001) nei confronti delle persone giuridiche nell'ipotesi di traffico di influenze illecite realizzato, nel loro interesse o vantaggio, da coloro che rivestono posizioni apicali o da soggetti sottoposti alla direzione o vigilanza di questi.
Nonostante le modifiche strutturali intervenute, però, rimangono invariate quelle criticità profonde, di cui si è già accennato, che sembrano proprio connotare anche l'attuale «art. 346-bis», norma che, va detto, negli ultimi mesi è stata spesso evocata dagli organi di informazione che hanno riportato l'esistenza di indagini preliminari nel cui ambito viene ipotizzato, a carico di alcuni indagati, proprio il delitto in esame
(articolo ItaliaOggi Sette del 17.02.2020).

AMBIENTE-ECOLOGIAMud, istruzioni via internet. Siti web da monitorare per compilare l’ecodichiarazione. Il ministero conferma data e modulistica per i rifi uti, annunciando indicazioni on-line.
Presentazione entro la scadenza istituzionale del 30 aprile utilizzando modulistica e regole previste dalla normativa dello scorso anno, ma con istruzioni aggiuntive (da seguire) che arriveranno solo via internet. Queste le coordinate per non mancare all'appuntamento con la prossima edizione della dichiarazione verde «Mud», l'annuale comunicazione alla P.a. cui sono tenuti (fino alla piena operatività del nuovo sistema di tracciabilità rifiuti) produttori e gestori di rifiuti nonché fabbricanti di beni a potenziale impatto ambientale in relazione ai residui/materiali generati o trattati nel corso dell'anno precedente.
Con un comunicato on-line del 09.01.2020 il ministero dell'ambiente ha infatti confermato il termine finale di presentazione previsto dalla legge 70/1994 e il modello unico di dichiarazione ambientale (Mud) introdotto dal dpcm 24.12.2018; il tutto annunciando però informazioni integrative che saranno pubblicizzate tramite i portali web delle istituzioni competenti.
Termine. La legge 70/1994 fissa il termine di presentazione del Mud nel 30 aprile di ogni anno. In base alla stessa legge, eventuali modifiche al modello unico in vigore possono essere introdotte anche nello stesso anno della sua presentazione (nella fattispecie, il corrente 2020), ma solo mediante decreto da pubblicarsi in G.U. entro il 1° marzo e con l'effetto di spostare in avanti la dead-line dell'adempimento di 120 giorni a decorrere da tale pubblicazione. Per l'edizione 2020, diversamente da quanto accaduto per l'edizione 2019, la comunicazione ministeriale del 09.01.2020 appare però escludere ipotesi di (modifiche normative e quindi di) slittamento del termine finale di inoltro della dichiarazione.
Soggetti obbligati. La platea dei soggetti obbligati alla presentazione del Mud ruota intorno alle sei rituali sezioni previste dal modello unico di dichiarazione, ossia: «comunicazione rifiuti», «veicoli fuori uso», «imballaggi», «Raee», «rifiuti urbani», «Aee» (si veda la tabella).
Obbligati alla «comunicazione rifiuti» sono i produttori e i gestori di rifiuti individuati dall'art. 189, comma 3 del dlgs 152/2006, i titolari di impianti portuali di raccolta, i gestori del servizio di raccolta dei rifiuti prodotti dalle navi ex dlgs 182/2003. Esentati, invece, gli imprenditori agricoli e gli operatori del settore servizi alla persona (come tatuatori e parrucchieri) identificati dai codici Ateco richiamati dall'articolo 69 della legge 221/2015.
Tenuti alla «comunicazione veicoli fuori uso» sono i soggetti che gestiscono rifiuti di mezzi di trasporto rientranti nel campo di applicazione del dlgs 209/2003 (mentre i residui degli analoghi beni rientranti nel dlgs 152/2006 sono oggetto della «comunicazione rifiuti»). Chiamati alla «comunicazione imballaggi» il relativo sistema consortile ed i gestori di impianti dei relativi rifiuti ex dlgs 152/2006. Interessati alla «comunicazione Raee» sono invece gli impianti di trattamento rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche ex dlgs 49/2014 (mentre i tecno-residui da tale decreto esclusi rientrano nella diversa «comunicazione rifiuti»).
Obbligati alla «comunicazione rifiuti urbani, assimilati e raccolti in convenzione» sono i soggetti istituzionali responsabili ex articolo 189, comma 5 del dlgs 152/2006 del servizio di gestione integrata.
Interessati, infine, alla «comunicazione Aee» sono i produttori e venditori di apparecchiature elettriche ed elettroniche con proprio marchio, nonché i rivenditori con proprio marchio di Aee altrui ex dlgs 49/2014. Ferme restando informazioni da comunicare, modalità di trasmissione ed istruzioni per la compilazione del modello, si apprende dal comunicato ministeriale del 09.01.2020, «informazioni aggiuntive alle istruzioni riportate in allegato» al dpcm 24.12.2018 saranno però rese disponibili sui seguenti siti internet: www.mise.gov.it; www.isprambiente.gov.it; www.unioncamere.gov.it; www.infocamere.it; www.ecocerved.it.
---------------
Sistema di tracciabilità, lavori in corso.
Il dl 135/2018 di soppressione del Sistri e istituzione del nuovo «Registro elettronico nazionale per la tracciabilità dei rifiuti» ha stabilito che il sistema di tracciabilità dei rifiuti costituito da registri di carico/scarico, formulario di trasporto e Mud previsto dal dlgs 152/2006 continui ad applicarsi fino alla «piena operatività» del neo strumento, il cui funzionamento è affidato a un emanando decreto. Dettagli sulla funzione del Registro emergono dalla legge di delegazione Ue 2018.
La legge 117/2019 ha affidato al governo il compito di «consentire, anche attraverso l'istituzione di un Registro elettronico nazionale, la trasmissione, da parte degli enti e delle imprese che producono, trasportano e gestiscono rifiuti a titolo professionale, dei dati ambientali inerenti alle quantità, alla natura e all'origine dei rifiuti prodotti e gestiti e dei materiali ottenuti dalle operazioni di preparazione per il riutilizzo, dalle operazioni di riciclaggio e da altre operazioni di recupero».
In base a quello che emerge dai lavori istituzionali in corso, il futuro Registro potrebbe essere alimentato dai dati provenienti da registri di carico e scarico e formulari di trasporto rifiuti e tecnicamente appoggiato sulla piattaforma telematica dell'Albo nazionale dei gestori ambientali. Almeno in una prima fase, il Registro si affiancherà ai noti strumenti di tracciamento dei rifiuti
(articolo ItaliaOggi Sette del 03.02.2020).

PUBBLICO IMPIEGO: Dipendenti p.a., galateo social. Regole estese anche a collaboratori e consulenti esterni. Restyling in corso da parte dell’Anac delle Linee guida in materia di codici di comportamento.
Regole di comportamento ad hoc per l'accesso dei dipendenti pubblici ai social network.
Il mondo virtuale della socializzazione on-line è un teatro in cui l'impiegato dello stato e delle altre pubbliche amministrazioni deve muoversi facendo attenzione alla deontologia professionale e alle regole di buon comportamento. Sono in fase di lancio nuove norme per accedere ai social network nel rispetto delle regole interne che dettano permessi e divieti di utilizzo delle piattaforme social.
A prevederle sono le nuove Linee guida in materia di codici di comportamento delle amministrazioni pubbliche, in pieno restyling da parte dell'Anac, Autorità nazionale anti corruzione, e rese necessarie da una diffusa difficoltà degli enti pubblici, centrali e locali, a elaborare propri codici di buone prassi dettagliati e su misura. Da qui la necessità di rifondare i codici di comportamento, che costituiscono regole di condotta violando le quali si rischia una sanzione disciplinare. E un altro aspetto cui dedicare particolare cura è se e come estendere le regole di comportamento anche a collaboratori e consulenti esterni, a pena di risoluzione del contratto di consulenza.
Ecco l'identikit del buon dipendente pubblico, mettendo in evidenza i tratti delle novità delle Linee guida Anac in itinere.
Codici etici. I codici di comportamento sono stati disciplinati dalla legge n. 190 del 2012. In particolare l'articolo 1, comma 44, della legge n. 190 del 2012 ha previsto, da un lato, un codice di comportamento generale, nazionale, valido per tutte le amministrazioni pubbliche e, dall'altro, un codice per ciascuna amministrazione, obbligatorio, che integra e specifica il predetto codice generale. Il codice nazionale è stato emanato con dpr 62/2013: prevede i doveri minimi di diligenza, lealtà, imparzialità e buona condotta per i dipendenti pubblici e codice rinvia alle integrazioni e specificazioni dei codici di comportamento adottati dalle singole amministrazioni. Per quanto riguarda i codici delle singole amministrazioni l'Anac solleva il problema che, a oggi, pur se generalmente adottati, sono un «copia e incolla» del codice generale. Salvo eccezioni, le singole amministrazioni non hanno svolto quel lavoro richiesto di integrazione e specificazione dei doveri minimi posti dal dpr n. 62 del 2013.
L'Anac è già intervenuta con la delibera n. 75 del 24.10.2013, recante le prime Linee guida in materia, rivolte a tutte le amministrazioni.
Ma ora occorre aggiornare quel lavoro e ha emanato nuove Linee guida di carattere generale, in pubblica consultazione, al fine di promuovere un sostanziale rilancio dei codici di comportamento presso le amministrazioni.
Chi desidera mandare osservazioni e contributi può farlo fino al 15.01.2020.
Conflitto di interesse. I dipendenti pubblici devono dichiarare al proprio dirigente, al momento dell'assegnazione all'ufficio, i rapporti di collaborazione, diretti o indiretti, in qualunque modo retribuiti, intrattenuti con soggetti privati nel triennio precedente all'instaurazione del rapporto di lavoro, nonché i rapporti finanziari che presentemente leghino loro medesimi, o i parenti e gli affini entro il secondo grado, al soggetto privato con cui nel triennio precedente avevano collaborato. Il codice etico vigente chiede inoltre che il dipendente stesso dichiari se il soggetto privato con cui intrattiene o ha intrattenuto precedentemente rapporti finanziari o di collaborazione retribuita abbia interessi in attività dell'ufficio che rientrino nelle sue attribuzioni.
Queste disposizioni potrebbero, per esempio, essere integrate nel codice delle singole amministrazioni con: la definizione dei modi con cui rendere le dichiarazioni; l'indicazione di una soglia minima di rilevanza delle attività di collaborazione retribuita pregressa o degli interessi attuali da ricomprendere nella dichiarazione; la previsione della possibilità di operare verifiche; il dovere di comunicare tempestivamente eventuali variazioni delle dichiarazioni già presentate; misure che possono essere adottate, con l'eventuale coinvolgimento del Responsabile Anticorruzione, per rimuovere il conflitto di interessi, quando assume un carattere strutturale.
Rapporti con i media. Nell'ambito dei comportamenti da assumere nei rapporti con il pubblico, soprattutto negli enti di media/grande dimensione, L'Anac propone di valutare l'utilità di disciplinare i rapporti con gli organi di informazione sugli argomenti istituzionali individuando i soggetti cui spetta curare i rapporti con i media e le agenzie di stampa e quindi definire il comportamento che deve essere assunto dai dipendenti.
Correttezza. Nell'ambito dei doveri di correttezza e di buon andamento del servizio rientrano le prescrizioni generiche riguardanti gli adempimenti richiesti dalle norme sul procedimento amministrativo, l'utilizzo corretto della possibilità di essere esonerati dalla prestazione lavorativa, l'uso dei materiali e delle attrezzature dell'ufficio. L'Anac constata che, atteso il rilievo che oggi riveste l'utilizzo di social network, le amministrazioni possono valutare di integrare questo ambito, per esempio, con il dovere di accedere ai social network nel rispetto delle regole interne che dettano permessi e divieti di utilizzo delle piattaforme social.
Collaboratori o consulenti. Anche a collaboratori e consulenti esterni e collaboratori delle imprese fornitrici possono estendersi le regole di comportamento previste, in prima battuta, per i dipendenti pubblici.
Con riferimento a questi soggetti l'Anac ritiene necessario che le amministrazioni individuino attentamente, ex ante, le categorie di collaboratori e consulenti esterni nonché i collaboratori delle imprese fornitrici ai quali estendere i doveri fissati per i propri dipendenti nel codice di comportamento. La fonte che prevede tale estensione, secondo il criterio di compatibilità, può essere un atto interno di regolazione per l'organizzazione e il funzionamento degli uffici oppure lo stesso codice della singola amministrazione.
In tale atto devono, a questo fine, essere disciplinati i criteri e le modalità con cui sono estesi i doveri di comportamento del codice di amministrazione a tali soggetti nonché il procedimento di accertamento delle violazioni dotato delle necessarie garanzie di contraddittorio. Tale operazione consente alle Amministrazioni di elaborare e definire codici coerenti e contestualizzati rispetto alla propria organizzazione, escludendo per tali soggetti alcuni doveri, comuni a tutti i dipendenti, ma includendone altri legati al tipo di consulenza o collaborazione prestata.
È opportuno che i codici di comportamento dedichino una sezione apposita. Inoltre nei contratti di collaborazione o di consulenza nonché di quelli per l'acquisizione di beni e servizi le amministrazioni è bene che inseriscano apposite disposizioni o clausole di risoluzione e decadenza del rapporto di lavoro in caso di violazione degli obblighi previsti dal codice. Una previsione di questo tipo conferisce natura contrattuale all'applicazione degli obblighi del Codice a persone esterne alle pubbliche amministrazione, evitando così ogni possibile contestazione.
Seguendo questa impostazione, è necessario che gli schemi tipo di incarico a collaboratori e fornitori siano predisposti inserendo la condizione del rispetto degli obblighi di condotta previsti per i dipendenti, se e in quanto compatibili
(articolo ItaliaOggi Sette del 30.12.2019).

GIURISPRUDENZA

URBANISTICALa sezione, richiamando anche la previsione contenuta nell’articolo 4-bis della L.r. 02.02.2010, n. 6, evidenzia come la liberalizzazione del commercio, in conformità alla direttiva 2006/123/CE, non comporti l’impossibilità per il Comune di impedire nuovi insediamenti commerciali, purché i dinieghi siano sorretti da ragioni urbanistiche e non economiche.
Pertanto, pur dovendosi prendere atto che la disciplina, nazionale e sovranazionale, relativa all’insediamento delle attività commerciali esplica un rilevante impatto anche sugli atti di programmazione territoriale, va, comunque, considerato che questi ultimi, adottati nell’esercizio del differente potere in materia di pianificazione urbanistica, sono da considerarsi legittimi ove perseguano finalità di tutela dell’ambiente urbano e siano riconducibili all’obiettivo di dare ordine e razionalità all’assetto del territorio.
La previsione di cui all’art. 11 del D.Lgs. n. 59 del 2010 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno) stabilisce, difatti, che l’accesso ad un’attività di servizi o il suo esercizio può essere subordinato al rispetto dei requisiti di programmazione che non perseguono obiettivi economici, ma che sono dettati da motivi imperativi d’interesse generale (cfr.: comma 1, lett. e).
Ugualmente le disposizioni di cui agli articoli 31 e 34 del decreto legge n. 201 del 2011 prevedono la possibilità di porre limitazioni all’insediamento di attività produttive e commerciali in determinate aree allorquando emerga la necessità di garantire la tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali, trattandosi di esigenze imperative di interesse generale, costituzionalmente rilevanti e compatibili con l’ordinamento comunitario, che possono giustificare l’introduzione, nel rispetto del principio di proporzionalità, di atti limitativi della libera iniziativa privata.
In tal modo si cerca di contemperare il principio generale della liberalizzazione delle attività economiche con le dovute necessarie limitazioni alla libera iniziativa economica, laddove queste trovino puntuale giustificazione in interessi di rango costituzionale o negli ulteriori interessi che il legislatore ha individuato.
In definitiva, deve considerarsi legittima la scelta comunale che, nel perseguimento di interessi attinenti alla tutela dell’ambiente, della vivibilità e dell’ordinato assetto del territorio, impone dei limiti all’insediamento di attività commerciali.

---------------

18. Passando alla disamina del ricorso R.G. n. 226 del 2018, osserva il Collegio come l’operatore economico censuri la deliberazione n. 42 del 13.10.2017 (pubblicata dal 26.10.2017 al 10.11.2017), introduttiva della variante puntuale al P.G.T. per la modifica della scheda d’ambito n. 16 del Documento di Piano nonché dell’articolo 5.2 delle N.T.A. del P.d.R. del P.G.T.
In sostanza, la ricorrente nota come la variante miri ad escludere ogni possibilità di insediamento dell’attività di Pe. al fine di tutelare indebitamente le attività commerciali già presenti violando, pertanto, la normativa eurounitaria e le previsioni interne di trasposizione della stessa che, al contrario, liberalizzano l’insediamento delle attività economiche.
Inoltre, la ricorrente lamenta la violazione del principio di proporzionalità e buon andamento dell’azione amministrativa.
19. La questione centrale posta dal ricorso riguarda la compatibilità della variante con la normativa eurounitaria contenuta nella direttiva 2006/123/CE (relativa ai servizi nel mercato interno), recepita dal legislatore italiano con il d.lgs. n. 59 del 2010. La previsione di cui all’articolo 10 di tale atto normativo dispone che “nei limiti del presente decreto, l’accesso e l’esercizio delle attività di servizi costituiscono espressione della libertà di iniziativa economica e non possono essere sottoposti a limitazioni non giustificate e discriminatorie”.
Successivamente, il D.L. n. 138/2011 stabilisce che l’obbligo di adeguamento degli ordinamenti degli Enti locali “al principio secondo cui l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge” non operi “nei soli casi di: a) vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali; b) contrasto con i principi fondamentali della Costituzione; c) danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e contrasto con l’utilità sociale; d) disposizioni indispensabili per la protezione della salute umana, la conservazione delle specie animali e vegetali, dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale; e) disposizioni relative alle attività di raccolta di giochi pubblici ovvero che comunque comportano effetti sulla finanza pubblica”.
Inoltre, il successivo D.L. n. 201/2011 prevede la libertà di insediamento di nuovi esercizi commerciali senza limiti, “esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi compreso l’ambiente urbano e dei beni culturali”. In ultimo, il D.L. 1/2012 prevede l’abrogazione, ex aliis, di “norme che impongono divieti e restrizioni alle attività economiche”, nonché delle “disposizioni di pianificazione e programmazione territoriale […] che pongano limiti, programmi e controlli non ragionevoli ovvero non adeguati […] e che impediscono, condizionano o ritardano l’avvio di nuove attività economiche o l’ingresso di nuovi operatori economici […]”.
19.1. La sezione, richiamando anche la previsione contenuta nell’articolo 4-bis della L.r. 02.02.2010, n. 6, evidenzia come la liberalizzazione del commercio, in conformità alla direttiva 2006/123/CE, non comporti l’impossibilità per il Comune di impedire nuovi insediamenti commerciali, purché i dinieghi siano sorretti da ragioni urbanistiche e non economiche (TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 03.04.2019, n. 743).
Nel caso di specie, la variante impugnata muove dall’esigenza di delineare le attività commerciali insediabili stante i dubbi ingenerati dalla precedente versione della scheda che possono condurre a ritenere assentibili attività commerciali in sostanziale contrasto con la pianificazione urbanistica relativa all’area. E, invero, già la versione originaria della scheda d’ambito n. 16 chiarisce come “massima attenzione andrà riposta nello studio dell'inserimento paesaggistico dei manufatti, in relazione alla percezione sia dal fondovalle, sia dal versante” (foglio 1 della scheda). Inoltre, la scheda pone l’esigenza primaria di “salvaguardia della connessione ecologica prevista dal PTCP sul confine con Grosotto”.
Le limitazioni agli insediamenti commerciali di media o grande struttura non sono sorrette da ragioni meramente economiche (neppure di stampo sostanzialmente protezionistico) ma muovono dall’esigenza di evitare, in primo luogo, le ricadute sia sul traffico che sulla necessità di predisposizione di apposite aree di parcheggio che simili strutture comportano. Inoltre, risultano funzionali alla tutela paesaggistica e, in particolare, al fine di evitare che strutture di notevoli dimensioni possano incidere sulla complessiva veduta del limitrofo Castello Visconti Venosta.
Ancora, la variante allinea la previsione d’ambito alle previsioni del P.T.C.P. e, in particolare, all’esigenza di coniugare lo sviluppo dell’area “con il rispetto dell’equilibrio territoriale e paesaggistico e con le caratteristiche storiche e tradizionali degli abitati” (articolo 64 del P.T.C.P.). Non si tratta, quindi, di una previsione incidente sulla sola programmazione economica ma di una regola che mira a coniugare l’iniziativa economica con ulteriori esigenze, parimenti rilevanti, del contesto del territorio comunale.
19.2. Pertanto, pur dovendosi prendere atto che la disciplina, nazionale e sovranazionale, relativa all’insediamento delle attività commerciali esplica un rilevante impatto anche sugli atti di programmazione territoriale, va, comunque, considerato che questi ultimi, adottati nell’esercizio del differente potere in materia di pianificazione urbanistica, sono da considerarsi legittimi ove perseguano, come nel caso di specie, finalità di tutela dell’ambiente urbano e siano riconducibili all’obiettivo di dare ordine e razionalità all’assetto del territorio (cfr. TAR per l’Emilia Romagna – sede di Parma, Sez. I, 17.03.2016, n. 110; TAR per la Lombardia – sede di Milano, Sez. I, 10.10.2013, n. 2271; Id., Sez. II, 10.12.2019, n. 2636).
La previsione di cui all’articolo 11 del D.Lgs. n. 59 del 2010 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno) stabilisce, difatti, che l’accesso ad un’attività di servizi o il suo esercizio può essere subordinato al rispetto dei requisiti di programmazione che non perseguono obiettivi economici, ma che sono dettati da motivi imperativi d’interesse generale (cfr.: comma 1, lettera e).
Ugualmente le disposizioni di cui agli articoli 31 e 34 del decreto legge n. 201 del 2011 prevedono la possibilità di porre limitazioni all’insediamento di attività produttive e commerciali in determinate aree allorquando emerga la necessità di garantire la tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali, trattandosi di esigenze imperative di interesse generale, costituzionalmente rilevanti e compatibili con l’ordinamento comunitario, che possono giustificare l’introduzione, nel rispetto del principio di proporzionalità, di atti limitativi della libera iniziativa privata (Corte costituzionale, sentenza n. 239 dell’11.11.2016).
In tal modo si cerca di contemperare il principio generale della liberalizzazione delle attività economiche con le dovute necessarie limitazioni alla libera iniziativa economica, laddove queste trovino puntuale giustificazione in interessi di rango costituzionale o negli ulteriori interessi che il legislatore ha individuato (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 200 del 12.07.2012; cfr., inoltre, Consiglio di Stato, Sez. IV, 24.05.2019, n. 3419; Id., 01.06.2018, n. 3314; Id., Sez. V, 13.02.2017, n. 603).
19.3. In definitiva, deve considerarsi legittima la scelta comunale che, nel perseguimento di interessi attinenti alla tutela dell’ambiente, della vivibilità e dell’ordinato assetto del territorio, impone dei limiti all’insediamento di attività commerciali (cfr.: Corte costituzionale, sentenza n. 239 dell’11.11.2016; cfr., altresì, TAR per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 25.05.2017, n. 1166) (TAR Lombardia-Milano Sez. II, sentenza 26.02.2020 n. 375 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

PATRIMONIO: Concessioni di spazi pubblici a soggetti che dichiarino “di riconoscersi nei principi e nelle norme della Costituzione italiana e di ripudiare il fascismo e il nazismo”.
E' legittima una delibera comunale con la quale si stabilisce che, per ottenere la concessione e l’utilizzo di spazi pubblici da parte dei privati, è obbligatorio allegare alla domanda una dichiarazione esplicita che contenga, oltre a una pluralità di impegni del richiedente, l’affermazione “di riconoscersi nei principi e nelle norme della Costituzione italiana e di ripudiare il fascismo e il nazismo” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 26.02.2020 n. 166 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
Il provvedimento impugnato con il ricorso in esame è rappresentato dall’atto di indirizzo con cui la Giunta comunale ha dettato prescrizioni da ottemperare ai fini della concessione di spazi ed aree pubbliche, sale ed altri luoghi di riunione di proprietà comunale, della cui legittimità l’associazione ricorrente dubita in quanto esso prescrive che ai soggetti richiedenti la concessione di uno spazio pubblico per lo svolgimento della propria attività sia imposto di dichiarare di “ripudiare il fascismo e il nazismo”.
La definizione della controversia necessita, però, il preliminare esame delle eccezioni in rito, introdotte dal Comune.
In primo luogo non può trovare accoglimento l’eccezione di inammissibilità del ricorso che il Comune collega al fatto che Ca. non sarebbe diretta portatrice dei disvalori sintetizzati nel concetto di “fascismo” accolto nella deliberazione oggetto di ricorso e derivante dai tratti qualificanti del fascismo descritti dall’art. 1 della L. n. 645/1952 (perseguimento di finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, valorizzazione della violenza quale metodo di lotta politica, contrasto alle libertà garantite dalla Costituzione, spregio dell’ordinamento democratico, delle sue istituzioni e dei valori della Resistenza accolti nella Costituzione, propaganda razzista ed esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del partito fascista) e, dunque, di fronte a tale provvedimento, non potrebbe rivestire una posizione differenziata che la legittimerebbe ad agire per chiederne l’annullamento.
Invero, Ca. nasce e si sviluppa come un movimento di destra, teso principalmente alla lotta per il riconoscimento del diritto alla proprietà della casa e della pratica del mutuo sociale.
Nella pagina web dedicata a descrivere l’origine e il programma del movimento non sono rinvenibili chiari riferimenti agli elementi sopra riportati, ritenuti indicatori della volontà di restaurazione del fascismo.
Ciononostante il Comune opera un salto logico laddove ritiene che ciò escluda in radice l’interesse a ricorrere dell’Associazione di promozione sociale.
Al contrario, limitando l’indagine a quella che è la realtà dei fatti, è il legale rappresentante di Ca. che si duole dell’imposizione del preciso obbligo di rendere una dichiarazione ritenuta lesiva della libertà di pensiero dell’Associazione rappresentata e dei suoi aderenti. La lesione deve, dunque, presumersi, salvo verificarne l’effettiva sussistenza. Il soggetto che si sente leso nella propria libertà, anche se non persona fisica, ma portatore di interessi collettivi, infatti, deve ritenersi legittimato alla proposizione di un ricorso preordinato all’accertamento dell’effettiva lesività della libertà imputata al provvedimento censurato: lesione la cui sussistenza deve essere indagata in concreto.
Né può ritenersi che il provvedimento impugnato sia privo di lesività attuale, perché atto di indirizzo, dal momento che esso reca l’indicazione del contenuto minimo delle dichiarazioni che le singole strutture comunali dovranno richiedere in tutti i casi di istanze volte ad ottenere la concessione per l’occupazione del suolo pubblico.
E, ancora, l’interesse all’impugnazione non può ritenersi venuto meno per il fatto che, al fine di ottenere la disponibilità di spazi pubblici, Ca. abbia più volte dichiarato quanto richiesto, ancorché ciò lasci dubitare dell’effettiva portata della lesione denunciata.
Così respinte le eccezioni in rito, la sopra riportata delimitazione dell’ambito di applicazione della dichiarazione del cui contenuto obbligatorio si duole parte ricorrente risulta essere determinante al fine della definizione della controversia nel merito: definizione che, peraltro, non può prescindere nemmeno dal fatto che, come già evidenziato in sede cautelare, la deliberazione censurata, nella sua formulazione integrale, richiede agli interessi di dichiarare di “riconoscersi nei principi e nelle norme della Costituzione italiana e di ripudiare il fascismo e il nazismo”, facendo ricorso, nella sostanza, a una vera e propria endiadi, nel senso che l’adesione ai principi e alle norme costituzionali non è scindibile rispetto al ripudio del fascismo e del nazismo.
Partendo da tale premessa, il provvedimento adottato non incorre nella dedotta violazione del principio di uguaglianza e dei diritti di riunione e associazione, anche in partiti politici.
Improprio, prima ancora che privo di fondamento, risulta essere il richiamo al diritto di associazione in partiti politici.
Appare piuttosto chiaro, infatti, che la produzione della dichiarazione richiesta dal Comune non pregiudica in alcun modo la costituzione dell’associazione, ma solo, eventualmente, la possibilità per la stessa di utilizzare gli spazi pubblici del Comune di Brescia.
E il fatto che sia di questo che si sta trattando è determinante anche per escludere una potenziale violazione dei diritti di uguaglianza e riunione, in quanto tutti i soggetti utilizzatori dei beni pubblici sono chiamati alla stessa dichiarazione avente a oggetto il rispetto della Costituzione, con la già più volte ricordata specificazione avversata da parte ricorrente e non risulta comunque preclusa la possibilità per il movimento di riunirsi, potendolo fare in qualsiasi luogo privato ovvero in luoghi pubblici non appartenenti al Comune di Brescia (quali, a mero titolo esemplificativo, sale provinciali o regionali, ecc.) o non comportanti l’occupazione temporanea di spazi pubblici.
Concentrando, quindi, l’attenzione sull’oggetto del contendere come sin qui delimitato e cioè correlato al condizionamento dell’utilizzo a scopi privati di beni pubblici, si deve ricordare che i beni demaniali (sia quelli facenti parte del demanio necessario sia di quello accidentale) sono caratterizzati dall'appartenenza a enti territoriali, perché essi sono preordinati alla soddisfazione di interessi imputati alla collettività stanziata sul territorio e rappresentata dagli enti territoriali. Essi sono assoggettati alla disciplina posta dall'art. 823 codice civile, secondo cui "sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore dei terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano".
L’utilità pubblica cui sono destinati i beni demaniali può essere perseguita mediante un uso esclusivo (o diretto) da parte della stessa PA, un uso generale, da parte di qualsiasi soggetto pubblico o privato, ovvero ancora un uso particolare da parte di soggetti pubblici o privati, che rappresentano, però, l’eccezione alla regola.
Quando l’uso di un bene pubblico, normalmente fruito dalla collettività, è temporaneamente sottratto ad essa, per consentire un uso particolare del medesimo, il soggetto utilizzatore è tenuto al pagamento di un apposito canone, espressamente disciplinato dall’art. 63 del D.Lgs. 15/12/1997, n. 446.
Da tutto ciò emerge, dunque, che non vi è, per un qualsiasi soggetto privato, un vero e proprio “diritto” all’uso esclusivo, anche temporaneo, del bene pubblico.
Quanto al “se” concedere o meno un uso particolare del bene demaniale, la giurisprudenza è costante nel riconoscere un’ampia discrezionalità dell’Amministrazione (Cons. Stato Sez. IV, 28/02/2012. n. 1137), che addirittura, deve ritenersi non limitata ai soli casi dei divieti preliminarmente individuati in sede di approvazione, da parte del Consiglio comunale, del piano delle occupazioni di suolo pubblico. Pertanto, i divieti al rilascio delle occupazioni di suolo pubblico nel territorio comunale imposti da un atto generale (quale lo specifico piano delle occupazioni pubbliche) non esauriscono i casi in cui possono non essere rilasciate le concessioni di che trattasi, “residuando comunque all'amministrazione l'esercizio del potere discrezionale in relazione a concrete situazioni, pur non direttamente contemplate dalla predetta deliberazione, che necessitano di una valutazione comparativa tra le diverse esigenze pubbliche e private (TAR del Lazio, 18.02.2011, n. 1560).
Se, dunque, l’utilizzazione di un bene pubblico può essere negata ogni volta che sussistano motivi imperativi di interesse generale, anche a fronte di una richiesta per favorire l’iniziativa economica privata e, dunque, incidente sulla correlata libertà, non pare possa ritenersi in contrasto con i principi costituzionali la limitazione all’uso di suolo pubblico per il perseguimento dello scopo di un’associazione quando questa si rifiuti di dichiarare la volontà di rispettare la Costituzione e i suoi corollari.
Se, infatti, il Comune è il soggetto preposto al perseguimento dell’interesse pubblico sotteso all’utilizzazione dei beni demaniali pubblici che gli appartengono, allo stesso deve ritenersi attribuita la potestà di valutare se l’interesse pubblico possa essere perseguito anche concedendo un uso pubblico specifico a un determinato soggetto privato, che, rifiutandosi di dichiarare il contrario, implicitamente dichiari l’adesione a un’ideologia (quella fascista) in contrasto con la Costituzione e i suoi principi.
Il Collegio ritiene, alla luce di ciò, che nella fattispecie non sia stata in alcun modo integrata la violazione della libertà di pensiero.
Come condivisibilmente ritenuto da altro Tribunale amministrativo “
i valori dell'antifascismo e della Resistenza e il ripudio dell'ideologia autoritaria propria del ventennio fascista sono valori fondanti la Costituzione repubblicana del 1948, non solo perché sottesi implicitamente all'affermazione del carattere democratico della Repubblica italiana e alla proclamazione solenne dei diritti e delle libertà fondamentali dell'individuo, ma anche perché affermati esplicitamente sia nella XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista, sia nell'art. 1 della legge "Scelba" n. 645 del 20.06.1952…” (TAR Piemonte, sez. II, 18/04/2019, n. 447).
Scrutinando censure analoghe a quelle oggetto del presente gravame (peraltro in una controversia promossa da un’articolazione territoriale dell’odierna ricorrente) il TAR ha altresì rilevato che “
allorquando si richieda di esercitare attività di propaganda politica ed elettorale in spazi pubblici, sottraendoli, sia pure temporaneamente, all'uso pubblico per destinarli all'utilizzo privato, non appare irragionevole che l'amministrazione richieda, al fine di valutare la meritevolezza dell'interesse dedotto, una dichiarazione di impegno al rispetto dei valori costituzionali e, in particolare, dei limiti costituzionali alla libera manifestazione del pensiero connessi al ripudio dell'ideologia autoritaria fascista e all'adesione ai valori fondanti l'assetto democratico della Repubblica italiana, quali quelli dell'antifascismo e della Resistenza” (TAR Piemonte, n. 447/2019, cit.)
Contrariamente a quanto ritenuto nell’ordinanza del CGARS n. 797/2019, secondo cui <<
le limitazioni alla libertà di cui all’art. 21 Cost. che discendono dall’ordinamento costituzionale e, in particolare, dalla XII disp. trans. della Cost. non si riverberano sulla libertà di formazione del pensiero nel cosiddetto “foro interno”, dal momento che, in disparte ogni considerazione in ordine all’assoluta impossibilità di controllare quest’ultimo, è la connotazione pubblica della manifestazione del pensiero a delineare la rilevanza penale delle condotte tipizzate dalla legge Scelba (n. 645 del 20.06.1952) secondo l’interpretazione del giudice costituzionale (Corte cost. 25.11.1958 n. 74)>>, è proprio di questo che si controverte nella fattispecie. Cioè della possibilità di subordinare l’utilizzo di spazi pubblici per l’esercizio di un’attività alla produzione di una manifestazione esterna di volontà che garantisca l’impegno dell’occupante di farlo nel pieno rispetto della Costituzione e per il perseguimento di obiettivi con essa compatibili.
Obbligo dichiarativo tanto più facilmente accettabile, quanto, come nel caso di specie, la declaratoria delle finalità proprie dell’associazione non evidenzi un’esplicita propensione al fascismo o ai suoi metodi, tanto da indurre a ritenere, così come ipotizzato dal Comune, che la reticenza alla dichiarazione risieda solo nel legale rappresentante dell’associazione e/o in singoli associati della stessa.
E, infatti, delle due l’una: o l’Associazione ricorrente condivide, come mostra di affermare, i valori costituzionali cui fa riferimento la dichiarazione richiesta dal Comune e allora non vi è motivo di dolersi dell’obbligo da quest’ultimo imposto; oppure tale adesione riveste natura meramente labiale e, conseguentemente, si palesa legittima la richiesta dell’amministrazione volta ad assicurarsi che il soggetto cui viene concessa la fruizione dello spazio pubblico abbia realmente compreso il carattere inscindibile (l’endiadi, come in precedenza argomentato) tra il rispetto della Costituzione e i valori che vi hanno dato origine e che sono ad essa sottesi, implicitamente ed esplicitamente, in difetto di che sarebbe vanificato il senso stesso dell'adesione, svuotandola di contenuto e privandola di ogni valenza sostanziale e simbolica.
La violazione della libertà di pensiero non appare ravvisabile nemmeno con riferimento alla sua manifestazione mediante il silenzio. Il Comune, infatti, non impone all’Associazione ricorrente una generica proclamazione del pensiero che unisce i suoi associati e di cui essa si fa portatrice, ma impone una condizione specifica all’utilizzo da parte dei privati dei beni pubblici, rappresentata dall’impegno a non destinarli a scopi non in contrasto con la Costituzione, quali quelli propri di un soggetto che non prenda le distanze dal pensiero fascista.
Del resto, l’esatto significato del verbo ripudiare, correlato a un’ideologia, è quello di “respingere decisamente” e, dunque, appare ragionevole precludere l’utilizzo di beni pubblici a soggetti che non intendano “respingere decisamente” il fascismo e il nazismo e cioè due ideologie i cui ideali e principi si pongono in reciso contrasto con i valori costituzionali, tra cui, in primo luogo la libertà di pensiero e di parola.
Né la pretesa della produzione di dichiarazioni che hanno ad oggetto, nella sostanza, l’impegno a non commettere il reato di apologia del fascismo, ancorché possa risultare pleonastica e tautologica, può per ciò stesso ritenersi illegittima. Essa non lede il principio di non aggravamento del procedimento amministrativo, in quanto sebbene la sua produzione condizioni la conclusione del procedimento, non può essere qualificata come un aggravio, non richiedendo, la stessa, alcuna ulteriore attività se non il completamento della proposizione attinente il rispetto della Costituzione con l’inciso “e di ripudiare il fascismo e il nazismo”.
Non è ravvisabile nemmeno la violazione del principio di proporzionalità, posto che la specificazione richiesta non “conculca la libertà di pensiero in vista di obiettivi pubblici” (l’espressione è sempre ripresa dall’ordinanza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, riportata da parte ricorrente nella propria memoria), posto che nella richiesta di dichiarazione avversata da parte ricorrente non è preordinata al diretto perseguimento di “obiettivi pubblici”, bensì all’acquisizione di garanzie atte ad assicurare che l’uso del bene pubblico non sia strumentale all’esercizio di attività non rispettose dei principi costituzionali e, in particolare, del divieto di ricostituzione del partita fascista e di fare propaganda filo-fascista.
Nulla di illegittimo può, dunque ravvisarsi, nell’adozione di un indirizzo, destinato alle strutture comunali, affinché esse, nell’esercizio della discrezionalità che gli è propria, abbiano cura di evitare che i beni pubblici possano essere utilizzati per scopi non conformi alla Costituzione, a prescindere dall’innegabile e aggiuntiva possibilità di intervenire, in esito all’esercizio dell’attività di controllo, con provvedimenti dichiarativi della decadenza immediata dalla concessione nel caso di turbativa dell’ordine pubblico legata a condotte del concessionario.
Non è in questione, come mostra di ritenere la citata ordinanza del CGARS n. 797/2019, la rilevanza penale di condotte riconducibili alla connotazione pubblica della manifestazione del pensiero, bensì il significato da attribuire al “silenzio” che l’Associazione ricorrente vorrebbe serbare sul tema, rifiutandosi di sottoscrivere le dichiarazioni richieste dall’atto di indirizzo del Comune di Brescia.
In buona sostanza, con tale provvedimento non si richiedono né abiure, né professioni di fede che non si traducano nella mera riaffermazione dei valori fondanti della Carta costituzionale e del nostro Ordinamento.
D’altra parte non può non rilevarsi che la stessa pronuncia n. 168/1971 della Corte costituzionale, evocata nella citata ordinanza del CGARS, in senso contrario a quello da quest’ultimo ritenuto, si limita (peraltro nel giudizio sulla legittimità costituzionale dell’art. 650 cod. pen.) ad affermare che “anche diritti primari e fondamentali (come il più alto, forse, quello sancito nell'art. 21 della Costituzione) debbono venir contemperati con le esigenze” che scaturiscono dall’esercizio di altri diritti costituzionalmente protetti, tra i quali, pare ultroneo rilevare, i principi fondanti della Carta costituiscono un prius logico e giuridico.
Pertanto, se non può essere limitata la libertà di pensiero, che peraltro non può giustificare comportamenti contrari alla Costituzione e alla legge, nemmeno può limitarsi il potere dell’ente pubblico di perseguire l’interesse collettivo alla cui tutela è preposto escludendo da un uso esclusivo dei beni pubblici soggetti che si facciano portatori del pensiero fascista e che per la sua tutela e diffusione potrebbero avvalersi degli stessi beni sottratti all’uso della collettività.
Sul piano formale, escluso che vi fosse un obbligo per il Comune di adottare uno specifico regolamento, parte ricorrente non ha chiarito le ragioni per cui l’adozione di un atto di indirizzo dell’attività degli Uffici dovrebbe ritenersi illegittimo.
Nemmeno può ravvisarsi la violazione dell’art. 11 della legge n. 65/1986, che impone la trasmissione al Ministero dell’Interno solo del Regolamento di polizia municipale e di quello relativo allo stato giuridico del personale della polizia municipale, con cui l’avversato atto di indirizzo non ha alcuna interferenza.
Infine, la deliberazione impugnata è regolarmente divenuta esecutiva decorso il decimo giorno dalla sua pubblicazione.
Così respinto il ricorso, le spese del giudizio debbono seguire l’ordinaria regola della soccombenza.

APPALTI SERVIZI: Sulla natura pubblica della società in house.
L'art. 5, d.lgs. n. 50 del 2016, è una formulazione che rimanda ad una successiva norma di legge che espressamente prescriva la partecipazione dei privati alla società in house e, soprattutto, che ne stabilisca le modalità di partecipazione e di scelta del socio.
Tale norma pone una previsione di carattere generale e, dunque, nell'ordinamento interno, fino a quando non ci sarà una legge che attui tale previsione, deve ritenersi preclusa ai privati la partecipazione alla società in house dato che, diversamente opinando, non sapremmo né in che percentuale possano partecipare, né come debbano essere scelti.
Questo è ciò che porta a distinguere le società in house dalle società miste, per le quali è disciplinata una partecipazione mista di capitale pubblico-privato. Pertanto, non è erroneo sostenere che la società in house è sempre pubblica
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 25.02.2020 n. 1385 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTIPosizione soggettiva del ricorrente a fronte di un subentro nel contratto con la P.A. conseguente a sentenza passata in giudicato.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Contratto – Subentro – Disposto con sentenza passata in giudicato - Posizione soggettiva del ricorrente - Individuazione.
Quando una sentenza (passata in giudicato) accoglie il ricorso avverso l’aggiudicazione ad altro soggetto e conseguentemente dichiara l’inefficacia del contratto nel frattempo stipulato e dispone il subentro del ricorrente nel medesimo contratto, non si realizza il perfezionamento del nuovo vincolo contrattuale e la posizione soggettiva del ricorrente si configura come un interesse legittimo alla stipulazione del contratto, come normalmente accade a seguito dell’aggiudicazione della gara (1)
---------------
   (1) Nel caso di specie, dopo l’annullamento di una aggiudicazione con conseguente dichiarazione di subentro nel contratto, il ricorrente ha impugnato la successiva delibera con cui l’amministrazione ha revocato la gara originaria a causa di sopravvenienze che rendevano inutile l’esecuzione dell’appalto, sostenendo che, invece, l’amministrazione avrebbe dovuto procedere al recesso dal contratto ormai perfezionatosi in forza della precedente sentenza.
Il Tar ha chiarito che la sentenza non aveva prodotto effetti costitutivi del vincolo negoziale, ma aveva attribuito al ricorrente la posizione corrispondente a quella di un aggiudicatario. Conseguentemente ha ritenuto legittima la decisione dell’amministrazione di optare per l’esercizio del potere autoritativo di revoca, anziché del diritto di recesso, salvo, per il ricorrente, il diritto all’indennizzo di cui all’art. 21-quinquies, l. n. 241 del 1990 (TAR Molise, sentenza 24.02.2020 n. 64 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
---------------
MASSIMA
8.1. I motivi sub I e IV poggiano sul comune presupposto secondo cui la sentenza del Consiglio di Stato n. 3626/2018 avrebbe prodotto effetti costitutivi ai fini del perfezionamento del vincolo contrattuale tra DB Costruzioni e l’amministrazione comunale.
In senso contrario si osserva che il dispositivo della sentenza deve essere letto ed interpretato alla luce delle presupposte motivazioni.
Ora, nella parte motiva della sentenza il Consiglio di Stato ha ritenuto la fondatezza della domanda di annullamento dell’aggiudicazione in ragione del fatto che “l’aggiudicataria C. era priva dei requisiti di capacità tecnica previsti dal disciplinare di gara” ed ha quindi conclusivamente ritenuto che “va accolto l’appello principale della DB Co., nei sensi sopra specificati. Per l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado, il ricorso di quest’ultima deve essere accolto negli stessi sensi e deve conseguentemente essere annullata l’aggiudicazione della gara in favore della controinteressata C..
Del pari va accolta la domanda dell’originaria ricorrente di subentro nel contratto stipulato (nelle more del presente giudizio d’appello) tra il Comune di San Giuliano di Puglia e la medesima controinteressata, previa dichiarazione di inefficacia dello stesso. Al riguardo non si ravvisa alcuna circostanza ostativa ai sensi dell’art. 122 cod. proc. amm., tenuto in particolare conto che, come risulta dagli atti di causa, al momento della presente decisione la C. ha eseguito la sola progettazione
”.
Dalla piana interpretazione dei predetti assunti motivazionali si evince che il Consiglio di Stato ha accolto la domanda di subentro nel contratto quale conseguenza, per così dire immediata e “riflessa”, dell’annullamento della aggiudicazione e dell’accertamento dell’inefficacia dell’originario contratto concluso con C.S.E., senza peraltro rendere alcuna statuizione, in positivo, in ordine alla sussistenza dei presupposti e delle condizioni per il perfezionamento del vincolo contrattuale.
Se ne deve dedurre che l’accoglimento della domanda di subentro nel contratto, se per un verso presuppone implicitamente il riconoscimento in capo alla ricorrente della qualità di ditta aggiudicataria, per altro verso non vale ad accertare i presupposti e le condizioni, sul piano paritetico e negoziale, per il perfezionamento del vincolo contrattuale, ma vale semplicemente ad esplicitare la sussistenza di una posizione soggettiva qualificata al subentro, che non può che coincidere con la posizione di interesse legittimo alla stipulazione del contratto che normalmente consegue all’aggiudicazione della gara.
Ciò stante, non essendo ravvisabile il perfezionamento del vincolo contrattuale, deve ritenersi che la stazione appaltante abbia correttamente optato per l’esercizio del potere autoritativo di revoca, anziché del diritto di recesso: “
le controversie concernenti la legittimità di atti o comportamenti afferenti a procedure di evidenza pubblica assunti non solo prima dell'aggiudicazione, ma anche nel successivo spazio temporale compreso tra l'aggiudicazione e la stipula del contratto rientrano nella giurisdizione amministrativa perché attengono all'esercizio di potestà amministrativa sottoposto a norme di carattere pubblicistico, a fronte del quale la posizione giuridica dell'interessato ha consistenza di interesse legittimo e non di diritto soggettivo in quanto la stazione appaltante, sia pure intervenuta l'aggiudicazione, conserva sempre il potere di non procedere alla stipulazione del contratto in ragione di valide e motivate ragioni di interesse pubblico” (TAR Campania, Salerno, Sez. I, 18.07.2019 n. 1342).
...
8.7. La legittimità degli atti impugnati e la correttezza del comportamento delle amministrazioni intimate nulla tolgono al diritto della ricorrente di essere indennizzata a seguito dell’esercizio del potere di revoca ai sensi dell’art. 21-quinquies della legge n. 241/1990.
In tal senso è decisivo osservare che la sentenza del Consiglio di Stato n. 3626/2018 ha univocamente riconosciuto la qualità di ditta aggiudicataria in capo alla ricorrente, ciò che vale a radicare in capo ad essa una posizione di vantaggio stabile e duratura, su cui è intervenuta, con effetti caducanti, la successiva decisione di revoca dell’amministrazione.
Ai fini della quantificazione dell’indennizzo la giurisprudenza pronunciatasi in materia ha chiarito che possono essere riconosciute a tale titolo soltanto le spese sopportate per partecipare alla gara, con conseguente esclusione di ogni ulteriore pregiudizio: “
si appalesa innanzitutto fondata la richiesta di indennizzo ai sensi del citato art. 21-quinquies … Venendo alla quantificazione dell’indennizzo, lo stesso deve essere limitato alle spese inutilmente sopportate dalla … per partecipare alla gara, con esclusione di qualsiasi altro pregiudizio dalla stessa lamentato nella presente impugnativa. Ciò in base ad un duplice ordine di rilievi. In primo luogo perché si tratta di un rimedio posto a protezione di interessi lesi da atti legittimi, come sopra accertato, e dunque leciti. Conseguentemente con esso non possono essere reintegrate tutte le conseguenze patrimoniali negative risentite dai relativi destinatari, come invece nel risarcimento del danno per fatti che l’ordinamento giuridico riprova, e dunque illeciti … L’indennizzo è per contro un istituto di giustizia distributiva, che impone una condivisione sul piano economico di tali negative conseguenze di carattere patrimoniale, secondo un bilanciamento rimesso all’equo componimento delle parti interessate o, in caso di disaccordo, al giudice amministrativo. In secondo luogo, si trae conferma di quanto ora osservato dal comma 1-bis dell’art. 21-quinquies, il quale, nello specifico caso di revoca di atti amministrativi incidenti su rapporti negoziali circoscrive l’indennizzo «al solo danno emergente». La previsione in questione è applicabile a fortiori al caso, oggetto del presente giudizio, in cui la revoca non incida su tali rapporti, essendo i contrapposti affidamenti privati evidentemente meno meritevoli di tutela rispetto a coloro che vedano vanificate le aspettative di integrale esecuzione di un contratto ormai stipulato” (Consiglio di Stato, Sez. V, 21/04/2015 n. 2013).

ATTI AMMINISTRATIVIZona di divieto di esercizio dell’attività venatoria istituita con ordinanza contingibile e urgente.
---------------
Caccia – Attività venatoria – Divieto – Ordinanza contingibile e urgente - Possibilità
Pur a fronte di una disciplina settoriale che non riconosce in capo al Comune alcuna competenza in materia di attività venatoria, è applicabile la normativa generale, espressione di un potere atipico e residuale, in materia di ordinanze contingibili e urgenti, come stabilita dagli artt. 50, comma 5, e 54, comma 4, d.lgs. n. 267 del 2000 (T.U.E.L.), allorquando se ne configurino i relativi presupposti; è pertanto legittima l’ordinanza contingibile e urgente con la quale è istituita una zona di divieto di esercizio dell’attività venatoria (1).
---------------
   (1) Cons. St., sez. V, 29.05.2019, n. 3580; id. 12.06.2009, n. 3765; Tar Milano, sez. IV, 08.06.2010, n. 1758.
Ha ricordato il Tar che la competenza in materia di caccia spetta, ai sensi della legge n. 157 del 1992, allo Stato e alle Regioni (cfr., per queste ultime, in particolare gli artt. 9 e 14), mentre nessuna competenza ordinaria è attribuita sul punto ai Comuni.
Pur essendo, quindi, astrattamente utilizzabile, anche nella materia de qua, lo strumento dell’ordinanza contingibile e urgente, è comunque necessario che ne ricorrano i presupposti giustificativi in grado di supportare il legittimo esercizio di tale potere (Cons. St., sez. V, 22.05.2019, n. 3316).
Difatti, secondo la consolidata giurisprudenza, «il potere sindacale di emanare ordinanze contingibili ed urgenti ai sensi degli articoli 50 e 54 D.Lgs. n. 267 del 2000 richiede la sussistenza di una situazione di effettivo pericolo di danno grave ed imminente per l’incolumità pubblica, non fronteggiabile con gli ordinari strumenti di amministrazione attiva, debitamente motivata a seguito di approfondita istruttoria. In altri termini, presupposto per l’adozione dell’ordinanza extra ordinem è il pericolo per l’incolumità pubblica dotato del carattere di eccezionalità tale da rendere indispensabile interventi immediati ed indilazionabili, consistenti nell’imposizione di obblighi di fare o di non fare a carico del privato» (Cons. St., sez. V, 16.02.2010, n. 868).
Nel caso di specie, dal preambolo del provvedimento impugnato –come pure dalla pregressa ordinanza n. 7/2019, gravata con il ricorso introduttivo– emerge che l’urgenza e la necessità di provvedere sono state rinvenute dal Sindaco in generiche ragioni di pericolo connesse alla tipologia di attività esercitata, ossia la caccia, e agli strumenti che vengono utilizzati per il suo svolgimento, ossia le armi da fuoco (o, comunque, gli strumenti atti a sopprimere la fauna cacciata); tuttavia, il pericolo paventato non rappresenta altro che una conseguenza ordinaria e affatto eccezionale dell’attività venatoria («non è legittimo adottare ordinanze contingibili ed urgenti per fronteggiare situazioni prevedibili e permanenti»: Cons. St., sez. V, 26.07.2016, n. 3369), che proprio in ragione delle peculiari modalità di svolgimento è oggetto di minuziosa disciplina da parte del legislatore statale (cfr. in particolare gli artt. 12 e 13 della legge n. 157 del 1992).
Peraltro a fondamento del provvedimento impugnato, nemmeno risulta essere stata posta una adeguata attività istruttoria, attraverso la quale sarebbero dovuti emergere gli elementi di fatto rilevanti e in grado di giustificare l’intervento comunale di urgenza, risultando nella specie del tutto insufficiente la circostanza, nemmeno documentata, che vi sarebbero state numerose segnalazioni attestanti la presenza di cacciatori nella zona della Diga di Beauregard (si veda il preambolo dell’ordinanza n. 7/2019).
Ne discende che l’assoluta carenza di istruttoria e la generica e apodittica esigenza di tutelare la pubblica incolumità, unitamente alla necessità di garantire un ipotetico ordine pubblico, non possono rappresentare presupposti idonei a fondare l’adozione di una ordinanza contingibile e urgente (Cons. St., sez. V, 29.05.2019, n. 3580; 21.02.2017, n. 774; 22.03.2016, n. 1189).
Del resto, se può ammettersi, come già evidenziato in precedenza, un potere di intervento extra ordinem del Sindaco, pur in presenza di una competenza di altro ente, i presupposti di un tale intervento straordinario devono essere individuati e verificati, nella loro esistenza, in modo rigoroso, rischiandosi altrimenti di derogare all’ordine legale delle competenze in aperta violazione di legge.
Con riguardo alle ordinanze sindacali, in generale, è stato osservato che le stesse possono incidere, per la natura delle loro finalità (incolumità pubblica e sicurezza urbana) e per i loro destinatari (le persone presenti in un dato territorio), sulla sfera generale di libertà dei singoli e delle comunità amministrate, ponendo prescrizioni di comportamento, divieti, obblighi di fare e di non fare, che, pur indirizzati alla tutela di beni pubblici importanti, impongono comunque, in maggiore o minore misura, restrizioni ai soggetti considerati, determinando una compressione della libertà e della proprietà individuale, che pure costituiscono principi tutelati dalla Carta costituzionale (Corte costituzionale, sentenza n. 115 del 2011).
Pertanto, il ricorso allo strumento delle ordinanze contingibili e urgenti deve essere riservato alle sole fattispecie in cui ne ricorrono i presupposti giustificativi, da riscontrare in maniera rigorosa e di cui deve essere data una interpretazione fortemente restrittiva.
3.2. Inoltre, appare illegittimo anche il contemporaneo richiamo all’art. 50 e all’art. 54, d.lgs. n. 267 del 2000 (Testo unico degli Enti locali), trattandosi di due disposizioni aventi un differente spettro di applicazione ed espressione di poteri, sebbene assimilabili, comunque diversi.
L’art. 50, in particolare il comma 5, ammette un intervento, connotato dai caratteri della contingibilità e dell’urgenza, del Sindaco, quale rappresentante della comunità locale, in presenza di «emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale [oppure] in relazione all’urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche».
Diversamente, l’art. 54, comma 4, prevede che «il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta, con atto motivato provvedimenti contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana».
Come risulta dalla semplice esegesi dei predetti testi normativi, in un caso –quello dell’art. 50– il Sindaco agisce in qualità di rappresentante della comunità locale e si occupa di ambiti in cui vengono in rilievo interessi di tipo territoriale e riguardano materie di competenza (anche) comunale, mentre nell’altro –quello di cui all’art. 54– il Sindaco agisce in qualità di ufficiale di Governo e in settori, quali l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana, che sono di competenza dello Stato, essendo tali materie finalizzate alla prevenzione dei reati e al mantenimento dell’ordine pubblico, inteso quest’ultimo quale «complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge l’ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale» (Corte cost., sentenze n. 129 del 2009; n. 290 del 2001) (TAR Valle d’Aosta, sentenza 20.02.2020 n. 7 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
---------------
MASSIMA
3.1. Le doglianze sono complessivamente fondate.
Appare opportuno premettere che la competenza in materia di caccia spetta, ai sensi della legge n. 157 del 1992, allo Stato e alle Regioni (cfr., per queste ultime, in particolare gli artt. 9 e 14), mentre nessuna competenza ordinaria è attribuita sul punto ai Comuni (si veda anche la legge regionale n. 64 del 1994).
Tuttavia, in linea generale e astratta, pur a fronte di una disciplina settoriale che non riconosce in capo al Comune alcuna competenza in materia di attività venatoria, si deve ritenere applicabile la normativa generale, espressione di un potere atipico e residuale, in materia di ordinanze contingibili e urgenti, come stabilita dall’art. 50, comma 5, e dall’art. 54, comma 4, del D.Lgs. n. 267 del 2000 (T.U.E.L.), allorquando se ne configurino i relativi presupposti (cfr. Consiglio di Stato, V, 29.05.2019, n. 3580; 12 giugno 2009, n. 3765; TAR Lombardia, Milano, IV, 08.06.2010, n. 1758).
Pur essendo, quindi, astrattamente utilizzabile, anche nella materia de qua, lo strumento dell’ordinanza contingibile e urgente, è comunque necessario che ne ricorrano i presupposti giustificativi in grado di supportare il legittimo esercizio di tale potere (Consiglio di Stato, V, 22.05.2019, n. 3316).
Difatti, secondo la consolidata giurisprudenza, «i
l potere sindacale di emanare ordinanze contingibili ed urgenti ai sensi degli articoli 50 e 54 D.Lgs. n. 267 del 2000 richiede la sussistenza di una situazione di effettivo pericolo di danno grave ed imminente per l’incolumità pubblica, non fronteggiabile con gli ordinari strumenti di amministrazione attiva, debitamente motivata a seguito di approfondita istruttoria. In altri termini, presupposto per l’adozione dell’ordinanza extra ordinem è il pericolo per l’incolumità pubblica dotato del carattere di eccezionalità tale da rendere indispensabile interventi immediati ed indilazionabili, consistenti nell’imposizione di obblighi di fare o di non fare a carico del privato» (Consiglio di Stato, V, 16.02.2010, n. 868).
Nel caso di specie, dal preambolo del provvedimento impugnato –come pure dalla pregressa ordinanza n. 7/2019, gravata con il ricorso introduttivo– emerge che l’urgenza e la necessità di provvedere sono state rinvenute dal Sindaco in generiche ragioni di pericolo connesse alla tipologia di attività esercitata, ossia la caccia, e agli strumenti che vengono utilizzati per il suo svolgimento, ossia le armi da fuoco (o, comunque, gli strumenti atti a sopprimere la fauna cacciata); tuttavia, il pericolo paventato non rappresenta altro che una conseguenza ordinaria e affatto eccezionale dell’attività venatoria («
non è legittimo adottare ordinanze contingibili ed urgenti per fronteggiare situazioni prevedibili e permanenti»: Consiglio di Stato, V, 26.07.2016, n. 3369), che proprio in ragione delle peculiari modalità di svolgimento è oggetto di minuziosa disciplina da parte del legislatore statale (cfr. in particolare gli artt. 12 e 13 della legge n. 157 del 1992).
Peraltro a fondamento del provvedimento impugnato, nemmeno risulta essere stata posta una adeguata attività istruttoria, attraverso la quale sarebbero dovuti emergere gli elementi di fatto rilevanti e in grado di giustificare l’intervento comunale di urgenza, risultando nella specie del tutto insufficiente la circostanza, nemmeno documentata, che vi sarebbero state numerose segnalazioni attestanti la presenza di cacciatori nella zona della Diga di Beauregard (si veda il preambolo dell’ordinanza n. 7/2019).
Ne discende che
l’assoluta carenza di istruttoria e la generica e apodittica esigenza di tutelare la pubblica incolumità, unitamente alla necessità di garantire un ipotetico ordine pubblico, non possono rappresentare presupposti idonei a fondare l’adozione di una ordinanza contingibile e urgente (Consiglio di Stato, V, 29.05.2019, n. 3580; 21.02.2017, n. 774; 22.03.2016, n. 1189).
Del resto,
se può ammettersi, come già evidenziato in precedenza, un potere di intervento extra ordinem del Sindaco, pur in presenza di una competenza di altro ente, i presupposti di un tale intervento straordinario devono essere individuati e verificati, nella loro esistenza, in modo rigoroso, rischiandosi altrimenti di derogare all’ordine legale delle competenze in aperta violazione di legge.
Con riguardo alle ordinanze sindacali, in generale, è stato osservato che le stesse possono incidere, per la natura delle loro finalità (incolumità pubblica e sicurezza urbana) e per i loro destinatari (le persone presenti in un dato territorio), sulla sfera generale di libertà dei singoli e delle comunità amministrate, ponendo prescrizioni di comportamento, divieti, obblighi di fare e di non fare, che, pur indirizzati alla tutela di beni pubblici importanti, impongono comunque, in maggiore o minore misura, restrizioni ai soggetti considerati, determinando una compressione della libertà e della proprietà individuale, che pure costituiscono principi tutelati dalla Carta costituzionale (Corte costituzionale, sentenza n. 115 del 2011).
Pertanto, il ricorso allo strumento delle ordinanze contingibili e urgenti deve essere riservato alle sole fattispecie in cui ne ricorrono i presupposti giustificativi, da riscontrare in maniera rigorosa e di cui deve essere data una interpretazione fortemente restrittiva.
3.2. Inoltre,
appare illegittimo anche il contemporaneo richiamo all’art. 50 e all’art. 54 del D.Lgs. n. 267 del 2000 (Testo unico degli Enti locali), trattandosi di due disposizioni aventi un differente spettro di applicazione ed espressione di poteri, sebbene assimilabili, comunque diversi.
L’art. 50, in particolare il comma 5, ammette un intervento, connotato dai caratteri della contingibilità e dell’urgenza, del Sindaco, quale rappresentante della comunità locale, in presenza di «emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale [oppure] in relazione all’urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche».
Diversamente, l’art. 54, comma 4, prevede che «il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta, con atto motivato provvedimenti contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana».
Come risulta dalla semplice esegesi dei predetti testi normativi,
in un caso –quello dell’art. 50– il Sindaco agisce in qualità di rappresentante della comunità locale e si occupa di ambiti in cui vengono in rilievo interessi di tipo territoriale e riguardano materie di competenza (anche) comunale, mentre nell’altro –quello di cui all’art. 54– il Sindaco agisce in qualità di ufficiale di Governo e in settori, quali l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana, che sono di competenza dello Stato, essendo tali materie finalizzate alla prevenzione dei reati e al mantenimento dell’ordine pubblico, inteso quest’ultimo quale «complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge l’ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale» (Corte costituzionale, sentenze n. 129 del 2009; n. 290 del 2001).
3.3. Da ciò discende l’accoglimento delle scrutinate censure.

ATTI AMMINISTRATIVIL'Adunanza Plenaria pronuncia sulla legittimazione a ricorrere delle associazioni fuori dai casi previsti dalla legge.
----------------
Processo amministrativo – Legittimazione attiva - Associazioni rappresentative di utenti o consumatori - Tutela degli interessi legittimi collettivi – Espressa previsione di legge – Non necessita.
Gli enti associativi esponenziali, iscritti nello speciale elenco delle associazioni rappresentative di utenti o consumatori oppure in possesso dei requisiti individuati dalla giurisprudenza, sono legittimati ad esperire azioni a tutela degli interessi legittimi collettivi di determinate comunità o categorie, e in particolare l’azione generale di annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità, indipendentemente da un’espressa previsione di legge in tal senso (1).
----------------
   (1) Tali norme di settore, secondo la sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, 21.07.2016, n. 3303, più volte citata quale caposaldo dell’orientamento contrario a quello prevalente, escluderebbero l’esperibilità dell’azione di annullamento.
L’art. 32-bis, d.lgs. 24.02.1998, n. 58 (Testo unico della finanza) prevede testualmente che “Le associazioni dei consumatori inserite nell'elenco di cui all'articolo 137 del decreto legislativo 06.09.2005, n. 206, sono legittimate ad agire per la tutela degli interessi collettivi degli investitori, connessi alla prestazione di servizi e attività di investimento e di servizi accessori e di gestione collettiva del risparmio, nelle forme previste dagli articoli 139 e 140 del predetto decreto legislativo”.
Dallo specifico riferimento alle “forme previste dagli articoli 139 e 140” deriverebbe –secondo la ricostruzione giurisprudenziale citata- che le uniche azioni possibili sono quelle proponibili dinanzi al giudice ordinario, tese a:
   a) inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti;
   b) adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate;
   c) ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani a diffusione nazionale oppure locale nei casi in cui la pubblicità del provvedimento può contribuire a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate (così l’art. 140 cit.).
Dunque mancherebbe, nell’attuale ordinamento, nella materia de qua, una norma che abiliti le associazioni ad agire dinanzi al giudice amministrativo a mezzo dell’azione di annullamento.
Ritiene questa Adunanza plenaria che nemmeno questo argomento, specificatamente riferito alla tutela consumeristica, sia in grado di incidere sull’attualità e validità della lunga elaborazione giurisprudenziale assolutamente prevalente, e in effetti consolidata.
Le disposizioni citate, a ben vedere, riguardano il diritto civile e il relativo processo. La circostanza che il legislatore sia intervenuto espressamente a disciplinare, in ambito processual-civilistico, un caso di legittimazione straordinaria per la tutela di interessi collettivi non può certamente leggersi come l’epilogo di un generale percorso di delimitazione soggettiva della legittimazione degli enti associativi e di tipizzazione delle azioni esperibili in ogni e qualsiasi altro ambito processuale, come, nello specifico, quello amministrativo.
Piuttosto essa rappresenta il definitivo riconoscimento della rilevanza giuridica degli interessi nella loro dimensione collettiva, persino in un ambito, quello civilistico, in cui non viene in rilievo l’esercizio di un potere suscettibile di concretizzarsi in atti autoritativi generali lesivi, impugnabili a mezzo dell’azione demolitoria secondo la traiettoria già tracciata dalla giurisprudenza amministrativa, ma in cui piuttosto assumono importanza anche i temi della disparità di forza contrattuale, dell’asimmetria informativa, dell’abuso di posizione dominante.
Temi, questi ultimi, connotati da una dimensione eccedente la sfera giuridica del singolo e da situazioni giuridiche omogenee e seriali di una vasta platea di consumatori, espressamente qualificate come “diritti fondamentali” dalla legge, anche nella loro dimensione collettiva (art. 2 codice dei consumatori).
Questo processo di espansione delle posizioni giuridiche verso una dimensione collettiva in ambito civilistico consente di spostare avanti la soglia di tutela, affrancandola dal vincolo contrattuale individuale, e di conferire alla stessa una caratteristica inibitoria idonea a paralizzare, ad un livello generale, gli atti e i comportamenti del soggetto privato “forte” suscettibili di ripercuotersi pregiudizievolemente sui diritti collettivi fondamentali dei consumatori.
Interessando posizioni giuridiche paritarie, seppur asimmetriche, è chiaro che tale processo non avrebbe potuto inverarsi senza l’emersione positiva di situazioni giuridiche collettive e la tipizzazione delle azioni giuridiche esperibili da parte di un soggetto –quello a base associativa e con funzioni rappresentative, come anche il Codancos incluso nell’elenco citato– che non sia parte dei rapporti giuridici instaurandi e instauratisi tra il soggetto “forte” e i singoli consumatori.
Non è così nei rapporti di diritto pubblico, in cui le posizioni non sono connesse a negozi giuridici, e trovano piuttosto genesi nell’esercizio non corretto del potere amministrativo, tutte le volte che esso impatti su interessi sostanziali (cd. “beni della vita”) meritevoli di protezione secondo l’apprezzamento che ne fa il giudice amministrativo sulla base dell’ordinamento positivo.
La cura dell’interesse pubblico, cui l’attribuzione del potere è strumentale, non solo caratterizza, qualifica e giustifica, nel diritto amministrativo, la dimensione unilaterale e autoritativa del potere rispetto agli atti e ai comportamenti dell’imprenditore o del professionista -nel diritto civile invece subordinati al principio consensualistico- ma vale anche a dare rilievo, a prescindere da espliciti riconoscimenti normativi, a posizioni giuridiche che eccedono la sfera del singolo e attengono invece a beni della vita a fruizione collettiva della cui tutela un’associazione si faccia promotrice sulla base dei criteri giurisprudenziali della rappresentatività, del collegamento territoriale e della non occasionalità.
8. In conclusione, la tenuta del diritto vivente sulla tutela degli interessi diffusi non è messa in dubbio nemmeno dagli artt. 139 e 140 del codice del consumo (oggi trasposti nel nuovo titolo VIII-bis del libro quarto del codice di procedura civile, in materia di azione di classe dalla l. 12.04.2019, n. 31), che riguardano altro ambito processuale, e che di certo non possono essere letti nell’ottica di un ridimensionamento della tutela degli interessi collettivi nel giudizio amministrativo, nei termini sin qui chiariti dalla giurisprudenza amministrativa.
Deve quindi ritenersi che un’associazione di utenti o consumatori, iscritta nello speciale elenco previsto dal codice del consumo oppure che sia munita dei requisiti individuati dalla giurisprudenza per riconoscere la legittimazione delle associazioni non iscritte, sia abilitata a ricorrere dinanzi al giudice amministrativo in sede di giurisdizione di legittimità.
La legittimazione, in altri termini, si ricava o dal riconoscimento del legislatore quale deriva dall’iscrizione negli speciali elenchi o dal possesso dei requisiti a tal fine individuati dalla giurisprudenza. Una volta “legittimata”, l’associazione è abilitata a esperire tutte le azioni eventualmente indicate nel disposto legislativo e comunque l’azione generale di annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità.
Alla luce di quanto sino ad ora argomentato può pertanto formularsi il seguente principio di diritto, in relazione al quesito prospettato:
Gli enti associativi esponenziali, iscritti nello speciale elenco delle associazioni rappresentative di utenti o consumatori oppure in possesso dei requisiti individuati dalla giurisprudenza, sono legittimati ad esperire azioni a tutela degli interessi legittimi collettivi di determinate comunità o categorie, e in particolare l’azione generale di annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità, indipendentemente da un’espressa previsione di legge in tal senso” (Consiglio di Stato, A.P., sentenza 20.02.2020 n. 6 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' irrilevante lo stato di necessità ai fini della sanatoria edilizia.
Il provvedimento di sanatoria edilizia, ai sensi dell’art. 36 D.P.R. 380 del 2001, presuppone la (doppia) conformità urbanistica dell’intervento, compresa la valutazione dei vincoli esistenti sull’area, senza alcuna rilevanza delle ragioni che abbiano portato alla realizzazione dell’opera abusiva o di altri elementi relativi al comportamento posto in essere dalla parte ai fini della realizzazione dell’opera.
---------------
Ritiene, altresì, il Collegio di evidenziare che la presente vicenda, come risulta dalla ricostruzione in fatto emergente dagli atti di causa, riguarda la realizzazione da parte dei titolari della azienda agricola Fo. di opere costituite dalla trasformazione di una pista sterrata in strada carrabile, in assenza di titolo abilitativo, intervento effettuato prima del 23.01.2007, data in cui l’intervento è stato oggetto di un provvedimento di sospensione comunale.
Solo dopo tale ordinanza è emersa la circostanza dedotta dagli odierni appellanti che la realizzazione della strada si era resa necessaria per garantire interventi su un masso roccioso, la cui pericolosità sarebbe era emersa durante i lavori dei titoli edilizi rilasciati nel 2006.
La circostanza delle pericolosità del masso è stata, peraltro, espressamente presa in considerazione dal Comune di Novafeltria nella ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi dell’08.03.2007 (oggetto del ricorso davanti al Tribunale amministrativo delle Marche n. -OMISSIS- definito con sentenza di rigetto n. -OMISSIS-), che ha ordinato la riduzione in pristino con riferimento alla effettuata trasformazione della strada, rinviando ad ulteriori accertamenti istruttori per le valutazioni circa la messa in sicurezza del masso.
Sul punto la Provincia si è espressa con il parere del 10.10.2007, in cui ha precisato che “la strada di accesso potrà essere utilizzata solamente temporaneamente per la demolizione dell’ammasso roccioso”; sulla base di tale parere è stato adottato il provvedimento contingibile e urgente del 31.10.2007, che ha ordinato (e quindi allo stesso tempo autorizzato) la rimozione del masso a tutela della pubblica incolumità.
Su tale questione relativa alla rimozione del masso si è, quindi, inserita la domanda di sanatoria delle opere abusivamente realizzate relative alla trasformazione della strada da carraia agricola sterrata a carrabile con lo sbancamento e l’abbattimento di numerose piante, presentata dagli appellanti il 05.06.2007.
La domanda di sanatoria, anche ammesso che l’intervento fosse stato realizzato per le esigenze di sicurezza derivanti dal pericolo della masso roccioso, è comunque finalizzata al mantenimento in futuro come legittima dell’opera abusivamente realizzata, essendo, inoltre, consentito l’utilizzo di tale tracciato per la rimozione del sasso ai sensi dell’ordinanza del 31.10.2007 e del presupposto parere della Provincia del 10.10.2007.
Essendo l’area boscata sottoposta a vincolo idrogeologico, ai sensi dell’art. 11 della legge regionale Marche n. 6 del 2005, ai fini della sanatoria edilizia era necessario il parere della Provincia, che si è espressa in senso negativo, avendo ritenuto l’intervento realizzato estraneo alle ipotesi tassative di disboscamento previste dell’art. 12 della legge regionale n. 6/2005, escludendo espressamente la natura di pista tagliafuoco della strada concretamente realizzata.
Da tali circostanze di fatto emerge con chiarezza che le esigenze di sicurezza derivanti dalla pericolosità del masso incombente sull’azienda sono del tutto ininfluenti rispetto al provvedimento impugnato nel presente giudizio ovvero il parere negativo della Provincia che ha impedito l’ulteriore corso della domanda di sanatoria.
Infatti, il provvedimento di sanatoria edilizia, ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. 380 del 2001, presuppone la conformità urbanistica dell’intervento, compresa quindi la valutazione dei vincoli esistenti sull’area, senza alcuna rilevanza delle ragioni che abbiano portato alla realizzazione dell’opera abusiva o di altri elementi relativi al “comportamento” posto in essere dalla parte ai fini della realizzazione dell’opera.
Ne deriva che la esigenza di sicurezza derivante dal pericolo della caduta del masso- che la parte appellante riporta alla sussistenza della esimente dello stato di necessità- non può avere alcuna rilevanza rispetto alla valutazione relativa al rilascio di un titolo edilizio anche se in sanatoria.
Il titolo edilizio anche in sanatoria ha, infatti, presupposti propri specificamente individuati dalla legge e dalla disciplina urbanistica comunale nonché da quella paesaggistica e, nel caso di specie, dall’esistenza di un vincolo idrogeologico sull’area, che prescindono sia dai motivi per cui è stata realizzata la opera edilizia sia dalla sussistenza di un eventuale stato di necessità.
Tale circostanza della pericolosità del masso avrebbe potuto rilevare- così come effettivamente è stato- al solo al fine di consentire il mantenimento della strada fino alla esecuzione delle opere di messa in sicurezza; non a legittimare un opera edilizia abusiva in mancanza dei presupposti per la sanatoria.
Sotto tale profilo, ritiene dunque il Collegio la irrilevanza nel presente giudizio dell’assoluzione in sede penale pronunciata dalla sentenza del Tribunale di Pesaro, depositata nel presente giudizio, che ha riconosciuto sussistente la scriminante dello stato di necessità.
Se, infatti, la scriminante dello stato di necessità ha potuto rilevare ex post al fine di giustificare il comportamento -in astratto penalmente rilevante- posto in essere dagli appellanti nella realizzazione della strada in mancanza del titolo edilizio e della autorizzazione paesaggistica, non può trovare alcuna considerazione nel presente giudizio ai fini della legittimità di provvedimenti (la sanatoria edilizia e il preordinato nulla osta idrogeologico), che hanno autonomi presupposti previsti dalla legge e del tutto differenti dalle valutazioni di un “comportamento” operate dal giudice penale.
La totale estraneità alla fattispecie della sanatoria edilizia delle circostanze in cui è stata realizzata l’opera edilizia rende inutile l’esame della questione circa la rilevanza del giudicato penale rispetto ai giudizi amministrativi, ai sensi dell’art. 654 c.p.p., proposta dalla parte appellante come primo motivo di appello.
In ogni caso, ritiene il Collegio sul punto di richiamare i consolidati orientamenti giurisprudenziali di questo Consiglio, per cui nei rapporti tra giudizio penale e giudizio amministrativo la regola generale è costituita dall’autonomia e della separazione (Cons. Stato Sez. II, 24.10.2019, n. 7245).
Inoltre, sotto il profilo soggettivo, il giudicato è vincolante solo nei confronti dell’imputato, della parte civile e del responsabile civile che si sia costituito o che sia intervenuto nel processo penale; non, quindi, nei confronti di altri soggetti che siano rimasti estranei al processo penale, pur essendo in qualche misura collegati alla vicenda penale (Cons. Stato Sez. VI, 02.12.2016, n. 5069; id. 31.01.2017, n. 407).
Sotto il profilo oggettivo, il vincolo copre solo l’accertamento dei “fatti materiali” e non anche la loro qualificazione o valutazione giuridica, che rimane circoscritta al processo penale e non può condizionare l’autonoma valutazione da parte del giudice amministrativo o civile (Cons. Stato Sez. VI, 11.01.2018, n. 145; id. 16.07.2015, n. 3556) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 19.02.2020 n. 1262 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAL’istituto della c.d. ‘sanatoria giurisprudenziale’ non trova fondamento alcuno nell’ordinamento positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell’azione amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione di quello di separazione dei poteri e l’invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla pubblica amministrazione.
Anche la Corte Costituzionale, peraltro, ha più volte ribadito al riguardo la natura di principio, tra l’altro vincolante per la legislazione regionale, della previsione della “doppia conformità” seppur con precipuo riferimento inizialmente ai soli profili penalistici.
Il giudice delle leggi ha dunque affermato che il rigore insito in tale principio trova la propria ratio ispiratrice nella “natura preventiva e deterrente” della sanatoria , finalizzata a frenare l’abusivismo edilizio, in modo da escludere letture “sostanzialiste” della norma che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione ovvero con essa conformi solo al momento della presentazione dell’istanza per l’accertamento di conformità.
---------------
Nella specie, il rilascio del permesso di costruire in sanatoria è stato negato giustamente, in assenza della cd. “doppia conformità” ex art. 36, d.P.R. n. 380/2001 da intendersi nel senso a più riprese affermato dalla costante giurisprudenza di primo grado:
  
«il permesso in sanatoria, previsto dall'art. 36 d.P.R. n. 380/2001, può essere concesso solo nel caso in cui l'intervento risulti conforme sia alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della realizzazione del manufatto, che alla disciplina vigente al momento della presentazione della domanda.
La doppia conformità condicio sine qua non della sanatoria, ed investe entrambi i segmenti temporali, cioè il tempo della realizzazione dell'illecito ed il tempo della presentazione dell'istanza.
Nel caso di specie il provvedimento, in maniera sintetica ma esaustiva, evidenzia l'assenza totale della richiesta doppia conformità, stante che il manufatto realizzato è in contrasto con la destinazione d'uso dei locali, il che è sufficiente a precludere il rilascio del permesso di costruire in sanatoria.
Tale rilievo prescinde del tutto dalla valutazione a posteriori della natura o della consistenza dell'abuso, sollecitata dall'interessato, dovendosi considerare, specie in ragione del carattere rigidamente vincolato del potere esercitato dall'amministrazione, che la contrarietà originaria dell'intervento, rispetto alla strumentazione urbanistica, esclude il prescritto requisito della doppia conformità»,
e che, per ormai costante orientamento giurisprudenziale, l’appellante non può invocare in proprio favore l’istituto della cd. “sanatoria giurisprudenziale”.
---------------

L’assunto è infondato.
In primo luogo, si palesa corretta l’affermazione del giudice di prime cure che rileva la mancata prova dell’effettiva conformità delle opere al nuovo strumento urbanistico: la richiamata disposizione, infatti, prevede la redazione di un piano urbanistico operativo (P.u.o.) esteso all’intero distretto di trasformazione in cui si articola la zona costiera del piano regolatore generale del 1983, nel caso di specie mancante.
Indi non appare neppure invocabile, secondo l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale del Consiglio Stato (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 24.04.2018, n. 2496, e 20.02.2018, n. 1087), pienamente condiviso da questo Collegio, l’istituto della c.d. ‘sanatoria giurisprudenziale’.
Tale istituto non trova, infatti, fondamento alcuno nell’ordinamento positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell’azione amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione di quello di separazione dei poteri e l’invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla pubblica amministrazione.
Anche la Corte Costituzionale, peraltro, ha più volte ribadito al riguardo la natura di principio, tra l’altro vincolante per la legislazione regionale, della previsione della “doppia conformità” (Corte Cost., 31.03.1998, n. 370; 13.05.1993, n. 231; 27.02.2013, n. 101) seppur con precipuo riferimento inizialmente ai soli profili penalistici.
Il giudice delle leggi ha dunque affermato che il rigore insito in tale principio trova la propria ratio ispiratrice nella “natura preventiva e deterrente” della sanatoria , finalizzata a frenare l’abusivismo edilizio, in modo da escludere letture “sostanzialiste” della norma che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione ovvero con essa conformi solo al momento della presentazione dell’istanza per l’accertamento di conformità.
In definitiva, nella specie, si deve concludere che il rilascio del permesso di costruire in sanatoria è stato negato giustamente, in assenza della cd. “doppia conformità” ex art. 36, d.P.R. n. 380/2001 (da intendersi nel senso a più riprese affermato dalla costante giurisprudenza di primo grado: ex aliis cfr. TAR Reggio Calabria, -Calabria- sez. I, 11/01/2019, n. 15, ove si legge che «il permesso in sanatoria, previsto dall'art. 36 d.P.R. n. 380/2001, può essere concesso solo nel caso in cui l'intervento risulti conforme sia alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della realizzazione del manufatto, che alla disciplina vigente al momento della presentazione della domanda. La doppia conformità condicio sine qua non della sanatoria, ed investe entrambi i segmenti temporali, cioè il tempo della realizzazione dell'illecito ed il tempo della presentazione dell'istanza. Nel caso di specie il provvedimento, in maniera sintetica ma esaustiva, evidenzia l'assenza totale della richiesta doppia conformità, stante che il manufatto realizzato è in contrasto con la destinazione d'uso dei locali, il che è sufficiente a precludere il rilascio del permesso di costruire in sanatoria. Tale rilievo prescinde del tutto dalla valutazione a posteriori della natura o della consistenza dell'abuso, sollecitata dall'interessato, dovendosi considerare, specie in ragione del carattere rigidamente vincolato del potere esercitato dall'amministrazione, che la contrarietà originaria dell'intervento, rispetto alla strumentazione urbanistica, esclude il prescritto requisito della doppia conformità») e che, per ormai costante orientamento giurisprudenziale, l’appellante non può invocare in proprio favore l’istituto della cd. “sanatoria giurisprudenziale”, cui peraltro non aveva fatto alcun riferimento nel corso del procedimento, cui ha attivamente preso parte (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 11.09.2018, n. 5319; nonché id. 24.04.2018, n. 2496, nella quale peraltro si controverte, come nel caso di specie, di una domanda di sanatoria presentata prima dell’entrata in vigore del T.U.E., ma definita dopo) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 18.02.2020 n. 1240 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICA: Domanda di annullamento di una convenzione urbanistica per dolo della parte pubblica.
Il TAR Milano, a fronte di una domanda di annullamento di una convenzione urbanistica per dolo della parte pubblica, osserva preliminarmente che non sussistono regole preclusive alla possibilità di inserire impegni aggiuntivi che sono, quindi, rimessi alla volontà delle parti e alla verifica di meritevolezza rispetto all’intesse pubblico che si intende perseguire.
Il TAR rigetta poi nel merito la domanda annullamento degli atti negoziali esaminando l’istituto del dolo omissivo e del silenzio relativo ad informazioni di cui si impone la comunicazione secondo il canone di buona fede precontrattuale ex articolo 1337 c.c. nonché valutando il nesso di causalità tra il silenzio di una parte e l’errore in cui l’altra asserisce di essere incorsa anche tenendo conto delle condizioni soggettive delle stesse
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.02.2020 n. 323 - commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA

17.1. Osserva il Collegio come il punto dirimente della controversia risiede nell’idoneità delle convenzioni a stabilire eventuali impegni aggiuntivi a carico della parte privata. Idoneità affermata da costante giurisprudenza amministrativa secondo cui
risultano legittime convenzioni di lottizzazione che contengano impegni negoziali aggiuntivi a carico del privato stipulante, quando ne sia dimostrata la finalizzazione al perseguimento degli interessi pubblici e perciò, in termini privatistici, la meritevolezza della causa (cfr., ex aliis, Consiglio di Stato, Sez. V, 10.01.2003 n. 33; TAR per la Lombardia – sede di Brescia, Sez. I, 03.07.2019, n. 624).
Osserva altra parte della giurisprudenza come “
se la funzione propria della convenzione urbanistica è la realizzazione di uno scopo tipizzato e lecito, che è quello di incidere sull’assetto territoriale modificando il carico urbanistico, non viene meno la causa dell’accordo, né può invocarsene la nullità, solo perché vi siano inseriti elementi accessori ed atipici che non giungano ad alterare, nel suo complesso, la causa negoziale, purché tali elementi non risultino contrari a norme imperative o d’ordine pubblico, ovvero non siano in frode alla legge o frutto di un motivo illecito comune ad entrambe le parti” (TAR per il Piemonte, 15.01.2016, n. 10).
Conseguentemente, “
le prestazioni corrispettive aggiuntive, quando non esorbitino le finalità della convenzione, sono ammissibili in quanto comunque riconducibili alla funzione pubblicistica propria dell’accordo, ossia di consentire la realizzazione dell’intervento pianificatorio e di urbanizzazione di un’area. In questa prospettiva, le condizioni accessorie non sono predeterminate dalla legge ma lasciate alla libera valutazione delle parti, nell’esercizio della loro autonomia negoziale ex art. 1322 cod. civ., soggette al limite della necessaria rispondenza dell’opera alla tipologia prevista dallo strumento urbanistico ed ai parametri della ragionevolezza e della proporzionalità tra l’onere imposto e l’entità e le caratteristiche degli insediamenti” (cfr., ancora, TAR per il Piemonte, 15.01.2016, n. 10).
17.2.
Simile teorica costituisce, del resto, corollario della specifica natura delle convenzioni urbanistiche, ricomprese tra gli accordi sostitutivi di provvedimenti amministrativi, ai sensi dell’articolo 11 della Legge n. 241 del 1990, in materia urbanistica ed edilizia (cfr., Cassazione, sezioni unite, 09.03.2015, n. 4683, che conferma Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 20.07.2012, n. 28; TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 25.11.2019, n. 2495; TAR per il Veneto, Sez. II, 30.12.2016, n. 1439; TAR per la Lombardia – sede di Brescia, I, 26.03.2014, n. 298).
A tali accordi si applicano, “ove non diversamente previsto, i princìpi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili” (articolo 11, comma 2, secondo periodo, della L. n. 241 del 1990). Il legislatore impone, pertanto, l’applicazione dei principi dettati dal codice civile in materia di obbligazioni e contratti pur ponendo due limiti: il primo di questi risiede nella sussistenza di una previsione derogatrice della regola di matrice civilistica; il secondo nella compatibilità del principio civilistico con il peculiare strumento dell’accordo sostitutivo.
17.3. Incentrando la disamina sugli aspetti di rilievo per la vicenda all’attenzione del Collegio
si osserva come non sussistano regole preclusive alla possibilità di inserire impegni aggiuntivi che sono, quindi, rimessi alla volontà delle parti e alla verifica di meritevolezza rispetto all’intesse pubblico che si intende perseguire (cfr., ancora, TAR per la Lombardia – sede di Brescia, Sez. I, 03.07.2019, n. 624).
Nel caso in esame la parte privata contesta la genuinità del consenso espresso deducendo la sussistenza di una condotta fraudolenta dell’Amministrazione che inserisce nelle convenzioni prestazioni aggiuntive non previste nel documento di inquadramento pur ivi richiamato.
17.4. Simile prospettazione non può, tuttavia, essere condivisa.
17.5. Osserva, infatti, il Collegio come “
il dolo, quale vizio del consenso e causa di annullamento del contratto, assume rilevanza quando incida sul processo formativo del consenso, dando origine ad una falsa o distorta rappresentazione della realtà all'esito della quale il contraente si sia determinato a stipulare; ne consegue che l'effetto invalidante dell'errore frutto di dolo è subordinato alla circostanza, della cui prova è onerata la parte che lo deduce, che la volontà negoziale sia stata manifestata in presenza od in costanza di questa falsa rappresentazione” (Cassazione civile, Sez. II, 25.10.2019, n. 27406).
17.6. Con specifico riferimento al dolo omissivo che assumerebbe rilievo nel caso di specie si osserva come la giurisprudenza ritenga lo stesso rilevante solo laddove “
l’inerzia della parte si inserisca in un complesso comportamento adeguatamente preordinato, con malizia o astuzia, a realizzare l'inganno perseguito; pertanto, il semplice silenzio e la reticenza, anche su situazioni di interesse della controparte, non immutando la rappresentazione della realtà, ma limitandosi a non contrastare la percezione di essa alla quale sia pervenuto l'altro contraente, non costituiscono causa invalidante del contratto” (Cassazione civile, Sez. VI, 08.05.2018, n. 11009).
17.7. Come osservato in dottrina,
una simile configurazione del dolo omissivo lo muta più propriamente in un comportamento di tipo commissivo consistente in condotte ulteriori rispetto al mero silenzio (c.d. “machinatio”). Non pare, quindi, irragionevole la diversa prospettiva che mira ad attribuire rilievo anche al mero silenzio relativo ad informazioni di cui si impone la comunicazione secondo il canone di buona fede precontrattuale ex articolo 1337 c.c. pur con la precisazione che la mera violazione di tali doveri non è in se sufficiente a dar luogo all’annullamento del contratto dovendosi, comunque, accertare, il requisito della forza determinativa sulla volontà della parte contrattuale secondo il modello del dolus causam dans.
Tale prospettiva interpretativa trova conferma nel confronto con l’ordinamento francese, recentemente riformato, sul punto, dall’Ordonnance n. 2016-131 del 10.02.2016 che lega la “dissimulation intentionelle” (articolo 1137 del Code civil riformato) all’obbligo di informazione precontrattuale secondo il canone di buona fede e correttezza e richiedendo l’accertamento del carattere determinante dell’informazione.
Nella stessa direzione si muovono sia il P.E.C.L. (articolo 4:107) che il D.C.F.R. (articolo II. – 7.205) enfatizzando il rilievo da conferire alla varie circostanze ritenute necessarie per fondare un dovere comunicativo tra cui la competenza della parte, il costo per l’acquisizione dell’informazione, la capacità di conseguirla, l’importanza della stessa.
17.8. Esaminando la vicenda pur secondo i meno restrittivi presupposti delineati si osserva come non sia configurabile la figura della reticenza rilevante per decretare l’annullamento delle convenzione.
Nel caso di specie, il Comune occulterebbe il diverso contenuto del documento di inquadramento “per trarre il massimo vantaggio” (foglio 15 del ricorso introduttivo del giudizio R.G. 432/2017). Ma, invero, la portata del documento sul processo di formazione della volontà negoziale risulta necessariamente ridimensionata dalla già decretata possibilità di inserire prestazioni aggiuntive all’interno delle convenzioni di lottizzazioni. Possibilità rimessa alla volontà delle parti nell’ambito della loro negoziazione.
Non è, quindi, asseribile la sussistenza di un inganno idoneo a determinare l’errore del “deceptus” derivante dalla mera inserzione di prestazioni aggiuntive anche tenuto conto che, “sia nell'ipotesi di dolo commissivo che in quella di dolo omissivo, gli artifici o raggiri, la reticenza o il silenzio devono essere valutati in relazione alle particolari circostanze di fatto ed alle qualità e condizioni soggettive dell'altra parte, onde stabilire se erano idonei a sorprendere una personale di normale diligenza, giacché l'affidamento non può ricevere tutela giuridica se fondato su negligenza (Cassazione civile, Sez. II, 31.05.2018, n. 13872).
E, invero, anche aderendo alla più ampia e moderna prospettiva tracciata dalla dottrina si osserva come sia, comunque, necessario verificare il nesso di causalità tra il silenzio di una parte e l’errore in cui l’altra asserisce di essere incorsa anche tenendo conto delle condizioni soggettive delle stesse. Nel caso di specie, si tratta di un operatore qualificato che, della concreta portata delle convenzioni, avrebbe potuto certamente rendersi conto con uno sforzo contenuto nei limiti dell’ordinaria diligenza.
17.9. Né, invero, risultano sussistenti i presupposti per dichiarare il vizio del consenso derivante da errore. Prescindendo dalle questioni processuali relative ai limiti della domanda (cfr. Cassazione civile, Sez. II, 19.04.2012, n. 6136, anteriore, comunque, alle rilevanti affermazioni di Cassazione civile, Sezioni unite, 13.09.2018, n. 22404), si osserva, in ogni caso, come nel caso di specie non risulti ipotizzabile la riconoscibilità dell’errore in relazione al contenuto, alle circostanze del contratto ovvero alla qualità dei contraenti.
E’ agevole notare, infatti, come l’Amministrazione comunale non poteva rendersi conto della ritenuta erroneità della volontà espressa dalla parte privata essendo chiaro dal documento contrattuale l’impegno alla corresponsione degli oneri perequativi e non risultando circostanze diverse che potevano far desumere una diversa volontà (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.02.2020 n. 323 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ESPROPRIAZIONEL’Adunanza plenaria pronuncia sulla possibilità di emanare un atto di imposizione di una servitù di passaggio in caso di giudicato restitutorio civile del bene occupato sine titulo dalla P.A..
---------------
  
Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione - Sine titulo – Art. 42-bis, d.P.R. n. 327 del 2001 – Applicabilità.
  
Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione - Sine titulo – Obbligo di restituzione derivante da giudicato civile - Imposizione servitù di passaggio – Preclusione per giudicato civile o amministrativo – Esclusione.
   L’art. 42-bis, d.P.R. 08.06.2001, n. 327 si applica a tutte le ipotesi in cui un bene immobile altrui sia utilizzato e modificato dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico, in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, e dunque quale che sia la ragione che abbia determinato l’assenza di titolo che legittima alla disponibilità del bene (1).
  
Il giudicato restitutorio (amministrativo o civile), inerente all’obbligo di restituire un’area al proprietario da parte dell’Amministrazione occupante sine titulo, non preclude l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù, in esercizio del potere ex art. 42-bis, comma 6, DPR 08.06.2001 n. 327, poiché questo presuppone il mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare (2).
---------------
   Le questioni sono state rimesse dalla sez. IV con ord. 15.07.2019, n. 4950.
   (1) Ha chiarito a Sezione che la verifica della “compatibilità” del decreto di acquisizione ex art. 42-bis, d.P.R. 08.06.2001, n. 327 con un giudicato restitutorio, in specie formatosi su sentenza del giudice civile dichiarativa della nullità di un contratto di compravendita (o, se si preferisce, la possibilità di esercizio del potere ex art. 42-bis pur in presenza di una sentenza passata in giudicato che ordina la restituzione del bene), presuppone la previa risoluzione del problema costituito dall’ambito di applicazione del medesimo art. 42-bis (se esso possa, cioè, applicarsi anche in ipotesi diverse da quelle ritenute dalla sentenza impugnata) di modo che:
   - se si considera tale disposizione applicabile (come vuole l’ordinanza) “ad ogni caso in cui –per qualsiasi ragione– un bene immobile altrui sia utilizzato dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico”, allora (e solo allora) potrà verificarsi se, più specificamente, il potere conferito dall’art. 42-bis potrà essere esercitato anche in presenza di un giudicato restitutorio (e, ancor più specificamente, come nel caso di specie, in presenza di una sentenza declaratoria della nullità di un contratto di compravendita);
   - se, invece, si considera l’art. 42-bis limitato “solo a vicende in cui la P.A. agisce nella sua veste di autorità” (come sostiene la sentenza impugnata), allora appare evidente come nessuno dei quesiti posti dall’ordinanza di rimessione potrebbe essere esaminato nel merito (e tanto meno ricevere risposta nei sensi prospettati dall’ordinanza).
In definitiva, la prospettazione dei quesiti così come articolata si fonda su un presupposto (l’ambito “ampio” di applicazione dell’art. 42-bis), assunto come “acquisito”, mentre esso deve essere oggetto di necessaria verifica nella presente sede.
E ciò anche al fine di evitare che –non esaminando tale presupposto logico-giuridico dei quesiti espressamente formulati- si possa pervenire ad una implicita (e dunque non chiara) adesione, da parte della Adunanza Plenaria, alla tesi della positiva sussistenza di quello che si è definito l’ambito “ampio” di applicazione dell’art. 42-bis (la cui applicabilità potrebbe essere eventualmente esclusa per ragioni specifiche, ma non per una sua propria limitazione ontologica).
In conclusione, occorre, innanzi tutto, definire l’ambito di applicazione dell’art. 42-bis DPR n. 327 del 2001, anche al fine, come si è detto, di scrutinare il primo motivo di appello (sub lett. a) dell’esposizione in fatto.
Così impostata la questione sottoposta a giudizio, l’Adunanza Plenaria ritiene che l’art. 42-bis DPR 08.06.2001 n. 327 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità) trovi applicazione in tutti i casi in cui un bene immobile altrui sia nella disponibilità e sia stato utilizzato dall’amministrazione pubblica per finalità di pubblico interesse, pur in assenza di titolo.
Adunanza Plenaria (sent. 09.02.2016 n. 2) ha già affermato come l’art. 42-bis “introduce una norma di natura eccezionale” e che l’acquisizione ivi prevista “costituisce una delle possibili cause legali di estinzione di un fatto illecito”.
Tale articolo “configura un procedimento ablatorio sui generis, caratterizzato da una precisa base legale, semplificato nella struttura (uno actu perficitur), complesso negli effetti (che si producono sempre e comunque ex nunc), il cui scopo non è (e non può essere) quello di sanatoria di un precedente illecito perpetrato dall'Amministrazione (perché altrimenti integrerebbe una espropriazione indiretta per ciò solo vietata), bensì quello autonomo, rispetto alle ragioni che hanno ispirato la pregressa occupazione contra ius, consistente nella soddisfazione di imperiose esigenze pubbliche, redimibili esclusivamente attraverso il mantenimento e la gestione di qualsiasi opera dell'infrastruttura realizzata sine titulo”.
La natura di “norma di chiusura”, propria dell’art. 42-bis –desumibile anche dai principi (ora riportati) già espressi da questa Adunanza Plenaria- rende evidente la finalità di ricondurre nell’alveo legale del sistema tutte le situazioni in cui l’amministrazione, quale che ne sia la causa, si trovi ad avere utilizzato la proprietà privata per ragioni di pubblico interesse, ma in difetto di un valido titolo legittimante.
Ne consegue che il dato letterale della norma non osta all’applicazione dell’art. 42-bis nelle ipotesi in cui il difetto di titolo si manifesti per intervenuta declaratoria di nullità ovvero per annullamento del contratto di compravendita.
La possibilità di consentire l’applicazione dell’art. 42-bis (e, quindi, del decreto di acquisizione) in tutte le ipotesi in cui –come sostenuto dall’ordinanza di rimessione- “per qualsiasi ragione un bene immobile altrui sia utilizzato dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico”, oltre a non essere impedita dal dato letterale della disposizione, risulta coerente anche con un inquadramento logico-sistematico della disposizione medesima, nell’ambito di una più generale riflessione sull’attività amministrativa e sugli strumenti ad essa inerenti.
A fronte del testo dell’art. 42-bis che richiede che l’utilizzazione sine titulo del bene deve essere comunque intervenuta “per scopi di interesse pubblico”, giova ricordare che l’attività della pubblica amministrazione risulta costantemente funzionalizzata alla cura, tutela, perseguimento dell’interesse pubblico, sia che a tali fini vengano esercitati poteri pubblicistici ad essa conferiti –e dei quali l’interesse pubblico costituisce, al tempo stesso, la causa dell’attribuzione e la giustificazione dell’esercizio in concreto– sia che vengano utilizzati strumenti propri del diritto privato, in un contesto generale già delineato attraverso l’esercizio di potestà pubbliche.
Tale affermazione, che può essere ritenuta ormai principio acquisito dall’ordinamento, trova il suo riscontro nell’art. 1, l. 07.08.1990 n. 241, che, nell’enunciare i “principi generali dell’attività amministrativa”, prevede che la stessa si effettui sia mediante l’esercizio di poteri autoritativi, sia ricorrendo ad istituti di diritto privato (“salvo che la legge non disponga diversamente”).
L’azione amministrativa che si concretizza nell’emanazione di provvedimenti amministrativi, ovvero quella che si svolge, in forma paritetica, attraverso la sottoscrizione di accordi con i soggetti privati (art. 11, l. n. 241 del 1990, in particolare attraverso gli accordi sostitutivi di provvedimento), così come la stessa azione che utilizza direttamente strumenti disciplinati dal diritto privato (in specie, contratti), partecipa dell’unica (ed unificante) ragione di interesse pubblico, che la sorregge e giustifica, rappresentandone la causa in senso giuridico.
Con la precisazione che, mentre nelle prime due ipotesi le finalità di pubblico interesse sono implicite nello stesso ricorso ad atti “tipici”, quali il provvedimento amministrativo o l’accordo (procedimentale o sostitutivo), nella terza ipotesi il ricorso ad atti di diritto privato (e, segnatamente, contratti tipici e nominati previsti dal codice civile) in tanto può essere ricondotta all’ambito di una azione amministrativa funzionalizzata, in quanto essa si iscriva, anche in ossequio al principio di legalità dell’azione amministrativa, in un contesto di finalità di interesse pubblico, previamente definito mediante l’esercizio dei poteri all’uopo occorrenti e obiettivamente accertabile.
Proprio tale più generale immanenza dell’interesse pubblico, anche in ipotesi ulteriori rispetto a quella di natura provvedimentale, ha già fatto più volte affermare alla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. IV, 15.05.2017 n. 2256, 19.08.2016 n. 3653, 03.12.2015 n. 5510; sez. V, 05.12.2013 n. 5786; sez. V, 14.10.2013 n. 5000), la irriducibilità degli accordi di cui all’art. 11 della l. n. 241/1990 a meri “strumenti di matrice civilistica”.
Si è a tal fine osservato che “fermi i casi di contratti di diritto privato (per i quali trovano certamente applicazione le disposizioni del codice civile), nei casi invece di contratto ad oggetto pubblico l’amministrazione mantiene comunque la sua tradizionale posizione di supremazia; tali contratti non sono disciplinati dalle regole proprie del diritto privato, ma meramente dai “principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti”, sempre “in quanto compatibili” e salvo che “non diversamente previsto”.
Orbene, alle ipotesi costituite da accordi tra amministrazione e privati -e specificamente accordi sostitutivi aventi contenuto patrimoniale (cui, secondo una definizione comunemente invalsa, può attribuirsi il nomen di “contratti ad oggetto pubblico”, in quanto disciplinanti aspetti patrimoniali connessi all’esercizio di potestà: v. Cons. Stato, sez. IV, n. 2256/2017 cit.)- ben possono affiancarsi le ipotesi in cui l’amministrazione stipuli contratti di diritto privato in un quadro che –pur non caratterizzato dallo svolgimento di un procedimento amministrativo o in sostituzione di questo– risulta tuttavia già delineato dal precedente esercizio di poteri pubblici, con i quali si è già provveduto ad individuare le finalità di pubblico interesse da perseguire.
Con riguardo ai cd. contratti ad oggetto pubblico ed ai cd. contratti ad evidenza pubblica, la giurisprudenza amministrativa ha già avuto modo di osservare (Cons. Stato, sez. IV, n. 2256/2017 cit.) come la finalità di pubblico interesse ne determini diversamente il contenuto.
Nei primi (contratti ad oggetto pubblico), la predetta finalità “non costituisce (né lo potrebbe) una “immanenza” esterna alla convenzione/contratto, ma essa –in quanto la Pubblica Amministrazione persegue sempre nella sua azione interessi pubblici, in conformità al principio di legalità, quale che sia il modulo utilizzato- conforma il contratto medesimo, ed in particolare –proprio in ragione delle definizioni che il diritto privato ne offre– gli elementi essenziali della causa e dell’oggetto”.
Nei secondi (contratti ad evidenza pubblica) -laddove non è presente una regolazione degli aspetti patrimoniali dell’esercizio della potestà, ma sono presenti solo procedimenti antecedenti al contratto, volti ad individuare il soggetto contraente con la pubblica amministrazione- tuttavia “una volta scelto il contraente, il contratto stipulato successivamente alla fase di evidenza pubblica non rifluisce “immediatamente” nella più generale disciplina del codice civile e delle ulteriori disposizioni che eventualmente regolano il rapporto patrimoniale consensualmente instaurato tra privati. Ciò è a tutta evidenza negato dalla stessa presenza di una (copiosa) disciplina speciale che normalmente assiste il momento genetico e quello funzionale del contratto, e che non può che giustificarsi se non in ragione della “particolare natura” dello stesso; laddove tale “particolare” natura non è costituita dall’esservi la pubblica amministrazione quale soggetto contraente, bensì dall’essere la causa e l’oggetto del contratto differentemente conformati, in ragione delle finalità di interesse pubblico perseguite con il contratto, e dunque con l’adempimento delle obbligazioni assunte per il tramite delle rispettive prestazioni (a seconda dei casi, l’opus o il servizio)”.
In definitiva, nei casi in cui la pubblica amministrazione –dopo avere individuato per il tramite di un generale e preventivo atto di esercizio di potestà, anche in ossequio al principio di legalità, la finalità di pubblico interesse– decida di perseguire quest’ultima non già attraverso procedimenti amministrativi tipici ed esercizio di poteri provvedimentali, bensì ricorrendo a ordinari modelli privatistici (nei limiti consentiti dall’ordinamento), la predetta finalità di interesse pubblico resta immanente al contratto ed al rapporto così posto in essere.
Ciò comporta, di conseguenza, che, laddove la finalità di pubblico interesse non risulta (o non risulta più) essere perseguita (o perseguibile) per il tramite del contratto, non può escludersi, in generale, che l’amministrazione possa intervenire sul rapporto insorto (ovvero sulle conseguenze di fatto di un rapporto comunque cessato) per il tramite dell’esercizio di poteri pubblicistici.
Non può, dunque, condividersi la sentenza impugnata laddove essa afferma che sarebbe contrario “ai principi costituzionali e sovranazionali consentire alla P.A. che agisce in veste di contraente privato di mutare in corso di rapporto la natura del potere speso, perché ciò attribuirebbe alla parte pubblica un privilegio confliggente quantomeno con gli artt. 3 e 42 Cost.”.
   (2) Ha chiarito l’Alto consesso che perché possa prodursi l’effetto preclusivo derivante dal giudicato restitutorio, occorre che la sentenza preveda espressamente, in accoglimento di una specifica domanda avanzata in tal senso dal ricorrente o dall’attore, la condanna dell’amministrazione alla restituzione del bene; per altro verso, l’effetto preclusivo, in quanto derivante, come si è detto, da una espressa condanna alla restituzione del bene, si realizza con riguardo al provvedimento ex art. 42-bis, comma 2, comportante l’acquisizione dello stesso alla proprietà pubblica (in particolare, al patrimonio indisponibile della medesima) e non può, quindi, inibire anche l’adozione del diverso provvedimento di imposizione di servitù, di cui al successivo comma 6.
Quanto a questo secondo aspetto, la sentenza coperta da giudicato in senso sostanziale, ex art. 2909 c.c., fa stato tra le parti, i loro eredi ed aventi causa, nei limiti oggettivi costituiti dai suoi elementi costitutivi, ovvero il titolo della stessa azione (causa petendi) e il bene della vita che ne forma oggetto (cd. petitum mediato).
Appare, dunque, evidente come, se oggetto del petitum è il recupero del bene alla piena proprietà e disponibilità del soggetto privato originariamente proprietario, non rientra nell’ambito oggettivo del giudicato, e dunque non si pone in contrasto con lo stesso, un provvedimento che, senza incidere sulla titolarità del bene, imponga sullo stesso ex novo (e, quindi, ex nunc) una servitù, trattandosi di ipotesi affatto diversa da quella inibita dal giudicato e assolutamente coerente con, e anzi presupponente, il mantenimento della proprietà in capo al privato (
Consiglio di Stato, A.P., sentenza 18.02.2020 n. 5 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAL’utilizzo seppur temporaneo ad attività di culto di un immobile avente una destinazione ad ambiti industriali, artigianali, commerciali, direzionali palesa un utilizzo dello stesso non compatibile con l’attuale destinazione, visto che in assenza di un conforme titolo edilizio (permesso di costruire ai sensi dell’art. 52, comma 3-bis, della legge regionale n. 12 del 2005), che consenta il cambio d’uso, non si può accertare l’idoneità dell’immobile a sostenere il significativo aggravio di carico urbanistico.
Invero, la destinazione funzionale a luogo di culto può dirsi impressa allorché l’edificio costituisca un forte centro di aggregazione umana e richieda quindi, attraverso l’acquisizione del permesso di costruire, la verifica delle dotazioni di attrezzature pubbliche rapportate a detta destinazione.
La necessità del titolo edilizio per cambio di destinazione discende dalla diversità funzionale tra le attività commerciali o industriali/artigianali e quelle culturali e di culto, che rappresentano categorie urbanistiche autonome, cui si correla un differente carico insediativo, certamente maggiore per le seconde.
Difatti, il fondamento di quanto in precedenza sostenuto è quello di consentire all’Amministrazione comunale poter controllare (ex ante) la conformità alla disciplina urbanistica delle strutture che, essendo suscettibili di richiamare un notevole afflusso di persone, comportano un conseguente notevole aggravio di carico urbanistico sul territorio.
---------------

3. Quanto alla regolazione della spese di giudizio, in assenza di un accordo delle parti sul punto e al fine di verificare la soccombenza virtuale, va sottolineato come nella fattispecie de qua sia stato chiesto al Comune l’assenso ad adibire temporaneamente ad attività di culto un immobile avente una destinazione, ancora attuale, ad ambiti industriali, artigianali, commerciali, direzionali.
L’utilizzazione di tale immobile quale luogo di preghiera, seppure in via temporanea, palesa un utilizzo dello stesso non compatibile con l’attuale destinazione, visto che in assenza di un conforme titolo edilizio (permesso di costruire ai sensi dell’art. 52, comma 3-bis, della legge regionale n. 12 del 2005), che consenta il cambio d’uso, non si può accertare l’idoneità dell’immobile a sostenere il significativo aggravio di carico urbanistico (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 08.11.2013, n. 2486, secondo cui la destinazione funzionale a luogo di culto può dirsi impressa allorché l’edificio costituisca un forte centro di aggregazione umana e richieda quindi, attraverso l’acquisizione del permesso di costruire, la verifica delle dotazioni di attrezzature pubbliche rapportate a detta destinazione).
La necessità del titolo edilizio per cambio di destinazione discende dalla diversità funzionale tra le attività commerciali o industriali/artigianali e quelle culturali e di culto, che rappresentano categorie urbanistiche autonome, cui si correla un differente carico insediativo, certamente maggiore per le seconde (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 30.09.2019, n. 2053; 18.06.2019, n. 1411).
Difatti, il fondamento di quanto in precedenza sostenuto è quello di consentire all’Amministrazione comunale poter controllare (ex ante) la conformità alla disciplina urbanistica delle strutture che, essendo suscettibili di richiamare un notevole afflusso di persone, comportano un conseguente notevole aggravio di carico urbanistico sul territorio (Consiglio di Stato, VI, 05.07.2019, n. 4681) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.02.2020 n. 317 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTIL’art. 97 d.lgs. n. 50/2016 attribuisce la competenza ad effettuare la verifica dell’anomalia dell’offerta, alla “stazione appaltante”, senza specificare a quale organo della stessa.
L'art. 31 d.lgs. n. 50/2016, oltre a indicare alcuni specifici compiti del R.U.P., ne delinea la competenza in termini residuali, precisando che "quest'ultimo, svolge tutti i compiti relativi alle procedure di programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione previste dal presente codice, che non siano specificatamente attribuiti ad altri organi o soggetti";
Tra i compiti espressamente attribuiti alla commissione giudicatrice di cui all'art. 77 d.lgs. n. 50/2016 non figura la verifica dell'anomalia dell'offerta, ragione per cui tale attività deve essere ricompresa nella competenza del R.U.P..
---------------
Per giurisprudenza consolidata, il giudizio circa l'anomalia o l'incongruità dell'offerta è tipica espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile dal giudice amministrativo solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale.
---------------

Con il primo motivo la ricorrente ha contestato la legittimità del provvedimento di esclusione –e in via subordinata del bando di gara- in quanto la verifica di congruità dell’offerta non è stata effettuata dalla commissione giudicatrice, ma da due tecnici i quali non sarebbero “esperti nello specifico settore cui afferisce l’oggetto del contratto”, in violazione dell’art. 77, d.lgs. n. 50/2016: trattandosi di un geometra e un architetto sarebbe preclusa loro ogni valutazione che riguardi opere idrauliche.
La censura è infondata.
L’art. 97 d.lgs. n. 50/2016 attribuisce la competenza ad effettuare la verifica dell’anomalia dell’offerta, alla “stazione appaltante”, senza specificare a quale organo della stessa.
L'art. 31 d.lgs. n. 50/2016, oltre a indicare alcuni specifici compiti del R.U.P., ne delinea la competenza in termini residuali, precisando che "quest'ultimo, svolge tutti i compiti relativi alle procedure di programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione previste dal presente codice, che non siano specificatamente attribuiti ad altri organi o soggetti";
Tra i compiti espressamente attribuiti alla commissione giudicatrice di cui all'art. 77 d.lgs. n. 50/2016 non figura la verifica dell'anomalia dell'offerta, ragione per cui tale attività deve essere ricompresa nella competenza del R.U.P. (cfr. Tar Campania, Napoli, sez. I, 11/03/2019, n. 1382; Cons. Stato, sez. V, 19.11.2018, n. 6522).
Nel caso di specie, in cui la valutazione di anomalia è stata effettuata dal RUP, con l’ausilio di due dipendenti del Consorzio (un geometra e un architetto) il provvedimento impugnato non è pertanto affetto dai vizi dedotti.
In particolare, non viene in rilievo il divieto -invocato dalla ricorrente- per geometri e architetti di svolgere attività professionale implicante valutazioni in materia di opere idrauliche, con riferimento a un giudizio che ha ad oggetto la congruità dell’offerta e che, in forza di quanto si è affermato, è attribuito dalla legge alla competenza del responsabile unico del procedimento.
Con il secondo motivo viene contestato che:
   - l’amministrazione avrebbe espresso un giudizio avente ad oggetto non già l’offerta nel suo complesso, bensì singoli elementi della stessa: il Consorzio avrebbe analizzato soltanto 50 categorie della lista di 125 categorie di lavorazioni e solamente una delle 50 (la tempistica del trasporto o l’utilizzo di mezzi d’opera) sarebbe stata ritenuta non congrua;
   - la valutazione di congruità sarebbe poi viziata per difetto di motivazione poiché non sarebbe dato comprendere quanto la peculiarità delle lavorazioni di cui alle voci D24, D25, D26, D29, D30 e D33, relative alla fornitura e posa in opera e collaudo di paratoia (legata alla circostanza che la fornitura è stata effettuata da una precedente impresa) abbia inciso sul giudizio di congruità compiuto dal Consorzio; né sarebbe l’indicato l’esito della verifica di tali voci;
   - l’incidenza dei maggiori costi calcolati dall’amministrazione sarebbe minima rispetto all’ammontare complessivo dell’offerta di gara. Non sarebbero stati, poi, specificati, in maniera puntuale, gli elementi e il criterio di calcolo che hanno condotto il Consorzio alla quantificazione di tali costi;
   - l’amministrazione non avrebbe tenuto conto del fatto che i costi complessivi dell’appalto, sulla base dell’offerta della ricorrente, sarebbero diminuiti in relazione alla riduzione dei tempi di utilizzo della manodopera, mentre sarebbe incongruo il costo della manodopera stimato dal Consorzio nel capitolato;
   - i maggiori costi contestati, nell’economia generale dell’appalto, verrebbero assorbiti nell’utile di impresa, valutato nella misura pari al 10% dell’offerta complessiva;
   - quanto ai tempi di esecuzione di alcune lavorazioni, essi troverebbero giustificazione nell’utilizzo di operai specializzati; la sostenibilità del livello realizzativo proposto dalla ricorrente sarebbe comprovata anche da una comunicazione del fornitore delle condotte, che ha preventivato la posa di n. 10 barre da 12,00 ml cadauna al giorno per le condotte in PRFV, per un totale quindi di 120 ml di barra al giorno (e non di 133 ml, come affermato dal Consorzio).
La censura è infondata.
Per giurisprudenza consolidata, il giudizio circa l'anomalia o l'incongruità dell'offerta è tipica espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile dal giudice amministrativo solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale (cfr., tra le tante, Cons. Stato, sez. V, 17.05.2018, n. 2953; 24.08.2018, n. 5047; sez. III, 18.09.2018, n. 5444 (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 17.02.2020 n. 130 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTIImpugnazione con atto di motivi aggiunti dell’aggiudicazione se l’ammissione di altro concorrente è stato impugnato con rito super accelerato.
---------------
Processo amministrativo – Rito appalti – Aggiudicazione – impugnazione – Con motivi aggiunti – Impugnazione ammissione con rito super accelerato - Ammissibilità dei motivi aggiunti.
E’ ammissibile l’atto di motivi aggiunti proposto per gravare l’aggiudicazione intervenuta nelle more del giudizio iniziato con l’impugnazione dell’ammissione di altro concorrente con rito super accelerato ai sensi dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. (1).
---------------
   (1) Ha ricordato il C.g.a. che comma 7 ratione temporis vigente dell’art. 120 c.p.a. dispone, con riferimento al primo grado di giudizio, che “i nuovi atti attinenti la medesima procedura di gara devono essere impugnati con ricorso per motivi aggiunti” e ciò “ad eccezione dei casi di cui al comma 2-bis” (deroga inserita proprio dalla fonte che ha introdotto i commi 2-bis e 6-bis nell’articolo in esame).
La regola dettata dal comma 7 si compone di due prescrizioni.
La prima stabilisce l’obbligo di impugnazione con motivo aggiunti degli atti successivi a quelli già impugnati nell’ambito delle procedure di affidamento di cui all’art. 120, comma 1, c.p.a.. Posto che gli atti successivi (lesivi) debbono essere impugnati pena il venir meno dell’interesse a ricorrere avverso i primi, il gravame deve essere disposto, in ragione del principio di concentrazione, davanti al medesimo giudice al fine di assicurare il simultaneus processus. D’altro canto la legittimazione a impugnare gli atti successivi, aggiudicazione inclusa, deriva dalla proposizione del giudizio relativo alla fase antecedente.
La concentrazione processuale garantita dal comma 7 dell’art. 120 c.p.a. è il portato di siffatta relazione bidirezionale che collega le condizioni dell’azione esercitata con l’impugnazione degli atti precedenti rispetto alle condizioni di ammissibilità del gravame avente ad oggetto i provvedimenti successivi.
La seconda prescrizione stabilisce la mancanza dell’obbligo (di impugnazione con motivi aggiunti) in relazione agli atti che seguono i provvedimenti di ammissione ed esclusione impugnati ai sensi dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a..
Il tenore letterale del comma 7 non si spinge oltre. L’unica indicazione che stabilisce è quella relativa all’eccezione rispetto all’obbligo di impugnare con motivi aggiunti gli atti successivi delle procedure di affidamento. Dal che deriva l’assenza dell’imposizione di gravare con motivi aggiunti i provvedimenti posteriori (con conseguente perdurante facoltà di presentare motivi aggiunti verso tali atti), che è cosa diversa dal divieto di impugnarli con motivi aggiunti.
Il tenore letterale del comma 7 non supporta pertanto, dal punto di vista letterale, la previsione del divieto di presentazione di motivi aggiunti successivi a un ricorso presentato ai sensi del comma 2-bis.
Né la ratio dell’istituto introdotto con il comma 2-bis depone nel senso di interpretarlo quale divieto di impugnare i provvedimenti posteriori con motivi aggiunti.
La suddetta previsione (l’eccezione contenuta nel comma 7), infatti, si inscrive e si giustifica in relazione al rito superaccelerato introdotto con il comma 2-bis, che muove da una concezione bifasica della gara, in cui la fase preliminare dell’ammissione, all’esito dell’accertamento dei requisiti di partecipazione, precede quella della valutazione delle offerte.
Specularmente è stato introdotto, con il comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a., un meccanismo processuale che riproduce e assicura la biforcazione del procedimento ad evidenza pubblica, distinguendo fra impugnazione dei provvedimenti che individuano i soggetti idonei a parteciparvi e gravame relativo agli atti successivi.
L’obiettivo della legge 28.01.2016, n. 11, art. 1, comma 1, lett. bbb), attuato dall’art. 204, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 50 del 2016 con l’introduzione dei commi 2-bis e 6-bis nell’art. 120 c.p.a., è la cristallizzazione definitiva della platea dei concorrenti prima dell’aggiudicazione. In particolare, con esso il Governo è stato delegato a introdurre “un rito speciale in camera di consiglio che consente l’immediata risoluzione del contenzioso relativo all’impugnazione dei provvedimenti di esclusione dalla gara o di ammissione alla gara per carenza dei requisiti di partecipazione”, laddove immediata sta per anteriore al successivo svolgimento della procedura di gara, ossia alla (fase della valutazione delle offerte che culmina con il provvedimento di) aggiudicazione.
L’istituto processuale immesso nel codice per il raggiungimento dell’obiettivo di cristallizzare in via definitiva la platea dei concorrenti prima dell’aggiudicazione si basa sull’onere d’immediata impugnazione della (propria) esclusione e delle (altrui) ammissioni (art. 120, comma 2-bis, c.p.a.), con annessa preclusione della deduzione di vizi attinenti alla fase preliminare dell’ammissione in sede di impugnazione dei successivi provvedimenti di aggiudicazione (“L’omessa impugnazione preclude la facoltà di far valere l’illegittimità derivata dei successivi atti delle procedure di affidamento anche con ricorso incidentale”). Esso è accompagnato dall’introduzione, al comma 6 bis dell’art. 120 c.p.a., di termini acceleratori del giudizio riguardante la fase preliminare della gara (da cui l’appellativo di giudizio superaccelerato), finalizzati a coadiuvare il raggiungimento dell’obiettivo.
Il suddetto schema processuale comporta, almeno nella fisiologia del suo atteggiarsi, che la legittimazione all’impugnazione dell’aggiudicazione si fondi non sulla mera proposizione del gravame (così come invece succede nelle altre fattispecie nella quale interviene la regola generale di cui al comma 7) ma sulla definizione giurisdizionale dell’ammissione del concorrente.
Viene pertanto meno quella correlazione che spiega il simultaneus processus in relazione alla regola generale contenuta nel comma 7 dell’art. 120 c.p.a.: non si pone un problema di impugnazione degli atti successivi al fine di evitare il sopravvenuto difetto di interesse, né si prospetta una legittimazione fondata sulla proposizione del primo ricorso, posto che il giudizio introdotto da quest’ultimo si è ormai definito.
A fronte della regola generale che chiede l’impugnazione con motivi aggiunti degli atti successivi delle procedure di affidamento rispetto a quelli già gravati, l’eccezione dettata nel comma 7 è funzionale a non intralciare lo scopo del rito superaccelerato, che vuole la predefinizione, anche giurisdizionale, della platea dei partecipanti alla gara.
La finalità del giudizio superaccelerato ne segna la ragion d’essere e influenza i limiti applicativi (CGARS, sentenza 14.02.2020 n. 123 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVIDanno da ritardo nel rilascio di una concessione demaniale marittima.
---------------
Risarcimento danni – Danno da ritardo - Concessione demaniale marittima – Rilascio – Ritardo – Colpa del Comune - Oscurità e contraddittorietà della normativa di settore sui porti turistici - Inconfigurabilità del danno da ritardo.
In tema di risarcimento danni da ritardo nel rilascio della concessione demaniale marittima e specchio acqueo finalizzati alla realizzazione di un complesso turistico ricettivo e porto turistico non è configurabile la colpa di un Comune error iuris scusabile per oscurità e contraddittorietà della normativa di settore sui porti turistici (1).
---------------
   (1) Si veda ad esempio la sovrapposizione e la confusione tra accordo di programma ex d.P.R. n. 447 del 1998 e conferenza di servizi ex d.P.R. n. 509 del 1997. Il che, ponendo le amministrazioni, anche loro malgrado, in condizione di non poter identificare con certezza i procedimenti e le modalità procedimentali del loro doveroso agire, e prima ancora le loro competenze al riguardo, è ragionevolmente a base del risultato lesivo da ritardo (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.02.2020 n. 1181 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTI: Il soccorso istruttorio non è applicabile per le offerte tecniche.
Nelle gare pubbliche per l’affidamento di un contratto, la stazione appaltante non può consentire ad un partecipante, tramite soccorso istruttorio, di sostituire ovvero completare l’originaria offerta, carente di alcune essenziali specifiche, prescritte a pena di esclusione dal capitolato speciale di appalto, con una successiva offerta, perché in questo modo si avrebbe incertezza assoluta o indeterminatezza del contenuto della proposta contrattuale in violazione della par condicio competitorum.
---------------
E’ dunque accaduto –e sul punto nulla contesta l’A.- che l’originaria offerta tecnica proposta da OE.GR., in tutta evidenza carente di talune specifiche essenziali prescritte dal capitolato speciale di appalto, sia stata sostituita da una successiva (anch’essa parzialmente incompleta) il che contrasta chiaramente col principio di immutabilità dell’offerta tecnica, in quanto la stazione appaltante non può consentire di modificare o integrare il contenuto dell'offerta tecnica di gara con il cd. soccorso istruttorio e così determinare incertezza assoluta o indeterminatezza del suo contenuto in violazione della par condicio competitorum (Consiglio di Stato sez. V, 03/04/2018, n. 2069; 04/04/2019, n. 2219) .
Il ricorso è pertanto fondato e va accolto col conseguente annullamento dell’impugnata aggiudicazione e la declaratoria di inefficacia del contratto di appalto, ove effettivamente stipulato. In considerazione di ciò non si fa luogo all'esame della domanda di risarcimento del danno per equivalente, proposta solo in via subordinata (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 14.02.2020 n. 359 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

CONSIGLIERI COMUNALIBarriere architettoniche, il Comune che non le elimina discrimina indirettamente il consigliere disabile.
Il Comune attua una forma di «discriminazione indiretta» contro il consigliere disabile se non rimuove le barriere architettoniche che gli impediscono di accedere "in via autonoma" alla sala consiliare. L'ente locale è tenuto a risarcirgli i danni subiti in relazione a tutto il periodo in cui il suo diritto di accesso è stato impedito a meno dell'aiuto di terzi, per quanto messi a disposizione dall'ente stesso. E, la successiva installazione di un'ascensore per disabili non cancella i disagi subiti che sono appunto il danno ingiusto risarcibile in termini di responsabilità aquiliana.

La Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la sentenza 13.02.2020 n. 3691 conferma -a carico del Comune- il risarcimento del danno, quantificato in via equitativa, in favore del consigliere penalizzato dalla mancata predisposizione di modifiche architettoniche o di sistemi ad hoc per rendere accessibili i luoghi pubblici di sua appartenenti a chi sia portatore di disabilità.
A nulla rilevando che in alternativa al sostegno fisico del personale comunale di servizio il Comune avesse anche deciso di tenere le assemblee consiliari nella palestra elementare proprio per favorire il consigliere in difficoltà. Si tratta, comunque di quella discriminazione indiretta -a norma del comma 3 dell'articolo 2 della legge 67/2006- che non è mirata contro una singola persona concretamente danneggiata dallo stato dei luoghi, ma rileva per la sua potenzialità lesiva dei diritti dei disabili coinvolti dalla situazione di fatto.
Quindi la mancanza di volontà di discriminare una specifica persona non fa venir meno la violazione dei diritti costituzionalmente garantiti ai portatori di handicap fisico.
L'elemento soggettivo che rileva non è l'intenzione volontaria o colpevole di arrecare un danno, ma la negligenza e la mera inerzia del soggetto chiamato ad adempiere al dovere di rimuovere le barriere architettoniche per consentire il corrispondente esercizio del diritto all'accessibilità. Come dice la Cassazione la discriminazione indiretta si realizza anche con «comportamenti neutri». Mentre non è elemento neutro, bensì fonte di responsabilità aquiliana, la mancata predisposizione di mezzi tesi a migliorare l'accesso dei disabili agli edifici già costruiti, in attesa di interventi definitivi maggiormente migliorativi per l'esercizio del relativo diritto.
Infatti, per tale motivo la Cassazione ha confermato il ragionamento dei giudici di appello che avevano respinto la lamentela del Comune sul proprio obbligo di risarcire, in quanto aveva predisposto un mezzo ("trattorino") che seppur non adeguato a garantire l'accesso autonomo del disabile dimostrava l'intenzione di superamento delle barriere architettoniche. Invece, nelle more dell'intervento edilizio risolutivo sussiste la responsabilità anche per la misura provvisoria inadeguata allo scopo. Ovviamente tale qualità di adeguatezza (in questo caso, di un montascale piuttosto che di un trattorino) è valutazione di merito non ridiscutibile in sede di legittimità.
Infine il Comune contestava la liquidazione del danno in via equitativa facendo rilevare il proprio sforzo di contemperare i limiti fisici di un edificio anni '50 con l'esigenza di accedere da parte del consigliere disabile. La Cassazione fa notare che è l'inadeguatezza dell'azione messa in campo a tutela della persona disabile a determinare il vulnus risarcibile. In questo caso si è trattato della predisposizione di un mezzo insicuro e non utilizzabile in via autonoma da parte del fruitore.
Conclude la Cassazione che in sede di legittimità è insindacabile il giudizio del giudice di merito che ravvisa i presupposti del risarcimento in via equitativa, mentre deve essere percepibile e quindi ricorribile in Cassazione l'eventuale carenza motivazionale sul calcolo del quantum (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.02.2020).
-----------------
MASSIMA
6. Il ricorso va rigettato.
6.1. In particolare, il primo motivo è in parte non fondato e in parte inammissibile.
6.1.1. La censura è, in particolare, non fondata, laddove pretende di attribuire natura programmatica alle norme che impongono l'eliminazione delle barriere architettoniche.
Giova premettere, al riguardo, come questa Corte abbia già affermato che
l'esistenza di "ampia definizione legislativa e regolamentare di barriere architettoniche e di accessibilità rende la normativa sull'obbligo dell'eliminazione delle prime, e sul diritto alla seconda per le persone con disabilità, immediatamente precettiva ed idonea a far ritenere prive di qualsivoglia legittima giustificazione la discriminazione o la situazione di svantaggio in cui si vengano a trovare queste ultime", consentendo loro "il ricorso alla tutela antidiscriminatoria, quando l'accessibilità sia impedita o limitata" ciò, a prescindere, "dall'esistenza di una norma regolamentare apposita che attribuisca la qualificazione di barriera architettonica ad un determinato stato dei luoghi" (così, in motivazione Cass. Sez. 3, sent. 23.09.2016, n. 18762, Rv. 642103-02).
Una conclusione, questa, che appare del tutto in linea con la necessità di assicurare alla normativa suddetta un'interpretazione conforme a Costituzione, se è vero che -come sottolinea la stessa giurisprudenza costituzionale- l'accessibilità "è divenuta una «qualitas» essenziale" perfino "degli edifici privati di nuova costruzione ad uso di civile abitazione, quale conseguenza dell'affermarsi, nella coscienza sociale, del dovere collettivo di rimuovere, preventivamente, ogni possibile ostacolo alla esplicazione dei diritti fondamentali delle persone affette da handicap fisici" (così, Corte cost., sent. n. 167 del 1999; nello stesso senso, Corte cost. sent. n. 251 del 2008).
Del pari,
si è sottolineato come "il superamento delle barriere architettoniche -tra le quali rientrano, ai sensi dell'art. 1, comma 2, lettera b), del d.P.R. n. 503 del 1996, gli «ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di spazi, attrezzature o componenti»- è stato previsto (comma 1 dell'art. 27 della legge n. 118 del 1971) «per facilitare la vita di relazione» delle persone disabili", evidenziandosi che tali principi "rispondono all'esigenza di una generale salvaguardia della personalità e dei diritti dei disabili e trovano base costituzionale nella garanzia della dignità della persona e del fondamentale diritto alla salute degli interessati, intesa quest'ultima nel significato, proprio dell'art. 32 Cost., comprensivo anche della salute psichica oltre che fisica" (così, nuovamente, Corte cost. sent. n. 251 del 2008).
6.1.2. Il motivo è, invece, addirittura inammissibile laddove il ricorrente deduce di aver ottemperato al dovere di apportare all'edificio municipale "tutti quegli accorgimenti che possano migliorarne la fruibilità da parte dei disabili", attraverso la messa disposizione del "trattorino", lamentando, così, la violazione, in particolare, dell'art. 1, comma 3, del d.P.R. n. 503 del 1996.
Così prospettata, infatti, la censura fuoriesce dalla portata applicativa dell'art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ., e ciò alla stregua del principio secondo cui "il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa" -che è quanto si lamenta nel caso di specie, dal momento che ci si duole del fatto che il "trattorino" non sia stato ritenuto accorgimento idoneo ad migliore la fruibilità dell'edificio municipale in attesa dell'installazione dell'ascensore- "è, invece, esterna all'esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità" (da ultimo, "ex multis", Cass. Sez. 1, ord. 13.10.2017, n. 24155, Rv. 645538-03, nonché Cass. Sez. 3, ord. 13.03.2018, n. 6035, Rv. 648414-01).
Lo stesso è a dirsi della dedotta errata interpretazione dell'art. 2 della legge n. 67 del 2006, giacché la censura è basata sull'assunto che esso Comune si sarebbe tempestivamente attivato per l'installazione dell'ascensore, ovvero su una valutazione fattuale, preclusa in questa sede, essendo inammissibile il motivo di ricorso per cassazione "con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito" (da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 04.04.2017, n. 8758, Rv. 643690-01).
6.2. Il secondo motivo è anch'esso in parte non fondato e in parte inammissibile.
6.2.1. Va, innanzitutto, esaminata la censura secondo cui la sentenza impugnata avrebbe omesso del tutto "la valutazione dell'elemento soggettivo dell'azione del Comune volta al superamento della barriera architettonica", e ciò minimizzando l'installazione del cd. "trattorino".
Al riguardo, deve osservarsi -nel ribadire, peraltro, che il riconoscimento del carattere discriminatorio di "una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri" in ogni caso "presuppone la verifica della sussistenza degli elementi soggettivi ed oggettivi dell'illecito aquiliano ai sensi dell'art. 2043 cod. civ., al quale va ricondotta la fattispecie prevista dall'art. 3, comma 3, della legge n. 67 del 2006" (cfr. Cass. Sez. 3, sent. n. 18762 del 2016, cit.)- che tale censura, ancora una volta, finisce con il risolversi nella richiesta di un apprezzamento di fatto sulla idoneità del "trattorino" a garantire l'accessibilità all'edificio municipale, non consentita in questa sede, donde la sua inammissibilità.
6.2.2. Quanto, invece, alla censura che investe la determinazione del risarcimento del danno, va evidenziato -nel senso, questa volta, della non fondatezza- come quello previsto dalla norma in esame sia uno sistema equitativo di liquidazione del danno.
Di conseguenza, trovano applicazione i principi secondo cui "l'esercizio, in concreto, del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità", purché a condizione -soddisfatta nel caso che occupa- che "la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell'uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito" (da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 13.10.2017, n. 24070, Rv. 645831-01; in senso analogo Cass. Sez. 1, sent. 15.03.2016, n. 5090, Rv. 639029-01), restando, poi, inteso che "al fine di evitare che la relativa decisione si presenti come arbitraria e sottratta ad ogni controllo", occorre che il giudice indichi, anche solo "sommariamente e nell'ambito dell'ampio potere discrezionale che gli è proprio, i criteri seguiti per determinare l'entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al «quantum»" (Cass. Sez. 3, sent. 31.01.2018, n. 2327, Rv. 647590-01), senza però che egli sia "tenuto a fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata di un univoco e necessario rapporto di consequenzialità di ciascuno degli elementi esaminati e l'ammontare del danno liquidato, essendo sufficiente che il suo accertamento sia scaturito da un esame della situazione processuale globalmente considerata" (Cass. Sez. 3, sent. 10.11.2015, n. 22885, Rv. 637822-01).
Nel caso di specie, la Corte marchigiana, nell'operare la quantificazione, ha dichiarato di aver "tenuto conto della destinazione d'uso del fabbricato interessato, della qualifica rivestita all'epoca dall'istante, nonché del periodo di tempo per il quale si è protratta la situazione di inadempienza dell'ente territoriale", così indicando i criteri seguiti nella determinazione del "quantum".

URBANISTICA: Sovradimensionamento degli standard.
E' illegittima una previsione di un PGT che stabilisce uno standard pari a 85 mq/abitante, superiore a quello indicato dall’art. 9, comma 3, della l.r. n. 12 del 2005 e anche più elevato di quello già stabilito dal previgente strumento urbanistico, nonostante il territorio comunale fosse già dotato di molte aree a servizi e una buona parte degli stessi non fosse stata ancora attuata.
Ciò appare coerente con la giurisprudenza secondo la quale il comune è tenuto a motivare in maniera idonea e congrua sulle ragioni che impongono l’aumento degli standard rispetto alle previsioni normative, in caso contrario risultando illegittima una tale scelta; difatti, la motivazione rafforzata deve investire il complesso delle previsioni urbanistiche di sovradimensionamento e deve, quindi, chiarire perché il comune abbia inteso superare i limiti minimi previsti dalla legge
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 13.02.2020 n. 305 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
3. Con la seconda censura si assume il sovradimensionamento, ingiustificato e in contraddizione con le linee di azione formulate dalla stessa Amministrazione, delle aree per servizi, per un rapporto passato da una precedente previsione di 68 mq/abitante all’attuale 85 mq/abitante, pur prevedendo la legge un indice pari a 18 mq/abitante.
3.1. La doglianza è fondata.
La difesa comunale ha evidenziato che nell’ambito del P.G.T., in varie parti, sono contenute le motivazioni che hanno indotto il Comune a prevedere una così elevata dotazione di standard, che sarebbero perciò idonee a giustificare una tale scelta.
Tuttavia tali motivazioni, peraltro sparse in più documenti, non sembrano legittimare la scelta di aumentare in maniera così consistente, ovvero a 85 mq/abitante, le dotazioni già previste in precedenza, pari a 68 mq/abitante, e già ampiamente sovradimensionate rispetto alla previsione di legge (18 mq/abitante).
Tra l’altro, alle predette aree destinate a servizi si aggiungeranno anche quelle che verranno realizzate e cedute nell’ambito della pianificazione attuativa.
Inoltre, negli stessi documenti pianificatori si dà atto che “il territorio comunale possiede una ricca e articolata dotazione di aree a verde: dal verde di quartiere sino ad aree di forestazione urbana, dai parchi urbani e gli impianti sportivi al verde di arredo e verde stradale, dalle aree agricole a vere e proprie articolazioni di sistemi di spazi aperti verdi quali il Parco del Seveso e il Parco Sovracomunale del GrugnotortoVilloresi” (all. 15 del Comune, pag. 39).
E ancora, va segnalato che lo stato di attuazione dei servizi previsti dalla strumentazione urbanistica previgente non è completo, ma riguarda soltanto il 55% della complessiva previsione di servizi (all. 15 del Comune, pag. 34).
Da ciò discende l’illegittimità della previsione che stabilisce uno standard pari a 85 mq/abitante, notevolmente superiore a quello indicato dall’art. 9, comma 3, della legge regionale n. 12 del 2005 e anche più elevato di quello già stabilito dal previgente strumento urbanistico, nonostante il territorio comunale sia già dotato di molte aree a servizi e una buona parte degli stessi non sia stata ancora attuata.
Ciò appare coerente con la giurisprudenza di questo Tribunale, secondo la quale il Comune è tenuto a motivare in maniera idonea e congrua sulle ragioni che impongono l’aumento degli standard rispetto alle previsioni normative, in caso contrario risultando illegittima una tale scelta (TAR Lombardia, Milano, IV, 30.07.2018, n. 1863).
Difatti, “la motivazione rafforzata deve investire il complesso delle previsioni urbanistiche di sovradimensionamento e deve, quindi, chiarire perché il Comune abbia inteso superare i limiti minimi previsti dalla legge” (TAR Lombardia, Milano, II, 15.07.2016, n. 1429; di recente, II, 12.11.2019, n. 2380).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Zone sottoposte a vincolo cimiteriale – Responsabilità del direttore dei lavori/progettista per il reato di lottizzazione abusiva cd. “materiale” o fisica – Artt. 27, 29, 30, 31, 42, 44, D.P.R. n. 380/2001 – Art. 338 del regio decreto n. 1265 del 1934 (t.u. delle leggi sanitarie) – Criterio di misura e calcolo del vincolo.
Poiché il vincolo cimiteriale di cui all’art. all’art. 338 del r.d. n. 1265 del 1934 attiene al governo del territorio e opera indipendentemente dal suo recepimento negli strumenti urbanistici ed eventualmente anche in contrasto con gli stessi, la sua violazione è da sola sufficiente a configurare il reato di lottizzazione abusiva, pur in presenza di un’attività edificatoria formalmente autorizzata.
Quanto, poi, alla fascia di rispetto cimiteriale, la stessa va misurata a partire non dal centro, ma dal muro di cinta esterno del cimitero.

...
Fascia di rispetto cimiteriale – Distanza di almeno 200 metri dai centri abitati – Operatività della norma indipendentemente dagli strumenti urbanistici – Manufatti preesistenti e limiti alle opere edilizie – Inedificabilità assoluta – Deroga al divieto di costruzione di nuovi edifici – Misurazione della fascia di rispetto.
In materia di vincoli cimiteriali, l’art 338 del r.d. 27.07.1934, n. 1265 prescrive che i cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dai centri abitati e tale disposizione opera indipendentemente dagli strumenti urbanistici ed eventualmente anche in contrasto con gli stessi. In detta fascia di rispetto cimiteriale è vietato sia costruire nuovi edifici sia intervenire su manufatti preesistenti con opere che comportino un’alterazione dei volumi o delle superfici.
Inoltre, in tema di inedificabilità assoluta, la deroga al divieto di costruzione di nuovi edifici nel raggio di duecento metri dal perimetro dei cimiteri è consentita unicamente con riguardo all’esecuzione di un’opera pubblica o all’attuazione di un intervento urbanistico, con esclusione, quindi, dell’edilizia residenziale privata.
Infine, la fascia di rispetto cimiteriale prevista dall’art. 338, misurata a partire dal muro di cinta del cimitero, costituisce un vincolo assoluto d’inedificabilità, tale da imporsi anche a contrastanti previsioni di piano regolatore generale, che non consente in alcun modo l’allocazione sia di edifici che di opere incompatibili col vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che sono da individuarsi in esigenze di natura igienico-sanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all’inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento di un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale; segue da ciò che non esiste ragione alcuna per ritenere tale vincolo applicabile solo ai centri abitati e non ai fabbricati sparsi, così come, ai fini dell’applicazione del vincolo, appare ininfluente che, a distanza inferiore ai 200 metri, vi sia una strada, atteso che essa non interrompe la continuità del vincolo.

...
Lottizzazione abusiva – Proscioglimento per intervenuta prescrizione – Sussistenza del reato nei suoi elementi oggettivo e soggettivo – Confisca del bene lottizzato – Principio di protezione della proprietà – Sentenza di condanna dell’ente – Qualifica di terzo estraneo – Limiti – Requisito della buona fede – Necessità.
In tema di lottizzazione abusiva, il proscioglimento per intervenuta prescrizione non osta alla confisca del bene lottizzato ove sia stata comunque accertata, con adeguata motivazione e nel contraddittorio delle parti, la sussistenza del reato nei suoi elementi oggettivo e soggettivo (ex multis, Sez. 3, n. 8350 del 23/01/2019).
Ai fini della valutazione della conformità della confisca al principio di protezione della proprietà di cui all’art. 1 del Prot. n. 1 CEDU, assume rilievo anche l’aspetto dell’individuazione dei beni oggetto della misura, nel senso che il provvedimento ablatorio è legittimo se limitato ai beni immobili direttamente interessati dall’attività lottizzatoria e ad essa funzionali (Sez. 3, n. 43119 del 17/07/2019; Sez. 3, n. 31282 del 27/03/2019; Sez. 3, n. 14743 del 14 20/02/2019).
Inoltre, la mancata partecipazione al giudizio conclusosi con la sentenza di condanna dell’ente in nome e per conto del quale l’attività illecita è stata posta in essere non osta alla confisca, ex art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto allo stesso non può attribuirsi la qualifica di terzo estraneo, per carenza del necessario requisito della buona fede (Sez. 3, n. 42115 del 19/06/2019).

...
Responsabilità del direttore dei lavori e progettista per il reato di lottizzazione abusiva cd. “materiale” o fisica – Determinante contributo causale – Artt. 27, 29, 30, 31, 42, 44, D.P.R. n. 380/2001 – Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico – Art. 483 cod. pen..
Il direttore dei lavori e progettista è comunque responsabile per il reato di lottizzazione abusiva, in quanto arrechi un determinante contributo causale alla concreta attuazione del disegno criminoso, diretto a condizionare la riserva pubblica di programmazione territoriale, non potendosi dunque limitare la sua responsabilità alla verifica della formale conformità delle opere al permesso di costruire e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo.
E tale determinante contributo causale è stato certamente arrecato dall’imputata nel caso di specie, vista l’assoluta evidenza della violazione del vincolo cimiteriale, tanto macroscopica da essere percepibile addirittura da soggetti non dotati di particolari competenze tecniche; con la conseguenza che a nulla può valere il richiamo operato dalla difesa all’art. 29 del d.P.R. n. 380 del 2001, che escluderebbe il progettista dal novero dei responsabili
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.02.2020 n. 5507 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Immobile abusivamente realizzato – Nozione di edificio ultimato – Requisiti di agibilità o abitabilità – Giurisprudenza.
In tema di reati edilizi, deve ritenersi ultimato solo l’edificio concretamente funzionale che possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità, di modo che anche il suo utilizzo effettivo ancorché accompagnato dall’attivazione delle utenze e dalla presenza di persone al suo interno, non è sufficiente per ritenere sussistente l’ultimazione dell’immobile abusivamente realizzato, coincidente generalmente con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.02.2020 n. 5507 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTIOfferte, invarianza sulla soglia di anomalia. Evita gli effetti di modifiche a posteriori.
Il principio di invarianza della soglia di anomalia ha lo scopo di paralizzare gli effetti indiretti sulla verifica di anomalia delle offerte, derivanti da modifiche incidenti a posteriori sul novero degli operatori economici legittimamente partecipanti.
Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza del 12.02.2020 n. 1117 in ordine alla corretta applicazione dell'articolo 95, comma 15, del codice appalti che afferma il principio della tutela dello status quo cristallizzato al momento della presentazione delle offerte.
L'articolo 95, comma 15, del codice dei contratti pubblici stabilisce che «ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per l'individuazione della soglia di anomalia delle offerte».
I giudici hanno fatto notare che gli effetti riflessi determinati dalle variazioni intervenute, utilizzati consapevolmente ed in modo strumentale da operatori economici che altrimenti non potrebbero conseguire l'aggiudicazione, sono quelli che il legislatore ha inteso limitare per contrapposte legittime esigenze di stabilità delle situazioni giuridiche derivanti dalla gara.
Secondo il Consiglio di Stato la norma non può invece essere intesa nel senso di vanificare la tutela giurisdizionale, oggetto di tutela costituzionale (artt. 24 e 113 Cost.), e dunque di precludere le impugnazioni non mosse dal sopra descritto intento emulativo. Semmai la disposizione serve a contestare l'ammissione alla gara di imprese prive dei requisiti di partecipazione o autrici di offerte invalide, che nondimeno abbiano inciso sulla soglia di anomalia determinata in via automatica.
Sul punto va ricordato che con riguardo al primo degli interessi ora menzionati, lo stesso, fino alla recente abrogazione ad opera del decreto-legge 18.04.2019, n. 32 era per giunta oggetto di autonoma tutela, con il cosiddetto rito super-accelerato sulle ammissioni ed esclusioni di cui all'art. 120, comma 2-bis, del codice di procedura amministrativa (articolo ItaliaOggi del 21.02.2020).
---------------
SENTENZA
Deve premettersi al riguardo che l’interpretazione dell’art. 95, comma 15, del codice dei contratti pubblici, che tale regola pone nei seguenti termini: «Ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per l’individuazione della soglia di anomalia delle offerte», non è agevole.
Se incentrata sul piano strettamente letterale l’interpretazione della norma porta alle conseguenze volute dal commissario straordinario con il provvedimento impugnato nel presente giudizio.
12. Come sottolinea la Ca.Co. si tratta nondimeno di conseguenze aberranti, nella misura in cui consentono la formazione di medie automatiche anche consapevolmente inficiate da illegittime ammissioni di operatori economici, le quali denotano un eccesso dei mezzi rispetto allo scopo perseguito con la disposizione in esame, che la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha infatti messo in luce, per elaborare soluzione una più equilibrata soluzione sul piano della conformità ai principi generali in materia di contratti pubblici e della ragionevolezza.
Il quale scopo consiste nell’evitare che concorrenti non utilmente collocati in graduatoria promuovano giudizi meramente speculative e strumentali, e mosse «dall’unica finalità, una volta noti i ribassi offerti e quindi gli effetti delle rispettive partecipazioni in gara sulla soglia di anomalia, di incidere direttamente su quest’ultima traendone vantaggio» (così Cons. Stato, V, 30.07.2018, n. 4664, cui aderisce Cons. Stato, V, 02.09.2019, n. 6013; cfr. inoltre Cons. Stato, III, 27.04.2018, n. 2579).
Si tratta più precisamente delle impugnazioni contro gli atti di gara proposte da imprese ad essa partecipanti che per la loro collocazione in graduatoria e per la portata delle censure dalle stesse proposte non potrebbero mai conseguire l’aggiudicazione, se non sfruttando a proprio vantaggio gli automatismi insiti nelle modalità di formazione automatica della soglia di anomalia propria delle procedure da aggiudicare al massimo ribasso.
13. La norma è stata dunque intesa per paralizzare gli effetti riflessi sulla soglia di anomalia, derivanti da modifiche incidenti a posteriori sul novero degli operatori economici legittimamente partecipanti. A questo scopo può in particolare essere valorizzato l’impiego del verbo atecnico “intervenire”: «Ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale…», come appunto riferito ai riflessi sulla soglia di anomalia e la conseguente graduatoria di gara derivanti da modifiche concernenti le imprese in precedenza ammesse a presentare l’offerta.
Questi effetti riflessi, utilizzati consapevolmente ed in modo strumentale da operatori economici che altrimenti non potrebbero conseguire l’aggiudicazione, sono appunto quelli che il legislatore ha inteso limitare per contrapposte legittime esigenze di stabilità delle situazioni giuridiche derivanti dalla gara.
14. Secondo la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato la stessa norma non può invece essere intesa nel senso di vanificare la tutela giurisdizionale, oggetto di tutela costituzionale (artt. 24 e 113 Cost.), e dunque di precludere le impugnazioni non mosse dal sopra descritto intento emulativo, ma a contestare l’ammissione alla gara di imprese prive dei requisiti di partecipazione o autrici di offerte invalide, che nondimeno abbiano inciso sulla soglia di anomalia determinata in via automatica.
Sul punto va ricordato che con riguardo al primo degli interessi ora menzionati, lo stesso, fino alla recente abrogazione ad opera del decreto-legge 18.04.2019, n. 32 (Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l’accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici; convertito dalla legge 14.06.2019, n. 55) era per giunta oggetto di autonoma tutela, con il c.d. rito super-accelerato sulle ammissioni ed esclusioni di cui all’art. 120, comma 2-bis cod. proc. amm. (sulla necessità di fare salvo il rito sulle ammissioni rispetto alla regola dell’invarianza della soglia di anomalia si veda in particolare la sopra citata sentenza della III Sezione di questo Consiglio di Stato del 27.04.2018, n. 2579).
15. A quanto finora rilevato va aggiunto che prima ancora dell’interpretazione conforme a costituzione rispetto al diritto di azione in giudizio contro gli atti della pubblica amministrazione, la medesima regola sull’invarianza della soglia ex art. 95, comma 15, del codice dei contratti pubblici va contemperata con i principi di buon andamento ed imparzialità dell’attività amministrativa, anch’essi di rango costituzionale (art. 97 Cost.).
Per effetto del descritto contemperamento la rettifica della soglia di anomalia derivante dall’illegittima ammissione di imprese prive dei requisiti di partecipazione alla gara deve quindi essere consentita alla stessa stazione appaltante avvedutasi di ciò (il profilo è posto in evidenza nella citata sentenza del 27.04.2018, n. 2579, della III Sezione del Consiglio di Stato).
La praticabilità di tale soluzione è stata affermata in particolare nel più recente precedente di questa Sezione sopra richiamato (sentenza 02.09.2019, n. 6013), sulla base del riferimento testuale operato dal medesimo art. 95, comma 15, d.lgs. n. 50 del 2016 alla «fase di (…) regolarizzazione (…) delle offerte».
Tale riferimento è stato inteso dalla Sezione come riferito «alle situazioni in cui sia stato attivato il soccorso istruttorio», quando pertanto non può dirsi ancora conclusa la fase di ammissione delle offerte e gli effetti di invarianza e blocco da essa derivanti (in termini analoghi cfr. Cons. Stato, V, 13.02.2017, n. 590, e 16.03.2016, n. 1052, in relazione alla corrispondente disposizione del codice dei contratti pubblici, ora abrogato, di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, ovvero l’art. 38, comma 2-bis).

APPALTISussiste la competenza del R.u.p. all’adozione del provvedimento di esclusione dalla procedura di gara degli operatori economici.
---------------

5.1. Il motivo di appello pone la seguente questione: se il provvedimento di esclusione di un operatore economico da una procedura di gara possa essere adottato dalla commissione giudicatrice ovvero se esso rientri nella competenza della stazione appaltante e, per essa, del R.u.p..
La questione assume rilevanza nel presente giudizio poiché, come provato dai documenti versati in atti, e non contestato dalla controinteressata, il provvedimento di esclusione dell’A.t.i. Gi.co. dalla procedura di gara in esame è stato adottato dal Presidente della Commissione esaminatrice (sia pure su carta intesta della Provincia di Caserta – ufficio Gare).
Il giudice di primo grado l’ha risolta assumendo che fino a quando l’operato della commissione giudicatrice non è approvato dai competenti organi dell’amministrazione appaltante, ovvero fino a quando non è adottato il provvedimento di aggiudicazione, la commissione ha il potere di riesaminare il procedimento di gara già stato espletato, riaprirlo ed emendarlo dagli errori che sono stati commessi o dalle illegittimità verificatesi anche in relazione all’ammissione o esclusione di un concorrente.
5.2. La questione non è nuova, poiché è stata già affrontata in diverse pronunce di questo Consiglio di Stato ove, come riportato dall’appellante, è stata ritenuta la competenza del R.u.p. all’adozione del provvedimento di esclusione dalla procedura di gara degli operatori economici (cfr. Cons. Stato, sez. V, 13.09.2018, n. 5371; III, 19.06.2017, n. 2983; V, 06.05.2015, n. 2274; V, 21.11.2014, n. 5760).
Non v’è ragione per disattendere tale orientamento che trova conforto nel dato normativo.
L’art. 77 d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (“Commissione giudicatrice”) prevede che: “Nelle procedure di aggiudicazione di contratti di appalti o di concessioni, limitatamente ai casi di aggiudicazione con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, la valutazione delle offerte dal punto di vista tecnico ed economico è affidata ad una commissione giudicatrice, composta di esperi nello specifico settore cui afferisce l’oggetto del contratto”.
La disposizione definisce, insieme, la funzione della commissione giudicatrice e i limiti della sua competenza; essa svolge un’attività di giudizio consistente nella valutazione delle offerte dal punto di vista tecnico ed economico in qualità di organo straordinario e temporaneo della stazione appaltante con funzioni istruttorie.
E’, dunque, preclusa alla commissione giudicatrice ogni altra attività che non sia di giudizio in senso stretto, compresa, in particolare, la verifica della regolarità delle offerte e della relativa documentazione; la quale, ove sia stata in concreto svolta (normalmente, su incarico dell’amministrazione, ma anche in mancanza di specifico incarico), deve essere poi verificata e fatta propria della stazione appaltante.
Con riferimento al provvedimento di esclusione dalla procedura, del quale si discute nel presente giudizio, quanto in precedenza sostenuto trova conferma, nell’art. 80 (“Motivi di esclusione”) d.lgs. n. 50 cit. che, in più occasioni (e, precisamente, ai commi 5, 6, 8, 10–bis) individua nella “stazione appaltante” il soggetto tenuto ad adottare il provvedimento di esclusione dell’operatore economico.
Nell’odierna vicenda non v’è prova che l’esclusione per irregolarità della documentazione sia stata verificata dalla stazione appaltante, tanto non è possibile evincere, infatti, dalla circostanza che il Presidente della commissione abbia utilizzato carta intestata della Provincia.
5.3. La sentenza di primo grado, pertanto, non può essere condivisa, poiché risolve la questione della competenza ad adottare il provvedimento di esclusione facendo applicazione di un criterio di carattere temporale, che, per come inteso, sembrerebbe fare della commissione giudicatrice l’unico organo della procedura di gara dalla sua nomina al momento dell’adozione del provvedimento di aggiudicazione e competente, per questo, ad adottare tutti gli atti della procedura.
Il criterio temporale non trova, tuttavia, riscontro nel dato normativo: l’art. 31, comma 3, d.lgs. n. 50 cit. riconosce, infatti, la competenza generale del R.u.p. a svolgere tutti i compiti (id est, ad adottare tutti gli atti della procedura), “che non siano specificatamente attribuiti ad altri organi o soggetti”, ulteriormente precisando, al comma 4, lett. c), che spetta al R.u.p. “cura(re) il corretto e razionale svolgimento delle procedure”, così chiarendo che egli continua ad operare anche dopo la nomina della commissione giudicatrice (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.02.2020 n. 1104 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ESPROPRIAZIONEEffetti del decreto di acquisizione sanante intervenuto in corso di giudizio alla luce dei principi di recente affermati in merito dall’Adunanza Plenaria.
---------------
  
Espropriazione per pubblica utilità – Acquisizione sanante - Domande di restituzione e di risarcimento del danno - Presentazione - Conseguenza.
  
Espropriazione per pubblica utilità – Acquisizione sanante - Domande di risarcimento del danno - Effetto traslativo della proprietà - Esclusione. Errore scusabile - Riconoscibilità.
   L’adozione, da parte della P.A., di un provvedimento di acquisizione sanante ai sensi dell’art. 42-bis, d.P.R. n. 327 del 2001, determina l'improcedibilità delle domande di restituzione e di risarcimento del danno proposte in relazione ad esse, salva la formazione del giudicato non solo sul diritto del privato alla restituzione del bene, ma anche sulla illiceità del comportamento della P.A. e sul conseguente diritto del primo al risarcimento del danno; tale provvedimento, infatti, costituisce l’unico rimedio formale per far cessare lo stato di illiceità preesistente, alternativo alla restituzione del bene previa rimessione in pristino (1).
  
La richiesta del solo risarcimento del danno per occupazione sine titulo non può produrre alcun effetto traslativo della proprietà in capo alla p.a. procedente; il mutamento del quadro normativo e giurisprudenziale impone tuttavia di individuare i possibili strumenti per non privare la parte del suo diritto di difesa, “riqualificando” la domanda a suo tempo proposta in maniera coerente con l’assetto preesistente: in tale ottica è dunque possibile rimetterla in termini per errore scusabile ai sensi dell’art. 37 c.p.a. o invitarla alla precisazione della domanda in relazione al definito quadro giurisprudenziale, previa sottoposizione della relativa questione processuale, in ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3, c.p.a., a garanzia del diritto di difesa (2).
---------------
   (1) Con la sentenza in esame la Sezione affronta il problema degli effetti della sopravvenienza del decreto di acquisizione sanante ex art. 42-bis, d.P.R. n. 327 del 2001 sui contenziosi in corso, alla luce dei principi affermati in merito dall'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 20.01.2020, n. 2, n. 3 e n. 4.
Esso costituisce il rimedio formale necessario per far cessare l’illecito permanente dell’occupazione sine titulo, alternativo solo alla restituzione del bene, previa rimessa in pristino, quale scelta da privilegiare previa valutazione della fattibilità e comparazione motivata degli interessi in gioco. La sua adozione fa sì che tutte le aspettative di tutela del privato, risarcitorie e restitutorie, si canalizzino nell’eventuale contenzioso avente ad oggetto il provvedimento di acquisizione sanante intervenuto nel corso del giudizio che, conseguentemente, deve concludersi con una declaratoria di improcedibilità del ricorso (cfr. Cons. St., sez. IV, 12.09.2018, n. 3848; id., sez. V, 22.05.2012, n. 2975; id. 13.10.2010, n. 7472 e 05.05.2009, n. 2801).
   (2) La proposizione in primo grado di una sola istanza risarcitoria non può implicare la rinuncia traslativa alla proprietà del bene oggetto di occupazione sine titulo, trattandosi di istituto che non trova spazio nel procedimento espropriativo. Al fine, tuttavia, di non privare le parti di garanzie di difesa, è necessario che il giudice si adoperi per individuare i possibili rimedi offerti dall’ordinamento processuale per adeguare la domanda, un tempo coerente con il quadro dottrinario e giurisprudenziale, al mutato contesto. A tale scopo, ove non sia possibile riqualificare la domanda, come suggerito dall’Adunanza Plenaria il giudice potrà rimettere le parti in termini per errore scusabile ex art. 37 c.p.a., ovvero comunque sottoporre la questione processuale sopravvenuta, ove rilevata d’ufficio, al vaglio delle parti ex art. 73 c.p.a.
Ove, tuttavia, il decreto di acquisizione sia sopravvenuto in ottemperanza ad una decisione di primo grado o a una pronuncia cautelare, ridetta riqualificazione d’ufficio o riformulazione della domanda non si rende più necessaria, dovendosi prendere atto dell’avvenuta adozione del provvedimento e della conseguente cessazione dello stato di illiceità che aveva fondato la domanda risarcitoria originaria.
Ne consegue che, ferma restando l’estraneità alla giurisdizione del giudice amministrativo di eventuali residue controversie sul quantum di indennizzo e/o risarcimento previsto in tale provvedimento, diviene improcedibile il giudizio di appello, non potendo più considerarsi tale quello di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 12.02.2020 n. 1087 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
---------------
MASSIMA
15. L’assunto non è condivisibile.
16. Il Collegio ben conosce la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, dalla quale non è ragione di decampare, alla stregua della quale
tutte le aspettative di tutela del privato, risarcitorie e restitutorie, si canalizzano nell’eventuale contenzioso avente ad oggetto il provvedimento di acquisizione sanante intervenuto nel corso del giudizio che, conseguentemente, deve concludersi con una declaratoria di improcedibilità del ricorso (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.09.2018, n. 3848; sez. V, 22.05.2012, n. 2975; id., 13.10.2010, n. 7472 e 05.05.2009, n. 2801).
Invero,
si è più esattamente osservato che «sulla base del provvedimento di acquisizione sanante emesso, la p.a. ha ormai acquisito il diritto di proprietà dell'area di cui già aveva il possesso; d'altra parte, ogni contestazione avverso questo nuovo provvedimento può essere fatta valere, nel caso di sua impugnazione, in sede di cognizione» (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 15.03.2012, n. 1438).
Tale orientamento trova conferma nei pronunciamenti della Suprema Corte avendo questa osservato che «
l'emanazione, da parte della P.A., di un provvedimento di acquisizione sanante, D.P.R. n. 327 del 2001, ex art. 42-bis (qui, pacificamente, non intervenuta), "determina l'improcedibilità delle domande di restituzione e di risarcimento del danno proposte in relazione ad esse, salva la formazione del giudicato non solo sul diritto del privato alla restituzione del bene, ma anche sulla illiceità del comportamento della P.A. e sul conseguente diritto del primo al risarcimento del danno» (cfr. Cass. civ., sez. I, 07.03.2017, n. 5686; 31.05.2016, n. 11258; sez. II, 14.01.2013, n. 705; sulla rilevanza ostativa del giudicato: Ad. plen. 09.02.2016, n. 2).
17.
Ciò d’altro canto appare in linea con i principi di recente affermati anche dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato, laddove, dopo aver ribadito la natura permanente dell’illecito conseguente ad occupazione sine titulo, e per converso escluso qualsivoglia forma di acquisizione della proprietà pubblica per mero decorso del tempo, ovvero per rinuncia abdicativa (o traslativa) dei proprietari che abbiano agito esclusivamente in via risarcitoria, ha individuato nel provvedimento di cui all’art. 42-bis il rimedio formale per far cessare lo stato di illiceità preesistente (cfr. A.P., 20.01.2020, nn. 2, 3 e 4).
L’amministrazione, cioè, «è titolare di una funzione, a carattere doveroso nell’an, consistente nella scelta tra la restituzione del bene previa rimessione in pristino e acquisizione ai sensi dell’articolo 42-bis; non quindi una mera facoltà di scelta (o di non scegliere) tra opzioni possibili, ma doveroso esercizio di un potere che potrà avere come esito o la restituzione al privato o l’acquisizione alla mano pubblica del bene. Alternative entrambe finalizzate a porre fine allo stato di illegalità in cui versa la situazione presupposta dalla norma» (A.P., n. 4/2020, cit. supra).
18. Nel caso di specie, tuttavia, l’improcedibilità della domanda di risarcimento del danno, al pari di quelle eventuali di restituzione, conseguente all’avvenuta acquisizione degli immobili, a maggior ragione nel mutato quadro giurisprudenziale poc’anzi richiamato, non può non fare salva la formazione del giudicato sulla sottesa illiceità del comportamento della P.A., giacché l’emanazione del provvedimento ex art. 42-bis ha costituito (al pari della restituzione del fondo o di un accordo transattivo) causa di cessazione di quella illiceità, sulla quale si fondava l’originaria istanza risarcitoria (cfr. al riguardo ancora Cass. civ., sez. I, n. 5686/2017, cit. supra; Cons. Stato, sez. IV, 26.04.2019, n. 2678; id., 30.08.2017, n. 4106).
19. La peculiarità della vicenda, infatti, consegue alla circostanza che in sede di decisione cautelare questo Consiglio di Stato ha già sostanzialmente riqualificato la domanda di parte, individuando nel provvedimento di acquisizione della proprietà l’unico rimedio alla situazione di conclamata e perdurante illiceità, una volta esclusa la possibilità di restituzione per l’irreversibile trasformazione del suolo ormai intervenuta, e conseguentemente canalizzando l’interesse delle parti sui contenuti dell’atto in questione.
Ciò non senza aver prima ricordato come «
l’illecito costituito dal protrarsi dell’occupazione sine titulo non è prescrittibile in quanto permanente, né sussistono nella specie i presupposti per l’applicazione a favore del Comune medesimo dell’istituto dell’usucapione». Principio ormai consacrato nella giurisprudenza granitica di questo Consiglio di Stato, a riprova dell’infondatezza anche nel merito delle pretese dell’amministrazione appellante (cfr., ancorché con riferimento alla cessazione dell’illecito per rinuncia abdicativa implicita nella richiesta risarcitoria, Cons. Stato, sez. IV, 15.11.2017, n. 5262; id., 19.10.2015, n. 22096).
20. Il decreto di acquisizione che ha posto fine alla situazione di illiceità pregressa, è sopravvenuto, dunque, non al ricorso, ma al giudizio di primo grado; anzi, come correttamente evidenziato dagli appellati, esso è conseguito proprio all’ottemperanza alla decisione cautelare, che aveva indirizzato in tal senso il proprio effetto conformativo, pur rimettendo all’amministrazione procedente la valutazione in concreto della sussistenza dei presupposti per l’adozione dell’atto.
Acclarata, infatti, la natura permanente dell’illecita occupazione e riconosciuto, almeno prima facie, il diritto al risarcimento del danno subito, l’amministrazione veniva invitata a far cessare tale stato di cose «eventualmente» utilizzando il provvedimento di cui all’art. 42-bis, nel frattempo introdotto dal legislatore nel TUes per rimediare alla lacuna riveniente dalla declaratoria di illegittimità costituzionale del previgente art. 43.
L’utilizzo della locuzione avverbiale dubitativa consegue alla demandata necessità che l’amministrazione valutasse in concreto la perseguibilità di opzioni alternative, in primis la restituzione del bene previo ripristino dello status quo ante. Il procedimento declinato dall’art. 42-bis del d.P.R. n. 327/2001, infatti, ha natura ablatoria sicuramente sui generis , in quanto si caratterizza per la precisa base legale, ma peculiari e autonomi presupposti, semplificato nella struttura (uno actu perficitur), complesso negli effetti (che si producono sempre e comunque ex nunc).
Il suo scopo «non è (e non può essere) quello di sanatoria di un precedente illecito perpetrato dall’amministrazione (perché altrimenti integrerebbe una espropriazione indiretta per ciò solo vietata), bensì quello autonomo, rispetto alle ragioni che hanno ispirato la pregressa occupazione contra ius, consistente nella soddisfazione delle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che giustificano l’acquisizione del bene utilizzato al patrimonio indisponibile in funzione del mantenimento dell’opera pubblica realizzata (o, comunque, delle modificazioni apportate al bene) sine titulo» (cfr. ancora A.P., n. 4/2020).

URBANISTICAInteresse ad agire in sede di impugnazione di strumenti urbanistici che non incidono direttamente su aree di proprietà del ricorrente.
---------------
Processo amministrativo – Interesse a ricorrere – Edilizia – Titoli edilizi - Vicinitas – Limiti.
In sede di impugnazione di strumenti urbanistici che non incidono direttamente su aree di proprietà della parte ricorrente è sempre necessario scrutinare la sussistenza dell’interesse ad agire, sub specie di lesione attuale e concreta o ragionevolmente certa, alla salute, all’ambiente, al valore dei terreni ecc. (1).
---------------

   (1) In termini Cons. St., sez. IV, 07.02.2020, n. 962.
Ha chiarito la Sezione che la vicinitas non sempre da sola giustifica la proposizione del ricorso in materia di edilizia e urbanistica.
La vicinitas, cioè lo stabile collegamento con la zona interessata dall’intervento, può certamente ritenersi fondamento della legittimazione ad agire purché sia accompagnata anche dalla presenza di una lesione concreta ed attuale della posizione soggettiva di chi impugna il provvedimento. In altri termini, lo stabile collegamento con l’area interessata dall’intervento edilizio non è sufficiente a comprovare anche l’interesse a ricorrere che è invece derivante da un concreto pregiudizio per l’interessato.
La giurisprudenza ha chiarito a più riprese che la vicinitas non rappresenta un dato decisivo per riconoscere l’interesse ad agire (che nel giudizio di legittimità davanti al giudice amministrativo si identifica con l’interesse ad impugnare), nel senso che di per sé non è sufficiente, dovendosi dimostrare che l’intervento costruttivo contestato abbia capacità di propagarsi sino a incidere negativamente sul fondo del ricorrente (Cons. St., sez. IV, 19.11.2015, n. 5278).
L’idea che la nozione di vicinitas, oltre a identificare una posizione qualificata idonea a rappresentare la legittimazione a impugnare il provvedimento urbanistico o edilizio, avrebbe assorbito anche l'interesse a ricorrere è stata infatti superata dall’indirizzo secondo cui, ai fini dell'ammissibilità del ricorso, deve essere concretamente indagato e accertato anche l'interesse ad agire. Questo indirizzo valorizza ragioni di coerenza con i principî generali sulle condizioni per l'azione nel processo amministrativo, nel cui novero rientrano distintamente, oltre alla legitimatio ad causam, il c.d. titolo (o legittimazione al ricorso) e l’interesse ad agire (cfr. Cons. St., Ad. plen., 25.02.2014, n. 9; successivamente, sez. IV, 19.11.2015, n. 5278 citata; per ultimo sez. IV, 05.02.2018, n. 707).
D’altra parte, se la distinzione fra i due indirizzi appena richiamati può non risultare sempre percepibile con evidenza (soprattutto in tema di distanze o per ragioni di salubrità), va considerato che nella odierna vicenda contenziosa non si rileva come gli atti di pianificazione ed attuazione contestati potessero incidere in via immediata e diretta sulla sfera giuridica dei ricorrenti.
La sussistenza della mera vicinitas non costituisce elemento sufficiente a comprovare contestualmente la legittimazione e l'interesse al ricorso, occorrendo invece la positiva dimostrazione, in relazione alla configurazione dell’interesse ad agire, di un danno (certo o altamente probabile) che attingerebbe la posizione di colui il quale insorge giudizialmente (Cons. St., sez. V, 15.12.2017, n. 5908).
Peraltro, l’apprezzamento della presenza dell’interesse al ricorso si declina diversamente a seconda che la controversia sia relativa all’impugnazione di un titolo edilizio (ad esempio, in materia di distanze o per gli insediamenti commerciali), alla localizzazione di un’opera pubblica o, come nel caso in esame, ad uno strumento urbanistico.
In quest’ultima ipotesi l’impugnazione degli strumenti urbanistici, generali e attuativi, è ammissibile nel caso in cui la parte ricorrente si dolga di prescrizioni che riguardano direttamente i beni di proprietà ovvero comportino un significativo decremento del valore di mercato o dell’utilità dei suoi immobili (Cons. St., sez. IV, 04.12.2017, n. 5674). Con la conseguenza che, nel caso di impugnazione di strumenti urbanistici, anche particolareggiati, o di loro varianti è ancor più necessaria l’allegazione di prove in ordine ai concreti pregiudizi subiti, che comunque non possono risolversi nel generico danno all'ordinato assetto del territorio, alla salubrità dell'ambiente e ad altri valori la cui fruizione potrebbe essere rivendicata da qualsiasi soggetto residente, anche non stabilmente, nella zona interessata dalla pianificazione.
Ha aggiunto la Sezione che in materia di tutela contro i danni all'ambiente, l’interesse ad agire può essere riconosciuto solo se gli stessi sono debitamente evidenziati in ricorso. Se, infatti, la tutela ambientale può svilupparsi anche mediante l’impugnativa degli atti aventi finalità urbanistica, non si può al contempo eludere la necessità che siano proposte censure sorrette da una specifica istanza di protezione degli interessi ambientali, da realizzare attraverso l'annullamento, totale o parziale, dello strumento urbanistico (Cons. St., sez. IV, 30.09.2005, n. 5205) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.02.2020 n. 1011 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
---------------
SENTENZA
20. La tesi degli appellanti non può essere condivisa.
21. In primo luogo, va rilevato che risulta incontestato da parte degli stessi ricorrenti che gli immobili di loro proprietà non sono collocati all’interno o nell’immediatezza del confine del P.U.O., ma a distanze variabili tra i 2 e i 3,5 Km (cfr. pag. 5 del ricorso in appello dove si afferma: “delle due l’una: o i ricorrenti non hanno dimostrato –come invero non è e si contesta che lo sia- la proprietà degli immobili limitrofi all’area oggetto del P.U.O. gravato, oppure detti “immobili dei ricorrenti” –pertanto di proprietà degli stessi- sono siti ad una distanza compresa tra 2 e 3 km circa dall’area de qua. Tertium non datur”).
21.1. Ciò significa che la vicinitas invocata dagli appellanti, peraltro nel caso di specie non caratterizzata da una immediata contiguità delle aree interessate, non sembra da sola giustificare la proposizione del ricorso.
21.2. La vicinitas, cioè lo stabile collegamento con la zona interessata dall’intervento, può certamente ritenersi fondamento della legittimazione ad agire purché sia accompagnata anche dalla presenza di una lesione concreta ed attuale della posizione soggettiva di chi impugna il provvedimento. In altri termini, lo stabile collegamento con l’area interessata dall’intervento edilizio non è sufficiente a comprovare anche l’interesse a ricorrere che è invece derivante da un concreto pregiudizio per l’interessato.
21.3. La giurisprudenza ha chiarito a più riprese che la vicinitas non rappresenta un dato decisivo per riconoscere l’interesse ad agire (che nel giudizio di legittimità davanti al giudice amministrativo si identifica con l’interesse ad impugnare), nel senso che di per sé non è sufficiente, dovendosi dimostrare che l’intervento costruttivo contestato abbia capacità di propagarsi sino a incidere negativamente sul fondo del ricorrente (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 19.11.2015, n. 5278). Nella fattispecie in esame tuttavia una simile prova non viene fornita.
21.4. L’idea che la nozione di vicinitas, oltre a identificare una posizione qualificata idonea a rappresentare la legittimazione a impugnare il provvedimento urbanistico o edilizio, avrebbe assorbito anche l'interesse a ricorrere è stata infatti superata dall’indirizzo secondo cui, ai fini dell'ammissibilità del ricorso, deve essere concretamente indagato e accertato anche l'interesse ad agire. Questo indirizzo valorizza ragioni di coerenza con i principî generali sulle condizioni per l'azione nel processo amministrativo, nel cui novero rientrano distintamente, oltre alla legitimatio ad causam, il c.d. titolo (o legittimazione al ricorso) e l’interesse ad agire (cfr. Cons. Stato: Ad. plen., 25.02.2014, n. 9; successivamente, Sez. IV, 19.11.2015, n. 5278 citata; per ultimo Sez. IV, 05.02.2018, n. 707).
21.5. D’altra parte, se la distinzione fra i due indirizzi appena richiamati può non risultare sempre percepibile con evidenza (soprattutto in tema di distanze o per ragioni di salubrità), va considerato che nella odierna vicenda contenziosa non si rileva come gli atti di pianificazione ed attuazione contestati potessero incidere in via immediata e diretta sulla sfera giuridica dei ricorrenti.
21.6. La sussistenza della mera vicinitas non costituisce elemento sufficiente a comprovare contestualmente la legittimazione e l'interesse al ricorso, occorrendo invece la positiva dimostrazione, in relazione alla configurazione dell’interesse ad agire, di un danno (certo o altamente probabile) che attingerebbe la posizione di colui il quale insorge giudizialmente (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 15.12.2017, n. 5908).
21.7. Peraltro, l’apprezzamento della presenza dell’interesse al ricorso si declina diversamente a seconda che la controversia sia relativa all’impugnazione di un titolo edilizio (ad esempio, in materia di distanze o per gli insediamenti commerciali), alla localizzazione di un’opera pubblica o, come nel caso in esame, ad uno strumento urbanistico.
21.8. In quest’ultima ipotesi, come ha correttamente rilevato il Tar, l’impugnazione degli strumenti urbanistici, generali e attuativi, è ammissibile nel caso in cui la parte ricorrente si dolga di prescrizioni che riguardano direttamente i beni di proprietà ovvero comportino un significativo decremento del valore di mercato o dell’utilità dei suoi immobili (cfr., Cons. Stato, Sez. IV, 04.12.2017, n. 5674).
21.9. Con la conseguenza che, nel caso di impugnazione di strumenti urbanistici, anche particolareggiati, o di loro varianti è ancor più necessaria l’allegazione di prove in ordine ai concreti pregiudizi subiti, che comunque non possono risolversi nel generico danno all'ordinato assetto del territorio, alla salubrità dell'ambiente e ad altri valori la cui fruizione potrebbe essere rivendicata da qualsiasi soggetto residente, anche non stabilmente, nella zona interessata dalla pianificazione.
22. Quanto ai paventati danni ambientali e alla salute, gli stessi non sono stati provati in modo concreto ed attuale, ma solo in via di ipotesi attraverso il ricorso a congetture, cosicché anche per tale profilo non può sostenersi la sussistenza dell’interesse a ricorrere.
22.1. In materia di tutela contro i danni all'ambiente, l’interesse ad agire può essere riconosciuto solo se gli stessi sono debitamente evidenziati in ricorso. Se, infatti, la tutela ambientale può svilupparsi anche mediante l’impugnativa degli atti aventi finalità urbanistica, non si può al contempo eludere la necessità che siano proposte censure sorrette da una specifica istanza di protezione degli interessi ambientali, da realizzare attraverso l'annullamento, totale o parziale, dello strumento urbanistico (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.09.2005, n. 5205).

LAVORI PUBBLICIProject financing, promotore con requisiti minimi. Se non si supera la soglia si perde il diritto al pagamento del progetto.
Incentivi al project financing nelle concessioni, consentendo tuttavia all’amministrazione di porre una soglia di sbarramento per ottenere progetti di qualità.

Questo è l’orientamento del Consiglio di Stato (Sez. V, sentenza 10.02.2020 n. 1005), giudicando un’ipotesi di riqualificazione e gestione di una piscina comunale utilizzando anche capitali privati.
L’idea imprenditoriale, oggetto di project financing, è stata ritenuta fattibile dal Comune di Pordenone, che l’aveva inserita nel programma triennale di opere pubbliche. Il testo unico sugli appalti (50/2016) prevede in questo caso una gara aperta a più imprenditori, da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo.
Chi assume l’iniziativa (”promotore”), qualora non risulti aggiudicatario, può esercitare la prelazione (articolo 183 Dlgs 50/2016), offrendo di eseguire l’intervento come previsto dal vincitore, cui vanno rimborsate le spese per la predisposizione dell’offerta; è anche possibile che il promotore non eserciti la prelazione ma, accettando la sconfitta, si accontenti di un rimborso spese progettuali  (fino al 2,5% del valore dell’investimento).
Nel caso specifico, il Comune aveva chiesto ai concorrenti di formulare offerte che raggiungessero un punteggio tecnico minimo, cioè una soglia di sbarramento. Dinanzi a tale soglia il promotore, che pur aveva ideato l’intervento, è rimasto escluso dalla gara, non avendo formulato un’offerta di qualità sufficiente.
Il principio innovativo varato dai giudici è che l’imprenditore il quale chi non raggiunga la soglia di sbarramento tecnico prevista dall’amministrazione perde tutti i diritti di promotore e cioè perde sia la possibilità di prelazione, sia la possibilità di ottenere un rimborso delle spese progettuali. Ciò avviene perché il project financing si articola in due fasi: quella preliminare, di individuazione del promotore, non sceglie l’impresa sulla base di criteri tecnici ed economici preordinati, ma valuta l’interesse pubblico ad operare con la finanza di progetto (cioè anche con capitali privati). Una volta accolta la proposta formulata dal promotore, si apre una seconda fase, che culmina con l’aggiudicazione della concessione in base al criterio del offerta più vantaggiosa.
Se tra le due fasi la Pa pone una soglia di sbarramento, cioè impone ai concorrenti di raggiungere un punteggio tecnico minimo per poter poi aprire le offerte economiche, le due fasi si separano. Ciò significa che il promotore il quale non superi la soglia di sbarramento, perde sia la possibilità di esercitare la prelazione sostituendosi all’aggiudicatario vincitore della gara, sia la possibilità di ottenere il rimborso delle spese progettuali
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.02.2020).
---------------
MASSIMA
2.1. L’art. 183, comma 15, del Codice dei contratti pubblici, applicabile, in quanto compatibile, anche ai servizi (art. 179, comma 3), stabilisce che: “Gli operatori economici possono presentare alle amministrazioni aggiudicatrici proposte relative alla realizzazione in concessione di lavori pubblici o di lavori di pubblica utilità, incluse le strutture dedicate alla nautica da diporto, non presenti negli strumenti di programmazione approvati dall’amministrazione aggiudicatrice sulla base della normativa vigente. La proposta contiene un progetto di fattibilità, una bozza di convenzione, il piano economico-finanziario asseverato da uno dei soggetti di cui al comma 9, primo periodo, e la specificazione delle caratteristiche del servizio e della gestione […] Il piano economico-finanziario comprende l’importo delle spese sostenute per la predisposizione della proposta, comprensivo anche dei diritti sulle opere dell’ingegno di cui all’articolo 2578 del codice civile. La proposta è corredata dalle autodichiarazioni relative al possesso dei requisiti di cui al comma 17, dalla cauzione di cui all’articolo 93, e dall’impegno a prestare una cauzione nella misura dell’importo di cui al comma 9, terzo periodo, nel caso di indizione di gara. L’amministrazione aggiudicatrice valuta, entro il termine perentorio di tre mesi, la fattibilità della proposta. A tal fine l’amministrazione aggiudicatrice può invitare il proponente ad apportare al progetto di fattibilità le modifiche necessarie per la sua approvazione. Se il proponente non apporta le modifiche richieste, la proposta non può essere valutata positivamente. Il progetto di fattibilità eventualmente modificato, è inserito negli strumenti di programmazione approvati dall’amministrazione aggiudicatrice sulla base della normativa vigente ed è posto in approvazione con le modalità previste per l’approvazione di progetti; il proponente è tenuto ad apportare le eventuali ulteriori modifiche chieste in sede di approvazione del progetto; in difetto, il progetto si intende non approvato. Il progetto di fattibilità approvato è posto a base di gara, alla quale è invitato il proponente. Nel bando l’amministrazione aggiudicatrice può chiedere ai concorrenti, compreso il proponente, la presentazione di eventuali varianti al progetto. Nel bando è specificato che il promotore può esercitare il diritto di prelazione. I concorrenti, compreso il promotore, devono essere in possesso dei requisiti di cui al comma 8, e presentare un’offerta contenente una bozza di convenzione, il piano economico-finanziario asseverato da uno dei soggetti di cui al comma 9, primo periodo, la specificazione delle caratteristiche del servizio e della gestione, nonché le eventuali varianti al progetto di fattibilità; si applicano i commi 4, 5, 6, 7 e 13. Se il promotore non risulta aggiudicatario, può esercitare, entro quindici giorni dalla comunicazione dell’aggiudicazione, il diritto di prelazione e divenire aggiudicatario se dichiara di impegnarsi ad adempiere alle obbligazioni contrattuali alle medesime condizioni offerte dall’aggiudicatario. Se il promotore non risulta aggiudicatario e non esercita la prelazione ha diritto al pagamento, a carico dell’aggiudicatario, dell’importo delle spese per la predisposizione della proposta nei limiti indicati nel comma 9. Se il promotore esercita la prelazione, l’originario aggiudicatario ha diritto al pagamento, a carico del promotore, dell’importo delle spese per la predisposizione dell’offerta nei limiti di cui al comma 9”.
Questa Sezione ha sottolineato che
la procedura di project financing (prima disciplinata dagli artt. 37-bis e ss. della l. 109/1994 e successivamente dagli artt. 153 e ss. del d.lgs. 163/2006), individua due serie procedimentali strutturalmente autonome, ma biunivocamente interdipendenti sotto il profilo funzionale, la prima di selezione del progetto di pubblico interesse, la seconda di gara di evidenza pubblica sulla base del progetto dichiarato di pubblica utilità, quest’ultima a sua volta distinta nelle subfasi di individuazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa e di eventuale esercizio da parte del promotore del diritto di prelazione (Cons. Stato, V, 19.06.2019, n. 4186).
In tale ambito, la giurisprudenza ha ripetutamente riconosciuto: che
la fase preliminare di individuazione del promotore, ancorché procedimentalizzata, è connotata da amplissima discrezionalità amministrativa, tale da non potere essere resa coercibile nel giudizio amministrativo di legittimità (Cons. Stato, III, 20.03.2014, n. 1365; III, 30.07.2013, n. 4026; 24.05.2013, n. 2838; V, 06.05.2013, n. 2418), essendo intesa non già alla scelta della migliore fra una pluralità di offerte sulla base di criteri tecnici ed economici preordinati, ma alla valutazione di un interesse pubblico che giustifichi, alla stregua della programmazione delle opere pubbliche, l’accoglimento della proposta formulata dall’aspirante promotore (Cons. Stato, V, 31.08.2015, n. 4035); che lo scopo finale dell’intera procedura, interdipendente dalla fase prodromica di individuazione del promotore, è l’aggiudicazione della concessione in base al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa (Cons. Stato, V, 14.04.2015, n. 1872; VI, 05.03.2013, n. 1315).
2.2.
Quanto alla c.d. “soglia di sbarramento”, meccanismo che pure viene in rilevo nella controversia in esame, essa è rappresentata dalla previsione da parte della legge di gara di un punteggio tecnico minimo per accedere alla fase di apertura delle offerte economiche, ed è finalizzata a garantire una qualità elevata delle offerte presentate (Cons. Stato, V, 12.06.2017, n. 2852); dunque, per valutazione ex ante, l’offerta tecnica che si colloca sotto tale soglia è inidonea a condurre all’aggiudicazione, anche a prescindere dalla valutazione dell’offerta economica, in quanto “qualitativamente inadeguata (Cons. Stato, n. 2852/2017, cit.).
La Sezione ha in particolare chiarito che
la ratio di questo strumento, censurabile solo in presenza di macroscopiche irrazionalità, di incongruenze o di palesi abnormità (Cons. Stato, V, 18.11.2011, n. 6084), si ricollega all’esigenza specifica di addivenire, ai fini della singola, particolare procedura contrattuale, in coerenza con le specificità del contratto da concludere e con il complesso dei criteri di scelta del relativo contraente, a un livello qualitativo delle offerte particolarmente elevato, sì da comportare l’esclusione di quelle che, pur magari astrattamente convenienti sul piano economico, non raggiungano sul versante qualitativo lo standard che l’Amministrazione si prefigge (Cons. Stato, V, 02.12.2015, n. 5468).
Anche la Corte di giustizia dell’Unione europea, nel dichiarare che la direttiva 2014/24/UE deve essere interpretata nel senso di non ostare a una normativa nazionale che autorizza le amministrazioni aggiudicatrici a imporre in una gara d’appalto con procedura aperta requisiti minimi per la valutazione tecnica, cosicché le offerte presentate che, al termine di tale valutazione, non raggiungono una soglia di punteggio minima prestabilita sono escluse dalla successiva valutazione fondata sia su criteri tecnici sia sul prezzo, ha rilevato che,
nell’ipotesi, un’offerta che non raggiunge una simile soglia non soddisfa, in via di principio, le esigenze dell’amministrazione aggiudicatrice e non deve essere presa in considerazione al momento della determinazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa (C.G.U.E., IV, 20.09.2018, n. 546).
2.3. A questo punto deve ancora osservarsi che
la posizione del concorrente/promotore nella procedura di gara indetta ex art. 183, comma 15 del Codice dei contratti pubblici si connota di sue proprie particolarità, risultando rafforzata rispetto agli altri concorrenti, in quando egli, pur ove non risulti aggiudicatario della gara all’esito dell’ordinario svolgimento della comparazione delle offerte dei partecipanti, può divenirlo mediante l’esercizio del diritto di prelazione che deve essergli assicurato dal bando in caso di partecipazione alla gara, come previsto dalla stessa norma (“Nel bando è specificato che il promotore può esercitare il diritto di prelazione”; “Se il promotore non risulta aggiudicatario, può esercitare, entro quindici giorni dalla comunicazione dell’aggiudicazione, il diritto di prelazione e divenire aggiudicatario se dichiara di impegnarsi ad adempiere alle obbligazioni contrattuali alle medesime condizioni offerte dall’aggiudicatario”).
In particolare, come rilevato dalla Sezione,
ancorché in un diverso contesto censorio, la posizione del concorrente/proponente, che, già a monte, per effetto della dichiarazione di pubblico interesse della proposta di progetto di finanza pubblica da esso presentata, si diversificava da quella di altri operatori, ricevendo “un’aspettativa e una posizione tutelata”, assume nella conseguente procedura di gara una “maggiore consistenza giuridica” per effetto del diritto di prelazione e dei correlati diritti patrimoniali (Cons. Stato, V, 11.01.2018, n. 111; 26.06.2015, n. 3237), questi ultimi consistenti, in caso di mancato esercizio del diritto di prelazione, nel “diritto al pagamento, a carico dell’aggiudicatario, dell’importo delle spese per la predisposizione della proposta”, speculare alla previsione che, in caso di esercizio della prelazione, “l’originario aggiudicatario ha diritto al pagamento, a carico del promotore, dell’importo delle spese per la predisposizione dell’offerta”.
In altre parole “
la posizione di vantaggio acquisita per effetto della dichiarazione di pubblico interesse si esplica solo all’interno della gara, una volta che la decisione di affidare la concessione sia stata assunta” (Cons. Stato, V, 18.01.2017, n. 207; 21.06.2016, n. 4177).
Ciò nonostante,
la procedura competitiva ex art. 183, comma 15, d.lgs. 50/2016 resta assoggettata ai principi generali delle gare pubbliche, e, più specificamente, a quelli delle gare rette dal criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, stante il richiamo effettuato dal comma 15 al precedente comma 4, in base al quale l’aggiudicazione deve avvenire sulla base “del miglior rapporto qualità/prezzo”.
Ne consegue uno scenario complesso, in cui sussiste l’esigenza della salvaguardia, nello svolgimento della gara, di “uno standard minimo di concorrenzialità” e della “astratta appetibilità” dell’affidamento: tanto è stato riconosciuto dalla Sezione, che, nella sopra citata sentenza n. 4186/2019, ha concluso per l’effetto che il concorrente della seconda fase della procedura di project finacing può contestare in giudizio l’atto di scelta del promotore e di individuazione del progetto posto a base di gara senza incorrere nella preclusione decadenziale derivante dall’esaurimento della prima fase di selezione del promotore, stabilita (Cons. Stato, Ad. Plen. n. 1 del 2012) in riferimento ai concorrenti che a tale prima fase abbiano partecipato, senza essere prescelti.

INCARICHI PROGETTUALIIl direttore dei lavori, pur prestando un'opera professionale in esecuzione di un'obbligazione di mezzi e non di risultato, è chiamato a svolgere la propria attività in situazioni involgenti l'impiego di peculiari competenze tecniche e deve utilizzare le proprie risorse intellettive e operative per assicurare, relativamente all'opera in corso di realizzazione, il risultato che il committente-preponente si aspetta di conseguire, onde il suo comportamento deve essere valutato non con riferimento al normale concetto di diligenza, ma alla stregua della diligentia quam in concreto.
Rientrano, pertanto, nelle obbligazioni del direttore dei lavori, l'accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione dell'opera, al progetto, sia delle modalità dell'esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica, nonché l'adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell'opera senza difetti costruttivi; sicché non si sottrae a responsabilità il professionista che ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni al riguardo, nonché di controllarne l'ottemperanza da parte dell'appaltatore e, in difetto, di riferirne al committente.

---------------
La corte territoriale ha accertato, con giudizio insindacabile in sede di legittimità, il concorso del fatto colposo del direttore dei lavori nella produzione del danno, determinando il grado di efficienza causale di ciascuna colpa.
Nella specie, la corte territoriale ha rilevato la presenza di vizi costruttivi, per erronea impostazione delle due cuspidi e per erronea indicazioni nella posa in opera del tetto da parte del Ba., sia come progettista delle opere in cemento armato -nella cui qualità aveva svolto i calcoli statici- sia come direttore dei lavori, che aveva l'alta sorveglianza del cantiere.
Come affermato da questa Corte con orientamento consolidato, al quale va dato continuità, il direttore dei lavori, pur prestando un'opera professionale in esecuzione di un'obbligazione di mezzi e non di risultato, è chiamato a svolgere la propria attività in situazioni involgenti l'impiego di peculiari competenze tecniche e deve utilizzare le proprie risorse intellettive e operative per assicurare, relativamente all'opera in corso di realizzazione, il risultato che il committente-preponente si aspetta di conseguire, onde il suo comportamento deve essere valutato non con riferimento al normale concetto di diligenza, ma alla stregua della diligentia quam in concreto.
Rientrano, pertanto, nelle obbligazioni del direttore dei lavori, l'accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione dell'opera, al progetto, sia delle modalità dell'esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica, nonché l'adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell'opera senza difetti costruttivi; sicché non si sottrae a responsabilità il professionista che ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni al riguardo, nonché di controllarne l'ottemperanza da parte dell'appaltatore e, in difetto, di riferirne al committente (Cassazione civile sez. II, 15/10/2013, n. 23350) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 07.02.2020 n. 2913).

EDILIZIA PRIVATA - INCARICHI PROGETTUALI: In tema di contratto di appalto, la diligenza qualificata ex art. 1176, comma 2, c.c., che impone all'appaltatore (sia egli professionista o imprenditore) di realizzare l'opera a regola d'arte, impiegando le energie ed i mezzi normalmente ed obiettivamente necessari od utili in relazione alla natura dell'attività esercitata, onde soddisfare l'interesse creditorio ed evitare possibili eventi dannosi, rileva anche se egli si attenga alle previsioni di un progetto altrui, sicché,
   - ove sia il committente a predisporre il progetto e a fornire indicazioni per la sua realizzazione, l'appaltatore risponde dei vizi dell'opera se, fedelmente eseguendo il progetto e le indicazioni ricevute, non ne segnali eventuali carenze ed errori, il cui controllo e correzione rientra nella sua prestazione,
   - mentre è esente da responsabilità ove il committente, edotto di tali carenze ed errori, richieda di dare egualmente esecuzione al progetto o ribadisca le indicazioni, riducendo così l'appaltatore a proprio mero "nudus minister", direttamente e totalmente condizionato dalle istruzioni ricevute senza possibilità di iniziativa o vaglio critico.

---------------
Con il primo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 1218 c.c. e dell'art. 1667 c.c., in relazione all'art. 360, comma 1, n. 2 c.p.c., nonché l'omessa ed insufficiente motivazione in ordine alla responsabilità dell'appaltatore.
Il motivo non è fondato.
In tema di contratto di appalto, la diligenza qualificata ex art. 1176, comma 2, c.c., che impone all'appaltatore (sia egli professionista o imprenditore) di realizzare l'opera a regola d'arte, impiegando le energie ed i mezzi normalmente ed obiettivamente necessari od utili in relazione alla natura dell'attività esercitata, onde soddisfare l'interesse creditorio ed evitare possibili eventi dannosi, rileva anche se egli si attenga alle previsioni di un progetto altrui, sicché, ove sia il committente a predisporre il progetto e a fornire indicazioni per la sua realizzazione, l'appaltatore risponde dei vizi dell'opera se, fedelmente eseguendo il progetto e le indicazioni ricevute, non ne segnali eventuali carenze ed errori, il cui controllo e correzione rientra nella sua prestazione, mentre è esente da responsabilità ove il committente, edotto di tali carenze ed errori, richieda di dare egualmente esecuzione al progetto o ribadisca le indicazioni, riducendo così l'appaltatore a proprio mero "nudus minister", direttamente e totalmente condizionato dalle istruzioni ricevute senza possibilità di iniziativa o vaglio critico (Cassazione civile sez. II, 02/02/2016, n. 1981; Cass. Civ., sez. 03, del 31/05/2006, n. 12995).
La corte territoriale ha fatto corretta applicazione del principio di diritto affermato da questa Corte, affermando correttamente che il Da., in qualità di appaltatore, aveva fatto affidamento su un progetto redatto da soggetto privo dei requisiti tecnici professionali, oltre che carente e per non aver controllato sulla posa in opera del tetto di copertura.
Ha, inoltre accertato che mancava una specifica pattuizione di esonero della responsabilità dell'appaltatore tale da escludere il suo dovere di iniziativa e di valutazione critica delle incongruenze progettuali, della improvvisazione con la quale si era proceduto alla copertura del fabbricato e per non aver comunicato al committente le incongruenze progettuali (pag. 10-12 della sentenza impugnata).
Il ricorrente non allega e trascrive, nemmeno per sintesi, la clausola contrattuale da cui risulterebbe la sua assoluta soggezione alle direttive tecniche del direttore di cantiere e censura confusamente la motivazione del primo giudice, riportando stralci della CTU, al fine di dimostrare l'assenza di autonomia e discrezionalità tecnico organizzativa, sicché il motivo si risolve in un'ammissibile rivalutazione delle risultanze istruttorie, non consentita in sede di legittimità (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 07.02.2020 n. 2913).

EDILIZIA PRIVATADecorrenza del termine di impugnazione dei titoli edilizi ed interesse a ricorrere.
---------------
  
Processo amministrativo – Termine per l’impugnazione - Titoli edilizi – Dies a quo – Individuazione.
  
Processo amministrativo – Interesse a ricorrere – Edilizia – Titoli edilizi - Vicinitas – Limiti.
  
Il momento da cui computare i termini decadenziali di proposizione del ricorso nell’ambito dell’attività edilizia deve essere individuato nell’inizio dei lavori, nel caso si sostenga che nessun manufatto poteva essere edificato sull’area ovvero laddove si contesti la violazione delle distanza; viceversa esso decorre dal completamento dei lavori o dal grado di sviluppo degli stessi, ove si contesti il dimensionamento, la consistenza ovvero la finalità dell’erigendo manufatto.
  
In materia edilizia, la vicinitas non rappresenta un dato decisivo per fondare l’interesse ad impugnare, nel senso che di per sé non è sufficiente, dovendosi dimostrare che l’intervento contestato abbia capacità di propagarsi sino a incidere negativamente sul fondo del ricorrente (2).
---------------
   (1) Cons. St., sez. IV, n. 5754 del 2017; sez. VI, n. 4830 del 2017; sez. IV, n. 3067 del 2017; id., 15.11.2016, n. 4701; id., n. 1135 del 2016; id., nn. n. 4909 e 4910 del 2015.
Ha poi ricordato la Sezione che giurisprudenza (Cons. St., sez. IV, 23.05.2018, n. 3075) ha avuto modo di chiarire che la “piena conoscenza” non deve essere intesa quale “conoscenza piena ed integrale” del provvedimento stesso, dovendosi invece ritenere che sia sufficiente ad integrare il concetto la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere riconoscibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso. Vi è dunque “piena conoscenza” quando si è consapevoli dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività e tale consapevolezza determina la sussistenza di una condizione dell’azione, l’interesse al ricorso, mentre la conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione.
   (2) Cons. St., sez. IV, 19.11.2015, n. 5278.
L’idea che la nozione di vicinitas, oltre a identificare una posizione qualificata idonea a rappresentare la legittimazione a impugnare il titolo edilizio, avrebbe assorbito anche l'interesse a ricorrere è stata infatti superata dall’indirizzo secondo cui, ai fini dell'ammissibilità del ricorso, deve essere concretamente indagato e accertato anche l'interesse ad agire. Questo indirizzo valorizza ragioni di coerenza con i principî generali sulle condizioni per l'azione nel processo amministrativo (Cons. St., A.P., 25.02.2014, n. 9; successivamente, sez. IV, 19.11.2015, n. 5278 citata; per ultimo sez. IV, 05.02.2018, n. 707).
D’altra parte, se la distinzione fra i due indirizzi appena richiamati può non risultare sempre percepibile con evidenza (soprattutto in tema di distanze o per ragioni di salubrità), va considerato che nella odierna vicenda contenziosa non appare evidente come la trasformazione edilizia contestata potesse incidere in via immediata e diretta sulla sfera giuridica delle ricorrenti. Queste ultime hanno addotto a giustificazione del loro interesse all’impugnazione un generico profilo di depauperamento della condizione edilizia della zona.
La sussistenza dunque del requisito della mera vicinitas non costituisce elemento sufficiente a comprovare la legittimazione a ricorrere e l'interesse al ricorso, occorrendo invece la positiva dimostrazione di un danno che attingerebbe la posizione di colui il quale insorge giudizialmente (Cons. St., sez. V, 15.12.2017, n. 5908).
In chiave comparata, peraltro, è utile ricordare che già in altri ordinamenti europei (ad esempio in Francia), a proposito dell’interesse a ricorrere contro un permesso di costruire, si richiede, nell’idea di considerare anche la sicurezza giuridica dei titoli autorizzatori (nel caso in esame rilasciati 3 anni prima), la dimostrazione puntuale dello stesso (cfr. Conseil d'État, 17.03.2017, n. 396362 e l’art. L-600.1.2 del Code de l'urbanisme, nel testo introdotto con ordinanza n. 2013-638 del 18.07.2013, che stabilisce che l'impugnazione di un permesso di costruire richiede la dimostrazione che l'intervento edilizio sia tale da incidere in modo diretto sul godimento di un bene da parte del ricorrente) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.02.2020 n. 962 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).
---------------
SENTENZA
9. L’appello non è fondato.
10. Preliminarmente, il Collegio esamina l’eccezione di tardività del ricorso di primo grado, eccezione assorbita dal Tar e riproposta dalle parti appellate nel presente grado di giudizio.
10.1. Le ricorrenti sostengono in proposito che il termine di decorrenza per l’impugnazione dovesse decorrere dal 04.08.2017, data nella quale il Comune di Padova ha riscontrato la seconda istanza di accesso presentata il 25.07.2017. Solo all’esito di quest’ultima istanza di accesso avrebbero avuto “piena conoscenza” degli atti impugnati.
10.2. La tesi non può essere condivisa. Con il primo accesso riscontrato dal Comune di Padova il 13.07.2017 sono stati consegnati gli elaborati relativi alla DIA del 02.12.2014 (denuncia presentata dalla società Ro. con riferimento al progetto in precedenza approvato). Dalla stessa documentazione era dunque possibile prendere conoscenza di tutte le caratteristiche dello stesso progetto (es. volume, altezza).
10.3. Né in senso contrario rileva quanto replicato dalle appellanti in ordine al fatto che l’accesso riscontrato il 13.07.2017 era stata fatto dal signor Bo., cioè da uno dei ricorrenti in primo grado che non ha poi proposto appello (l’irricevibilità riguarderebbe quindi quest’ultimo, perché la signora Pa. ha presentato istanza di accesso il 25.07.2017 e la signora Bo.Ma. non ha presentato nessuna istanza di accesso). La documentazione sopra indicata è stata, come detto, conosciuta a far data dal 13.07.2017 e tutte e tre i ricorrenti hanno congiuntamente proposto il ricorso oggetto dell’eccezione di irricevibilità.
10.4. L’avvenuta conoscenza dei provvedimenti impugnati in epoca antecedente a quella indicata (04.08.2017) è, d’altra parte, desumile anche dalla stessa residenza dei ricorrenti in prossimità del luogo di edificazione, dalla presenza del cartello lavori, dal tempo trascorso (circa tre anni fra l’inizio dei lavori nel 2014 e la notifica del ricorso di primo grado il 28.10.2017), dallo stato di avanzamento dei lavori (verbale dei vigili urbani del novembre 2017 sull’ultimazione degli stessi).
10.5. La giurisprudenza (cfr. ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 23.05.2018, n. 3075) ha infatti avuto modo di chiarire che la “piena conoscenza” non deve essere intesa quale “conoscenza piena ed integrale” del provvedimento stesso, dovendosi invece ritenere che sia sufficiente ad integrare il concetto la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere riconoscibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso. Vi è dunque “piena conoscenza” quando si è consapevoli dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività e tale consapevolezza determina la sussistenza di una condizione dell’azione, l’interesse al ricorso, mentre la conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione.
10.6. La previsione dell’istituto dei motivi aggiunti, per il tramite dei quali il ricorrente può proporre ulteriori motivi di ricorso derivanti dalla conoscenza di ulteriori atti (già esistenti al momento dell’introduzione del giudizio, ma ignoti) o dalla conoscenza integrale di atti prima non pienamente conosciuti, e ciò entro il (nuovo) termine decadenziale di sessanta giorni decorrente da tale conoscenza sopravvenuta, comprova la fondatezza dell’interpretazione resa in ordine al significato della “piena conoscenza” (cfr. anche Cons. Stato, Sez. IV, n. 5675 del 2017).
10.7. In ogni caso, il momento da cui computare i termini decadenziali di proposizione del ricorso nell’ambito dell’attività edilizia deve essere individuato nell’inizio dei lavori, nel caso si sostenga che nessun manufatto poteva essere edificato sull’area ovvero laddove si contesti (come nel caso di specie), la violazione delle distanza; viceversa esso decorre dal completamento dei lavori o dal grado di sviluppo degli stessi, ove si contesti il dimensionamento, la consistenza ovvero la finalità dell’erigendo manufatto (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, n. 5754 del 2017; Sez. VI, n. 4830 del 2017; Sez. IV, n. 3067 del 2017; Sez. IV, 15.11.2016, n. 4701; Sez. IV, n. 1135 del 2016; Sez. IV, nn. n. 4909 e 4910 del 2015; Sez. IV, 22.12.2014 n. 6337; Sez. V, 16.04.2013, n. 2107; Sez. VI, 18.04.2012, n. 2209, che si conformano sostanzialmente all’insegnamento dell'Adunanza plenaria n. 15 del 2011).
11. Oltre al predetto profilo di irricevibilità, appare fondata anche l’eccezione di sopravvenuta carenza di interesse all’annullamento degli atti impugnati a seguito della DIA presentata dalla società Ro. il 02.12.2017 (profilo dedotto in primo grado ma non esaminato dal Tar).
11.1. La Dia infatti si è consolidata senza che sia intervenuta alcuna iniziativa in sede giurisdizionale a seguito del silenzio serbato dal Comune sull’istanza dei ricorrenti del 23.11.2017 di annullamento in autotutela; ma, soprattutto, la stessa ha sostanzialmente modificato l’originario progetto assentito con i provvedimenti impugnati (quest’ultimo prevedeva 3 piani fuori terra più il piano sottotetto per un’altezza pari a 8,20 metri, mentre il progetto di cui alla DIA, poi concretamente attuato, 4 piani fuori terra più un piano sottotetto per un’altezza di 11,20 metri). Pertanto, le ricorrenti non avrebbero tratto alcun vantaggio dall’eventuale annullamento dei titoli edilizi impugnati.
12. Ciò premesso, deve in ogni caso ritenersi condivisibile anche la conclusione del giudice di primo grado in ordine all’inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio per originaria carenza di interesse delle ricorrenti, le quali non avrebbero provato la concreta lesione derivante dagli atti impugnati (permessi di costruire n. 5978/10/0 del 2010 e n. 5978/10/1 del 2013).
13. Sul punto le ricorrenti deducono, in buona sostanza, che il titolo di legittimazione alla proposizione del ricorso, nonché l’interesse a ricorrere per l’annullamento di un titolo edilizio discenderebbe in loro favore dalla c.d. vicinitas, senza che occorra effettuare indagini in ordine al concreto pregiudizio che i lavori assentiti fossero in grado di produrre. In ogni caso, le appellanti avrebbero avuto comunque un interesse consistente nell’evitare un deterioramento del preesistente assetto edilizio della zona derivante dall’impatto della nuova costruzione.
14. La tesi prospettata non può essere condivisa. A prescindere dalla circostanza che le due appellanti non sono proprietarie di edifici immediatamente contigui all’area oggetto dell’intervento edilizio contestato, va rilevato che l’invocata vicinitas può fondare la legittimazione ad agire, ma va poi accompagnata dalla presenza di una lesione concreta ed attuale della posizione soggettiva di chi impugna il titolo edilizio. In altri termini, lo stabile collegamento con l’area interessata dalle opere edilizie non è sufficiente a comprovare anche l’interesse ad agire che è invece derivante da un concreto pregiudizio per l’interessato.
14.1. La giurisprudenza ha chiarito a più riprese che la vicinitas non rappresenta un dato decisivo per fondare l’interesse ad impugnare, nel senso che di per sé non è sufficiente, dovendosi dimostrare che l’intervento contestato abbia capacità di propagarsi sino a incidere negativamente sul fondo del ricorrente (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 19.11.2015, n. 5278). Nella fattispecie in esame tuttavia una simile prova non viene fornita.
14.2. L’idea che la nozione di vicinitas, oltre a identificare una posizione qualificata idonea a rappresentare la legittimazione a impugnare il titolo edilizio, avrebbe assorbito anche l'interesse a ricorrere è stata infatti superata dall’indirizzo secondo cui, ai fini dell'ammissibilità del ricorso, deve essere concretamente indagato e accertato anche l'interesse ad agire. Questo indirizzo valorizza ragioni di coerenza con i principî generali sulle condizioni per l'azione nel processo amministrativo (cfr. Cons. Stato: Ad. plen., 25.02.2014, n. 9; successivamente, Sez. IV, 19.11.2015, n. 5278 citata; per ultimo Sez. IV, 05.02.2018, n. 707).
14.3. D’altra parte, se la distinzione fra i due indirizzi appena richiamati può non risultare sempre percepibile con evidenza (soprattutto in tema di distanze o per ragioni di salubrità), va considerato che nella odierna vicenda contenziosa non appare evidente come la trasformazione edilizia contestata potesse incidere in via immediata e diretta sulla sfera giuridica delle ricorrenti. Queste ultime hanno addotto a giustificazione del loro interesse all’impugnazione un generico profilo di depauperamento della condizione edilizia della zona.
14.4. La sussistenza dunque del requisito della mera vicinitas non costituisce elemento sufficiente a comprovare la legittimazione a ricorrere e l'interesse al ricorso, occorrendo invece la positiva dimostrazione di un danno che attingerebbe la posizione di colui il quale insorge giudizialmente (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 15.12.2017, n. 5908).
14.5. In chiave comparata, peraltro, è utile ricordare che già in altri ordinamenti europei (ad esempio in Francia) , a proposito dell’interesse a ricorrere contro un permesso di costruire, si richiede, nell’idea di considerare anche la sicurezza giuridica dei titoli autorizzatori (nel caso in esame rilasciati 3 anni prima), la dimostrazione puntuale dello stesso (cfr. Conseil d'État, 17.03.2017, n. 396362 e l’art. L-600.1.2 del Code de l'urbanisme, nel testo introdotto con ordinanza n. 2013-638 del 18.07.2013, che stabilisce che l'impugnazione di un permesso di costruire richiede la dimostrazione che l'intervento edilizio sia tale da incidere in modo diretto sul godimento di un bene da parte del ricorrente).

EDILIZIA PRIVATACon riferimento all’ordinanza di demolizione, in presenza di abusi edilizi, l’applicazione doverosa e vincolata della sanzione edilizia deriva unicamente dalla rilevazione di un intervento privo del prescritto titolo abilitativo, senza che possa rilevare l’eventuale conformità urbanistica o meno delle opere realizzate.
Quest’ultima può interessare soltanto ai fini della loro eventuale sanatoria, che l’interessato può richiedere tramite domanda di accertamento di conformità postuma, ai sensi dell’art. 36 d.p.r. 380/2001.

---------------

3.- Il ricorso ed i relativi motivi aggiunti sono infondati.
Infondato è il primo motivo del ricorso introduttivo.
Con riferimento all’ordinanza di demolizione, in presenza di abusi edilizi, l’applicazione doverosa e vincolata della sanzione edilizia deriva unicamente dalla rilevazione di un intervento privo del prescritto titolo abilitativo, senza che possa rilevare l’eventuale conformità urbanistica o meno delle opere realizzate. Quest’ultima può interessare soltanto ai fini della loro eventuale sanatoria, che l’interessato può richiedere –com’è accaduto nel caso in esame- tramite domanda di accertamento di conformità postuma, ai sensi dell’art. 36 d.p.r. 380/2001 (cfr. ex multis, questa Sezione, 22.08.2016, n. 4088) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 07.02.2020 n. 593 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla non precarietà di un gazebo avente le dimensioni di mq. 19,00 circa di superficie, altezza minima di mt. 3,70 e massima di mt. 4,10 ed essendo fissato al suolo su piccole basi in calcestruzzo completamente interrate.
Un'opera può essere qualificata come precaria ove sia destinata ad essere rimossa non appena siano venuti meno i bisogni, meramente occasionali, che ne hanno determinato l'installazione, viceversa, ove la costruzione sia precostituita al soddisfacimento di interessi stabili e permanenti viene meno il requisito della precarietà.
Ne consegue che i gazebo poggianti su piattaforme di calcestruzzo sono strutture non precarie bensì funzionali a soddisfare esigenze permanenti; gli stessi costituiscono pertanto manufatti in grado di alterare lo stato dei luoghi, con ricadute sul carico urbanistico.
Al fine di qualificare sul piano edilizio ed urbanistico il gazebo eretto de quo, lo stesso, essendo infisso al suolo su una base di calcestruzzo cementizio, ha prodotto occupazione di superficie utile; in questo modo si è concretizzata una “trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio”, nonché un mutamento dello stato dei luoghi rilevanti sul piano ambientale.
Trattasi, quindi, di intervento di nuova costruzione, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d), d.p.r. 380/2001 avendo comunque determinato un consumo di suolo e, dunque, una trasformazione tendenzialmente irreversibile del territorio, con necessità di acquisire preventivamente, per il profilo edilizio-urbanistico, il permesso di costruire e, per quello paesaggistico-ambientale, sussistendo il relativo vincolo, l’autorizzazione prescritta dall’art. 146 del d.lgs. n. 42/2004.
---------------

4.- Infondati sono il secondo ed il terzo motivo del ricorso introduttivo nonché il terzo motivo del ricorso per motivi aggiunti, il cui esame, per ragioni di connessione nei contenuti, è opportuno trattare congiuntamente.
4.1.- Nella relazione tecnica asseverata allegata all’istanza di accertamento di conformità prodotta dalla ricorrente, prot. n. 17543 del 06.09.2016, l’opera oggetto dell’impugnata ordinanza di demolizione è così descritta: “pergolato in ferro bullonato che poggia su pilastrini in ferro e non risulta essere ancorata al terreno in modo permanente. Il pergolato presenta una altezza massima di 3,18 mt e una altezza minima di 2,55 mt. La suddetta struttura è stata realizzata per lo scopo di sostenere la crescita di piante rampicanti presenti nel giardino circostante al pergolato. Quest’ultimo si presenta completamente aperto su tutti e 4 i lati e anche sul lato superiore (soffitto) come si evince dai grafici allegati e dal rilievo fotografico. Pertanto l’opera risulta essere amovibile e inoltre non reca alcun violento impatto sull’ambiente circostante”.
La descrizione riduttiva è però smentita dal verbale del Corpo di Polizia Locale prot. n. 2770/P.M., redatto a seguito di sopralluogo effettuato in data 19.05.2016 (allegato 9 alla memoria depositata dal comune il 24.10.2019).
Dal sopralluogo emerge che la struttura –definito nell’ordinanza come “Gazebo”- ha le seguenti dimensioni: superficie mq. 19,00 circa, altezza minima di mt. 3,70 e massima di mt. 4,10; aspetto, tuttavia, rilevante ai fini che in questa sede interessano è che lo stesso è fissato al suolo su piccole basi in calcestruzzo completamente interrate.
Ebbene, le riproduzioni fotografiche allegate sia al verbale della Polizia municipale sia alle istanze di accertamento di conformità urbanistica e di autorizzazione paesaggistica, presentate dalla ricorrente, lasciano pochi dubbi sulle caratteristiche del sopra menzionato gazebo. Quest’ultimo si presenta in effetti come struttura solida, infissa al suolo su una base di calcestruzzo cementizio, elementi costruttivi che la privano decisamente dal preteso carattere provvisorio.
4.2.- Appaiono dunque assenti quelle caratteristiche di precarietà ed amovibilità reclamate invece dalla ricorrente.
Ad avviso di costante e condivisa giurisprudenza, anche di questa Sezione, "un'opera può essere qualificata come precaria ove sia destinata ad essere rimossa non appena siano venuti meno i bisogni, meramente occasionali, che ne hanno determinato l'installazione, viceversa, ove la costruzione sia precostituita al soddisfacimento di interessi stabili e permanenti, come accade nell'ipotesi in esame, viene meno il requisito della precarietà” (TAR Napoli, sez. III, 01.04.2019, n. 1783; Idem, sez. VI, 24.05.2019, n. 2805; TAR Firenze, Sez. III, 17.04.2018, n. 556).
Ne consegue che i gazebo poggianti su piattaforme di calcestruzzo sono strutture non precarie bensì funzionali a soddisfare esigenze permanenti; gli stessi costituiscono pertanto manufatti in grado di alterare lo stato dei luoghi, con ricadute sul carico urbanistico (Cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. II, 03.09.2019, n. 6068).
Come chiarito nella parte motiva dell’impugnata ordinanza di demolizione:
   - l’opera abusiva ricade in zona classificata urbanisticamente entro il centro abitato;
   - la zona in cui insiste l’opera è vincolata per il profilo ambientale e paesaggistico dal D.Lgs. 42/2004 (ex legge 1497/1939) nonché dal D.M. 28.03.1985, in quanto “zona di notevole interesse pubblico”;
   - il territorio comunale rientra nei Comuni di cui al “Rischio Vulcanico” di cui alla legge regionale n. 21 del 10.12.2003, con grado di sismicità categoria 2 “S.9”, giusta D.G.R.C. n. 5447 del 07.11.2002 (classificazione sismica dei Comuni della Regione Campania).
Al fine di qualificare sul piano edilizio ed urbanistico il gazebo eretto nel giardino antistante l’immobile, lo stesso, essendo infisso al suolo su una base di calcestruzzo cementizio, ha prodotto occupazione di superficie utile; in questo modo si è concretizzata una “trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio”, nonché un mutamento dello stato dei luoghi rilevanti sul piano ambientale.
Trattasi, quindi, di intervento di nuova costruzione, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d), d.p.r. 380/2001 avendo comunque determinato un consumo di suolo e, dunque, una trasformazione tendenzialmente irreversibile del territorio, con necessità di acquisire preventivamente, per il profilo edilizio-urbanistico, il permesso di costruire (cfr. TAR Napoli, sez. VIII, 07.11.2016, n. 5116) e, per quello paesaggistico-ambientale, sussistendo il relativo vincolo, l’autorizzazione prescritta dall’art. 146 del d.lgs. n. 42/2004 (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 07.02.2020 n. 593 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non costituisce pertinenza edilizia la costruzione di un gazebo avente le dimensioni di mq. 19,00 circa di superficie, altezza minima di mt. 3,70 e massima di mt. 4,10 ed essendo fissato al suolo su piccole basi in calcestruzzo completamente interrate.
L
a nozione generale di pertinenza sul piano urbanistico-edilizio assume caratteristiche peculiari e meno ampie rispetto a quella civilistica ricavabile dall'art. 817 c.c., essendo la stessa configurabile nel caso in cui sussista un oggettivo ed inscindibile nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella principale, purché l'opera secondaria non comporti alcun maggiore carico urbanistico.
---------------

4.- Infondati sono il secondo ed il terzo motivo del ricorso introduttivo nonché il terzo motivo del ricorso per motivi aggiunti, il cui esame, per ragioni di connessione nei contenuti, è opportuno trattare congiuntamente.
4.1.- Nella relazione tecnica asseverata allegata all’istanza di accertamento di conformità prodotta dalla ricorrente, prot. n. 17543 del 06.09.2016, l’opera oggetto dell’impugnata ordinanza di demolizione è così descritta: “pergolato in ferro bullonato che poggia su pilastrini in ferro e non risulta essere ancorata al terreno in modo permanente. Il pergolato presenta una altezza massima di 3,18 mt. e una altezza minima di 2,55 mt. La suddetta struttura è stata realizzata per lo scopo di sostenere la crescita di piante rampicanti presenti nel giardino circostante al pergolato. Quest’ultimo si presenta completamente aperto su tutti e 4 i lati e anche sul lato superiore (soffitto) come si evince dai grafici allegati e dal rilievo fotografico. Pertanto l’opera risulta essere amovibile e inoltre non reca alcun violento impatto sull’ambiente circostante”.
La descrizione riduttiva è però smentita dal verbale del Corpo di Polizia Locale prot. n. 2770/P.M., redatto a seguito di sopralluogo effettuato in data 19.05.2016 (allegato 9 alla memoria depositata dal comune il 24.10.2019).
Dal sopralluogo emerge che la struttura –definito nell’ordinanza come “Gazebo”- ha le seguenti dimensioni: superficie mq. 19,00 circa, altezza minima di mt. 3,70 e massima di mt. 4,10; aspetto, tuttavia, rilevante ai fini che in questa sede interessano è che lo stesso è fissato al suolo su piccole basi in calcestruzzo completamente interrate.
Ebbene, le riproduzioni fotografiche allegate sia al verbale della Polizia municipale sia alle istanze di accertamento di conformità urbanistica e di autorizzazione paesaggistica, presentate dalla ricorrente, lasciano pochi dubbi sulle caratteristiche del sopra menzionato gazebo. Quest’ultimo si presenta in effetti come struttura solida, infissa al suolo su una base di calcestruzzo cementizio, elementi costruttivi che la privano decisamente dal preteso carattere provvisorio.
4.2.- Appaiono dunque assenti quelle caratteristiche di precarietà ed amovibilità reclamate invece dalla ricorrente.
Ad avviso di costante e condivisa giurisprudenza, anche di questa Sezione, "un'opera può essere qualificata come precaria ove sia destinata ad essere rimossa non appena siano venuti meno i bisogni, meramente occasionali, che ne hanno determinato l'installazione, viceversa, ove la costruzione sia precostituita al soddisfacimento di interessi stabili e permanenti, come accade nell'ipotesi in esame, viene meno il requisito della precarietà” (TAR Napoli, sez. III, 01.04.2019, n. 1783; Idem, sez. VI, 24.05.2019, n. 2805; TAR Firenze, Sez. III, 17.04.2018, n. 556).
Ne consegue che i gazebo poggianti su piattaforme di calcestruzzo sono strutture non precarie bensì funzionali a soddisfare esigenze permanenti; gli stessi costituiscono pertanto manufatti in grado di alterare lo stato dei luoghi, con ricadute sul carico urbanistico (Cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. II, 03.09.2019, n. 6068).
Come chiarito nella parte motiva dell’impugnata ordinanza di demolizione:
   - l’opera abusiva ricade in zona classificata urbanisticamente entro il centro abitato;
   - la zona in cui insiste l’opera è vincolata per il profilo ambientale e paesaggistico dal D.Lgs. 42/2004 (ex legge 1497/1939) nonché dal D.M. 28.03.1985, in quanto “zona di notevole interesse pubblico”;
   - il territorio comunale rientra nei Comuni di cui al “Rischio Vulcanico” di cui alla legge regionale n. 21 del 10.12.2003, con grado di sismicità categoria 2 “S.9”, giusta D.G.R.C. n. 5447 del 07.11.2002 (classificazione sismica dei Comuni della Regione Campania).
Al fine di qualificare sul piano edilizio ed urbanistico il gazebo eretto nel giardino antistante l’immobile, lo stesso, essendo infisso al suolo su una base di calcestruzzo cementizio, ha prodotto occupazione di superficie utile; in questo modo si è concretizzata una “trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio”, nonché un mutamento dello stato dei luoghi rilevanti sul piano ambientale.
Trattasi, quindi, di intervento di nuova costruzione, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d), d.p.r. 380/2001 avendo comunque determinato un consumo di suolo e, dunque, una trasformazione tendenzialmente irreversibile del territorio, con necessità di acquisire preventivamente, per il profilo edilizio-urbanistico, il permesso di costruire (cfr. TAR Napoli, sez. VIII, 07.11.2016, n. 5116) e, per quello paesaggistico-ambientale, sussistendo il relativo vincolo, l’autorizzazione prescritta dall’art. 146 del d.lgs. n. 42/2004.
...
4.3.- Non condivisibile il tentativo della ricorrente di derubricare la struttura contestata a mera pertinenza edilizia e, quindi, assentibile anche in via postuma.
Come chiarito da costante e condivisa giurisprudenza, anche di questa Sezione, la nozione generale di pertinenza sul piano urbanistico-edilizio assume caratteristiche peculiari e meno ampie rispetto a quella civilistica ricavabile dall'art. 817 c.c., essendo la stessa configurabile nel caso in cui sussista un oggettivo ed inscindibile nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella principale, purché l'opera secondaria non comporti alcun maggiore carico urbanistico (cfr. ex multis, TAR Napoli, sez. III, 09.12.2019, n. 5769) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 07.02.2020 n. 593 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell'art. 36 d.p.r. n. 380/2001, ove il Comune non si pronunci espressamente entro il termine di sessanta giorni dal ricevimento dell’istanza di accertamento di conformità, la stessa s'intende respinta. Sull’istanza si forma infatti una fattispecie tipica, prevista direttamente dal legislatore, di silenzio-diniego, il quale va impugnato mediante la proposizione di motivi aggiunti o ricorso autonomo.
Il silenzio-diniego può infatti essere impugnato dall’interessato in sede giurisdizionale per il tramite dell’azione di annullamento, alla stregua di un provvedimento esplicito, con la differenza però che il diniego, in quanto tacito, non è censurabile per difetto di motivazione, di cui è strutturalmente carente per previsione legislativa, ma solo per il suo contenuto di rigetto.
Allo stesso modo, del silenzio-diniego non sono contestabili gli altri difetti formali propri degli atti, quali i vizi del procedimento, la mancanza di pareri o del preavviso dei motivi ostativi all’accoglimento.
Infatti, la stessa previsione normativa del silenzio-diniego è giustificabile ove si consideri che l’accertamento di conformità, come evidenziato da costante giurisprudenza, alla quale questa Sezione si è più volte conformata, è diretto a sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il previo rilascio del titolo ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l’area su cui sorgono, vigente al momento sia della loro realizzazione sia della presentazione dell’istanza di conformità (c.d. “doppia conformità”).
Il provvedimento di sanatoria assume, dunque, una connotazione eminentemente oggettiva e vincolata, priva di apprezzamenti discrezionali, dovendo l’autorità procedente valutare la conformità dell’opera alla normativa urbanistica ed edilizia vigente in relazione ad entrambi i segmenti temporali considerati dalla norma.
---------------
La presentazione di un’istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità dei provvedimenti demolitori in precedenza emessi ma si limita solo a sospenderne temporaneamente gli effetti sino alla definizione del relativo procedimento, in ciò distinguendosi dagli speciali procedimenti del cosiddetto condono edilizio; in altri termini, l’efficacia dell’ordine sanzionatorio resta soltanto sospesa, ossia posta in uno stato di temporanea quiescenza.
Va del resto disattesa una diversa soluzione interpretativa la quale comporterebbe il paradossale vantaggio per il soggetto destinatario del provvedimento di paralizzare ad libitum la potestà amministrativa, determinando la definitiva inefficacia di un provvedimento autoritativo, ogni qual volta sia adottato, mediante la mera presentazione di un’istanza.
Ne consegue che, a conclusione del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell’istanza, l’ordine di demolizione resta privo di effetti, in ragione dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia, con conseguente venir meno dell’originario carattere abusivo dell’opera realizzata; al contrario, in caso di rigetto dell’istanza, espresso o tacito, l’ordine demolitorio si espande di nuovo, riacquistando la propria originaria e piena efficacia.
In questo caso, il termine concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione dovrà decorrere dal momento in cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza dell’interessato; costui, infatti, non può essere pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà di legge, quale quella di chiedere la verifica postuma di conformità urbanistica e, pertanto, ha diritto di fruire dell’intero termine a lui assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso.
---------------

5.- Risultano infondati anche il primo ed il secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti.
5.1.- Le proposte censure non considerano che, ai sensi del menzionato art. 36 d.p.r. n. 380/2001, ove il Comune non si pronunci espressamente entro il termine di sessanta giorni dal ricevimento dell’istanza di accertamento di conformità, la stessa s'intende respinta. Sull’istanza si forma infatti una fattispecie tipica, prevista direttamente dal legislatore, di silenzio-diniego, il quale va impugnato mediante la proposizione di motivi aggiunti o ricorso autonomo (ex multis, TAR Campania, Napoli, Sez. III, 09.12.2014, n. 6425; Idem, n. 3386 del 08.07.2015).
Il silenzio-diniego può infatti essere impugnato dall’interessato in sede giurisdizionale per il tramite dell’azione di annullamento, alla stregua di un provvedimento esplicito, con la differenza però che il diniego, in quanto tacito, non è censurabile per difetto di motivazione, di cui è strutturalmente carente per previsione legislativa, ma solo per il suo contenuto di rigetto.
Allo stesso modo, del silenzio-diniego non sono contestabili gli altri difetti formali propri degli atti, quali i vizi del procedimento, la mancanza di pareri o del preavviso dei motivi ostativi all’accoglimento (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. III, 22.08.2016, n. 4088).
Infatti, la stessa previsione normativa del silenzio-diniego è giustificabile ove si consideri che l’accertamento di conformità, come evidenziato da costante giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato sez. IV, 05.05.2017 n. 2063), alla quale questa Sezione si è più volte conformata (cfr. ex multis, sentenza 05.09.2017, n. 4249), è diretto a sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il previo rilascio del titolo ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l’area su cui sorgono, vigente al momento sia della loro realizzazione sia della presentazione dell’istanza di conformità (c.d. “doppia conformità”).
Il provvedimento di sanatoria assume, dunque, una connotazione eminentemente oggettiva e vincolata, priva di apprezzamenti discrezionali, dovendo l’autorità procedente valutare la conformità dell’opera alla normativa urbanistica ed edilizia vigente in relazione ad entrambi i segmenti temporali considerati dalla norma (ex multis, sempre questa Sezione, sentenza 24.10.2017, n. 4940).
5.2.- Come chiarito, altresì, da costante giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 02.02.2015, n. 466), la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità dei provvedimenti demolitori in precedenza emessi ma si limita solo a sospenderne temporaneamente gli effetti sino alla definizione del relativo procedimento, in ciò distinguendosi dagli speciali procedimenti del cosiddetto condono edilizio; in altri termini, l’efficacia dell’ordine sanzionatorio resta soltanto sospesa, ossia posta in uno stato di temporanea quiescenza.
Va del resto disattesa una diversa soluzione interpretativa la quale comporterebbe il paradossale vantaggio per il soggetto destinatario del provvedimento di paralizzare ad libitum la potestà amministrativa, determinando la definitiva inefficacia di un provvedimento autoritativo, ogni qual volta sia adottato, mediante la mera presentazione di un’istanza (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. III, 05.09.2017, n. 4251).
Ne consegue che, a conclusione del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell’istanza, l’ordine di demolizione resta privo di effetti, in ragione dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia, con conseguente venir meno dell’originario carattere abusivo dell’opera realizzata; al contrario, in caso di rigetto dell’istanza, espresso o tacito, l’ordine demolitorio si espande di nuovo, riacquistando la propria originaria e piena efficacia.
In questo caso, il termine concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione dovrà decorrere dal momento in cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza dell’interessato; costui, infatti, non può essere pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà di legge, quale quella di chiedere la verifica postuma di conformità urbanistica e, pertanto, ha diritto di fruire dell’intero termine a lui assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso (questa Sezione, sentenza 06.04.2017, n. 1891) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 07.02.2020 n. 593 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAPer quanto attiene alla nozione di area agricola strategica la giurisprudenza ha riconosciuto che il concetto di area a vocazione agricola e il concetto di area agricola strategica non sono sovrapponibili.
In particolare, è stato detto che “In disparte l’elemento storico (provenienza dei due concetti da differenti impianti normativi) e testuale (l’espressa connotazione delimitativa delle aree agricole strategiche), appare corretta la lettura del TAR che ha evidenziato come anche la Regione Lombardia avesse individuato diversamente i criteri per la definizione degli ambiti destinati all’attività agricola di interesse strategico, attraverso delibera di Giunta n. VIII/8059 del 19.09.2008, da dove si evince che gli ambiti strategici non sono tutti quelli destinati all’agricoltura, ma solo quelle parti di territorio caratterizzate da elementi di particolare rilievo”.
Tuttavia l’idoneità dei terreni della ricorrente a soddisfare esigenze agricole risulta motivata dalla Provincia con elementi che sono desunti proprio dalla delibera di Giunta n. VIII/8059 del 19.09.2008, come la valutazione della classe del valore agro-forestale e l'estensione e continuità territoriale di scala sovracomunale (v. il punto 2 della deliberazione regionale citata).
A ciò si aggiunge che il carattere strategico dell’area non è legato alle sole esigenze dell’agricoltura ma anche a quelle silvo-pastorali.
---------------

La società ricorrente, proprietaria nel comune di Agrate Brianza di un’area a destinazione agricola secondo il PGT vigente, ha impugnato il PTCP della Provincia di Monza e Brianza in quanto l’ha inserita all’interno delle aree agricole strategiche individuate dalla tavola 7b e disciplinate dall'art. 6 delle NTA del Piano stesso.
La ricorrente premette che l’area è inserita in un contesto fortemente urbanizzato e dotato di tutte le infrastrutture di servizio ed è situata nella zona artigianale/industriale del comune di Agrate Brianza e confina con importanti aziende locali e con l’ambito di trasformazione (ATp6) produttivo. Per tali ragioni ha presentato un’osservazione alla Provincia per ottenere lo stralcio dell’area dagli ambiti agricoli strategici ma la Provincia l’ha ritenuta inaccoglibile in quanto ”l'inserimento in AAS è coerente con i criteri per l’individuazione degli ambiti e con l'impostazione metodologica del procedimento di individuazione effettuato”.
Contro il piano approvato ha quindi sollevato i seguenti motivi di ricorso.
   1. Illegittimità per violazione dell'art. 11, comma 4, della legge regionale n. 12 del 2005 sotto il profilo del mancato rispetto del criteri regionali per la definizione degli ambiti agricoli strategici. Eccesso di potere nelle sue diverse figure sintomatiche. Violazione dell'art. 41 della Costituzione.
Secondo la ricorrente la qualificazione del fondo in oggetto quale area agricola strategica si porrebbe in contrasto con la deliberazione della Giunta regionale della Lombardia n. 8059 del 2008 secondo la quale non tutti gli ambiti agricoli presentano specifiche peculiarità tali da essere definiti o riconosciuti come ambiti strategici.
Gli ambiti agricoli strategici non avrebbero funzione di salvaguardia dalla edificazione (come pure le aree agricole classiche sono state a volte considerate, sebbene con qualche contrasto in dottrina e giurisprudenza) ma assumerebbero la caratteristica di aree con vocazione economico-produttiva riguardo agli utilizzi agricoli. Gli elementi necessari per qualificare un’area agricola strategica sarebbero: a) inclusione tra le zone agricole del PGT; b) classificazione a "prati permanenti" contenuta nel DUSAF (banca dati dell'uso e copertura del suolo); c) continuità con altri ambiti agricoli strategici; d) inclusione nell'area di ricarica diretta degli acquiferi in base alla tavola 9 del PTCP di Monza come "prati permanenti".
Nessuno degli elementi innanzi considerati dalla provincia di Monza nella sua attività istruttoria per la formazione del PTCP avrebbe evidenziato quelle specifiche caratteristiche di "produttività agricola" necessarie per connotare l'area di cui è causa tra gli ambiti agricoli strategici.
...
Il primo motivo di ricorso è infondato.
Per quanto attiene alla nozione di area agricola strategica la giurisprudenza (Cons. Stato, IV, 01/09/2015 n. 4081; idem Cons. Stato, I, 04.07.2017 n. 1607; TAR Lombardia, Brescia, I, 08/05/2017 n. 614) ha riconosciuto che il concetto di area a vocazione agricola e il concetto di area agricola strategica non sono sovrapponibili.
In particolare, è stato detto che “In disparte l’elemento storico (provenienza dei due concetti da differenti impianti normativi) e testuale (l’espressa connotazione delimitativa delle aree agricole strategiche), appare corretta la lettura del TAR che ha evidenziato come anche la Regione Lombardia avesse individuato diversamente i criteri per la definizione degli ambiti destinati all’attività agricola di interesse strategico, attraverso delibera di Giunta n. VIII/8059 del 19.09.2008, da dove si evince che gli ambiti strategici non sono tutti quelli destinati all’agricoltura, ma solo quelle parti di territorio caratterizzate da elementi di particolare rilievo” (v. Cons. Stato, IV, 01/09/2015 n. 4081).
Tuttavia l’idoneità dei terreni della ricorrente a soddisfare esigenze agricole risulta motivata dalla Provincia con elementi che sono desunti proprio dalla delibera di Giunta n. VIII/8059 del 19.09.2008, come la valutazione della classe del valore agro-forestale e l'estensione e continuità territoriale di scala sovracomunale (v. il punto 2 della deliberazione regionale citata).
A ciò si aggiunge che, a differenza di quanto affermato dalla ricorrente, il carattere strategico dell’area non è legato alle sole esigenze dell’agricoltura ma anche a quelle silvo-pastorali. Né d’altro canto la ricorrente ha contestato i dati provenienti dall’ERSAF, limitandosi piuttosto ad un più generico motivo di difetto di motivazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 07.02.2020 n. 266 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Lombardia, disapplicazione D.M. 02.04.1968, n. 1444 in sede di adeguamento degli strumenti urbanistici.
La Corte Costituzionale: “
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 103, comma 1-bis, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), sollevate, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera l), e terzo comma, della Costituzione, dal Consiglio di Stato, sezione prima, con l’ordinanza indicata in epigrafe”.
La Corte ricorda che:
1.1.– La disposizione censurata è stata aggiunta dall’art. 1, comma 1, lettera xxx), della legge della Regione Lombardia 14.03.2008, n. 4, recante «Ulteriori modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio)», e prevede che, ai fini dell’adeguamento, «ai sensi dell’articolo 26, commi 2 e 3, degli strumenti urbanistici vigenti, non si applicano le disposizioni del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444».
La disciplina in esame salvaguarda, per i soli interventi di nuova costruzione, «il rispetto della distanza minima tra fabbricati pari a dieci metri» e ne consente la deroga soltanto «tra fabbricati inseriti all’interno di piani attuativi e di ambiti con previsioni planivolumetriche oggetto di convenzionamento unitario», in base alla previsione introdotta dall’art. 4, comma 1, lettera k), della legge della Regione Lombardia 26.11.2019, n. 18, recante «Misure di semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e ad altre leggi regionali».
La distanza minima di dieci metri, nel rispetto di quanto previsto dagli artt. 873 e 907 del codice civile, è altresì «derogabile per lo stretto necessario alla realizzazione di sistemi elevatori a pertinenza di fabbricati esistenti che non assolvano al requisito di accessibilità ai vari livelli di piano» (art. 103, comma 1-ter, della legge regionale n. 12 del 2005, aggiunto dall’art. 12, comma 1, della legge della Regione Lombardia 13.03.2012, n. 4, recante «Norme per la valorizzazione del patrimonio edilizio esistente e altre disposizioni in materia urbanistico-edilizia»)
”.
Nel giudizio la Regione Lombardia ha eccepito l’inammissibilità delle questioni in ragione dell’inadeguata motivazione in punto di rilevanza: il rimettente non avrebbe argomentato in alcun modo in ordine alla necessità di applicare una disposizione che riguarda specificamente la fase di adeguamento degli strumenti urbanistici vigenti.
La Corte Costituzionale accoglie l’eccezione di inammissibilità sulla base delle seguenti motivazioni:
6.1.– La disposizione censurata esclude l’applicazione delle previsioni del d.m. n. 1444 del 1968 e puntualizza che tale disapplicazione opera «[a]i fini dell’adeguamento, ai sensi dell’articolo 26, commi 2 e 3, degli strumenti urbanistici vigenti».
L’art. 26, comma 2, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 dispone che i Comuni deliberino l’avvio del procedimento di adeguamento dei piani regolatori generali vigenti entro un anno dall’entrata in vigore della medesima legge, pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia del 16 marzo 2005, n. 11, e destinata a entrare in vigore, in difetto di previsioni di segno diverso, il quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione.
I Comuni sono poi obbligati ad approvare tutti gli atti inerenti ai piani di governo del territorio in conformità ai princìpi enunciati dalla nuova «Legge per il governo del territorio» e secondo il procedimento che tale legge delinea.
L’art. 26, comma 3, della stessa legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, nella formulazione originaria, disciplinava i tempi di adeguamento dello strumento urbanistico generale, quando fosse stato approvato prima dell’entrata in vigore «della legge regionale 15.04.1975, n. 51 (Disciplina urbanistica del territorio regionale e misure di salvaguardia per la tutela del patrimonio naturale e paesistico)» (art. 25, comma 2, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005). Era previsto il termine più celere di sei mesi dall’entrata in vigore della nuova «Legge per il governo del territorio» e si stabiliva che, successivamente, fossero approvati tutti gli atti di piano di governo del territorio.
Dopo le novità apportate dall’art. 1, comma 1, lettera f), della legge della Regione Lombardia 10.03.2009, n. 5 (Disposizioni in materia di territorio e opere pubbliche - Collegato ordinamentale), l’art. 26, comma 3, della legge regionale n. 12 del 2005 oggi regola l’avvio del procedimento di approvazione del piano di governo del territorio, che deve essere deliberato dai Comuni entro il 15.09.2009.
6.2.– Il Consiglio di Stato, sin dalle premesse dell’ordinanza di rimessione, evidenzia che è stata impugnata la variante adottata con delibera del Consiglio comunale di Sondrio 28.11.2014, n. 81, e destinata a modificare il piano di governo del territorio, a sua volta approvato con delibera del Consiglio comunale 06.06.2011, n. 40.
6.3.– A fronte di una variante risalente al novembre 2014 e relativa a un piano di governo del territorio già approvato nel giugno 2011, il rimettente non illustra le ragioni che rendono necessaria l’applicazione di una disciplina volta a regolare la sola fase transitoria di adeguamento degli strumenti urbanistici vigenti, modulata secondo precise scansioni temporali, e non la revisione dei piani di governo del territorio già approvati.
La disposizione censurata, pur posteriore alla «Legge per il governo del territorio» del 2005, si colloca in un orizzonte temporale definito, legato all’adeguamento degli strumenti urbanistici vigenti e alla successiva transizione ai piani di governo del territorio, che si configurano come i nuovi strumenti di pianificazione urbanistica previsti dalla legislazione regionale.
In tal senso depone l’univoco dettato letterale, che richiama l’adeguamento, secondo le cadenze predeterminate dall’art. 26, commi 2 e 3, della legge regionale n. 12 del 2005, e postula un nesso di strumentalità della disapplicazione rispetto all’adeguamento stesso.
Sull’elemento temporale e sulla correlazione finalistica con l’adeguamento, che integrano requisiti imprescindibili della disposizione sospettata di incostituzionalità, il rimettente non offre ragguagli di sorta. Il Consiglio di Stato non dimostra che il provvedimento impugnato, posteriore alla fase transitoria di adeguamento, rinviene il suo fondamento nella disciplina sottoposta al vaglio di questa Corte e contraddistinta da presupposti applicativi rigorosi
” (Corte Costituzionale, sentenza 07.02.2020 n. 13 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).

APPALTIFuori gara se l'offerta è in perdita.
L'aggiudicazione della gara va annullata perché l'offerta dell'impresa vincitrice risulta in perdita: i costi di esecuzione dell'appalto superano il corrispettivo previsto, mentre non si può fare affidamento su ricavi esterni al contratto, che dovrebbero arrivare nel quadro di consolidate relazioni commerciali. L'offerta, anomala, è contro la libera concorrenza: il player forte del settore ha interesse a conquistare fette sempre maggiori nonostante il singolo appalto sia in perdita per espellere i concorrenti dal mercato.
È quanto emerge dalla sentenza 06.02.2020 n. 257, pubblicata dalla IV Sez. del TAR Lombardia-Milano.
Accolto il ricorso della società seconda classificata nella procedura aperta bandita dal comune per l'aggiudicazione del servizio di mensa scolastica e sociale (pasti a disabili e anziani non indipendenti). A conti fatti preparare i pasti costerà all'impresa vincitrice più dei ricavi previsti nel triennio di contratto. E pazienza se nel centro di cottura del Comune si potranno produrre altri pasti da vendere a terzi, che sono estranei al contratto messo a gara e costituiscono comunque una mera eventualità.
L'offerta, invece, risulta congrua deve essere di per sé sostenibile da chi partecipa alla procedura. Altrimenti si favoriscono gli operatori economici più grandi che possono presentare proposte in perdita pur di accaparrarsi gli appalti. Nessun dubbio, poi, che l'eventuale preparazione di pasti per terzi sia estranea al contratto, dove si parla delle sole mense di scuole statali, comunali, asili nido e centro diurno disabili, mentre il centro di cottura dell'amministrazione risulta conferito in uso per garantire il servizio.
Il contratto fra comune e società (ex) vincitrice non può essere dichiarato inefficace perché non risulta la stipula, peraltro inibita dall'incidente cautelare ex articolo 32, comma undicesimo, del codice degli appalti. Né si può aggiudicare il servizio direttamente alla seconda classificata perché spetta alla stazione appaltante assumere le decisioni sull'annullamento (articolo ItaliaOggi del 22.02.2020).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è manifestamente fondato.
Segnatamente, fondato e assorbente è il primo motivo di ricorso, dedotto in principalità, con il quale la società Du.Se. S.r.l. lamenta la “Violazione e falsa applicazione dell’art. 97, d.lgs. n. 50/2016. Insostenibilità dell’offerta. Violazione del principio di par condicio. Eccesso di potere per carenza di istruttoria e di motivazione, travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, ingiustizia manifesta”.
Dalla documentazione in atti emerge con chiarezza che i costi di esecuzione dell’appalto di ristorazione superano di €uro 1.296.534,36 nel triennio il corrispettivo che la società Pe. S.p.A. ricaverà dalla preparazione dei pasti per il Comune: il dato non è in contestazione.
L’offerta è, dunque, in perdita.
Non è, infatti, condivisibile la tesi della stazione appaltante, sostenuta anche dalla società aggiudicatrice, per cui nella valutazione di congruità dell’offerta si deve tenere conto anche dei ricavi derivanti dalla produzione nel Centro cottura del Comune di ulteriori pasti destinati a terzi: ricavi che nella prospettazione della controinteressata sono in grado di coprire le spese generate dal servizio reso al Comune.
Invero, l’offerta deve essere sostenibile e il contratto non in perdita per l’appaltatore autonomamente, e non grazie a elementi esterni al contratto medesimo, perché, diversamente, si altererebbe la libera concorrenza a favore degli operatori economici più forti, che possono permettersi –pur di conquistare quote sempre maggiori di mercato e di espellere dal mercato altri concorrenti– di presentare offerte in perdita (cfr., C.d.S., Sez. V, sentenza n. 210/2014; TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza n. 200/2017).
E che la produzione di pasti destinati a terzi sia elemento estraneo al contratto messo a gara lo si ricava da una pluralità di elementi.
Innanzitutto, il bando di gara nella denominazione dell’appalto indica «Servizio di ristorazione scolastica e sociale», e nella descrizione dell’oggetto «- la gestione del servizio di ristorazione scolastica a favore degli utenti delle Istituzioni scolastiche statali e comunali, - la gestione del servizio di ristorazione degli asili nido comunali, - la gestione del servizio di ristorazione del Centro Diurno Disabili (C.D.D.), - la gestione del servizio di produzione e consegna di pasti a domicilio persone anziane e/o ridotta autonomia».
In nessun punto del bando si parla di contratto misto o si fa cenno al fatto che lo sfruttamento economico del Centro cottura comunale per eseguire anche altri appalti rientri nel sinallagma negoziale.
È ben vero che il Disciplinare di gara all’articolo 3, rubricato “Oggetto dell’appalto, importo e suddivisione in lotti”, elenca anche il conferimento dell’uso del Centro Produzione Pasti di proprietà del Comune e dei punti di somministrazione posti nei vari plessi scolastici, nel C.D.D. e negli asili nido. Ma è altrettanto vero che tale conferimento in uso è, per l’appunto, funzionale all’esecuzione dell’appalto del servizio di ristorazione per il Comune di Saronno, e non ad altro, come dimostra la circostanza che il conferimento riguarda non solo il Centro cottura, ma anche i punti di somministrazione dei pasti.
D’altro canto, l’utilizzo del Centro di cottura per la produzione di pasti per terzi, ai sensi dell’articolo 22.1 del Capitolato speciale (che, non a caso, utilizza la dizione “può produrre”), rappresenta una facoltà e non un obbligo.
Né a conclusioni diverse conduce la circostanza che l’aggio annuo minimo garantito è elemento dell’offerta economica. Infatti, ancora una volta il precitato articolo 22.1 del Capitolato speciale chiarisce che tale importo minimo è comunque dovuto, ovverosia indipendentemente dal fatto che nel Centro cottura comunale si preparino pasti per terzi e che se ne preparino un numero sufficiente a coprire l’aggio promesso.
Quindi, a ben guardare, si tratta di un costo fisso dell’appalto di ristorazione.
In definitiva, non si possono far rientrare nella valutazione di congruità dell’offerta per il servizio di ristorazione scolastica e sociale, costi e ricavi relativi a rapporti negoziali esterni, con soggetti che non sono parte dell’appalto, rapporti che –anche in un quadro di pregresse e consolidate relazioni commerciali– sono comunque del tutto eventuali.
Pertanto,
avuto riguardo ai costi e ai ricavi del solo servizio di ristorazione scolastica e sociale, l’offerta di Pe. S.p.A. è in perdita e, come tale, è ex se anomala (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. V, sentenza n. 5422/2019; C.d.S., Sez. V, sentenza n. 963/2015; TAR Campania–Napoli, Sez. II, sentenza n. 3940/2015; TAR Lazio–Roma, Sez. III-ter, sentenza n. 8744/2015) e, pertanto, da escludersi dalla gara.
In conclusione, il ricorso è fondato e per questo viene accolto. Per l’effetto, è annullata l’aggiudicazione a favore della società Pe. S.p.A..
Non si fa, invece, luogo alla declaratoria di inefficacia del contratto, non risultando agli atti che vi sia stata la stipula, peraltro, inibita dall’incidente cautelare ai sensi dell’articolo 32, comma 11, D.Lgs. n. 50/2016.
Nemmeno si fa luogo all’aggiudicazione diretta dell’appalto alla società Du.Se. S.r.l., spettando alla stazione appaltante riattivare la procedura e adottare le determinazioni conseguenti all’avvenuto annullamento.

APPALTILimiti alla suddivisione in lotti delle prestazioni oggetto di gara.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Lotti – Suddivisione - Limiti.
Alle stazioni appaltanti è vietato suddividere le prestazioni oggetto di una gara d’appalto in lotti distinti laddove ciò non sia giustificato dalla diversità dei servizi o delle forniture oggetto dei vari sub-lotti e/o dalla esigenza di favorire la partecipazione alla gara delle piccole e medie imprese (1).
---------------
   (1) La Sezione ha ricordato che l’art. 51, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, al comma 1, prevede che “...le stazioni appaltanti suddividono gli appalti in lotti funzionali di cui all'articolo 3, comma 1, lettera qq), ovvero in lotti prestazionali di cui all'articolo 3, comma 1, lettera ggggg), in conformità alle categorie o specializzazioni nel settore dei lavori, servizi e forniture” soggiungendo nel successivo periodo che “Le stazioni appaltanti motivano la mancata suddivisione dell'appalto in lotti nel bando di gara o nella lettera di invito e nella relazione unica di cui agli articoli 99 e 139”.
Al contempo, mette conto evidenziare che tale principio non assume valenza assoluta ed inderogabile.
La Sezione ha di recente evidenziato che, in materia di appalti pubblici, costituisce principio di carattere generale la preferenza per la suddivisione in lotti, in quanto diretta a favorire la partecipazione alle gare delle piccole e medie imprese; tale principio come recepito all'art. 51, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, non costituisce una regola inderogabile, in quanto la norma consente alla stazione appaltante di derogarvi per giustificati motivi, che devono però essere puntualmente espressi nel bando o nella lettera di invito, proprio perché il precetto della ripartizione in lotti è funzionale alla tutela della concorrenza (Cons. St., sez. III, 21.03.2019, n. 1857).
Tanto premesso, anche sotto tale distinto profilo, il frazionamento in lotti non è funzionale all’esigenza di favorire la partecipazione delle piccole e medie imprese, non essendo correlata la scelta organizzativa qui in discussione al valore economico della gara in comparazione con gli standard organizzativi e di fatturato delle imprese di settore.
D’altro canto, nemmeno può essere sottaciuto che gli effetti della misura in argomento si pongono in plateale contrasto con l’obiettivo di ampliare la platea dei possibili concorrenti.
Ed, invero, l’opzione organizzativa qui in discussione limita la partecipazione per ciascun lotto ad una determinata e ristretta categoria di produttori a seconda del tipo di dispositivo utilizzato (penna o siringa) per l’adrenalina da autoiniezione, precludendo agli altri di concorrere a rendere una prestazione funzionalmente equivalente.
La Sezione non disconosce affatto, da un lato, il carattere eminentemente discrezionale delle valutazioni affidate in subiecta materia alla stazione appaltante e, dall’altro, le connesse implicazioni quanto alle modalità e limiti di esplicazione del relativo sindacato giurisdizionale, avendo a tal fini espressamente evidenziato che “...la scelta della stazione appaltante circa la suddivisione in lotti di un appalto pubblico costituisce una decisione normalmente ancorata, nei limiti previsti dall’ordinamento, a valutazioni di carattere tecnico-economico. In tali ambiti, il concreto esercizio del potere discrezionale dell’Amministrazione circa la ripartizione dei lotti da conferire mediante gara pubblica deve essere funzionalmente coerente con il bilanciato complesso degli interessi pubblici e privati coinvolti dal procedimento di appalto e resta delimitato, oltre che dalle specifiche norme sopra ricordate del codice dei contratti, anche dai principi di proporzionalità e di ragionevolezza”.
L'intero impianto dei lotti di una gara non deve dar luogo a violazioni sostanziali dei principi di libera concorrenza, di “par condicio”, di non-discriminazione e di trasparenza di cui all'art. 2, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006 e s.m.i. (Cons. St., sez. III, n. 5224 del 13.11.2017).
Ciò nondimeno, va qui ribadito che, come qualsiasi scelta della pubblica amministrazione, anche la suddivisione in lotti di un contratto pubblico si presta ad essere sindacata in sede giurisdizionale amministrativa sotto i profili della ragionevolezza e della proporzionalità, oltre che della congruità dell’istruttoria svolta.
Orbene, prendendo abbrivio da siffatta premessa, deve qui ribadirsi come le scelte confluite negli atti di gara non riposino su ragioni giustificatrici idonee ad evidenziare, nella comparazione dei valori in campo, le superiori esigenze a presidio delle quali si pone l’opzione organizzativa privilegiata dalla stazione appaltante di frazionare la gara in lotti distinti per singolo dispositivo utilizzato nonostante il sacrificio del favor partecipationis che ad essa si riconnette.
Anzitutto, e giusta quanto già sopra evidenziato, l’opzione privilegiata dall’Amministrazione non può dirsi espressione di una scelta strettamente necessitata alla stregua della stessa descrizione delle caratteristiche tecniche delle prestazioni poste a base di gara sì da far ritenere direttamente mutuabili da tale descrizione, e per i profili di intrinseca eterogeneità dei relativi contenuti, le ragioni della disposta frammentazione in lotti distinti quasi ad assecondare una diversa vocazione ontologica dei singoli lotti.
Né il divisato assetto organizzativo costituisce la sintesi di un ragionevole bilanciamento degli interessi comparati.
L’opzione prescelta, in mancanza di perspicui elementi di segno contrario, si risolve, viceversa, anche in ragione della scarsa concorrenzialità del mercato di riferimento, in un oggettivo fattore distorsivo di una corretta competizione con penalizzanti ricadute per la stessa Amministrazione, anzitutto, sul piano economico per la diversa base d’asta che connota i lotti qui in rilievo e, sotto distinto profilo, anche rispetto alle evidenti esigenze di semplificazione gestionale e di riduzione dei costi che si accompagnerebbero ad una razionalizzazione delle procedure di acquisto con possibili, significative economie di scala (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 05.02.2020 n. 932 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATACome chiarito da costante e condivisa giurisprudenza, la fascia cimiteriale di inedificabilità si impone ex se, con efficacia diretta ed immediata, a prescindere da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, che non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sull’esistenza o sui limiti di siffatti vincoli.
Per questo, il vincolo, di natura conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica.
---------------

3.4.- Riguardo all’assetto urbanistico dell’area è utile richiamare quanto rilevato dall’amministrazione resistente nella memoria difensiva, ossia che il manufatto contestato è situato in zona soggetta a vincolo paesaggistico, ai sensi del d.lgs. 42/2004 e che ricade nella fascia di rispetto cimiteriale, di cui all'art. 338 del Regio Decreto n. 1265/1934 (cfr. Certificato di destinazione urbanistica prot. n. 59834 del 18.09.2019).
Sul punto, come chiarito da costante e condivisa giurisprudenza (Cons. Stato, sez. IV, 08.07.2019, e TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 18.10.2019, n. 4978) la fascia cimiteriale di inedificabilità si impone ex se, con efficacia diretta ed immediata, a prescindere da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, che non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sull’esistenza o sui limiti di siffatti vincoli.
Per questo, il vincolo, di natura conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 05.02.2020 n. 562 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAPer consolidata giurisprudenza, la presentazione di una istanza di sanatoria successivamente all’emanazione di un provvedimento volto alla repressione degli abusi edilizi produce l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento, comportando la necessità di una nuova valutazione da parte dell’Amministrazione con la conseguenza che il provvedimento dovrà essere sostituito o dalla concessione in sanatoria o da un nuovo provvedimento sanzionatorio.
---------------

7. E’ oggetto del contendere la legittimità del diniego opposto dal Comune di Deruta alla richiesta di accertamento di conformità urbanistica volta al rilascio del permesso di costruire in sanatoria richiesto dalla Società ricorrente con riferimento alle opere sopra descritte.
E’ pacifico tra le parti che si tratti di un manufatto per la cui realizzazione era necessario il permesso di costruire e che lo stesso sia stato realizzato dalla parte odierna ricorrente in assenza di titolo.
Va evidenziato che nel caso in esame trova applicazione, ratione temporis, l'art. 17, comma 1, della l.r. Umbria n. 21 del 2004 che prevedeva: "In caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, con variazioni essenziali o in difformità da esso, ovvero in assenza di denuncia di inizio attività nelle ipotesi di cui all'articolo 20, comma 1, lettera a), della L.r. 1/2004 o in difformità da essa, fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 6, comma 3, 7, comma 1, 8, comma 1, articolo 9, comma 1 e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere la sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente, sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda e non in contrasto con gli strumenti urbanistici adottati. Ai fini di cui al presente comma è consentito l'adeguamento di eventuali piani attuativi, purché tale adeguamento risulti conforme allo strumento urbanistico generale vigente e non in contrasto con quello adottato".
8. Preliminarmente deve essere esaminata l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa comunale. L’eccezione è infondata.
Per consolidata giurisprudenza, più volte ribadita da questo Tribunale amministrativo regionale, la presentazione di una istanza di sanatoria successivamente all’emanazione di un provvedimento volto alla repressione degli abusi edilizi produce l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento, comportando la necessità di una nuova valutazione da parte dell’Amministrazione con la conseguenza che il provvedimento dovrà essere sostituito o dalla concessione in sanatoria o da un nuovo provvedimento sanzionatorio (ex multis TAR Umbria, 24.04.2019, n. 207; Id., 10.12.2018 n. 672; Id. 13.04.2016, n. 345; Id., 15.09.2014, n. 463; id. 11.09.2015, n. 401; C.d.S., sez. IV, 22.08.2013, n. 4241; Id., 11.06.2012, n. 221; in termini TAR Campania, Salerno, sez. II, 18.01.2012, n. 49; TAR Piemonte, sez. I, 14.01.2011, n. 16).
9. Quanto al merito della questioni poste, giova ricordare che l’Amministrazione comunale ha motivato il diniego di accertamento di conformità urbanistica in ragione:
   a) dell'assenza di conformità del fabbricato alla disciplina urbanistica ed edilizia vigenti al momento della sua realizzazione: in parziale accoglimento delle osservazioni presentate dall’istante, l’Amministrazione ha convenuto che il manufatto sia stato realizzato nel 2005; tuttavia “il Piano attuativo approvato, con DCC n. 94 del 09/09/05, sull’area in questione, non è stato convenzionato nell’anno 2005, conseguentemente a quella data l’area su cui è stata realizzata la tettoia non risultava urbanisticamente idonea alla costruzione della stessa”;
   b) dell'assenza di conformità urbanistica alla data della richiesta dell’accertamento di conformità: dopo aver chiarito nel preavviso di rigetto che: "Il fabbricato è infatti realizzato su di un terreno la cui edificazione, ai sensi e per gli effetti dell'art. 3 della convenzione urbanistica stipulata in data 09.07.2008 relativa al Piano attuativo approvato con deliberazione del Consiglio Comunale n. 89 del 16/10/2007, è subordinata alla contemporanea esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria previste dal Piano attuativo medesimo. Pertanto, accertato che dette opere di urbanizzazione primaria non sono ad oggi iniziate, il terreno non risulta idoneo alla costruzione del fabbricato in oggetto"; nel provvedimento di diniego l’Amministrazione comunale ha ribadito tale posizione ritenendo non condivisibili le osservazioni dell’istante.
   c) dell'assenza della documentazione relativa alla conformità sismica: non sono state ritenute condivisibili le osservazioni del richiedente in quanto la norma regionale citata [art. 7, comma 3, lett. a), della l.r. n. 5 del 2010, allegato 1, cat. A -A15] è riferita a manufatti da realizzare su fabbricati esistenti, e quindi non applicabile al caso in oggetto relativo alla costruzione di un manufatto strutturalmente indipendente (TAR Umbria, sentenza 05.02.2020 n. 47 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per costante giurisprudenza amministrativa grava su colui che ha commesso l’abuso l’onere della prova della data di realizzazione.
---------------

9.1. Il primo motivo di ricorso contesta l’affermazione sub a) contenuta nel provvedimento gravato circa l’assenza di conformità urbanistico edilizia all’epoca della realizzazione del manufatto.
Nella prospettazione contenuta nelle osservazioni presentate dall’odierna ricorrente a seguito della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza e poi riproposta in sede di ricorso, la realizzazione del manufatto è temporalmente collocata nell’anno 2005, potendosi, quindi, giovare, ai fini della necessaria conformità urbanistica, dell’approvazione del Piano attuativo di cui alla DCC n. 94 del 2005.
Giova ricordare che per costante giurisprudenza amministrativa grava su colui che ha commesso l’abuso l’onere della prova della data di realizzazione (ex multis, C.d.S., sez. VI, 04.10.2019, n. 6720; Id., 08.07.2019, n. 4769; TAR Umbria, 09.04.2019, n. 191; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 04.09.2019, n. 1944).
Ciò posto, nella comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza l’immobile era stato fatto risalire dall’Amministrazione al 1997 ed era stato osservato che ricadeva in “un terreno la cui edificazione, ai sensi e per gli effetti dell'art. 8 delle norme tecniche di attuazione del Piano Regolatore Generale all'epoca vigente, era subordinata alla preventiva approvazione di un Piano attuativo concernente l'urbanizzazione del terreno medesimo”.
Nel provvedimento finale di diniego l’Amministrazione comunale ha preso atto delle osservazioni dell’istante; in base alla documentazione fotografica da quest’ultimo prodotta (foto aeree del 2000 e del 2005) è emerso che il manufatto è successivo allo scatto del 2000 (in cui non compare), mentre risulta presente nella foto del 2005. Tuttavia, pur a fronte di tale datazione, l’Amministrazione ha ritenuto che il manufatto non fosse conforme alla disciplina all’epoca vigente in quanto all’epoca della realizzazione l’area non era stata ancora sottoposta alla necessaria convenzione.
Il percorso logico-giuridico compiuto dall’Amministrazione non appare censurabile. Non appare, infatti, condivisibile la lettura di parte ricorrente dell’art. 17, comma 1, della l.r. Umbria n. 21 del 2004 (né l’art. 36, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001) per cui, dato che nella disposizione citata non viene fatto riferimento alla stipula di convenzione per l'esecuzione delle opere di urbanizzazione né all'eventuale assenza, l’assenza della convenzione stessa non potrebbe essere ritenuta preclusiva all’accertamento di conformità.
Osserva il Collegio che il citato art. 17, nel richiedere che l’intervento sia, innanzitutto, “conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente ... al momento della realizzazione dello stesso”, necessariamente comporta il rispetto in toto di tale disciplina; analoghe considerazioni possono essere svolte con riferimento al disposto dell’art. 36, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, contenente la medesima locuzione (“conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia sia al momento della realizzazione dello stesso...”) (TAR Umbria, sentenza 05.02.2020 n. 47 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICA: L’amministrazione, dopo avere approvato un piano di lottizzazione e prima della stipula della relativa convenzione, (può) rivedere le proprie determinazioni pianificatorie sulla medesima area (e quindi, conseguentemente, decidere di non stipulare più la convenzione di lottizzazione); ciò discende” ha dato atto della “natura meramente programmatoria del piano di lottizzazione che è, di per sé, inidoneo a far sorgere in capo ai privati aspettative giuridicamente qualificate.
---------------

Nel caso in esame, come affermato negli atti comunali e non contestato dalla parte ricorrente, ai sensi e per gli effetti ai sensi dell'art. 8 delle norme tecniche di attuazione del Piano Regolatore Generale, all'epoca vigente, l’edificazione del terreno su cui è sorto il manufatto era subordinata alla preventiva approvazione di un Piano attuativo concernente l'urbanizzazione del terreno medesimo. Il suddetto Piano attuativo è stato individuato dall’odierna ricorrente nel Piano approvato con la DCC n. 94 del 09.09.2005, che ha previsto, a sua volta al punto 6 della stipula di una convenzione urbanistica che regoli i rapporti tra il soggetto attuatore privato ed il Comune di Deruta.
D’altro canto, la giurisprudenza amministrativa, nell’evidenziare che “l’amministrazione, dopo avere approvato un piano di lottizzazione e prima della stipula della relativa convenzione, (può) rivedere le proprie determinazioni pianificatorie sulla medesima area (e quindi, conseguentemente, decidere di non stipulare più la convenzione di lottizzazione); ciò discende” ha dato atto della “natura meramente programmatoria del piano di lottizzazione che è, di per sé, inidoneo a far sorgere in capo ai privati aspettative giuridicamente qualificate” (TAR Calabria, sez. I, 12.01.2011, n. 31).
Del resto l’art. 26 della l.r. n. 11 del 2005, vigente medio tempore, prevedeva, al comma 7 (con una previsione non dissimile dall’attuale art. 57, comma 6, l.r. n. 1 del 2015) che la deliberazione comunale di approvazione del piano attuativo costituisse titolo abilitativo ... “purché sia stata stipulata l'apposita convenzione di cui all'articolo 62, comma 1, lett. g) e nel rispetto delle eventuali prescrizioni dettate ai sensi dell'articolo 24, comma 11”.
La stipula della convenzione urbanistica costituiva, pertanto, presupposto necessario per il rilascio del permesso di costruire, con la conseguenza che la mancanza della stessa, antecedentemente alla realizzazione del manufatto, è elemento idoneo a configurare l’assenza di conformità urbanistico-edilizia (TAR Umbria, sentenza 05.02.2020 n. 47 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Reati paesaggistici – Zona sottoposta a vincolo paesaggistico e dichiarata di notevole interesse pubblico – Computo volumetrie e naturale sviluppo del manufatto – Interventi già in concreto realizzati – Criteri per la configurabilità del reato ex art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42/2004 – Reati urbanistici – Art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001.
In tema di tutela paesaggistica, i parametri dimensionali richiesti ai fini della configurabilità della fattispecie delittuosa di cui all'art. 181, comma 1-bis, del d.lgs. n. 42 del 2004, vanno ritenuti ragionevolmente integrati, considerando che il complessivo aumento delle volumetrie, nell’ottica della verifica del loro computo, deve essere riferito anche al naturale sviluppo del manufatto desumibile dalla tipologia degli interventi già in concreto realizzati, a prescindere dal definitivo completamento delle opere.
In sintesi, a seguito della sentenza n. 56 del 2016, della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 181, comma 1-bis, del d.lgs. n. 42 del 2004, rientrano oggi nell’art. 181, comma 1-bis, unicamente i lavori «che abbiano comportato un aumento dei manufatti superiore al trenta per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento della medesima superiore a settecentocinquanta metri cubi, ovvero ancora abbiano comportato una nuova costruzione con una volumetria superiore ai mille metri cubi»
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.02.2020 n. 4697 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: APPALTI – Disposizioni del bando – Chiarimenti – Interpretazione del testo – Esigenze di certezza – Clausole di stretta interpretazione.
I chiarimenti, se trasparenti e tempestivi, possono, a determinate condizioni, dare luogo ad una sorta di interpretazione autentica, purché in nome della massima partecipazione e del principio di economicità dell’azione amministrativa (cfr. Cons. Stato, sez. III, n. 781/2018).
I chiarimenti sono invero ammissibili se contribuiscono, con un’operazione di interpretazione del testo, a renderne chiaro e comprensibile il significato e/o la ratio, ma non quando, proprio mediante l’attività interpretativa, si giunga ad attribuire ad una disposizione del bando un significato ed una portata diversa e maggiore di quella che risulta dal testo stesso, in tal caso violandosi il rigoroso principio formale della lex specialis, posto a garanzia dei principi di cui all’art. 97 Cost. (Cons. Stato, sez. v, n. 6026/2019).
In termini più generali, le preminenti esigenze di certezza connesse allo svolgimento delle procedure concorsuali di selezione dei partecipanti impongono di ritenere di stretta interpretazione le clausole del bando di gara: ne va perciò preclusa qualsiasi lettura che non sia in sé giustificata da un´obiettiva incertezza del loro significato letterale.
Secondo la stessa logica, sono comunque preferibili, a garanzia dell´affidamento dei destinatari, le espressioni letterali delle varie previsioni, affinché la via del procedimento ermeneutico non conduca a un effetto, indebito, di integrazione delle regole di gara aggiungendo significati del bando in realtà non chiaramente e sicuramente rintracciabili nella sua espressione testuale
(cfr. Cons. Stato, IV, 05.10.2005, n. 5367; V, 15.04.2004, n. 2162; Cons. Stato, V, n. 4307/2017).

...
APPALTI – Procedura aperta che non preveda una preventiva limitazione dei partecipanti attraverso inviti – Principio di rotazione – Inapplicabilità.
Alla stregua delle Linee guida n. 4 A.N.A.C., nella versione adottata con delibera 01.03.2018 n. 206 (v. in part. il punto 3.6), deve ritenersi che il principio di rotazione sia inapplicabile nel caso in cui la stazione appaltante decida di selezionare l’operatore economico mediante una procedura aperta, che non preveda una preventiva limitazione dei partecipanti attraverso inviti (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 04.02.2020 n. 875 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTIChiarimenti sulla lex specialis di gara e principio di rotazione.
---------------
  
Contratti della Pubblica amministrazione – Chiarimenti – Sostanziale modifica requisito – Illegittimità.
  
Contratti della Pubblica amministrazione – Rotazione – Limiti.
  
E’ illegittimo un chiarimento dettato dalla Stazione appaltante in corso di gara che non ha assunto una funzione neutrale e meramente esplicativa di un contenuto implicito della clausola del capitolato, ma che, al contrario, ha introdotto un elemento addittivo che ha modificato la portata del requisito, restringendo la platea dei potenziali concorrenti al più circoscritto sottoinsieme degli operatori in grado di offrire biberon muniti di tettarella fissata con ghiera soprastante; in tal modo, non si è avuto l’effetto di esplicitare il significato (in ipotesi ambiguo od oscuro) della lex specialis, bensì di modificare inammissibilmente l’oggetto della prescrizione, mutandone strutturalmente il contenuto ed il senso, così integrando in termini restrittivi il requisito di cui al capitolato di gara (1).
  
Il principio di rotazione delle imprese partecipanti ad una gara non è applicabile laddove il nuovo affidamento avvenga tramite procedure nelle quali la stazione appaltante non operi alcuna limitazione in ordine al numero di operatori economici tra i quali effettuare la selezione (2).
---------------
   (1) Ha chiarito la Sezione che i chiarimenti, se trasparenti e tempestivi, possono, a determinate condizioni, dare luogo ad una sorta di interpretazione autentica, purché in nome della massima partecipazione e del principio di economicità dell'azione amministrativa (Cons. St., sez. III, n. 781 del 2018).
Esaminando una fattispecie raffrontabile a quella oggetto della controversia all’esame della Sezione, in quanto anch’essa incentrata su una ipotesi di chiarimento “restrittivo” (inteso cioè a circoscrivere la portata di un requisito originariamente delineato in senso più ampio), lo stesso giudice di appello ha concluso per l’inammissibilità di una tale operazione manipolativa, sostenendo che “i chiarimenti sono invero ammissibili se contribuiscono, con un’operazione di interpretazione del testo, a renderne chiaro e comprensibile il significato e/o la ratio, ma non quando, proprio mediante l’attività interpretativa, si giunga ad attribuire ad una disposizione del bando un significato ed una portata diversa e maggiore di quella che risulta dal testo stesso, in tal caso violandosi il rigoroso principio formale della lex specialis, posto a garanzia dei principi di cui all'art. 97 Cost.” (Cons. St., sez. V, n. 6026 del 2019).
In termini più generali, vale richiamare l’affermazione giurisprudenziale secondo la quale “le preminenti esigenze di certezza connesse allo svolgimento delle procedure concorsuali di selezione dei partecipanti impongono di ritenere di stretta interpretazione le clausole del bando di gara: ne va perciò preclusa qualsiasi lettura che non sia in sé giustificata da un´obiettiva incertezza del loro significato letterale. Secondo la stessa logica, sono comunque preferibili, a garanzia dell´affidamento dei destinatari, le espressioni letterali delle varie previsioni, affinché la via del procedimento ermeneutico non conduca a un effetto, indebito, di integrazione delle regole di gara aggiungendo significati del bando in realtà non chiaramente e sicuramente rintracciabili nella sua espressione testuale" (Cons. St., sez. IV, 05.10.2005, n. 5367; 15.04.2004, n. 2162).
(2) Ha ricordato la Sezione che il principio è stato di recente confermato dal giudice di appello (sez. V, 05.11.2019, n. 7539) sul rilievo che anche “alla stregua delle Linee guida n. 4 A.N.A.C., nella versione adottata con delibera 01.03.2018 n. 206 (v. in part. il punto 3.6), deve ritenersi che il principio di rotazione sia inapplicabile nel caso in cui la stazione appaltante decida di selezionare l’operatore economico mediante una procedura aperta, che non preveda una preventiva limitazione dei partecipanti attraverso inviti” (
Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 04.02.2020 n. 875 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
---------------
MASSIMA
2.7.
L’operato della stazione appaltante ha quindi contravvenuto al principio invalso nella materia delle pubbliche gare secondo il quale i chiarimenti, se trasparenti e tempestivi, possono, a determinate condizioni, dare luogo ad una sorta di interpretazione autentica, purché in nome della massima partecipazione e del principio di economicità dell'azione amministrativa (cfr. Cons. Stato, sez. III, n. 781/2018).
Esaminando una fattispecie raffrontabile, in quanto anch’essa incentrata su una ipotesi di chiarimento “restrittivo” (inteso cioè a circoscrivere la portata di un requisito originariamente delineato in senso più ampio), altra sezione di questo Consiglio di Stato ha concluso per l’inammissibilità di una tale operazione manipolativa, sostenendo che “
i chiarimenti sono invero ammissibili se contribuiscono, con un’operazione di interpretazione del testo, a renderne chiaro e comprensibile il significato e/o la ratio, ma non quando, proprio mediante l’attività interpretativa, si giunga ad attribuire ad una disposizione del bando un significato ed una portata diversa e maggiore di quella che risulta dal testo stesso, in tal caso violandosi il rigoroso principio formale della lex specialis, posto a garanzia dei principi di cui all'art. 97 Cost.” (Cons. Stato, sez. v, n. 6026/2019).
In termini più generali,
vale richiamare l’affermazione giurisprudenziale secondo la quale “le preminenti esigenze di certezza connesse allo svolgimento delle procedure concorsuali di selezione dei partecipanti impongono di ritenere di stretta interpretazione le clausole del bando di gara: ne va perciò preclusa qualsiasi lettura che non sia in sé giustificata da un´obiettiva incertezza del loro significato letterale. Secondo la stessa logica, sono comunque preferibili, a garanzia dell´affidamento dei destinatari, le espressioni letterali delle varie previsioni, affinché la via del procedimento ermeneutico non conduca a un effetto, indebito, di integrazione delle regole di gara aggiungendo significati del bando in realtà non chiaramente e sicuramente rintracciabili nella sua espressione testuale (cfr. Cons. Stato, IV, 05.10.2005, n. 5367; V, 15.04.2004, n. 2162)” (Cons. Stato, V, n. 4307/2017).
...
3.4.
Quanto al principio di rotazione, il giudice di prime cure ne ha escluso l’applicabilità laddove il nuovo affidamento avvenga, come nel caso di specie, tramite procedure nelle quali la stazione appaltante non operi alcuna limitazione in ordine al numero di operatori economici tra i quali effettuare la selezione (v. §18 della sentenza n. 527/2019).
Il principio è stato di recente confermato da questo Consiglio (sez. V, 05.11.2019 n. 7539) sul rilievo che anche “alla stregua delle Linee guida n. 4 A.N.A.C., nella versione adottata con delibera 01.03.2018 n. 206 (v. in part. il punto 3.6), deve ritenersi che il principio di rotazione sia inapplicabile nel caso in cui la stazione appaltante decida di selezionare l’operatore economico mediante una procedura aperta, che non preveda una preventiva limitazione dei partecipanti attraverso inviti”.

EDILIZIA PRIVATA: Rilascio del permesso di costruire: quali gli obblighi del Comune?
Il permesso di costruire può essere rilasciato unicamente al proprietario dell'immobile o a chi ha a titolo per richiederlo e, quindi, il Comune ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando se egli sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o se, comunque, abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria.
---------------
4. - Con il terzo motivo di diritto, rubricato “b) error in iudicando- erronea valutazione di circostanze di fatto e difetto di motivazione; illogicità e ingiustizia manifesta; erronea valutazione dei presupposti di fatto e di diritto”, viene lamentata l’errata ricostruzione in fatto operata dal primo giudice, che non avrebbe considerato che la particella di terreno è pervenuta all’appellante per successione legittima dal padre e che la recinzione in oggetto era stata realizzata in epoca antecedente al 1967, a delimitazione del fondo di proprietà.
4.1. - La doglianza non può essere condivisa.
Come correttamente rilevato dal primo giudice, la ragione del diniego tacito opposto alla domanda di sanatoria va identificata nella circostanza che il ricorrente non avrebbe dimostrato la titolarità del fondo su cui insiste il manufatto abusivo.
In questo senso, va osservato che è lo stesso appellante che, nell’istanza proposta in data 12.12.2017 (all. 4 della produzione di primo grado del Comune di Rende), ha affermato di essere “proprietario per possesso di fatto (usucapione)”, senza poi allegare un titolo giudiziale di tale stato. Per altro verso, il tema dell’usucapione è stato addirittura oggetto di domanda istruttoria in sede di giudizio di primo grado, dove la parte ha chiesto al TAR di ammettere prova testimoniale in merito.
Inoltre, l’esistenza della vantata condizione proprietaria non risulta dagli atti del Comune che, anzi, nel verbale di accertamento di infrazioni edilizie del giorno 08.09.2017, afferma espressamente che “dalle planimetrie catastali dell’Agenzia delle Entrate, servizi catastali, l’intera recinzione ricade nella particella censita in catasto al Foglio 4 Particella 305, intestata alla Sig.ra Se.Ad.”; e la appena citata controinteressata si è opposta, anche in sede giudiziaria, all’annullamento dell’avversato diniego, evidenziando l’esistenza di una situazione contenziosa proprio sulla proprietà della detta area.
La vicenda de qua, lungi dall’evidenziare uno stato di fatto dominicale assodato, rendeva evidente l’impossibilità del Comune di aderire acriticamente alla prospettazione della parte appellante in merito al possesso di un titolo abilitante alla richiesta di sanatoria.
Infatti, da un lato, va ricordato che,
ai sensi dell'art. 11, comma 1, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, il permesso di costruire può essere rilasciato unicamente al proprietario dell'immobile o a chi ha a titolo per richiederlo e, quindi, il Comune ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando se egli sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o se, comunque, abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria (ex multis, Cons. Stato, IV, 25.09.2014, n. 4818); dall’altro, per giurisprudenza pacifica (peraltro, richiamata anche dalla parte appellante in relazione all’ultimo motivo di ricorso), la pubblica amministrazione non è tenuta a svolgere una preliminare indagine istruttoria che si estenda fino alla ricerca d'ufficio di eventuali elementi limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità allegato dal richiedente (da ultimo, Cons. Stato, IV, 02.09.2011, n. 4968; id., VI, 10.02.2010, n. 675).
È quindi condivisibile la valutazione operata dal primo giudice quando ha osservato che non esistevano in concreto i presupposti per il rilascio del titolo edilizio, atteso che non può darsi rilievo alla vantata acquisizione dell’area per usucapione da parte del ricorrente, visto che, nemmeno in grado di appello, è stata prodotta una sentenza dichiarativa che ne abbia accertato l’effettivo conseguimento a titolo originario né, tanto meno, può richiedersi all’amministrazione di accertare l’esistenza (non di elementi limitativi, preclusivi o estintivi del titolo ma addirittura) del fatto costitutivo della proprietà, vicenda in contestazione tra le parti.
Conclusivamente, anche il terzo motivo di doglianza deve essere respinto, dovendosi riscontrare la correttezza dell’istruttoria operata dal Comune e la sua parimenti adeguata valutazione da parte del TAR, che ha ricordato la giurisprudenza di questo Consiglio che afferma “che
non tutti, indifferenziatamente, possono richiedere, senza il consenso dell'effettivo titolare del bene sul quale insistono le opere (il quale potrebbe essere completamente estraneo all'abuso ed avere anzi un interesse contrario alla sua sanatoria), una concessione che potrebbe risolversi in danno dello stesso” (Cons. Stato, VI, 31.12.2018, n. 7305) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 03.02.2020 n. 865 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAPer pacifica giurisprudenza, presupposto per l'adozione dell'ordinanza di demolizione non è l'accertamento di responsabilità nella commissione dell'illecito, bensì l'esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione urbanistico-edilizia: sicché sia il soggetto che abbia la titolarità a eseguire l'ordine ripristinatorio, ossia in virtù del diritto dominicale, il proprietario, sia il responsabile dell'abuso sono destinatari della sanzione reale della demolizione e del ripristino dei luoghi.
---------------

1. E’ anzitutto infondata la prima censura.
1.1 Come ha messo in luce il Consiglio di Stato (sez. VI – 13/11/2019 n. 7792), “Per pacifica giurisprudenza, da cui il Collegio non ha motivo di discostarsi, … presupposto per l'adozione dell'ordinanza di demolizione non è l'accertamento di responsabilità nella commissione dell'illecito, bensì l'esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione urbanistico-edilizia: sicché sia il soggetto che abbia la titolarità a eseguire l'ordine ripristinatorio, ossia in virtù del diritto dominicale, il proprietario, sia il responsabile dell'abuso sono destinatari della sanzione reale della demolizione e del ripristino dei luoghi (cfr. da ultimo Cons. Stato, Sez. VI, 11/12/2018, n. 6983; Sez. II, 12/09/2019, n. 6147)”.
1.2 Nel caso di specie, l’immobile ove si svolge l’attività –unitamente all’area sulla quale è stato realizzato l’illecito edilizio sanzionato con l’atto impugnato– è di proprietà del controinteressato, mentre l’esercizio pubblico (costituito in forma societaria) ne ha la disponibilità, per cui il Comune ha correttamente ingiunto a entrambi di demolire l’opera abusiva.
L’autorità amministrativa ha dedotto che l’utilizzatore del fabbricato (e del gazebo adiacente) è il “Ristorante La.” e la ricorrente risulta titolare dell’esercizio commerciale, per cui la notifica è stata effettuata nei suoi confronti quale legale rappresentante della Società di persone locataria. Del resto, detta qualità in capo alla persona fisica destinataria del provvedimento è pacifica, ed è stata espressamente indicata nel corpo dell'ordinanza (pag. 2) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 31.01.2020 n. 86 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: La circostanza che una struttura sia semplicemente “appoggiata” al suolo non la rende ex se riconducibile nell’ambito della c.d. edilizia libera. Solo le opere agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare un’esigenza oggettivamente temporanea, destinata a cessare dopo il breve tempo entro cui si realizza l'interesse finale, possono dirsi di carattere precario e, in quanto tali, non richiedenti il permesso di costruire.
Invero, <<La giurisprudenza è concorde nel senso che per individuare la natura precaria di un'opera si debba seguire non il criterio strutturale, ma il criterio funzionale, per cui un'opera può anche non essere stabilmente infissa al suolo, ma se essa presenta la caratteristica di essere realizzata per soddisfare esigenze non temporanee, non può beneficiare del regime delle opere precarie ...>>.
In buona sostanza, la natura precaria di un manufatto non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi all'intrinseca destinazione materiale di essa a un uso realmente precario e transitorio, per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, non essendo sufficiente che si tratti eventualmente di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo.
Non possono, in definitiva, essere considerati manufatti precari quelli destinati a una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l’alterazione del territorio non può essere considerata irrilevante.

---------------

2. Anche il secondo motivo è privo di pregio.
2.1 L’art. 3 comma 1, lett. e.5), del D.P.R. 380/2001 reputa interventi di nuova costruzione “l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee o siano ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore”.
I descritti interventi non sono dunque automaticamente classificati nell’alveo dell’attività edilizia libera, viceversa regolata dall’art. 6, che al comma 2 lett. b) –in vigore alla data di adozione dell’atto impugnato– contempla “le opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni”.
2.2 Ebbene, la circostanza che una struttura sia semplicemente “appoggiata” al suolo non la rende ex se riconducibile nell’ambito della c.d. edilizia libera. Solo le opere agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare un’esigenza oggettivamente temporanea, destinata a cessare dopo il breve tempo entro cui si realizza l'interesse finale, possono dirsi di carattere precario e, in quanto tali, non richiedenti il permesso di costruire (TAR Liguria, sez. I – 11/06/2019 n. 529).
Come ha ricordato TAR Lombardia Milano, sez. II – 18/03/2019 n. 579, <<La giurisprudenza è concorde nel senso che per individuare la natura precaria di un'opera si debba seguire non il criterio strutturale, ma il criterio funzionale, per cui un'opera può anche non essere stabilmente infissa al suolo, ma se essa presenta la caratteristica di essere realizzata per soddisfare esigenze non temporanee, non può beneficiare del regime delle opere precarie ...>>.
2.3 In buona sostanza, la natura precaria di un manufatto non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi all'intrinseca destinazione materiale di essa a un uso realmente precario e transitorio, per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, non essendo sufficiente che si tratti eventualmente di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo (TAR Toscana, sez. II – 08/10/2019 n. 1315).
Non possono, in definitiva, essere considerati manufatti precari quelli destinati a una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l’alterazione del territorio non può essere considerata irrilevante (Consiglio di Stato, sez. VI – 23/05/2017 n. 2438, che richiama sez. VI – 04/09/2015 n. 4116 e anche il precedente della sez. VI – 01/04/2016 n. 1291).
2.4 Nel caso di specie, il manufatto è di dimensioni non trascurabili (30 mq.), così come si può rilevare dalle fotografie allegate alla relazione di sopralluogo del 10/2/2015, ed è collocato all’esterno del fabbricato destinato a ristorante per un verosimile utilizzo continuativo.
Peraltro, un concorrente fattore ostativo è rappresentato dall’assenza dell’autorizzazione paesaggistica (cfr. vincolo di cui all’art. 142, comma 1, lett. c), del D.Lgs. 42/2004, per l’insistenza nella fascia di rispetto di 150 metri dal Fiume Oglio). Anche rispetto a quest’ultimo l’ordine di demolizione si configura come atto dovuto (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 31.01.2020 n. 86 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla base di un consolidato insegnamento giurisprudenziale:
   - la pertinenza è configurabile quando vi è un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e quella principale, cioè un nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole, oltre che una dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce;
   - a differenza della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non comporta un cosiddetto carico urbanistico.
Poi, il carattere pertinenziale rilevante ai fini urbanistici transita attraverso le seguenti coordinate identificative:
   - opere che non comportino un nuovo volume;
   - opere che comportino un nuovo e modesto volume 'tecnico' (così come definito ai fini urbanistici).

---------------
Dal punto di vista tecnico-giuridico il gazebo è caratterizzato da una struttura costruttiva leggera e aperta, che consente il passaggio di luce e aria facilitando l’ombreggiamento e la protezione delle persone durante la sosta.
Esso è tipicamente privo di pareti e di un tetto o solaio propriamente detti, ma è dotato di una copertura impermeabile facilmente amovibile.

---------------

4. Il quarto motivo verte sul concetto di pertinenza urbanistica.
4.1 Questo TAR (cfr. sez. I - 29/11/2018 n. 1141) ha statuito che, <<sulla base di un consolidato insegnamento giurisprudenziale (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 26.08.2014 n. 4290; nonché TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 21.09.2018 nn. 884 e 887; 22.01.2018 n. 22; 11.12.2017 n. 1425):
   - la pertinenza è configurabile quando vi è un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e quella principale, cioè un nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole, oltre che una dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce (Cons. Stato, sez. IV, 02.02.2012 n. 615);
   - a differenza della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non comporta un cosiddetto carico urbanistico (Cons. Stato, sez. V, 31.12.2008 n. 6756 e 13.0.2006 n. 3490)".
La stessa pronuncia ha poi precisato che "il carattere pertinenziale rilevante ai fini urbanistici transita attraverso le seguenti coordinate identificative:
   - opere che non comportino un nuovo volume;
   - opere che comportino un nuovo e modesto volume 'tecnico' (così come definito ai fini urbanistici ...)
>>.
I principi sono stati ribaditi nella sentenza di questa Sezione 05/06/2019 n. 546.
4.2 Dal punto di vista tecnico-giuridico il gazebo è caratterizzato da una struttura costruttiva leggera e aperta, che consente il passaggio di luce e aria facilitando l’ombreggiamento e la protezione delle persone durante la sosta. Esso è tipicamente privo di pareti e di un tetto o solaio propriamente detti, ma è dotato di una copertura impermeabile facilmente amovibile.
4.3 Dalla descrizione contenuta nella relazione di sopralluogo del Comune si evince che i pilastrini e la copertura di materiale plastificato hanno formato un nuovo volume che, per consistenza e tipologia, risulta agevolmente utilizzabile in via autonoma e separata rispetto all'edificio principale (del quale amplia la fruibilità): risulta destinato a soddisfare esigenze durevoli nel tempo e implica un incremento del carico urbanistico, con un’autonoma identità edilizia (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 31.01.2020 n. 86 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTI: Principio di rotazione.
Il TAR Brescia, dopo aver richiamato le Linee Guida n. 4 dell’ANAC, secondo cui “[l]a rotazione non si applica laddove il nuovo affidamento avvenga tramite procedure ordinarie o comunque aperte al mercato, nelle quali la stazione appaltante, in virtù di regole prestabilite dal Codice dei contratti pubblici ovvero dalla stessa in caso di indagini di mercato o consultazione di elenchi, non operi alcuna limitazione in ordine al numero di operatori economici tra i quali effettuare la selezione” (v. paragrafo 3.6), precisa che:
   «(b) la suddetta indicazione appare condivisibile, nell’interesse della concorrenza, in quanto non vi è motivo di non ammettere i contraenti uscenti e gli operatori economici invitati e non risultati affidatari nelle gare precedenti, quando qualunque impresa può partecipare alla nuova gara in condizione di sostanziale parità con tutti i concorrenti;
   (c) il principio di rotazione deve invece essere applicato quando i posti disponibili per l’invito alla gara siano limitati a causa di ragioni oggettive, o quando l’invito sia la conseguenza di una prequalificazione gestita dalla stazione appaltante secondo valutazioni discrezionali, ad esempio attraverso un’indagine di mercato orientata da criteri selettivi. In questi casi, l’esclusione dei precedenti aggiudicatari e dei soggetti economici già invitati è utile, in quanto impedisce la formazione di una rendita di posizione, e libera la stazione appaltante dai legami e dai condizionamenti derivanti dai rapporti pregressi, livellando nuovamente il terreno della competizione;
   (d) dove queste esigenze non sussistono, l’esclusione dei precedenti aggiudicatari e dei soggetti economici già invitati non aggiunge efficienza al mercato, ma sottrae opzioni alla stazione appaltante. Se l’aggiunta di un concorrente marginale non comporta problemi di gestibilità della procedura, in quanto la partecipazione è aperta a tutti, indipendentemente dal numero, e la selezione si colloca interamente a valle della richiesta di partecipazione, i precedenti rapporti di alcuni soggetti economici con la stazione appaltante risultano inevitabilmente diluiti, e in definitiva perdono ogni potere di interferenza nella nuova gara» (fattispecie relativa a gara relativa al servizio di manutenzione e riparazione degli automezzi aziendali)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 31.01.2020 n. 82 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).

APPALTIPer la Corte di giustizia UE i concorrenti non possono essere automaticamente esclusi dalla gara per fatto del subappaltatore.
La Corte di giustizia UE ha dichiarato che la normativa italiana in materia di contratti pubblici, nella parte in cui prevede l’esclusione automatica dei singoli concorrenti per la violazione della normativa sul lavoro dei disabili da parte dei propri subappaltatori (indicati nella domanda di partecipazione), non risulta conforme al principio di proporzionalità di matrice comunitaria. In siffatte ipotesi occorre infatti una valutazione, “caso per caso”, in merito alle misure correttive eventualmente poste in essere dal concorrente stesso onde salvaguardare il proprio livello di integrità professionale.
---------------
Contratti pubblici – Violazione della disciplina nazionale a tutela del lavoro dei disabili da parte del subappaltatore – Esclusione dell’impresa concorrente – Ammissibilità – Proporzionalità – Selfcleaning – Automaticità della esclusione – Incompatibilità
L’articolo 57, paragrafo 4, lettera a), della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, non osta ad una normativa nazionale, in virtù della quale l’amministrazione aggiudicatrice abbia la facoltà, o addirittura l’obbligo, di escludere l’operatore economico che ha presentato l'offerta dalla partecipazione alla procedura di aggiudicazione dell'appalto qualora nei confronti di uno dei subappaltatori menzionati nell'offerta di detto operatore venga constatato il motivo di esclusione previsto dalla disposizione sopra citata.
Per contro, tale disposizione, letta in combinato disposto con l’articolo 57, paragrafo 6, della medesima direttiva, nonché il principio di proporzionalità, ostano ad una normativa nazionale che stabilisca il carattere automatico di tale esclusione (1).

---------------
   (1) I. – Secondo la Corte di giustizia UE, la violazione degli obblighi in tema di lavoro dei disabili da parte del subappaltatore (a sua volta indicato nell’ambito della relativa terna della domanda di partecipazione alla gara) non può dare luogo ad esclusione automatica del concorrente, il quale potrebbe a questo punto dimostrare di avere apprestato idonee misure correttive (c.d. selfcleaning) onde rimuovere una tale causa di inaffidabilità.
   II. – La questione pregiudiziale era stata sollevata dalla seconda sezione del Tar per il Lazio ed era sorta nell’ambito di un contenzioso avviato dalla società Tim s.p.a. Più in particolare:
      a) Tim partecipava ad una gara per la fornitura di un sistema di interconnessione tra le banche dati di alcuni dipartimenti del Ministero dell’economia e delle finanze (Tesoro, Ragioneria Generale ed Affari Generali). Uno dei subappaltatori a tal fine indicati non era tuttavia risultato in regola con le norme che disciplinano il diritto al lavoro dei disabili (certificazione di cui all’art. 17 della legge 12.03.1999, n. 68).
Di qui la sussistenza di uno dei motivi di esclusione di cui all’art. 80, comma 5, lettera i), del decreto legislativo n. 50 del 2016, il quale prevede che la eventuale violazione di simili norme da parte del subappaltatore sortisca effetti, altresì, sulla sfera del soggetto che partecipa alla gara in prima persona. Tim veniva dunque esclusa dalla gara per la violazione, in materia di lavoro dei disabili, commessa da uno dei subappaltatori indicati in sede di gara;
      b) il provvedimento di esclusione veniva impugnato davanti al Tar per il Lazio il quale, con ordinanza 29.05.2018, n. 6010, evidenziava innanzitutto che:
         b1) la violazione delle suddette disposizioni in tema di lavoro dei disabili danno luogo, secondo la normativa eurounitaria in materia di contratti pubblici (art. 57 direttiva 24/2014/UE), a “cause di esclusione facoltative”. La stessa normativa europea prevede tra l’altro la “sostituzione” del subappaltatore che non sia in regola con taluni obblighi, non anche la “esclusione” del concorrente che abbia indicato il subappaltatore stesso (art. 71 della richiamata direttiva 24/2014/UE);
         b2) tale disposizione è stata recepita nel nostro ordinamento nel seguente modo:
 − nel corso della procedura, è prescritta la “esclusione” automatica del concorrente che abbia indicato un subappaltatore non in regola con i suddetti obblighi (art. 80, comma 5, del decreto legislativo n. 50 del 2016);
 − dopo la aggiudicazione, e dunque in seguito alla stipulazione del contratto, è invece prevista la “sostituzione” del subappaltatore che si riveli non in regola con gli obblighi di cui sopra (art. 105, comma 12, del richiamato codice dei contratti);
      c) il giudice di primo grado formulava dunque alcuni specifici quesiti interpretativi alla Corte di giustizia UE riguardanti, in particolare:
         c1) se la normativa interna sia compatibile con quella eurounitaria nella parte in cui si prevede l’esclusione di un concorrente per una violazione commessa non da lui ma da altro soggetto, ossia dal subappaltatore indicato in sede di gara;
         c2) se la normativa interna sia compatibile con quella eurounitaria nella parte in cui si prevede, nel corso della procedura di aggiudicazione, la sola “esclusione” e non anche la semplice “sostituzione” del subappaltatore che non sia in regola con i suddetti obblighi;
         c3) in via subordinata, se una esclusione automatica di questo tipo risulti in ogni caso conforme rispetto al principio di proporzionalità di derivazione comunitaria.
   III. – Con la sentenza in rassegna la Corte di giustizia, dopo aver analizzato la normativa interna ed europea, ha in particolare osservato che:
      d) il citato art. 57 della direttiva 2014/24/UE, in materia di cause di esclusione facoltative (e, tra queste, anche quelle legate alla violazione di norma in materia di tutela dei disabili), non ha come obiettivo l’uniformità di applicazione delle suddette cause su tutto il territorio dell’Unione. La previsione o meno di simili cause di esclusione, infatti, è legata a considerazioni ed obiettivi di ordine economico e sociale dei singoli Stati membri;
      e) lo stesso art. 57, nel delineare le cause di esclusione facoltative (non solo per violazione in materia di disabili ma anche per violazioni delle norme in materia ambientale, sociale e del lavoro più in generale), si esprime in termini “impersonali”, ossia senza specifici riferimenti all’autore della violazione. Pertanto, nulla impedisce agli Stati membri di prevedere che il concorrente “paghi” per le violazioni commesse da un altro soggetto (nel caso di specie, dal subappaltatore). E tanto in ossequio al principio secondo cui i singoli concorrenti debbono garantire il più ampio livello di integrità ed affidabilità professionale;
      f) quanto alla parità di trattamento:
         f1) nessuna violazione di tale principio si riscontra nella fase di aggiudicazione della commessa atteso che tutti gli operatori (ed i loro subappaltatori) sono in grado di essere valutati sulla base di identiche condizioni;
         f2) nessuna violazione si rinviene altresì nella fase di esecuzione del contratto, atteso che una simile evenienza (sopravvenuto verificarsi di una causa di esclusione) può ben dare luogo alla adozione di una differente misura sanzionatoria (sostituzione in luogo della esclusione);
      g) quanto invece al principio di proporzionalità, la normativa interna non risulta conforme al dettato eurounitario dal momento che:
         g1) tale principio di proporzionalità va tenuto nella debita considerazione, trattandosi di violazioni commesse non dalla impresa concorrente ma da soggetti ad essa estranei (subappaltatori);
         g2) ebbene, in presenza di simili violazioni (perpetrate da soggetti estranei alla sua impresa) il concorrente dovrebbe essere messo nelle condizioni di provare di avere adottato ogni misura idonea a neutralizzare gli effetti delle violazioni stesse (c.d. selfcleaning);
         g3) la normativa interna di cui al codice dei contratti prevede invece una esclusione automatica degli operatori i cui subappaltatori abbiano commesso talune violazioni, e dunque una “presunzione assoluta” di inaffidabilità dei medesimi, così impedendo alle amministrazioni aggiudicatrici di operare valutazioni “caso per caso” in funzione delle misure che i singoli concorrenti abbiano dato prova di poter adottare onde mantenere inalterato il proprio livello di integrità professionale.
   IV. – Per completezza si segnala che:
      h) in tema di subappalto, grande interesse ha suscitato il tema del limite della quota che può essere subappaltata a terzi soggetti. Più in particolare:
         h1) la prima pronunzia che si registra è quella della Corte di giustizia UE, sez. V, 26.09.2019, C-63/18, Vitali s.p.a. (oggetto della News US n. 105 del 14.10.2019 ed alla quale si rinvia per ogni approfondimento in dottrina e in giurisprudenza), con cui la Corte di giustizia UE ha dichiarato che la normativa europea in materia di appalti pubblici deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale che limita al 30% la parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi.
Più in particolare, il ricorso al subappalto può favorire l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici. Per converso, una clausola che imponga limitazioni al ricorso a subappaltatori per una parte dell’appalto fissata in maniera astratta, sulla base ossia di una determinata percentuale dello stesso, si rivela incompatibile con tale direttiva.
È ben vero, infatti, che i singoli Stati membri debbano verificare se i subappaltatori possano essere messi in relazione a fenomeni di organizzazione criminale, di corruzione o di frode, ma è anche vero, d’altro canto, che occorrono in tutti questi casi spazi per una valutazione caso per caso da parte dell’ente aggiudicatore.
E tanto anche in considerazione dei già numerosi istituti interdittivi, previsti dall’ordinamento italiano, espressamente finalizzati ad impedire l’accesso alle gare pubbliche per le imprese sospettate di condizionamento mafioso o comunque collegate a interessi riconducibili alle principali organizzazioni criminali operanti nel paese;
         h2) la successiva pronunzia è quella di cui alla Corte di giustizia UE, sez. V, 27.11.2019, C-402/18 – Tedeschi Srl e Consorzio Stabile Istant Service contro C.M. Service Srl e Università degli Studi di Roma La Sapienza (oggetto della News US n. 131 del 10.12.2019 ed alla quale si rinvia per ogni approfondimento in dottrina e in giurisprudenza), con cui la Corte di giustizia UE ha riaffermato la non conformità alla direttiva n. 2004/18/CE di una disciplina nazionale (nel caso di specie contenuta nell’art. 118 del d.lgs. n. 163 del 2006) nella parte in cui prevede il limite quantitativo del trenta per cento alle prestazioni subappaltabili, poiché quest’ultimo è ex se inidoneo al raggiungimento dello scopo di contrastare le infiltrazioni criminali nel sistema degli appalti pubblici. Riprese, in particolare, le stesse argomentazioni di cui alla richiamata sentenza della Corte di Giustizia UE 26.09.2019;
         h3) la validità del limite del 30%, per la parte di opera oggetto di subappalto, è stata tra l’altro oggetto di rilievo della Commissione europea, mediante la lettera di costituzione in mora 2018/2273 del 24.01.2019, con la quale è stato contestato, in relazione ad alcune disposizioni del codice, il non corretto recepimento delle direttive europee.
In particolare, ad avviso della Commissione: nelle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE non vi sono disposizioni che consentano un siffatto limite obbligatorio all’importo dei contratti pubblici che può essere subappaltato; al contrario, le direttive si basano sul principio secondo cui occorre favorire una maggiore partecipazione delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici, e il subappalto è uno dei modi in cui tale obiettivo può essere raggiunto, e pertanto un limite quantitativo al subappalto non può essere imposto in astratto, ma solo caso per caso in relazione alla particolare natura della prestazione da svolgere;
      i) sul tema dei prezzi praticabili nei confronti del subappaltatore si veda ancora Corte di giustizia UE, sez. V, 27.11.2019, C-402/18 – Tedeschi Srl e Consorzio Stabile Istant Service contro C.M. Service Srl e Università degli Studi di Roma La Sapienza (oggetto della News US n. 131 del 10.12.2019 ed alla quale si rinvia per ogni approfondimento in dottrina e in giurisprudenza), con la quale è stata altresì dichiarata l’illegittimità della disciplina del Codice dei contratti (decreto legislativo n. 50 del 2016) nella parte in cui vieta che i prezzi applicabili alle prestazioni affidate in subappalto siano ridotti di oltre il 20% rispetto ai prezzi risultanti dall’aggiudicazione in quanto si tratta di strumento che eccede rispetto alla necessità di assicurare la tutela salariale dei lavoratori impiegati nel subappalto.
Per la Corte, tale limite rende infatti meno allettante la possibilità di ricorrere al subappalto dal momento che limita l’eventuale vantaggio concorrenziale in termini di costi per il personale delle imprese subappaltatrici. Ciò si pone in contrasto con i principi di concorrenza e massima partecipazione e con lo scopo di agevolare l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici.
Un tale limite, prosegue ancora la Corte, eccede quanto necessario per assicurare ai lavoratori impiegati nell’ambito del subappalto la tutela salariale dal momento che non “lascia spazio ad una valutazione caso per caso da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, dal momento che si applica indipendentemente da qualsiasi presa in considerazione della tutela sociale garantita dalle leggi, dai regolamenti e dai contratti collettivi applicabili ai lavoratori interessati” (punto 65);
      j) sulla nuova disciplina del d.l. 18.04.2019, n. 32, “Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l'accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici (cd. “Sblocca cantieri”), convertito con modificazioni in l. 14.06.2019, n. 55 (oggetto della News normativa, n. 74 del 10.07.2019, alla quale si rinvia per approfondimenti) si veda, in particolare, il contributo di R. DE NICTOLIS, Le novità sui contratti pubblici recate dal d.l. n. 32/2019, ivi richiamato, in cui si evidenzia che:
 I) il d.l. n. 32 del 2019 recava nella versione originaria un parziale adeguamento dell’art. 105 d.lgs. n. 50 del 2016 ai rilievi della Commissione europea in quanto modificava il limite generale del subappalto, innalzandolo dal trenta al cinquanta per cento dell’importo contrattuale;
 II) non veniva accolto, invece, il rilievo della Commissione europea relativo al limite del subappalto per le opere di cui all’art. 89, comma 11 (art. 105, comma 5), ritenendosi tale limite giustificato dalla particolare natura delle prestazioni (secondo la Commissione europea sono consentiti limiti quantitativi del subappalto giustificati dalla particolare natura della prestazione);
 III) tali previsioni non sono state convertite in legge ma in sede di conversione, la l. n. 55 del 2019 ha operato sul subappalto un intervento transitorio, senza novellare il codice e limitandosi a sospendere l’efficacia di alcune norme e a derogarne altre, con conseguente individuazione del limite quantitativo del subappalto fissato nel quaranta per cento dell’importo complessivo del contratto fino al 31 dicembre 2020;
      k) si veda inoltre la richiamata News US n. 105 del 14.10.2019 per gli approfondimenti ivi contenuti sul subappalto in generale, sul tema di compatibilità con il diritto europeo dei limiti al subappalto posti dalla legislazione italiana [si vedano al riguardo i pareri resi dal Consiglio di Stato sul nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016) e sul correttivo allo stesso (d.lgs. n. 56 del 2017): nel parere n. 855/2016 il Consiglio di Stato aveva in particolare osservato, in relazione all’art. 105, che il legislatore nazionale potrebbe porre, in tema di subappalto, limiti di maggior rigore rispetto alle direttive europee, che non costituirebbero un ingiustificato goldplating, ma sarebbero giustificati da pregnanti ragioni di ordine pubblico, di tutela della trasparenza e del mercato del lavoro].
Si veda ancora, nella stessa News, il tema del riparto della competenza legislativa fra Stato e regioni, sempre avuto riguardo al subappalto;
      l) si veda altresì la richiamata News US n. 131 del 10.12.2019 per gli approfondimenti ivi contenuti sul subappalto necessario, sulla responsabilità solidale nell’ambito del subappalto nonché sull’estensione della responsabilità solidale del committente privato a soggetti diversi dai dipendenti dell’appaltatore o del subappaltatore;
      m) in tema di gravi illeciti professionali si veda:
         m1) Corte di giustizia UE, sez. IV, 19.06.2019, C-41/18, Meca s.r.l. (oggetto della News US n. 83 del 18.07.2019 ed alla quale si rinvia per ogni approfondimento in dottrina e in giurisprudenza), con la quale la è stata affermata la non conformità alle direttive europee del Codice dei contratti pubblici nella parte in cui si prevede che la contestazione in giudizio della decisione di risolvere un contratto di appalto pubblico, assunta da un'amministrazione aggiudicatrice per via di significative carenze verificatesi nella sua esecuzione, impedisca all'amministrazione aggiudicatrice che indice una nuova gara d'appalto di effettuare una qualsiasi valutazione, nella fase della selezione degli offerenti, sull'affidabilità dell'operatore cui la suddetta risoluzione si riferisce.
Più in particolare, le amministrazioni aggiudicatrici devono poter escludere un operatore economico in qualunque momento della procedura e non solo dopo che un organo giurisdizionale abbia pronunciato una sentenza che accerti l’esistenza del grave illecito professionale. Ed infatti, dal testo dell’art. 57, paragrafo 4, della direttiva n. 2014/24/UE, risulta che il legislatore dell’Unione ha inteso affidare all’amministrazione aggiudicatrice, e a essa soltanto, nella fase della selezione degli offerenti, il compito di valutare se un candidato o un offerente debba essere escluso da una procedura di aggiudicazione di appalto;
         m2) nel senso che la contestazione giudiziale non si traduca in un’automatica ammissione si veda inoltre Cons. Stato, sez. V, 02.03.2018, n. 1299 (in Urbanistica e appalti, 2018, 657, con nota di CONTESSA; Giur. it., 2018, 1681, con nota di FOÀ, RICCIARDO CALDERARO; Foro amm., 2018, 441; Appalti & Contratti, 2018, fasc. 3, 78; Gazzetta forense, 2018, 335), secondo cui: “l’esistenza di una contestazione giudiziale della risoluzione non implica che la fattispecie concreta ricada esclusivamente nell’ipotesi esemplificativa, con applicazione del relativo regime operativo; difatti, il “fatto” in sé di inadempimento resta pur sempre un presupposto rilevante ai fini dell’individuazione di un grave illecito professionale, secondo l’ipotesi generale”.
Invero, “sussistendo una relazione di genus ad speciem; a differenza della seconda ipotesi, nel caso generale, la stazione appaltante non può avvalersi dell’effetto presuntivo assoluto di gravità derivante dalla sentenza pronunciata in giudizio, né, per converso, l’impresa può opporne la pendenza per porre nell’irrilevante giuridico il comportamento contrattuale indiziato”;
         m3) sullo stesso tema si veda altresì Cons. Stato, sez. V, ordinanza 23.08.2018, n. 5033 (oggetto della News US in data 07.09.2018, ai cui approfondimenti si rinvia) e Cons. Stato, sez. V, ordinanza, 03.05.2018, n. 2639 (oggetto della News US in data 08.05.2018, ai cui approfondimenti si rinvia) con le quali il giudice d’appello ha rimesso nuovamente la analoga questione della compatibilità, con il diritto dell’Unione europea, della normativa interna sulle cause di esclusione del concorrente dalla partecipazione a una procedura di gara, in caso di grave illecito professionale che abbia causato la risoluzione anticipata di un contratto di appalto, nella parte in cui richiede che l’operatore possa essere escluso solo se la risoluzione non sia contestata giudizialmente o sia confermata all’esito di un giudizio;
      n) sul principio di proporzionalità si vedano, in generale, le pronunzie della giurisprudenza europea rese sull’art. 45, comma 2, della direttiva 2004/18 (Corte di giustizia UE, sez. IV, 14.12.2016, causa C-171/15, Taxi Services BV, in Foro amm., 2016, 2890, nonché oggetto della News US, in data 09.01.2017, ai cui approfondimenti si rinvia; idem, sez. X, 18.12.2014, C-470/13, in Foro amm., 2014, 3034 e in www.curia.europa.eu, 2014; idem, sez. III, 13.12.2012, C-465/11, in www.curia.europa.eu, 2012), le quali rifiutano ogni automatismo in materia di cause di esclusione facoltativa nel caso di grave errore professionale, dovendo la relativa determinazione ispirarsi a criteri di proporzionalità; ne discende che analogo principio, contrario ad ogni automatismo, deve valere in ipotesi di meccanismi che abbiano il contrario effetto di precludere l’esclusione.
In buona sostanza, il grave errore o inadempimento professionale non potrebbe mai dare luogo ad automatismi di sorta ma soltanto innescare, proprio in base al suddetto principio di proporzionalità, valutazioni “caso per caso” sia ai fini della esclusione, sia ai fini della ammissione dei concorrenti medesimi;
      o) in dottrina, sulle conseguenze in capo all’operatore economico del verificarsi di una causa di esclusione relativa ad un subappaltatore da esso indicato, sul selfcleaning e sulla causa di esclusione posta a protezione dei diversamente abili nell’ambito delle c.d. “clausole sociali”, si veda R. DE NICTOLIS, Appalti pubblici e concessioni, Bologna, 2020, 675 ss., 790 ss., 491 ss.; R. GRECO, G.A. GIUFFRE’, M. VIVARELLI, in Trattato sui contratti pubblici, a cura di M.A. SANDULLI e R. DE NICTOLIS, Milano, 2019, tomo II, Soggetti, Qualificazione, Regole comuni alle procedure di gara, 889 ss., 905; 202 ss.; S. FANTINI, ibidem, tomo IV, Esecuzione, Settori speciali, Appalti con regimi speciali, 51 ss (Corte di giustizia dell’Unione europea, Sez. II, sentenza 30.01.2020 C–395/18 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAAi fini dell'art. 1127 c.c., la sopraelevazione di edificio condominiale è costituita dalla realizzazione di nuove opere (nuovi piani o nuove fabbriche) nell'area sovrastante il fabbricato, per cui l'originaria altezza dell'edificio è superata con la copertura dei nuovi piani o con la superficie superiore terminale delimitante le nuove fabbriche.
Nella definizione enunciata da Cass. Sez. U, 30/07/2007, n. 16794,
la nozione di sopraelevazione ex art. 1127 c.c. comprende, peraltro, non solo il caso della realizzazione di nuovi piani o nuove fabbriche, ma anche quello della trasformazione dei locali preesistenti mediante l'incremento delle superfici e delle volumetrie, seppur indipendentemente dall'aumento dell'altezza del fabbricato.
L'art. 1127 c.c. sottopone, poi, il diritto di sopraelevazione del proprietario dell'ultimo piano dell'edificio ai limiti dettati dalle condizioni statiche dell'edificio che non la consentono, ovvero dall'aspetto architettonico dell'edificio stesso, oppure dalla conseguente notevole diminuzione di arie e luce per i piani sottostanti. Il limite segnato dalle condizioni statiche si intende dalla giurisprudenza di questa Corte, in particolare, come espressivo di un divieto assoluto, cui è possibile ovviare soltanto se, con il consenso unanime dei condomini, il proprietario sia autorizzato all'esecuzione delle opere di rafforzamento e di consolidamento necessarie a rendere idoneo il fabbricato a sopportare il peso della nuova costruzione.
Ne consegue che
le condizioni statiche dell'edificio rappresentano un limite all'esistenza stessa del diritto di sopraelevazione, e non già l'oggetto di verificazione e di consolidamento per il futuro esercizio dello stesso, limite che si sostanzia nel potenziale pericolo per la stabilità del fabbricato derivante dalla sopraelevazione, il cui accertamento costituisce apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di  legittimità se congruamente motivato.
E' parimenti consolidato l'orientamento secondo il quale
il divieto di sopraelevazione per inidoneità delle condizioni statiche dell'edificio, previsto dall'art. 1127, comma 2, c.c., debba interpretarsi non nel senso che la sopraelevazione sia vietata soltanto se le strutture dell'edificio  non consentano di sopportarne il peso, ma nel senso che il divieto sussiste anche nel caso in cui le strutture siano tali che, una volta elevata la nuova fabbrica, non consentano di sopportare l'urto di forze in movimento quali le sollecitazioni di origine sismica.
Pertanto,
qualora le leggi antisismiche prescrivano particolari cautele tecniche da adottarsi, in ragione delle caratteristiche del territorio, nella sopraelevazione degli edifici, esse sono da considerarsi integrative dell'art. 1127, comma 2, c.c., e la loro inosservanza determina una presunzione di pericolosità della sopraelevazione, che può essere vinta esclusivamente mediante la prova, incombente sull'autore della nuova fabbrica, che non solo la sopraelevazione, ma anche la struttura sottostante sia idonea a fronteggiare il rischio sismico.
La domanda di demolizione può essere, perciò, paralizzata unicamente da tale prova di adeguatezza della sopraelevazione e della struttura sottostante rispetto al rischio sismico; sicché, ove detta prova non sia acquisita, il diritto di sopraelevare non può sorgere.

---------------

II. Il primo ed il secondo motivo di ricorso possono essere esaminati congiuntamente, per la loro connessione, e si rivelano infondati.
La Corte d'appello di Catania ha correttamente qualificato come "sopraelevazione", agli effetti dell'art. 1127 c.c., il manufatto dell'altezza variabile da m. 2,10 a m. 2,40 realizzato da An.Tr. sulla terrazza di copertura dell'edificio  condominiale, vano avente una superficie di mq 42, cui si accede dall'appartamento di proprietà esclusiva Tr. mediante scala a chiocciola innestata nel solaio.
Ai fini dell'art. 1127 c.c., la sopraelevazione di edificio condominiale è, infatti, costituita dalla realizzazione di nuove opere (nuovi piani o nuove fabbriche) nell'area sovrastante il fabbricato, per cui l'originaria altezza dell'edificio è superata con la copertura dei nuovi piani o con la superficie superiore terminale delimitante le nuove fabbriche (Cass. Sez. 2, 24/10/1998, n. 10568; Cass. Sez. 2, 10/06/1997, n. 5164; Cass. Sez. 2, 24/01/1983, n. 680; Cass. Sez. 2, 07/09/2009, n. 19281).
Nella definizione enunciata da Cass. Sez. U, 30/07/2007, n. 16794, la nozione di sopraelevazione ex art. 1127 c.c. comprende, peraltro, non solo il caso della realizzazione di nuovi piani o nuove fabbriche, ma anche quello della trasformazione dei locali preesistenti mediante l'incremento delle superfici e delle volumetrie, seppur indipendentemente dall'aumento dell'altezza del fabbricato.
L'art. 1127 c.c. sottopone, poi, il diritto di sopraelevazione del proprietario dell'ultimo piano dell'edificio ai limiti dettati dalle condizioni statiche dell'edificio che non la consentono, ovvero dall'aspetto architettonico dell'edificio stesso, oppure dalla conseguente notevole diminuzione di arie e luce per i piani sottostanti. Il limite segnato dalle condizioni statiche si intende dalla giurisprudenza di questa Corte, in particolare, come espressivo di un divieto assoluto, cui è possibile ovviare soltanto se, con il consenso unanime dei condomini, il proprietario sia autorizzato all'esecuzione delle opere di rafforzamento e di consolidamento necessarie a rendere idoneo il fabbricato a sopportare il peso della nuova costruzione.
Ne consegue che le condizioni statiche dell'edificio rappresentano un limite all'esistenza stessa del diritto di sopraelevazione, e non già l'oggetto di verificazione e di consolidamento per il futuro esercizio dello stesso, limite che si sostanzia nel potenziale pericolo per la stabilità del fabbricato derivante dalla sopraelevazione, il cui accertamento costituisce apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di  legittimità se congruamente motivato (Cass. Sez. 2, 30/11/2012, n. 21491).
E' parimenti consolidato l'orientamento secondo il quale il divieto di sopraelevazione per inidoneità delle condizioni statiche dell'edificio, previsto dall'art. 1127, comma 2, c.c., debba interpretarsi non nel senso che la sopraelevazione sia vietata soltanto se le strutture dell'edificio  non consentano di sopportarne il peso, ma nel senso che il divieto sussiste anche nel caso in cui le strutture siano tali che, una volta elevata la nuova fabbrica, non consentano di sopportare l'urto di forze in movimento quali le sollecitazioni di origine sismica.
Pertanto, qualora le leggi antisismiche prescrivano particolari cautele tecniche da adottarsi, in ragione delle caratteristiche del territorio, nella sopraelevazione degli edifici, esse sono da considerarsi integrative dell'art. 1127, comma 2, c.c., e la loro inosservanza determina una presunzione di pericolosità della sopraelevazione, che può essere vinta esclusivamente mediante la prova, incombente sull'autore della nuova fabbrica, che non solo la sopraelevazione, ma anche la struttura sottostante sia idonea a fronteggiare il rischio sismico. La domanda di demolizione può essere, perciò, paralizzata unicamente da tale prova di adeguatezza della sopraelevazione e della struttura sottostante rispetto al rischio sismico; sicché, ove detta prova non sia acquisita, il diritto di sopraelevare non può sorgere.
La condizione di liceità della sopraelevazione eseguita dalla Tr., era, dunque, subordinata alla verifica che il fabbricato Condominio Lo Sm. fosse stato reso conforme alle prescrizioni tecniche dettate dalla legislazione speciale (art. 14, L. n. 64 del 1974), dovendosi acquisire elementi sufficienti a dimostrare scientificamente la sicurezza antisismica della sopraelevazione e dell'edificio sottostante, mediante indagine di fatto demandata al giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al sindacato di legittimità, se, come nel caso in esame, congruamente motivato.
Soltanto la presentazione di una progettazione antisismica dell'opera eseguita e dell'intero edificio, conseguente ad una verifica della struttura complessiva e delle fondazioni del fabbricato, permette di ottemperare alla presunzione di pericolosità derivante dall'inosservanza delle prescrizioni tecniche dettate dalla normativa speciale.
La Corte d'Appello ha motivatamente spiegato le ragioni della propria adesione alle risultanze della consulenza tecnica d'ufficio, indicando come la sopraelevazione fosse stata realizzata dalla Trovato in assenza di preventive indagini conoscitive e verifiche tecniche circa l'incidenza sui carichi permanenti e sui sovraccarichi accidentali dell'edificio, con conseguente pregiudizio statico.
Non hanno perciò rilievo dirimente, ai fini della valutazione della legittimità delle opere sotto il profilo del pregiudizio statico, né il conseguimento della concessione edilizia relativa al corpo di fabbrica elevato sul terrazzo dell'edificio (Cass. Sez. 2, 26/04/2013, n. 10082; Cass. Sez. 2, 11/02/2008, n. 3196), né, al contrario di quanto assume la ricorrente, la certificazione redatta da un tecnico attestante l'idoneità statica delle opere eseguite, sufficiente per il conseguimento della concessione in sanatoria di costruzioni in zone sismiche (in base al combinato disposto di cui all'art. 26, L. Regione Sicilia 10.08.1985, n. 37 ed all'art. 7, L. Regione Sicilia, 15.05.1986, n. 26), e neppure la carenza della condizioni per il rilascio del certificato di abitabilità, poste a tutela delle esigenze igieniche e sanitarie nonché degli interessi urbanistici, e dunque funzionali a verificare l'idoneità dell'immobile ad essere "abitato", o più generalmente ad essere frequentato dalle persone fisiche.
Si tratta, infatti, di atti che attengono all'ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e privato, e cioè all'aspetto formale dell'attività edificatoria, e che non sono invece di per sé risolutivi del conflitto tra i proprietari privati interessati in senso opposto alla costruzione, conflitto da dirimere pur sempre in base al diretto raffronto tra le caratteristiche oggettive dell'opera e i limiti posti dall'art. 1127 c.c. (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 29.01.2020 n. 2000).

APPALTI Sulla mancata allegazione dello schema di statuto al disciplinare di gara a doppio oggetto per il nuovo socio di società mista.
  
Sulla nullità di clausole che prevedano diritti di prelazione in favore dei soci della società mista.
   L'art. 17, c. 2, del d.lgs n. 175/2016 (TUSP), nella parte in cui prevede che all'avviso pubblico è allegata (fra gli altri) la "bozza dello statuto" si riferisce alle società a partecipazione mista pubblico-privata da costituire.
Pertanto, nel caso di specie, il comportamento della stazione appaltante che ha omesso di allegare al disciplinare di gara lo schema di statuto della società mista non vizia la procedura di gara. Le società a partecipazione mista pubblico-privata già costituite (quale Mobilità di Marca S.p.a.), nelle quali debba fare ingresso un nuovo socio privato, hanno già uno statuto (e non una "bozza di statuto").
Del resto, la Comunicazione interpretativa della Commissione sull'applicazione del diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni ai partenariati pubblico-privati istituzionalizzati (PPPI) - 2008/C 91/02), prevede che, in relazione alla "costituzione" di un PPPI, l'obbligo di trasparenza impone all'amministrazione aggiudicatrice di includere nel bando di gara o nel capitolato d'oneri informazioni di base sull'appalto pubblico o sulla concessione da aggiudicare all'entità a capitale misto "che dovrà essere costituita", sullo statuto di tale entità, sul patto tra gli azionisti e su tutti gli altri elementi che regolano, da un lato, il rapporto contrattuale tra l'amministrazione aggiudicatrice e il partner privato e, dall'altro, il rapporto tra l'amministrazione aggiudicatrice e "l'entità a capitale misto da costituire".
Peraltro, detto statuto è pienamente conoscibile (essendo liberamente accessibile presso il registro delle imprese e pubblicato sul sito istituzionale della società).
  
La previsione dell'obbligo della procedura di evidenza pubblica in caso di alienazione di partecipazioni sociali ex art. 10, c. 2, del d.lgs. n. 175/2016, comporta la contestuale nullità di eventuali clausole che prevedano diritti di prelazione in favore dei soci della società mista, in quanto l'apposizione di simili pattuizioni si pone inevitabilmente in contrasto con i principi di matrice eurounitaria.
Pertanto, nel caso di specie, è illegittima la procedura di gara indetta dalla Provincia nella misura in cui non ha previsto, nell'ambito della documentazione di gara, la rinuncia al diritto di prelazione in favore dei soci privati di Mobilità di Marca S.p.a., ponendosi il mantenimento di siffatti patti di prelazione pur in presenza di una procedura di gara volta all'acquisizione del 30% delle partecipazioni sociali, in stridente contrasto con il disposto di cui all'art. 10, c. 2, del d.lgs. n. 175 del 2016
(TAR Veneto, Sez. I, sentenza 29.01.2020 n. 98 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ACQUA – INQUINAMENTO IDRICO – Scarico dei reflui provenienti da impianti di autolavaggio – Nozione di reflui domestici – Attività artigianali – Prestazioni di servizi – Acque reflue industriali – Considerazione della qualità inquinante dei reflui – Necessità – Preventivo controllo della P.A. – Artt. 133 e 137 d.lgs. n. 152/2006 – Giurisprudenza.
In tema di tutela delle acque dall’inquinamento, lo scarico dei reflui provenienti da impianti di autolavaggio, eseguito in assenza di autorizzazione, integra il reato di cui all’art. 137, comma primo, del D.Lgs. n. 152 del 2006, non potendo tali acque essere assimiliate a quelle domestiche.
Nella nozione di reflui domestici, alla luce delle nuove disposizioni normative, rientrano tutti i reflui derivanti da attività che non attengono strettamente al prevalente metabolismo umano e alle attività domestiche, come definite dall’art. 74, comma 1, lett. g), del d.Lgs. n. 152 del 2006, il cui scarico è invece presidiato dalla mera sanzione amministrativa in base a quanto previsto dall’art. 133, comma 2, del predetto decreto n. 152 del 2006.
Rientrano, pertanto, tra le acque reflue industriali quelle provenienti da attività artigianali e da prestazioni di servizi, a condizione che le caratteristiche qualitative degli stessi siano diverse da quelle delle acque domestiche, e ciò indipendentemente dal grado o dalla natura dell’inquinamento.
Dunque, al fine di individuare le acque che derivano dalle attività produttive, occorre procedere a contrario, vale a dire escludendo le acque ricollegabili al metabolismo umano e provenienti dalla realtà domestica: è questo il caso degli impianti di autolavaggio, i quali hanno natura di insediamenti produttivi e non di insediamenti civili, in considerazione della qualità inquinante dei reflui, diversa e più grave rispetto a quella dei normali scarichi da abitazioni, e per la presenza di residui quali oli minerali e sostanze chimiche contenute nei detersivi e nelle vernici eventualmente staccatesi dalle vetture usurate.
Ne consegue che lo sversamento sul suolo di tali acque, operato senza autorizzazione, è certamente idoneo a integrare la fattispecie contestata, che ha natura di reato di pericolo, non assumendo pertanto rilievo dirimente la circostanza che i prelievi su alcuni degli scarichi siano risultati nella norma, dovendo in ogni caso essere assicurato il preventivo controllo della P.A.
Di qui la manifesta infondatezza delle censure difensive, formulate peraltro in termini assertivi e non adeguatamente specifici.

...
Scarico di reflui da insediamenti produttivi – Ritardi nel rilascio dell’autorizzazione – Diritto allo svolgimento dell’attività lavorativa – Elemento soggettivo del reato – Controlli della P.A. – Fattispecie.
In tema di tutela delle acque dall’inquinamento, non vale ad escludere la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, di cui all’art. 137, comma primo, del D.Lgs. n. 152 del 2006, a seguito dell’inerzia del Comune, nonostante le numerose sollecitazioni, al rilascio dell’autorizzazione, che di fatto possa compromettere il diritto allo svolgimento dell’attività lavorativa.
Stante la natura contravvenzionale, la sola presentazione dell’istanza, pur se seguita da eventuali sollecitazioni verbali rivolte all’ente preposto, non giustifica comunque l’inizio dell’attività di autolavaggio, fermo restando che nel caso specifico sono rimaste ignote sia le ragioni del mancato rilascio dell’autorizzazione, sia le iniziative formali (e non semplicemente verbali) assunte dall’imputato al fine di superare una così prolungata inerzia della Pubblica Amministrazione, essendo evidente che, in difetto di un espresso provvedimento autorizzatorio, l’attività di scarico dei reflui industriali non poteva essere ritenuta legittima
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.01.2020 n. 3450 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: "Non è prospettabile una valutazione separata degli interventi edilizi effettuati, allorché gli stessi facciano parte di un disegno sostanzialmente unitario volto a realizzare una determinata complessiva opera, risultante priva di titolo (...) Ne consegue che non è ammissibile una loro considerazione astratta ed atomistica, ma deve necessariamente predicarsene una valutazione unitaria sintetica e complessiva, in quanto divenute parti di un più ampio quadro di illecito sostanzialmente unitario dal quale attingono il medesimo regime giuridico di illegittimità".
In altri termini, "ai fini della ricognizione del regime giuridico e della categoria edilizia cui vanno ricondotti, gli abusi edilizi non possono formare oggetto di una considerazione atomistica, ma debbono essere apprezzati nel loro complesso onde stabilire se hanno determinato trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, incremento di carico urbanistico e se hanno o meno natura di pertinenza".
---------------

6. Preliminarmente deve considerarsi non condivisibile la prospettazione parcellizzata suggerita dal ricorrente a fini dell’esclusione del permesso di costruire ex art. 10 del d.P.R. 380/2001.
La annoverabilità di taluni interventi tra quelli oggetto di “liberalizzazione” rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 6, lett. e-ter), del d.P.R. 380/2001 (invero risulta annoverabile, in una visione analitica del progetto, la sola pavimentazione parziale del lotto, mentre la realizzazione dell’impianto interrato di depurazione e smaltimento delle acque derivanti dall’autolavaggio non è identificabile con quella di una mera “vasca di raccolta”, comportando una modifica urbanistica destinata a durare nel tempo) non è in linea con l’orientamento, ripetutamente espresso dalla giurisprudenza anche di questo Tribunale, secondo il quale "non è prospettabile una valutazione separata degli interventi edilizi effettuati, allorché gli stessi facciano parte di un disegno sostanzialmente unitario volto a realizzare una determinata complessiva opera, risultante priva di titolo (...) Ne consegue che non è ammissibile una loro considerazione astratta ed atomistica, ma deve necessariamente predicarsene una valutazione unitaria sintetica e complessiva, in quanto divenute parti di un più ampio quadro di illecito sostanzialmente unitario dal quale attingono il medesimo regime giuridico di illegittimità" (TAR Napoli, sez. III, 15.11.2018, n. 6632; cfr. anche Cons. Stato, sez. V, 12.10.2018, n. 5887).
In altri termini, "ai fini della ricognizione del regime giuridico e della categoria edilizia cui vanno ricondotti, gli abusi edilizi non possono formare oggetto di una considerazione atomistica, ma debbono essere apprezzati nel loro complesso onde stabilire se hanno determinato trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, incremento di carico urbanistico e se hanno o meno natura di pertinenza" (TAR Campania-Napoli, Sez. III, 29.05.2017, n. 2851; TAR Napoli, sez. III, 20.02.2018, n. 1093).
Nel caso specifico, il progetto prevedeva anche opere di scavo per la realizzazione interrata di impianti di depurazione e la realizzazione di piattaforme –non identificabili con la mera pavimentazione degli spazi esterni– funzionali al lavaggio e all’asciugatura dei veicoli. La valutazione complessiva del progetto esclude pertanto l’applicazione dell’art. 6 del d.P.R. 380/2001 invocata dal ricorrente (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 28.01.2020 n. 408 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAGli atti amministrativi, anche se di carattere generale come il piano urbanistico, vanno interpretati secondo le disposizioni ex art. 1362 e ss. c.c., applicabili analogicamente.
Con più particolare riguardo alle norme contenute nel piano urbanistico, costituisce ius receptum che:
   “a) in linea di principio, sono eccezionali e di stretta interpretazione i casi in cui il P.R.G. (o lo strumento urbanistico equivalente) consenta il rilascio del permesso di costruire diretto, senza previa approvazione dello strumento attuativo;
   b) pure in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona (…);
   c) l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata”.
---------------
L'esigenza di un piano urbanistico attuativo, quale presupposto per il rilascio del permesso di costruire, si impone anche per garantire un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, pure al più limitato fine di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate per le quali la relativa strumentazione urbanistica postuli la necessità di una pianificazione di dettaglio, anche laddove ricorra l'ipotesi di lotto intercluso o di altre situazioni analoghe di pregressa completa urbanizzazione.
In altri termini, il principio secondo cui può prescindersi nelle zone di espansione dalla previa presentazione di un piano particolareggiato o di lottizzazione qualora la zona sia completamente urbanizzata, recede nel caso in cui sussista una specifica previsione della strumentazione urbanistica che imponga l'assolvimento di tale onere prima di avviare l'attività edilizia.
---------------

7. La questione dirimente nella fattispecie in esame concerne piuttosto la qualificazione giuridica dell’intervento progettato alla stregua del piano urbanistico vigente nel Comune resistente, avendo il ricorrente invocato l’applicazione dell’art. 5 delle NTA sopra richiamato che, escludendo la necessaria adozione del piano attuativo, supererebbe uno dei due motivi ostativi contenuti nel diniego (sintetizzato supra al punto 2, lett. b).
Anche sotto questo profilo, l’opzione interpretativa suggerita dall’interessato non è condivisibile.
7.1. In merito, è opportuno rilevare che gli atti amministrativi, anche se di carattere generale come il piano urbanistico, vanno interpretati secondo le disposizioni ex art. 1362 e ss. c.c., applicabili analogicamente (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. III, 10.06.2016, n. 2497).
Con più particolare riguardo alle norme contenute nel piano urbanistico, costituisce ius receptum (cfr., ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, 08.02.2018, n. 825; sez. IV, 13.04. 2016, n. 1434; sez. IV, 04.07.2017, n. 3256; sez. IV, 17.07.2013, n. 3880; sez. IV, 21.08.2013, n. 4200; sez. V, 29.02.2012, n. 1177) che:
   “a) in linea di principio, sono eccezionali e di stretta interpretazione i casi in cui il P.R.G. (o lo strumento urbanistico equivalente) consenta il rilascio del permesso di costruire diretto, senza previa approvazione dello strumento attuativo;
   b) pure in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona (…);
   c) l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata
” (Cons. Stato, Sez. IV, 20.04.2018, n. 2397).
7.2. I principi interpretativi sopra riportati trovano piena applicazione nel caso di specie.
L’art. 5 citato da parte ricorrente prevede che in tutte le zone del territorio possono essere realizzate senza l’adozione del piano attuativo, tra l’altro, “le opere di interesse pubblico relative alla viabilità indicata nel PRG e le opere complementari relative ai trasporti e ai servizi connessi” (lett. b): già l’esegesi restrittiva di tale norma esclude che un’attività di autolavaggio possa rientrare tra le “opere complementari” a supporto del trasporto e dei servizi connessi, non essendo strettamente funzionale alla viabilità o complementare al trasporto (es. interventi volti al miglioramento della sicurezza stradale), né avendo una funzione pubblica, che invece accomuna tutte le opere espressamente elencate nell’art. 5.
Tale conclusione interpretativa è avvalorata anche dalla lettura sistematica delle norme urbanistiche contenute nel PRG del Comune resistente, poiché a fronte dell’art. 5 che esclude per le categorie di “opere” ivi elencate il piano attuativo, il successivo art. 13 prevede che nella zona G è consentita, tra l’altro, la realizzazione di “officine automobilistiche, stazioni di servizio o impianti commerciali in genere a servizio della rete stradale” (lett. b) nonché “depositi, autorimesse, parcheggi coperti e scoperti, scambiatori per traffici veicolari, ed in genere tutte le attività di supporto della rete stradale” (lett. c), precisando che l’attuazione del PRG è, in tal caso, affidata a piani particolareggiati di esecuzione o alle lottizzazioni convenzionate, nel rispetto di quanto previsto agli artt. 3 e 5 della presente normativa e che “nella redazione dei progetti urbanistici particolare cura sarà volta alla previsione delle sistemazioni e verde e alla realizzazione della zona turistica che conferisca dignità e decoro, al nodo di confluenza di tutta la rete cinematica del territorio. Al tale fine anche i rapporti tra le varie attività indicate ai commi a, b, e c, saranno determinati in sede di studio del piano particolareggiato che dovrà essere integrato da uno studio socio economico per le installazioni da prevedere”.
L’autolavaggio –per il cui esercizio, secondo la tabella a) allegata al D.Lgs. 25.11.2016, n. 222è ora prevista la SCIA condizionata (essendo necessaria anche la SCIA per prevenzione incendi e l’AUA per lo scarico delle acque)– è certamente assimilabile alle opere edilizie di cui all’art. 13, tra cui vengono espressamente citate le officine e le autorimesse, nelle quali comunque vengono svolti servizi accessori destinati agli utilizzatori di veicoli stradali e per le quali la norma, facendo riemergere il principio generale derogato dall’art. 5, prevede espressamente il piano attuativo.
7.3. Quanto al superamento dell’obbligo di attuazione del P.R.G. con un piano particolareggiato, dedotto, in via subordinata, da parte ricorrente, va ribadito, come più volte sottolineato anche da questa Sezione, che “l'esigenza di un piano urbanistico attuativo, quale presupposto per il rilascio del permesso di costruire, si impone anche per garantire un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, pure al più limitato fine di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate per le quali la relativa strumentazione urbanistica postuli la necessità di una pianificazione di dettaglio, anche laddove ricorra l'ipotesi di lotto intercluso o di altre situazioni analoghe di pregressa completa urbanizzazione; in altri termini, il principio secondo cui può prescindersi nelle zone di espansione dalla previa presentazione di un piano particolareggiato o di lottizzazione qualora la zona sia completamente urbanizzata, recede nel caso in cui sussista una specifica previsione della strumentazione urbanistica che imponga l'assolvimento di tale onere prima di avviare l'attività edilizia" (TAR, Napoli, Sez. II, 27.05.2019, n. 2833) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 28.01.2020 n. 408 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Nel caso in cui il provvedimento impugnato sia fondato su di una pluralità di autonomi motivi, il rigetto della doglianza volta a contestare una delle sue ragioni giustificatrici comporta la carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni giustificatrici atteso che, seppure tali ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente.
---------------

8. L’infondatezza della doglianza appena esaminata, concernente uno dei due motivi sottesi al diniego, è sufficiente a rigettare il ricorso, essendo stato impugnato un provvedimento plurimotivato ("nel caso in cui il provvedimento impugnato sia fondato su di una pluralità di autonomi motivi, il rigetto della doglianza volta a contestare una delle sue ragioni giustificatrici comporta la carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni giustificatrici atteso che, seppure tali ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente” TAR, Napoli, sez. VIII, 23.07.2014, n. 4116) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 28.01.2020 n. 408 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICAIl disegno urbanistico espresso da uno strumento di pianificazione generale, o da una sua variante costituisce estrinsecazione di potere pianificatorio connotato da ampia discrezionalità che rispecchia non soltanto scelte strettamente inerenti all'organizzazione edilizia del territorio, bensì afferenti anche al più vasto e comprensivo quadro delle possibili opzioni inerenti al suo sviluppo socio-economico.
Tali scelte non sono nemmeno condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente piano regolatore, di destinazioni d'uso edificatorie diverse e più favorevoli rispetto a quelle impresse con il nuovo strumento urbanistico o una sua variante, con il solo limite dell'esigenza di una specifica motivazione a sostegno della nuova destinazione quando quelle indicazioni avevano assunto una prima concretizzazione in uno strumento urbanistico esecutivo (piano di lottizzazione, piano particolareggiato, piano attuativo) approvato o convenzionato, o quantomeno adottato, e tale quindi da aver ingenerato un'aspettativa qualificata alla conservazione della precedente destinazione.
---------------
Di norma una variante specifica ovvero limitata ad un terreno determinato deve essere assistita da motivazione puntuale.
---------------
Nel caso di impugnativa di strumenti di pianificazione da parte di terzi, che censurino la disciplina urbanistica di aree contigue a quelle di loro proprietà, non basta la mera affermazione della “vicinitas” ma occorre, quanto meno, la prospettazione degli effetti pregiudizievoli che potrebbero derivare dalle scelte urbanistiche censurate, anche in termini di scadimento della "qualità della vita" di coloro che, per residenza, attività lavorativa e simili, si trovino in durevole rapporto con la zona oggetto delle previsioni impugnate.
Si deve, quindi, escludere che la mera situazione fattuale di residenza in un comune radichi in capo a ciascun residente una posizione di interesse legittimo che gli consenta l'impugnazione diretta di atti di pianificazione generale del territorio cittadino.
---------------

3.1. - Come ampiamente noto, le scelte pianificatorie sulla destinazione urbanistica costituiscono valutazioni ampiamente discrezionali che non necessitano di particolari motivazioni, fatte salve particolari situazioni di affidamento.
Il disegno urbanistico espresso da uno strumento di pianificazione generale, o da una sua variante costituisce estrinsecazione di potere pianificatorio connotato da ampia discrezionalità che rispecchia non soltanto scelte strettamente inerenti all'organizzazione edilizia del territorio, bensì afferenti anche al più vasto e comprensivo quadro delle possibili opzioni inerenti al suo sviluppo socio-economico; tali scelte non sono nemmeno condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente piano regolatore, di destinazioni d'uso edificatorie diverse e più favorevoli rispetto a quelle impresse con il nuovo strumento urbanistico o una sua variante, con il solo limite dell'esigenza di una specifica motivazione a sostegno della nuova destinazione quando quelle indicazioni avevano assunto una prima concretizzazione in uno strumento urbanistico esecutivo (piano di lottizzazione, piano particolareggiato, piano attuativo) approvato o convenzionato, o quantomeno adottato, e tale quindi da aver ingenerato un'aspettativa qualificata alla conservazione della precedente destinazione (ex multis Consiglio di Stato, sez. IV, 25.06.2019, n. 4343; id. 19.02.2019, n. 1151).
3.2. - Ciò premesso, se è vero come di norma una variante specifica ovvero limitata ad un terreno determinato debba essere assistita da motivazione puntuale (ex multis Consiglio di Stato, sez. IV, 21.12.2001, n. 6343) è altrettanto vero che gli odierni ricorrenti non sono titolari di alcuna aspettativa qualificata né invero lamentano effetti pregiudizievoli che potrebbero derivare dalle scelte urbanistiche censurate, anche soltanto in termini di scadimento della "qualità della vita”, dolendosi unicamente, in definitiva, del più favorevole indice di edificabilità attribuito alle aree confinanti.
3.3. - Nel caso di impugnativa di strumenti di pianificazione da parte di terzi, che censurino la disciplina urbanistica di aree contigue a quelle di loro proprietà, non basta la mera affermazione della “vicinitas” ma occorre, quanto meno, la prospettazione degli effetti pregiudizievoli che potrebbero derivare dalle scelte urbanistiche censurate, anche in termini di scadimento della "qualità della vita" di coloro che, per residenza, attività lavorativa e simili, si trovino in durevole rapporto con la zona oggetto delle previsioni impugnate. Si deve, quindi, escludere che la mera situazione fattuale di residenza in un comune radichi in capo a ciascun residente una posizione di interesse legittimo che gli consenta l'impugnazione diretta di atti di pianificazione generale del territorio cittadino (ex multis TAR, Piemonte, sez. I, 03.07.2007, n. 1043; TAR Veneto sez. II, 03.04.2013, n. 469; Consiglio di Stato, sez. IV, 13.11.2012, n. 5715; id. sez. IV, 17.09.2012, n. 4926).
La contestata destinazione consentita dalla variante operativa appare poi idonea alla realizzazione dell’interesse pubblico, non sussistendo alcuna incompatibilità tra l’introduzione di spazi ricettivi con valenza turistica ed il pregio ambientale della zona, non caratterizzata dalla presenza di vincoli di tipo assoluto e rientrando ciò nella discrezionalità del pianificatore, non indicando appunto i ricorrenti la concreta lesività di tale scelta, individuabile soltanto nella lesione di una aspettativa del tutto generica (TAR Umbria, sentenza 24.01.2020 n. 28 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire rilasciato ai sensi dell’art. 5 Legge n. 106/2011 – Esemplificazione della disciplina ordinaria – Limiti – Artt. 14, 25, 44 d.P.R. n. 380/2001.
La natura eccezionale del permesso di costruire, rilasciato ai sensi dell’art. 5, comma 9, e seguenti della legge 106/2011, in quanto deroga alla disciplina ordinaria ed alle previsioni degli strumenti urbanistici al fine di soddisfare esigenze straordinarie rispetto agli interessi primari garantiti dalla disciplina urbanistica generale, limita l’ambito di operatività esclusivamente entro i confini tassativamente previsti dal legislatore statale, richiamando l’inderogabilità degli standard urbanistici, la non attuabilità degli interventi di riqualificazione e aumenti di volumetria con riferimento ad edifici abusivi o situati nei centri storici o in area ad inedificabilità assoluta ed escludendo la possibilità del rilascio del titolo abilitativo secondo la procedura ordinaria.
...
Legge n. 106/2011 – Cambio di destinazione d’uso – Requisito della compatibilità o complementarietà tra la destinazione urbanistica originaria e quella da attuare – Rilascio di un permesso di costruire in deroga al vigente strumento urbanistico comunale – Presupposti e limiti – DM n. 1444/1968.
Il riferimento, dell’art. 5 legge n. 106/2011, all’esistenza di “funzioni eterogenee” o di “tessuti edilizi disorganici o incompiuti” o di “edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare”, non indica o individua presupposti autonomi per il rilascio di un permesso di costruire in deroga, ulteriori rispetto a quelli costituiti dalla “razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente” e dalla “riqualificazione di aree urbane degradate”, ma intende unicamente esemplificare gli specifici contesti urbani “degradati” in cui la norma trova applicazione, con la conseguenza che l’esistenza di “edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare” costituisce un presupposto sufficiente a consentire il rilascio di un permesso di costruire in deroga al vigente strumento urbanistico comunale solo quando detti edifici siano collocati in “aree urbane degradate”, poiché soltanto a tale condizione la legge consente al consiglio comunale di formulare le sue valutazioni circa la possibilità di assentire proposte di edificazione in deroga allo strumento urbanistico riconoscendo anche gli ulteriori benefici previsti, sempre che gli interventi consentano di perseguire l’interesse pubblico prioritario alla “razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente” e alla “riqualificazione di aree urbane degradate”.
Tale disposizione, quindi, pur imponendo di interpretare il contenuto dell’art. 5, commi 9 e 14 nel senso che prevale, tranne i casi di cui al comma 11, secondo periodo, su tutti gli strumenti urbanistici generali, particolareggiati o attuativi, va applicata considerando la natura di norma di favore eccezionale (essendo diretta a regolare in termini diversi un minor numero di ipotesi rispetto a quelle ordinarie) dell’art. 5 e tenendo conto del fatto che essa non è comunque suscettibile di applicazioni oltre gli scopi cui è preordinata, con la conseguenza che essa non può prevalere sulle regole che fissano standard o criteri inderogabili, tra cui il DM n. 1444/1968, imponendo altresì il rispetto delle altre discipline richiamate (ad es. leggi sanitarie, sismiche…)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.01.2020 n. 2695 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reato urbanistico – Natura di reato permanente – Momento della consumazione e cessazione della permanenza – Nozione di “ultimazione dell’opera” – Edificio concretamente funzionale – Art. 25 del T.U. Edilizia.
Il reato urbanistico ha natura di reato permanente, la cui consumazione ha inizio con l’avvio, dei lavori di costruzione e perdura fino alla cessazione dell’attività edificatoria abusiva. Precisando che la cessazione dell’attività si ha con l’ultimazione dei lavori per completamento dell’opera, con la sospensione dei lavori volontaria o imposta (ad esempio, mediante sequestro penale) o con la sentenza di primo grado, se i lavori continuano dopo l’accertamento del reato e sino alla data del giudizio.
Si è inoltre chiarito che l’ultimazione dell’opera coincide con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli infissi. Deve trattarsi, in altre parole, di un edificio concretamente funzionale, che possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità, come si ricava dal disposto del primo comma dell’art. 25 del T.U. dell’edilizia, che fissa “entro quindici giorni dall’ultimazione dei lavori di finitura dell’intervento” il termine per la presentazione, allo sportello unico, della domanda di rilascio del certificato di agibilità.
Le opere devono essere, inoltre, valutate nel loro complesso, non potendosi, in base al concetto unitario di costruzione, considerare separatamente i singoli componenti. Tali caratteristiche riguardano, inoltre, anche le parti che costituiscono annessi dell’abitazione
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.01.2020 n. 2695 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Carico urbanistico – Incidenza di un intervento edilizio – Aspetto strutturale e funzionale dell’opera – Sequestro preventivo preventivo di un immobile abusivo ultimato – Pericolo degli effetti pregiudizievoli del reato – Requisito della concretezza e adeguata motivazione.
L’incidenza di un intervento edilizio sul carico urbanistico dev’essere considerata con riferimento all’aspetto strutturale e funzionale dell’opera, ed è rilevabile anche nel caso di una concreta alterazione dell’originaria consistenza sostanziale di un manufatto in relazione alla volumetria, alla destinazione o all’effettiva utilizzazione, tale da determinare un mutamento dell’insieme delle esigenze urbanistiche valutate in sede di pianificazione, con particolare riferimento agli standard fissati dal d.m. 02.04.1968, n. 1444.
Il sequestro preventivo di un immobile abusivo ultimato è stato, inoltre, ritenuto possibile anche nel caso di utilizzo dell’opera in conformità alle destinazioni di zona, allorquando il manufatto presenti una consistenza volumetrica tale da determinare comunque un’incidenza negativa concretamente individuabile sul carico urbanistico, sotto il profilo dell’aumentata esigenza di infrastrutture e di opere collettive correlate.
A corredo di tali principi si è ripetutamente affermato che il pericolo degli effetti pregiudizievoli del reato, anche relativamente al carico urbanistico, deve presentare il requisito della concretezza, in ordine alla sussistenza del quale deve essere fornita dal giudice adeguata motivazione.
Una simile necessità risulta significativamente attenuata allorquando la misura cautelare riguarda la realizzazione di uno o più manufatti ex novo in area inedificata (ed in assenza, ovviamente, del necessario permesso di costruire) poiché in un simile contesto l’incidenza sul carico urbanistico può essere di immediata evidenza.

...
Nozione di carico urbanistico – Elemento c.d. primario – Elemento c.d. secondario o di servizio – Giurisprudenza.
La nozione di carico urbanistico “deriva dall’osservazione che ogni insediamento umano è costituito da un elemento c.d. primario (abitazioni, uffici, opifici, negozi) e da uno secondario di servizio (opere pubbliche in genere, uffici pubblici, parchi, strade, fognature, elettrificazione, servizio idrico, condutture di erogazione del gas) che deve essere proporzionato all’insediamento primario ossia al numero degli abitanti insediati ed alle caratteristiche dell’attività da costoro svolte.
Quindi, il carico urbanistico è l’effetto che viene prodotto dall’insediamento primario come domanda di strutture ed opere collettive, in dipendenza del numero delle persone insediate su di un determinato territorio”
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.01.2020 n. 2695 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: DANNO AMBIENTALE – Misure di prevenzione e di messa in sicurezza – Potenziale danno ambientale – Obblighi di comunicazione – Contenuto della comunicazione – Intervento sul luogo dell’inquinamento degli operatori di vigilanza preposti alla tutela ambientale – Reato di cui agli artt. 242, 245, 257, 304 d.lgs. n. 152/2006.
La mancata effettuazione della comunicazione, è configurabile soltanto nei confronti del responsabile dell’evento potenzialmente inquinante e non anche colui che, pur essendo proprietario del terreno interessato dall’evento, non lo abbia cagionato, ed è sanzionata dal combinato disposto dagli artt. 242 e 257 d.lgs. 152/2006.
Gli obblighi di comunicazione sorgono per il solo fatto che si sia verificata una situazione di potenziale pericolo, prescindendo, quindi, dall’eventuale superamento delle soglie di contaminazione. Tale comunicazione deve avere ad oggetto tutti gli aspetti pertinenti della situazione, ed in particolare le generalità dell’operatore, le caratteristiche del sito interessato, le matrici ambientali presumibilmente coinvolte e la descrizione degli interventi da eseguire”.
Il reato si configura, inoltre, anche nel caso in cui intervengano sul luogo dell’inquinamento gli operatori di vigilanza preposti alla tutela ambientale, in quanto tale circostanza non esime l’operatore interessato dall’obbligo di comunicare agli organi preposti le misure di prevenzione e messa in sicurezza che intende adottare, entro 24 ore ed a proprie spese, per impedire che il danno ambientale si verifichi.

...
RIFIUTI – Minaccia di danno ambientale da un sito inquinato – Rischi di aggravamento della situazione di contaminazione – Azione di prevenzione – Procedura di comunicazione – Obblighi di intervento – Notifica da parte dei soggetti non responsabili della potenziale contaminazione – Omissione – Effetti.
Ai sensi dell’art. 242, d.lgs. n. 152/2006, l’individuazione del destinatario del precetto in colui il quale cagiona l’inquinamento si ricava dal dato letterale dell’art. 257, comma 1, ove non vengono menzionati altri soggetti nonostante l’art. 242 preveda che la procedura di comunicazione debba trovare applicazione anche all’atto di individuazione di contaminazioni storiche che possano ancora comportare rischi di aggravamento della situazione di contaminazione, facendo anche rilevare come l’autonomia della posizione di colui il quale cagiona l’inquinamento rispetto a quella di colui il quale accerti la sussistenza di contaminazioni sul suolo è rimarcata dall’art. 245, che ha per oggetto gli obblighi di intervento e di notifica da parte dei soggetti non responsabili della potenziale contaminazione. Fattispecie: minaccia di danno ambientale da un sito inquinato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.01.2020 n. 2686 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Obbligo dichiarativo ex art. 80, comma 5, del D.Lgs. n. 50/2016.
Il TAR Milano, in ordine alla violazione dell’obbligo dichiarativo previsto dall’art. 80, comma 5, del D.Lgs. n. 50/2016, precisa che:
   «- l’obbligo dichiarativo sussiste in capo al concorrente in base al citato art. 80, comma 5, del d.l.vo 2016 n. 50 e riguarda indistintamente ogni vicenda pregressa concernente fatti risolutivi, errori o altre negligenze comunque rilevanti ai fini della formulazione del giudizio di affidabilità, in coerenza con i generali principi di lealtà e affidabilità contrattuale, posti a presidio dell’elemento fiduciario nei rapporti contrattuali facenti capo alla pubblica amministrazione;
   - consolidata giurisprudenza evidenzia che “... non essendo configurabile in capo all’impresa alcun filtro valutativo o facoltà di scegliere i fatti da dichiarare, sussistendo l’obbligo della onnicomprensività della dichiarazione, in modo da permettere alla Stazione appaltante di espletare, con piena cognizione di causa, le valutazioni di competenza...”;
   - la gravità dell’evento deve essere valutata dall’amministrazione e ciò presuppone che l’operatore economico dichiari tale evento e si rimetta alla valutazione della stazione appaltante, viceversa l’omissione di tale dichiarazione non consente all’amministrazione di effettuare la valutazione di affidabilità professionale dell’impresa;
   - ecco, allora, che, nelle procedure ad evidenza pubblica preordinate all'affidamento di un appalto pubblico, l'omessa dichiarazione da parte del concorrente di tutte le fattispecie comprese nell’art. 80, comma 5, e oggetto dell’obbligo dichiarativo, ne comporta senz'altro l'esclusione dalla gara, essendo impedito alla stazione appaltante di valutarne la gravità;
   - né sussiste la possibilità che l'omissione sia sanata attraverso il soccorso istruttorio, il quale non può essere utilizzato per sopperire a dichiarazioni radicalmente mancanti -pena la violazione della par condicio fra concorrenti- ma soltanto per chiarire o completare dichiarazioni o documenti già comunque acquisiti agli atti di gara»
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 22.01.2020 n. 124 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
Con più censure da trattare congiuntamente perché strettamente connesse sul piano logico e giuridico, la ricorrente lamenta, in termini di violazione di legge e di eccesso di potere, che l’amministrazione avrebbe violato sia la lettera di invito, che non prevederebbe l’esclusione per i motivi a lei riferiti, sia l’art. 80, comma 5, del d.lvo 2016, n. 50; inoltre, lamenta il mancato esercizio da parte della stazione appaltante del dovere di soccorso istruttorio.
Le censure non possono essere condivise.
In particolare, il Tribunale osserva che:
   - la lettera di invito in data 06/04/2018, predisposta dalla Stazione Appaltante e l’allegato alla medesima-Sezione I-busta documentazione amministrativa al punto 4 prevede, a pena di esclusione, la presentazione di una “autocertificazione (in carta semplice) relativa all’insussistenza dei motivi di esclusione e al possesso dei requisiti di partecipazione con la quale il legale rappresentante dichiara, a pena di esclusione: ... B) l’insussistenza dei motivi di esclusione previsti dall’art. 80 del D.Lgs. n. 50/2016; si precisa che il concorrente deve dichiarare, a pena di esclusione, di non trovarsi in alcuno dei motivi di esclusione previsti dall’art. 80, comma 1 lettere a), b), b-bis), c), d), e), f), g), comma 2, comma 4, comma 5, lettere a), b), c), d), e), f), f-bis), f-ter), g), h), i), l), m), del D.lgs. n. 50/2016;...”;
   - con l’autocertificazione resa in sede di gara, il legale rappresentante della ricorrente ha dichiarato di “non trovarsi in nessuna delle cause di esclusione previste dall’art. 80, comma 1, lettere a), b), b-bis), c), d), e), f), g), comma 2, comma 4, comma 5, lettere a), b), c), d), e), f), f-bis), f-ter), g), h), i), l), m), del D.Lgs n. 50/2016”;
   - nondimeno, all’esito dei controlli eseguiti dalla stazione appaltante, è emerso che Euroascensori Service S.r.l. ha omesso di dichiarare l’esistenza della risoluzione contrattuale, mai contestata in giudizio, disposta dalla Guardia di Finanza con decreto n. 78 del 22/07/2016, risultante dal Casellario A.N.A.C. con annotazione del 20/01/2017;
    - va ribadito che la indicata risoluzione non è stata dichiarata dalla ricorrente, né risultava rilevabile in altro modo dal contenuto della documentazione amministrativa allegata all’offerta;
   - contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, l’esclusione non è stata disposta ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. f-ter), del D.Lgs. 50/2016, ossia sulla base della mera sussistenza dell’annotazione A.N.A.C., ma sulla base delle diverse fattispecie di cui alle lett. c) ed f-bis) del medesimo comma 5;
   - né può essere condivisa la tesi per cui l’esclusione sarebbe in contrasto con la lettera di invito, in quanto la modulistica prevedeva “non già l’affermazione che il concorrente non è mai stato oggetto di risoluzione contrattuale, ma quella, diversa, “di non trovarsi in una delle cause di esclusione” previste dall’art. 80 del predetto D.lg.vo;
   - si tratta di un argomento meramente formalistico, che non vale ad escludere la legittimità dell’esclusione, disposta in coerenza con la già richiamata lettera di invito, che richiedeva di dichiarare la sussistenza delle specifiche fattispecie previste dall’art. 80, comma 5, lett. c) ed f-bis);
    - quanto alle ragioni dell’esclusione, va evidenziato che il provvedimento impugnato si basa su due concorrenti fattispecie, perché la stazione appaltante ha contestato, in primo luogo, la falsità della dichiarazione resa dalla ricorrente in corso di gara, in ragione dell’omessa dichiarazione dell’esistenza della risoluzione contrattuale disposta dalla Guardia di Finanza in relazione ad altro contratto e inoltre, perché ha ritenuto che la risoluzione contrattuale medesima fosse espressiva di un grave illecito professionale;
   - ne deriva che nessuna incertezza è configurabile in relazione alle ragioni dell’esclusione in contestazione;
   - sotto altro profilo, va evidenziato che si tratta di cause di esclusione autonome tra loro e quindi ambedue, di per sé, astrattamente in grado di sorreggere il provvedimento gravato, sicché una volta ritenuta legittima la prima ragione di esclusione, è evidente che la ricorrente non ha più alcun interesse a contestare la seconda;
   - la prima ragione di esclusione -che anche logicamente precede la seconda- consiste nella violazione dell’obbligo dichiarativo previsto dall’art. 80, comma 5, del D.Lgs. n. 50/2016, avendo la concorrente omesso di dichiarare l’esistenza della risoluzione contrattuale disposta dalla Guardia di Finanza con decreto n. 78 del 22/07/2016;
   - la ricorrente sostiene che si tratterebbe di una violazione solo formale, inidonea a supportare la disposta esclusione, anche in ragione della mancata attivazione del dovere di soccorso istruttorio da parte della stazione appaltante;
   - la tesi non può essere condivisa: l’obbligo dichiarativo sussiste in capo al concorrente in base al citato art. 80, comma 5, del d.l.vo 2016 n. 50 e riguarda indistintamente ogni vicenda pregressa concernente fatti risolutivi, errori o altre negligenze comunque rilevanti ai fini della formulazione del giudizio di affidabilità, in coerenza con i generali principi di lealtà e affidabilità contrattuale, posti a presidio dell’elemento fiduciario nei rapporti contrattuali facenti capo alla pubblica amministrazione;
   - consolidata giurisprudenza evidenzia che “... non essendo configurabile in capo all’impresa alcun filtro valutativo o facoltà di scegliere i fatti da dichiarare, sussistendo l’obbligo della onnicomprensività della dichiarazione, in modo da permettere alla Stazione appaltante di espletare, con piena cognizione di causa, le valutazioni di competenza...” (cfr. tra le tante, Consiglio di Stato, sez. III, 05.09.2017, n. 4192);
   - la gravità dell’evento deve essere valutata dall’amministrazione e ciò presuppone che l’operatore economico dichiari tale evento e si rimetta alla valutazione della stazione appaltante, viceversa l’omissione di tale dichiarazione non consente all’amministrazione di effettuare la valutazione di affidabilità professionale dell’impresa;
   - ecco, allora, che, nelle procedure ad evidenza pubblica preordinate all'affidamento di un appalto pubblico, l'omessa dichiarazione da parte del concorrente di tutte le fattispecie comprese nell’art. 80 comma 5 e oggetto dell’obbligo dichiarativo, ne comporta senz'altro l'esclusione dalla gara, essendo impedito alla stazione appaltante di valutarne la gravità (cfr. in argomento, fra le tante, Consiglio di Stato, sez. III, 29.05.2017, n. 2548, nonché Consiglio di Stato, sez. III, n. 4019/2016; Consiglio di Stato, sez. IV, n. 834/2016; Consiglio di Stato, sez. V, n. 4219/2016);
   - né sussiste la possibilità che l'omissione sia sanata attraverso il soccorso istruttorio, il quale non può essere utilizzato per sopperire a dichiarazioni radicalmente mancanti -pena la violazione della par condicio fra concorrenti- ma soltanto per chiarire o completare dichiarazioni o documenti già comunque acquisiti agli atti di gara (cfr. Consiglio di Stato, Ad. Pl. n. 9/2014; Consiglio di Stato, sez. V, n. 4219/2016; Consiglio di Stato, sez. n. 927/2015; più recentemente Consiglio di Stato, sez. III, n. 3628 del 13/06/2018);
   - nel caso di specie la ricorrente ha omesso di dichiarare la risoluzione contrattuale disposta dalla Guardia di Finanza in relazione ad altro appalto, in palese violazione del dovere dichiarativo che incombe su ciascun concorrente, ex art. 80, comma, 5 del d.lvo 2016 n. 50 ed anzi dichiarando l’assenza delle situazioni che, in base alla norma citata, devono essere portate a conoscenza della stazione appaltante;
   - ne deriva che il provvedimento impugnato ha legittimamente disposto l’esclusione della ricorrente per violazione dell’obbligo dichiarativo, in coerenza con le risultanze istruttorie e con il contenuto della lettera di invito;
   - per contro, la legittimità del motivo di esclusione ora esaminato, di per sé idoneo a supportare il provvedimento gravato, esclude l’esistenza di un interesse attuale della ricorrente a contestare le ulteriori ed autonome ragioni di esclusione individuate dal provvedimento impugnato.

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI – Responsabili dell’abbandono – Destinatari dell’ordinanza sindacale di rimozione – Obbligo di rimozione dei rifiuti – Obbligati in solido – Responsabilità penale per la mancata ottemperanza – Artt. 192, 255, 256 TUA.
In tema di rifiuti, l’obbligo di rimozione cui si riferisce l’illecito contravvenzionale di cui all’art. 255, comma 3, TUA, sorge sia in capo al responsabile dell’abbandono, quale conseguenza della sua condotta, sia nei confronti degli obbligati in solido, quando sia dimostrata la sussistenza del dolo o della colpa, sia, nei confronti dei destinatari dell’ordinanza sindacale di rimozione che sono obbligati in quanto tali e che, in caso di inottemperanza, ne subiscono, per ciò solo, le conseguenze se non hanno provveduto ad impugnare il provvedimento per ottenerne l’annullamento o non hanno fornito al giudice penale elementi significativi per l’eventuale disapplicazione.
Dunque, la responsabilità penale per la mancata ottemperanza all’ordinanza sindacale di rimozione dei rifiuti di cui risultava destinatario l’attuale ricorrente risultava del tutto sganciata dalla natura, penale o amministrativa, della condotta contestata al capo 1), ben potendo identificarsi il responsabile anche nel privato cittadino (oltre che colui che esercita professionalmente un’attività di gestione di rifiuti) che resti inottemperante all’ordinanza di rimozione dei rifiuti. Colui il quale sia raggiunto dall’ordinanza deve quindi agire perché il provvedimento venga meno, in via amministrativa o giurisdizionale, altrimenti configurandosi l’illecito de quo ove non ottemperi all’ordine nel medesimo espresso
(Cass., Sez. III, 07.05.2019, n. 31291)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.01.2020 n. 2199 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990, la pubblica Amministrazione ha in generale il dovere di concludere il procedimento conseguente in modo obbligatorio ad un’istanza di parte mediante l’adozione di un provvedimento espresso.
Inoltre, come è noto, l’obbligo di provvedere può discendere non solo da puntuali previsioni legislative o regolamentari ma anche dalla peculiarità della fattispecie, nella quale ragioni di giustizia o equità impongano l’adozione di provvedimenti espliciti, alla stregua del generale dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, ai sensi dell’art. 97 Cost., con conseguente sorgere in capo al privato di una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni amministrative, quali che esse siano.
Tuttavia, per costante giurisprudenza, tale obbligo va escluso nei casi in cui la stessa Amministrazione si sia già pronunciata in ordine all’istanza avanzata dal privato con un provvedimento espresso e difettino profili fattuali o normativi sopravvenuti in grado di ingenerare un rinnovato obbligo di rideterminarsi sulla medesima questione.

---------------

Ritenuto:
   - che, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990, la pubblica Amministrazione ha in generale il dovere di concludere il procedimento conseguente in modo obbligatorio ad un’istanza di parte mediante l’adozione di un provvedimento espresso;
   - che, inoltre, come è noto, l’obbligo di provvedere può discendere non solo da puntuali previsioni legislative o regolamentari ma anche dalla peculiarità della fattispecie, nella quale ragioni di giustizia o equità impongano l’adozione di provvedimenti espliciti, alla stregua del generale dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, ai sensi dell’art. 97 Cost., con conseguente sorgere in capo al privato di una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni amministrative, quali che esse siano (v., tra le altre, TAR Lazio, Sez. I, 11.05.2018 n. 5233);
   - che, tuttavia, per costante giurisprudenza (v. TAR Campania, Napoli, Sez. I, 04.01.2018 n. 75; TAR Lazio, Sez. II, 13.10.2017 n. 10343), tale obbligo va escluso nei casi in cui la stessa Amministrazione si sia già pronunciata in ordine all’istanza avanzata dal privato con un provvedimento espresso e difettino profili fattuali o normativi sopravvenuti in grado di ingenerare un rinnovato obbligo di rideterminarsi sulla medesima questione;
   - che appare allora condivisibile l’obiezione dell’Amministrazione resistente, secondo cui si oppone alla richiesta della società ricorrente la circostanza che, in esito ad un’istanza di rilascio di permesso di costruire per demolizione e ricostruzione dell’edificio, il Comune di Annone di Brianza si fosse in precedenza pronunciato negativamente sul presupposto del carattere abusivo del manufatto e quindi avesse già effettuato accertamenti che ora indebitamente si chiederebbe di ripetere;
   - che, in effetti, l’istruttoria disposta dalla Sezione, alla luce della produzione anche documentale dell’Amministrazione, conferma che la questione sottoposta dalla società ricorrente all’ente locale, pur nell’àmbito di un iter diverso, si risolverebbe comunque nel mero riesame di aspetti in precedenza vagliati nel procedimento avviato con l’istanza di rilascio di permesso di costruire, in assenza di effettivi profili di novità, e quindi con un’ingiustificata pretesa alla rideterminazione del Comune di Annone di Brianza circa pratica edilizia da tempo evasa;
Considerato, in conclusione, che il ricorso va respinto (TAR Lombardiua-Milano, Sez. II, sentenza 23.01.2020 n. 143 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAa) il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici;
   b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all’inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale;
   c) il vincolo, d'indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica, nel senso che esso si impone di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti;
   d) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto comma;
   e) l'art. 338, quinto comma, non presidia interessi privati e non può legittimare interventi edilizi futuri su un'area indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura;
   f) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all'interno della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui al settimo comma dell'art. 338 (recupero o cambio di destinazione d'uso di edificazioni preesistenti); mentre resta attivabile nel solo interesse pubblico -come valutato dal legislatore nell'elencazione, al quinto comma, delle opere ammissibili ai fini della riduzione- la procedura di riduzione della fascia inedificabile.
In conclusione, l'art. 338, comma 5, TULS, è dunque da intendersi come norma eccezionale e di stretta interpretazione, che consente di costruire in zona di rispetto cimiteriale unicamente con riguardo a specifiche domande edificatorie e non può essere base legale di un'autorizzazione a costruire de futuro, da rinvenirsi implicitamente in un precedente assenso riferito ad altre distinte opere.
---------------

6.- Col quarto motivo di ricorso il ricorrente si duole della violazione dell’art. 338 R.D. n. 1265/1934 (Testo unico delle leggi sanitarie, TULS) e successive modificazioni nonché dell’eccesso di potere per inesistenza dei presupposti di fatto e di diritto.
6.1.- Il ricorrente rileva che –circa la determinazione della fascia inderogabile di rispetto cimiteriale- l’amministrazione comunale non ha tenuto conto dell’evoluzione del quadro normativo e regolamentare (L. n. 983/1957; art. 57 d.p.r. 285/1990) nonché del trasferimento alle Regioni delle funzioni amministrative nelle materie dell’urbanistica e delle opere igieniche di interesse locale (D.p.r. 8/1972, d.p.r. 616/1977; legge regionale Campania n. 54/1980 e 65/1981) attualmente vigente.
Più in particolare, la Regione Campania, con la legge regionale n. 14 del 1982 stabilisce gli indirizzi programmatici e le direttive fondamentali per le aree ricadenti nella fascia di rispetto cimiteriale, prevedendo un divieto inderogabile di edificazione solo all’interno della fascia di metri 100 dal perimetro dei cimiteri.
Da ultimo, la legge n. 166 del 2002 avrebbe innovato profondamente la disciplina generale contenuta nel menzionato art. 338 TULS che, se da un lato, conferma la distanza di almeno 200 metri dal centro abitato (comma 1), per la costruzione di nuovi cimiteri e per il loro ampliamento ammette tuttavia una sua riduzione da parte del Consiglio comunale, purché non oltre il limite di 50 metri, con superamento dunque del limite di 100 metri per i comuni con numero di abitanti superiore a 20.000.
6.2.- Il motivo, per quanto suggestivo, è infondato.
6.2.1.- E’ utile, al riguardo, ricondursi proprio all’invocato art. 388 TULS il cui primo comma dispone che:
"I cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. È vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge".
Aggiunge il quinto comma, nel testo da ultimo sostituito dall'art. 28, co. 1, lett. b), della legge n. 166/2002: “Per dare esecuzione ad un'opera pubblica o all'attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando l'ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici. La riduzione di cui al periodo precedente si applica con identica procedura anche per la realizzazione di parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati, attrezzature sportive, locali tecnici e serre”.
6.2.2.- Sul punto la giurisprudenza ha evidenziato che:
   a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici (da ultimo Cass. civ., sez. I, 20.12.2016, n. 26326);
   b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all’inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale (Cons. Stato, sez. IV, 13.12.2017, n. 5873 che conferma TAR Napoli, sez. III, n. 5036 del 2013; Cons. Stato, sez. VI, 09.03.2016, n. 949);
   c) il vincolo, d'indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica, nel senso che esso si impone di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti (Cons. Stato, sez. IV, 22.11.2013, n. 5544; Cass. civ., sez. I, 17.10.2011, n. 2011; Id., sez. I, n. 26326 del 2016, cit.);
   d) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto comma;
   e) l'art. 338, quinto comma, non presidia interessi privati e non può legittimare interventi edilizi futuri su un'area indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura;
   f) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all'interno della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui al settimo comma dell'art. 338 (recupero o cambio di destinazione d'uso di edificazioni preesistenti); mentre resta attivabile nel solo interesse pubblico -come valutato dal legislatore nell'elencazione, al quinto comma, delle opere ammissibili ai fini della riduzione- la procedura di riduzione della fascia inedificabile (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. VI, 04.07.2014, n. 3410; sez. VI, 27.07.2015, n. 3667; ivi riferimenti ulteriori).
6.2.3.- In conclusione, l'art. 338, comma 5, TULS, richiamato dal ricorrente, è dunque da intendersi come norma eccezionale e di stretta interpretazione, che consente di costruire in zona di rispetto cimiteriale unicamente con riguardo a specifiche domande edificatorie e non può essere base legale di un'autorizzazione a costruire de futuro, da rinvenirsi implicitamente in un precedente assenso riferito ad altre distinte opere (cfr. Cons. Stato. Sez. IV, 06.10.2017, n. 4656).
6.2.4.- Nella fattispecie in esame, l’art. 34 delle norme di attuazione del P.R.G. del Comune di Pompei prevede che, all’interno dell’area agricola di rispetto cimiteriale sono consentite “soltanto piccole costruzioni, per la vendita di fiori ed oggetti per il culto e l’onoranza dei defunti, con il limite di metri cubi 80. La concessione o l’autorizzazione alle piccole costruzioni di cui sopra saranno a titolo precario”.
E’ quindi, per definizione, da escludere l’opera realizzata dal ricorrente, riguardante una “costruzione unifamiliare composta da: saloncino con angolo cottura, camera, bagno, disimpegno e locale per attrezzi agricoli”, oggetto della domanda di condono…>> (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 15.01.2020 n. 176 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICAPer giurisprudenza del tutto pacifica, la convenzione di lottizzazione -quale strumento di attuazione del piano regolatore generale- è un accordo sostitutivo di provvedimento ai sensi e per gli effetti dell’art. 11 L. 241/1990 in quanto espressione dell'esercizio consensuale di un potere pianificatorio, che sfocia in un progetto ed in una serie di disposizioni urbanistiche generanti obblighi od oneri.
Le controversie in tema di esecuzione della convenzione sono dunque riconducibili all' art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, c.p.a. , che attribuisce al g.a. la giurisdizione esclusiva sulle controversie riguardanti l'adempimento degli obblighi contenuti nelle convenzioni urbanistiche, ricomprese tra le vertenze in tema di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi sostitutivi di provvedimento amministrativo.
Anche l’adito Tribunale ha più volte sottolineato l’ampiezza della giurisdizione esclusiva oggi prevista dall’art. 133, c. 1, lett. a), n. 2, c.p.a. comprensiva delle controversie in tema di formazione ed esecuzione degli accordi, senza dunque esclusione delle pretese squisitamente patrimoniali derivanti dai predetti accordi, in considerazione della relativa natura pubblicistica, quale forma mediata e consensuale dell’esercizio di un potere autoritativo.
---------------
Fuoriesce dall’ambito della pur ampia fattispecie di giurisdizione esclusiva in tema di accordi sostitutivi del provvedimento (art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, c.p.a.) l’azione di restituzione a titolo di indebito oggettivo promossa dai lottizzanti derivante dall’esecuzione di opere estranee alla convenzione di lottizzazione né riconducibili ad essa.
Sicché, va dichiarato il difetto di giurisdizione in favore del g.o..

---------------

2.- E’ materia del contendere l’azione di accertamento del diritto dei ricorrenti al rimborso da parte del Comune di Perugia del costo di realizzazione di asserite opere di urbanizzazione non previste nella convenzione di lottizzazione sottoscritta il 10.08.2002, regolante l’edificazione di alcuni terreni di proprietà dei ricorrenti in località “Canneto”.
Secondo i ricorrenti, in seguito all’approvazione del nuovo piano regolatore generale che ha classificato il sito in parola come “Area instabile ad alto rischio geologico - zoning 8”, essi avrebbero costruito un muro di sostegno della strada di lottizzazione su richiesta informale del Comune di Perugia e al di fuori degli obblighi convenzionali, in sostituzione della scarpata ab origine prevista, sostenendo così una spesa aggiuntiva di € 84.643,52 rispetto all’importo complessivo di € 127.674,68 (£ 247.212.647) convenuto nel su indicato atto negoziale; di detto preteso indebito si invoca la rifusione.
3. - Va anzitutto esaminata l’eccepita questione di giurisdizione.
4. - Per giurisprudenza del tutto pacifica la convenzione di lottizzazione -quale strumento di attuazione del piano regolatore generale- è un accordo sostitutivo di provvedimento ai sensi e per gli effetti dell’art. 11 L. 241/1990 (ex multis Cassazione Sezioni Unite 01.07.2009, n. 15288, id. 30.03.2009, n. 7573, id. 20.11.2007, n. 24009, 25.05.2007, n. 12186, Consiglio di Stato sez. IV, 23.08.2010, n. 5904; TAR, Calabria Catanzaro, sez. II, 13.04.2018, n. 869) in quanto espressione dell'esercizio consensuale di un potere pianificatorio, che sfocia in un progetto ed in una serie di disposizioni urbanistiche generanti obblighi od oneri.
Le controversie in tema di esecuzione della convenzione sono dunque riconducibili all' art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, c.p.a. , che attribuisce al g.a. la giurisdizione esclusiva sulle controversie riguardanti l'adempimento degli obblighi contenuti nelle convenzioni urbanistiche, ricomprese tra le vertenze in tema di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi sostitutivi di provvedimento amministrativo (ex multis TAR, Calabria Catanzaro, sez. II, 12.04.2019, n. 789; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 29.09.2017, n. 4561).
Anche l’adito Tribunale ha più volte sottolineato l’ampiezza della giurisdizione esclusiva oggi prevista dall’art. 133, c. 1, lett. a), n. 2, c.p.a. comprensiva delle controversie in tema di formazione ed esecuzione degli accordi, senza dunque esclusione delle pretese squisitamente patrimoniali derivanti dai predetti accordi, in considerazione della relativa natura pubblicistica, quale forma mediata e consensuale dell’esercizio di un potere autoritativo (ex multis TAR Umbria 23.03.2016, n. 261).
5. - Ciò premesso, nel caso di specie l’opera realizzata dai ricorrenti lottizzanti non è prevista nella convenzione di lottizzazione, come peraltro pacifico “per tabulas” e riconosciuto dagli stessi ricorrenti, ragion per cui ai fini della giurisdizione va verificato se detta opera sia comunque riconducibile alla convenzione in particolare quale variante rispetto alle opere descritte nell’allegato A alla convenzione o comunque quale opera autorizzata dall’Amministrazione. In tal caso, infatti, può condividersi l’assunto della difesa di parte ricorrente secondo cui la controversia atterrebbe pur sempre a questione di esecuzione (o al limite di interpretazione) dell’accordo sostitutivo di provvedimento e dunque rimanere attratta nell’ambito della giurisdizione esclusiva del g.a. prevista in “subiecta materia” (TAR Campania-Napoli, sez. VIII, 16.12.2016, n. 5808).
Non ritiene il Collegio che l’opera per così dire “sostitutiva” realizzata dai ricorrenti possa dirsi realizzata in preteso adempimento di quest’ultima, non emergendo dalla documentazione depositata in giudizio sufficienti elementi. In particolare non risulta che il muro in questione sia stato in alcun modo autorizzato dal Comune di Perugia né che esso possa invero qualificarsi quale opera di urbanizzazione primaria.
Infatti, il muro realizzato dai ricorrenti non presenta nemmeno dal punto di vista oggettivo natura di opera di urbanizzazione primaria, nel senso precisato dall’art. 4 L. 847/1964, trattandosi di muro di sostegno posto all’interno del lotto n. 6. A diverse conclusioni non può giungersi attribuendo al collaudo effettuato nel 2009 l’effetto giuridico del riconoscimento dell’ opera quale di urbanizzazione, limitandosi con tale atto il collaudatore a dare atto dell’esistenza del muro e della realizzazione in variante rispetto al progetto approvato, impregiudicata ogni questione sulle opere realizzate e sull’autorizzazione alle varianti progettuali (vedi doc. n. 8 pag. 8 depositato in giudizio).
Il collaudo è infatti atto unilaterale consistente nell’accertamento tecnico sulla rispondenza dell’opera al dovuto, ma non dell’idoneità al servizio o alla funzione pubblica cui l’opera è destinata e senza alcun valore di approvazione di variante progettuale. Sul punto può richiamarsi -seppur in riferimento al contratto di appalto pubblico- il principio giurisprudenziale secondo cui le varianti progettuali non autorizzate dall’Amministrazione non consentono all’appaltatore nemmeno l’azione generale e sussidiaria di arricchimento senza giusta causa, a meno che esse siano state qualificate come indispensabili (e non semplicemente utili) in sede di collaudo e siano stati riconosciuti come tali anche dall'amministrazione committente (ex multis Cassazione civile, sez. I, 03.03.2006, n. 4725).
Sarebbe dunque stato onere dei ricorrenti richiedere all’Amministrazione l’assenso alla variante progettuale tesa alla sostituzione dell’opera di urbanizzazione ivi prevista (la scarpata) con il predetto muro di sostegno, risultando del tutto indimostrata dai ricorrenti l’imposizione del realizzato muro da parte del Comune, dovendo la volontà negoziale di un ente pubblico estrinsecarsi in atti formali per ovvie esigenze di imparzialità e buon andamento (ex multis Cassazione sez. I, 24.01.2007, n. 1606; id. sez. III, 24.06.2002, n. 9165).
Appare pertanto decisiva la non riconducibilità dell’opera in questione alla richiamata convenzione lottizzatoria, sì da escludersi la riconducibilità alla fattispecie di giurisdizione esclusiva di cui all’art. 133, c. 1, lett. a), n. 2 c.p.a.
5.1. - Fuori dal contesto di una convenzione regolarmente stipulata, la realizzazione di opere da parte del privato lottizzante non previste né autorizzate può essere al più considerata "sine titulo" (valutabile cioè sotto il profilo dell'ingiustificato arricchimento) alla stregua di azione di indebito oggettivo rientrante nella generale cognizione del g.o..
5.2. - Fuoriesce dunque dall’ambito della pur ampia fattispecie di giurisdizione esclusiva in tema di accordi sostitutivi del provvedimento (art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, c.p.a.) l’azione di restituzione a titolo di indebito oggettivo promossa dai lottizzanti derivante dall’esecuzione di opere estranee alla convenzione di lottizzazione né riconducibili ad essa.
6. - Alla luce delle suesposte considerazioni va dichiarato il difetto di giurisdizione in favore del g.o..
Quanto alla conseguente “traslatio iudicii”, occorre salvaguardare il principio della salvezza degli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda proposta al giudice privo di giurisdizione nel processo davanti al giudice che ne risulta munito, secondo le disposizioni di cui all’art. 11 c. p. a.
Sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di lite, in considerazione della complessità delle questioni esaminate.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per l'Umbria (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, dichiara il proprio difetto di giurisdizione in favore del g.o., innanzi alla quale la causa potrà essere riassunta nei termini di legge (TAR Umbria, sentenza 15.01.2020 n. 27 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

PUBBLICO IMPIEGOFerie annuali senza imposizioni. Il datore non può obbligare il lavoratore alla fruizione. A stabilirlo è il Tar Valle d’Aosta: l’onere si ferma alla verifica delle condizioni concrete.
Il datore di lavoro non può imporre al lavoratore di fruire delle ferie annuali. Quest'ultimo, infatti, ha l'onere unicamente di assicurarsi concretamente che il lavoratore sia effettivamente in condizione di godere delle ferie annuali retribuite. A tal fine è compito dell'azienda invitarlo, se necessario formalmente, a godere del periodo di riposo e nel contempo informarlo, in modo accurato e in tempo utile, del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riposo autorizzato. Pertanto, il compito del datore di lavoro non si estende anche fino al punto di costringere quest'ultimo a imporre ai suoi lavoratori di esercitare effettivamente la fruizione delle ferie annuali retribuite.
A stabilirlo è il TAR Valle d'Aosta con la sentenza 14.01.2020 n. 1.
Il caso. La vicenda riguarda una lavoratrice (Ispettore superiore del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria), la quale aveva maturato e non fruito, tra il 2015 e il 2019, un periodo di congedo ordinario, pari a un totale di 173 giorni, la presenza di giornate di riposo non fruite e infine una serie di festività soppresse.
Alla luce di tale situazione, la polizia penitenziaria aveva disposto nei confronti della lavoratrice un ordine di servizio che prevedeva, da una parte, la perdita del diritto alla fruizione del congedo ordinario degli anni 2015 e 2016 e, dall'altra, la fruizione d'ufficio, in via eccezionale, del congedo maturato e non goduto di 39 giorni riferito all'anno 2017.
La dipendente, però, aveva chiesto la possibilità di fruire di tutto il congedo pregresso degli anni 2015, 2016 e 2017 con decorrenza immediata. Richiesta, questa, che non era stata accolta.
Innanzitutto la lavoratrice sosteneva che fossero violati gli artt. 97 e 36 della Costituzione, che oltre a sancire il principio di legalità imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, riconoscono il diritto irrinunciabile del lavoratore a un periodo di riposo annuale di ferie retribuite.
Ma non solo, la ricorrente evidenziava anche la violazione dell'art. 17, lett. d) ed e) del dlgs 165/2001. Tale disposizione legislativa, attribuendo al dirigente la gestione del personale e la direzione, il coordinamento e il controllo dell'attività degli uffici che da egli dipendono, gli impongono, sotto la loro esclusiva responsabilità, di garantire comunque il rispetto dei diritti soggettivi del personale e delle ferie nel caso specifico, anche con poteri sostitutivi nel caso di inerzia del dipendente.
Altro aspetto contestato dalla lavoratrice riguardava il provvedimento amministrativo con il quale era stata sancita la perdita del diritto alle ferie.
Infatti, ai sensi dell'art. 21-bis della legge 90/241, tale atto acquista efficacia nei confronti del destinatario con la comunicazione allo stesso effettuata. Nella vicenda in questione la direzione aveva proceduto solo nel 2019 alla comunicazione di un provvedimento, con effetto retroattivo, che doveva essere notificato almeno nel 2016 e 2017 al fine di consentirne alla ricorrente l'esatta esecuzione e la possibilità di fare le proprie valutazioni e deduzioni.
Ferie annuali. Le ferie annuali, oltre all'art. 2109 del cod. civ., poggiano la loro disciplina principale nell'art. 10 del dlgs 66/2003, il quale afferma che il prestatore di lavoro ha diritto a un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane. Si tratta, nello specifico, di un periodo che non può essere sostituito dalla relativa indennità per ferie non godute, salvo il caso di risoluzione del rapporto di lavoro.
Al riguardo, il legislatore ha specificato più volte che le ferie devono essere assegnate dal datore di lavoro tenendo conto delle esigenze di impresa. Per cui un eventuale spostamento per ragioni di servizio adeguatamente motivate può essere disposto solo dallo stesso con l'onere di curarsi che queste siano godute dal lavoratore eventualmente anche in periodi successivi.
Nel caso di specie, il direttore non solo non aveva motivato le ragioni della mancata concessione delle ferie ma non aveva messo la lavoratrice nelle condizioni di poter godere delle ferie stesse.
La sentenza. Il collegio ha respinto i motivi di ricorso della lavoratrice, ritenendo il comportamento del datore di lavoro legittimo. Sul punto, i giudici amministrativi hanno sottolineato l'onere in capo al datore di lavoro di assicurarsi concretamente e con trasparenza che il lavoratore sia effettivamente in condizione di godere delle ferie annuali retribuite invitandolo, se necessario formalmente, a farlo e nel contempo informandolo, in modo accurato e in tempo utile, del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato. Tuttavia, hanno evidenziato i giudici, il rispetto di tale onere derivante dall'art. 7 della direttiva 2003/88 non può estendersi fino al punto di costringere quest'ultimo a imporre ai suoi lavoratori di esercitare effettivamente la fruizione delle ferie annuali retribuite.
Egli, infatti, deve limitarsi soltanto a consentire ai lavoratori di godere delle stesse dando altresì prova di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinché essi potessero effettivamente esercitare tale diritto.
Ciò posto, nel caso di specie, la lavoratrice era stata invitata a programmare nel più breve tempo possibile la fruizione dei periodi di congedo ordinario degli anni 2018 e 2019.
Tale invito, però, non era stato accettato dalla ricorrente che aveva avanzato la pretesa di fruire anche del periodo di congedo maturato per gli anni 2015, 2016 e 2017.
Tale richiesta, secondo i giudici, si è rivelata del tutto priva di fondamento in quanto non risulta essere stata presentata da parte dell'interessata al direttore di istituto, nei termini di legge, alcuna istanza di congedo ordinario né documentazione comprovante anche l'impossibilità oggettiva di godere dei predetti benefici.
Pertanto non è possibile giustificarne la mancata fruizione, né per motivate esigenze di servizio, né tanto meno per obiettive esigenze personali
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.01.2020).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATARifiuti, responsabilità a catena. Il committente deve verificare la gestione dei residui. La Cassazione sottolinea che l’appaltante può rispondere degli eco-reati dell’appaltatore.
Il committente di opere dalla cui realizzazione derivi anche la produzione di rifiuti ha l'onere, a monte, di affidarne la relativa gestione a soggetti di cui ha verificato competenza e titoli autorizzativi, e a valle, ove mantenga il controllo sui lavori in corso, quello di verificare che le attività degli appaltatori siano condotte nel rispetto delle sottese norme ambientali applicabili.
Diversamente all'appaltante potrà essere contestato, a titolo di omessa vigilanza sulla corretta attività altrui, l'eventuale gestione illecita dei rifiuti materialmente posta in essere dagli esecutori dei lavori.

I principi di diritto che disegnano la delicata posizione in cui può trovarsi chi affida a terzi lavori, come quelle edili, che necessariamente comportano la generazione dei residui arrivano dalla Suprema Corte di Cassazione, Sez. III penale, la quale si è da ultimo pronunciata in materia con la sentenza 13.01.2020 n. 847.
Il caso. La concreta fattispecie che ha stimolato la pronuncia del giudice di legittimità coincide con l'accertamento da parte delle forze dell'ordine dell'attività, posta in essere all'interno di un cantiere edile, di spianamento di rifiuti inerti, con conseguente riempimento di una ampia depressione del suolo.
Tale attività veniva posta in essere con l'ausilio di un mezzo meccanico da parte del personale di impresa incaricata direttamente dal proprietario dell'area di eseguire lavori edificatori. All'esito dell'accertamento dei fatti il giudice di prime cure contestava (anche) al proprietario del fondo committente dei lavori il reato di realizzazione di discarica abusiva.
Il contesto normativo. Con la sentenza in parola la Corte di cassazione ha effettuato una puntuale e ampia ricognizione delle norme applicabili, richiamando due nodali astratte fattispecie previste dal dlgs 152/2006: il reato di discarica di rifiuti non autorizzata (ex articolo 256) e la nozione di produttore giuridico di rifiuti (ex articolo 183, Codice ambientale).
In relazione, in particolare, alla fattispecie di reato ex articolo 256, comma 3, del dlgs 152/2006, la Corte ha ricordato come, dal punto di vista oggettivo, l'elemento qualificante sia l'accumulo considerevole e ripetuto di rifiuti in una determinata area al fine di costituirne un deposito definitivo. In relazione alla nozione di produttore dei rifiuti, invece, la disposizione che viene in causa è il comma 1, lettera f) dell'articolo 183, secondo la quale è produttore di rifiuti «il soggetto la cui attività produce rifiuti e il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione (…)».
In base al tenore della disposizione (come riformulata a opera della legge 125/2015) è quindi produttore di rifiuti non solo il soggetto che materialmente li genera, ma anche il soggetto nel cui interesse tale attività di generazione è operativamente (da altri) posta in essere. Tale soggetto, battezzato dalla dottrina come «produttore giuridico» di rifiuti assume ex lege la posizione di garante della loro corretta gestione da parte del «produttore materiale», posizione in forza della quale il primo ha l'onere di assicurare con la propria vigilanza che questa avvenga da parte del secondo in modo lecito.
Qualora, infatti, a causa dell'omesso e rimproverabile (poiché colposo) controllo del produttore giuridico venga posta in esse una illecita gestione di rifiuti da parte di quello materiale, il primo potrà esserne chiamato a rispondere ex articolo 40 del codice penale, che prevede che: «Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo».
I principi di diritto della Cassazione. La pronuncia 847/2020 della Corte di cassazione illustra ad ampio raggio le diverse posizioni giuridiche nelle quali il committente di opere può trovarsi nei confronti della gestione illecita di rifiuti materialmente posta in essere dall'appaltatore, suggerendo i confini della sua posizione di garanzia. Una prima ipotesi è quella in cui il committente dei lavori (nonché, come nella fattispecie in esame, proprietario del sito) non mette a disposizione dell'appaltatore alcuna area per il deposito dei rifiuti da questi materialmente prodotti, i quali vengono depositati in un luogo terzo, e non effettua altresì alcuna ingerenza sulla loro gestione.
In tale ipotesi, sottolinea la Suprema corte, il committente dell'opera lasciando autonomia organizzativa e gestionale all'appaltatore, non assume nessuna posizione di garanzia e conseguente responsabilità ex articolo 40 del codice penale.
Una seconda ipotesi è quella in cui il committente/proprietario del sito mette a disposizione dell'appaltatore un'area per il deposito temporaneo dei rifiuti da quest'ultimo prodotti, cedendone però allo stesso la completa disponibilità e quindi la custodia ex articolo 2051 del codice civile.
Anche in questo caso, emerge dalla sentenza, il committente non conserva alcun obbligo giuridico di verificare modalità o tempistica del deposito dei rifiuti prodotti e loro gestione successiva, non avendo una posizione di garanzia ex articolo 40 citato.
Una terza ipotesi è quella nella quale, al di fuori delle condizioni precedenti, il committente/proprietario mantiene comunque un controllo su lavori e gestione dei relativi rifiuti prodotti. In tale contesto il committente mantiene la posizione di «produttore giuridico» dei rifiuti (come più sopra delineata) e l'appaltatore quello di mero esecutore dell'opera commissionata nonché produttore materiale dei rifiuti.
Ne consegue che il committente resta nella posizione di garanzia più sopra citata, potendo rispondere a titolo omissivo dell'illecita gestione dei residui commessa dall'appaltatore. Un'ultima ipotesi evincibile dalla sentenza in parola, e trasversale alle precedenti, è quella che vede il committente «consapevole» (dal punto di vista dell'elemento psicologico del reato) di collaborare, con il suo contegno omissivo, all'illecito posto in essere dall'appaltatore. Il tal caso egli committente potrà essere chiamato a rispondere del reato direttamente a titolo di concorso personale, ex articolo 110 del codice penale.
Nel caso in esame la Corte di cassazione ha ritenuto non infondata la contestazione fatta dal giudice cautelare del reato di discarica abusiva in capo al committente dei lavori; e ciò in quanto tale contestazione, si evince dalla pronuncia, non è stata basata sulla semplice qualità dell'indagato di proprietario dell'area, ma su due elementi dai quali emergerebbe la consapevolezza che sul proprio sito avvenisse una produzione di rifiuti inerti: lo svolgimento di una attività edilizia personalmente affidata a terzi; l'avvenire tale attività su area recitata e presidiata da cancelli le cui chiavi erano nella disponibilità degli appaltatori.
Nel quadro dei più ampi oneri del detentore di rifiuti. L'onere di vigilare sull'attività dei soggetti cui sono affidate opere che comportano la produzione materiale di rifiuti non esaurisce però, come insegna la stessa Suprema corte di cassazione, il novero delle condotte esigibili dal committente dei lavori. A titolo generale ogni produttore/detentore di rifiuti che intende affidarne a terzi deve infatti anche accertare in via preventiva l'esistenza in capo ai soggetti affidandi delle necessarie competenze e autorizzazioni previste dall'Ordinamento giuridico.
Diversamente, prima ancora dell'eventuale «culpa in vigilando» per l'omesso controllo sulla lecita gestione dei rifiuti da parte dei produttori materiali residui, al committente dei lavori potrà essere contestata, ex articolo 40 del codice penale, una «culpa in eligendo», come ricordato dalla costante giurisprudenza dello stesso giudice di legittimità (per tutte si vedano la sentenza 01.03.2012, n. 8018 e, da ultimo, la 25.03.2019, n. 12876)
(articolo ItaliaOggi Sette del 17.02.2020).

CONSIGLIERI COMUNALIImbroglione? Non si può dire. Diffamazione aggravata postare l’epiteto su un portale. Cassazione: l’affermazione (riferita a un vicesindaco) non rientra nel diritto di critica.
Costituisce reato di diffamazione aggravata postare sulla bacheca pubblica di una piattaforma social espressioni quali «imbroglioni» riferite al vicesindaco di un paese. Tali espressioni sono a tutti gli effetti lesive della reputazione e non possono in alcun modo ricomprendersi entro il diritto di critica.

È quanto ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. V penale, con sentenza 10.01.2020 n. 628.
I giudici siciliani avevano riconosciuto il reato di diffamazione aggravata un cittadino responsabile di aver pubblicato sulla bacheca pubblica di un portale due messaggi offensivi della reputazione del vice-sindaco del proprio comune di residenza, suo avversario politico.
Avverso la sentenza d'appello era stato presentato ricorso in cassazione deducendo l'omessa pronunzia da parte della Corte sulla configurabilità del dolo del reato, profilo che pure aveva costituito oggetto di contestazione con il gravame di merito. In secondo luogo, lamentava la illogicità della motivazione della sentenza in merito alla ritenuta insussistenza dell'esimente dell'esercizio del diritto di critica politica.
Secondo il ricorrente l giudice dell'appello aveva riconosciuto che tale critica poteva assumere anche toni aspri quando destinatario sia chi ricopre cariche pubbliche, escludendo di conseguenza l'illiceità dell'epiteto «imbroglioni» rivolto dall'imputato alla persona offesa e ai suoi colleghi di giunta.
Contraddittoriamente avrebbe invece ritenuto sussistente il reato per le insinuazioni di aver «intascato» il danaro oggetto di «prelievo forzoso» a carico dei cittadini, ritenendo che sostanzialmente le stesse contenessero la velata accusa di malversazione a proprio vantaggio delle somme oggetto di prelievo fiscale.
In realtà l'imputato voleva solo criticare gli amministratori del Comune di V. e suoi avversari politici di non aver rinunziato all'indennità di carica e di non aver abbassato le imposte comunali, come invece promesso nel corso della competizione elettorale.
Secondo la Cassazione «la Corte territoriale ha ritenuto che il contenuto dei messaggi “postati” dall'imputato rivelasse la volontà di muovere non tanto un'aspra critica all'operato degli amministratori comunali, bensì quella di accusarli di essersi appropriati di danaro pubblico, insinuando che gli stessi si fossero “intascati” risorse provenienti dal prelievo fiscale».
In tal senso la sentenza ha escluso la stessa configurabilità dell'esimente di cui all'art. 51 c.p., «negando la sussistenza della veridicità del fatto posto alla base dell'invocato esercizio del diritto di critica. Tali conclusioni non appaiono censurabili trovando effettivo riscontro nel tenore testuale dei messaggi incriminati, che non contengono alcun esplicito o implicito riferimento al significato che invece gli attribuisce il ricorrente, le cui obiezioni sul punto risultano dunque meramente congetturali e comunque versate in fatto. Quanto al dolo del reato, trattasi di profilo in riferimento al quale non erano stati esplicitati in maniera specifica con i motivi d'appello le ragioni in fatto e in diritto a sostegno dell'affermata sua insussistenza» (articolo ItaliaOggi Sette del 10.02.2020).
---------------
MASSIMA
2. Avverso la sentenza ricorre l'imputato articolando tre motivi.
Con il primo deduce erronea applicazione della legge penale e vizi della motivazione. In tal senso il ricorrente denunzia anzitutto l'omessa pronunzia da parte della Corte sulla configurabilità del dolo del reato, profilo che pure aveva costituito oggetto di contestazione con il gravame di merito. In secondo luogo lamenta la illogicità della motivazione della sentenza in merito alla ritenuta insussistenza dell'esimente dell'esercizio del diritto di critica politica.
In proposito il ricorrente osserva come il giudice dell'appello abbia riconosciuto che tale critica possa assumere anche toni aspri quando destinatario sia chi ricopre cariche pubbliche, escludendo di conseguenza l'illiceità dell'epiteto "imbroglioni" rivolto dall'imputato alla persona offesa ed ai suoi colleghi di giunta. Contraddittoriamente avrebbe invece ritenuto sussistente il reato per le insinuazioni di aver "intascato" il danaro oggetto di "prelievo forzoso" a carico dei cittadini, ritenendo che sostanzialmente le stesse contenessero la velata accusa di malversazione a proprio vantaggio delle somme oggetto di prelievo fiscale.
In realtà tale conclusione sarebbe viziata dall'errata, se non fantasiosa, interpretazione degli scritti dell'imputato, che si era limitato a criticare gli amministratori del Comune di Valdina e suoi avversari politici di non aver rinunziato all'indennità di carica e di non aver abbassato le imposte comunali, come invece promesso nel corso della competizione elettorale.
Con il secondo motivo analoghi vizi vengono denunziati in merito al denegato riconoscimento della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis c.p., mentre con il terzo si lamenta violazione di legge in merito all'ammissione della costituzione di parte civile del Cannuni, da ritenersi tardiva in quanto intervenuta successivamente all'espletamento degli adempimenti di cui all'art. 484 c.p.p..
...
1. Il ricorso è fondato nei limiti di seguito esposti.
2. Il primo motivo è invero infondato. La Corte territoriale ha ritenuto che il contenuto dei messaggi "postati" dall'imputato rivelasse la volontà di muovere non tanto un'aspra critica all'operato degli amministratori comunali, bensì quella di accusarli di essersi appropriati di danaro pubblico, insinuando che gli stessi si fossero "intascati" risorse provenienti dal prelievo fiscale.
In tal senso la sentenza ha dunque escluso la stessa configurabilità dell'esimente di cui all'art. 51 c.p., sostanzialmente negando la sussistenza della veridicità del fatto posto alla base dell'invocato esercizio del diritto di critica. Tali conclusioni non appaiono censurabili trovando effettivo riscontro nel tenore testuale dei messaggi incriminati, che non contengono alcun esplicito od implicito riferimento al significato che invece gli attribuisce il ricorrente, le cui obiezioni sul punto risultano dunque meramente congetturali e comunque versate in fatto.
Quanto al dolo del reato, trattasi di profilo in riferimento al quale non erano stati esplicitati in maniera specifica con i motivi d'appello le ragioni in fatto e in diritto a sostegno dell'affermata sua insussistenza.
3. Quanto alle doglianze proposte con il secondo motivo va evidenziato che, non solo in maniera del tutto generica era stata prospettata nel giudizio d'appello la ricorrenza della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis c.p., ma che altrettanto generiche risultano le censure svolte in proposito con il ricorso.
Il ricorrente, infatti, non ha tenuto conto di come la Corte abbia implicitamente escluso la particolare tenuità del fatto laddove ha motivatamente valutato la sua intrinseca gravità sottolineando la natura al limite del calunnioso delle accuse lanciate dall'imputato, nonché apprezzato negativamente la loro reiterazione.
Apparato giustificativo con il quale il ricorso non si è in alcun modo confrontato, mentre in proposito va ribadito che, con riguardo alla citata esimente, la motivazione può risultare anche implicitamente dall'argomentazione con la quale il giudice d'appello abbia considerato gli indici di gravità oggettiva del reato e il grado di colpevolezza dell'imputato (Sez. 5, n. 15658/19 del 14/12/2018, D., Rv. 275635).
4. Colgono invece nel segno le censure svolte con il terzo motivo.
4.1 Va allora ricordato che ai sensi dell'art. 79 c.p.p., comma 1, c.p.p., la costituzione di parte civile può avvenire per l'udienza preliminare e, successivamente, fino a che non siano compiuti gli adempimenti previsti dall'art. 484, c.p.p., norma, quest'ultima, secondo cui, prima di dare inizio al dibattimento, il presidente controlla la regolare costituzione delle parti e che deve essere letta unitamente a quanto previsto dagli artt. 491 e 492 del codice di rito.
L'art. 491 c.p.p., comma 1, in particolare, stabilisce, tra l'altro, che le questioni concernenti la costituzione di parte civile sono precluse se non sono proposte subito dopo compiuto per la prima volta l'accertamento della costituzione delle parti. Secondo l'art. 492 c.p.p., infine, il presidente, compiute le attività indicate negli artt. 484 c.p.p. e ss., dichiara aperto il dibattimento.
4.2 Dalle norme sopra indicate, come è stato condivisibilmente evidenziato da una parte della giurisprudenza di legittimità, risulta chiaramente che la costituzione di parte civile deve avvenire, a pena di decadenza, fino a che non siano compiuti gli adempimenti relativi alla regolare costituzione delle parti. È in tale fase infatti che bisogna stabilire quali siano le parti "legittimate" a stare in giudizio (cfr. Sez. 3, n. 25133 del 15/04/2009, Greco, Rv. 243906).
Se ne deduce che, come affermato dai più recenti arresti del Supremo Collegio, la costituzione di parte civile deve avvenire, a pena di decadenza, fino a che non siano stati compiuti gli adempimenti relativi alla regolare costituzione delle parti, e non fino al diverso termine coincidente con l'apertura del dibattimento, come ritenuto da entrambi i giudici del merito nel caso di specie (ex plurimis Sez. 6, n. 10958 del 24/02/2015, P.C. in proc. L., Rv. 262988).
Deve, pertanto escludersi che la costituzione di parte civile possa avvenire in coincidenza con l'apertura del dibattimento ovvero prima dell'apertura del dibattimento, ma dopo che si siano esauriti gli adempimenti relativi alla regolare costituzione delle parti.

APPALTI: Offerta priva dei requisiti richiesti dalla lex specialis.
Le procedure di evidenza pubblica devono essere improntate al rispetto dei principi di imparzialità e parità di trattamento, che risulterebbero irrimediabilmente violati ove si consentisse di accettare un’offerta priva dei requisiti richiesti ex ante dalla lex specialis, solo perché, una volta divenuto aggiudicatario, un determinato operatore economico abbia materialmente messo a disposizione della stazione appaltante prodotti con le caratteristiche dalla stessa richiesti (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 07.01.2020 n. 33 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
III) Il Collegio dà peraltro atto che, in aggiunta a quanto sopra evidenziato, il verificatore ritiene che il giudizio espresso dalla stazione appaltante non sia “manifestamente irragionevole, ovvero contenga errori di fatto che ne abbiano inficiato le relative valutazioni”, e che tuttavia, malgrado ciò, l’integrale contenuto della relazione, deponga inequivocabilmente per l’accoglimento del ricorso.
Incidentalmente, ed in via preliminare, il Collegio richiama il principio iudex peritus peritorum, secondo cui,
è sempre consentito al giudice di merito disattendere le argomentazioni tecniche svolte dal consulente tecnico d’ufficio nella propria relazione (Cass. Civ. Sez. II, 20.03.2017, n. 7086, TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 21.04.2016, n. 2023).
Nel caso di specie, il verificatore si è espresso sulla natura del giudizio formulato dalla stazione appaltante, nei termini sopra riportati, in considerazione del “tempo richiesto dalla lettura e dalle numerose riletture dei documenti in atti”, e pertanto, sulla base di criteri soggettivi, avulsi dalle conoscenze tecniche che ne hanno giustificato la nomina, rimettendosi infatti, per tale aspetto, alle valutazioni dell’autorità giurisdizionale.
Le vere e proprie valutazioni tecniche formulate dal verificatore, che lo stesso era chiamato ad esprimere, evidenziano invece chiaramente che il giudizio formulato dalla stazione appaltante “non è adeguato”, che “sarebbe stato logico escludere il concorrente controinteressato”, poiché il “rendimento idraulico minimo garantito” dei prodotti offerti è risultato inferiore a quello richiesto dalla lex specialis.
In conclusione, alla luce del contenuto dell’ordinanza n. 1060/2019, e di quanto affermato dallo stesso verificatore, ritiene il Collegio che il giudizio della stazione appaltante “contenga errori di fatto che ne abbiano inficiato le relative valutazioni”, e che sia conseguentemente illegittimo.
IV.1) Nella propria memoria finale, la controinteressata sostiene che le citate previsioni della lex specialis erano unicamente finalizzate alla conoscenza delle principali caratteristiche tecniche delle elettropompe che i concorrenti avrebbero dovuto fornire, ritenendo che “il riscontro di un loro difetto rispetto a quanto dichiarato non poteva affatto condurre all’esclusione dell’offerta”.
A sua volta, la controinteressata evidenzia che nello schema di contratto (art. 5.6) e nel Capitolato Tecnico (artt. 5.1.2. e 5.3.2) si prevedeva che, qualora nel corso dei collaudi, le elettropompe fornissero risultati inferiori rispetto a quelli dichiarati, la stazione appaltante avrebbe potuto accettare le forniture solo previa applicazione di una riduzione dei prezzi, rilevando ciò solo nella fase esecutiva del rapporto, e non invece, in quella di ammissione.
IV.2) Osserva il Collegio che,
in linea generale, in relazione alla loro diverse natura e finalità, i requisiti di esecuzione non devono effettivamente essere confusi con quelli di partecipazione, ma che tuttavia, qualora la lex specialis, anziché limitarsi a richiedere ai partecipanti di acquisire, successivamente all'aggiudicazione, la disponibilità di un determinato requisito tecnico, ne imponga invece il possesso a pena l'esclusione, all’atto della domanda di partecipazione, non può sostenersi che tale onere afferisca alla fase esecutiva del contratto, quanto invece, alla sussistenza dei presupposti per partecipare alla gara (TAR Friuli-Venezia Giulia, Sez. I, 31.12.2018, n. 383, C.S. Sez. III, 27.11.2017, n. 5541).
Nel caso di specie, come detto, la lex specialis era intelligibile nel prevedere, nella fase di ammissione, l’esclusione delle offerte di prodotti di cui i concorrenti non avessero dichiarato il possesso dei requisiti minimi richiesti (v. art. 7 del documento B.4 del disciplinare cit., secondo cui, “non sono ammesse, a pena di esclusione, dichiarazioni di prestazioni inferiori a quelle indicate nel Progetto Esecutivo a base di gara)".
IV.3) Analogamente, non può assumere alcun rilievo nel presente giudizio, in quanto circostanza di mero fatto, l’avvenuta installazione delle pompe da parte della controinteressata, e l’asserito collaudo delle stesse, trattandosi di avvenimenti successivi all’emanazione dei provvedimenti impugnati, ed inidonei a dimostrarne la legittimità.
La procedure di evidenza pubblica devono infatti essere improntate al rispetto dei principi di imparzialità e parità di trattamento, che risulterebbero irrimediabilmente violati ove si consentisse di accettare un’offerta priva dei requisiti richiesti ex ante dalla lex specialis, solo perché, una volta divenuto aggiudicatario, un determinato operatore economico abbia materialmente messo a disposizione della stazione appaltante prodotti con le caratteristiche dalla stessa richiesti.
V) Inoltre, contrariamente a quanto dedotto dalla resistente e dalla controinteressata, le censure sollevate dalla ricorrente non hanno ad oggetto elementi marginali e non essenziali dell’affidamento impugnato.
In primo luogo, osserva infatti il Collegio che l’appalto in questione, lungi dal prevedere esclusivamente lavori, includeva in realtà anche “impianti di potabilizzazione” (cat. OS22 per un importo di Euro 6.431.432,24”) ed “acquedotti” (cat. OG6 per un importo di Euro 2.306.078,92), non potendo pertanto affermarsi, in tale ambito, l’irrilevanza della fornitura delle pompe idrauliche.
In ogni caso, malgrado il loro valore non sia effettivamente particolarmente incidente su quello complessivo dell’appalto, lo stesso, pari ad Euro 634.607,44, oltre che ad essere, in termini assoluti, tutt’altro che irrisorio, è certamente idoneo, in astratto, ad influenzarne l’affidamento, essendo pari a circa il 4% a quello posto a base di gara.
VI.1) Né può altresì apportare alcuna utilità alle ragioni della controinteressata C.S., Sez. V, 14.06.2019 n. 4024 a più riprese invocata, considerato che, come dalla stessa evidenziato, in tale fattispecie, “alla luce della lex specialis, l’attribuzione del punteggio era indi correlato alla sola considerazione dei valori dichiarati dagli operatori economici offerenti, per i quali non era imposta alcuna valutazione di congruità”.
Nella fattispecie per cui è causa, come detto, il disciplinare prevedeva invece espressamente, a pena di esclusione, che i concorrenti, nelle proprie dichiarazioni e nella schede tecniche, si impegnassero a mettere a disposizione della stazione appaltante prodotti dotati di determinate caratteristiche minime, ciò che, diversamente dal caso deciso da C.S. n. 4024/19 cit., la commissione non poteva evidentemente che accertare.
VI.2) Da ultimo, vanno dichiarati inammissibili gli argomenti della controinteressata, volti a dimostrare che l’offerta della ricorrente avrebbe dovuto essere esclusa in conseguenza della mancata allegazione della scheda motore, in quanto contenuti in una memoria non notificata, e non invece, in un autonomo ricorso incidentale.
VII.1) In conseguenza dell’accoglimento del ricorso, va annullata l’aggiudicazione disposta in favore della controinteressata, che non risulta aver stipulato il contratto con la stazione appaltante, essendo pertanto possibile disporsi il risarcimento in forma specifica in favore della ricorrente.
VII.2) Nella propria memoria finale, quest’ultima richiede tuttavia il risarcimento per equivalente, nella misura del 10% delle opere già eseguite, in conseguenza dell’avvenuta esecuzione dei lavori di realizzazione dell’impianto provvisorio, descritti nella parte in fatto della presente sentenza.
Per giurisprudenza pacifica, la ricorrente che lamenti l'illegittimità dell'aggiudicazione deve tuttavia offrire, senza poter ricorrere a criteri forfettari, la prova rigorosa dell'utile che in concreto avrebbe conseguito, poiché nell'azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento, e la valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c.c., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità, o di estrema difficoltà, di una precisa prova sull'ammontare del danno (TAR Toscana, Sez. I, 19.3.2018, n. 403, C.S. Ad. Plen., 12.5.2017, n. 2), che nella fattispecie, l’istante non ha invece allegato.
In particolare, malgrado la prova in ordine alla quantificazione del danno possa essere raggiunta anche mediante presunzioni, in conformità alla regola generale di cui all'art. 2729, c.c., esse devono essere dotate dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, non potendo attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici (C.S., Sez. V, 11.05.2017, n. 2184).

URBANISTICAL’urbanistica guarda al futuro. La fabbrica non deve trasferirsi perché è cambiato il prg. Il Tar Brescia ritiene impossibile imporre la riconversione senza concertazione e incentivi.
Impossibile espellere la fabbrica dall'area in cui opera da sempre soltanto perché nel frattempo è cambiato lo strumento urbanistico. Quindi è escluso che il comune possa imporre la riconversione all'insediamento produttivo laddove la nuova zonizzazione prevede unicamente lo sviluppo dei servizi e del commercio: le nuove destinazioni, infatti, operano per le future trasformazioni del territorio, mentre per delocalizzare attività «impattanti», dal punto di vista dell'ambiente e della qualità della vita, bisogna ricorrere al metodo della concertazione. Cioè offrendo incentivi al trasferimento e attivando eventualmente un tavolo istituzionale. Né si possono vietare ristrutturazioni dello stabilimento: all'impresa va garantito «un minimo diritto alla crescita». E ciò anche se i cittadini si lamentano per la convivenza forzosa con le ciminiere.
È quanto emerge dalla sentenza 30.12.2019 n. 1101 dela I Sez. della sede di Brescia del TAR Lombardia.
Il caso. La pronuncia ha accolto il ricorso della spa che gestiva una fonderia, annullando la delibera con cui il consiglio comunale aveva adottato il Pgt, il piano di governo del territorio della regione, decretando che la fabbrica prima o poi doveva riconvertirsi o smobilitare.
Insomma «l'intento espulsivo» era chiaro e fra l'altro privo di un termine esplicito, il che aumentava l'incertezza sul futuro della produzione e dei lavoratori. Aveva pesato sulla decisione dell'amministrazione la circostanza che lo stabilimento trattava e riciclava rifiuti di alluminio oltre che realizzare placche e billette. La spa lamentava, da canto suo, una vendetta del comune, «un castigo ad personam» perché in passato i cittadini avevano segnalato emissioni diffuse non controllate dallo stabilimento.
Interessi da bilanciare. Le scelte di pianificazione urbanistica costituiscono un esercizio di ampia discrezionalità da parte dell'amministrazione locale. E non c'è dubbio che rientri nell'opera di disegno del territorio allontanare le attività insalubri dai centri abitati. Ma un conto è quando la programmazione urbanistica investe una porzione di territorio ancora vergine, un altro se la nuova destinazione colpisce un'area dove sono stati realizzati cospicui investimenti economici.
Bisogna dunque verificare se nel frattempo si sono create legittime aspettative da parte del privato, contemperando i contrapposti interessi dell'assetto del territorio e della libera impresa. Insomma: il comune deve valutare se l'astratto miglioramento della situazione urbanistica generale non finisca per sacrificare concreti interessi economici di privati.
E non può porre il divieto di determinati insediamenti produttivi a una determinata distanza dal centro senza indicazioni ad hoc provenienti dalle autorità sanitarie. Le opere realizzate in precedenza alla modifica dello strumento urbanistico, dunque, conservano la loro legittima destinazione pur se in difformità dalle nuove prescrizioni. Non c'è dubbio che il comune possa compiere scelte orientate a localizzare gli insediamenti per motivi igienico-sanitari.
Ma nella specie l'amministrazione avrebbe dovuto considerare disposizioni «promozionali» e coinvolgere la spa che gestisce la fonderia nella ricerca di «soluzioni alternative praticabili», per esempio realizzando uno studio per individuare aree nel territorio amministrato dove la fabbrica può continuare le sue lavorazioni. Né è legittimo, come pure fa l'ente locale, prevedere misure restrittive contro l'espansione dell'insediamento perché si rischierebbe il «soffocamento» della produzione.
Eppure la fabbrica è a rischio. Nel caso specifico, non si contavano, negli anni, le segnalazioni all'azienda sanitaria e a quella regionale per l'ambiente effettuate contro lo stabilimento, dove si erano verificati incidenti sul lavoro. Né mancavano le querele rivolte all'autorità giudiziaria. Il punto è che, hanno spiegato i giudici, che il comune deve agire su di un altro piano, ricorrendo agli ordinari strumenti di controllo e repressione, applicando sanzioni ed eventualmente revocando le autorizzazioni concesse.
---------------
I limiti nella giurisprudenza.
Il piano regolatore generale non può sloggiare il carrozziere. E il comune non può mettere la sordina alla fabbrica se ha fatto costruire le case vicino agli opifici. Ma ha la facoltà di ridurre cubature e destinazioni d'uso se bonificare l'area dismessa costa troppo. Sono vari nella giurisprudenza amministrativa i precedenti che affrontano il tema del rapporto fra programmazione urbanistica e insediamenti produttivi preesistenti.
Qualche caso. L'amministrazione locale non può negare la Dia che serve al carrozziere per mettere l'officina a norma Ue, sul rilievo che il piano regolatore non ammette interventi nell'area. E ciò perché l'adeguamento tecnologico risulta essenziale per l'artigiano: ne va della sopravvivenza dell'impresa. Gli strumenti urbanistici, d'altronde, servono a disegnare il futuro del territorio e non possono introdurre misure che indirettamente allontanano strutture produttive esistenti dalla zona in cui operano da anni. È quanto si legge nella sentenza 41/2018, pubblicata dalla seconda sezione del Tar Lombardia.
Ancora. È escluso che il sindaco del comune possa imporre il silenzio alla fabbrica che operava nell'area prima che fossero costruite le case. Lo stabilisce la sentenza 26/2018, pubblicata dalla prima sezione del Tar Friuli-Venezia Giulia. Stop all'ordinanza contingibile e urgente che vieta le immissioni acustiche all'impresa impegnata nella lavorazione di rottami di metallo: non sussistono i requisiti che legittimano l'adozione del provvedimento, specie se si considera che l'amministrazione locale sposta sull'impresa le conseguenze delle proprie scelte urbanistiche che hanno consentito uno sviluppo disordinato dell'area. Inutile, allora, tentare di rovesciare addosso all'impresa l'onere di risolvere i problemi di convivenza con i residenti che si sono creati negli ultimi tempi. Ma è il comune che ha autorizzato la realizzazione di insediamenti a vocazione residenziale accanto all'area dove la fabbrica svolge da sempre la sua attività.
Via libera alla variante al piano regolatore generale che riduce la capacità edificatoria e le destinazioni d'uso della zona. Così ha deciso la sentenza 488/2018, pubblicata dalla prima sezione della sede di Brescia del Tar Lombardia. Non conta che il comune abbia firmato un protocollo d'intesa con il fallimento che sta cercando di rilanciare un'area industriale dismessa di sua proprietà e che le modifiche approvate rischiano di rendere meno appetibile il progetto. Il punto è che i terreni hanno bisogno di una profonda bonifica: il processo impone spese più ingenti per la destinazione residenziale rispetto all'uso commerciale o industriale dei suoli. Insomma: l'amministrazione agisce nell'interesse generale
(articolo ItaliaOggi Sette del 03.02.2020).

PUBBLICO IMPIEGO: Danni all’ente, il professionista risponde in Corte dei conti. Ordinanza della Cassazione sui dipendenti.
Il legale dipendente che cagiona danni nel corso dell'attività professionale all'ente pubblico è responsabile innanzi alla corte dei conti.
Lo afferma la Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, con l'ordinanza 17.12.2019 n. 33374.
Il caso di specie trae origine dalla condanna da parte dei giudici contabili di un legale dipendente di un ente pubblico. La corte dei conti, infatti aveva condannato un avvocato per i danni cagionati dalla sua condotta, ritenuta, dai giudici contabili, negligente e contraria ai dettami del corretto agire professionale.
Si difendeva il legale, condannato al risarcimento, deducendo tra gli altri motivi di ricorso la nullità della sentenza, rappresentando come l'organo che l'aveva emessa era del tutto incompetente in materia. In particolare, ad avviso del ricorrente il solo organo dotato del potere di emettere tale tipo di sentenze era il locale consiglio dell'ordine.
Il procedimento, dopo avere compiuto il proprio corso veniva deciso da parte dei giudici della Corte suprema con l'ordinanza n. 33374/2019, giungendo a una soluzione ben diversa rispetto a quella del difensore del ricorrente. Secondo i giudici della Corte suprema di cassazione, infatti la qualità del soggetto responsabile non esclude la competenza dell' organo giurisdizionale deputato alla valutazione del danno erariale. Precisano gli ermellini come la qualità di legale dipendente sia del tutto indifferente tanto da non far venir meno la giurisdizione dei giudici contabili.
Le difese del ricorrente si rivelano pertanto del tutto infondate infatti anche se la competenza del consiglio dell'ordine indiscutibilmente permane essa riguarda altri aspetti dell'attività del legale vertendo sui soli aspetti disciplinari senza invece estendersi ai danni cagionati agli enti pubblici. La decisione dei giudici contabili pertanto era del tutto legittima, rientrando tra le competenze loro devolute dall'ordinamento. Le norme infatti riservano alla corte il compito di valutare la presenza di danni erariali. Ricorso rigettato data la sua infondatezza (articolo ItaliaOggi Sette del 24.02.2020).
---------------
SENTENZA
2. con il secondo motivo -rubricato: violazione e la falsa applicazione dell'art. 59, comma 1, lett. b, n. 1 e 1.2, della legge professionale forense n. 247/2012 in relazione al comma 1, n. 3, dell'art. 360 cod. proc. civ.- il ricorrente, ribadito quanto già dedotto con il primo motivo, ovvero che tutta l'attività interna svolta per l'Ente doveva considerarsi attività professionale e non amministrativa, deduce che la sentenza debba ritenersi illegittima, anche per violazione dell'art. 59, comma 1, n. 1 e 2, della legge professionale forense, in quanto nell'invito a dedurre e nell'atto di citazione a giudizio non erano enunciate le norme amministrative violate fonte dell'addebito;
3 con il terzo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 56 della legge n. 247/2012 e dell'art. 1 della legge n. 20/1994, relativi alla prescrizione dell'azione; secondo la prospettazione difensiva, nella specie, era applicabile il termine prescrizionale fissato dalla legge professionale forense (sei anni dal fatto) con la conseguenza che nell'anno 2012, nel corso del quale era stato notificato l'invito a dedurre, l'azione disciplinare doveva considerarsi già prescritta, essendo, il fatto dannoso, venuto a conoscenza dell'Amministrazione nel 2005; sempre secondo il ricorrente, l'azione disciplinare doveva ritenersi, egualmente, prescritta anche a volere ritenere applicabile il più breve termine di cinque anni di cui all'art. 1, comma 2, della legge n. 20/1994 dovendosi fissare il dies a quo sempre dal momento di conoscenza del danno;
4 con il quarto motivo, infine, si deduce la violazione dell'art. 59 della legge n. 247/2012 e del principio del diritto alla difesa, laddove la mancata tempestiva denuncia della Amministrazione alla Procura Regionale della Corte dei Conti, nella immediatezza della conoscenza dei fatti, era foriera di danni alla difesa del dipendente incolpato con violazione del suo diritto alla difesa;
...
5.1 alla luce di tali principi gli ultimi tre mezzi di impugnazione sono inammissibili;
   - ferma restando, per le ragioni già svolte, la giurisdizione della Corte dei conti, e essendo pacifico che la sottoposizione degli avvocati (pur se iscritti agli Elenchi speciali allegati all'Albo) al potere disciplinare del Consiglio dell'Ordine non esclude la configurabilità di una concorrente responsabilità contabile dell'Avvocato, quale dipendente dell'Ente comunale qualora ne ricorrano gli estremi, essendo diversi i presupposti e le finalità perseguite dalle disposizioni relative alla responsabilità disciplinare e a quella contabile, le censure proposte con il secondo motivo (ovverosia la mancanza, nell'incolpazione, delle norme violate e l'errata valutazione delle prove) sono inammissibili, concretando, comunque, ipotesi di error in procedendo e in iudicando, estranee alla denunciata violazione dei limiti esterni alla giurisdizione del Giudice speciale;
   - anche il terzo motivo e il quarto motivo di ricorso sono inammissibili; con riferimento alla dedotta responsabilità disciplinare, per inconferenza, non vertendosi, nella specie, in ambito di procedimento disciplinare, mentre, con riferimento alla dedotta violazione della normativa prescrizionale relativa alla responsabilità contabile, perché risolventesi, anche in questo caso, in un'inammissibile prospettazione dell'eventuale error in iudicando commesso dal Giudice contabile nell'individuazione del dies a quo;
   - eguali considerazioni, infine, vanno svolte anche con riguardo alla sussistenza della legittimazione della Procura a agire e all'asserita violazione del diritto di difesa, ipotizzate con il quarto motivo, attenendo tutte ad eventuali errores in procedendo ovvero in iudicando;

EDILIZIA PRIVATAIl rilascio del certificato di agibilità, lungi dall'essere subordinato all'accertamento dei soli requisiti igienico-sanitari, presuppone altresì la conformità urbanistica ed edilizia dell'opera, in quanto, prima ancora della logica giuridica, è la ragionevolezza ad escludere che possa essere utilizzato, per qualsiasi destinazione, un fabbricato non conforme alla normativa urbanistico edilizia e, come tale, in potenziale contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi alla cui protezione quella disciplina è preordinata.
---------------

Pertanto, il primo motivo non è fondato, considerato che la non conformità dell'opera al progetto approvato può legittimare, al di là del nomen iuris del provvedimento adottato, un diniego al rilascio e financo un intervento in autotutela del Comune (o una dichiarazione di decadenza) in relazione ai certificati di agibilità, ove ne ricorrano i presupposti, essendo, infatti, la conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie vigenti presupposto indefettibile, ai sensi dell’art. 24, co. 3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, per il rilascio del provvedimento in questione.
Ed invero, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza amministrativa, «Il rilascio del certificato di agibilità, lungi dall'essere subordinato all'accertamento dei soli requisiti igienico-sanitari, presuppone altresì la conformità urbanistica ed edilizia dell'opera, in quanto, prima ancora della logica giuridica, è la ragionevolezza ad escludere che possa essere utilizzato, per qualsiasi destinazione, un fabbricato non conforme alla normativa urbanistico edilizia e, come tale, in potenziale contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi alla cui protezione quella disciplina è preordinata» (TAR Campania Napoli sez. V, 06.07.2016, n. 3409; TAR Torino, sez. II, 30.06.2016, n. 964; TAR Sicilia Palermo, sez. II 05.05.2016, n. 1100; TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 23/04/2018, n. 933; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 05/06/2017, n. 731; TAR Abruzzo, L'Aquila, sez. I, 02/03/2017, n. 114; Consiglio di Stato n. 3786/2015; Consiglio Stato, V, 30.04.2009, n. 2760) (TAR Sicilia-Catania, Sez. IV, sentenza 13.12.2019 n. 3000 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATASolo in caso di forestazione di boschi già esistenti per superfici non particolarmente estese può prescindersi dal nulla osta della Soprintendenza dei beni culturali e ambientali, che è, invece, necessario per la realizzazione di nuovi boschi.
---------------

Il ricorso, che ha ad oggetto la graduatoria definitiva delle istanze a valere sulla sottomisura 8.1 del PSR Sicilia 2014/2020 “Sostegno alla forestazione/all’imboschimento”, nella parte in cui inseriva l’istanza della ricorrente tra quelle non finanziabili in quanto il progetto non era cantierabile per mancanza del nulla osta paesaggistico, va rigettato.
Deve, in particolare, rilevarsi che la determinazione contestata rinviene il suo fondamento nel parere del Dipartimento regionale dei beni culturali n. 51115 del 30.10.2017, che ha fatto una differenziazione tra: 1) interventi di forestazione in boschi già esistenti, che sono stati ritenuti non assoggettati ad autorizzazione, sempre che la superficie non sia superiore ad ha 0,50; 2) impianto di nuovi boschi, relativamente ai quali ha ritenuto necessario il positivo accertamento della compatibilità paesaggistica da parte della Soprintendenza dei beni culturali e ambientali.
Tale differenziazione è, ad avviso del collegio, corretta, in quanto il d.P.R. n. 31 del 13.02.2017, avente ad oggetto il regolamento recante l’individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata, al punto A20 dell’allegato 1), avente ad oggetto gli interventi e le opere in aree vincolate esclusi dall’autorizzazione paesaggistica, dispone, per quanto d’interesse, testualmente quanto segue: “Nell’ambito degli interventi di cui all’art. 149, comma 1, lettera c), del codice: pratiche selvicolturali autorizzate in base alla normativa di settore; interventi di contenimento della vegetazione spontanea indispensabili per la manutenzione delle infrastrutture pubbliche esistenti pertinenti al bosco, quali elettrodotti, viabilità pubblica, opere idrauliche”.
Ne deriva che, effettivamente, solo in caso di forestazione di boschi già esistenti per superfici non particolarmente estese può prescindersi dal nulla osta della Soprintendenza dei beni culturali e ambientali, che è, invece, necessario per la realizzazione di nuovi boschi.
Nella specie, il progetto prevedeva un “imboschimento con finalità climatico-ambientale e protettivo” su una superficie maggiore di 10 ettari, per cui si rientrava nell’ambito degli interventi che richiedevano il nulla osta della Soprintendenza dei beni culturali e ambientali (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 13.12.2019 n. 2916 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAE’ pacifico che la decadenza del permesso di costruire costituisce l'effetto automatico dell'inutile decorso del termine entro cui i lavori si sarebbero dovuti iniziare e concludere; pertanto, essa ha natura non già costitutiva, bensì dichiarativa con efficacia ex tunc di un effetto verificatosi ex se e direttamente e in tal modo va letto l'art. 15, comma 2, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, in virtù del quale, inutilmente decorsi detti termini, il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga.
Di qui l’evidente ultroneità della comunicazione di avvio del procedimento dal momento che la partecipazione dell’interessata non avrebbe comunque potuto determinare alcun effetto in relazione all’oggettivo decorso del termine.

---------------

Fatta tale premessa, passando all’esame delle doglianze e, in particolare, di quella in cui si lamenta la violazione delle garanzie poste a tutela della partecipazione al procedimento in relazione alla declaratoria di decadenza del permesso di costruire, la tesi sostenuta in ricorso non merita positivo apprezzamento.
Come da ultimo efficacemente chiarito dal TAR Toscana, nella sentenza n. 1309/2018: “E’ pacifico che la decadenza del permesso di costruire costituisce l'effetto automatico dell'inutile decorso del termine entro cui i lavori si sarebbero dovuti iniziare e concludere; pertanto, essa ha natura non già costitutiva, bensì dichiarativa con efficacia ex tunc di un effetto verificatosi ex se e direttamente e in tal modo va letto l'art. 15, comma 2, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, in virtù del quale, inutilmente decorsi detti termini, il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga.
Di qui l’evidente ultroneità della comunicazione di avvio del procedimento dal momento che la partecipazione dell’interessata non avrebbe comunque potuto determinare alcun effetto in relazione all’oggettivo decorso del termine
.”.
Il Collegio non ravvisa ragione di discostarsi da tali conclusioni, in particolare considerato che, nella fattispecie in esame, la decadenza è stata dichiarata contestualmente al rigetto dell’istanza di proroga del permesso di costruire n. 8911/2013 e, quindi, a conclusione di un procedimento iniziato su istanza di parte, rispetto a cui non sussiste alcun obbligo di comunicazione ai sensi degli artt. 7 e 8 della legge n. 241/1990.
Tutto quanto sin qui rappresentato non pare, però, utile a superare la contestata mancata partecipazione al procedimento, che ha condotto alla dichiarazione dell’intervenuta decadenza del permesso di costruire originariamente rilasciato proprio al dante causa, che avrebbe dovuto essere qualificato come cointeressato, in quanto nell’adozione dei provvedimenti impugnati, lo stesso avrebbe potuto avere un ruolo nel procedimento, dal momento che oggetto di contestazione è la falsa rappresentazione dei luoghi contenuta nel progetto che è stato presentato dallo stesso e non anche dagli acquirenti.
Se, dunque, deve escludersi la sussistenza di una posizione differenziata che ne avrebbe richiesto la partecipazione al procedimento rispetto all’adozione dell’ordinanza che ha sostanzialmente disposto il ripristino dello stato di fatto, non altrettanto pare potersi sostenere in relazione all’attività che ha condotto al rigetto dell’istanza di proroga del titolo edilizio.
Peraltro, se senz’altro tale atto non può essere nullo per effetto del mancato coinvolgimento di chi il contestato errore di rappresentazione ha commesso, il Collegio ritiene, invece, che si possa dare applicazione all’art. 21-octies della legge n. 241/1990, dovendosi ritenere, anche alla luce di tutto quanto prodotto, che il richiedente il permesso di costruire non avrebbe potuto apportare al procedimento alcun elemento utile a determinare un diverso esito del procedimento vincolato che ha condotto alla declarataria di decadenza del titolo edilizio.
Circostanza che risulta dimostrata dal fatto che, anche nel corso del giudizio, il precedente proprietario non ha apportato alcun elemento utile a determinare la possibilità di un diverso esito del procedimento. Si può, quindi, escludere che la presenza del vizio posso determinare la caducazione del provvedimento (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 12.12.2019 n. 1065 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi è un'attività vincolata e doverosa della Pubblica amministrazione e i relativi provvedimenti, quale l'ordinanza di demolizione, debbono essere qualificati come atti vincolati, per la cui adozione non è necessario l'invio di comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
---------------

Quanto alla mancata partecipazione dei proprietari al procedimento che ha condotto all’ordine di ripristino, è ormai costante la giurisprudenza secondo cui l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi è un'attività vincolata e doverosa della Pubblica amministrazione e i relativi provvedimenti, quale l'ordinanza di demolizione, debbono essere qualificati come atti vincolati, per la cui adozione non è necessario l'invio di comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto (ex multis, TAR Lazio, sentenza n. 4211/2019, Consiglio di Stato sentenza n. 4740/2014) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 12.12.2019 n. 1065 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAIn via generale, ai fini del rilascio di una concessione edilizia, uno stato di sufficiente urbanizzazione della zona, che rende superflua la pianificazione di dettaglio, deve ritenersi equivalente all’operatività di un piano attuativo ancorché previsto dal piano regolatore generale.
Spetta ovviamente al Comune verificare la concreta urbanizzazione dell'area in cui si dovrebbe inserire l'intervento costruttivo del privato e accertare la compatibilità effettiva del nuovo insediamento edilizio rispetto allo stato di urbanizzazione della zona.
La valutazione della situazione di fatto e, quindi, la ritenuta sussistenza o meno dello stato di sufficiente urbanizzazione, rientra nella potestà discrezionale tecnico amministrativa del Comune e, come tale, non è sindacabile davanti al giudice amministrativo, salvi i casi di abuso macroscopico.
Infatti, il giudizio sulla sufficienza delle infrastrutture esistenti costituisce una sintesi delle ragioni di opportunità urbanistica a favore o contro il rilascio della concessione edilizia in mancanza di disciplina pianificatoria di dettaglio.
All’esito della predetta valutazione potranno presentarsi diverse ipotesi:

   ● in caso di zone assolutamente inedificate, in cui si tratti di asservire per la prima volta all'edificazione, mediante costruzione di uno o più fabbricati, aree non ancora urbanizzate che richiedano, per il loro armonico raccordo col preesistente aggregato abitativo, la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria, l’esistenza del piano esecutivo (piano di lottizzazione o piano particolareggiato) è senza dubbio presupposto indispensabile per il rilascio del titolo edilizio.
In tali situazioni, l'integrità d'origine del territorio non è sostanzialmente vulnerata, perciò deve essere rigorosamente rispettata la cadenza, in ordine successivo, dell'approvazione del piano regolatore generale e della realizzazione dello strumento urbanistico d'attuazione, che garantisce una pianificazione razionale e ordinata del futuro sviluppo del territorio dal punto di vista urbanistico.
Pertanto, in tali casi, è da ritenersi legittimo il rigetto della istanza edificatoria fondato sulla mancanza di strumento urbanistico di attuazione;

  
all’estremo opposto, rispetto all’ipotesi delle aree totalmente inedificate, si pone il caso in cui l’istanza edilizia riguardi un “lotto intercluso” o “lotto residuo”, ossia un’area compresa in zona totalmente dotata di opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti, cioè da opere e servizi realizzati per soddisfare i necessari bisogni della collettività quali strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia elettrica, scuole, etc..
Per la precisione, la giurisprudenza amministrativa ritiene realizzata la fattispecie del lotto intercluso solo se l'area edificabile di proprietà del richiedente:
   a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
   b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
   c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
   d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al Piano Regolatore Generale.
In termini urbanistico-edilizi, per poter qualificare l’area in termini di lotto intercluso non è necessaria l'interclusione del terreno da tutti i lati, bensì l’esistenza di un’area c.d. "relitto", autonomamente edificabile perché già urbanisticamente definita, ossia compiutamente e definitivamente collegata e integrata con già esistenti opere di urbanizzazione (strade, servizi, piazze, giardini) e/o con altri immobili adiacenti.
In presenza del lotto intercluso, poiché la completa e razionale edificazione e urbanizzazione del comprensorio interessato ha già creato una situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe dall'attuazione del piano esecutivo (piano particolareggiato, piano di lottizzazione, etc.), lo strumento urbanistico esecutivo si ritiene superfluo.
In casi del genere è illegittima la pretesa del Comune di subordinare il rilascio del titolo edilizio alla predisposizione di un piano di lottizzazione, pur astrattamente previsto dallo strumento generale.
La fattispecie del lotto intercluso rappresenta, evidentemente, una deroga eccezionale al principio generale di cui all’art. 9, comma 2, D.P.R. n. 380/2001 per cui il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che si sia concluso il procedimento per la adozione dello strumento urbanistico attuativo e che lo stesso sia divenuto perfetto ed efficace.
Peraltro, anche l’accertamento della sussistenza del lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata non esclude in assoluto l'esigenza di pianificazione dell'urbanizzazione ai fini del rilascio della concessione edilizia quando permane l’esigenza di realizzare un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo e di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti;

   ● nelle situazioni intermedie, nelle quali il territorio risulti già, più o meno intensamente, urbanizzato, atteso che, come detto, la perizia giurata in atti non è inequivoca a dimostrare l’interclusione del lotto, la giurisprudenza amministrativa ha adottato soluzioni più rigorose, ritenendo che il piano attuativo sia strumento indispensabile per l'ordinato assetto del territorio, stante il chiaro tenore dell’art. 9, comma 2, d.P.R. n. 380/2001, che costituisce regola generale ed imperativa in materia di governo del territorio, quando lo strumento urbanistico generale prevede che la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando è concluso il relativo procedimento.
Poiché il piano attuativo non ha equivalenti non è consentito superarne l’assenza facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona. Ciò impedisce che in sede amministrativa o giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile edificare vanificando la funzione del piano attuativo.
In caso di ritardo, l’adozione e l’approvazione del piano attuativo potrà essere sollecitata dal cittadino con gli strumenti consentiti.
Tuttavia, nei casi di cui trattasi, la giurisprudenza ritiene che quando sia ravvisabile una sostanziale, anche se non completa, urbanizzazione dell’intero comprensorio a cui appartiene l'area oggetto della richiesta edilizia, la mancanza dello strumento attuativo, in se e per sé, non può essere invocata ad esclusivo fondamento del diniego di concessione edilizia.
In tal caso, l'Amministrazione dovrà condurre adeguata istruttoria al fine di valutare lo stato di urbanizzazione già presente nella zona ed evidenziare le concrete ed ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione.
Infatti solo il Comune, essendo in possesso delle informazioni concernenti l'effettiva consistenza del suo territorio, delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, dei servizi pubblici, e delle edificazioni pubbliche e private già esistenti, sarà sicuramente in grado di stabilire se e in quale misura un ulteriore eventuale carico edilizio possa armonicamente inserirsi nell'assetto del territorio già presente.
Il Comune, quindi, dovrà preventivamente esaminare, in relazione alla dimensione dell'intervento richiesto, allo stato dei luoghi, alla documentazione prodotta dall'interessato ed alle prescrizioni di zona del piano di fabbricazione, se il Piano regolatore fornisca indicazioni esaustive sulle modalità edificatorie nonché lo stato di urbanizzazione e di edificazione dell'area interessata in relazione all'adeguatezza e fruibilità delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria e di conseguenza valutare se persiste o meno la necessità di adottare il piano attuativo prima del rilascio del permesso di costruire, dando atto delle dette verifiche nelle motivazioni della propria decisione.
---------------

3. Rileva il Collegio che la verifica della condizione di perdurante insufficienza dell'urbanizzazione primaria e secondaria, al quale è funzionalmente collegata l'esigenza di approvare degli strumenti attuativi, sia già stata affrontata dalla giurisprudenza amministrativa in epoca risalente (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 13.10.1988, n. 561; Sez. V 05.05.1990, n. 425), affermando, in via generale, che ai fini del rilascio di una concessione edilizia, uno stato di sufficiente urbanizzazione della zona, che rende superflua la pianificazione di dettaglio, deve ritenersi equivalente all’operatività di un piano attuativo ancorché previsto dal piano regolatore generale.
Spetta ovviamente al Comune verificare la concreta urbanizzazione dell'area in cui si dovrebbe inserire l'intervento costruttivo del privato e accertare la compatibilità effettiva del nuovo insediamento edilizio rispetto allo stato di urbanizzazione della zona (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 04.05.1995, n. 699).
La valutazione della situazione di fatto e, quindi, la ritenuta sussistenza o meno dello stato di sufficiente urbanizzazione, rientra nella potestà discrezionale tecnico amministrativa del Comune e, come tale, non è sindacabile davanti al giudice amministrativo, salvi i casi di abuso macroscopico (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 11.06.2002, n. 3253).
Infatti, il giudizio sulla sufficienza delle infrastrutture esistenti costituisce una sintesi delle ragioni di opportunità urbanistica a favore o contro il rilascio della concessione edilizia in mancanza di disciplina pianificatoria di dettaglio.
All’esito della predetta valutazione potranno presentarsi diverse ipotesi.
In caso di zone assolutamente inedificate, in cui si tratti di asservire per la prima volta all'edificazione, mediante costruzione di uno o più fabbricati, aree non ancora urbanizzate che richiedano, per il loro armonico raccordo col preesistente aggregato abitativo, la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria, l’esistenza del piano esecutivo (piano di lottizzazione o piano particolareggiato) è senza dubbio presupposto indispensabile per il rilascio del titolo edilizio (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.04.2012, n. 2740 e Sez. V, 24.09.2001, n. 4993).
In tali situazioni, l'integrità d'origine del territorio non è sostanzialmente vulnerata, perciò deve essere rigorosamente rispettata la cadenza, in ordine successivo, dell'approvazione del piano regolatore generale e della realizzazione dello strumento urbanistico d'attuazione, che garantisce una pianificazione razionale e ordinata del futuro sviluppo del territorio dal punto di vista urbanistico.
Pertanto, in tali casi, è da ritenersi legittimo il rigetto della istanza edificatoria fondato sulla mancanza di strumento urbanistico di attuazione.
La situazione di lotto totalmente inedificato, tuttavia, non è quella oggetto della presente controversia.
4. All’estremo opposto, rispetto all’ipotesi delle aree totalmente inedificate, si pone il caso in cui l’istanza edilizia riguardi un “lotto intercluso” o “lotto residuo, ossia un’area compresa in zona totalmente dotata di opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti, cioè da opere e servizi realizzati per soddisfare i necessari bisogni della collettività quali strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia elettrica, scuole, etc..
Per la precisione, la giurisprudenza amministrativa ritiene realizzata la fattispecie del lotto intercluso solo se l'area edificabile di proprietà del richiedente:
   a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
   b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
   c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
   d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al Piano Regolatore Generale.
In termini urbanistico-edilizi, per poter qualificare l’area in termini di lotto intercluso non è necessaria l'interclusione del terreno da tutti i lati, bensì l’esistenza di un’area c.d. "relitto", autonomamente edificabile perché già urbanisticamente definita, ossia compiutamente e definitivamente collegata e integrata con già esistenti opere di urbanizzazione (strade, servizi, piazze, giardini) e/o con altri immobili adiacenti.
In presenza del lotto intercluso, poiché la completa e razionale edificazione e urbanizzazione del comprensorio interessato ha già creato una situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe dall'attuazione del piano esecutivo (piano particolareggiato, piano di lottizzazione, etc.), lo strumento urbanistico esecutivo si ritiene superfluo (cfr., ex multis, Consiglio di Stato sez. IV, 10.01.2012, n. 26).
In casi del genere è illegittima la pretesa del Comune di subordinare il rilascio del titolo edilizio alla predisposizione di un piano di lottizzazione, pur astrattamente previsto dallo strumento generale.
La fattispecie del lotto intercluso rappresenta, evidentemente, una deroga eccezionale al principio generale di cui all’art. 9, comma 2, D.P.R. n. 380/2001 per cui il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che si sia concluso il procedimento per la adozione dello strumento urbanistico attuativo e che lo stesso sia divenuto perfetto ed efficace.
Nel caso di specie, tuttavia, neanche la perizia giurata in atti, depositata da parte ricorrente già in primo grado è idonea a dimostrare inequivocabilmente la sussistenza di tutte le condizioni sopra indicate per concretizzare la situazione del lotto intercluso.
Peraltro, anche l’accertamento della sussistenza del lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata non esclude in assoluto l'esigenza di pianificazione dell'urbanizzazione ai fini del rilascio della concessione edilizia quando permane l’esigenza di realizzare un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo e di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. V, 29.02.2012, n. 1177 e Sez. IV, 01.10.2007, n. 5043).
5. Nelle situazioni intermedie, nelle quali il territorio risulti già, più o meno intensamente, urbanizzato, come risulta agli atti nella specie, atteso che, come detto, la perizia giurata in atti non è inequivoca a dimostrare l’interclusione del lotto, la giurisprudenza amministrativa ha adottato soluzioni più rigorose, ritenendo che il piano attuativo sia strumento indispensabile per l'ordinato assetto del territorio, stante il chiaro tenore dell’art. 9, comma 2, d.P.R. n. 380/2001, che costituisce regola generale ed imperativa in materia di governo del territorio, quando lo strumento urbanistico generale prevede che la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando è concluso il relativo procedimento.
Poiché il piano attuativo non ha equivalenti non è consentito superarne l’assenza facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona. Ciò impedisce che in sede amministrativa o giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile edificare vanificando la funzione del piano attuativo.
In caso di ritardo, l’adozione e l’approvazione del piano attuativo potrà essere sollecitata dal cittadino con gli strumenti consentiti.
Tuttavia, nei casi di cui trattasi, la giurisprudenza ritiene che quando sia ravvisabile una sostanziale, anche se non completa, urbanizzazione dell’intero comprensorio a cui appartiene l'area oggetto della richiesta edilizia, la mancanza dello strumento attuativo, in se e per sé, non può essere invocata ad esclusivo fondamento del diniego di concessione edilizia.
In tal caso, l'Amministrazione dovrà condurre adeguata istruttoria al fine di valutare lo stato di urbanizzazione già presente nella zona ed evidenziare le concrete ed ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione.
Infatti solo il Comune, essendo in possesso delle informazioni concernenti l'effettiva consistenza del suo territorio, delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, dei servizi pubblici, e delle edificazioni pubbliche e private già esistenti, sarà sicuramente in grado di stabilire se e in quale misura un ulteriore eventuale carico edilizio possa armonicamente inserirsi nell'assetto del territorio già presente.
Il Comune, quindi, dovrà preventivamente esaminare, in relazione alla dimensione dell'intervento richiesto, allo stato dei luoghi, alla documentazione prodotta dall'interessato ed alle prescrizioni di zona del piano di fabbricazione, se il Piano regolatore fornisca indicazioni esaustive sulle modalità edificatorie nonché lo stato di urbanizzazione e di edificazione dell'area interessata in relazione all'adeguatezza e fruibilità delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria e di conseguenza valutare se persiste o meno la necessità di adottare il piano attuativo prima del rilascio del permesso di costruire, dando atto delle dette verifiche nelle motivazioni della propria decisione (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 03.12.2019 n. 8270 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Com’è noto, il provvedimento con cui viene ingiunta la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso.
---------------

Quanto alla censura con la quale il ricorrente deduce “Eccesso di potere per manifesta ingiustizia, irragionevolezza, difetto di motivazione per non aver preso in considerazione le conseguenze che deriverebbero dalla demolizione sulla comunità di fedeli che si riuniscono pacificamente in preghiere”, anche tale censura è infondata.
Com’è noto, difatti, il provvedimento con cui viene ingiunta la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso (Cons. Stato, Ad. plen n. 9/2017).
Pertanto è legittimo il provvedimento n. 53/2011 con il quale il Comune ha ordinato ai ricorrenti la demolizione delle opere abusive ed il ripristino dello stato dei luoghi (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 21.11.2019 n. 2918 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

TRIBUTII rifiuti da imballaggi non sono urbani.
I rifiuti da imballaggi terziari (così come quelli secondari in assenza di raccolta differenziata) rientrano nella categoria dei rifiuti speciali non assimilabili agli urbani; ne consegue che i regolamenti del comune che prevedono l'assimilazione degli imballaggi ai rifiuti ordinari devono essere disapplicati dal giudice tributario.

Sono le conclusioni che si leggono nella sentenza 14.11.2019 n. 565/2/2019 emessa dalla Sez. II della Commissione tributaria provinciale di Varese.
Il ricorso instaurato da una società di capitali della provincia di Varese, scaturiva dalla nota di esclusione con cui il comune di Somma Lombardo aveva respinto la richiesta di rideterminazione delle superfici tassabili sui rifiuti speciali previa disapplicazione, ex articolo 7, comma 5, del dlgs n. 546/1992, degli articoli 24, 25 e 37 del regolamento comunale Tari e degli articoli 23 e 24 dello stesso regolamento che prevedono l'assimilazione dei rifiuti speciali di imballaggio ai rifiuti urbani.
Tra gli altri motivi di ricorso la ricorrente palesa che l'articolo 1 comma 649 della legge n. 147/2013 afferma che «nella determinazione della superficie assoggettabile alla Tari non si tiene conto di quella parte di essa ove si formano, in via continuativa e prevalente, rifiuti speciali, al cui smaltimento sono tenuti a provvedere a proprie spese, in conformità della normativa vigente, i relativi produttori».
La norma, in sostanza esonera le imprese al pagamento della tassa sui rifiuti in quelle aree su cui si svolgono lavorazioni industriali e artigianali produttive di rifiuti speciali. Il comune di Somma Lombardo, costituendosi in giudizio, palesava che, esercitando la potestà di normazione secondaria, aveva assimilato questo tipo di rifiuti speciali agli urbani; questo non consentiva di esonerare la società dal pagamento della tassa.
La Ctp di Varese ha accolto il ricorso e stabilito che la ricorrente ha diritto alla detassazione dell'area secondo la dichiarazione (obbligatoria) presentata al comune, di esclusione delle aree in cui si producono i rifiuti speciali. Il Collegio aggiunge che gli eventuali regolamenti che prevedono l'assimilazione di detti imballaggi ai rifiuti ordinari devono essere disapplicati dal giudice tributario, così come stabilito dalla cassazione nell'ordinanza n. 11451/2018.
Accogliendo il ricorso la Commissione tributaria provinciale di Varese ha condannato il comune di Somma Lombardo al pagamento delle spese di lite.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
(…) In tema di tassa sullo smaltimento dei rifiuti solidi urbani dalla determinazione della superficie tassabile, ai sensi del dlgs 15.11.1993, n. 507, art. 62, comma 3, sono escluse le porzioni di aree dove per specifiche caratteristiche strutturali e per destinazione si formano di regola rifiuti speciali, tossici o nocivi, ivi compresi quelli derivanti da lavorazioni industriali (del dpr n. 915 del 1982, art. 2), allo smaltimento dei quali sono tenuti a provvedere a proprie spese i produttori del rifiuti stessi in base alle norme vigenti. Il comune però, esercitando la potestà di normazione secondaria di cui all'art. 68 dlgs 507/1993 cit., può disporre l'assimilazione ai rifiuti urbani del rifiuti provenienti da tali attività artigianali.
L'avvenuta assimilazione ai rifiuti urbani del rifiuti speciali (per i quali si invoca la detassazione) non permette al produttore di ottenere l'esenzione in quanto sussiste l'obbligo di affidare tale tipologia di rifiuti al servizio pubblico di raccolta. Per ottenere la non tassazione non è sufficiente che si tratti di rifiuti speciali, essendo necessario che tali rifiuti non siano assimilati a quelli urbani per delibera comunale.
Il comune avendo proceduto all'assimilazione dei rifiuti in questione ritiene fondato il proprio operato.
Deve, invece, osservarsi che gli imballaggi di cui trattasi, sono imballaggi terziari come sostenuto nel ricorso e non smentito dal comune. Tali rifiuti rientrano nella categoria dei rifiuti speciali non assimilabili (cosi come quelli secondari in assenza di raccolta differenziata).
La Cassazione con ordinanza n. 11451/2018 ha ribadito la non assimilabilità degli imballaggi terziari (e secondari in assenza di raccolta differenziata) al rifiuti urbani e che gli eventuali regolamenti che prevedono l'assimilazione di detti imballaggi ai rifiuti ordinari devono essere disapplicati dal giudice tributario.
La deroga all'imposizione non opera automaticamente, spettando al contribuente provare che una determinata parte della superficie è produttiva di rifiuti speciali non assimilabili agli urbani.
All'uopo deve essere presentata al comune dichiarazione In cui si afferma il verificarsi del presupposto per l'esenzione, come avvenuto nel caso di specie.
Ne consegue, configurandosi gli imballaggi in questioni quali rifiuti speciali non assimilabili a quelli ordinari (urbani) e avendo la ricorrente provveduto a dichiarare al comune quanto dovuto, che il ricorrente ha diritto alla detassazione delle superfici produttive di rifiuti speciali in questione. (…) (articolo ItaliaOggi Sette del 17.02.2020).

EDILIZIA PRIVATAE' pacifico che l’onere della prova circa il tempo della realizzazione del manufatto deve essere dato dal privato, mentre incombe sull’amministrazione solo l’onere di sanzionare l’opera non assistita da titolo edilizio.
Orientamento ribadito, anche recentemente, dalla giurisprudenza che ritiene che «l’amministrazione non è tenuta a dare indicazioni in ordine all’epoca di realizzazione dell’illecito, non rientrando tale verifica tra i contenuti dell’ordinanza di demolizione avente ad oggetto l’accertamento dell’abuso esistente. L’esistenza nell’attualità sul territorio comunale dell’opera abusiva rende l’illecito connotato da caratteri di permanenza, con la conseguenza che l’ente locale può ordinarne la demolizione sulla base della riscontrata assenza del titolo abilitativo».
Peraltro il regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è, dunque, in conformità al principio del tempus regit actum, quello vigente al momento della sanzione, non già quello in vigore all'epoca di realizzazione dell'abuso, e la natura della sanzione demolitoria, finalizzata a riportare in pristino la situazione esistente e ad eliminare opere abusive in contrasto con l'ordinato assetto del territorio, impedisce di ascrivere la stessa al genus delle pene afflittive, cui propriamente si attaglia il divieto di retroattività.
---------------
Per costante orientamento giurisprudenziale, l’ingiunzione di demolizione gravata non può ritenersi carente di motivazione, poiché si caratterizza come atto dovuto, in presenza della constatata realizzazione dei manufatti edilizi senza titolo abilitativo.
È pacifico che non è richiesta una particolare motivazione volta ad evidenziare le specifiche ragioni di pubblico interesse che impongono di darle corso. La repressione degli abusi edilizi si connota, infatti, come un preciso obbligo dell'Amministrazione, che non gode di alcuna discrezionalità al riguardo.
---------------

6.2) Anche il secondo motivo di censura è infondato.
I ricorrenti lamentano il difetto di istruttoria e di motivazione sull’assunto che nell’atto si fa riferimento a diversi passaggi di proprietà, avvenuti prima dell’entrata in vigore della legge n. 47/1985, che ha introdotto l’illecito urbanistico della lottizzazione abusiva, e non si evincerebbe se la specifica contestazione nei confronti dei ricorrenti sia da ascrivere ad un epoca antecedente all’entrata in vigore della l. n. 47/1985 o all’entrata in vigore del decreto dell’assessorato territorio ed ambiente n. 83 del 14.03.1984 istitutivo della riserva naturale “Oasi del Simeto”.
Tale censura è priva di qualunque pregio sia in diritto che in fatto.
Preliminarmente si osserva che è pacifico che l’onere della prova circa il tempo della realizzazione del manufatto deve essere dato dal privato, mentre incombe sull’amministrazione solo l’onere di sanzionare l’opera non assistita da titolo edilizio. Orientamento ribadito, anche recentemente, dalla giurisprudenza che ritiene che «l’amministrazione non è tenuta a dare indicazioni in ordine all’epoca di realizzazione dell’illecito, non rientrando tale verifica tra i contenuti dell’ordinanza di demolizione avente ad oggetto l’accertamento dell’abuso esistente. L’esistenza nell’attualità sul territorio comunale dell’opera abusiva rende l’illecito connotato da caratteri di permanenza, con la conseguenza che l’ente locale può ordinarne la demolizione sulla base della riscontrata assenza del titolo abilitativo» (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 06.02.2019, n. 903).
Peraltro il regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è, dunque, in conformità al principio del tempus regit actum, quello vigente al momento della sanzione, non già quello in vigore all'epoca di realizzazione dell'abuso, e la natura della sanzione demolitoria, finalizzata a riportare in pristino la situazione esistente e ad eliminare opere abusive in contrasto con l'ordinato assetto del territorio, impedisce di ascrivere la stessa al genus delle pene afflittive, cui propriamente si attaglia il divieto di retroattività (Cons. Stato, sez. II, 12.09.2019, n. 6147; sez. VI, 21.03.2019, n. 1892; Cons Stato sez. IV, 24.11.2016, n. 4943).
Questi concetti sono stati ribaditi anche da questo Consiglio, nel parere n. 131 del 24.09.2019.
In fatto, comunque, non può dubitarsi della collocazione temporale delle opere abusive di cui è stata ingiunta la demolizione, con l’ordinanza che ha dato origine al ricorso in esame.
Innanzitutto si rileva che, dalla documentazione versata in atti (cfr. nota prot. n. 55848 del 16.02.2016 della direzione urbanistica gestione del territorio, servizio condono edilizio ed antiabusivismo) e, in particolare, dal rilievo effettuato nel maggio 2002, non risultano sul terreno acquistato dal Sig. Ve., le opere oggetto dell’ordinanza impugnata. È di palmare evidenza, dunque, che esse sono state realizzate in epoca successiva.
Inoltre, in maniera inconfutabile risulta che il Sig. Ep.Ve., con scrittura privata del 15.05.2004, ha acquistato dalla Sig.ra An.Fi. il terreno sul quale sono state costruite le opere abusive.
Nel verbale della Polizia Municipale, trasmesso alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catania, con prot. n. 4808 del 22.09.2005, risulta testualmente che in data 07.05.2004, il Sig. Ep.Ve., «quale presunto proprietario in virtù della succitata scrittura» ha presentato istanza alla Provincia Regionale di Catania ottenendo «il nulla osta n. 17406 per la recinzione di un lotto di terreno per la collocazione di 2 cancelli di ingresso e per la realizzazione di un muro divisorio dello stesso lotto censito in catasto al foglio 56 particella 1761 per il rilascio del nullo osta privata domanda alla provincia di Catania in data 11.06.2004 la VII direzione-servizio autorizzazioni edilizie, del Comune di Catania rilascia autorizzazione n. 319/04 al presunto proprietario, Sig. Ve.Ep., per eseguire i lavori per cui è stato rilasciato il nulla osta di cui sopra».
Quanto alla censura della carenza di motivazione e «il richiamo a precedenti ordinanze non notificate ai ricorrenti» che avrebbero loro impedito «di esplicitare le difese», si osserva che, contrariamente a quanto affermato nel ricorso, la precedente ordinanza n. 7/076 del 15.10.2007, risulta ritualmente notificata ad entrambi i ricorrenti, a mani della sig.ra Pa.Co., moglie del Sig. Ve., il 22.10.2007.
Nella citata ordinanza n. 7/076 del 15.10.2007 viene richiamato l’analitico verbale del Comando dei Vigili Urbani n. 4808 del 22.09.2005, in cui sono ricostruite cronologicamente i fatti relativi alle opere in contestazione, ivi incluse le vicende attinenti alla lottizzazione ed ai successivi procedimenti. L’ordinanza riporta chiaramente i presupposti giuridici sottesi alla sua emissione, ovvero che le opere sono state realizzate, senza concessione edificatoria, in area di riserva, sottoposta a vincolo e tutelata ai sensi dell’art. 142 del d.lgs. 22.01.2014, n. 42.
Emerge con evidente nitore, quindi, che l’ordinanza impugnata con il ricorso in oggetto contiene sia i presupposti di fatto che le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione in relazione all’istruttoria, così come previsto dall’art. 3 della l. n. 241/1990.
Il dirigente, infatti, nell’ordinanza n. 349/Urb del 14.04.2015, richiama il precedente provvedimento sanzionatorio n. 7/076 del 13.10.2017, riporta la descrizione delle opere abusive consistenti in «una casa terrana in muratura con tetto in pannelli termocoibentati di mq. 40 circa, una platea in cls di mq. 70 circa con soprastante roulette e la recinzione di un lotto», ed, oltre citare le norme violate, indica esplicitamente che «le opere abusive sono state eseguite su aree vincolate da leggi regionali vigenti a riserva naturale “Oasi del Simeto” per effetto del decreto dell’assessorato Territorio ed Ambiente n. 85 del 14.03.1984 e quindi tutelate ai sensi dell’art. 142 del d.lgs. del 22.01.2004 n. 42.».
A questo punto, anche per costante orientamento giurisprudenziale, l’ingiunzione di demolizione gravata non può ritenersi carente di motivazione, poiché si caratterizza come atto dovuto, in presenza della constatata realizzazione dei manufatti edilizi senza titolo abilitativo. È pacifico che non è richiesta una particolare motivazione volta ad evidenziare le specifiche ragioni di pubblico interesse che impongono di darle corso. La repressione degli abusi edilizi si connota, infatti, come un preciso obbligo dell'Amministrazione, che non gode di alcuna discrezionalità al riguardo (ex multis cfr. Cons. Stato, sez. VI, 10.12.2018, n. 6955) (CGARS, parere 10.10.2019 n. 173 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAPèer pacifico orientamento giurisprudenziale, si ritiene che un manufatto, per essere considerato pertinenza, non solo deve essere preordinato ad una oggettiva accessorietà dell’edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma deve anche essere sfornito di un autonomo valore di mercato e dotato comunque di un volume modesto rispetto all’edificio principale, in modo da evitare un eccessivo carico urbanistico.
---------------

6.3) Anche il terzo motivo è infondato.
L’Ufficio legislativo e legale, correttamente ed esaustivamente riferisce, nella relazione indicata in epigrafe, che le opere realizzate dai ricorrenti in area di riserva, sottoposta a vincolo, non hanno le caratteristiche per essere considerate pertinenze, e, comunque, non ogni intervento pertinenziale è esonerato dal permesso di costruire.
Occorre premettere, infatti, che è incontestato che le opere abusive in parola ricadono in area soggetta al vincolo di inedificabilità, perimetrata come area di protezione della riserva (preriserva), zona “B”.
Con decreto dell’assessorato del territorio e dell’ambiente di «modifica della perimetrazione e approvazione del regolamento della riserva naturale “Oasi del Simeto”» (Gazzetta Ufficiale Regione Siciliana n. 59 del 17.12.1999), all’art. 3, vengono disciplinate le attività consentite nell’area di protezione della riserva, con la specificazione che «le nuove costruzioni devono avere esclusiva destinazione d’uso alla fruizione e alle attività della gestione della riserva» e che tutte le opere sono soggette al nulla osta dell’assessorato, previo parere del consiglio regionale protezione patrimonio naturale.
Viene precisato, altresì, che sono consentiti interventi solo sugli immobili esistenti, limitatamente a quelli previsti «alle lettere a), b), c), d) dell’art. 20 della legge regionale n. 71/1978. Gli interventi di cui alla lettera d) sono consentiti esclusivamente per le finalità di gestione e fruizione della riserva, previo nulla osta dell’assessorato sentito il parere del C.P.P.P.N. (consiglio regionale protezione patrimonio naturale)».
Per queste ragioni le opere realizzate dalla Sig.ra Co. all’interno dell’area di preriserva non rientrano tra quelle consentite, anche perché i ricorrenti, sui quali incombeva l’onere, non hanno dato prova, della loro destinazione alla gestione e fruizione della riserva. Anzi affermano il contrario, ovvero che «l’immobile costituisce una piccola pertinenza del terreno circostante e costituisce un riparo per i mezzi di proprietà dei ricorrenti».
I ricorrenti pretenderebbero, quindi, di far derivare l’illegittimità dell’ordinanza impugnata dalla violazione dell’art. 5 della l.r. n. 37/1985.
In premessa si osserva che l’articolo testé citato disciplina quali sono le opere soggette ad autorizzazione e non a concessione, e che, comunque, i manufatti realizzati dai ricorrenti risultano sforniti anche dell’autorizzazione prevista dall’invocato art. 5 della l.r. n. 37/1985.
È evidente che il presupposto perché un manufatto possa essere considerato pertinenza è dato dalla relazione con altro immobile principale, al quale deve essere funzionalmente legato, senza incidere sul carico urbanistico.
I ricorrenti, per pacifica ammissione, invece, hanno realizzato un immobile destinato «a riparo per mezzi di proprietà», che, da un lato, si caratterizza come “autonomo” perché non connesso con altro manufatto principale, dall’altro, per le consistenti dimensioni (40 mq. + una platea in calcestruzzo di circa 70 mq. con sovrastante roulotte) determina un evidente carico urbanistico, che ai sensi della legge n. 37/1985, -ove mai fosse stato possibile costruire in zona di preriserva- abbisognava di permesso di costruire.
Per completezza è utile ribadire che, per pacifico orientamento giurisprudenziale, anche di questo Consiglio, si ritiene che un manufatto, per essere considerato pertinenza, non solo deve essere preordinato ad una oggettiva accessorietà dell’edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma deve anche essere sfornito di un autonomo valore di mercato e dotato comunque di un volume modesto rispetto all’edificio principale, in modo da evitare un eccessivo carico urbanistico (cfr. Cgars, sez. riun., 08.05.2012, n. 241).
Si aggiunga che nemmeno la contestata recinzione (con mattoni in cemento, rete metallica, cancelli carrabili in ferro) può farsi rientrare tra le pertinenze di cui all’art. 5 della legge regionale n. 37/1985, come invece pretenderebbero i ricorrenti. Infatti, il citato decreto dell’assessorato del territorio e dell’ambiente di «modifica della perimetrazione e approvazione del regolamento della riserva naturale Oasi del Simeto..» (G.U.R.S. n. 59 del 17.12.1999), all’art. 3, detta una disciplina specifica che prevede la possibilità di «recintare la proprietà esclusivamente con siepi a verde e/o materiali naturali secondo l’uso locale e con l’impianto di specie autoctone.».
Anche con riferimento alla roulotte si precisa che il citato decreto ne prevede il divieto espresso di collocazione nelle zone “A”, mentre, per le zone “B” vale il principio generale che le attività consentite sono solo quelle dirette alla fruizione ed alla gestione della riserva.
Alla luce delle superiori considerazioni il ricorso non è, pertanto, meritevole di accoglimento (CGARS, parere 10.10.2019 n. 173 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ordinanza di demolizione costituisce un atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell'opera edilizia senza titolo abilitativo od in totale difformità da esso.
Essa è sufficientemente motivata con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera e non richiede una particolare motivazione volta ad evidenziare le specifiche ragioni di pubblico interesse che impongono di darle corso (ch’è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi), nemmeno nei casi in cui la reazione dell'Ente preposto alla vigilanza intervenga a notevole distanza di tempo, in quanto la repressione degli abusi edilizi si connota come un preciso obbligo dell'Amministrazione, che non gode di alcuna discrezionalità al riguardo.
E’ infatti ormai stato definitivamente chiarito (Cons. Stato, Adunanza plenaria n. 9 del 2017) che non può aver rilievo, ai fini della validità del provvedimento di demolizione, il tempo trascorso tra la commissione dell’abuso e la adozione del provvedimento sanzionatorio.
Ed invero “la mera inerzia da parte dell'amministrazione nell'esercizio di un potere-dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l'edificazione sine titulo) è sin dall'origine illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere 'legittimo' in capo al proprietario dell'abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un'aspettativa giuridicamente qualificata. Non si può applicare a un fatto illecito (l'abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell'interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell'autotutela decisoria.
Non è in alcun modo concepibile l'idea stessa di connettere al decorso del tempo e all'inerzia dell'amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare l'abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l'edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta -e inammissibile- forma di sanatoria automatica. Se pertanto il decorso del tempo non può incidere sull'ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l'illecito attraverso l'adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata.
In tal caso, è del tutto congruo che l'ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell'intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell'autotutela decisoria. Il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell'interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell'intervento: l'eventuale connivenza degli amministratori locali pro tempore o anche la mancata conoscenza dell'avvenuta commissione di abusi non fa venire meno il dovere dell'Amministrazione di emanare senza indugio gli atti previsti a salvaguardia del territorio".
---------------

La prima doglianza, relativa alla presunta inadeguatezza della motivazione dell'ordinanza impugnata, è priva di pregio in quanto, secondo costante orientamento giurisprudenziale, l'ingiunzione di demolizione costituisce un atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell'opera edilizia senza titolo abilitativo od in totale difformità da esso.
Essa è sufficientemente motivata con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera e non richiede una particolare motivazione volta ad evidenziare le specifiche ragioni di pubblico interesse che impongono di darle corso (ch’è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi), nemmeno nei casi in cui la reazione dell'Ente preposto alla vigilanza intervenga a notevole distanza di tempo, in quanto la repressione degli abusi edilizi si connota come un preciso obbligo dell'Amministrazione, che non gode di alcuna discrezionalità al riguardo (cfr., ex pluris, CGA, sez. riunite n. 220/2017, adunanza 12.12.2017, pubblicata al n. 81/2018 in data 22/02/2018; CGA sez. riunite n. 1045/2015, adunanza del 15.11.2016, pubblicato al n. 33/17 in data 23/01/2017; CGA sez. riunite n. 561/2015, adunanza del 03.05.2016, pubblicato al n. 818/16 in data 07/07/2016).
E’ infatti ormai stato definitivamente chiarito (Cons. Stato, Adunanza plenaria n. 9 del 2017) che non può aver rilievo, ai fini della validità del provvedimento di demolizione, il tempo trascorso tra la commissione dell’abuso e la adozione del provvedimento sanzionatorio.
Ed invero “la mera inerzia da parte dell'amministrazione nell'esercizio di un potere-dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l'edificazione sine titulo) è sin dall'origine illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere 'legittimo' in capo al proprietario dell'abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un'aspettativa giuridicamente qualificata. Non si può applicare a un fatto illecito (l'abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell'interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell'autotutela decisoria.
Non è in alcun modo concepibile l'idea stessa di connettere al decorso del tempo e all'inerzia dell'amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare l'abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l'edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta -e inammissibile- forma di sanatoria automatica. Se pertanto il decorso del tempo non può incidere sull'ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l'illecito attraverso l'adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata.
In tal caso, è del tutto congruo che l'ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell'intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell'autotutela decisoria. Il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell'interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell'intervento: l'eventuale connivenza degli amministratori locali pro tempore o anche la mancata conoscenza dell'avvenuta commissione di abusi non fa venire meno il dovere dell'Amministrazione di emanare senza indugio gli atti previsti a salvaguardia del territorio
".
Nella fattispecie, peraltro, l'ordinanza impugnata è esente dai vizi dedotti, in quanto reca la compiuta descrizione delle opere abusive con riferimento puntuale alla comunicazione di opere abusive prot. n. 7858 del 02.12.2013 del Corpo di Polizia municipale, la constatazione della loro esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio e l'individuazione della norma applicata, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento; il che vale a rendere coerente, legittimo e vincolato il provvedimento con il quale il Comune ha disposto la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi, a tanto bastando il solo carattere abusivo delle opere, a prescindere dall’individuazione delle norme urbanistiche e di vincolo che siano state con la loro esecuzione violate (CGARS, parere 13.03.2019 n. 58 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, la nozione di "pertinenza urbanistica" è meno ampia di quella civilistica e va definita sia in relazione alle necessità ed oggettività del rapporto pertinenziale, sia in base alla consistenza dell'opera, che deve essere tale da non alterare in modo significativo l'assetto del territorio e che, in ogni caso, deve inquadrarsi nei limiti di un rapporto adeguato e non esorbitante rispetto alla esigenza di un uso effettivo e normale del soggetto che risiede nell'edificio principale (legittimamente edificato).
Ciò significa che il manufatto "pertinenziale" deve essere non solo preordinato ad una oggettiva accessorietà rispetto all'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma deve anche essere sfornito di un autonomo valore di mercato e dotato comunque di un volume modesto rispetto all'edificio principale, in modo da evitare un eccessivo ed ingiustificato carico urbanistico.
Con particolare riferimento alle tettoie, poi, la giurisprudenza amministrativa ha evidenziato che quando la tettoia sia di consistenza oggettivamente notevole e, quindi, in grado, ex se, di alterare in modo significativo l'assetto del territorio, allora essa si sottrae per ciò stesso ad una definizione in termini di pertinenza e richiede, piuttosto, il rilascio di un apposito ed adeguato titolo concessorio, anche se dovesse trovarsi in rapporto con altro bene (cd. principale) e quantunque sia in potenza smontabile.
---------------

Con il terzo motivo di ricorso, i ricorrenti, sia con riferimento alle suddette tettoie precarie, sia con riferimento alle tettoie di mq. 15 e di mq. 17, adiacenti alle stalle ed al piccolo locale in muratura adibito a ripostiglio di mq. 5, sostengono che trattasi di opere aventi natura pertinenziale, per le quali non è necessario il rilascio di titoli edilizi.
Entrambe le censure, che possono formare oggetto di unitaria trattazione, sono da ritenere inconsistenti, in quanto dal provvedimento impugnato risulta che le opere sanzionate sono state realizzate in un'area sottoposta a vincolo sismico ed aeronautico in altezza.
Invero, dette opere non rientrano nella tipologia delle opere che l’invocato art. 20 L.R. n. 4/2003 esonera da concessione ed autorizzazione: la prima, in quanto eccedente il limite massimo di superficie stabilito dal comma 1 del citato art. 20; entrambe in quanto realizzate su aree soggette a vincolo sismico ed aeronautico senza l’acquisizione preventiva del nulla-osta prevista dallo stesso comma 1 (invero, espressamente, con riferimento al solo nulla-osta della Soprintendenza dei beni culturali ed ambientali, ma con previsione che non può che intendersi riferita a qualsiasi vincolo ed all’Autorità di volta in volta competente per la tutela dello stesso).
Peraltro, i ricorrenti non dimostrano, con riferimento alle invocate avvenute attenuazioni dei vincoli aeroportuali in alcune zone del territorio comunale, né che gli immobili abusivi di cui si tratta rientrino in dette zone, né ch’essi abbiano effettivamente un’altezza inferiore a quella massima ( 11 metri ) per le zone stesse prevista.
L'adozione della sanzione demolitoria è quindi da considerarsi legittima, trattandosi di opere che, indipendentemente dal regime edilizio cui soggiacciono, sono state realizzate in area vincolata in assenza del prescritto nulla osta del Genio civile (cfr. CGARS sez. riunite, 02.02.2016, n. 194/2015, pubblicato col n. 251/16 in data 02/03/2016).
Nel caso di specie, comunque, le opere abusivamente realizzate non hanno affatto caratteristiche tali da poter essere ricondotte nel novero delle opere pertinenziali e non sono possono affatto esser ricomprese tra quelle che la normativa richiamata dai ricorrenti esclude dalla soggezione al regime concessorio.
Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, la nozione di "pertinenza urbanistica" è meno ampia di quella civilistica e va definita sia in relazione alle necessità ed oggettività del rapporto pertinenziale, sia in base alla consistenza dell'opera, che deve essere tale da non alterare in modo significativo l'assetto del territorio e che, in ogni caso, deve inquadrarsi nei limiti di un rapporto adeguato e non esorbitante rispetto alla esigenza di un uso effettivo e normale del soggetto che risiede nell'edificio principale (legittimamente edificato).
Ciò significa che il manufatto "pertinenziale" deve essere non solo preordinato ad una oggettiva accessorietà rispetto all'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma deve anche essere sfornito di un autonomo valore di mercato e dotato comunque di un volume modesto rispetto all'edificio principale, in modo da evitare un eccessivo ed ingiustificato carico urbanistico (cfr. CGARS sez. riunite, 18.10.2016, n. 475/2015, pubblicato col n. 1251/16 in data 15/12/2016).
Con particolare riferimento alle tettoie, poi, la giurisprudenza amministrativa ha evidenziato che quando la tettoia sia di consistenza oggettivamente notevole e, quindi, in grado, ex se, di alterare in modo significativo l'assetto del territorio, allora essa si sottrae per ciò stesso ad una definizione in termini di pertinenza e richiede, piuttosto, il rilascio di un apposito ed adeguato titolo concessorio, anche se dovesse trovarsi in rapporto con altro bene (cd. principale) e quantunque sia in potenza smontabile.
Nel caso di specie, le due tettoie abusive in contestazione adibite, rispettivamente, a fienile (mq. 60) ed a parcheggio (mq. 30), sicuramente, non hanno dimensioni modeste e nemmeno possono essere considerate opere "precarie", in quanto esse, sebbene così siano definite nell'ordinanza impugnata, sono fissate al suolo; né i ricorrenti forniscono, ai sensi dell’art. 2697 c.c., alcun principio di prova circa la loro agevole rimovibilità.
Le suddette tettoie, infine, neppure rientrano -per dimensioni (quella adibita a fienile) e per caratteristiche costruttive- nella tipologia di "opere interne" di cui all'art. 20 della l.r. n. 4/2003, giacché obiettivamente non destinate alla soddisfazione di esigenze temporanee e contingenti, ma volte a fornire un'utilità indefinitamente prolungata nel tempo (cfr. CGARS, sez. riunite, n. 595/2013, adunanza del 12.11.2013, pubblicato col n. 1548/13 in data 18712/2013).
Sono parimenti da ritenere assoggettate al regime concessorio anche le altre opere abusive a cui espressamente si fa riferimento nel terzo motivo di ricorso e cioè le due tettoie di mq. 15 e di mq. 17, adiacenti alle stalle abusive ed il piccolo locale in muratura adibito a ripostiglio di mq. 5.
Per quanto riguarda le prime, si osserva che esse sarebbero al più "pertinenza" non già del preesistente fabbricato che insiste nello stesso lotto di terreno e per cui è pendente istanza di condono (circostanza, questa, a cui fa riferimento l'Amministrazione nelle sue memorie difensive e su cui replicano i ricorrenti con la memoria depositata il 25.05.2018), ma delle stalle, alle quali sono adiacenti, che, tuttavia, non sono state legittimamente edificate.
A tal riguardo i ricorrenti nulla obiettano circa la natura abusiva delle stalle stesse, per cui, anche se le tettoie sanzionate avessero natura pertinenziale, esse ripeterebbero le caratteristiche di illegittimità delle opere cui sono connesse e costituirebbero, dunque, abusiva prosecuzione delle stesse (Cass. Penale, Sez. II, 03.02.2011, n. 3885; CGARS, sez riunite, 17.06.2014, n. 1126/2013, pubblicato col n. 827/14 in data 07/08/2014).
Con riferimento, poi, al piccolo locale in muratura adibito a ripostiglio di mq 5, si osserva che la sanzione demolitoria appare legittimamente disposta anche con riferimento al ripostiglio, in quanto, come sopra già rilevato, l'opera, indipendentemente dal regime edilizio cui soggiace, è stata realizzata in zona soggetta a vincolo aeronautico (di cui non viene provata l’affermata sua non applicabilità alla fattispecie) e sismico, con conseguente necessità, ai fini della sua regolare realizzazione, del permesso di costruire da rilasciarsi previo parere favorevole delle autorità preposte alla tutela dei vincoli medesimi (CGARS, parere 13.03.2019 n. 58 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nei procedimenti preordinati all'emanazione di ordinanze di demolizione di opere edilizie abusive non trova applicazione l'obbligo di comunicare l'avvio dell'iter procedimentale, in ragione del carattere dovuto e rigorosamente vincolato del potere repressivo esercitato; e ciò anche alla luce delle previsioni dell'art. 21-octies della legge n. 241/1990.
---------------

Non appaiono fondate, infine, le censure dedotte con il quarto motivo di ricorso, con cui viene denunciata l'omissione, nei confronti dei ricorrenti, della comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio di cui trattasi.
Come più volte chiarito da questo Consiglio, nei procedimenti preordinati all'emanazione di ordinanze di demolizione di opere edilizie abusive non trova applicazione l'obbligo di comunicare l'avvio dell'iter procedimentale, in ragione del carattere dovuto e rigorosamente vincolato del potere repressivo esercitato; e ciò anche alla luce delle previsioni dell'art. 21-octies della legge n. 241/1990 (cfr., ex multis, CGA, sez. riunite, n. 33/2017, adunanza del 23.01.2017, pubblicato al n. 411/2017 in data 17/05/2017; CGA sez. riunite n. 78/2017, adunanza del 09.05.2017, pubblicato al n. 685/2017 in data 07/07/2017; CGA sez. riunite, n. 60/2017, adunanza del 12.09.2017, pubblicato al n. 800/2017 in data 25/09/2017).
Nel caso di specie il Comune ha sufficientemente dimostrato (come ben si evince del resto dal dictum reiettivo di questo Collegio sui restanti motivi di ricorso) che la partecipazione dei privati al procedimento apertosi con la comunicazione del Corpo di Polizia Municipale n. 7858 del 02.12.2013 (confermata nei suoi esiti dalla successiva comunicazione dello stesso Corpo prot. n. 3241 del 30/05/2017 relativa ad un sopralluogo effettuato in loco in data 13/4/2017 alla presenza della comproprietaria e committente Iz.Vi.) non avrebbe potuto portare ad un contenuto diverso del provvedimento stesso.
Peraltro, la presenza della odierna ricorrente sig.ra Vi.Iz. in occasione dei predetti accertamenti (v. nota comunale n. 3241/PM del 30.05.2017, in atti) è certamente valsa a consentire perlomeno ad uno di proprietari, con onere per lo stesso di informare i restanti proprietari, di cogliere la portata dell’accertamento in corso e le sue possibili conseguenze, con conseguente possibilità di attivarsi in via amministrativa per evitarle ove possibile.
Anche alla luce del totale disinteresse così manifestato dai responsabili dell’abuso circa le sue possibili conseguenze, il Comune, accertata l'abusiva realizzazione delle opere, non poteva non diffidare i ricorrenti a demolire le opere ed a ripristinare lo stato dei luoghi; ciò con il provvedimento demolitorio e ripristinatorio all’esame, emesso per sanzionare esclusivamente violazioni urbanistiche e che risulta, come già sottolineato, adeguatamente motivato a mezzo dell'affermazione della realizzazione di opere in assenza di titolo, con contestuale richiamo alla normativa violata (“opere … realizzate in assenza di concessione edilizia” con conseguente applicazione della previsione di cui all’art. 31 del D.P.R. 380/2001), non occorrendo alcuna specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di queste ultime con gli interessi privati coinvolti e sacrificati (CGARS, parere 13.03.2019 n. 58 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICALe società a cui medio tempore sono stati rilasciati i titoli edilizi per la realizzazione delle suddette opere di urbanizzazione sono subentrate negli obblighi assunti dagli originari lottizzanti: si tratta infatti di obbligazioni propter rem, cioè di obblighi che devono essere adempiuti non solo da colui che la convenzione ha stipulato, ma anche da colui, se soggetto diverso, che richiede il titolo edilizio.
---------------

Quando il dato letterale della convenzione è tale da far gravare su tutti i lottizzanti l’obbligo di eseguire le opere di urbanizzazione, gli stessi lottizzanti devono ritenersi obbligati in solido, ai sensi dell’art. 1294 cod. civ..
Si tratta, del resto, di un caso di identità qualitativa delle prestazioni (eadem res debita), perché relative ad opere di urbanizzazione da realizzare complessivamente in quel comparto, e non v’è quindi motivo per escludere il vincolo di solidarietà tra i vari soggetti, e relativi aventi causa, che hanno assunto l’obbligo di eseguirle.
---------------

2) Il ricorso è fondato e va accolto, nei termini di seguito indicati.
2.1 La convenzione rep. 15859 sottoscritta in data 21.07.2004, ad integrazione e modifica dell’originaria convenzione del 10.03.1993, prevedeva una serie di opere di urbanizzazione da realizzare a carico dei lottizzanti.
Le società a cui medio tempore sono stati rilasciati i titoli edilizi per la realizzazione delle suddette opere di urbanizzazione (cioè CO. s.r.l., RB.Im. s.r.l., Ve.2000 s.r.l. e Ai. 2005 s.r.l.) sono subentrate negli obblighi assunti dagli originari lottizzanti: si tratta infatti di obbligazioni propter rem, cioè di obblighi che devono essere adempiuti non solo da colui che la convenzione ha stipulato, ma anche da colui, se soggetto diverso, che richiede il titolo edilizio (si veda, tra le altre, Cassazione civile, sez. III, 20.08.2015 n. 16999).
2.2 Rispetto al profilo della solidarietà o meno dell’obbligazione, il Collegio osserva quanto segue.
Il Comune ricorrente ha rilasciato in favore delle società resistenti (o loro danti causa) sia i titoli edilizi relativi alle opere di urbanizzazione e alla piazza (cfr. docc. da n. 13 a n. 17-quinquies del Comune ricorrente) sia i titoli per la costruzione degli edifici destinati alla residenza e al commercio di vicinato (cfr. docc. da n. 23 a n. 29 del Comune ricorrente).
Con nota del 21.02.2014, rilevando gravi inadempienze, l’Amministrazione ha chiesto a tutti i soggetti sopra citati di provvedere al completamento delle opere di urbanizzazione, richiamando anche l’art. 4, punto D), della convenzione del 21.07.2004.
Con successiva nota di diffida, dell'08.09.2014, l’Amministrazione ha ingiunto, ai sensi degli artt. 1219, 1957 e 2943 c.c., ai 4 operatori, di eseguire a regola d’arte tutte le opere di urbanizzazione primaria previste nella Convenzione del 2004, con l’avvertimento che avrebbe proceduto all’escussione delle fideiussioni e ad adire l’autorità giudiziaria al fine di ottenere l’adempimento delle obbligazioni assunte dai lottizzanti.
Il Collegio condivide la tesi dell’Amministrazione ricorrente secondo cui gli operatori privati sarebbero debitori in solido tra loro.
Va in primo luogo evidenziato che le obbligazioni previste nelle convenzioni urbanistiche sono, per loro natura, idonee a vincolare non solo coloro che sono proprietari al momento della sottoscrizione della convenzione, ma anche i successivi aventi causa dello stipulante.
Pertanto tutti i convenuti sono subentrati agli originari sottoscrittori e sono obbligati in via solidale.
Nella convenzione originaria e nelle successive convenzioni di modifica l’obbligo di realizzare le opere di urbanizzazione è configurato come una obbligazione solidale: negli artt. 4 e 5 della convenzione del 1993 “i lottizzanti si impegnano” alla realizzazione delle opere specificamente indicate; nella successiva convenzione del 2004 (doc. n. 8 del Comune), sia all’art. 4 sia il successivo art. 5, nel ribadire i diversi obblighi di cessione delle aree e di realizzazione delle opere di urbanizzazione, si parla di “soggetti attuatori”, senza alcuna distinzione tra i lottizzanti delle opere da realizzare.
Questa Sezione ha già avuto occasione di rilevare che, quando il dato letterale della convenzione è tale da far gravare su tutti i lottizzanti l’obbligo di eseguire le opere di urbanizzazione, gli stessi lottizzanti devono ritenersi obbligati in solido, ai sensi dell’art. 1294 cod. civ. (v. sent. n. 1816 del 14.09.2017).
Si tratta, del resto, di un caso di identità qualitativa delle prestazioni (eadem res debita), perché relative ad opere di urbanizzazione da realizzare complessivamente in quel comparto, e non v’è quindi motivo per escludere il vincolo di solidarietà tra i vari soggetti, e relativi aventi causa, che hanno assunto l’obbligo di eseguirle (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 13.02.2019 n. 312 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAIl contributo concessorio (comprendente oneri di urbanizzazione e costo di costruzione) è un’obbligazione giuridica di tipo pubblicistico che sorge con il rilascio della concessione edilizia ed è qualificabile come corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici arrecati al nuovo manufatto.
---------------
L'art. 17, comma 3, lett. b), dpr 380/2001
riprende sostanzialmente il contenuto dell’art. 9, comma 1, della L. 28/01/1977 n. 10, “in relazione al quale la giurisprudenza aveva avuto modo di chiarire che il carattere di unifamiliarità di un fabbricato a destinazione abitativa è ricavabile dalle caratteristiche architettoniche dell’edificio, in ragione del volume, della superficie, del numero e della funzione e caratteristica dei vani, in rapporto alle esigenze ed alla possibilità di utilizzo da parte di un unico nucleo familiare”.
E’ stato tuttavia nello specifico osservato che l'esenzione dal pagamento dei contributi di cui si discute ha la funzione di agevolare i proprietari di alloggi unifamiliari, presumendo il legislatore che gli interventi sugli stessi non abbiano carattere di lucro, ma la sola funzione di migliorare le condizioni di abitabilità degli edifici medesimi, indipendentemente dalla loro dimensione.
La disposizione è diretta dunque a promuovere le opere di adeguamento dei manufatti alle necessità abitative del singolo nucleo familiare, circoscrivendone l’operatività agli interventi che non mutino sostanzialmente l’entità strutturale e la dimensione spaziale dell’immobile e non ne elevino (in modo apprezzabile) il valore economico.

---------------
I
n linea generale, la partecipazione del privato al costo delle opere di urbanizzazione è dovuta allorquando l’intervento determini un incremento del peso insediativo con un’oggettiva rivalutazione dell’immobile, sicché l'onerosità del permesso di costruire è funzionale a sopportare il carico socio-economico che la realizzazione comporta sotto il profilo urbanistico.
Alla luce di tale considerazione, la giurisprudenza ha statuito che l’esenzione dal contributo di costruzione per il caso di interventi di ristrutturazione di edifici unifamiliari entro il limite di ampliamento del 20%, costituisce oggetto di una previsione di carattere eccezionale (applicabile in un ambito di stretta interpretazione ancorato ai parametri predefiniti dal legislatore): la ratio è di natura sociale ed è diretta sostanzialmente ad apprestare uno strumento di tutela e di salvaguardia alla piccola proprietà immobiliare per gli interventi funzionali all’adeguamento dell’immobile alle necessità abitative del nucleo familiare: l’edificio unifamiliare, nell’accezione socio economica assunta dalla norma, coincide in altri termini con la piccola proprietà immobiliare, e soltanto se presenti tali caratteri è meritevole di un trattamento differenziato.
Il Collegio ritiene di aderire a tale orientamento.
Anche secondo questo, l’esenzione in esame si giustifica come aiuto alla famiglia che, banalmente, necessiti di ulteriore spazio per la propria decorosa sistemazione abitativa. La giurisprudenza recente ha parimenti sostenuto che “la ratio che ispira la specifica esenzione ha un fondamento sociale, con l’effetto che la nozione di edificio unifamiliare non deve avere una accezione strutturale ma socio-economica, coincidendo con la piccola proprietà immobiliare, meritevole per gli interventi di ristrutturazione dell’abitazione di un trattamento differenziato rispetto alle altre tipologie edilizie …” (e in quel caso si è stabilito che la suddetta esenzione non può trovare applicazione in una fattispecie relativa a una villa di 19 vani con una superficie di 638,41 mq.).
Accedendo a tale approccio interpretativo, anche il TAR Campania Salerno, sez. I – 22/06/2015 n. 1416 ha desunto l’estraneità della fattispecie affrontata (si controverteva dell’intervento su un fabbricato di 13 vani, avente volumetria complessiva di mc. 1.338,78, distribuiti su tre livelli) all’alveo applicativo della norma invocata, “proprio in considerazione delle rilevate caratteristiche costruttive e dimensionali dell’edificio ancorché unifamiliare”.

---------------

La Società ricorrente, che ha ottenuto il titolo abilitativo per i lavori di ristrutturazione e ampliamento di un edificio unifamiliare, censura la pretesa del Comune di applicare il contributo sul costo di costruzione. La controversia ha quindi ad oggetto un giudizio di accertamento negativo in ordine all’obbligazione pecuniaria relativa al pagamento del contributo di costruzione, nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, rispetto alla quale gli atti di liquidazione sono privi di contenuto ed effetti provvedimentali (Consiglio di Stato, sez. IV – 01/02/2017 n. 425).
Il gravame è infondato e deve essere rigettato.
0. Il Collegio richiama anzitutto i principi giurisprudenziali elaborati nella materia controversa, per cui il contributo concessorio (comprendente oneri di urbanizzazione e costo di costruzione) è un’obbligazione giuridica di tipo pubblicistico che sorge con il rilascio della concessione edilizia (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI – 07/02/2017 n. 728) ed è qualificabile come corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici arrecati al nuovo manufatto (Consiglio di Stato, sez. IV – 29/10/2015 n. 4950).
1. Le disposizioni che regolano la fattispecie si rinvengono negli artt. 16 e 17 del DPR 380/2001. L’art. 16, (rubricato “Contributo per il rilascio del permesso di costruire”), dispone al comma 1 che “Salvo quanto disposto dall'articolo 17, comma 3, il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, secondo le modalità indicate nel presente articolo e fatte salve le disposizioni concernenti gli interventi di trasformazione urbana complessi di cui al comma 2-bis”. Ai sensi dell’art. 17, comma 3, lett. b), il contributo di costruzione non è dovuto “per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”.
Nel caso di specie, è pacifica la natura dell’intervento, consistente nella ristrutturazione con incremento realizzato nel rispetto del limite del 20% (cfr. memoria di costituzione del Comune, pag. 5).
2. La norma riprende sostanzialmente il contenuto dell’art. 9, comma 1, della L. 28/01/1977 n. 10, “in relazione al quale la giurisprudenza (cfr. TAR 07.09.1999 n. 770; TAR Veneto 30.03.1996 n. 480) aveva avuto modo di chiarire che il carattere di unifamiliarità di un fabbricato a destinazione abitativa è ricavabile dalle caratteristiche architettoniche dell’edificio, in ragione del volume, della superficie, del numero e della funzione e caratteristica dei vani, in rapporto alle esigenze ed alla possibilità di utilizzo da parte di un unico nucleo familiare” (cfr. TAR Brescia, sez. I – 13/05/2011 n. 713).
3. E’ stato tuttavia nello specifico osservato (cfr. sentenza Sezione 10/08/2012 n. 1446, che risulta appellata) che l'esenzione dal pagamento dei contributi di cui si discute ha la funzione di agevolare i proprietari di alloggi unifamiliari, presumendo il legislatore che gli interventi sugli stessi non abbiano carattere di lucro, ma la sola funzione di migliorare le condizioni di abitabilità degli edifici medesimi, indipendentemente dalla loro dimensione (Consiglio di Stato, sez. IV – 11/10/2006 n. 6065). La disposizione è diretta dunque a promuovere le opere di adeguamento dei manufatti alle necessità abitative del singolo nucleo familiare, circoscrivendone l’operatività agli interventi che non mutino sostanzialmente l’entità strutturale e la dimensione spaziale dell’immobile e non ne elevino (in modo apprezzabile) il valore economico.
Sostiene la difesa comunale che la ricorrente ha ristrutturato un edificio dismesso che ospitava più famiglie, per favorire l’esercizio di un’attività di ristorazione (e quindi a fini di lucro), e che solo il particolare momento congiunturale non ha consentito di individuare una figura professionale per la gestione dell’attività, cosicché la proprietà ha scelto di riconvertire l’immobile a residenza.
Detto ordine di idee merita di essere condiviso.
4. Osserva il Collegio che, in linea generale, la partecipazione del privato al costo delle opere di urbanizzazione è dovuta allorquando l’intervento determini un incremento del peso insediativo con un’oggettiva rivalutazione dell’immobile, sicché l'onerosità del permesso di costruire è funzionale a sopportare il carico socio-economico che la realizzazione comporta sotto il profilo urbanistico. Alla luce di tale considerazione, la giurisprudenza (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VIII – 09/05/2012 n. 2136) ha statuito che l’esenzione dal contributo di costruzione per il caso di interventi di ristrutturazione di edifici unifamiliari entro il limite di ampliamento del 20%, costituisce oggetto di una previsione di carattere eccezionale (applicabile in un ambito di stretta interpretazione ancorato ai parametri predefiniti dal legislatore): la ratio è di natura sociale ed è diretta sostanzialmente ad apprestare uno strumento di tutela e di salvaguardia alla piccola proprietà immobiliare per gli interventi funzionali all’adeguamento dell’immobile alle necessità abitative del nucleo familiare: l’edificio unifamiliare, nell’accezione socio economica assunta dalla norma, coincide in altri termini con la piccola proprietà immobiliare, e soltanto se presenti tali caratteri è meritevole di un trattamento differenziato (TAR Lombardia Milano, sez. IV – 02/07/2014 n. 1707).
5. Il Collegio ritiene di aderire a tale orientamento.
Anche secondo questo TAR (cfr. sez. I – 21/11/2014 n. 2180), l’esenzione in esame si giustifica come aiuto alla famiglia che, banalmente, necessiti di ulteriore spazio per la propria decorosa sistemazione abitativa. La giurisprudenza recente (cfr. TAR Toscana, sez. III – 26/04/2017 n. 616), ha parimenti sostenuto che “la ratio che ispira la specifica esenzione ha un fondamento sociale, con l’effetto che la nozione di edificio unifamiliare non deve avere una accezione strutturale ma socio-economica, coincidendo con la piccola proprietà immobiliare, meritevole per gli interventi di ristrutturazione dell’abitazione di un trattamento differenziato rispetto alle altre tipologie edilizie …” (e in quel caso si è stabilito che la suddetta esenzione non può trovare applicazione in una fattispecie relativa a una villa di 19 vani con una superficie di 638,41 mq.).
Accedendo a tale approccio interpretativo, anche il TAR Campania Salerno, sez. I – 22/06/2015 n. 1416 ha desunto l’estraneità della fattispecie affrontata (si controverteva dell’intervento su un fabbricato di 13 vani, avente volumetria complessiva di mc. 1.338,78, distribuiti su tre livelli) all’alveo applicativo della norma invocata, “proprio in considerazione delle rilevate caratteristiche costruttive e dimensionali dell’edificio ancorché unifamiliare” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 26.04.2018 n. 449 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICACome noto, in caso di obbligazione solidale, gli eventuali accordi intervenuti fra i diversi debitori, aventi ad oggetto la ripartizione dell’obbligazione, hanno effetti puramente interni e non limitano, quindi, il potere del creditore di rivolgersi contro uno qualsiasi di essi al fine di ottenere l’intera prestazione, salva l’azione di regresso prevista dall’art. 1299 cod. civ..
Siccome poi gli accordi interni non intaccano la prerogativa del creditore di rivolgersi ad uno qualsiasi dei debitori, a maggior ragione, si deve escludere che tali accordi facciano insorgere in capo al creditore medesimo l’obbligo di agire nei confronti dei soggetti che, in base agli accordi interni, sono stati individuati quali esclusivi destinatari dell’obbligazione, e ciò neppure se dall’esecuzione della prestazione possa derivare un beneficio per gli altri coobbligati. E’ salvo, ovviamente, il potere di questi ultimi di agire direttamente nei confronti dei primi qualora ve ne sia titolo, facendo valere i diritti nascenti dagli accordi interni.
E può forse ritenersi salva la possibilità per il singolo coobbligato –il quale ritenga che il creditore, con il proprio complessivo comportamento, abbia in qualche modo pregiudicato il suo diritto, sancito da accordi interni, di ottenere da uno degli altri coobbligati l’esecuzione dell’obbligazione solidale di cui anch’egli abbia interesse– di esperire azione risarcitoria extracontrattuale (da proporre dinanzi ai competenti organi) nei confronti del creditore medesimo per lesione del suo diritto di credito. Ciò che non si può ammettere è invece l’azione contrattuale volta, come nel caso in esame, ad ottenere l’accertamento dell’inadempimento e la condanna del creditore per obblighi specifici che su lui non gravano.

---------------

9. Come anticipato, con il ricorso in esame, la ricorrente lamenta principalmente che il Comune di Secugnago non avrebbe adempiuto agli obblighi su di esso posti dalla convenzione di lottizzazione stipulata in data 29.11.2005 che, come detto, interessa l’area ex Sc..
10. Gli obblighi cui si riferisce la ricorrente sono quelli indicati dalla art. 7 della convenzione il quale stabilisce che i lottizzanti sono tenuti a realizzare, a propria cura e spese, le seguenti opere di urbanizzazione primaria e secondaria: a) strade di piano di lottizzazione; b) segnaletica verticale ed orizzontale; c) parcheggio e zone a verde; d) rete fognatura acque bianche e nere; d) rete di pubblica illuminazione; e) rete ENEL; f) rete gas-metano; g) rete Telecom; h) rete acqua potabile; i) interventi modificativi su elettrodotto; l) interventi su rete idrica; m) strada di collegamento alla S.S. Via Emilia (acquisizione compresa); n) raccordo ferroviario.
11. Il valore degli interventi è stimato in: euro 1.455.958,27 per le opere di urbanizzazione, euro 88.779,58 per le opere esterne al piano di lottizzazione, ed in euro 800.000 per la realizzazione del collegamento stradale con la S.S. Via Emilia.
12. Il successivo art. 8 stabilisce poi che le suddette opere <<…devono essere iniziate entro mesi 12 (dodici), previa presentazione di polizza fideiussoria pari al 100%, dalla stipula della presente convenzione […] e terminate entro anni 2 dalla data di Inizio dei Lavori>>.
13. Tutti questi obblighi, come emerge chiaramente dal dato letterale della convenzione, sono posti a carico di tutti i lottizzanti i quali, siccome la stessa convenzione nulla dispone in contrario, debbono ritenersi obbligati in solido ai sensi dell’art. 1294 cod. civ.
14. La ricorrente lamenta tuttavia che il Comune di Secugnago non avrebbe prontamente richiesto la fideiussione di cui all’art. 8 della convenzione e non si sarebbe prontamente sostituito ai lottizzanti inadempienti nel realizzare le opere previste dal precedente art. 7 (potere attribuitogli dallo stesso art. 8).
Questo comportamento –unitamente al rilascio di un titolo edilizio a Un. per la realizzazione di una struttura di esclusivo interesse di quest’ultima, e al mancato esercizio dei poteri pubblicistici finalizzati a costringere Sc. ad effettuare le opere di bonifica dell’area di cui trattasi che costituiscono presupposto indefettibile per la realizzazione delle opere di urbanizzazione e, quindi, per l’intera trasformazione dell’area stessa– sarebbe concausa, secondo la parte, dell’inadempimento e, dunque, fonte di pregiudizio per essa, dato che in tal modo rimane preclusa la possibilità di realizzare tutte le altre opere private previste dal P.L., compresa quella di suo specifico interesse.
Da qui la sussistenza di una responsabilità contrattuale in capo al Comune.
15. In proposito si osserva quanto segue.
16. Il Collegio considera davvero singolare che la ricorrente –la quale come essa stessa riferisce è subentrata nella posizione di IngLe. e, quindi, di uno dei lottizzanti tenuti in solido all’esecuzione delle obbligazioni di cui agli artt. 7 e 8 della convenzione di lottizzazione– proponga un’azione di inadempimento nei confronti del Comune di Secugnago.
In sostanza, con il ricorso in esame, viene infatti azionata la pretesa di uno dei debitori in solido di condannare il creditore per avere questi omesso di esercitare le prerogative, ad esso riconosciute dagli artt. 1292 e segg. cod. civ., che gli consentono di agire nei confronti degli altri coobbligati al fine di ottenere la prestazione dovuta.
17. L’infondatezza della pretesa deriva dal fatto che, ovviamente, sia il diritto a ricevere le prestazioni oggetto dell’obbligazione solidale che le prerogative funzionali alla loro esecuzione coattiva sono riconosciuti al creditore nel suo esclusivo interesse e che, quindi, i singoli coobbligati non possono vantare alcuna situazione giuridica qualificata a che questi eserciti prontamente la propria pretesa ed eserciti le suddette prerogative nei confronti degli altri coobbligati.
18. A questo proposito, vale precisare che, come noto, in caso di obbligazione solidale, gli eventuali accordi intervenuti fra i diversi debitori, aventi ad oggetto la ripartizione dell’obbligazione, hanno effetti puramente interni e non limitano, quindi, il potere del creditore di rivolgersi contro uno qualsiasi di essi al fine di ottenere l’intera prestazione, salva l’azione di regresso prevista dall’art. 1299 cod. civ..
19. Siccome poi gli accordi interni non intaccano la prerogativa del creditore di rivolgersi ad uno qualsiasi dei debitori, a maggior ragione, si deve escludere che tali accordi facciano insorgere in capo al creditore medesimo l’obbligo di agire nei confronti dei soggetti che, in base agli accordi interni, sono stati individuati quali esclusivi destinatari dell’obbligazione, e ciò neppure se dall’esecuzione della prestazione possa derivare un beneficio per gli altri coobbligati. E’ salvo, ovviamente, il potere di questi ultimi di agire direttamente nei confronti dei primi qualora ve ne sia titolo, facendo valere i diritti nascenti dagli accordi interni.
E può forse ritenersi salva la possibilità per il singolo coobbligato –il quale ritenga che il creditore, con il proprio complessivo comportamento, abbia in qualche modo pregiudicato il suo diritto, sancito da accordi interni, di ottenere da uno degli altri coobbligati l’esecuzione dell’obbligazione solidale di cui anch’egli abbia interesse– di esperire azione risarcitoria extracontrattuale (da proporre dinanzi ai competenti organi) nei confronti del creditore medesimo per lesione del suo diritto di credito. Ciò che non si può ammettere è invece l’azione contrattuale volta, come nel caso in esame, ad ottenere l’accertamento dell’inadempimento e la condanna del creditore per obblighi specifici che su lui non gravano.
20. Da tutto ciò consegue che la ricorrente non può vantare un diritto soggettivo a che il Comune agisca nei confronti degli altri lottizzanti e ciò, come detto, anche se questa riceve comunque un beneficio dalla realizzazione delle opere di urbanizzazione.
21. Anzi, a ben guardare, il Comune di Secugnago, per le ragioni sopra illustrate, una volta constatato l’inadempimento dei lottizzanti, avrebbe potuto benissimo rivolgersi contro la dante della causa della ricorrente o al limite contro la ricorrente medesima (subentrata, come essa stessa riferisce, nella posizione della lottizzante IngLe.) per ottenere l’intero adempimento, e ciò nonostante la riferita avvenuta stipulazione di accordi interni che avrebbero addossato ad esclusivo carico di Sc. l’obbligo di eseguire tutte le prestazioni di cui agli artt. 7 e 8 della convenzione di lottizzazione.
22. In questo quadro appaiono del tutto ininfluenti il riferito ritardo nel pretendere la presentazione della fideiussione e la mancata sostituzione del Comune ai lottizzanti nell’eseguire le prestazioni di cui è causa.
Si deve invero osservare (al di là del fatto che l’art. 8 non prevede un termine entro il quale la fideiussione avrebbe dovuto essere presentata, né, a maggior ragione, un termine entro cui il Comune avrebbe dovuto farne richiesta) che, come illustrato, queste prerogative sono riconosciute al Comune-creditore nel suo esclusivo interesse (oltre a quanto riferito sopra si consideri che l’art. 8 della convenzione di lottizzazione stabilisce che il Comune <<può>> e non <<deve>> sostituirsi ai lottizzanti); e che, quindi, la ricorrente non può vantare un diritto soggettivo nei confronti di quest’ultimo affinché esso le eserciti in danno degli altri coobbligati.
23. Per le medesime ragioni, altrettanto ininfluente, a fini dell’apprezzamento di una eventuale responsabilità da inadempimento del Comune, appare l’avvenuto rilascio del permesso di costruire in favore di Un.: rimane infatti comunque decisiva l’insussistenza in capo al Comune stesso di alcun obbligo contrattuale, nascente dalla convenzione di lottizzazione, avente ad oggetto la realizzazione delle opere di urbanizzazione ovvero l’esercizio, nei confronti di specifici coobbligati, delle prerogative funzionali alla realizzazione coattiva delle inerenti prestazioni.
24. Si deve pertanto escludere la sussistenza di una responsabilità per inadempimento in capo al Comune di Secugnago.
25. Al Collegio preme comunque sottolineare che, contrariamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, lo stesso Comune di Secugnago non è rimasto del tutto inerte, omettendo di esercitare le prerogative poste a tutela dei suoi diritti. L’Ente infatti ha comunque preteso ed ottenuto la presentazione della garanzia fideiussoria e, una volta accertato l’inadempimento degli obblighi posti in capo ai lottizzanti, ha provveduto alla sua escussione, resistendo alle azioni giurisdizionali (proposte a anche dinanzi al giudice amministrativo e decise con le sentenze di questo TAR n. 3131 e n. 3134 del 2011, confermate in appello con la sentenza del Consiglio di Stato n. 1998 del 2014) esperite al fine di opporsi alla stessa.
26. Riflessioni analoghe a quelle sopra svolte, possono farsi con riferimento all’affermato mancato esercizio dei poteri pubblicistici volti a costringere Sc. a realizzare le opere di bonifica sull’area interessata dal P.L., nonché all’affermata mancata attivazione dell’intervento diretto del Comune a una volta constatato l’inadempimento Sc..
27. In proposito si deve osservare che, con atto del 15.12.1998 (precedente, quindi, alla convenzione di lottizzazione), il Comune di Secugnago aveva autorizzato Sc. ad eseguire opere di bonifica sull’area interessata dal P.L. (area che all’epoca era di esclusiva proprietà di Sc.). Il termine dell’esecuzione dei lavori è stato da ultimo fissato, con ordinanza sindacale del 31.12.2004, al 31.12.2005.
28. Preso atto di ciò, l’art. 8, sesto comma, della convenzione di lottizzazione ha stabilito che <<I permessi di costruire o DIA saranno rilasciati o diverranno efficaci previa certificazione del completamento delle opere di bonifica e messa in sicurezza permanente da parte della Provincia di Lodi>>.
29. Da questa norma si ricava che le opere di urbanizzazione non si sarebbero potute realizzare prima dell’avvenuta bonifica dell’area.
30. Come visto, l’obbligo di effettuare le opere di bonifica non deriva dalla convenzione di lottizzazione, e soggetto tenuto a realizzarle è Scar. Non si vede dunque come la parte possa pretendere di addossare una responsabilità da inadempimento contrattuale degli obblighi nascenti dalla convenzione in capo al Comune
31. A tal fine, non vale invocare l’art. 250 del d.lgs. n. 152 del 2006, il quale stabilisce che in caso di inadempimento del responsabile, del proprietario e degli altri soggetti interessati, gli interventi <<…sono realizzati d’ufficio dal comune territorialmente competente…>>. Questa disposizione, infatti, è posta principalmente a tutela dell’interesse pubblico e, per questa ragione, non può far sorgere un diritto soggettivo volto ad ottenere senz’altro la bonifica ad opera del Comune, neppure in capo a coloro che –diversi da chi è tenuto ad effettuare la bonifica stessa– sono interessati a trasformare l’area inquinata.
32. Questi soggetti possono vantare tutt’al più un interesse legittimo, tutelabile, in caso di omesso esercizio del potere, attraverso l’azione contro il silenzio, ovvero con l’azione risarcitoria extracontrattuale, ma non attraverso un’azione volta, come nel caso di specie, all’accertamento dell’inadempimento di un obbligo contrattuale inesistente e alla conseguente condanna del comune all’adempimento.
33. Per tutte queste ragioni, va ribadita l’insussistenza di una responsabilità del Comune di Secugnago per l’inadempimento degli obblighi derivanti dagli artt. 7 e 8 della convenzione di lottizzazione del 29.11.2005.
34. Per quanto riguarda invece la posizione degli altri lottizzanti –siccome, come detto, la convenzione nulla dice in merito alla ripartizione fra di essi dell’obbligo di realizzazione delle opere di urbanizzazione– la ricorrente non può pretendere, come fa in questa sede, di fondare sulla convenzione stessa un diritto nei confronti dell’unico soggetto che essa ritiene obbligato (Sc. e suoi aventi causa) e di domandare la condanna all’adempimento ovvero la risoluzione della convenzione in ragione di tale affermato inadempimento. Semmai; la stessa ricorrente potrà proporre, nelle competenti sedi, l’azione diretta a tutela del suo preteso diritto facendo valere le pattuizioni contenute negli accordi interni dei quali potrà eventualmente essere richiesta anche la risoluzione.
35. Le domande di accertamento dell’inadempimento degli obblighi previsti dalla convenzione di P.L. del 29.11.2005, di condanna all’adempimento, di risoluzione della convenzione stessa e di risarcimento dei danni proposte dalla ricorrente vanno pertanto respinte.
36. Rimane ora da esaminare l’azione volta all’accertamento della nullità della convenzione il cui schema è stato approvato con delibera di Giunta comunale n. 73 del 03.11.2011, con la quale si è deciso di non dare esecuzione alle sentenze di questo TAR sui ricorsi proposti a seguito della decisione del Comune di escutere la fideiussione presentata dai lottizzanti.
37. Anche questa domanda non può essere accolta, non avendo la ricorrente adeguatamente illustrato quale sia l’interesse sotteso a tale domanda. Si rileva, infatti, che, in base all’art. 1421 cod. civ., l’azione di nullità, pur non incontrando limiti soggettivi particolari, deve essere comunque proposta da un soggetto effettivamente interessato.
38. Per tutte queste ragioni, il ricorso va respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.09.2017 n. 1816  - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AGGIORNAMENTO AL 12.02.2020

ã

E' legittimo (in caso di uso pubblico anziché di cessione delle aree per le urbanizzazioni primarie e/o secondarie) porre a carico dei lottizzanti la manutenzione delle relative opere.

URBANISTICALe conclusioni del giudice di primo grado sulla conformità della clausola negoziale in esame all'art. 28 della legge n. 1150 del 1942 e 1069 c.c. risultano convincenti.
Invero, relativamente all’art. 28, va evidenziato che il comma 5 di quest’ultimo elenca una serie di modalità attraverso le quali, in sede di convenzione di lottizzazione, possono definirsi gli oneri gravanti sui privati proprietari ai fini della realizzazione delle opere di urbanizzazione, sia primaria che secondaria.
Tra le opzioni rientra anche quella prospettata dal n. 2), il quale prevede, in alternativa alla cessione all’Amministrazione comunale della titolarità sulle aree destinate ad accogliere le opere anzidette, “l'assunzione, a carico del proprietario, degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria relative alla lottizzazione o di quelle opere che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi; la quota è determinata in proporzione all'entità e alle caratteristiche degli insediamenti delle lottizzazioni”.
In questo quadro, può dunque ritenersi che sia non sia illegittimo prevedere che gli acquirenti delle unità immobiliari risultanti dai processi di lottizzazione urbanistica e che mantengono il dominium sulle aree da destinare a fini di pubblica utilità, possano essere anche destinatari degli oneri economici necessari al fine di assicurare una siffatta destinazione.
---------------

... per la riforma della sentenza 22.10.2014 n. 2526 del TAR Lombardia-Milano, Sez. II, resa tra le parti, concernente la costituzione di una servitù pubblica su un’area ricompresa nell’ambito di una convenzione di lottizzazione.
...
1. La presente controversia attiene all’esecuzione della convenzione urbanistica originariamente stipulata tra la Va.Co. s.r.l., oggi Vi.Po. s.r.l., e il Comune San Donato Milanese.
In forza di questo accordo, la Società, in attuazione di un piano di lottizzazione adottato con precedente delibera del Consiglio comunale, si impegnava a costituire una servitù di uso pubblico su aree ricomprese tra la superficie lottizzata e un lago artificiale. La servitù avrebbe dovuto consentire la persistente fruibilità delle aree in questione ad opera della collettività.
1.1. Successivamente, con atti pubblici regolarmente trascritti, la Società alienava a privati le unità immobiliari realizzate sui terreni oggetto di lottizzazione.
Nei medesimi atti di compravendita gli acquirenti conferivano alla stessa Società la procura irrevocabile alla stipula, con l’Amministrazione comunale, delle ulteriori convenzioni necessarie per le cessioni e le costituzioni di diritti reali, in favore del medesimo Comune.
1.2. Con un primo atto, sottoscritto il 04.11.2010, il signor Gi.Ma., agendo in nome e per conto della Società lottizzante, concludeva un accordo con il Comune per effetto del quale veniva costituito, tra le altre cose, un diritto di superficie sulle aree individuate dalla precedente convenzione urbanistica. L’accordo prevedeva altresì che i proprietari delle aree lottizzate si obbligassero a sostenere le spese di manutenzione ordinaria e straordinaria della suddetta servitù.
1.3. Alcuni dei partecipanti al Condominio Re.La., odierno appellante, contestavano tale accordo, in quanto sottoscritto da soggetto che, alla data della stipula, non era più titolare di poteri di legale rappresentanza della Società firmataria, e comunque concluso con superamento dei limiti della procura precedentemente conferita.
1.4. Ciononostante, con un nuovo atto pubblico stipulato in data 30.11.2011, la Società lottizzante aveva provveduto a ratificare l’accordo precedentemente sottoscritto dal signor Ma., facendo propria la volontà negoziale da questi manifestata.
1.5. Seguivano ulteriori istanze dei condomini, indirizzate tanto al Comune quanto alla Società, con le quali si chiedeva di dichiarare l’inefficacia o, comunque, l’invalidità della clausola con la quale era stata prevista l’assunzione a loro carico degli oneri legati alla manutenzione ordinaria e straordinaria delle aree su cui insisteva la servitù di uso pubblico.
2. Gli stessi condomini e l’intero Condominio Re.La., a fronte dell’inerzia mantenuta sulle loro istanze, proponevano quindi ricorso al Tar per la Lombardia, sede di Milano, per far accertare l’illegittimità del silenzio dell’Amministrazione e per far dichiarare l’inefficacia della clausola relativa agli obblighi di manutenzione della servitù pubblica.
2.1. Il Tar, dopo avere dichiarato improcedibile il ricorso per sopravvenuto difetto di interesse relativamente all’accertamento dell’illegittimità del silenzio (gli stessi ricorrenti hanno dichiarato nel corso del giudizio di non avere più interesse alla domanda), ha ritenuta infondata la richiesta di accertamento dell’inefficacia della clausola sugli oneri di manutenzione (quest’ultima, secondo lo stesso Tribunale, doveva ritenersi perfettamente efficace nei confronti dei ricorrenti, essendo stata ratificata dalla Società nell’esercizio dei poteri di rappresentanza a questa conferiti con la pregressa procura irrevocabile.
In aggiunta a ciò, il Tar ha sottolineato che, contrariamente a quanto dedotto nel ricorso introduttivo, l’accollo degli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria ai privati proprietari delle unità immobiliari risultanti dalla eseguita lottizzazione non si poneva in contrasto né con l’art. 28 della legge n. 1150 del 1942, né con l’art. 1069 c.c..
3. Avverso la predetta sentenza hanno proposto appello il Condominio Re.La. e i singoli condomini.
3.1. In particolare, nel ricorso essi hanno sottolineato la fondatezza della domanda di accertamento dell’inefficacia della clausola contenuta nell’accordo originariamente concluso dal “falsus procurator” della Società, dal momento che la ratifica avrebbe dovuto essere effettuata dai singoli privati e non dalla Società in nome e per conto di essi.
3.2. Gli appellanti hanno poi prospettato la violazione dell’art. 28 della legge n. 1150 del 1942 e dell’art. 1069 c.c., i quali, con norme imperative, precluderebbero agli atti costitutivi di servitù di uso pubblico la facoltà di porre gli oneri di manutenzione delle corrispondenti opere a carico dei soggetti gravati dalla medesima servitù. Ciò salvo diversa e specifica pattuizione che, nel caso di specie, non sarebbe stata inserita nella presupposta convenzione urbanistica, a seguito della quale era stata conferita la procura alla Società lottizzante.
...
7. L’appello non è fondato.
8. Innanzitutto, occorre soffermarsi sull’idoneità della ratifica posta in essere dalla Società lottizzante, con atto pubblico stipulato e registrato successivamente a quello posto in essere dal “falsus procurator”, vale a dire dal signor Ma., a produrre i propri effetti anche nei confronti dei privati proprietari rappresentati, vincolandoli al rispetto degli obblighi ratificati.
8.1. A conforto di una soluzione positiva deve richiamarsi il disposto dell’art. 1399, primo comma, c.c., il quale consente al soggetto interessato di ratificare, ossia di fare proprio, il contratto che sia stato concluso da un soggetto privo di alcun potere di rappresentanza ovvero che abbia agito al di là dei limiti della potestà rappresentativa precedentemente conferitagli.
Rispetto alla fattispecie concreta qui esaminata, si tratta allora di valutare se la ratifica in questione potesse, così come è concretamente avvenuto, provenire dalla Società destinataria dell’originaria procura ovvero se si rendesse necessaria la diretta ratifica ad opera dei privati proprietari che avevano precedentemente conferito la medesima procura.
8.2. A favore della prima soluzione militano due concorrenti ordini di ragione. In primo luogo, non sembra potersi escludere, alla stregua dei principi generali, che il rappresentante originariamente designato abbia la facoltà di ratificare, in nome e per conto del rappresentato, atti negoziali conclusi da un soggetto terzo, agente in veste di falsus procurator, a condizione, ovviamente, che gli atti ratificati rientrino nell’oggetto della procura. Ciò in quanto gli effetti della compiuta ratifica si imputano direttamente alla sfera giuridica del rappresentato e, pertanto, non dovrebbe esservi alcuna differenza tra la ratifica operata personalmente dal rappresentato e la ratifica che, viceversa, sia manifestata per il tramite del rappresentante inizialmente designato.
8.3. Del resto, né l’art. 1388 c.c., né gli articoli a questo immediatamente seguenti pongono limitazioni di sorta rispetto agli atti suscettibili di essere compiuti per mezzo di un rappresentante, se non per quelli c.d. “personalissimi”.
8.4. Tra questi dovrebbe pertanto ricondursi anche la ratifica.
Non vi sono, infatti, differenze tra la stipula, in via diretta, di un determinato contratto e la ratifica di un negozio, avente identico contenuto dispositivo, che sia stato previamente sottoscritto da un falsus procurator.
8.5. Inoltre, va poi rilevato che il signor Ma. ha agito in forza di un preteso rapporto di “rappresentanza organica” con la Società cui era stata conferita la procura.
Pertanto, alla luce delle speciali caratteristiche che connotano questa forma impropria di “rappresentanza”, ontologicamente distinta dalla rappresentanza volontaria di cui agli artt. 1388 e ss. c.c., appare ragionevole ritenere che il potere di ratifica degli atti realizzati dal soggetto che pretenda di porsi quale organo di una Società debba riconoscersi unicamente alla Società stessa.
8.6. In sostanza, lo stesso non ha agito tanto quale falsus procurator degli acquirenti delle unità immobiliari risultanti dalla lottizzazione, bensì quale “falso organo” della Società cui essi avevano conferito apposita procura. Pertanto, non poteva che essere la Società a determinarsi nel senso della ratifica o meno degli atti da questi compiuti.
8.7. Sotto quest’ultima prospettiva, va dunque rilevato che la materia dei vizi dei poteri rappresentativi deve essere ricondotta all’art. 2475-bis c.c., con la conseguenza che gli atti ultra vires eventualmente compiuti dall’amministratore o da chi si è esternato come tale devono essere necessariamente ratificati dalla società.
9. Quanto al tema se tra i poteri di rappresentanza attribuiti con l’originaria procura rientrasse anche la facoltà di prevedere, all’atto della costituzione della prevista servitù di uso pubblico su alcune aree limitrofe ai terreni lottizzati, l’assunzione, in capo ai proprietari rappresentati, degli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria delle corrispondenti opere, va rilevato che le conclusioni del giudice di primo grado sulla conformità della clausola negoziale in esame all'art. 28 della legge n. 1150 del 1942 e 1069 c.c. risultano convincenti.
9.1. Relativamente all’art. 28, va evidenziato che il comma 5 di quest’ultimo elenca una serie di modalità attraverso le quali, in sede di convenzione di lottizzazione, possono definirsi gli oneri gravanti sui privati proprietari ai fini della realizzazione delle opere di urbanizzazione, sia primaria che secondaria.
Tra le opzioni rientra anche quella prospettata dal n. 2), il quale prevede, in alternativa alla cessione all’Amministrazione comunale della titolarità sulle aree destinate ad accogliere le opere anzidette, “l'assunzione, a carico del proprietario, degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria relative alla lottizzazione o di quelle opere che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi; la quota è determinata in proporzione all'entità e alle caratteristiche degli insediamenti delle lottizzazioni”.
9.2. In questo quadro, può dunque ritenersi che sia non sia illegittimo prevedere che gli acquirenti delle unità immobiliari risultanti dai processi di lottizzazione urbanistica e che mantengono il dominium sulle aree da destinare a fini di pubblica utilità, possano essere anche destinatari degli oneri economici necessari al fine di assicurare una siffatta destinazione.
9.3. In relazione all’invocato contrasto con l’art. 1069 c.c., va invece rilevato che tale disposizione, al secondo comma, fissa sì una regola generale in forza della quale le spese correlate alle opere necessarie per l’esercizio della servitù gravano sul proprietario del fondo dominante, ma, al tempo stesso, conferisce una chiara portata “dispositiva” alla stessa indicazione, consentendo espressamente alle parti dell’accordo costitutivo di derogarvi.
Pertanto, è legittimo stabilire che sia il proprietario dei fondi gravati da vincolo di servitù a farsi carico delle spese e degli altri oneri conseguenti alla costituzione del medesimo vincolo.
9.4. La parte appellante ha contestato la ricostruzione qui operata affermando che, in realtà, l’accollo ai proprietari degli oneri di manutenzione non era previsto dall’originaria convenzione urbanistica di lottizzazione, in esecuzione della quale è stato stipulato il successivo accordo costitutivo della servitù di cui si discorre.
Tuttavia, è opportuno notare che il “titolo” fondante il vincolo reale in esame deve farsi coincidere non con la convenzione da ultimo nominata, bensì con il successivo accordo attuativo.
9.5. In altri termini, non essendo stato previsto alcunché nell’ambito della convenzione di lottizzazione “a monte”, ben potevano le parti dell’accordo “a valle”, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, prevedere la forma di riparto degli oneri discendenti dalla servitù di uso pubblico reputata più opportuna.
Tale ampia e impregiudicata autonomia, con ogni evidenza, deve pertanto riconoscersi anche alla Società lottizzante, che ha agito in qualità di rappresentante dei privati acquirenti delle unità immobiliari risultanti dalla lottizzazione.
10. Per le ragioni sopra esposte, l’appello va respinto e, per l’effetto, va confermata la sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.02.2020 n. 1010 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 28 della l. 1150/1942 prevede la possibilità di una cessione gratuita al Comune delle aree destinate ad opere di urbanizzazione oppure l’assunzione in capo al proprietario degli oneri relativi alle opere stesse.
Per cui la costituzione di una servitù di uso pubblico, con mantenimento in capo ai soggetti privati della proprietà del beni e dei conseguenti oneri manutentivi non appare in contrasto né con il tenore letterale né con gli scopi della legislazione urbanistica, potendo semmai apparire addirittura un minus rispetto, ad esempio, alla cessione gratuita di aree.

---------------

... per l'accertamento:
   - dell'inefficacia nei confronti dei ricorrenti:
(a) della clausola, contenuta a pagina 27, dell'Atto conclusivo di convenzione per l'attuazione del Piano di lottizzazione "Laghetto" in Comune di San Donato Milanese, stipulato con scrittura privata, autenticata dal Notaio Barassi di Milano con atto rep. n. 100162 - racc. n. 29008 in data 04.11.2010 e
(b) degli ulteriori obblighi eventualmente derivanti dalla scrittura privata di Ratifica dell'Atto conclusivo di convenzione per l'attuazione del Piano di lottizzazione "Laghetto" in Comune di San Donato Milanese, autenticata dal Notaio Barassi di Milano con atto rep. 101243 - racc. 29591 in data 30.11.2011;
   - del conseguente obbligo del Comune di San Donato Milanese e/o di Vi.Po.srl, quale soggetto incorporante Va.Co. srl, di sostenere le spese di manutenzione ordinaria e straordinaria delle servitù sopra indicate;
   - e, occorrendo, per l'annullamento della clausola sopra indicata;
   - nonché per l'accertamento ai sensi dell'art. 31 cod. proc. amm. dell'obbligo del Comune di San Donato Milanese di provvedere in merito alle istanze presentate, rispettivamente, in data 17 e 18.07.2012, con le quali l'Amministratore del Condominio Re."La." e i Condomini hanno chiesto all'Amministrazione Comunale di provvedere all'annullamento della clausola sopra descritta;
...
3. Nel secondo motivo, i ricorrenti (punto 2.1), eccepiscono il presunto contrasto della clausola convenzionale di cui è causa con l’art. 28 della legge 1150/1942, oltre che della convenzione di lottizzazione del 2005 (cfr. il doc. 1 dei ricorrenti).
La tesi difensiva non ha però pregio: innanzi tutto la convenzione di lottizzazione del 2005 –come già sopra ricordato– nulla prevedeva sulla manutenzione delle aree di cui è causa, né dal tenore letterale della stessa poteva desumersi o ricavarsi l’esclusione degli oneri di manutenzione in capo ai proprietari delle aree soggette a servitù (cfr. ancora il doc. 1 dei ricorrenti o il doc. 3 del resistente, art. 13).
Neppure potrebbe sostenersi che una clausola come quella di cui è causa si pone in contrasto con le disposizioni (come quella dell’art. 28 citato), riguardanti le lottizzazioni di aree.
Al contrario, l’art. 28 prevede la possibilità di una cessione gratuita al Comune delle aree destinate ad opere di urbanizzazione oppure l’assunzione in capo al proprietario degli oneri relativi alle opere stesse; per cui la costituzione di una servitù di uso pubblico, con mantenimento in capo ai soggetti privati della proprietà del beni e dei conseguenti oneri manutentivi non appare in contrasto né con il tenore letterale né con gli scopi della legislazione urbanistica, potendo semmai apparire addirittura un minus rispetto, ad esempio, alla cessione gratuita di aree.
Nella seconda parte del motivo II, è lamentata la lesione dell’art. 1069 del codice civile, norma che pone a carico del proprietario del fondo dominante le opere necessarie per la conservazione della servitù.
La norma –la cui applicazione agli accordi ai sensi dell’art. 11 della legge 241/1990 è limitata ai “principi”, stante l’espressa previsione del secondo comma dell’articolo stesso– non appare però violata nel caso di specie, visto che lo stesso art. 1069 ammette (cfr. il comma secondo), che per legge o per titolo possa derogarsi alla regola generale sopra ricordata, senza contare che, trattandosi di servitù di pubblico passaggio, la manutenzione non giova soltanto al titolare del fondo dominante ma anche ai proprietari del fondo servente, che sono essi stessi utenti della servitù.
Anche l’intero secondo motivo deve –quindi– essere respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.10.2014 n. 2526  - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

UTILITA'

VARI: BONUS MOBILI ED ELETTRODOMESTICI (Agenzia delle Entrate, febbraio 2020).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 dell'11.02.2020 "Ordine del giorno concernente gli incentivi per la rimozione dell’amianto negli ex capannoni industriali in disuso" (deliberazione C.R. 17.12.2019 n. 884).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 6 del 06.02.2020, "Interventi di messa in sicurezza permanente con realizzazione di volume confinato on site a servizio dell’intervento di bonifica – Approvazione indirizzi" (deliberazione G.R. 31.01.2020 n. 2789).

VARI: G.U. 01.02.2020 n. 26 "Dichiarazione dello stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili" (Consiglio dei Ministri, delibera 31.01.2020)."

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 5 del 31.01.2020, "Profili applicativi in materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche, di cui alla l.r. 33/2015, a seguito dell’entrata in vigore della legge 156/2019, della l.r. 21/2019 e della d.g.r. XI/2584/2019" (circolare regionale 28.01.2020 n. 1).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: G.U. 28.01.2020 n. 22 "Revisione delle reti stradali relative alle Regioni Emilia Romagna, Lombardia, Toscana e Veneto" (D.P.C.M. 21.11.2019).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 5 del 27.01.2020, "Primo aggiornamento 2020 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 21.01.2020 n. 574).

ATTI AMMINISTRATIVI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 5 del 27.01.2020, "Attivazione della piattaforma «procedimenti» per la gestione telematica di procedure amministrative" (deliberazione G.R. 20.01.2020 n. 2741).

AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 4 del 24.01.2020, "Approvazione degli indirizzi per il collaudo funzionale degli impianti di potabilizzazione" (deliberazione G.R. 20.01.2020 n. 2751).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 21.01.2020 n. 16 "Regolamento di organizzazione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, degli uffici di diretta collaborazione del Ministro e dell’Organismo indipendente di valutazione della performance" (D.P.C.M. 02.12.2019 n. 169).

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI - VARI: G.U. 17.01.2020 n. 13, suppl. ord. n. 3, "Ripubblicazione del testo della legge 27.12.2019, n. 160, recante: «Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022», corredato delle relative note (Legge pubblicata nel Supplemento ordinario n. 45/L alla Gazzetta Ufficiale - Serie generale - n. 304 del 30.12.2019)".

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 15.01.2020, "Tariffario delle prestazioni e degli interventi erogati dal dipartimento di igiene e prevenzione sanitaria delle agenzie di tutela della salute richiesti da terzi nel proprio interesse" (deliberazione G.R. 23.12.2019 n. 2698).

AMBIENTE-ECOLOGIA - LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 2 del 07.01.2020, "Approvazione delle «Linee guida per la progettazione e realizzazione dei sistemi di trattamento delle acque reflue provenienti da sfioratori di reti fognarie» e degli «Indirizzi per l’elaborazione del programma di riassetto delle fognature e degli sfioratori» in attuazione di quanto disposto dagli articoli 13, comma 3 e 14, comma 2 del regolamento regionale n. 6 del 02.04.2019" (deliberazione G.R. 23.12.2019 n. 2723).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 2 del 07.01.2020, "Programma strategico per la semplificazione e trasformazione digitale - XI legislatura – interventi per il 2020" (deliberazione G.R. 23.12.2019 n. 2686).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 1 del 04.01.2020, "Piano regionale delle attività di previsione, prevenzione e lotta attiva contro gli incendi boschivi per il triennio 2020-2022 (legge n. 353/2000)" (deliberazione G.R. 23.12.2019 n. 2725).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 1 del 04.01.2020, "Aggiornamento delle disposizioni per l’efficienza energetica degli edifici approvate con decreto n. 2456 dell'08.03.2017" (decreto D.U.O. 18.12.2019 n. 18546).

LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 1 del 02.01.2020, "Programma degli interventi prioritari sulla rete viaria di interesse regionale - Aggiornamento 2019" (deliberazione G.R. 09.12.2019 n. 2604).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: G.U. 28.12.2019 n. 303 "Intesa, ai sensi dell’articolo 8, comma 6, della legge 05.06.2003, n. 131, tra il Governo, le regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano sulle Linee guida nazionali per la valutazione di incidenza (VIncA) - Direttiva 92/43/CEE “HABITAT” articolo 6, paragrafi 3 e 4 (Rep. atti n. 195/CSR)" (Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, intesa 28.11.2019).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: E. Paglia, I CONTROLLI SULL’OPERATORE ECONOMICO – TABELLE DI VERIFICA (PublikaDaily n. 3 - 12.02.2020).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: P. Aldigeri, L’ESIGIBILITÀ DELLE MANSIONI - La sentenza della Suprema Corte n. 32592 del 17.12.2018 (PublikaDaily n. 3 - 12.02.2020).

APPALTI SERVIZI: S. Usai, L’INTENSITÀ ED I VINCOLI DELLA CLAUSOLA SOCIALE (PublikaDaily n. 3 - 12.02.2020).

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Sacchi, LE MODIFICHE DELLE SANZIONI DEL DECRETO TRASPARENZA (PublikaDaily n. 3 - 12.02.2020).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni nei comuni: ma quando sarà realmente operativo il Dpcm attuativo del decreto "crescita"? (11.02.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

APPALTI: G. Gabriele, Il contratto di avvalimento incontra la causa in concreto - nota a sentenza a TAR Campania, III Sez., 07.01.2020 n. 51 (07.02.2020 - link a www.giustamm.it).

APPALTIImmediata impugnabilità del bando (06.02.2020 - link a www.mauriziolucca.com).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: E. Boscolo, IL BINOMIO DECISIVO: LIMITAZIONE DEL CONSUMO DI SUOLO E RIGENERAZIONE URBANA (l.r. Lombardia 26.11.2019 n. 18 (03.02.2020 - tratto da https://camerainsubria.blogspot.com).

EDILIZIA PRIVATA: F. Ratto Trabucco, Il diritto di accesso ai documenti amministrativi in ambito urbanistico-edilizio tra costi procedimentali e diritto alla riservatezza (03.02.2020 - link a www.segretaricomunalivighenzi.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl dovere di far fruire le ferie d'ufficio. Le non condivisibili indicazioni del Tar Val d'Aosta (02.02.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHENo agli incentivi tecnici al di fuori degli appalti (01.02.2020 - link a www.mauriziolucca.com).

PUBBLICO IMPIEGOServe una dirigenza autonoma e da valutare in base ai risultati, non arbitrariamente scelta dalla politica (28.01.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

PATRIMONIO: M. Luchetti, Il risarcimento del danno da parte della P.A. per cattivo esercizio del potere pubblico: l’articolo 133 c.p.a. e la concessione amministrativa (28.01.2020 - link a www.filodiritto.com).

APPALTI: S. Calvello e A. Zama, La gestione amministrativa degli appalti e i relativi impatti in ambito data protection (28.01.2020 - link a www.filodiritto.com).

APPALTIInterpretazione di clausole ambigue del bando di gara (27.01.2020 - link a www.mauriziolucca.com).

APPALTI SERVIZIAffidamento d’urgenza del contratto di gestione rifiuti (25.01.2020 - link a www.mauriziolucca.com).

APPALTI: M. Mazzon, Appalti solo con il “Durc fiscale” (16.01.2020 - link a www.filodiritto.com).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G. Avizzano, La valutazione della Performance della posizione organizzativa “Comandante della Polizia Municipale”: casi e soluzioni (15.01.2020 - link a www.filodiritto.com).

EDILIZIA PRIVATA: F. Donegani, Luoghi di culto in Lombardia: il nuovo intervento della Corte costituzionale (28.12.2019 - link a www.dirittopa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: S. De Rosa, ORDINE DI BONIFICA DI UN SITO INDUSTRIALE: L’Adunanza Plenaria chiarisce la natura della bonifica tra retroattività e responsabilità della Società incorporante. Nota a sentenza: Consiglio di Stato, Ad. Plen., 22.10.2019, n. 10 (gennaio 2020 - tratto da www.ambientediritto.it).
---------------
Abstract: La decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 10 del 22.10.2019 fa il punto sulla legittimità dell’ordine di bonifica di un sito industriale emesso dalla Pubblica Amministrazione verso una Società non direttamente responsabile dell’inquinamento ma che, tramite operazioni societarie straordinarie, ha incorporato la Società direttamente responsabile dell’attività inquinante, attività posta in essere anni prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 22 del 1997 che ha introdotto l’istituto della bonifica nell’ordinamento giuridico.
---------------
SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. La nozione di ambiente: gli indirizzi dottrinali. - 3. L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 10 del 2019: la natura della condotta di inquinamento ambientale prima dell’introduzione della bonifica. - 4. L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 10 del 2019: la natura della condotta di inquinamento ambientale prima dell’introduzione della bonifica. - 5. L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 10 del 2019: la trasmissibilità degli obblighi e responsabilità conseguenti alla commissione dell’illecito per effetto di operazioni societarie straordinarie. - 6. Brevi considerazioni conclusive.

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. Vivoli, LE RESPONSABILITA’ DEL CURATORE IN CASO DI ABBANDONO RIFIUTI: Sentenze contrastanti o  diversi valori costituzionali in gioco? (gennaio 2020 - tratto da www.ambientediritto.it).
---------------
ABSTRACT: Nel contributo vengono analizzate le posizioni che la giurisprudenza ha assunto nei confronti del curatore fallimentare in caso di abbandono rifiuti derivanti dalla precedente attività dell’impresa fallita; rispetto a posizioni oscillanti della giurisprudenza, il contributo cerca di offrire una prospettiva più ampia che si fonda sui diversi valori costituzionali che possono e in alcuni casi impongono posizioni differenziate.
---------------
SOMMARIO: 1. Introduzione e delimitazione dell’analisi giuridica; 2. Le peculiarità della figura del curatore nella giurisprudenza ordinaria; 3. Il curatore come soggetto subentrante; 4. Il curatore come soggetto detentore dei rifiuti; 5. Il caso dell’amianto; 6. Conclusioni.

URBANISTICA: C. Costanzi, GOVERNO DEL TERRITORIO E TUTELA DEGLI INTERESSI LEGITTIMI. La delicata ipotesi di revoca dei piani particolareggiati di esecuzione (gennaio 2020 - tratto da www.ambientediritto.it).
---------------
ABSTRACT: L’adozione di piani particolareggiati di esecuzione è sottesa all’esercizio di un ampio potere discrezionale dell’Amministrazione comunale, chiamata sussidiariamente a determinare le politiche di sviluppo urbanistico del territorio, sia pur nei limiti del rispetto delle fonti normative, del piano regolatore e degli altri atti amministrativi generali. Del pari, la revoca o la modifica in peius dei medesimi non sembrano sottrarsi a tale ampia discrezionalità, a cui si contrappone inevitabilmente l’interesse edificatorio dei proprietari delle aree coinvolte. A fronte di tale contrasto, l’elaborato evidenzia la necessità di delimitare chiaramente i confini entro i quali una discrezionalità revocatoria tanto ampia possa essere esercitata, prendendo in breve rassegna tanto i principi generali del diritto amministrativo, quanto le più recenti pronunce sul tema.
---------------
SOMMARIO: 1. Premessa. Il piano regolatore generale e il piano particolareggiato di esecuzione. 2. L’ampia discrezionalità della pubblica amministrazione nell’adozione dei piani particolareggiati. 3. La revoca o modifica in peius dei piani particolareggiati di esecuzione. 4. La scure della responsabilità penale. Conclusioni.

EDILIZIA PRIVATA: A. Morrone, IL COORDINAMENTO TRA ATTIVITÀ EDILIZIA ED I VINCOLI PAESAGGISTICI ED AMBIENTALI NEL RECENTE CONTESTO D’EMERGENZA (gennaio 2020 - tratto da www.ambientediritto.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. Tutela del paesaggio e programmazione urbanistica. 3. Disciplina edilizia e vincoli ambientali. 4. Il difficile coordinamento fra la disciplina degli usi civici e le competenze in materia di paesaggio e ambiente. 5. Emergenza e attività edilizia funzionale alla ricostruzione. 6. Conclusioni.

INCARICHI PROFESSIONALI: C. Pluchino, Incarichi legali. Applicazione disciplina appalti? In riferimento alla sentenza Tar Campania-Salerno. Sez. I, 11.07.2019, n. 1271 (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2019).

APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO: G. Noviello, Sindacato giuscontabile sulle transazioni pubbliche - Nota a Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia, senteza 19.07.2019 n. 196 (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2019).

CONSIGLIERI COMUNALI: W. Ferrante, Sulla legittimazione ad impugnare la proroga dello scioglimento del consiglio comunale ed inoltre sulla “eccezionalità” della proroga - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 12.11.2019 n. 7762 (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2019).

A.N.AC.

APPALTIRassegna degli atti Anac su interdittiva antimafia, partecipazione alle gare ed esecuzione dei contratti pubblici (04.02.2020 - link a www.anticorruzione.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOIndicazioni per l'applicazione della disciplina delle inconferibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico in caso di condanna per reati contro la pubblica amministrazione - art. 3 d.lgs. n. 39/2013 e art. 35-bis d.lgs. n. 165/2001 (delibera 18.12.2019 n. 1201 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTI: Oggetto: Indicazioni relative all’obbligo di acquisizione del CIG, di trasmissione dei dati e di pagamento del contributo in favore dell’Autorità per i regimi particolari di appalto di cui alla Parte II, Titolo VI, del codice dei contratti pubblici (Comunicato del Presidente 18.12.2019 - link a www.anticorruzione.it).

LAVORI PUBBLICIL’opera pubblica a spese del privato segue il codice. Delibera Anac sulla verifica dei requisiti di chi la realizza.
Anche se l'opera è realizzata a cura e spese del privato non toglie che si tratta di opera pubblica se finalizzata al soddisfacimento di un interesse generale della collettività.
È quanto ha precisato l'Anac con la delibera 11.12.2019 n. 1151 (Realizzazione e successiva donazione dei lavori di adeguamento sismico scuola elementare centro urbano in Comune di Rocca di Papa) sulla realizzazione e successiva donazione dei lavori di adeguamento sismico scuola elementare centro urbano in comune di Rocca di Papa.
La questione oggetto di parere era relativa a uno schema di convenzione con il quale una fondazione privata si impegnava nella «realizzazione e successiva donazione dei lavori di adeguamento sismico della scuola elementare del centro urbano di Rocca di Papa».
L'Anac preliminarmente ha affermato che effettivamente la fattispecie rientra nell'ambito di cui all'art. 20 del codice appalti risultando, di fatto, «i lavori di adeguamento sismico della scuola elementare del centro urbano, nel comune di Rocca di Papa» un'opera pubblica realizzabile con spese a carico del privato.
Sulla base delle evidenze riscontrate, l'Autorità ha evidenziato come risultino «manifeste e confermabili le carenze istruttorie già rilevate in sede di avvio procedimentale con nota del 6/03/2019, ritenendosi, lo schema convenzionale approvato dall'amministrazione, generico nell'individuazione degli impegni assumibili dalle parti e privo degli elementi essenziali, molti dei quali specificatamente indicati nell'art. 20 del codice dei contratti».
Nello schema convenzionale mancavano infatti un adeguato inquadramento normativo della fattispecie, il riferimento al progetto di fattibilità o comunque a elaborati tecnici di qualsivoglia natura riferiti alle opere da eseguire, il riferimento a un preciso cronoprogramma delle opere a farsi, la disciplina in ordine a eventuali casi di inadempimento compreso l'indicazione di eventuali penali e poteri sostitutivi, nonché, ancora, qualunque riferimento a indicazioni relative ai requisiti di ordine non solo morale, ma anche di carattere speciale, riferibili al soggetto contraente e all'esecutore delle opere; elementi questi, che a ben vedere, avrebbero dovuto essere previsti e considerati già nelle delibere e determine preliminari a monte della convenzione medesima.
L'attenzione dell'Anac si è soffermata in particolare sulla «grave anomalia rappresentata dalla mancata verifica dei requisiti generali riferiti al contraente posti inequivocabilmente dalla specifica norma in capo all'amministrazione» che soltanto tardivamente richiedeva tali elementi alla fondazione che, a sua volta rifiutava di renderli nel presupposto che la fondazione non era «l'operatore economico che svolgerà l'attività di esecuzione dei lavori».
E su questo l'Anac ha ricordato invece che, come già detto dal Consiglio di stato, «la circostanza che l'opera sia realizzata a cura e spese del privato non toglie che si tratta di opera pubblica e che sussista il cogente interesse della pubblica amministrazione alla sua corretta realizzazione da parte di un soggetto qualificato professionalmente e dotato dei requisiti morali». Di qui la bocciatura dell'operato della stazione appaltante
(articolo ItaliaOggi del 27.12.2019).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Niente incentivi tecnici per l'opera pubblica in leasing.
Il quadro normativo attualmente vigente non consente di riconoscere legittimamente l'incentivo per funzioni tecniche svolte dal personale del comune per la realizzazione di un contratto di locazione finanziaria per opere pubbliche o di pubblica utilità, neppure qualora tale spesa sia stata inserita nel quadro economico del progetto esecutivo dedotto dal contratto di locazione ed essa venga poi effettivamente trasferita al Comune dal soggetto finanziatore poiché, comunque, mancherebbe nel bilancio dell’Amministrazione lo specifico stanziamento di spesa cui parametrare la misura del fondo incentivante.
---------------

Il Sindaco del Comune di Quartesolo (VI) ha inviato alla Sezione una richiesta di parere chiedendo se sia possibile riconoscere legittimamente gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’art. 113 del Codice dei contratti pubblici svolte dal personale dipendente nel caso della locazione finanziaria per la realizzazione di un'opera pubblica, qualora:
   a) nel quadro economico del progetto esecutivo dedotto nel contratto di locazione finanziaria risulti allocata anche la quota per gli incentivi per funzioni tecniche, quantificata, nel rispetto dell'apposito regolamento dell'Ente, sull'importo dei lavori affidati al soggetto realizzatore;
   b) tale quota, a fronte dello svolgimento da parte del personale comunale delle funzioni tecniche previste dall'art. 113 (verifica e validazione del progetto, funzioni di RUP, direzione lavori, ecc.) venga poi effettivamente trasferita al Comune da parte del soggetto finanziatore;
   c) sia rispettata la condizione prevista dall’art. 187, comma 1, ultima parte, del Codice dei contratti pubblici, ossia che i lavori non abbiano un carattere meramente accessorio rispetto all'oggetto del contratto principale.
...
II. Gli incentivi per funzioni tecniche, disciplinati dall’art. 113 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), sono compensi previsti in favore dei dipendenti delle amministrazioni aggiudicatrici, a fronte dello svolgimento di determinate attività finalizzate alla conclusione di appalti di lavori, servizi e forniture, che operano in deroga al principio di onnicomprensività della retribuzione enunciato all’art. 24, comma 3, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche).
Il precursore nel nostro ordinamento di questo istituto va individuato negli incentivi per la progettazione, istituti con legge 11.02.1994, n. 109 (c.d. legge Merloni), la quale prevedeva la ripartizione a favore di determinati soggetti (il responsabile unico del procedimento, gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, ed i loro collaboratori) di un incentivo a valere sugli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori, fissato entro il limite massimo del 1,5% dell'importo posto a base di gara.
La ratio della norma, come evidenziato dalle Sezioni riunite in sede di controllo della Corte dei Conti con la deliberazione 04.10.2011 n. 51, era quella di destinare una quota di risorse pubbliche “a incentivare prestazioni poste in essere per la progettazione di opere pubbliche, in quanto in tal caso si tratta all’evidenza di risorse correlate allo svolgimento di prestazioni professionali specialistiche offerte da personale qualificato in servizio presso l’Amministrazione pubblica; peraltro, laddove le amministrazioni pubbliche non disponessero di personale interno qualificato, dovrebbero ricorrere al mercato attraverso il ricorso a professionisti esterni con possibili aggravi di costi per il bilancio dell’ente interessato”.
La previsione di funzioni incentivabili è dunque intrinsecamente legata, sin dal suo esordio nell’ordinamento, all’esigenza di razionalizzazione della spesa, attuata nello specifico attraverso la valorizzazione delle risorse interne. Ora come allora, la disposizione che prevede la possibilità di incentivare funzioni svolte all’interno del normale rapporto di servizio è da intendersi di stretta interpretazione in quanto derogatoria al generale principio dell’onnicomprensività dell’introduzione.
Il legislatore, al fine di non contraddire gli scopi dell’istituto, ha posto attenzione ai vincoli di natura contabile entro cui rendere utilizzabile lo strumento. Il decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE) innovò alla previgente normativa, portando il limite delle risorse destinabili all’incentivo al 2% dell’importo a base di gara, ma prevedendo allo stesso tempo un vincolo ulteriore, per il quale l’incentivo erogato non doveva comunque superare l’importo del trattamento complessivo annuo lordo già in godimento dal singolo dipendente. Detto limite risulta peraltro ridotto oggi al 50% del medesimo trattamento.
La legge 11.08.2014, n. 114, di conversione del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, istituì il “fondo per la progettazione e l’innovazione”, a valere sugli stanziamenti destinati a finanziare gli incentivi, e da ripartirsi secondo percentuali prestabilite: l’80% destinato agli incentivi per il responsabile unico del procedimento e gli altri soggetti che svolgono le funzioni tecniche, nonché i loro collaboratori, ed il restante 20%, destinato invece all’acquisto di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione e di implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa.
II.1. Con il decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici) si è passati dal suddetto “fondo per la progettazione e l’innovazione” al fondo incentivante “le funzioni tecniche”, che ora includono, a norma dell’art. 113 dell’articolato, anche le attività di “programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici” oltre a quelle, già incentivate in passato, riferibili al responsabile unico del procedimento, alla direzione dei lavori ed al collaudo tecnico-amministrativo; l’incentivo invece non è più destinabile agli incaricati della redazione del progetto e del piano della sicurezza, com’era nella previgente disciplina.
Il Codice in vigore prevede dunque, in maniera innovativa, l’incentivabilità di attività dirette ad assicurare l’efficacia della spesa e l’effettività della programmazione (come per primo evidenziato dalla Sezione regionale di controllo per la Toscana della Corte dei conti, con il parere 14.12.2017 n. 186); novità questa che accompagna l’ampliamento del novero dei beneficiari degli incentivi in esame, individuati ora anche nel personale pubblico coinvolto nelle diverse fasi del procedimento di spesa, dalla programmazione all’esecuzione del contratto.
I nuovi incentivi non sono dunque sovrapponibili agli incentivi per la progettazione della normativa previgente: come precisato nella legge delega (art. 1, comma 1, lett. rr, legge 28.01.2016, n. 11), tale compenso va a remunerare specifiche e determinate attività di natura tecnica svolte dai dipendenti pubblici, tra cui quelle della programmazione, predisposizione e controllo delle procedure di gara e dell’esecuzione del contratto, escludendo l’applicazione degli incentivi alla progettazione.
II.2. In conseguenza della mutata natura dei compensi incentivanti, la Sezione delle Autonomie della Corte dei conti ha ritenuto che gli stessi non potessero più essere considerati, come in passato, spesa per investimento, e che fossero dunque da includere nel tetto dei trattamenti accessori (deliberazione 06.04.2017 n. 7).
Sugli incentivi ridisegnati dal nuovo Codice è successivamente intervenuto l’art. 76 del decreto legislativo 19.04.2017, n. 56, che ha riferito l’imputazione degli oneri per le attività tecniche ai pertinenti stanziamenti degli stati di previsione della spesa, non solo con riguardo agli appalti di lavori (come da formulazione originaria della norma), ma anche a quelli di fornitura di beni e di servizi, confermando un indirizzo già emerso nella giurisprudenza consultiva regionale (Sezione regionale di controllo per la Lombardia, parere 16.11.2016 n. 333).
L’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017 (legge di bilancio per il 2018) ha invece specificato che il finanziamento del fondo per gli incentivi tecnici grava sul medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi o forniture. Il nuovo comma 5-bis dell’art. 113 in esame, introdotto dalla citata norma, precisa infatti che “gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
Quest’ultima novella ha richiesto un nuovo intervento nomofilattico della Sezione delle Autonomie, che con deliberazione 26.04.2018 n. 6 ha chiarito come la contabilizzazione prescritta ora dal legislatore consente di desumere l’esclusione di tali risorse dalla spesa per il trattamento accessorio, affermando che “la ratio legis è quella di stabilire una diretta corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche, nell’àmbito dello svolgimento di attività tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche procedure. L’avere correlato normativamente la provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale”.
Sulla questione si è assistito dunque in questo senso ad un ritorno al passato, chiarito che l’incentivo, in quanto previsto da una disposizione di legge speciale (l’art. 113 del Codice dei contratti pubblici) valevole per i dipendenti di tutte le amministrazioni pubbliche, non è assoggettabile al vincolo del trattamento accessorio che, invece, ha fonte nei contratti collettivi nazionali di comparto, con ciò superando per le Amministrazioni il limite delineato dalla deliberazione 06.04.2017 n. 7.
La giurisprudenza consultiva contabile in sede regionale ha poi chiarito che, in base ai princìpi di cui al richiamato indirizzo espresso dalla Sezione delle Autonomie, se l’onere relativo ai compensi incentivanti le funzioni tecniche non transita nell’àmbito dei capitoli dedicati alla spesa del personale, esso dunque non può essere soggetto ai vincoli posti alla relativa spesa da parte degli enti territoriali (Sezione regionale di controllo per il Lazio, parere 06.07.2018 n. 57; Sezione regionale di controllo per il Veneto, parere 25.07.2018 n. 265) estendendo dunque la validità del principio espresso dalla deliberazione 26.04.2018 n. 6 a tutti i vincoli inerenti alla spesa per il personale.
II.3. Quanto alle funzioni incentivabili, l’art. 113 co. 2 del Codice dei contratti pubblici contiene un elenco tassativo, che comprende: la programmazione della spesa per investimenti, la valutazione preventiva dei progetti, la predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, le funzioni di RUP, la direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, le funzioni di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti.
La tassatività dell’elencazione si deduce dall’utilizzo dell’avverbio “esclusivamente” che lo precede, ad ulteriore conferma della portata derogatoria della norma al principio di onnicomprensività della retribuzione, che ne implica la non estensibilità in via analogica.
III. Le considerazioni di questo Collegio, in ordine alla possibilità di riconoscere legittimamente gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’art. 113 del Codice dei contratti pubblici svolte dal personale dipendente nel caso della locazione finanziaria per la realizzazione di un'opera pubblica o di pubblica utilità, non possono prescindere dall’esame dell’applicabilità della ricostruzione effettuata dalla Sezione delle Autonomie con la deliberazione 25.06.2019 n. 15 in relazione alla fattispecie della concessione, posto che essa, seppure trovi disciplina in una differente parte del codice, viene normalmente ricondotta, per struttura e funzioni, alla categoria dei contratti di Partenariato pubblico privato (cfr. il recente parere 25.09.2019 n. 359 della Sezione regionale di controllo per la Lombardia, relativa al differente problema della escludibilità del tetto del 49% del costo complessivo dell'investimento di cui al comma 6 dell’art. 180 del canone di disponibilità di cui al comma 4 dello stesso articolo), entro cui appunto rientra la locazione finanziaria per la realizzazione di un'opera pubblica o di pubblica utilità.
L’art. 113 del Codice, menzionando unicamente gli “appalti di lavori, servizi e forniture”, sembrerebbe escludere gli altri contratti pubblici.
D’altra parte, l’art. 164, comma 2, relativo alle concessioni, stabilisce che: “Alle procedure di aggiudicazione di contratti di concessione di lavori pubblici o di servizi si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni contenute nella parte I e nella parte II, del presente codice, relativamente ai princìpi generali, alle esclusioni, alle modalità e alle procedure di affidamento, alle modalità di pubblicazione e redazione dei bandi e degli avvisi, ai requisiti generali e speciali e ai motivi di esclusione, ai criteri di aggiudicazione, alle modalità di comunicazione ai candidati e agli offerenti, ai requisiti di qualificazione degli operatori economici, ai termini di ricezione delle domande di partecipazione alla concessione e delle offerte, alle modalità di esecuzione”.
Si tratta pertanto di stabilire se detto rinvio vada inteso esclusivamente con riferimento agli aspetti prettamente procedurali dell’esecuzione del contratto o, in senso più ampio, a tutte le norme, con l’unico limite della compatibilità, che disciplinano la fase dell’esecuzione, ivi compresa quindi la disposizione sull’incentivabilità delle funzioni tecniche.
Questa Sezione, in passato, aveva sostenuto l’incentivabilità delle funzioni tecniche svolte in relazione alle concessioni (parere 21.06.2018 n. 198 e parere 27.11.2018 n. 455) valorizzando in particolare la nozione unitaria di contratti pubblici imposta dal diritto positivo (cfr. art. 3, comma 1, lett. dd) del Codice) comprensiva sia dei contratti di appalto che di concessione (ferma restando la fondamentale differenza del c.d. rischio operativo insito nella concessione, che giustifica la diversa forma di remunerazione accordata all’operatore economico).
L’ipotesi estensiva appariva confortata dalla ratio sottesa al riconoscimento del meccanismo premiale, che sarebbe “anzitutto quella di stimolare e premiare l’ottimale utilizzo delle professionalità interne, rispetto al ricorso all’affidamento all’esterno di incarichi professionali, che sarebbero comunque forieri di oneri aggiuntivi per l’Ente, con aggravio della spesa complessiva”.
Tale tesi non ha tuttavia ricevuto l’avallo della Sezione delle Autonomie che, chiamata ad esprimersi sulla questione di massima relativa all’incentivabilità delle funzioni tecniche svolte in relazione ai contratti di concessione, con la citata deliberazione 25.06.2019 n. 15, ha affermato il principio di diritto per cui “gli incentivi ivi disciplinati sono destinabili al personale dipendente dell’ente esclusivamente nei casi di contratti di appalto e non anche nei casi di contratti di concessione”.
Con detto pronunciamento la Sezione delle Autonomie ha espressamente valorizzato i seguenti profili:
   1. la circostanza che appalti e concessioni sono trattate in parti diverse dell’apparato normativo, elemento non irrilevante tenuto conto che il legislatore, quando ha voluto, ha specificatamente richiamato insieme le due tipologie, oppure ha genericamente fatto riferimento a “contratti pubblici”, sicché la lettura della disposizione di cui al secondo comma dell’art. 164 “non può indurre invero a ritenere che anche l’art. 113 sia applicabile ai contratti di concessione”, posto che essa indica puntualmente gli àmbiti per i quali si deve fare rinvio alle disposizioni contenute nelle parti prima e seconda;
   2. la mancanza, nel caso di concessioni, di “uno specifico stanziamento non riconducibile ai capitoli dei singoli lavori, servizi e forniture”;
   3. il fatto che gli incentivi sono stati individuati espressamente ed in forma tipica dal legislatore, non potendosi diversamente interpretare il tenore del comma 5-bis dell’art. 113 che, riferendosi ai capitoli di spesa per contratti di appalto, ha escluso l’assoggettabilità degli incentivi ai vincoli di spesa in materia di personale;
   4. le diverse caratteristiche strutturali delle due tipologie di contratti, in quanto, essenzialmente, quelli di appalto comportano spese e quelli di concessioni entrate, il che porta a dubitare se, in ipotesi, il parametro per la determinazione del fondo per i compensi incentivanti sia da individuarsi nell’importo a base di gara o con riferimento al canone dovuto dal concessionario, concludendosi che “in realtà, si dovrebbe far ricorso ad uno stanziamento di spesa specifico, che, come si è detto, non è previsto per legge e che appare, quindi, di dubbia legittimità. Senza contare che la copertura, essendo legata alla riscossione dei canoni concessori, resta gravata da un margine di aleatorietà”.
La Sezione delle Autonomie ha quindi collocato la vicenda in un quadro generale che tiene conto anche delle criticità che potrebbero emergere sotto il profilo finanziario, evidenziando inoltre, in relazione alla possibile soluzione (prospettata dalla Sezione rimettente) che individui il parametro di riferimento per la quantificazione del fondo nell’importo posto a base di gara, l’implicazione critica consistente nel fatto che, soprattutto nel caso di operazioni di notevole entità, prevedere di pagare incentivi a fronte di flussi di entrata che potrebbero essere incerti esporrebbe l’ente al rischio di insostenibilità.
IV. La prima circostanza indicata come ostativa dalla Sezione delle Autonomie al fine dell’incentivabilità delle funzioni connesse alle concessioni, riguarda, come visto, alcune questioni di collocazione sistematica, ed è tale aspetto che, in relazione alla fattispecie all’odierno esame, il Collegio ritiene dover inquadrare per primo.
La locazione finanziaria di opere pubbliche o di pubblica utilità è disciplinata dall’art. 187 del Codice, il quale si colloca nella parte IV, dedicata ai contratti di Partenariato pubblico privato e contraente generale, ai quali, per la previsione di cui all’art. 179: “si applicano le disposizioni di cui alla parte I, III, V e VI, in quanto compatibili” (co. 1) e, sempre in quanto compatibili: “le previsioni della presente parte, le disposizioni della parte II, titolo I a seconda che l'importo dei lavori sia pari o superiore alla soglia di cui all’articolo 35, ovvero inferiore, nonché le ulteriori disposizioni della parte II indicate all'articolo 164” (comma 2).
Vengono pertanto escluse dall’àmbito di applicabilità ai contratti di partenariato le norme contenute nel titolo V della Parte II, ivi compreso l’art. 113, a meno di non voler intendere il rinvio al secondo comma dell’art. 164 come un rinvio a tutte le norme (con l’unico limite della compatibilità) che disciplinano la fase dell’esecuzione, ivi compresa quindi la disposizione sull’incentivabilità delle funzioni tecniche. Tale interpretazione, come visto, non ha tuttavia ricevuto l’avallo della Sezione delle autonomie nella citata deliberazione 25.06.2019 n. 15.
Va però al riguardo evidenziato come, in quella sede, l’organo nomofilattico, nel negare la portata del riferimento alle modalità di esecuzione come afferente indistintamente a tutte le norme contenute nel titolo V della parte II, non ritenendolo dunque fondativo di una interpretazione estensiva, neppure d’altra parte ha basato su una contraria considerazione la propria decisione finale, che invece, come visto, si fonda piuttosto sulla differenza strutturale tra il contratto di concessione e quello di appalto.
D’altronde, affermare che la formula di cui all’art. 164, co. 2 “non può indurre invero a ritenere che anche l’art. 113 sia applicabile ai contratti di concessione” non appare sufficiente a stabilire che, tramite la tecnica del rinvio “di secondo grado” operata dall’art. 179, ciò valga ad escludere una volta per tutte l’incentivabilità della differente fattispecie ivi esaminata.
In altri termini, appare necessario analizzare la struttura del contratto di locazione finanziaria per opere pubbliche o di pubblica utilità prima di giungere a conclusioni definitive in ordine alla possibilità di incentivarne, ai sensi dell’art. 113, le connesse funzioni svolte dal personale amministrativo.
Il compiuto inquadramento della fattispecie contrattuale in esame presuppone a propria volta l’analisi delle norme che disciplinano la categoria del contratto di partenariato pubblico privato (d’ora in avanti contratto di PPP) il quale è definito all’art. 3, comma 1, lettera eee), come “il contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto con il quale una o più stazioni appaltanti conferiscono a uno o più operatori economici per un periodo determinato in funzione della durata dell'ammortamento dell'investimento o delle modalità di finanziamento fissate, un complesso di attività consistenti nella realizzazione, trasformazione, manutenzione e gestione operativa di un'opera in cambio della sua disponibilità, o del suo sfruttamento economico, o della fornitura di un servizio connesso all'utilizzo dell'opera stessa, con assunzione di rischio secondo modalità individuate nel contratto, da parte dell'operatore”.
Il contratto di PPP è dunque uno schema negoziale che nel sinallagma contrattuale ha la causa giuridica tipica dei negozi di finanziamento, sebbene come già evidenziato di recente dal citato parere 25.09.2019 n. 359: “la funzione economico-sociale dello schema del contratto di PPP, ad ogni modo, non si esaurisce nel finanziamento ma si colora, a seconda dei diversi tipi contrattuali riconducibili a questo schema negoziale, della funzione economica-sociale di realizzare la progettazione, la costruzione o la manutenzione di un’opera, nonché la fornitura dei beni e servizi necessari al funzionamento della stessa eccetera”.
Sembra pertanto potersi ragionevolmente inquadrare lo schema negoziale di PPP in quelli a causa variabile, per tale dovendosi significare la neutralità di uno schema astratto, che a priori consiste in un determinato effetto, ma che a posteriori viene qualificato da un elemento causale concreto.
Occorre a questo punto considerare il dato letterale di cui al già citato art. 187 che, nel disciplinare la locazione finanziaria di opere pubbliche o di pubblica utilità, stabilisce che la stessa “costituisce appalto pubblico di lavori, salvo che questi ultimi abbiano un carattere meramente accessorio rispetto all'oggetto principale del contratto medesimo”.
Di conseguenza, se in conformità alla causa variabile che caratterizza in generale il contratto di PPP, la locazione finanziaria può, in concreto, avere causa prevalente di appalto, potrebbe sostenersi la sua incentivabilità in base al fatto che a tale fattispecie si riferisce espressamente l’art. 113.
IV.1. Dirimenti rispetto alla fattispecie all’odierno esame sembrano invece le ulteriori circostanze che hanno portato la Sezione delle Autonomie a negare l’incentivabilità delle funzioni connesse alle concessioni, ed in particolare la mancanza di uno specifico stanziamento non riconducibile ai capitoli dei singoli lavori, servizi e forniture.
Il punto era stato molto ben evidenziato dalla Sezione rimettente, che aveva colto l’importante differenza rispetto al caso dei contratti di appalto, nei quali: “gli incentivi di che trattasi gravano sul medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture: pertanto, già nell’àmbito delle risorse destinate al contratto pubblico, una parte viene accantonata, a monte, per la specifica finalità dell’erogazione del compenso incentivante quale premialità per la realizzazione della procedura competitiva e la corretta esecuzione del contratto” (Sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione 14.03.2019 n. 96).
Ed è proprio questo, a parere del Collegio, l’elemento che sembra essere di ostacolo al riconoscimento dell’incentivabilità delle funzioni connesse alla locazione finanziaria di opere pubbliche o di pubblica utilità, posto che la sua funzione (anche) di finanziamento, implica che manchi nel bilancio dell’Amministrazione lo specifico stanziamento di spesa cui parametrare la misura del fondo incentivante, determinando oneri non aleatori e su cui pertanto sono fondate, secondo l’insegnamento della Sezione delle Autonomie, tanto la mancata assoggettabilità alla normativa vincolistica di spesa per il personale quanto la legittima erogazione degli incentivi per funzioni tecniche.
Che lo specifico stanziamento di spesa, nel quadro normativo vigente, sia elemento centrale per la configurabilità della previsione incentivante, lo conferma quella giurisprudenza consultiva contabile in base alla quale la propedeuticità del regolamento ai fini del perfezionamento del diritto non impedisce che quest’ultimo possa disporre la ripartizione degli incentivi anche prima dell’adozione del regolamento stesso, utilizzando le somme già accantonate allo scopo nel quadro economico riguardante la singola opera (Sezione regionale di controllo per la Lombardia, parere 09.06.2017 n. 185; Sezione regionale di controllo per il Veneto, parere 07.09.2016 n. 353; Sezione regionale di controllo per il Piemonte, parere 09.10.2017 n. 177).
IV.2. La prospettazione proposta dall’odierno Sindaco richiedente, che sembra subordinare il riconoscimento degli incentivi al successivo trasferimento al Comune da parte del soggetto finanziatore, non solo non risolve il problema della aleatorietà della copertura, ma rende evidente come non si possa affermare che in tal caso le risorse eventualmente destinabili alla copertura dell’onere troverebbero capienza in uno stanziamento specificamente previsto a tal fine.
Sempre secondo l’insegnamento della deliberazione 25.06.2019 n. 15, gli incentivi sono stati individuati “espressamente ed in forma tipica dal legislatore”, dovendosi interpretare il riferimento ai capitoli di spesa per contratti di appalto come condizione per escludere l’assoggettabilità degli incentivi ai vincoli di spesa in materia di personale; una differente copertura dei relativi oneri non potrebbe pertanto legittimamente rientrare nell’àmbito di applicabilità della norma incentivante.
Ancora più in dettaglio, va evidenziato come i vigenti principi contabili (e precisamente l’Allegato 4/2 al decreto legislativo 23.06.2011, n. 118) relativamente all’operazione di leasing in costruendo, prevedono le seguenti scritture: i canoni periodici vanno registrati distinguendo la parte interessi, da imputare in bilancio tra le spese correnti, dalla quota capitale, da iscrivere tra i rimborsi prestiti della spesa, mentre al termine del rapporto contrattuale la spesa per l’esercizio del riscatto è registrata tra le spese di investimento (giova rammentare che ciò che qui rileva è la contabilità finanziaria e non la contabilità economico-patrimoniale, poiché in termini della prima vengono dettate tanto le disposizioni vincolistiche quanto quelle relative agli incentivi per funzioni tecniche).
È quindi presente uno degli elementi che, in relazione agli appalti, consentono di riconoscere l’incentivabilità delle funzioni tecniche ed al tempo stesso la non rilevanza del relativo onere per quanto riguarda la spesa per il personale, vale a dire la natura della spesa, ben individuata, che non è spesa per il personale. Tuttavia, ciò non sembra sufficiente a superare l’ostacolo della mancanza di una voce di spesa dedicata, in quanto evidentemente la spesa per il riscatto del bene non coincide con l’importo posto a base di gara (ed anche qualora astrattamente i due importi coincidessero, differente sarebbe la natura della spesa, per quanto non inerente al personale).
D’altra parte, l’art. 113, se al secondo comma specifica, come visto, quali sono le funzioni incentivabili, al primo determina su quali specifici oneri ne va parametrata la remunerazione, ed essi sono oneri inerenti alla realizzazione dell’appalto (“Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti”).
Pertanto, se si parametrasse l’incentivo sulla spesa per il riscatto, si sarebbe al di fuori dell’ambito applicativo della norma incentivante, e se si parametrasse l’incentivo sulla spesa per l’appalto, si farebbe riferimento ad una spesa che non compare nel bilancio dell’amministrazione. Entrambe le due condizioni, invece, appaiono come visto indispensabili.
IV.3. Ad ulteriore sostegno delle motivazioni espresse, va richiamata la recente pronuncia della Sezione regionale di controllo per la Lombardia, che, investita di questione analoga a quella qui all’attenzione, nel convincimento espresso che il principio di diritto enunciato dalla deliberazione 25.06.2019 n. 15 trovi completa e totale applicazione non solo nell’ipotesi di concessione, ma anche nel caso in cui la questione attenga ad altre forme contrattuali rientranti nelle forme di Partenariato pubblico privato, ha ritenuto di dover adottare “un’interpretazione estensiva della su indicata prospettazione esegetica anche nei confronti dei contratti di leasing in costruendo” (parere 18.07.2019 n. 311, ed orientamento poi confermato dal successivo
parere 21.11.2019 n. 429 della medesima Sezione).
V. Per tutto quanto sopra evidenziato,
il Collegio, pur consapevole delle ragioni di ordine sistematico già evidenziate, che, data la ratio della previsione di funzioni incentivabili, in vista di efficientamento e razionalizzazione della spesa suggerirebbero probabilmente un approccio estensivo, nel senso del riconoscimento delle stesse anche in relazione a fattispecie contrattuali differenti dall’appalto, ritiene che il quadro normativo attualmente vigente non consenta di riconoscere legittimamente detti incentivi per funzioni tecniche svolte dal personale del Comune per la realizzazione di un contratto di locazione finanziaria per opere pubbliche o di pubblica utilità, neppure sotto le condizioni generali ed astratte rappresentate dall’odierno richiedente (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 22.01.2020 n. 20).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALILa piattaforma ANAC per l’acquisizione dei piani triennali di prevenzione della corruzione.
Domanda
Da una lettura delle disposizioni in merito alla stesura del PTPCT 2020 e agli adempimenti da eseguire, successivamente alla approvazione definitiva, è emersa la necessità di compilare il questionario sul sito di ANAC secondo le modalità indicate nella “Piattaforma di Acquisizione dei Piani Triennali per la Prevenzione della Corruzione e per la Trasparenza – Guida alla compilazione dei questionari per le Pubbliche Amministrazioni”.
Si chiede se tale compilazione sia obbligatoria e se è da effettuarsi entro il termine del 31 gennaio 2020, medesimo termine indicato per la approvazione del PTPCT.
Risposta
L’articolo 1, comma 8, della legge 06.11.2012, n. 190, prevede che, entro il 31 gennaio di ogni anno, l’organo di indirizzo politico, su proposta del Responsabile della Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPCT), adotti il Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT) e lo trasmetta all’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC)
Al comma 14, del medesimo articolo, si prevede che, entro il 15 dicembre di ogni anno, il RPCT trasmetta all’organo di indirizzo politico e all’Organismo Indipendente di Valutazione (OIV) una relazione recante i risultati dell’attività svolta e la pubblichi sul sito web dell’amministrazione.
I due adempimenti (PTPCT e Relazione annuale) sono evidentemente collegati in quanto il nuovo PTPCT dovrà tener conto dei risultati dell’annualità precedente.
Generalmente l’ANAC, prima della scadenza del 15 dicembre, proroga il termine e lo allinea con quello previsto per l’adozione del PTPCT. Anche quest’anno l’ANAC, con il Comunicato del 13.11.2019, ha posticipato il termine per la pubblicazione della relazione annuale del RPCT al 31.01.2020.
Tra i compiti dell’ANAC, vi è quello di verificare e monitorare l’adozione, da parte delle amministrazioni, del PTPCT e l’attuazione della normativa e delle misure di prevenzione della corruzione.
Tale attività si è esplicata non solo attraverso la cosiddetta vigilanza, ma anche attraverso un’attività di monitoraggio, finalizzata a valutare la qualità dei PTPCT e delle misure di prevenzione, la congruità di tali documenti rispetto alle indicazioni fornite dall’Autorità nei Piani Nazionali Anticorruzione (PNA) e l’opportunità di eventuali correttivi.
Dal 2019 è disponibile una Piattaforma, predisposta dall’ANAC, per l’acquisizione e il monitoraggio dei Piani Anticorruzione e per la redazione delle relazioni annuali dei Responsabili. Essa può essere utilizzata anche per il monitoraggio di competenza del RPCT.
Il Presidente ANAC ne ha dato notizia con il Comunicato del 12.06.2019, consentendo di accreditarsi e di inserire i dati relativi al PTPCT 2019-2021.
La piattaforma permette:
a) all’Autorità, di condurre analisi qualitative dei dati grazie alla sistematica e organizzata raccolta delle informazioni e, dunque, di poter rilevare le criticità dei PTPCT e migliorare, di conseguenza, la sua attività di supporto alle amministrazioni;
b) ai RPCT:
   – di avere una migliore conoscenza e consapevolezza dei requisiti metodologici più rilevanti per la costruzione del PTPCT;
   – monitorare nel tempo i progressi del proprio PTPCT;
   – conoscere, in caso di successione nell’incarico di RPCT, gli sviluppi passati del PTPCT;
   – effettuare il monitoraggio sull’attuazione del PTPCT;
   – produrre la relazione annuale.
Il PNA 2019 (delibera ANAC n. 1064 del 13.11.2019) e il citato Comunicato ANAC non esplicitano in maniera chiara se sia obbligatorio procedere alla registrazione e all’inserimento dei dati relativi al PTPCT 2020-2022. Tuttavia, considerato che viene richiamato, quale base giuridica della piattaforma, il comma 8, dell’art. 1, della legge 190/2012, che prevede la trasmissione del PTPCT ad ANAC, si può ritenere che la Piattaforma sia la modalità per adempiere a tale previsione normativa.
A sostegno di tale interpretazione si richiama l’allegato 1, al PNA 2019 nel quale si dice che i RPCT “sono tenuti ora a registrarsi ed accreditarsi” sulla Piattaforma. La precisazione che, per il 2020, la Piattaforma opera in forma sperimentale, sembra relativa esclusivamente all’ambito di operatività, limitato, per ora, alle sole amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165.
L’utilizzo della Piattaforma per il monitoraggio di competenza del RPCT è, invece, facoltativo, come facoltativo è il livello di approfondimento, non obbligando il sistema all’inserimento di tutte le misure specifiche.
Non è, invece, previsto un termine per l’inserimento, che potrà essere effettuato a partire dall’adozione del PTPCT, essendo un adempimento strumentale al monitoraggio, sia dell’ANAC che del RPCT.
La Piattaforma si compone di tre sezioni:
   • Anagrafica: finalizzata all’acquisizione delle informazioni in merito all’amministrazione, al Responsabile della prevenzione della Corruzione e Trasparenza, alla sua formazione e alle sue competenze;
   • questionario Piano Triennale: finalizzato all’acquisizione delle informazioni relative al Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT) e alla programmazione delle misure di prevenzione della corruzione;
   • questionario Monitoraggio attuazione: finalizzato all’acquisizione delle informazioni relative alle misure di prevenzione ed allo stato di avanzamento del PTPCT.
Per ulteriori informazioni si rinvia al box 15, dell’Allegato 1, al PNA 2019 e alle indicazioni disponibili al seguente link.
A completamento informativo, si segnala che con comunicato del 27.11.2019, il Presidente dell’ANAC precisa che l’utilizzo e la compilazione dei dati nella Piattaforma non può essere delegato a soggetti esterni all’Amministrazione, in attuazione del principio secondo cui soggetti terzi non possono predisporre il PTPCT e neppure fornire contributi per la redazione dello stesso. Nel Comunicato si specifica, anche, che non possono far parte della struttura di supporto al RPCT soggetti esterni all’amministrazione.
Per la relazione annuale 2019, l’ANAC prevede che si possa, alternativamente, utilizzare la Scheda in formato Excel, analoga a quella in uso negli anni scorsi (con due sole sezioni aggiuntive concernenti rispettivamente “la rotazione straordinaria” e “il pantouflage”), o generare in modo automatico la relazione attraverso la Piattaforma, dopo aver completato l’inserimento dei dati relativi ai PTPCT e alle misure di attuazione (vedi Comunicato del 13.11.2019).
È prevedibile che, per la relazione 2020, l’ANAC richiederà esclusivamente la seconda modalità.
Tutto ciò premesso, la risposta allo specifico quesito è la seguente:
   a) la compilazione può ritenersi obbligatoria;
   b) il termine per provvedervi non è stato definito, ma non è quello del 31.01.2020.
Per quanto sopra, l’ente interpellante ha come obbligo di pubblicare la relazione riferita all’anno 2019 e il PTPCT 2020/2022, approvato con deliberazione della Giunta comunale, nel proprio sito web nella sezione Amministrazione trasparente > Altri contenuti > Prevenzione della corruzione (11.02.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - VARICarri carnevale.
Domanda
Quali sono gli atti e i provvedimenti da adottare per la sfilata di carri allegorici in occasione del carnevale?
Risposta
Ai sensi della circolare del Ministero dell’Interno del 01.12.2009 prot. n. 17082/114 i “carri allegorici […] devono essere conformi alle vigenti normative in materia di sicurezza, in particolare sotto il profilo della sicurezza statica, elettrica ed antinfortunistica o, in assenza, a standard di buona tecnica di riconosciuta validità. In analogia a quanto previsto dall’articolo 141-bis del Regolamento del T.U.L.P.S. dovrà essere presentata una relazione tecnica a firma di un tecnico esperto, attestante la rispondenza dell’impianto alle regole tecniche di sicurezza.”
È innanzitutto indispensabile acquisire l’attestato di “rispondenza dell’impianto alle regole tecniche di sicurezza” (UNI EN 13814:2005) per ogni singolo carro allegorico, redatta e firmata da un tecnico abilitato. È necessario che la documentazione sia acquisita da parte dell’ufficio comunale che concede l’area pubblica oppure, se previsto, da altro ufficio incaricato anche a rilasciare eventuali altri provvedimenti (per esempio il SUAP).
Questo aspetto è rilevante: il provvedimento di concessione e occupazione del suolo pubblico potrebbe risultare in definitiva essere l’unico provvedimento valido rilasciato per lo svolgersi della manifestazione. Le conseguenti ordinanze adottate ai sensi degli artt. 6 e 7 del Codice della strada sono provvedimenti non discrezionali e direttamente consecutivi al fatto che il suolo pubblico non è classificabile quale “strada”, per quel periodo indicato dall’autorizzazione dell’ente proprietario, ma diventa luogo di evento.
Si rammenta che nel caso in cui la sfilata non si svolga in “luoghi ubicati in delimitati spazi all’aperto attrezzati con impianti appositamente destinati a spettacoli o intrattenimenti e con strutture apposite per lo stazionamento del pubblico”, non necessita della preventiva valutazione, ai sensi dell’art. 141 Reg. TULPS, da parte della C.C.V.L.P.S., prodromica al rilascio della licenza (o SCIA) ex artt. 68 e 69 TULPS.
Circa la “safety”, salvo nei casi in cui viene convocata la Commissione Comunale di Vigilanza sui Locali di Pubblico Spettacolo (CCVLPS), l’acquisizione e la valutazione del Piano “safety” è onere dell’ufficio comunale preposto al rilascio delle autorizzazioni alla occupazione del suolo pubblico. Il piano deve essere necessariamente redatto da un tecnico professionista e presentato successivamente alla compilazione della “scheda di valutazione del rischio” di cui la Circolare “Morcone” del 28.07.2017.
Altresì, nelle more della redazione del piano da parte del tecnico incaricato dal responsabile della manifestazione, l’organizzatore deve innanzitutto presentare, contestualmente alla richiesta di occupazione/autorizzazione del suolo pubblico, la scheda di valutazione del rischio affinché gli uffici comunali siano resi edotti del livello di rischio, legato principalmente alla stima del numero dei partecipanti.
Infine circa la “security” è necessario che l’organizzatore, in stretta collaborazione con gli uffici comunali, informi direttamente la Questura che adotterà eventuale ordinanza a firma del Questore per le misure atte a garantire e assicurare, oltre all’ordine pubblico, la sicurezza dall’esterno (come ad esempio la collocazione dei new jersey) (06.02.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOConcorsi tempo determinato e utilizzo graduatorie.
Domanda
Si possono ancora svolgere concorsi a tempo determinato o un ente è obbligato ad utilizzare le graduatorie di altri enti?
Risposta
Riportiamo, innanzitutto, l’articolo 36, comma 2, del d.lgs. 165/2001 che così prevede: “Per prevenire fenomeni di precariato, le amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle disposizioni del presente articolo, sottoscrivono contratti a tempo determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato. È consentita l’applicazione dell’articolo 3, comma 61, terzo periodo, della legge 24.12.2003, n. 350, ferma restando la salvaguardia della posizione occupata nella graduatoria dai vincitori e dagli idonei per le assunzioni a tempo indeterminato”.
Il tenore letterale della norma, evidentemente prevede una possibilità di utilizzare le graduatorie di altri enti e di certo non un obbligo. Anche il Dipartimento della Funzione Pubblica all’interno della Circolare 5/2013 scrive chiaramente che: “In caso di mancanza di graduatorie proprie le amministrazioni possono attingere a graduatorie di altre amministrazioni mediante accordo”.
È quindi evidente che si tratta di una possibilità.
In alternativa, l’ente, potrà quindi procedere con concorsi a tempo determinato. Anche in questo caso, vengono a supporto le parole del Dipartimento della Funzione Pubblica contenute nel paragrafo 2 della predetta Circolare: “Inoltre, pur mancando una disposizione di natura transitoria nel decreto-legge, per ovvie ragioni di tutela delle posizioni dei vincitori di concorso a tempo determinato, le relative graduatorie vigenti possono essere utilizzate solo a favore di tali vincitori, rimanendo precluso lo scorrimento per gli idonei.
Resta fermo che le assunzioni a tempo determinato si svolgono, sotto l’aspetto ordinamentale, tenendo conto della disciplina di cui all’articolo 36 del d.lgs n. 165 del 2001 e sotto l’aspetto finanziario nei limiti di spesa dell’articolo 9, comma 28, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122, fatte salve le deroghe previste dalla legge. Si ricorda che il mancato rispetto dei limiti di cui al citato comma 28 costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale
”.
Quindi, è chiarissimo che un ente può benissimo svolgere procedure concorsuali a tempo determinato. L’unico caso in cui non può procedere è solamente in presenza di proprie graduatorie a tempo indeterminato per le quali l’art. 36 comma 2 prevede invece un obbligo di utilizzo (06.02.2020 - link a www.publika.it).

APPALTII nuovi obblighi di controllo sulle ritenute versate in caso di appalto.
Domanda
Il Comune ha affidato un servizio di ristorazione scolastica che prevede la prestazione di preparazione pasti presso la cucina, già attrezzata, della scuola di proprietà dell’ente.
Scatta l’obbligo previsto dall’art. 4 del d.l. 124/2019 in materia di ritenute fiscali?
Risposta
L’art. 4 del d.l. n. 124/2019 dopo la conversione in legge n. 157/2019 ha introdotto il nuovo art. 17-bis al d.lgs. 241/1997
[1], che prevede rilevanti novità nella gestione delle ritenute fiscali in materia di appalti, quale misura di contrasto “all’illecita somministrazione di manodopera”. Disposizione che appesantisce i già abbondanti adempimenti in capo sia ai committenti pubblici che agli operatori aggiudicatari, e rispetto alla quale si attendono chiarimenti interpretativi ed operativi che rendano omogeneo e soprattutto funzionale il nuovo onere, evitando che si traduca in una mera richiesta documentale.
Per un primo approfondimento si rinvia:
   • allo studio pubblicato dalla Fondazione Studio Consulenti del Lavoro, “Nuove misure di contrasto all’illecita somministrazione di manodopera”, di cui al seguente link;
   • alla Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 108 del 23.12.2019: Oggetto: Articolo 4 del d.l. 26.10.2019 n. 124 – Ritenute e compensazioni in appalti e subappalti – Chiarimenti, di cui al seguente link;
   • alle risposte ai quesiti degli esperti fornite dall’Agenzia delle Entrate il 13.01.2020 nel corso del terzo Forum sui dottori commercialisti ed esperti contabili a Milano, pubblicato sul sito dell’Associazione Nazionale Costruttori Edili, di cui al seguente link.
La Stazione appaltante dovrà quindi verificare quali sono gli operatori economici con i quali sono in corso di esecuzione contratti che presentano contestualmente le seguenti condizioni, come previste dalla sopra citata normativa, ovvero:
   • l’importo complessivo annuo superiore ad € 200.000 (importo annuo delle prestazioni affidate alla stessa impresa anche con più contratti di appalto, con estensione della verifica su tutti i contratti);
   • contratti caratterizzati da prevalente utilizzo di manodopera (si può ritenere siano quelli riconducibili all’art. 50, del d.lgs. 50/2016, ultimo periodo, ovvero quei contratti nei quali il costo della manodopera è pari ad almeno al 50% dell’importo totale del contratto. Informazione che è desumibile dagli atti di gara essendo un dato da riportare obbligatoriamente nella documentazione, ai sensi dell’art. 23, co. 16, del codice dei contratti, almeno per quegli appalti banditi successivamente al correttivo del 2017);
   • il personale impiegato presti l’attività lavorativa presso le sedi di attività del committente;
   • i beni strumentali utilizzati nell’esecuzione della prestazione siano di proprietà del committente o ad esso riconducibili in qualunque forma.
Con riferimento al quesito, se il servizio di ristorazione scolastica è prestato presso la cucina della scuola dell’ente locale e utilizza beni strumentali di proprietà dell’Amministrazione comunale, è possibile ritenere che sussistendo anche gli altri requisiti di importo, scattino gli obblighi previsti dalla vigente normativa.
---------------
[1] 1. …., che affidano il compimento di una o più opere o di uno o più servizi di importo complessivo annuo superiore a euro 200.000 a un’impresa, tramite contratti di appalto, subappalto, affidamento a soggetti consorziati o rapporti negoziali comunque denominati caratterizzati da prevalente utilizzo di manodopera presso le sedi di attività del committente con l’utilizzo di beni strumentali di proprietà di quest’ultimo o ad esso riconducibili in qualunque forma, sono tenuti a richiedere all’impresa appaltatrice o affidataria e alle imprese subappaltatrici, obbligate a rilasciarle, copia delle deleghe di pagamento relative al versamento delle ritenute di cui agli articoli 23 e 24 del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, 50, comma 4, del decreto legislativo 15.12.1997, n. 446, e 1, comma 5, del decreto legislativo 28.09.1998, n. 360, trattenute dall’impresa appaltatrice o affidataria e dalle imprese subappaltatrici ai lavoratori direttamente impiegati nell’esecuzione dell’opera o del servizio.
Il versamento delle ritenute di cui al periodo precedente è effettuato dall’impresa appaltatrice o affidataria e dall’impresa subappaltatrice, con distinte deleghe per ciascun committente, senza possibilità di compensazione
(05.02.2020 - link a www.publika.it).

APPALTI SERVIZILa Centrale unica di committenza (CUC) di questa Unione di comuni intende procedere all'affidamento del servizio di raccolta rifiuti urbani ed è indeciso sulla qualificazione quale appalto o concessione.
Quale è la disciplina applicabile?

La applicabilità dell'una (appalto) o dell'altra (concessione) disciplina non dipende, nel quadro del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, dalla tipologia di servizio (raccolta di rifiuti) ma dal regime contrattuale che sta alla base del rapporto fra l'Ente locale che lo affida e il gestore.
Come evidenziato dalla giurisprudenza costante "assumono rilievo i criteri discretivi tra appalto di servizi e concessione, in considerazione del fatto che l'elemento caratterizzante la concessione è il trasferimento del c.d. "rischio economico" in capo al concessionario, inteso come possibilità che la gestione dell'attività oggetto di concessione non sia remunerativa. In difetto di detto rischio, si verte nel campo dell'appalto di servizi" (tale distinzione rileva anche ai fini dell'applicabilità della tassa sull'occupazione del suolo pubblico ed altri regimi fiscali.
Ne deriva, come sottolineato anche recentemente che "va qualificato come appalto di servizi, e non come concessione di servizi, il contratto di gestione dei rifiuti urbani che preveda che l'attività svolta sia remunerata integralmente dall'amministrazione, di modo che non gravi sull'operatore economico il rischio d'impresa".
Dalla qualificazione ne deriva l'applicazione del distinto regime giuridico, ad esempio in merito alla revisione dei prezzi (possibile per l'appalto di servizi, vietato nella concessione per la quale vige l'opposto principio della normale invariabilità del canone concessorio, salva esplicita clausola di deroga).
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, art. 164
Riferimenti di giurisprudenza

Cons. Stato Sez. V, 24.01.2020, n. 608 - Comm. trib. prov. Puglia Lecce Sez. II, 26.06.2019 - TAR Toscana, Sez. II, 04.06.2019, n. 832 - Comm. trib. prov. Puglia Lecce Sez. IV, 02.04.2019 - Cass., S.U., 20.04.2017, n. 9965 - TAR Campania Napoli Sez. VIII, 12.01.2015, n. 114 - Cons. Stato Sez. VI, 05.06.2006, n. 3335 - Cons. Stato Sez. VI, 27.02.2006, n. 841 - Cons. Stato Sez. VI, 10.02.2006, n. 553
 (05.02.2020 - tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMisure organizzative per il rispetto del divieto di pantouflage.
Domanda
Il nuovo Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT) dell’Amministrazione prevede, tra le misure a carico del dirigente dell’Ufficio personale, l’introduzione della clausola di rispetto del divieto di pantouflage nei nuovi contratti di reclutamento del personale.
Vorrei sapere in quali tipologie di contratti va inserita.
Risposta
Il divieto di pantouflage o revolving doors (c.d. porte girevoli) è una delle misure concernenti l’imparzialità dei funzionari pubblici, introdotte dalla legge 06.11.2012, n. 190 (c.d. legge Severino). Si tratta di una sorta di “incompatibilità successiva” che viene a determinarsi quando un dipendente, che ha esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto di una pubblica amministrazione, viene successivamente assunto o inizia a collaborare, a titolo professionale, con il soggetto privato destinatario dei poteri autoritativi o negoziali. Il divieto è volto ad evitare che il dipendente sfrutti la propria posizione nell’intento di precostituirsi situazioni lavorative vantaggiose, pregiudicando, in tal modo, il perseguimento dell’interesse pubblico.
La norma di riferimento è l’art. 1, comma 42, lettera l), della legge 190/2012, che ha introdotto il comma 16-ter nell’art. 53 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165
[1]. La sanzione prevista dal legislatore consiste nella nullità dei contratti conclusi e degli incarichi conferiti in violazione di tale disposizione e nel divieto, per il soggetto privato che ha stipulato i contratti o conferito gli incarichi con l’ex dipendente pubblico, di contrattare con la pubblica amministrazione per un periodo di tre anni.
In sede attuativa il divieto del pantouflage ha avuto un particolare rilevo nell’ambito della contrattualistica pubblica, in quanto gli operatori che partecipano alle gare sono chiamati a rilasciare una dichiarazione di non aver stipulato contratti di lavoro o affidato incarichi in violazione dell’art. 53, comma 16-ter, del d.lgs. 165/2001 e tale dichiarazione deve essere verificata dalla stazione appaltante. Le pronunce giurisprudenziali e la riflessione dottrinale intorno all’ambito di applicazione di tale divieto sono per lo più originati da fattispecie riconducibili a gare d’appalto.
Con l’aggiornamento al Piano Nazionale Anticorruzione (PNA) 2018 si suggerisce una misura ulteriore, consistente nel far sottoscrivere, al dipendente pubblico che cessa dall’incarico, l’impegno al rispetto del divieto di pantouflage.
Nel PNA 2019, si anticipa l’assunzione dell’impegno sin dalla fase di sottoscrizione del contratto, prevedendo che anche gli atti di assunzione del personale contemplino l’impegno a rispettare tale divieto.
A ben vedere, già il Piano Nazionale Anticorruzione (PNA) 2013 prevedeva che nei contratti di assunzione del personale dovesse essere inserita la clausola concernente il divieto di prestare attività lavorativa (a titolo di lavoro subordinato o di lavoro autonomo) per i tre anni successivi alla cessazione del rapporto nei confronti dei destinatari di provvedimenti adottati o di contratti conclusi con l’apporto decisionale del dipendente.
Correttamente, dunque, il PTPCT dell’amministrazione prevede che l’ufficio personale adotti questa misura, che ha anche l’effetto di rendere preventivamente edotti i dipendenti del vincolo discendente dall’esercizio di poteri autoritativi o negoziali.
È ragionevole che l’ufficio personale si ponga il problema di individuare il corretto ambito di applicazione della disposizione, in quanto il divieto comporta una limitazione della libertà di iniziativa economica, costituzionalmente tutelata, e dunque la finalità di prevenzione della corruzione deve essere contemperata con il rispetto di tale libertà.
Occorre esaminare, da un lato, il tipo di rapporto di lavoro che lega il soggetto alla pubblica amministrazione e, dall’altro, il contenuto dell’attività lavorativa, in quanto il divieto discende dall’aver esercitato poteri autoritativi o negoziali.
Sotto il primo profilo, la norma utilizza la definizione “dipendenti” senza distinguere tra rapporti di lavoro a tempo determinato e indeterminato, pertanto è pacifico che si applichi ad entrambe le tipologie di contratti.
L’art. 21, del decreto legislativo 08.04.2016, n. 39 estende poi il divieto di pantouflage ai soggetti titolari di incarichi contemplati nel citato decreto, “ivi compresi” recita la disposizione “i soggetti esterni con i quali l’amministrazione, l’ente pubblico o l’ente di diritto privato in controllo pubblico stabilisce un rapporto di lavoro subordinato o autonomo”.
A partire da tali previsioni normative l’ANAC estende l’ambito di applicazione della norma anche ad altri soggetti, legati alla pubblica amministrazione da un rapporto di lavoro autonomo (parere ANAC AG/2 del 04.02.2015 ribadito nei ultimi PNA adottati). Questa interpretazione desta perplessità in quanto, al contrario, proprio la circostanza che il legislatore abbia equiparato ai dipendenti i soggetti titolari di incarichi di cui al d.lgs. 39/2013 sembrerebbe confermare che l’ambito di applicazione non può che essere quello previsto dalla legge.
Sotto il profilo del tipo di funzioni esercitate, con l’espressione “poteri autoritativi o negoziali” si intende l’attività di emanazione di provvedimenti amministrativi e il perfezionamento di negozi giuridici, mediante la stipula di contratti in rappresentanza giuridica ed economica dell’ente.
L’ANAC precisa che i dirigenti e i funzionari che svolgono incarichi dirigenziali o coloro che esercitano funzioni apicali con deleghe di rappresentanza esterna rientrano in tale ambito, come anche coloro che ricoprono incarichi amministrativi di vertice, anche se non emanano direttamente provvedimenti amministrativi e non stipulano negozi giuridici. Essi sono, infatti, senz’altro in grado di incidere sull’assunzione di decisioni da parte delle strutture di riferimento.
Andando oltre, l’ANAC ritiene che il rischio di precostituirsi situazioni lavorative favorevoli possa sussistere anche in capo al dipendente che ha comunque avuto il potere di incidere in maniera determinante sulla decisione oggetto del provvedimento finale, collaborando all’istruttoria, ad esempio attraverso l’elaborazione di atti endoprocedimentali obbligatori (pareri, perizie, certificazioni) che vincolano in modo significativo il contenuto della decisione (parere ANAC AG/74 del 21.10.2015 e orientamento n. 24/2015).
Anche tale interpretazione rischia di estendere in maniera eccessiva l’ambito di applicazione del divieto, pertanto è importante che, in sede applicativa, si verifichino in concreto le funzioni svolte dal dipendente.
Ad esempio, appare eccessivo che un lavoratore che venga assunto a tempo determinato o un soggetto che stipuli un contratto di collaborazione professionale, riconducibile ad un rapporto di lavoro autonomo, debba vincolarsi, in sede di stipula del contratto, al rispetto della disposizione di cui all’art. 53, comma 16-ter, del d.lgs. 165/2001, per il solo fatto che collaborerà in attività procedimentali finalizzate all’adozione di un provvedimento di autorizzazione, concessione o erogazione di sovvenzioni, sussidi o vantaggi economici. La sola collaborazione all’elaborazione dei provvedimenti o degli atti endoprocedimentali vincolanti non può giustificare la limitazione alla liberà di iniziativa economica.
Resta fermo che, se il dipendente poi, nel corso dell’attività lavorativa, abbia in concreto effettivamente svolto delle funzioni autoritative o negoziali, nei confronti di un dato soggetto privato, non possa essere assunto o collaborare con tale soggetto, per i tre anni successivi alla cessazione del rapporto con la pubblica amministrazione.
Di seguito una ipotesi di formulazione della clausola: “Il sottoscritto dichiara di essere a conoscenza del divieto di cui all’art. 53, comma 16-ter, del d.lgs. 165/2001 e si impegna fin d’ora, nel caso eserciti in concreto poteri autoritativi o negoziali nei confronti di soggetti privati, a non accettare incarichi lavorativi o professionali presso i medesimi soggetti, per i tre anni successivi alla cessazione del rapporto di lavoro.”
---------------
[1] “16-ter. I dipendenti che, negli ultimi tre anni di servizio, hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, non possono svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso i soggetti privati destinatari dell’attività della pubblica amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri. I contratti conclusi e gli incarichi conferiti in violazione di quanto previsto dal presente comma sono nulli ed è fatto divieto ai soggetti privati che li hanno conclusi o conferiti di contrattare con le pubbliche amministrazioni per i successivi tre anni con obbligo di restituzione dei compensi eventualmente percepiti e accertati ad essi riferiti” (04.02.2020 - link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Chiarimenti in merito alla titolarità a richiedere o presentare un titolo edilizio (Regione Emilia Romagna, nota 03.02.2020 n. 79334 di prot.).

ENTI LOCALIPagoPA: dal decreto Milleproroghe ancora un rinvio (questa volta breve) per le P.A..
Domanda
Il mio Ente non ha ancora aderito al sistema ‘PagoPa’ per l’incasso delle proprie entrate. Ma qual è il termine ultimo per farlo?
Risposta
Come dovrebbe essere ormai noto, PagoPa è la piattaforma informatica attraverso cui è possibile eseguire i pagamenti dovuti nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni. Questi possono infatti essere effettuati direttamente sul sito o sull’applicazione mobile dell’ente creditore ovvero attraverso i canali –sia fisici che on-line– di banche e altri soggetti Prestatori di Servizi di Pagamento (PSP). Fra questi vi sono le agenzie di banca, gli home banking, gli sportelli ATM (bancomat), i punti vendita SISAL, Lottomatica, Banca 5 e gli uffici postali.
Il quadro normativo di riferimento è contenuto nel Codice dell’amministrazione digitale, approvato ormai quindici anni fa con il d.lgs. 82/2005. A prevedere il sistema PagoPa è infatti l’articolo 5, comma 1, del Codice.
Nella sua prima versione l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione per l’effettuazione dei pagamenti era rivolto alle sole pubbliche amministrazioni centrali. Si trattava di una semplice facoltà e non di un obbligo. Solo in seguito ne è stata prevista l’estensione a tutte le PA e quella che era nata come una mera facoltà è divenuto un obbligo ineludibile. Naturalmente, fatte salve le varie proroghe che negli anni si sono succedute.
Da ultimo è intervenuto l’art.1, comma 8 del decreto Milleproroghe (d.l. n. 162 del 30/12/2019). Cosa prevede tale norma?
Essa prevede un ulteriore rinvio (sarà l’ultimo?) al termine previsto dall’art. 65, comma 2, del d.lgs. 217/2017 (ultimo decreto correttivo del Codice). La nuova scadenza viene ora fissata al 30.06.2020. Entro tale data le PA sono tenute a integrare i propri sistemi di incasso con la piattaforma di cui all’articolo 5, comma 2, del Codice, ovvero ad avvalersi, a tal fine, di servizi forniti da altri soggetti di cui all’articolo 2, comma 2, del Codice stesso, ovvero da fornitori di servizi di incasso già abilitati ad operare sulla piattaforma PagoPa.
Questa volta il Legislatore ha però previsto sanzioni a carico degli enti inadempienti. La norma stabilisce infatti che il mancato adempimento dell’obbligo di avvio di PagoPa rileva ai fini della misurazione e della valutazione della performance individuale dei dirigenti responsabili (e ovviamente delle posizioni organizzative negli enti privi di dirigenza) e comporta responsabilità dirigenziale e disciplinare ai sensi degli articoli 21 e 55 del d.lgs. n. 165/2001.
L’obbligo di avvalersi di PagoPa vige per tutte le pubbliche amministrazioni, come individuate dall’art. 1, comma 2, di tale ultimo decreto legislativo. Esso infatti vi annovera tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e le scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le regioni, le province, i comuni, le comunità montane, e loro consorzi ed associazioni, le istituzioni universitarie, gli istituti autonomi case popolari, le camere di commercio e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30/07/1999, n. 300.
Come si vede, la platea dei soggetti obbligati ad avvalersi di PagoPa è estremamente ampia, né è prevista alcuna distinzione fra enti grandi o piccoli. Il decreto Milleproroghe è ancora in fase di conversione in legge. L’iter dovrà concludersi entro il prossimo 28 febbraio e non si possono escludere ulteriori rinvii.
Va detto tuttavia che fra i molti emendamenti che Anci ha presentato in Parlamento, non ve n’è nessuno che riguardi questa scadenza. E ciò è pienamente condivisibile, perché la piattaforma PagoPa va nella direzione di avvicinare la Pubblica Amministrazione ai cittadini/utenti. E’ allora forse il caso di mettervi davvero mano e di attrezzarsi al più presto perché questa proroga potrebbe davvero essere l’ultima. Ogni ulteriore informazione in merito alla piattaforma PagoPa può essere reperita al sito https://www.pagopa.gov.it/ (03.02.2020 - link a www.publika.it).

APPALTIQuesta stazione appaltante (ente pubblico economico) ha trovato, in alcune procedure di gara, dichiarazioni di avvalimento di requisiti di ordine finanziario.
In questi casi, come viene garantito dall'operatore l’avvalimento, anche ai fini del controllo da parte della nostra stazione?

La giurisprudenza ormai consolidata (anche a livello di Consiglio di Stato) ha chiarito la distinzione fra avvalimento di garanzia (quello ad esempio inerente il possesso dei requisiti di ordine finanziario) e l'avvalimento tecnico-operativo (consistente nel supporto materiale e organizzativo allo svolgimento della prestazione).
In entrambi i casi la stazione appaltante è tenuta a verificare in concreto (al di là delle formule di rito e dichiarazioni delle parti) che sussista un concreto apporto dell'ausiliaria rispetto alle attività da svolgere a cura dell'ausiliata e questa indagine va condotta "secondo i canoni enunciati dal codice civile di interpretazione complessiva e secondo buona fede delle clausole contrattuali" anche se "non è conseguentemente necessario, in linea di massima, che la dichiarazione negoziale costitutiva dell'impegno contrattuale si riferisca a specifici beni patrimoniali o a indici materiali atti a esprimere una certa e determinata consistenza patrimoniale, ma è sufficiente che dalla ridetta dichiarazione emerga l'impegno contrattuale a prestare e a mettere a disposizione dell'ausiliata la complessiva solidità finanziaria e il patrimonio esperienziale, così garantendo una determinata affidabilità e un concreto supplemento di responsabilità".
Sempre con riferimento all'avvalimento di garanzia si evidenzia come "avendo esso ad oggetto l'impegno dell'ausiliaria a garantire con proprie risorse economiche l'impresa ausiliata, non è necessario che nel contratto siano specificatamente indicati i beni patrimoniali o gli indici materiali della consistenza patrimoniale dell'ausiliaria, essendo sufficiente che questa si impegni a mettere a disposizione la sua complessiva solidità finanziaria e il suo patrimonio di esperienza".
Le sentenze sottolineano inoltre come "l'unico responsabile dal punto di vista giuridico dell'esecuzione del contratto è il concorrente aggiudicatario e che le prestazioni in concreto svolte dall'ausiliaria sono comunque riconducibili all'organizzazione da esso predisposta per l'adempimento degli obblighi assunti nei confronti della stazione appaltante".
Quindi, alla luce del quadro normativo ma soprattutto giurisprudenziale, per rispondere al quesito formulato, si sottolinea come:
   - la prestazione contrattuale rimane in capo all'ausiliata
   - il rispetto dell'avvalimento va verificato in concreto, anche in fase esecutiva, accertando se sia dato il supporto necessario (garanzie, coperture assicurative ecc…) indicate in sede di gara.
Per le modalità di esecuzione di tale controllo la stazione appaltante potrà chiedere specifiche giustificazioni, chiarimenti e documentazione a corredo.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, art. 89
Riferimenti di giurisprudenza

Cons. Stato Sez. V, 16.01.2020, n. 389 - Cons. Stato Sez. V, 02.12.2019, n. 8249 - Cons. Stato Sez. V, 25.07.2019, n. 5257 - Cons. Stato Sez. V, 14.06.2019, n. 4024 - Cons. Stato Sez. V, 07.05.2019, n. 2917 - TAR Piemonte Torino Sez. I, 23.04.2019, n. 459 - Cons. Stato Sez. V, 26.11.2018, n. 6693 - TAR Lombardia Brescia Sez. I, 10.12.2018, n. 1195 - TAR Marche, Sez. I, 26.06.2018, n. 471
 (29.01.2020 - tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

APPALTII criteri di aggiudicazione dopo la legge 55/2019.
Domanda
Con diversi quesiti si pone la questione della chiara identificazione dell’ambito di utilizzo del criterio minor prezzo dopo le modifiche apportate con la legge 55/2019 e in che modo questo possa essere considerato “residuale” rispetto al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Riposta
Il codice dei contratti, come noto, ha superato l’equiordinazione tra i criteri di aggiudicazione dell’appalto. In sostanza, il RUP non ha più discrezionalità nella scelta dei criteri ma deve attenersi alle indicazioni della norma e non v’è dubbio che il criterio del “prezzo più basso" (ora del minor prezzo) abbia sicuramente uno “spazio” applicativo realmente residuale.
Ciò emerge, in particolare, dal comma 2 dell’articolo 95 laddove si puntualizza che gli appalti devono essere aggiudicati “sulla base del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa individuata …”. Il comma non cita neppure il criterio dell’offerta al minor prezzo (quasi ad evidenziarne il carattere marginale).
Le disposizioni fondamentali, in tema di criteri sono quelle previste nei commi 3/6 dell’articolo 95 del codice.
La norma “guida” per il RUP –come anche la giurisprudenza ha chiarito– è quella del comma 3 in cui si precisa che il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa costituisce il criterio esclusivo per aggiudicare:
   • i contratti relativi ai servizi sociali e di ristorazione ospedaliera, assistenziale e scolastica, nonché ai servizi ad alta intensità di manodopera purché non riconducibili ad affidamenti entro i 40mila euro;
   • i contratti relativi all’affidamento dei servizi di ingegneria e architettura e degli altri servizi di natura tecnica e intellettuale di importo pari o superiore a 40.000 euro;
Infine la nuova ipotesi introdotta con la legge sblocca cantieri (legge 55/2019) che impone l’obbligo di utilizzare il multicriterio per aggiudicare “i contratti di servizi e le forniture di importo pari o superiore a 40.000 euro caratterizzati da notevole contenuto tecnologico o che hanno un carattere innovativo”.
In sostanza, la discriminante è fissata sulla microsoglia (entro i 40mila euro) in cui il RUP gode di un’ampia discrezionalità.
Della norma appena citata è bene rammentare come non debba essere sottovalutata la questione dell’intensità della manodopera.
Spesso il RUP, anche in presenza di attività che definisce “standardizzate”, pur in presenza di intensa manodopera tende a “forzare” l’applicazione del criterio del minor prezzo anche nel caso in cui si opera nell’ambito di importo pari o superiore ai 40mila euro. Si pensi, a titolo esemplificativo, alle attività di guardiania/pulizia.
Pur vero che le attività possono ritenersi standardizzate è però altrettanto vero che ci si trova in presenza di contratti con altissima intensità di manodopera. E tale indice deve essere inteso nel senso prospettato dalla norma (art. 50, comma 1).
Per la norma citata, “i servizi ad alta intensità di manodopera sono quelli nei quali il costo della manodopera è pari almeno al 50 per cento dell’importo totale del contratto”.
Si sconsiglia, evidentemente, ogni forzatura che avrebbe per effetto quello di rendere annullabile gli atti di gara per palese illegittimità.
In ogni caso, qualora si optasse per una “libera” interpretazione non si può prescindere dall’esigenza di specificare, fin dalla determinazione a contrarre, la motivazione. Motivazione, come detto, che compete al RUP che propone o decide quale criterio applicare (se anche responsabile del servizio).
In ordine al criterio del minor prezzo, il comma 4 è stato completamente riscritto dalla legge sblocca cantieri e l’unica ipotesi residua in cui un problema di criteri si pone con minore intensità è proprio quello delle forniture/servizi con caratteristiche standardizzate per i quali appalti, come detto, è possibile prescindere dall’offerta economicamente più vantaggiosa solamente se non insiste intensità di manodopera. In particolare la norma ore prevede il minor prezzo “per i servizi e le forniture con caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono definite dal mercato, fatta eccezione per i servizi ad alta intensità di manodopera di cui al comma 3, lettera a). In ogni caso, l’utilizzo del monocriterio esige una adeguata motivazione".
In tema appare utile richiamare la recente conferma intervenuta con la sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, del 20.01.2020 n. 444. In sentenza si legge che “il legittimo ricorso al criterio del minor prezzo, ai sensi dell’art. 95, comma 4, lett. b) del Codice dei contratti pubblici, in deroga alla generale preferenza accordata al criterio di aggiudicazione costituito dall’offerta economicamente più vantaggiosa, si giustifica, tra altro, per l’affidamento di forniture o di servizi che siano, per loro natura, strettamente vincolati a precisi e inderogabili standard tecnici o contrattuali ovvero caratterizzati da elevata ripetitività e per i quali non vi sia quindi alcuna reale necessità di far luogo all’acquisizione di offerte differenziate (Cons. Stato, III, 13.03.2018, n. 1609; 02.05.2017, n. 2014)” (29.01.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPubblicazione dati concernenti bandi di concorso.
Domanda
Stiamo avviando una procedura di reclutamento di personale e vorremmo avere un aggiornamento sugli obblighi di pubblicazione su Amministrazione Trasparente.
Risposta
L’articolo 19, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 è la disposizione di riferimento per la trasparenza in tema di bandi di concorso. Tale norma era stata già modificata dal decreto legislativo 25.05.2016, n. 97 ed è stata recentemente integrata dall’art. 1, comma 145, della legge 27.12.2019, n. 160 (legge di Bilancio 2020).
L’attuale formulazione dell’art. 19, comma 1 prevede che siano pubblicati:
   • bandi di concorso per il reclutamento a qualsiasi titolo di personale;
   • i criteri di valutazione stabiliti dalla Commissione;
   • le tracce delle prove (da intendersi come prova teorico/pratica; scritta e orale);
   • le graduatorie finali, aggiornate con l’eventuale scorrimento degli idonei non vincitori.
La novità, dunque, riguardano l’obbligo di pubblicare le tracce di tutte le prove e non più soltanto delle prove scritte e l’introduzione dell’obbligo di pubblicare le graduatorie finali aggiornate con l’eventuale scorrimento degli idonei, anche alla luce della disposizione che ha ripristinato la possibilità per gli enti di scorrere le proprie e le altrui graduatorie (legge 27.12.2019, n. 160, art. 1, comma 148).
Considerato che si tratta di dati personali “comuni”, occorre far attenzione a pubblicare i soli dati necessari ad individuare i soggetti; è sufficiente, dunque, indicare solamente in nome e cognome, evitando luogo e data di nascita, residenza o altro. Sull’argomento si richiamano le Linee Guida del Garante privacy del 15.05.2014, pubblicate in Gazzetta Ufficiale n. 134 del 12.06.2014, che forniscono una casistica di dati eccedenti da non pubblicare e alcuni suggerimenti per coniugare adeguatamente trasparenza e privacy. Attenzione, in particolare, alle selezioni riservate a disabili (vedere l’ordinanza del Garante del 14.03.2019 – doc web 9116773).
L’art. 1, comma 145, della legge n. 160/2019, modifica poi il secondo comma dell’art. 19, del d.lgs. 33/2013, specificando meglio che i dati di cui al comma precedente devono essere costantemente aggiornati.
La nuova formulazione sopprime il riferimento ad un elenco dei bandi previsto dal previgente comma 2. Nella strutturazione della pagina di Amministrazione Trasparente > Bandi di concorso si suggerisce, per una migliore consultazione, una articolazione che distingua i bandi in corso e quelli scaduti.
In merito alla decorrenza e alla durata della pubblicazione non si dice nulla, pertanto, si applicano le disposizioni dell’art. 8, del d.lgs. 33/2013 che prevedono la tempestività di pubblicazione e il termine di cinque anni, decorrenti dal 1° gennaio dell’anno successivo.
Altra novità della legge di bilancio è l’introduzione del comma 2-bis, con il quale si prevede che le amministrazioni debbano pubblicare il collegamento ipertestuale dei dati, ai fini dell’inserimento nella banca dati del Dipartimento della funzione pubblica, di cui all’art. 4, comma 5, del decreto legge 31.08.2013, n. 101, finalizzata al monitoraggio delle graduatorie concorsuali.
Le modalità attuative di tale ultima disposizione saranno definite con decreto ministeriale da adottarsi entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge.
Come noto, nonché espressamente precisato nell’incipit dell’art. 19, la pubblicazione su Amministrazione Trasparente non sostituisce la pubblicità legale; pertanto resta fermo l’obbligo di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e del bando di concorso o di un avviso contenente gli estremi del bando e la scadenza dei termini di presentazione delle domande (28.01.2020 - link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Parere in merito alla possibilità di ricostruire fabbricati non più esistenti di cui non si conoscono le altezze originarie - Comune di Spigno Saturnia (Regione Lazio, nota 23.01.2020 n. 62118 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Parere in merito alle procedure urbanistiche necessarie per il mutamento di destinazione d'uso di un edificio ex scolastico a laboratorio artigianale/produttivo per prodotti tipici locali - Comune di Borbona (Regione Lazio, nota 23.01.2020 n. 62032 di prot.).

URBANISTICA: Oggetto: Parere in merito alla applicabilità dell'art. 17, comma 3, della l. 1150/1942 per modificare Ia destinazione d'uso di un sub-comparto di un piano attuativo, parzialmente attuato, di un piano regolatore delle aree e dei nuclei di sviluppo industriale (Regione Lazio, nota 15.11.2019 n. 922652 di prot.).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Programma emendabile. Parola al consiglio sulle linee del sindaco. La facoltà non è esclusa in base all'art. 42 del decreto 267/2000.
Si possono emendare le linee programmatiche presentate dal sindaco al consiglio comunale ai sensi dell'articolo 46, comma 3, del dlgs n. 267/2000?

L'articolo 46, comma 3, del dlgs n. 267/2000 demanda allo statuto il termine entro il quale il sindaco, previa audizione della giunta, presenta al consiglio le linee programmatiche relative alle azioni e ai progetti da realizzare nel corso del mandato. Il citato articolo prescrive che lo statuto disciplini anche i modi di partecipazione del consiglio «alla definizione, all'adeguamento e alla verifica periodica dell'attuazione delle linee programmatiche da parte del sindaco... e dei singoli assessori».
Il Consiglio nella sua funzione di indirizzo e controllo come enunciata dal decreto legislativo n. 267/2000 è chiamato, dunque, a partecipare al programma amministrativo sia nella fase iniziale che nelle fasi intermedie, con le modalità indicate proprio nello statuto. Lo statuto di un comune stabilisce che il sindaco, in sede di verifica annuale dello stato di attuazione dei programmi, presenta al Consiglio una relazione sul grado di realizzazione delle linee programmatiche nei termini di cui all'art. 193 del Tuoel.
Alla luce della normativa sopra richiamata, si ritiene che le linee programmatiche non possano non essere «partecipate» tramite delibere quali atti tipici con i cui gli organi collegiali manifestano la propria volontà. Pertanto non si ritiene esclusa la facoltà di proporre emendamenti alle linee programmatiche presentate dal sindaco, considerato che il disposto recato dal citato articolo 42, comma 3, del dlgs n. 267/2000 assegna al consiglio la competenza alla definizione, all'adeguamento e alla verifica periodica del programma di governo (articolo ItaliaOggi del 22.11.2019).

ATTI AMMINISTRATIVI: Profili di illegittimità di atti degli enti locali. L’istituto del cd. annullamento straordinario governativo (art. 138 d.lgs. 267/2000) (parere 16.11.2017-544677, AL 37632/2017 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2019).

GIURISPRUDENZA

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI – Divieto di impiego di prodotti contenenti amianto a partire dalla l. 257/1992 – Qualificazione dei materiali come rifiuti abbandonati – Riferimento al momento della scoperta.
La circostanza che l’impiego di prodotti di amianto o contenenti amianto risulti vietato a partire dalla legge 257/1992 non modifica la qualificazione dei materiali come rifiuti abbandonati, e neppure la qualificazione come rifiuti pericolosi, in quanto la condizione giuridica dei rifiuti deve essere riferita al momento della scoperta, ossia al presente.
...
RIFIUTI – Ordine di rimozione associato a un ordine di caratterizzazione – Legittimità – Art. 239, c. 1-a, d.lgs. n. 152/2006.
La scelta di associare all’ordine di rimozione dei rifiuti abbandonati un ordine di caratterizzazione dell’area interessata dall’abbandono dei rifiuti, deve ritenersi legittima.
La caratterizzazione è infatti il punto di congiunzione tra la fase di allontanamento dei rifiuti, necessariamente collocata nell’immediatezza della scoperta, e la fase successiva ed eventuale di bonifica dell’area.
La presenza di rifiuti incontrollati è un potenziale veicolo di trasferimento degli inquinanti nelle matrici ambientali, e dunque nel momento in cui si effettua la rimozione occorre accertare se vi siano situazioni di contaminazione.
In questo senso può essere interpretato l’art. 239, comma 1-a, del Dlgs. 152/2006, che disciplina le verifiche da svolgere a seguito della rimozione dei rifiuti.

...
RIFIUTI – Rimozione dei rifiuti abbandonati – Continuità con l’analisi della contaminazione delle matrici ambientali – Coordinamento tra amministrazioni competenti sui rifiuti e sulla bonifica.
La bonifica riguarda operazioni distinte dalla rimozione dei rifiuti abbandonati, e si fonda sul diverso presupposto del superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC). Oltretutto, l’individuazione del responsabile della contaminazione, soggetto tenuto alla bonifica, rientra nella competenza della Provincia (v. art. 242-244 del Dlgs. 152/2006).
In concreto, tuttavia, esiste continuità tra la rimozione dei rifiuti abbandonati e l’analisi della contaminazione delle matrici ambientali. I rifiuti non controllati devono infatti essere presi in esame come potenziali cause di superamento delle CSC, o come fattori di un rischio imminente di contaminazione.
È quindi necessario un coordinamento tra le amministrazioni che hanno competenza sui rifiuti e quelle che hanno competenza sulla bonifica. In questo quadro, è legittimo che l’ordine di rimozione dei rifiuti abbandonati sia associato a un ordine di caratterizzazione. Si tratta evidentemente di una prima caratterizzazione, i cui risultati devono essere discussi nella conferenza di servizi, per stabilire se vi sia effettivamente una situazione di contaminazione, o se siano necessari nuovi campionamenti.
I risultati ottenuti confluiscono poi, come previsto dall’art. 242, comma 4, del Dlgs. 152/2006, nella procedura di analisi del rischio sito specifica per la determinazione delle concentrazioni soglia di rischio (CSR). Una volta fissate le CSR, la conferenza di servizi decide sulla necessità e sul contenuto della bonifica
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 07.02.2020 n. 114 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALIPer quanto riguarda la competenza del sindaco, espressamente prevista dell’art. 192, comma 3, del Dlgs. 152/2006 in relazione all’ordine di rimozione e avvio a recupero o smaltimento dei rifiuti abbandonati, la giurisprudenza ritiene che questa norma, in quanto disposizione speciale sopravvenuta, prevalga sul principio di devoluzione dei compiti gestionali ai responsabili degli uffici previsto dall’art. 107, comma 5, del Dlgs. 267/2000.
---------------
In base all’art. 192, comma 3, del Dlgs. 152/2006, la rimozione dei rifiuti abbandonati, ai fini dell’avvio a recupero o smaltimento, può essere imposta al proprietario dell’area qualora l’abbandono sia imputabile a titolo di dolo o colpa.
---------------
La circostanza che l’impiego di prodotti di amianto o contenenti amianto risulti vietato a partire dalla legge 257/1992 non modifica la qualificazione dei materiali come rifiuti abbandonati, e neppure la qualificazione come rifiuti pericolosi, in quanto la condizione giuridica dei rifiuti deve essere riferita al momento della scoperta, ossia al presente.
Non è quindi rilevante quello che il proprietario dell’area poteva fare in passato con l’amianto. Rileva unicamente che nella sfera di controllo del proprietario dell’area si trovino attualmente dei rifiuti contenenti amianto, e dunque pericolosi.
In proposito, occorre richiamare anche la normativa comunitaria, la quale (v. art. 3 par. 1.6 della Dir. 19.11.2008 n. 2008/98/CE, nonché i successivi art. 14 e 15) impone l’obbligo di rimozione e smaltimento non solo al produttore storico dei rifiuti ma anche al detentore attuale, inteso come la persona fisica o giuridica nel possesso degli stessi.
---------------
Per quanto riguarda la scelta di associare all’ordine di rimozione dei rifiuti abbandonati un ordine di caratterizzazione dell’area interessata dall’abbandono dei rifiuti, si può ritenere che tale combinazione sia legittima.
La caratterizzazione è infatti il punto di congiunzione tra la fase di allontanamento dei rifiuti, necessariamente collocata nell’immediatezza della scoperta, e la fase successiva ed eventuale di bonifica dell’area. La presenza di rifiuti incontrollati è un potenziale veicolo di trasferimento degli inquinanti nelle matrici ambientali, e dunque nel momento in cui si effettua la rimozione occorre accertare se vi siano situazioni di contaminazione.
In questo senso può essere interpretato l’art. 239, comma 1-a, del Dlgs. 152/2006, che disciplina le verifiche da svolgere a seguito della rimozione dei rifiuti.
---------------
La bonifica riguarda operazioni distinte dalla rimozione dei rifiuti abbandonati, e si fonda sul diverso presupposto del superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC). Oltretutto, l’individuazione del responsabile della contaminazione, soggetto tenuto alla bonifica, rientra nella competenza della Provincia (v. art. 242-244 del Dlgs. 152/2006).
In concreto, tuttavia, esiste continuità tra la rimozione dei rifiuti abbandonati e l’analisi della contaminazione delle matrici ambientali. I rifiuti non controllati devono infatti essere presi in esame come potenziali cause di superamento delle CSC, o come fattori di un rischio imminente di contaminazione. È quindi necessario un coordinamento tra le amministrazioni che hanno competenza sui rifiuti e quelle che hanno competenza sulla bonifica. In questo quadro, è legittimo, come si è visto sopra, che l’ordine di rimozione dei rifiuti abbandonati sia associato a un ordine di caratterizzazione.
Si tratta evidentemente di una prima caratterizzazione, i cui risultati devono essere discussi nella conferenza di servizi, per stabilire se vi sia effettivamente una situazione di contaminazione, o se siano necessari nuovi campionamenti. I risultati ottenuti confluiscono poi, come previsto dall’art. 242, comma 4, del Dlgs. 152/2006, nella procedura di analisi del rischio sitospecifica per la determinazione delle concentrazioni soglia di rischio (CSR). Una volta fissate le CSR, la conferenza di servizi decide sulla necessità e sul contenuto della bonifica.
---------------

15. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni.
Sulla competenza del sindaco
16. Per quanto riguarda la competenza del sindaco, espressamente prevista dell’art. 192, comma 3, del Dlgs. 152/2006 in relazione all’ordine di rimozione e avvio a recupero o smaltimento dei rifiuti abbandonati, la giurisprudenza ritiene che questa norma, in quanto disposizione speciale sopravvenuta, prevalga sul principio di devoluzione dei compiti gestionali ai responsabili degli uffici previsto dall’art. 107, comma 5, del Dlgs. 267/2000 (v. recentemente CS Sez. V 08.07.2019 n. 4781).
17. È vero che il provvedimento impugnato è esteso anche all’attività di bonifica, la quale rientra invece nella regola generale della competenza dirigenziale, ma si tratta di una questione da risolvere in via interpretativa, coordinando i vari ordini impartiti alla ricorrente.
18. Risulta infatti legittimo che il sindaco disponga la rimozione dei rifiuti abbandonati, ai fini dell’avvio a recupero o smaltimento, e contestualmente anticipi uno degli esiti possibili del seguito della procedura, ossia l’obbligo di bonifica per l’ipotesi di accertamento della contaminazione delle matrici ambientali. In questo modo, il sindaco non si appropria di competenze dirigenziali, ma fornisce al destinatario dell’ordinanza un quadro degli adempimenti che potrebbero subentrare una volta rimossi i rifiuti ed effettuata la caratterizzazione dell’area.
Sulla responsabilità dell’abbandono dei rifiuti
19. In base all’art. 192, comma 3, del Dlgs. 152/2006, la rimozione dei rifiuti abbandonati, ai fini dell’avvio a recupero o smaltimento, può essere imposta al proprietario dell’area qualora l’abbandono sia imputabile a titolo di dolo o colpa.
20. Nello specifico, l’elemento soggettivo emerge in modo evidente dalla doppia posizione della ricorrente, non solo proprietaria dell’area ma anche titolare dell’attività produttiva. L’utilizzazione a scopi produttivi implica un controllo effettivo ed esclusivo tanto dell’area quanto delle operazioni svolte sulla stessa. Non vi è dunque spazio per un ragionevole dubbio circa interferenze di soggetti terzi sfuggite alla vigilanza della ricorrente.
21. La circostanza che l’impiego di prodotti di amianto o contenenti amianto risulti vietato a partire dalla legge 257/1992 non modifica la qualificazione dei materiali come rifiuti abbandonati, e neppure la qualificazione come rifiuti pericolosi, in quanto la condizione giuridica dei rifiuti deve essere riferita al momento della scoperta, ossia al presente. Non è quindi rilevante quello che il proprietario dell’area poteva fare in passato con l’amianto. Rileva unicamente che nella sfera di controllo del proprietario dell’area si trovino attualmente dei rifiuti contenenti amianto, e dunque pericolosi.
22. In proposito, occorre richiamare anche la normativa comunitaria, la quale (v. art. 3 par. 1.6 della Dir. 19.11.2008 n. 2008/98/CE, nonché i successivi art. 14 e 15) impone l’obbligo di rimozione e smaltimento non solo al produttore storico dei rifiuti ma anche al detentore attuale, inteso come la persona fisica o giuridica nel possesso degli stessi. Questo parametro identifica ancora la ricorrente, che è proprietaria dell’area da molti anni, ed esercita sulla stessa, attualmente come in passato, un pieno controllo, coincidente con la nozione comunitaria di possesso.
Sull’obbligo di caratterizzazione
23. Per quanto riguarda la scelta di associare all’ordine di rimozione dei rifiuti abbandonati un ordine di caratterizzazione dell’area interessata dall’abbandono dei rifiuti, si può ritenere che tale combinazione sia legittima.
La caratterizzazione è infatti il punto di congiunzione tra la fase di allontanamento dei rifiuti, necessariamente collocata nell’immediatezza della scoperta, e la fase successiva ed eventuale di bonifica dell’area. La presenza di rifiuti incontrollati è un potenziale veicolo di trasferimento degli inquinanti nelle matrici ambientali, e dunque nel momento in cui si effettua la rimozione occorre accertare se vi siano situazioni di contaminazione.
In questo senso può essere interpretato l’art. 239, comma 1-a, del Dlgs. 152/2006, che disciplina le verifiche da svolgere a seguito della rimozione dei rifiuti.
24. Sul problema dell’estensione dell’area da sottoporre a caratterizzazione era stato disposto, attraverso le ordinanze cautelari sopra indicate, un confronto tra la ricorrente e il Comune. Tale confronto aveva lo scopo di raggiungere per gradi, e nel contraddittorio della conferenza di servizi, una più precisa localizzazione dei rifiuti abbandonati, e conseguentemente dei punti da sottoporre a caratterizzazione. L’ordinanza n. 471/2018 ha sottolineato la necessità di leale collaborazione tra tutti i soggetti coinvolti, con la riserva di valutare il comportamento delle parti come argomento di prova ai sensi dell’art. 64, comma 4 cpa.
25. Come si è visto sopra, le indicazioni propulsive formulate in sede cautelare non hanno prodotto risultati, a causa del rifiuto della ricorrente di eseguire le analisi sulla propria aliquota di materiale prelevato il 24.05.2018. Senza la validazione dei risultati sui contaminanti non vi sono elementi sicuri che consentano di riproporzionare le aree da caratterizzare. L’obbligo a carico della ricorrente rimane quindi riferito all’intero mappale n. 220, secondo le direttive che saranno formulate dall’ARPA sulla base dei dati a disposizione della stessa.
Sul rapporto tra rimozione dei rifiuti e bonifica
26. La bonifica riguarda operazioni distinte dalla rimozione dei rifiuti abbandonati, e si fonda sul diverso presupposto del superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC). Oltretutto, l’individuazione del responsabile della contaminazione, soggetto tenuto alla bonifica, rientra nella competenza della Provincia (v. art. 242-244 del Dlgs. 152/2006).
27. In concreto, tuttavia, esiste continuità tra la rimozione dei rifiuti abbandonati e l’analisi della contaminazione delle matrici ambientali. I rifiuti non controllati devono infatti essere presi in esame come potenziali cause di superamento delle CSC, o come fattori di un rischio imminente di contaminazione. È quindi necessario un coordinamento tra le amministrazioni che hanno competenza sui rifiuti e quelle che hanno competenza sulla bonifica. In questo quadro, è legittimo, come si è visto sopra, che l’ordine di rimozione dei rifiuti abbandonati sia associato a un ordine di caratterizzazione.
28. Si tratta evidentemente di una prima caratterizzazione, i cui risultati devono essere discussi nella conferenza di servizi, per stabilire se vi sia effettivamente una situazione di contaminazione, o se siano necessari nuovi campionamenti. I risultati ottenuti confluiscono poi, come previsto dall’art. 242, comma 4, del Dlgs. 152/2006, nella procedura di analisi del rischio sitospecifica per la determinazione delle concentrazioni soglia di rischio (CSR). Una volta fissate le CSR, la conferenza di servizi decide sulla necessità e sul contenuto della bonifica.
29. Il Comune, attraverso l’ordinanza n. 80/2017, ha delineato questo percorso, ma evidentemente non ha anticipato, né avrebbe potuto anticipare, le valutazioni proprie dei passaggi successivi, nei quali dovranno essere coinvolte altre amministrazioni, e in particolare l’ARPA e la Provincia.
Di conseguenza, il suddetto provvedimento, letto in collegamento con la nota del NOE di Brescia del 20.03.2017, risulta legittimo, in quanto interpretabile come un ordine riferito all’immediata rimozione dei rifiuti abbandonati e alla prima caratterizzazione dell’area, in vista di un successivo intervento di bonifica da valutare con il concorso di tutte le amministrazioni competenti (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 07.02.2020 n. 114 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTI: Congruità di una offerta in perdita.
Non si possono far rientrare nella valutazione di congruità dell’offerta (nella fattispecie per il servizio di ristorazione scolastica e sociale) costi e ricavi relativi a rapporti negoziali esterni, con soggetti che non sono parte dell’appalto, rapporti che –anche in un quadro di pregresse e consolidate relazioni commerciali– sono comunque del tutto eventuali; invero, l’offerta deve essere sostenibile e il contratto non in perdita per l’appaltatore autonomamente, e non grazie a elementi esterni al contratto medesimo, perché, diversamente, si altererebbe la libera concorrenza a favore degli operatori economici più forti, che possono permettersi –pur di conquistare quote sempre maggiori di mercato e di espellere dal mercato altri concorrenti– di presentare offerte in perdita (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 06.02.2020 n. 257 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
SENTENZA
Il ricorso è manifestamente fondato.
Segnatamente, fondato e assorbente è il primo motivo di ricorso, dedotto in principalità, con il quale la società Du.Se. S.r.l. lamenta la “Violazione e falsa applicazione dell’art. 97, d.lgs. n. 50/2016. Insostenibilità dell’offerta. Violazione del principio di par condicio. Eccesso di potere per carenza di istruttoria e di motivazione, travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, ingiustizia manifesta”.
Dalla documentazione in atti emerge con chiarezza che i costi di esecuzione dell’appalto di ristorazione superano di € 1.296.534,36 nel triennio il corrispettivo che la società Pe. S.p.A. ricaverà dalla preparazione dei pasti per il Comune: il dato non è in contestazione.
L’offerta è, dunque, in perdita.
Non è, infatti, condivisibile la tesi della stazione appaltante, sostenuta anche dalla società aggiudicatrice, per cui nella valutazione di congruità dell’offerta si deve tenere conto anche dei ricavi derivanti dalla produzione nel Centro cottura del Comune di ulteriori pasti destinati a terzi: ricavi che nella prospettazione della controinteressata sono in grado di coprire le spese generate dal servizio reso al Comune.
Invero, l’offerta deve essere sostenibile e il contratto non in perdita per l’appaltatore autonomamente, e non grazie a elementi esterni al contratto medesimo, perché, diversamente, si altererebbe la libera concorrenza a favore degli operatori economici più forti, che possono permettersi –pur di conquistare quote sempre maggiori di mercato e di espellere dal mercato altri concorrenti– di presentare offerte in perdita (cfr., C.d.S., Sez. V, sentenza n. 210/2014; TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza n. 200/2017).
E che la produzione di pasti destinati a terzi sia elemento estraneo al contratto messo a gara lo si ricava da una pluralità di elementi.
Innanzitutto, il bando di gara nella denominazione dell’appalto indica «Servizio di ristorazione scolastica e sociale», e nella descrizione dell’oggetto «- la gestione del servizio di ristorazione scolastica a favore degli utenti delle Istituzioni scolastiche statali e comunali, - la gestione del servizio di ristorazione degli asili nido comunali, - la gestione del servizio di ristorazione del Centro Diurno Disabili (C.D.D.), - la gestione del servizio di produzione e consegna di pasti a domicilio persone anziane e/o ridotta autonomia». In nessun punto del bando si parla di contratto misto o si fa cenno al fatto che lo sfruttamento economico del Centro cottura comunale per eseguire anche altri appalti rientri nel sinallagma negoziale.
È ben vero che il Disciplinare di gara all’articolo 3, rubricato “Oggetto dell’appalto, importo e suddivisione in lotti”, elenca anche il conferimento dell’uso del Centro Produzione Pasti di proprietà del Comune e dei punti di somministrazione posti nei vari plessi scolastici, nel C.D.D. e negli asili nido. Ma è altrettanto vero che tale conferimento in uso è, per l’appunto, funzionale all’esecuzione dell’appalto del servizio di ristorazione per il Comune di Saronno, e non ad altro, come dimostra la circostanza che il conferimento riguarda non solo il Centro cottura, ma anche i punti di somministrazione dei pasti.
D’altro canto, l’utilizzo del Centro di cottura per la produzione di pasti per terzi, ai sensi dell’articolo 22.1 del Capitolato speciale (che, non a caso, utilizza la dizione “può produrre”), rappresenta una facoltà e non un obbligo.
Né a conclusioni diverse conduce la circostanza che l’aggio annuo minimo garantito è elemento dell’offerta economica. Infatti, ancora una volta il precitato articolo 22.1 del Capitolato speciale chiarisce che tale importo minimo è comunque dovuto, ovverosia indipendentemente dal fatto che nel Centro cottura comunale si preparino pasti per terzi e che se ne preparino un numero sufficiente a coprire l’aggio promesso.
Quindi, a ben guardare, si tratta di un costo fisso dell’appalto di ristorazione.
In definitiva, non si possono far rientrare nella valutazione di congruità dell’offerta per il servizio di ristorazione scolastica e sociale, costi e ricavi relativi a rapporti negoziali esterni, con soggetti che non sono parte dell’appalto, rapporti che –anche in un quadro di pregresse e consolidate relazioni commerciali– sono comunque del tutto eventuali.
Pertanto, avuto riguardo ai costi e ai ricavi del solo servizio di ristorazione scolastica e sociale, l’offerta di Pe. S.p.A. è in perdita e, come tale, è ex se anomala (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. V, sentenza n. 5422/2019; C.d.S., Sez. V, sentenza n. 963/2015; TAR Campania–Napoli, Sez. II, sentenza n. 3940/2015; TAR Lazio–Roma, Sez. III-ter, sentenza n. 8744/2015) e, pertanto, da escludersi dalla gara.
In conclusione, il ricorso è fondato e per questo viene accolto. Per l’effetto, è annullata l’aggiudicazione a favore della società Pe. S.p.A..
Non si fa, invece, luogo alla declaratoria di inefficacia del contratto, non risultando agli atti che vi sia stata la stipula, peraltro, inibita dall’incidente cautelare ai sensi dell’articolo 32, comma 11, D.Lgs. n. 50/2016.
Nemmeno si fa luogo all’aggiudicazione diretta dell’appalto alla società Du.Se. S.r.l., spettando alla stazione appaltante riattivare la procedura e adottare le determinazioni conseguenti all’avvenuto annullamento.

ATTI AMMINISTRATIVI: 1.- Pubblica amministrazione - procedimento amministrativo – art. 17-bis L. 241/1990 – silenzio-assenso “orizzontale” - ratio e finalità.
L’art. 3 della legge 07.08.2015 n. 124 (c.d. legge Madia) ha disciplinato, all’art. 17-bis, un nuovo istituto di semplificazione del procedimento amministrativo: si tratta di una fattispecie di silenzio con valore tipizzato di assenso, che matura tra Amministrazioni Pubbliche, oppure tra Amministrazioni e soggetti gestori di beni o servizi pubblici, alle condizioni ed entro i limiti disegnati dalla specifica disposizione normativa.
Per tale motivo viene definito come silenzio-assenso “interno”, ossia che interviene all’interno del modulo procedimentale, oppure anche come silenzio-assenso “orizzontale”, in quanto concerne i rapporti tra più amministrazioni o enti pubblici e non involge il rapporto “verticale” con il destinatario del provvedimento.
Pertanto, l’ambito di operatività di tale istituto di semplificazione attiene ai procedimenti (e decisioni) pluristrutturati, quando all’emanazione di un provvedimento finale partecipino più Amministrazioni, ciascuna portatrice di un peculiare interesse pubblico, che cura nell’esercizio di proprie funzioni, ascritte dalla legge, in tal guisa che l’avviso espresso, con parere, o altra formula di assenso, da una Amministrazione è parimenti vincolante, ai fini dell’emanazione della decisione finale.
L’obiettivo raggiunto dal legislatore è stato quello di aver introdotto un elemento di semplificazione, che questa volta interviene nella fase decisoria del procedimento.
In sintesi, mentre gli istituti di semplificazione, previsti dagli artt. 16 e 17 della legge 07.08.1990 n. 241, riguardano i pareri amministrativi e le valutazioni (pareri) tecnici, da acquisirsi nella fase istruttoria del procedimento, l’istituto di semplificazione, introdotto dall’art. 17-bis della legge 07.08.1990 n. 241, del silenzio tra Amministrazioni, concerne invece la fase decisoria(e precisamente quellapre-decisioria) del procedimento, quando cioè v’è uno schema, o bozza di provvedimento amministrativo (o di atto normativo) da adottarsi
(massima free tratta da e link a www.giustamm.it - TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 06.02.2020 n. 194).
---------------
SENTENZA
1.- Con il primo motivo, la società deduce l’avvenuto compimento, nel corso dell’esame della propria istanza, di una fattispecie di silenzio-assenso c.d. orizzontale tra amministrazioni, motivandone ampiamente le ragioni in diritto.
Tuttavia, la tesi non può essere condivisa, stante la lettera della disposizione normativa e la finalità della novella della legge 07.08.1990 n. 241, effettuata ad opera dell’art. 3 della legge 07.08.2015 n. 124 (c.d. legge Madia), che ha disciplinato, all’art. 17-bis, un nuovo istituto di semplificazione del procedimento amministrativo.
Si tratta di una fattispecie di silenzio con valore tipizzato di assenso, che matura tra amministrazioni pubbliche, oppure tra amministrazioni e soggetti gestori di beni o servizi pubblici, alle condizioni ed entro i limiti disegnati dalla specifica disposizione normativa.
Per tale motivo viene definito come silenzio-assenso “interno”, ossia che interviene all’interno del modulo procedimentale, oppure anche come silenzio-assenso “orizzontale”, in quanto concerne i rapporti tra più amministrazioni o enti pubblici e non involge il rapporto “verticale” con il destinatario del provvedimento.
Pertanto, l’ambito di operatività di tale istituto di semplificazione attiene ai procedimenti (e decisioni) pluristrutturati, quando all’emanazione di un provvedimento finale partecipino più amministrazioni, ciascuna portatrice di un peculiare interesse pubblico, che cura nell’esercizio di proprie funzioni, ascritte dalla legge, in tal guisa che l’avviso espresso, con parere, o altra formula di assenso, da una amministrazione è parimenti vincolante, ai fini dell’emanazione della decisione finale.
L’obiettivo raggiunto dal legislatore è stato quello di aver introdotto un elemento di semplificazione, che questa volta interviene nella fase decisoria del procedimento.
Per meglio dire, mentre gli istituti di semplificazione, previsti dagli artt. 16 e 17 della legge 07.08.1990 n. 241, riguardano i pareri amministrativi e le valutazioni (pareri) tecnici, da acquisirsi nella fase istruttoria del procedimento, l’istituto di semplificazione, introdotto dall’art. 17-bis della legge 07.08.1990 n. 241, del silenzio tra amministrazioni, concerne invece la fase decisoria (e precisamente quella pre-decisioria) del procedimento, quando cioè v’è uno schema, o bozza di provvedimento amministrativo (o di atto normativo) da adottarsi (così: Cons. St., comm. spec., parere 23.06.2016 n. 1640; Cons. St., sez. III, 20.06.2018 n. 3783).
Tant’è che l’art. 17-bis della legge n. 241 citato prevede che, qualora debba acquisirsi l’assenso (o concerto, o nulla osta) per l’adozione di provvedimenti amministrativi (o anche di atti normativi) di competenza di altre amministrazioni, le amministrazioni interpellate comunicano l’assenso, ove lo ritengano, entro trenta giorni dal ricevimento di uno schema, già elaborato, che deve essere corredato dalla relativa documentazione, evidentemente istruttoria.
Il termine è interrotto qualora l’amministrazione, che deve rendere il proprio assenso, rappresenti l’esigenza di ulteriore istruttoria, oppure richieda motivate modifiche dello schema, formulate in modo puntuale. In tal caso, l’assenso dovrà essere reso nei successivi trenta giorni.
Decorsi i predetti termini, senza che sia stato comunicato l’assenso, lo stesso si intende acquisito (silenzio-assenso interno).

APPALTI: 1.- Appalti pubblici – gare – suddivisione in lotti – limiti.
In materia di appalti pubblici, costituisce principio di carattere generale la preferenza per la suddivisione in lotti, in quanto diretta a favorire la partecipazione alle gare delle piccole e medie imprese: tale principio, come recepito all'art. 51 del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, non costituisce tuttavia una regola inderogabile, in quanto la norma consente alla stazione appaltante di derogarvi per giustificati motivi, che devono essere puntualmente espressi nel bando o nella lettera di invito, proprio perché il precetto della ripartizione in lotti è funzionale alla tutela della concorrenza.
La scelta della stazione appaltante circa la suddivisione in lotti di un appalto pubblico costituisce, peraltro, una decisione normalmente ancorata, nei limiti previsti dall’ordinamento, a valutazioni di carattere tecnico-economico. In tali ambiti, il concreto esercizio del potere discrezionale dell’Amministrazione circa la ripartizione dei lotti da conferire mediante gara pubblica deve essere funzionalmente coerente con il bilanciato complesso degli interessi pubblici e privati coinvolti dal procedimento di appalto e resta delimitato, oltre che da specifiche norme del codice dei contratti, anche dai principi di proporzionalità e di ragionevolezza.
Alle stazioni appaltanti è, tuttavia, vietato suddividere le gare in lotti distinti laddove ciò non sia giustificato dalla diversità dei servizi o delle forniture oggetto dei vari sub-lotti e/o dalla esigenza di favorire la partecipazione delle piccole medie imprese, anche in sintonia con l’assetto regolatorio contenuto nell’articolo 68 del codice dei contratti incentrato, quale canone generale dell’intera disciplina dell’evidenza pubblica, sulla valorizzazione del principio di equivalenza che, per definizione, rende valutabili prestazioni da ritenersi omogenee sul piano funzionale secondo criteri di conformità sostanziale
(massima free tratta da e link a www.giustamm.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 05.02.2020 n. 932).

ATTI AMMINISTRATIVIAll’Adunanza plenaria l’accessibilità dei documenti reddituali, patrimoniali e finanziari.
---------------
Accesso ai documenti – Imposte e tasse - Documenti reddituali patrimoniali e reddituali – Accessibilità - Rimessione all’Adunanza plenaria.
Sono rimesse all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato le questioni:
   a) se i documenti reddituali (le dichiarazioni dei redditi e le certificazioni reddituali), patrimoniali (i contratti di locazione immobiliare a terzi) e finanziari (gli atti, i dati e le informazioni contenuti nell’Archivio dell’Anagrafe tributaria e le comunicazioni provenienti dagli operatori finanziari) siano qualificabili quali documenti e atti accessibili ai sensi degli artt. 22 e ss., l. n. 241 del 1990;
   b) in caso positivo, quali siano i rapporti tra la disciplina generale riguardante l’accesso agli atti amministrativi ex lege n. 241/1990 e le norme processuali civilistiche previste per l’acquisizione dei documenti amministrativi al processo (secondo le previsioni generali, ai sensi degli artt. 210 e 213 c.p.c.; per la ricerca telematica nei procedimenti in materia di famiglia, ai sensi del combinato disposto di cui artt. 492-bis c.p.c.me 155-sexies delle disp. att. del cod. proc. civ.);
   c) in particolare, se il diritto di accesso ai documenti amministrativi ai sensi della l. n. 241 del 1990 sia esercitabile indipendentemente dalle forme di acquisizione probatoria previste dalle menzionate norme processuali civilistiche, o anche –eventualmente- concorrendo con le stesse;
   d) ovvero se -all’opposto- la previsione da parte dell’ordinamento di determinati metodi di acquisizione, in funzione probatoria di documenti detenuti dalla Pubblica Amministrazione, escluda o precluda l’azionabilità del rimedio dell’accesso ai medesimi secondo la disciplina generale di cui alla l. n. 241 del 1990;
   e) nell’ipotesi in cui si riconosca l’accessibilità agli atti detenuti dall’Agenzia delle Entrate (dichiarazioni dei redditi, certificazioni reddituali, contratti di locazione immobiliare a terzi, comunicazioni provenienti dagli operatori finanziari ed atti, dati e informazioni contenuti nell’Archivio dell’Anagrafe tributaria), in quali modalità va consentito l’accesso, e cioè se nella forma della sola visione, ovvero anche in quella dell’estrazione della copia, ovvero ancora per via telematica (1).

---------------
   (1) Ha chiarito la Sezione che va stabilito se il diritto di accesso ai documenti amministrativi ai sensi dell’art. 22 cit. sia esercitabile indipendentemente dalle forme di acquisizione probatoria previste dalle menzionate norme processuali civilistiche, o anche –eventualmente- concorrendo con le stesse.
Ciò equivarrebbe ad affermare tre principi:
   - il primo, che il diritto di accesso ex lege n. 241/1990 potrebbe essere esercitato –come è accaduto nel caso di specie- prima ed indipendentemente dal fatto che il giudice del procedimento autorizzi la produzione di determinati documenti del numerato punto 9: l’accesso agli atti è stato azionato ed in parte consentito prima ancora che si svolgesse l’udienza di prima comparizione);
   - il secondo, che l’accesso ex lege n. 241/1990 potrebbe essere esercitato anche cumulativamente, rispetto alle previsioni sulle acquisizioni secondo la normativa processualcivilistica;
   - il terzo, che l’accesso ex lege n. 241/1990 potrebbe essere esercitato anche quando il giudice del procedimento civile non abbia disposto il deposito della documentazione a carico delle parti o non abbia autorizzato le istanze istruttorie formulate dalle parti.
All’opposto, se la previsione da parte dell’ordinamento di determinati metodi di acquisizione in funzione probatoria di documenti detenuti dalla Pubblica Amministrazione, con l’attribuzione dei relativi poteri istruttori ad un giudice avente giurisdizione sulla controversia ‘principale’, escluda o precluda l’azionabilità del rimedio dell’accesso ai medesimi secondo la disciplina generale di cui alla legge n. 241 del 1990.
Ciò equivarrebbe a dire che il privato non potrebbe mai azionare il diritto di accesso agli atti richiesti, pur se qualificati in senso sostanziale come atti amministrativi, dovendosi sempre rimettere, per la tutela delle proprie situazioni giuridiche, all’esercizio dei poteri istruttori del giudice civile, quando dunque il procedimento civile già pende.
Ciò premesso, la Sezione segnala che, a favore della prima tesi, militano gli argomenti variamente articolati dalla Sezione nelle sentenze n. 2472/2014, n. 5347/2019 e n. 5910/2019, e che di seguito più o meno testualmente si riportano.
La disciplina sull’accesso agli atti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce -ai sensi dell’art. 22, comma 2, della legge n. 241 del 1990- “principio generale dell'attività amministrativa”.
La ratio dell’istituto può essere ravvisata sia sull’esigenza di rendere l’Amministrazione una ‘casa di vetro’ per l’attuazione dei principi di imparzialità, trasparenza e buon andamento, rilevanti per l’art. 97 della Costituzione (cfr. Ad. Plen., 18.04.2006, n. 6; Sez. IV, 14.04.2010, n. 2093), sia sull’esigenza di agevolare agli interessati di ottenere gli atti il cui esame consente di valutare se sia il caso di agire in giudizio, a tutela di una propria posizione giuridica (cfr. Sez. IV, 12.03.2009, n. 1455), non potendosi ravvisare ‘zone franche’ in cui non rilevino i principi sopra richiamati (Ad. Plen., 24.06.1999, n. 16).
La specialità che connota la disciplina processualistica non può ritenersi tale da giustificare la presenza di una deroga, al punto da rimettere alla (eventuale ed esclusiva) positiva valutazione del giudice –titolare del potere di decidere la controversia ‘principale’- la reale conoscibilità di documentazione di rilievo e, per altro verso, la concretizzazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale.
L’affermazione del diritto di accesso è estrinsecazione anche della tutela dei diritti fondamentali dei familiari, in quanto nei procedimenti in materia di famiglia sono spesso presenti sia gli interessi confliggenti dei coniugi o dei conviventi, che gli interessi dei figli minorenni, questi ultimi tutelati dall'art. 5 del settimo Protocollo Addizionale della CEDU e dagli artt. 29 e 30 della Costituzione.
Il consolidato indirizzo seguito dalla giurisprudenza amministrativa ammette, senza limitazioni, l’esercizio del diritto di accesso ai documenti amministrativi e la conseguente applicazione della relativa disciplina sostanziale e processuale, anche in pendenza dei giudizi civili.
In questo senso, è stato più volte affermato come “non possa ritenersi che l'accesso ai documenti sia automaticamente precluso dalla pendenza di un giudizio civile, nella cui sede l'ostensione degli stessi documenti potrebbe essere disposta dal g.o., mediante ordine istruttorio ex art. 210 c.p.c. oppure mediante richiesta di informazioni ex art. 213 c.p.c., stante l'autonomia della posizione sostanziale tutelata con gli artt. 22 e ss. l. n. 241 cit. rispetto alla posizione che l'interessato intende difendere con altro giudizio e della relativa azione posta dall'ordinamento a tutela del diritto di accesso, perché, diversamente opinando, ciò si tradurrebbe in una illegittima limitazione del diritto di difesa delle parti, con conseguente lesione del principio dell'effettività della tutela giurisdizionale” (ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 15.11.2018, n. 6444; id., 21.03.2018, n. 1805).
La tutela dei diritti fondamentali non troverebbe eguale garanzia mediante l’utilizzo degli strumenti previsti dal codice di procedura civile, i quali rimettono all’apprezzamento del giudice l’ingresso nel giudizio di documenti, di atti e di informazioni in possesso della Pubblica Amministrazione.
L'ampliamento delle prerogative del giudice civile nell'acquisizione delle informazioni e dei documenti patrimoniali e finanziari nei procedimenti in materia di famiglia, rispetto ai poteri istruttori già previsti dall’art. 210 c.p.c., introdotte dal combinato disposto degli artt. 155-sexies delle disposizioni di attuazione del cod. proc. civ. e dell'art. 492-bis del cod. proc. civ., non può costituire un ostacolo all'accesso difensivo, soprattutto laddove le istanze istruttorie proposte nel giudizio non siano state accolte.
Dall’ampliamento delle menzionate prerogative non potrebbe trarsi in via diretta, né desumersi in via indiretta, alcuna ipotesi derogatoria alla disciplina in materia di accesso alla documentazione contenuta nelle banche dati della Pubblica Amministrazione.
Diversamente opinando, l’implementazione dei poteri istruttori del giudice ordinario nell'ambito dei procedimenti in materia di famiglia si tradurrebbe in un ingiustificato ridimensionamento della disciplina generale sull’accesso, fuori dei casi e dei modi contemplati dall’ordinamento.
Tra le due discipline non sussisterebbe un rapporto di specialità, nel senso che la norma speciale derogherebbe a quella generale, escludendone l’applicazione, bensì di concorrenza e di complementarietà, poiché il giudice che tratta la vicenda di famiglia può utilizzare i poteri di accesso ai dati della Pubblica Amministrazione genericamente previsti dall'art. 210 cod. proc. civ., come ampliati dalle nuove norme inserite nel 2014, ma questa rimane una sua facoltà e non un obbligo.
Deve conservarsi la possibilità, per il privato, di avvalersi degli ordinari strumenti offerti dalla l. n. 241 del 1990, per ottenere gli stessi dati che il giudice potrebbe intimare di consegnare all'Amministrazione.
La piena esplicazione del diritto di difesa non potrebbe dipendere dalla spontanea produzione in giudizio della controparte, né dall’esercizio discrezionale del potere acquisitivo da parte del giudice. Mentre l’esercizio dell’accesso non incontrerebbe limiti se non rispetto alla delibazione dei presupposti che consentono l’ingresso dell’azione ostensiva e alla verifica dell’inesistenza delle preclusioni di cui all’art. 24 della l. n. 241/1990, l’ammissibilità dell’acquisizione probatoria processualcivilistica (ordine di esibizione tradizionale o autorizzazione alla ricerca telematica) sarebbe soggetta al principio del convincimento del giudice del procedimento, il quale potrebbe non consentire l’accesso in ragione della scarsa attendibilità delle allegazioni della parte e dei documenti probatori offerti a loro sostegno, elidendo così alla radice ogni prospettiva di piena esplicazione del diritto di difesa.
L’accesso ai documenti, inoltre, potrebbe essere esperito anche prima ed indipendentemente dalla pendenza del procedimento civile, anche allo scopo di impedire il verificarsi degli effetti negativi discendenti dal cd. ricorso “al buio”.
L’ordine di esibizione o l’autorizzazione all’accesso telematico da parte del giudice del procedimento, infatti, potrebbe rimediare alle eventuali lacune di allegazione e di prova dei fatti contenute negli atti introduttivi del giudizio, ma non potrebbe sortire effetti sulla decisione –che spetta alla parte soltanto- di valutare, a monte, la convenienza o l’opportunità dell’instaurazione del procedimento.
Come ha già osservato questo Consiglio (Sez. VI, 18.12.1997, n. 1591; Sez. IV, 06.03.1995, n. 158), «se esercitato ante causam, l’accesso può avere anche esiti di prevenzione della lite: la conoscenza dei documenti rilevanti, infatti, o corroborando la legittimità degli atti amministrativi o comunque ingenerando il convincimento dell’inopportunità dell’impugnazione, può dissuadere l’amministrato dall’azione giurisdizionale»: tali considerazioni sono state formulate in fattispecie in cui si è considerata rilevante l’esigenza degli interessati di accedere agli atti, per valutare se proporre un ricorso nei confronti di una pubblica Amministrazione, ma possono essere considerate rilevanti anche per i casi in cui l’acquisizione degli atti possa indurre a valutare se agire o meno nei confronti di un soggetto privato, per controversie di ‘natura civilistica’.
È stato anche osservato –ma non riguarda nello specifico il caso di specie, perché si tratta di soggetti che hanno convissuto di fatto- che il diritto del richiedente al pieno accesso ai documenti fiscali del coniuge in pendenza del giudizio di separazione o di divorzio, ed indipendentemente dall’esercizio discrezionale del potere di ammissione o di autorizzazione probatoria da parte del giudice civile, si pone anche in sintonia con le recenti tendenze della giurisprudenza civile sviluppatesi in ordine alla tematica della individuazione dei criteri di determinazione dell’assegno divorzile, sempre più vicine ad ammettere la funzione sia assistenziale, che equilibratrice, che perequativo-compensativa (Cass. civ., Sez. un., 11.07.2018, n. 18827).
Indipendentemente dal caso specifico della strumentalità dell’accesso agli atti ai fini della quantificazione dell’assegno di separazione o di divorzio, l’accesso pieno ed integrale alla condizione reddituale, patrimoniale ed economico-finanziaria delle parti processuali -siano essi coniugi o conviventi di fatto- sarebbe da considerare precondizione necessaria per l’uguale trattamento giuridico nell’ambito di tutti i procedimenti di famiglia.
Sono oramai pacificamente acquisiti a livello legislativo e giurisprudenziale i principi sulla pari dignità e sull’uguaglianza sostanziale di tutti i nuclei familiari, sia quelli fondati sul matrimonio, che quelli consistenti in rapporti di convivenza di fatto, soprattutto a tutela e a garanzia dei figli minorenni o di quelli maggiorenni economicamente non indipendenti.
Ai fini dell’accertamento della complessiva situazione economico-patrimoniale, non avrebbe senso la distinzione, operata dall’Agenzia, tra i documenti immediatamente accessibili (quelli reddituali e patrimoniali) e quelli che necessitano della previa autorizzazione del giudice competente (quelli finanziari): sia perché potrebbe difettare, nei singoli casi, la pendenza di una controversia civile; sia perché i documenti finanziari consentirebbero di ricostruire fedelmente le condizioni economico-patrimoniali in cui versano le parti -soprattutto a garanzia dei figli minorenni- perché provenienti, il più delle volte, da terzi estranei, quali gli operatori finanziari.
L’istituto dell’accesso rivestirebbe anche una posizione di assoluta rilevanza al fine di consentire la massima trasparenza, tra le parti ed a tutela soprattutto dei figli minorenni, delle condizioni economiche nel momento della crisi delle relazioni familiari.
L’ordinamento nel suo complesso aspirerebbe alla massima protezione possibile delle situazioni giuridiche soggettive, a prescindere dalla loro consistenza (di diritto soggettivo o di interesse legittimo) e dalla loro natura (a seconda che si tratti, cioè, di una situazione finale o di una situazione strumentale), secondo i principi generali dell’unitarietà, della concorrenza e della complementarietà delle tutele.
In base all’ordinamento medesimo, non vi sarebbe dubbio sul fatto che le comunicazioni relative ai rapporti finanziari, stando alla terminologia propria della disciplina sull’accesso di cui all'art. 22, comma 1, lett. d) della l. n. 241 del 1990 e all'art. 1, comma 1, lett. a) del d.P.R. 28.12.2000, n. 445, costituiscono “documenti”, in quanto l’Amministrazione finanziaria, sebbene non sia essa a formarli, può utilizzarli per l’esercizio delle proprie funzioni istituzionali, come previsto nel dettaglio dall’art. 7 del d.P.R. 29.09.1973, n. 605.
Sussisterebbe l’interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è stato richiesto l’accesso, ai sensi dell’art. 22 l. n. 241/1990, attesa la pendenza del giudizio di volontaria giurisdizione.
Il divieto contenuto nella circolare dell’Agenzia delle entrate del 10.10.2017, relativo all’accesso alle “risultanze derivanti dall’Archivio dei rapporti finanziari”, in assenza dell’autorizzazione del Tribunale, non troverebbe fondamento normativo, in mancanza di espressa previsione rinvenibile in tal senso.
L’art. 7 del d.P.R. n. 605 del 1973 (come modificato dal d.l. 04.07.2006, n. 223, convertito con modificazioni dalla legge 04.08.2006, n. 248) ha previsto l'obbligo per ogni operatore finanziario di comunicare, in un'apposita sezione dell'Anagrafe tributaria denominata “Archivio dei rapporti finanziari”, l'esistenza e la relativa natura dei rapporti finanziari intrattenuti con qualsiasi soggetto. L’art. 7 non ha previsto che queste informazioni, una volta riversate nell'Archivio dei rapporti finanziari da parte delle banche e degli operatori finanziari, possano essere utilizzate "unicamente" dall'Amministrazione finanziaria e dalla Guardia di Finanza, ma si è limitato a precisare che si tratta di atti certamente utilizzabili da tali soggetti per l'azione di contrasto all'evasione fiscale, senza affrontare per nulla il tema della loro ostensibilità e dell’eventuale conflitto con il diritto alla riservatezza del soggetto cui gli atti afferiscono.
La questione andrebbe risolta facendo applicazione dell’art. 24, comma 7, della legge n. 241 del 1990: "Deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall'art. 60 del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale".
Il bilanciamento degli interessi contrapposti andrebbe effettuato e risolto in applicazione del D.M. 29.10.1996, nr. 603, recante "Regolamento per la disciplina delle categorie di documenti sottratti al diritto di accesso in attuazione dell'art. 24, comma 2, della L. 07.08.1990, n. 241". L'art. 5, lettera a) del decreto menziona la "documentazione finanziaria, economica, patrimoniale e tecnica di persone fisiche e giuridiche, gruppi, imprese e associazioni comunque acquisita ai fini dell'attività amministrativa"; la sottrae all'accesso inteso come diritto alla copia, ma garantisce "la visione degli atti dei procedimenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per la cura o la difesa degli interessi giuridicamente rilevanti propri di coloro che ne fanno motivata richiesta”.
Con riguardo al rapporto tra accesso e privacy, rileverebbe il combinato disposto degli artt. 59 e 60 del D.lgs. 30.06.2003, n. 196 (cd. Codice della privacy), e delle disposizioni di cui alla l. n. 241 del 1990, dal quale deriva un sistema connotato da tre livelli di protezione dei dati dei terzi e, in maniera corrispondente, tre gradi di intensità della situazione giuridica che il richiedente intende tutelare con la richiesta di accesso.
Il bilanciamento investirebbe il diritto alla riservatezza previsto dalla normativa vigente in materia di accesso ai documenti “sensibili” dell’ex convivente e, dall’altro, la cura e la tutela degli interessi economici e della serenità dell'assetto familiare, soprattutto nei riguardi del figlio minorenne, presente nella controversia in questione.
Occorrerebbe, infine, affrontare gli argomenti finora esposti, al lume del complessivo e vigente quadro normativo all’interno del quale si inserisce la previsione di cui all’art. 492-bis del cod. proc. civ., e dal quale sembrerebbe emergere -oltre alla forte discrezionalità del potere istruttorio del giudice civile, sopra evidenziata- anche la obiettiva difficoltà incontrata dalle parti processuali nel sollecitare la supplenza istruttoria del giudice.
Le lacune istruttorie spesso si verificano –come nel caso di specie- a causa del comportamento processuale di una parte a danno dell’altra, inottemperante o parzialmente ottemperante agli obblighi di deposito, ed il superamento delle medesime postula l’utilizzo di tecniche di indagine molto invasive, soprattutto per la sfera giuridica dei terzi estranei (es. le indagini fiscali e tributarie), con notevole dispiegamento dell’energia della forza pubblica (es. Guardia di Finanza).
Tali indagini –peraltro- difficilmente sono autorizzate dal giudice civile, in assenza di puntuali, specifici e ben motivati elementi conoscitivi (ex multis, Cass. civ., sez. I, 06.06.2013, n. 14336; Id., sez. I, 20.09.2013, n. 21603; Id., sez. VI, 15.11.2016, n. 23263; Id., sez. I, 04.04.2019, n. 9535).
L’accesso agli atti, dunque, sotto quest’angolo prospettico, consentirebbe di conoscere in anticipo le informazioni utili alla difesa dei propri interessi; di acquisire le informazioni senza dispiegamento della forza pubblica; di non gravare eccessivamente l’Amministrazione finanziaria, attraverso l’eventuale autonomo accesso telematico alle banche dati; comunque sia, nel bilanciamento degli interessi, di gravare l’Agenzia delle Entrate -che per sua funzione istituzionale è l’ente depositario di tutti questi atti- rispetto alla polizia fiscale e tributaria, deputata allo svolgimento di altre funzioni istituzionali (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 04.02.2020 n. 888 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTIL'art. 80, comma 5, lett. m), del d.lgs. 50/2016 stabilisce che deve essere escluso dalla partecipazione alla procedura di gara l’operatore economico che “si trovi rispetto ad un altro partecipante alla medesima procedura di affidamento, in una situazione di controllo di cui all'articolo 2359 del codice civile o in una qualsiasi relazione, anche di fatto, se la situazione di controllo o la relazione comporti che le offerte sono imputabili ad un unico centro decisionale”.
Dalla piana interpretazione della norma si evince che “fra le cause di esclusione dalle gare pubbliche, devono essere ricomprese, oltre alle ipotesi previste dall'art. 2359 c.c., anche quelle non codificate di collegamento sostanziale le quali, attestando la riconducibilità dei soggetti partecipanti alla selezione ad un unico centro decisionale, causano o possono causare la vanificazione dei principi generali in tema di par condicio, segretezza delle offerte e trasparenza della competizione, risultando ininfluente che la rilevanza del collegamento sia stata o meno esplicitata nel bando di gara”.
---------------
Nel caso di annullamento o revoca di una aggiudicazione provvisoria, la stazione appaltante non è obbligata a comunicare all'impresa aggiudicataria provvisoria l'avvio del procedimento di autotutela, atteso che l'aggiudicazione provvisoria è atto endo-procedimentale, che s'inserisce nella procedura comparativa come momento necessario ma non decisivo.
---------------
Il ruolo di garanzia attribuito al RUP implica necessariamente il potere di provvedere all’esclusione dei concorrenti nei casi tassativamente previsti dal legislatore a tutela degli interessi della stazione appaltante: “tale conclusione, del resto, reperisce il proprio ineludibile riscontro nell'indirizzo stabilmente assunto dal Consiglio di Stato, il quale, riguardo ad una questione analoga a quella ora in esame, ha invero ritenuto che "la doglianza con la quale l'appellante sostiene che il responsabile del procedimento non è competente in ordine all'esclusione delle partecipanti alla gara deve essere respinta essendo la tesi sostenuta in contrasto con orientamento pacifico del Consiglio di Stato che il Collegio condivide e al quale fa riferimento ai sensi dell'art. 74 del codice del processo amministrativo".
Senza ancora considerare come proprio l'attribuzione al RUP delle competenze afferenti all'adozione dei provvedimenti di esclusione trovi piena corrispondenza nel particolare ruolo attribuito a tale figura, nel contesto della gara, e alle funzioni di garanzia e di controllo che ad esso sono intestate, anche in ragione dei tempi e delle modalità della sua preposizione, che è sempre anteposta (anche logicamente) all'avvio della procedura di affidamento (art. 32, comma 1), così da collocarlo in una posizione di originaria terzietà e separazione nel corso dell'intero ciclo dell'appalto (condizione che si rileva sia rispetto agli organi deputati allo svolgimento delle valutazioni tecniche -costituiti invece solo "dopo la scadenza del termine fissato per la presentazione delle offerte", ai sensi dell'art. 77, comma 7, D.Lgs. n. 50 del 2016- sia riguardo all'organizzazione della stazione appaltante, quanto meno fino alla formulazione, da parte del RUP, della proposta di aggiudicazione "soggetta ad approvazione dell'organo competente secondo l'ordinamento della stazione appaltante e nel rispetto dei termini dallo stesso previsti" - art. 33, 1° comma).
---------------

7. Il ricorso è infondato.
7.1. L'art. 80, comma 5, lett. m), del d.lgs. 50/2016 stabilisce che deve essere escluso dalla partecipazione alla procedura di gara l’operatore economico che “si trovi rispetto ad un altro partecipante alla medesima procedura di affidamento, in una situazione di controllo di cui all'articolo 2359 del codice civile o in una qualsiasi relazione, anche di fatto, se la situazione di controllo o la relazione comporti che le offerte sono imputabili ad un unico centro decisionale”.
Dalla piana interpretazione della norma si evince che “fra le cause di esclusione dalle gare pubbliche, devono essere ricomprese, oltre alle ipotesi previste dall'art. 2359 c.c., anche quelle non codificate di collegamento sostanziale le quali, attestando la riconducibilità dei soggetti partecipanti alla selezione ad un unico centro decisionale, causano o possono causare la vanificazione dei principi generali in tema di par condicio, segretezza delle offerte e trasparenza della competizione, risultando ininfluente che la rilevanza del collegamento sia stata o meno esplicitata nel bando di gara” (TAR Napoli, Sez. V, 03/01/2019 n. 27).
Nel concreto caso di specie, è circostanza oggettiva e non contestata che tra le offerte presentate dalla ricorrente e dalla ditta seconda classificata nella graduatoria di gara sussistono molteplici similitudini, che riguardano non soltanto il ribasso sui prezzi, ma anche i contenuti tecnici e la veste grafica, al punto che sono ravvisabili i medesimi errori di battitura.
I predetti elementi in comune non sono stati giustificati dalla ricorrente in modo plausibile, dal momento che a fronte della spiegazione secondo cui alcune similitudini descrittive sarebbero da imputare al fatto che entrambe le ditte “hanno fatto riferimento per gli arredi ad una ditta leader nel settore” (cfr. pag. 10 del ricorso), resta il fatto che gli aspetti di immediata sovrapponibilità (o meglio, di assoluta identità) tra le offerte sono molteplici e concordanti, essendo riscontrabile la coincidenza di 45 prezzi su 49, l’utilizzo delle stesse immagini, il riferimento ai medesimi particolari costruttivi, oltre che agli stessi arredi. D’altronde la invocata giustificazione del riferimento ad una ditta leader nel settore non è poi confermata da una circostanziata indicazione delle modalità attraverso cui tale riferimento avrebbe comportato la sostanziale uguaglianza dell’offerta delle due partecipanti.
L’oggettiva convergenza di tali riscontri istruttori nel senso della unicità del centro di imputazione delle opzioni partecipative sottese alle offerte vale a dimostrare la lesione dell’interesse alla segretezza ed autonomia dei relativi contenuti, con conseguente violazione del principio di concorrenzialità.
7.2. Parimenti infondata è la censura con cui la ricorrente ha lamentato la mancata comunicazione di avvio del provvedimento di revoca dell’aggiudicazione provvisoria: “nel caso di annullamento o revoca di una aggiudicazione provvisoria, la stazione appaltante non è obbligata a comunicare all'impresa aggiudicataria provvisoria l'avvio del procedimento di autotutela, atteso che l'aggiudicazione provvisoria è atto endo-procedimentale, che s'inserisce nella procedura comparativa come momento necessario ma non decisivo” (TAR Catania, Sez. I, 20/02/2017 n. 355).
7.3. Né miglior sorte ha la doglianza relativa all’incompetenza del RUP rispetto all’adozione del provvedimento di esclusione della ricorrente dalla procedura concorsuale, dal momento che la giurisprudenza pronunciatasi in materia ha più volte ribadito che il ruolo di garanzia attribuito al RUP implica necessariamente il potere di provvedere all’esclusione dei concorrenti nei casi tassativamente previsti dal legislatore a tutela degli interessi della stazione appaltante: “tale conclusione, del resto, reperisce il proprio ineludibile riscontro nell'indirizzo stabilmente assunto dal Consiglio di Stato, il quale, riguardo ad una questione analoga a quella ora in esame, ha invero ritenuto che "la doglianza con la quale l'appellante sostiene che il responsabile del procedimento non è competente in ordine all'esclusione delle partecipanti alla gara deve essere respinta essendo la tesi sostenuta in contrasto con orientamento pacifico del Consiglio di Stato (Sezione Quinta, 06.05.2015, n. 2274, 21.11.2014, n. 5760) che il Collegio condivide e al quale fa riferimento ai sensi dell'art. 74 del codice del processo amministrativo" (Cons. Stato, Sez. III, n. 2983 del 2017).
Senza ancora considerare come proprio l'attribuzione al RUP delle competenze afferenti all'adozione dei provvedimenti di esclusione trovi piena corrispondenza nel particolare ruolo attribuito a tale figura, nel contesto della gara, e alle funzioni di garanzia e di controllo che ad esso sono intestate (cfr. Cons. Stato, Comm. spec., 25.09.2017, n. 2040), anche in ragione dei tempi e delle modalità della sua preposizione, che è sempre anteposta (anche logicamente) all'avvio della procedura di affidamento (art. 32, comma 1), così da collocarlo in una posizione di originaria terzietà e separazione nel corso dell'intero ciclo dell'appalto (condizione che si rileva sia rispetto agli organi deputati allo svolgimento delle valutazioni tecniche -costituiti invece solo "dopo la scadenza del termine fissato per la presentazione delle offerte", ai sensi dell'art. 77, comma 7, D.Lgs. n. 50 del 2016- sia riguardo all'organizzazione della stazione appaltante, quanto meno fino alla formulazione, da parte del RUP, della proposta di aggiudicazione "soggetta ad approvazione dell'organo competente secondo l'ordinamento della stazione appaltante e nel rispetto dei termini dallo stesso previsti" - art. 33, 1° comma)
” (TAR Trieste, Sez. I, 29/10/2019 n. 450) (TAR Molise, sentenza 04.02.2020 n. 39 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Il conferimento di posizioni organizzative al personale non dirigente delle pubbliche amministrazioni esula dall'ambito degli atti amministrativi autoritativi e s'iscrive nella categoria degli atti negoziali.
Per giurisprudenza costante:
   1. Il conferimento delle posizioni organizzative esula dall'ambito delle procedure concorsuali ex art. 63, comma 4, cit., in quanto la posizione organizzativa non determina un mutamento di profilo professionale né un mutamento di area, ma soltanto un mutamento di funzioni le quali cessano al cessare dell'incarico;
   2. ed infatti, nell'impiego pubblico il conferimento di posizioni organizzative esula dall'ambito delle procedure concorsuali di cui all'art. 63 comma 4, d.lgs. 30.03.2001 n. 165 in quanto la posizione organizzativa non determina un mutamento di profilo professionale, che rimane invariato, né un mutamento di area, ma comporta soltanto un mutamento di funzioni, le quali cessano al cessare dell'incarico; si tratta, in definitiva, di una funzione ad tempus di alta responsabilità la cui definizione -nell'ambito della classificazione del personale di ciascun comparto- è demandata dalla legge alla contrattazione collettiva; siffatta qualificazione comporta che le relative controversie siano devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, non ostandovi che vengano in considerazione atti amministrativi presupposti intesi alla fissazione dei criteri per l'attribuzione della posizione organizzativa;
   3. in conclusione: “Il conferimento di posizioni organizzative al personale non dirigente delle pubbliche amministrazioni esula dall'ambito degli atti amministrativi autoritativi e s'iscrive nella categoria degli atti negoziali, adottati con la capacità e i poteri del datore di lavoro, in particolare configurandosi l'attività della Amministrazione — nell'applicazione della disposizione contrattuale — non come esercizio di un potere di organizzazione, bensì come adempimento di un obbligo di ricognizione e di individuazione degli aventi diritto, con la conseguenza che una siffatta qualificazione comporta che le relative controversie siano devolute alla giurisdizione ordinaria”.

---------------

Premesso che:
   a) vengono impugnati sotto plurimi profili i provvedimenti, in epigrafe indicati, tutti recanti conferimento di posizioni organizzative riguardanti alcuni servizi (pure in epigrafe indicati) della ASL Roma 1;
   b) si costituiva in giudizio l’intimata amministrazione sanitaria la quale, nel chiedere il rigetto del gravame, sollevava peraltro il difetto di giurisdizione;
   c) alla camera di consiglio del 28.01.2020, avvisate le parti circa la possibilità di adottare sentenza in forma semplificata, la causa veniva infine trattenuta in decisione.
Considerato che, per giurisprudenza costante:
   1. Il conferimento delle posizioni organizzative esula dall'ambito delle procedure concorsuali ex art. 63, comma 4, cit., in quanto la posizione organizzativa non determina un mutamento di profilo professionale né un mutamento di area, ma soltanto un mutamento di funzioni le quali cessano al cessare dell'incarico (TAR Genova, sez. I , 04.09.2017, n. 710);
   2. ed infatti, nell'impiego pubblico il conferimento di posizioni organizzative esula dall'ambito delle procedure concorsuali di cui all'art. 63 comma 4, d.lgs. 30.03.2001 n. 165 in quanto la posizione organizzativa non determina un mutamento di profilo professionale, che rimane invariato, né un mutamento di area, ma comporta soltanto un mutamento di funzioni, le quali cessano al cessare dell'incarico; si tratta, in definitiva, di una funzione ad tempus di alta responsabilità la cui definizione -nell'ambito della classificazione del personale di ciascun comparto- è demandata dalla legge alla contrattazione collettiva; siffatta qualificazione comporta che le relative controversie siano devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, non ostandovi che vengano in considerazione atti amministrativi presupposti intesi alla fissazione dei criteri per l'attribuzione della posizione organizzativa (cfr. TAR Pescara, sez. I, 28.05.2015, n. 229);
   3. in conclusione: “Il conferimento di posizioni organizzative al personale non dirigente delle pubbliche amministrazioni esula dall'ambito degli atti amministrativi autoritativi e s'iscrive nella categoria degli atti negoziali, adottati con la capacità e i poteri del datore di lavoro, in particolare configurandosi l'attività della Amministrazione — nell'applicazione della disposizione contrattuale — non come esercizio di un potere di organizzazione, bensì come adempimento di un obbligo di ricognizione e di individuazione degli aventi diritto, con la conseguenza che una siffatta qualificazione comporta che le relative controversie siano devolute alla giurisdizione ordinaria” (TAR Bologna, sez. I, 18.12.2014, n. 1238).
Ritenuto in conclusione che, per tutte le ragioni che precedono, il ricorso debba essere dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice adito, trattandosi di controversia riservata alla cognizione del giudice ordinario, davanti al quale il processo potrà essere proseguito con le modalità e nei termini di cui all'art. 11 c.p.a. Con compensazione in ogni caso delle spese di lite
(TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater, sentenza 03.02.2020 n. 1414 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTIPartecipazione procedimentale sull’informazione antimafia.
---------------
Informativa antimafia – Comunicazione di avvio del procedimento - Esclusione
L’informazione antimafia non richiede la necessaria osservanza del contraddittorio procedimentale, meramente eventuale in questa materia ai sensi dell’art. 93, comma 7, d.lgs. n. 159 del 2011 né è configurabile l’applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241 del 1990 non essendo l’informazione antimafia provvedimento vincolato, ma per sua stessa natura discrezionale (1).
---------------
   (1) La Sezione dà atto che la questione del contraddittorio procedimentale in materia di informazioni antimafia è dibattuta, registrandosi in dottrina voci dissenzienti ed avendo il Tar Bari, con ord. n. 28 del 13.01.2020, chiesto alla Corte di Giustizia UE di chiarire pregiudizialmente, ai fini della decisione del giudizio, se gli artt. 91, 92 e 93, d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui non prevedono il contraddittorio procedimentale in favore del soggetto nei cui confronti il Prefetto si propone di rilasciare una informazione antimafia, siano compatibili con il principio del contraddittorio, così come ricostruito e riconosciuto quale principio di diritto dell’Unione.
La Sezione ha sul punto chiarito che l’assenza di una necessaria interlocuzione procedimentale in questa materia non costituisca un vulnus al principio di buona amministrazione, perché, come la stessa Corte UE ha affermato, il diritto al contraddittorio procedimentale e al rispetto dei diritti della difesa non è una prerogativa assoluta, ma può soggiacere a restrizioni, a condizione che «queste rispondano effettivamente a obiettivi di interesse generale perseguiti dalla misura di cui trattasi e non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato e inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti» (sentenza della Corte di Giustizia UE, 09.11.2017, in C-298/16, § 35 e giurisprudenza ivi citata) e, in riferimento alla normativa italiana in materia antimafia, la stessa Corte UE, seppure ad altri fini (la compatibilità della disciplina italiana del subappalto con il diritto eurounitario), ha di recente ribadito che «il contrasto al fenomeno dell’infiltrazione della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici costituisce un obiettivo legittimo che può giustificare una restrizione alle regole fondamentali e ai principi generali del TFUE che si applicano nell’ambito delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici» (Corte di Giustizia UE, 26.09.2019, in C-63/18, § 37).
La discovery anticipata, già in sede procedimentale, di elementi o notizie contenuti in atti di indagine coperti da segreto investigativo o in informative riservate delle forze di polizia, spesso connessi ad inchieste della magistratura inquirente contro la criminalità organizzata di stampo mafioso e agli atti delle indagini preliminari, potrebbe frustrare la finalità preventiva perseguita dalla legislazione antimafia, che ha l’obiettivo di prevenire il tentativo di infiltrazione da parte delle organizzazioni criminali, la cui capacità di penetrazione nell’economia legale ha assunto forme e “travestimenti” sempre più insidiosi.
Questa Sezione ha perciò già chiarito che la delicatezza della ponderazione intesa a contrastare in via preventiva la minaccia insidiosa ed esiziale delle organizzazioni mafiose, richiesta all’autorità amministrativa, può comportare anche un’attenuazione, se non una eliminazione, del contraddittorio procedimentale, che del resto non è un valore assoluto, come ha pure chiarito la Corte di Giustizia UE nella sua giurisprudenza (ma v. pure Corte cost.: sent. n. 309 del 1990 e sent. n. 71 del 2015), o slegato dal doveroso contemperamento di esso con interessi di pari se non superiore rango costituzionale, né un bene in sé, o un fine supremo e ad ogni costo irrinunciabile, ma è un principio strumentale al buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) e, in ultima analisi, al principio di legalità sostanziale (art. 3, comma secondo, Cost.), vero e più profondo fondamento del moderno diritto amministrativo (Cons. St., sez. III, 09.02.2017, n. 565).
E d’altro canto il contraddittorio procedimentale non è del tutto assente nemmeno nelle procedure antimafia, se è vero che l’art. 93, comma 7, d.lgs. n. 159 del 2011 prevede che «il prefetto competente al rilascio dell'informazione, ove lo ritenga utile, sulla base della documentazione e delle informazioni acquisite invita, in sede di audizione personale, i soggetti interessati a produrre, anche allegando elementi documentali, ogni informazione ritenuta utile» (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 31.01.2020 n. 820 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTI: Offerte imputabili ad un unico centro decisionale.
Il TAR Milano, con riferimento all’esclusione in base all’art. 80, comma 5, lett. m), del D.Lgs. 50/2016, ai sensi del quale le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d’appalto un operatore economico che «trovi rispetto ad un altro partecipante alla medesima procedura di affidamento, in una situazione di controllo di cui all'articolo 2359 del codice civile o in una qualsiasi relazione, anche di fatto, se la situazione di controllo o la relazione comporti che le offerte sono imputabili ad un unico centro decisionale», precisa che:
«In sede di interpretazione della norma, la giurisprudenza, condivisa dal Tribunale, osserva che:
   - l’accertamento della sussistenza di un unico centro decisionale costituisce motivo in sé sufficiente a giustificare l’esclusione delle imprese dalla procedura selettiva, non essendo necessario verificare che la comunanza a livello strutturale delle imprese partecipanti alla gara abbia concretamente influito sul rispettivo comportamento nell’ambito della gara, determinando la presentazione di offerte riconducibili ad un unico centro decisionale;
   - ciò che rileva è, infatti, il dato oggettivo, autonomo e svincolato da valutazioni a posteriori di tipo qualitativo, rappresentato dall’esistenza di un collegamento sostanziale tra le imprese, con la necessaria precisazione che lo stesso debba essere dedotto da indizi gravi, precisi e concordanti;
   - tale interpretazione garantisce la tutela dei principi di segretezza delle offerte e di trasparenza delle gare pubbliche, nonché di parità di trattamento delle imprese concorrenti, principi che verrebbero irrimediabilmente violati qualora si ritenesse di correlare l’esclusione dalla gara di imprese in collegamento sostanziale ad una posteriore valutazione sul contenuto delle offerte;
   - il semplice collegamento può dar luogo all’esclusione da una gara d’appalto all’esito di puntuali verifiche compiute con riferimento al caso concreto da parte dell’Amministrazione che deve accertare se la situazione rappresenta anche solo un pericolo che le condizioni di gara vengano alterate
»
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 31.01.2020 n. 222 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
L’esclusione impugnata si basa sull’applicazione dell’art. 80, comma 5, lett. m), del D.Lgs. 50/2016, ove si prevede che le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d’appalto un operatore economico in una delle seguenti situazioni, anche riferita a un suo subappaltatore nei casi di cui all’articolo 105, comma 6, qualora: “m) l’operatore economico si trovi rispetto ad un altro partecipante alla medesima procedura di affidamento, in una situazione di controllo di cui all'articolo 2359 del codice civile o in una qualsiasi relazione, anche di fatto, se la situazione di controllo o la relazione comporti che le offerte sono imputabili ad un unico centro decisionale”.

In sede di interpretazione della norma, la giurisprudenza, condivisa dal Tribunale (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, n. 1265/2010; Tar Lombardia Milano, sez. I, n. 1983/2019; Tar Lombardia Milano, sez. I, n. 1918/2018; Tar Lombardia Milano, sez. I, n. 2248/2016), precisa che:
   - l’accertamento della sussistenza di un unico centro decisionale costituisce motivo in sé sufficiente a giustificare l’esclusione delle imprese dalla procedura selettiva, non essendo necessario verificare che la comunanza a livello strutturale delle imprese partecipanti alla gara abbia concretamente influito sul rispettivo comportamento nell’ambito della gara, determinando la presentazione di offerte riconducibili ad un unico centro decisionale;
   - ciò che rileva è, infatti, il dato oggettivo, autonomo e svincolato da valutazioni a posteriori di tipo qualitativo, rappresentato dall’esistenza di un collegamento sostanziale tra le imprese, con la necessaria precisazione che lo stesso debba essere dedotto da indizi gravi, precisi e concordanti (C.d.S., Sez. V, n. 1265/2010);
   - tale interpretazione garantisce la tutela dei principi di segretezza delle offerte e di trasparenza delle gare pubbliche, nonché di parità di trattamento delle imprese concorrenti, principi che verrebbero irrimediabilmente violati qualora si ritenesse di correlare l’esclusione dalla gara di imprese in collegamento sostanziale ad una posteriore valutazione sul contenuto delle offerte (TAR Lombardia, I sezione, n. 2248/2016);
   - il semplice collegamento può dar luogo all’esclusione da una gara d’appalto all’esito di puntuali verifiche compiute con riferimento al caso concreto da parte dell’Amministrazione che deve accertare se la situazione rappresenta anche solo un pericolo che le condizioni di gara vengano alterate (per tutte TAR Sardegna, n. 163/2018).

EDILIZIA PRIVATA: Un gazebo di rilevanti dimensioni (a pianta rettangolare di dimensioni 5 x 6 metri e altezza massima di 3,50 metri, con struttura portante in pilastrini di ferro, telaio di copertura di tubolari metallici e rivestimento di materiale plastico di colore verde) al servizio di un'attività commerciale non è un manufatto precario e richiede il permesso di costruire.
Per pacifica giurisprudenza, presupposto per l'adozione dell'ordinanza di demolizione non è l'accertamento di responsabilità nella commissione dell'illecito, bensì l'esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione urbanistico-edilizia: sicché sia il soggetto che abbia la titolarità a eseguire l'ordine ripristinatorio, ossia in virtù del diritto dominicale, il proprietario, sia il responsabile dell'abuso sono destinatari della sanzione reale della demolizione e del ripristino dei luoghi.
---------------
La circostanza che una struttura sia semplicemente “appoggiata” al suolo non la rende ex se riconducibile nell’ambito della c.d. edilizia libera. Solo le opere agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare un’esigenza oggettivamente temporanea, destinata a cessare dopo il breve tempo entro cui si realizza l'interesse finale, possono dirsi di carattere precario e, in quanto tali, non richiedenti il permesso di costruire.
Come ha ricordato TAR Lombardia-Milano, <<La giurisprudenza è concorde nel senso che per individuare la natura precaria di un'opera si debba seguire non il criterio strutturale, ma il criterio funzionale, per cui un'opera può anche non essere stabilmente infissa al suolo, ma se essa presenta la caratteristica di essere realizzata per soddisfare esigenze non temporanee, non può beneficiare del regime delle opere precarie...>>.
In buona sostanza, la natura precaria di un manufatto non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi all'intrinseca destinazione materiale di essa a un uso realmente precario e transitorio, per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, non essendo sufficiente che si tratti eventualmente di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo.
Non possono, in definitiva, essere considerati manufatti precari quelli destinati a una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l’alterazione del territorio non può essere considerata irrilevante.

---------------

Sulla base di un consolidato insegnamento giurisprudenziale:
   - la pertinenza è configurabile quando vi è un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e quella principale, cioè un nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole, oltre che una dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce;
   - a differenza della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non comporta un cosiddetto carico urbanistico".
Inoltre, "il carattere pertinenziale rilevante ai fini urbanistici transita attraverso le seguenti coordinate identificative:
   - opere che non comportino un nuovo volume;
   - opere che comportino un nuovo e modesto volume 'tecnico' (così come definito ai fini urbanistici ...)
.

---------------

Dal punto di vista tecnico-giuridico il gazebo è caratterizzato da una struttura costruttiva leggera e aperta, che consente il passaggio di luce e aria facilitando l’ombreggiamento e la protezione delle persone durante la sosta. Esso è tipicamente privo di pareti e di un tetto o solaio propriamente detti, ma è dotato di una copertura impermeabile facilmente amovibile.
Nel caso di specie si evince che i pilastrini e la copertura di materiale plastificato hanno formato un nuovo volume che, per consistenza e tipologia, risulta agevolmente utilizzabile in via autonoma e separata rispetto all'edificio principale (del quale amplia la fruibilità): risulta destinato a soddisfare esigenze durevoli nel tempo e implica un incremento del carico urbanistico, con un’autonoma identità edilizia.

---------------

A. Presso il ristorante La. viene esercitata attività di somministrazione di alimenti e bevande, all’interno di un immobile di proprietà del controinteressato (al piano terra e nel seminterrato). All’esterno, è presente un manufatto pertinenziale con copertura mobile (gazebo – planimetria doc. 4).
B. Con nota 06/08/2015 il Comune intimato invitava il proprietario a rimuovere il gazebo dall’area adiacente il ristorante (doc. 3). All’esito di un’istanza di accesso, il ricorrente apprendeva della segnalazione del Sig. Do.Ma. del 17/01/2015 e della relazione del tecnico comunale del 13/02/2015.
C. Con l’impugnato provvedimento l’amministrazione comunale ha ingiunto alla Sig.ra Ma.Si. (titolare dell’esercizio commerciale) e al proprietario la demolizione dell’opera, in quanto non assistita dal titolo abilitativo edilizio né dall’autorizzazione paesaggistica (insistendo su area sottoposta a vincolo), nonché il ripristino dello stato dei luoghi entro il termine di 90 giorni dalla notifica.
L’opera, descritta nel già citato verbale di sopralluogo, consiste in un gazebo a pianta rettangolare di dimensioni 5 x 6 metri e altezza massima di 3,50 metri, con struttura portante in pilastrini di ferro, telaio di copertura di tubolari metallici e rivestimento di materiale plastico di colore verde.
...
1. E’ anzitutto infondata la prima censura.
1.1 Come ha messo in luce il Consiglio di Stato (sez. VI – 13/11/2019 n. 7792), “Per pacifica giurisprudenza, da cui il Collegio non ha motivo di discostarsi, … presupposto per l'adozione dell'ordinanza di demolizione non è l'accertamento di responsabilità nella commissione dell'illecito, bensì l'esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione urbanistico-edilizia: sicché sia il soggetto che abbia la titolarità a eseguire l'ordine ripristinatorio, ossia in virtù del diritto dominicale, il proprietario, sia il responsabile dell'abuso sono destinatari della sanzione reale della demolizione e del ripristino dei luoghi (cfr. da ultimo Cons. Stato, Sez. VI, 11/12/2018, n. 6983; Sez. II, 12/09/2019, n. 6147)”.
1.2 Nel caso di specie, l’immobile ove si svolge l’attività –unitamente all’area sulla quale è stato realizzato l’illecito edilizio sanzionato con l’atto impugnato– è di proprietà del controinteressato, mentre l’esercizio pubblico (costituito in forma societaria) ne ha la disponibilità, per cui il Comune ha correttamente ingiunto a entrambi di demolire l’opera abusiva.
L’autorità amministrativa ha dedotto che l’utilizzatore del fabbricato (e del gazebo adiacente) è il “Ristorante La.” e la ricorrente risulta titolare dell’esercizio commerciale, per cui la notifica è stata effettuata nei suoi confronti quale legale rappresentante della Società di persone locataria. Del resto, detta qualità in capo alla persona fisica destinataria del provvedimento è pacifica, ed è stata espressamente indicata nel corpo dell'ordinanza (pag. 2).
2. Anche il secondo motivo è privo di pregio.
2.1 L’art. 3, comma 1, lettera e.5), del D.P.R. 380/2001 reputa interventi di nuova costruzione “l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee o siano ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore”.
I descritti interventi non sono dunque automaticamente classificati nell’alveo dell’attività edilizia libera, viceversa regolata dall’art. 6, che al comma 2 lett. b) –in vigore alla data di adozione dell’atto impugnato– contempla “le opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni”.
2.2 Ebbene, la circostanza che una struttura sia semplicemente “appoggiata” al suolo non la rende ex se riconducibile nell’ambito della c.d. edilizia libera. Solo le opere agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare un’esigenza oggettivamente temporanea, destinata a cessare dopo il breve tempo entro cui si realizza l'interesse finale, possono dirsi di carattere precario e, in quanto tali, non richiedenti il permesso di costruire (TAR Liguria, sez. I – 11/06/2019 n. 529).
Come ha ricordato TAR Lombardia Milano, sez. II – 18/03/2019 n. 579, <<La giurisprudenza è concorde nel senso che per individuare la natura precaria di un'opera si debba seguire non il criterio strutturale, ma il criterio funzionale, per cui un'opera può anche non essere stabilmente infissa al suolo, ma se essa presenta la caratteristica di essere realizzata per soddisfare esigenze non temporanee, non può beneficiare del regime delle opere precarie ...>>.
2.3 In buona sostanza, la natura precaria di un manufatto non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi all'intrinseca destinazione materiale di essa a un uso realmente precario e transitorio, per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, non essendo sufficiente che si tratti eventualmente di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo (TAR Toscana, sez. II – 08/10/2019 n. 1315).
Non possono, in definitiva, essere considerati manufatti precari quelli destinati a una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l’alterazione del territorio non può essere considerata irrilevante (Consiglio di Stato, sez. VI – 23/05/2017 n. 2438, che richiama sez. VI – 04/09/2015 n. 4116 e anche il precedente della sez. VI – 01/04/2016 n. 1291).
2.4 Nel caso di specie, il manufatto è di dimensioni non trascurabili (30 mq.), così come si può rilevare dalle fotografie allegate alla relazione di sopralluogo del 10/2/2015, ed è collocato all’esterno del fabbricato destinato a ristorante per un verosimile utilizzo continuativo. Peraltro, un concorrente fattore ostativo è rappresentato dall’assenza dell’autorizzazione paesaggistica (cfr. vincolo di cui all’art. 142, comma 1, lett. c), del D.Lgs. 42/2004, per l’insistenza nella fascia di rispetto di 150 metri dal Fiume Oglio). Anche rispetto a quest’ultimo l’ordine di demolizione si configura come atto dovuto.
3. La terza doglianza è fuorviante e deve essere rigettata, poiché la dedotta “non alterazione” della sagoma parrebbe riferirsi al fabbricato principale, mentre l’abuso investe il manufatto eretto esternamente.
4. Il quarto motivo verte sul concetto di pertinenza urbanistica.
4.1 Questo TAR (cfr. sez. I - 29/11/2018 n. 1141) ha statuito che, <<sulla base di un consolidato insegnamento giurisprudenziale (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 26.08.2014 n. 4290; nonché TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 21.09.2018 nn. 884 e 887; 22.01.2018 n. 22; 11.12.2017 n. 1425):
   - la pertinenza è configurabile quando vi è un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e quella principale, cioè un nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole, oltre che una dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce (Cons. Stato, sez. IV, 02.02.2012 n. 615);
   - a differenza della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non comporta un cosiddetto carico urbanistico (Cons. Stato, sez. V, 31.12.2008 n. 6756 e 13.06.2006 n. 3490)".
La stessa pronuncia ha poi precisato che "il carattere pertinenziale rilevante ai fini urbanistici transita attraverso le seguenti coordinate identificative:
   - opere che non comportino un nuovo volume;
   - opere che comportino un nuovo e modesto volume 'tecnico' (così come definito ai fini urbanistici ...)
>>.
I principi sono stati ribaditi nella sentenza di questa Sezione 05/06/2019 n. 546.
4.2 Dal punto di vista tecnico-giuridico il gazebo è caratterizzato da una struttura costruttiva leggera e aperta, che consente il passaggio di luce e aria facilitando l’ombreggiamento e la protezione delle persone durante la sosta. Esso è tipicamente privo di pareti e di un tetto o solaio propriamente detti, ma è dotato di una copertura impermeabile facilmente amovibile.
4.3 Dalla descrizione contenuta nella relazione di sopralluogo del Comune si evince che i pilastrini e la copertura di materiale plastificato hanno formato un nuovo volume che, per consistenza e tipologia, risulta agevolmente utilizzabile in via autonoma e separata rispetto all'edificio principale (del quale amplia la fruibilità): risulta destinato a soddisfare esigenze durevoli nel tempo e implica un incremento del carico urbanistico, con un’autonoma identità edilizia.
5. In conclusione, la pretesa avanzata deve essere rigettata (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 31.01.2020 n. 86 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVINuovamente alla Corte costituzionale l’automaticità delle conseguenze derivanti dalla dichiarazione mendace.
---------------
Procedimento amministrativo – Dichiarazione sostitutiva atto di notorietà – Dichiarazione falsa – Conseguenza – Art. 75, d.P.R. n. 445 del 2000 – Conseguenza – Decadenza automatica del beneficio – Violazione art. 3 Cost. – Rilevante e non manifestamente infondata.
E’ rilevante e non manifestamente infondata, per violazione dei principi di proporzionalità, ragionevolezza e uguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 75, d.P.R. 28.12.2000, n. 445, nella parte in cui introduce un automatismo legislativo tra la non veridicità della dichiarazione resa dall’interessato e la perdita dei benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera (1).
---------------
   (1) Analoga rimessione è stata disposta dalla Sezione con ordinanza 24.10.2018 n. 1544; 23.10.2018 n. 1531; 25.10.2018 n. 1552 e 17.09.2018 n. 1346.
Ha chiarito la Sezione che la granitica giurisprudenza formatasi in subiecta materia, con riferimento ai vizi “sostanziali” dell’autodichiarazione, ha osservato che il su riportato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 “si inserisce in un contesto in cui alla dichiarazione sullo status o sul possesso di determinati requisiti è attribuita funzione probatoria, da cui il dovere del dichiarante di affermare il vero.
Ne consegue che la dichiarazione “non veritiera” al di là dei profili penali, ove ricorrano i presupposti del reato di falso, nell’ambito della disciplina dettata dalla l. n. 445 del 2000, preclude al dichiarante il raggiungimento dello scopo cui era indirizzata la dichiarazione o comporta la decadenza dall’utilitas conseguita per effetto del mendacio
(ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. V, 09.04.2013, n. 1933).
Pertanto, <<In tale contesto normativo, in cui la “dichiarazione falsa o non veritiera” opera come fatto, perde rilevanza l’elemento soggettivo ovvero il dolo o la colpa del dichiarante>> (Consiglio di Stato, Sez. V, cit., n. 1933/2013), “poiché, se così fosse, verrebbe meno la ratio della disciplina che è volta a semplificare l’azione amministrativa, facendo leva sul principio di autoresponsabilità del dichiarante” (Consiglio di Stato, Sez. V, 27.04.2012, n. 2447): sicché ogni eventuale ulteriore circostanza, “senz’altro rilevante in sede penale, in quanto ostativa alla configurazione del falso ideologico, attesa la mancanza dell’elemento soggettivo, ovvero della volontà cosciente e non coartata di compiere il fatto e della consapevolezza di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero, non assume rilievo nell’ambito della L. n. 445 del 2000, in cui il mendacio rileva quale inidoneità della dichiarazione allo scopo cui è diretto” (Consiglio di Stato, Sez. V, cit., n. 1933/2013).
Ai sensi della normativa statale generale di cui all’art. 75 del D.P.R. n. 445 del 2000, quindi, “la non veridicità di quanto autodichiarato rileva sotto un profilo oggettivo e conduce alla decadenza dei benefici ottenuti con l’autodichiarazione non veritiera”; così la sent. 13.09.2016, n. 9699)” (TAR Lazio, Roma, Sez. III-ter, 24.05.2017, n. 6207), “senza che tale disposizione lasci margine di discrezionalità alle Amministrazioni (cfr. ad es. CdS 1172/2017)” (TAR Liguria, Genova, Sez. I, 14.06.2017, n. 534; in termini, Consiglio di Stato, Sez. VI, 20.08.2019, n. 5761; Consiglio di Giustizia Amministrativa Sicilia, 09.12.2019, n. 1039; Consiglio di Stato, Sez. V, 03.02.2016, n. 404; Consiglio di Stato, Sez. V, 15.03.2017, n. 1172).
In definitiva, per effetto della suddetta esegesi consolidata (tale da assurgere al rango di “diritto vivente”, sicché neppure è possibile per il Tribunale operare una c.d. “interpretazione costituzionalmente conforme”):
   - l’applicazione dell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 comporta l’automatica decadenza dal beneficio eventualmente già conseguito, non residuando, nell’applicazione della predetta norma, alcun margine di discrezionalità alle Pubbliche Amministrazioni che, in sede di controllo (d’ufficio) ex art. 71 del medesimo Testo Unico, si avvedano della (oggettiva) non veridicità delle autodichiarazioni, posto che tale norma prescinde, per la sua applicazione, dalla condizione soggettiva del dichiarante, attestandosi (unicamente) sul dato oggettivo della non veridicità, rispetto al quale risulta, peraltro, del tutto irrilevante il complesso delle giustificazioni addotte dal dichiarante medesimo;
   - parimenti, tale disposizione, nel contemplare la decadenza dai benefici conseguenti al provvedimento emanato sulla base delle dichiarazioni non veritiere, impedisce (ovviamente e “a fortiori”, come nel caso di specie) anche l’emanazione del provvedimento (ampliativo) di accoglimento dell’istanza tendente ad ottenere i benefici dalla P.A..
Non risulta pertinente in proposito, al fine dell’espletamento del tentativo di “interpretazione conforme”, il riferimento (si vedano le argomentazioni opposte dall’Avvocatura Generale dello Stato nel precedente giudizio di legittimità costituzionale - cfr. la menzionata sentenza della Corte Costituzionale n. 199/2019, paragrafo 4.1) a taluna giurisprudenza formatasi con riferimento ai vizi meramente formali dell’autodichiarazione (quali, ad esempio, l’omessa produzione di copia del documento di identità sottoscritto e del “curriculum” formativo/professionale con dichiarazione sostitutiva - cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 17.01.2018, n. 257, che ha sancito l’ammissibilità del soccorso istruttorio, peraltro, nel caso ivi in esame, in applicazione di apposita e specifica disposizione del bando): ciò in quanto, nella fattispecie di che trattasi, la menzionata omissione, sanzionata ai sensi del citato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, concreta un vizio -con ogni evidenza- sostanziale e non già meramente formale dell’autodichiarazione, non veritiera al riguardo.
Orbene, la predetta norma (art. 75 del D.P.R. n. 445/2000), intesa alla stregua dell’illustrato “diritto vivente”, nel suo meccanico automatismo legale (del tutto decontestualizzato dal caso specifico) e nella sua assoluta rigidità applicativa (che non conosce eccezioni), sembra al Collegio incostituzionale, per violazione dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e uguaglianza sostanziale, sanciti dall’art. 3 della Costituzione.
Ed invero, “il giudizio di ragionevolezza, lungi dal comportare il ricorso a criteri di valutazione assoluti e astrattamente prefissati, si svolge attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti. Sicché, … l’impossibilità di fissare in astratto un punto oltre il quale scelte di ordine quantitativo divengono manifestamente arbitrarie e, come tali, costituzionalmente illegittime, non può essere validamente assunta come elemento connotativo di un giudizio di merito, essendo un tratto che si riscontra … anche nei giudizi di ragionevolezza. Del resto,……, le censure di merito non comportano valutazioni strutturalmente diverse, sotto il profilo logico, dal procedimento argomentativo proprio dei giudizi valutativi implicati dal sindacato di legittimità, differenziandosene, piuttosto, per il fatto che in quest’ultimo le regole o gli interessi che debbono essere assunti come parametro del giudizio sono formalmente sanciti in norme di legge o della Costituzione” (Corte Costituzionale, 22.12.1988, n. 1130).
In conclusione:
   - per un verso, il giudizio di ragionevolezza della norma di legge deve essere necessariamente ancorato al criterio di proporzionalità, rappresentando quest’ultimo “diretta espressione del generale canone di ragionevolezza (ex art. 3 Cost.)” (Corte Costituzionale, 01.06.1995, n. 220);
   - per altro verso, la ragionevolezza va intesa come forma di razionalità pratica (tenuto conto, appunto, “delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti” - Corte Costituzionale, cit., n. 1130/1988), non riducibili alla mera (e sola) astratta razionalità sillogistico-deduttiva e logico-formale, laddove (invece) la ragione (pratica e concreta) deve essere aperta all’impatto che su di essa esplica il caso, il fatto, il dato di realtà (che diventa esperienza giuridica), solo così potendo (doverosamente) valutarsi l’adeguatezza del mezzo al fine, la ragionevolezza “intrinseca”, in uno agli (eventuali) esiti ed effetti sproporzionati e/o paradossali che possono concretamente derivare da una regola generale apparentemente ed astrattamente logica.
In tal senso, il giudizio di ragionevolezza, lungi dal limitarsi alla (sola) valutazione della singola situazione oggetto della specifica controversia da cui sorge il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, si appalesa idoneo (traendo spunto da quest’ultima) a vagliare gli effetti della Legge sull’intera realtà sociale che la Legge medesima è chiamata a regolare, anche in funzione dell’<<“esigenza di conformità dell’ordinamento a valori di giustizia e di equità” ... ed a criteri di coerenza logica, teleologica …. , che costituisce un presidio contro l’eventuale manifesta irrazionalità o iniquità delle conseguenze della stessa» (sentenza n. 87 del 2012)>> (Corte Costituzionale, sentenza 10.06.2014, n. 162).
E tanto anche confrontando i benefici che derivano dall’adozione, per dir così, “neutra” del provvedimento con i suoi “costi”, e valutando l’eventuale inadeguata penalizzazione degli altri diritti e interessi di rango costituzionale contestualmente in gioco (bilanciamento).
Orbene, l’illustrata fattispecie di “automatismo legislativo” di cui all’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, intesa alla stregua del “diritto vivente”, non sfugge, ad avviso meditato del Collegio, a forti dubbi di incostituzionalità per violazione dei principi di proporzionalità, ragionevolezza e uguaglianza sostanziale, di cui all’art. 3 della Costituzione.
Ed invero, le conseguenze decadenziali/impeditive (definitive e in alcun modo “rimediabili”) dal beneficio (peraltro, “lato sensu” sanzionatorie), legate alla non veridicità obiettiva della dichiarazione, e, “a fortiori”, l’impedimento a conseguire il beneficio medesimo, ai sensi del citato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, appaiono al Tribunale irragionevoli e incostituzionali, contrastando con il principio di proporzione, che è alla base della razionalità che, a sua volta, informa il principio di uguaglianza sostanziale, ex art. 3, comma 2 della Costituzione.
E tanto ove si considerino (innanzitutto e in via dirimente) il meccanico automatismo legale (del tutto “slegato” dalla fattispecie concreta) e l’assoluta rigidità applicativa della norma in questione, che (da un lato) impone “tout court” (senza alcun distinguo, né gradazione) la decadenza dal beneficio (o l’impedimento al conseguimento dello stesso), a prescindere dall’effettiva gravità del fatto contestato (sia per le fattispecie in cui la dichiarazione non veritiera riveste un’incidenza del tutto marginale rispetto all’interesse pubblico perseguito dalla P.A., sia per quelle nelle quali tale dichiarazione risulta in netto contrasto con tale interesse, riservando, quindi, il medesimo trattamento a situazioni di oggettiva diversa gravità), e (dall’altro) non consente di escludere nemmeno le ipotesi di non veridicità delle autodichiarazioni su aspetti di minima rilevanza concreta (come, appunto, nel caso di cui al presente giudizio), con ogni possibile (e finanche prevedibile) abnormità e sproporzione delle relative conseguenze, rispetto al reale disvalore del fatto commesso.
Sotto altro profilo, inoltre, l’assoluta rigidità applicativa dell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 appare eccessiva, in quanto non consente (parimenti irragionevolmente e inadeguatamente) di valutare l’elemento soggettivo (dolo -la c.d. coscienza e volontà di immutare il vero -ovvero colpa, grave o meno- nell’ipotesi di fatto dovuto a mera leggerezza o negligenza dell’agente) della dichiarazione (oggettivamente) non veritiera, nella naturale (e contestuale) sede del procedimento amministrativo (o anche, laddove la P.A. lo ritenga, nell’ambito del pertinente giudizio penale).
Né può ritenersi che i suddetti dubbi di costituzionalità possano essere superati facendo leva sulla “ratio” sottesa alla disposizione di che trattasi, rinvenibile, secondo il diritto “vivente” (cfr., “ex plurimis”, Consiglio di Stato, Sez. V, cit., n. 2447/2012), nel principio generale di semplificazione amministrativa (cui si accompagna l’affermazione dell’autoresponsabilità -“oggettiva”- del dichiarante, in uno -anche- all’interruzione “ex lege” del rapporto di fiducia tra P.A. e cittadino).
E’ ben vero, infatti, che l’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 debba qualificarsi quale norma generale di semplificazione amministrativa.
Tuttavia, proprio in quanto tale, la suddetta norma, se, da un lato, è sicuramente volta a rendere più efficiente ed efficace l’azione dell’Amministrazione pubblica (buon andamento, ai sensi dell’art. 97 della Costituzione), dall’altro è (altrettanto inequivocabilmente) finalizzata a garantire i diritti dei singoli costituzionalmente tutelati e di volta in volta coinvolti nel procedimento amministrativo attivato (e nell’ambito del quale sono state rese le autodichiarazioni medesime): si pensi, ad esempio, al diritto allo studio (art. 34), al diritto alla salute (art. 32), al diritto al lavoro (artt. 4 e 35), al diritto all’assistenza sociale (art. 38), al diritto di iniziativa economica privata (art. 41, come nel caso di specie).
Sicché, anche nella prospettiva del necessario bilanciamento degli interessi costituzionali coinvolti (nonché della massima espansione possibile delle relative tutele), il rigido automatismo applicativo (in uno ai correlati e definitivi effetti preclusivi e/o decadenziali, non emendabili) si rivela, in concreto, lesivo del doveroso equilibrio fra le diverse esigenze in gioco, e persino tale da pregiudicare definitivamente proprio quei diritti costituzionali del singolo alla cui migliore e più rapida realizzazione la norma di semplificazione “de qua” è, in definitiva, finalizzata.
E tanto vieppiù allorché si consideri che l’art. 40 (“Certificati”) del D.P.R. 28.12.2000, n. 445 (“Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa”), come modificato dall’art. 15, comma 1, lett. a), L. 12.11.2011, n. 183, ha disposto che “01. Le certificazioni rilasciate dalla pubblica amministrazione in ordine a stati, qualità personali e fatti sono valide e utilizzabili solo nei rapporti tra privati. Nei rapporti con gli organi della pubblica amministrazione e i gestori di pubblici servizi i certificati e gli atti di notorietà sono sempre sostituiti dalle dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47” e che <<02. Sulle certificazioni da produrre ai soggetti privati è apposta, a pena di nullità, la dicitura: “Il presente certificato non può essere prodotto agli organi della pubblica amministrazione o ai privati gestori di pubblici servizi”>>: sicché, in definitiva, essendo il privato obbligato, e non più (meramente) facultato, a presentare alle PP.AA. le “dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47”, la semplificazione “de qua” si risolve, in ultima analisi, per un verso, nella (sicura) diminuzione degli adempimenti a carico dell’Amministrazione Pubblica (a fronte dei controlli d’ufficio, “anche a campione”, ai sensi dell’art. 71 del D.P.R. n. 445/2000), e, per altro verso, nell’eccessiva (considerate le conseguenze automatiche derivanti dall’eventuale dichiarazione non veritiera, ex art. 75 del D.P.R. n. 445/2000) autoresponsabilità (“oggettiva”) del privato medesimo.
Pertanto, rispetto ad una disposizione -l’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000-, nel significato in cui essa “vive” nella (costante) applicazione giudiziale, il Collegio non può che sollevare la questione di legittimità costituzionale, tenuto conto, per quanto innanzi esposto, che la stessa appare non superabile in via interpretativa (in ragione, appunto, del “diritto vivente”) e non manifestamente infondata (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, ordinanza 30.01.2020 n. 92 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).
---------------
SENTENZA
6. - Le predette considerazioni fondano la rilevanza decisiva, nella fattispecie concreta in esame, dell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, sicché -risultando, ad avviso di questa Sezione, non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 (per le ragioni nel prosieguo illustrate)- l’intervento del Giudice delle Leggi appare assolutamente necessario nella presente controversia, non potendosi prescindere dalla definizione (necessariamente e logicamente pregiudiziale) di tale questione ai fini della decisione del presente giudizio.
Infatti, nell’ipotesi in cui il citato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 dovesse essere dichiarato incostituzionale, verrebbe meno il presupposto normativo decisivo posto, sostanzialmente (a ben vedere), a fondamento del gravato diniego; nel mentre, in caso contrario, il gravame sarebbe infondato, alla stregua delle censure formulate dalla parte ricorrente.
7. - A questo punto, osserva il Collegio che
la granitica giurisprudenza formatasi “in subiecta materia”, con riferimento (come nella fattispecie “de qua”) ai vizi “sostanziali” dell’autodichiarazione, ha osservato che il su riportato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 <<si inserisce in un contesto in cui alla dichiarazione sullo status o sul possesso di determinati requisiti è attribuita funzione probatoria, da cui il dovere del dichiarante di affermare il vero. Ne consegue che la dichiarazione “non veritiera” al di là dei profili penali, ove ricorrano i presupposti del reato di falso, nell’ambito della disciplina dettata dalla L. n. 445 del 2000, preclude al dichiarante il raggiungimento dello scopo cui era indirizzata la dichiarazione o comporta la decadenza dall’utilitas conseguita per effetto del mendacio>> (ex plurimis, Consiglio di Stato, Sezione Quinta, 09.04.2013, n. 1933).
Pertanto, <<
In tale contesto normativo, in cui la “dichiarazione falsa o non veritiera” opera come fatto, perde rilevanza l’elemento soggettivo ovvero il dolo o la colpa del dichiarante>> (Consiglio di Stato, Sezione Quinta, cit., n. 1933/2013), “poiché, se così fosse, verrebbe meno la ratio della disciplina che è volta a semplificare l’azione amministrativa, facendo leva sul principio di autoresponsabilità del dichiarante” (Consiglio di Stato, Sezione Quinta, 27.04.2012, n. 2447): sicché ogni eventuale ulteriore circostanza, “senz’altro rilevante in sede penale, in quanto ostativa alla configurazione del falso ideologico, attesa la mancanza dell’elemento soggettivo, ovvero della volontà cosciente e non coartata di compiere il fatto e della consapevolezza di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero, non assume rilievo nell’ambito della L. n. 445 del 2000, in cui il mendacio rileva quale inidoneità della dichiarazione allo scopo cui è diretto (Consiglio di Stato, Sezione Quinta, cit., n. 1933/2013).
Ai sensi della normativa statale generale di cui all’art. 75 del D.P.R. n. 445 del 2000, quindi, “
la non veridicità di quanto autodichiarato rileva sotto un profilo oggettivo e conduce alla decadenza dei benefici ottenuti con l’autodichiarazione non veritiera”; così la sent. 13.09.2016, n. 9699)” (TAR Lazio, Roma, Sezione Terza ter, 24.05.2017, n. 6207), “senza che tale disposizione lasci margine di discrezionalità alle Amministrazioni (cfr. ad es. CdS 1172/2017)” (TAR Liguria, Genova, Sezione Prima, 14.06.2017, n. 534; in termini, Consiglio di Stato, Sezione Sesta, 20.08.2019, n. 5761; Consiglio di Giustizia Amministrativa Sicilia, 09.12.2019, n. 1039; Consiglio di Stato, Sezione Quinta, 03.02.2016, n. 404; Consiglio di Stato, Sezione Quinta, 15.03.2017, n. 1172).
In definitiva,
per effetto della suddetta esegesi consolidata (tale da assurgere al rango di “diritto vivente”, sicché neppure è possibile per il Tribunale operare una c.d. “interpretazione costituzionalmente conforme”):
   - l’applicazione dell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 comporta l’automatica decadenza dal beneficio eventualmente già conseguito, non residuando, nell’applicazione della predetta norma, alcun margine di discrezionalità alle Pubbliche Amministrazioni che, in sede di controllo (d’ufficio) ex art. 71 del medesimo Testo Unico, si avvedano della (oggettiva) non veridicità delle autodichiarazioni, posto che tale norma prescinde, per la sua applicazione, dalla condizione soggettiva del dichiarante, attestandosi (unicamente) sul dato oggettivo della non veridicità, rispetto al quale risulta, peraltro, del tutto irrilevante il complesso delle giustificazioni addotte dal dichiarante medesimo;
   - parimenti, tale disposizione, nel contemplare la decadenza dai benefici conseguenti al provvedimento emanato sulla base delle dichiarazioni non veritiere, impedisce (ovviamente e “a fortiori”, come nel caso di specie) anche l’emanazione del provvedimento (ampliativo) di accoglimento dell’istanza tendente ad ottenere i benefici dalla P.A..

Non risulta pertinente in proposito, al fine dell’espletamento del tentativo di “interpretazione conforme”, il riferimento (si vedano le argomentazioni opposte dall’Avvocatura Generale dello Stato nel precedente giudizio di legittimità costituzionale - cfr. la menzionata sentenza della Corte Costituzionale n. 199/2019, paragrafo 4.1) a taluna giurisprudenza formatasi con riferimento ai vizi meramente formali dell’autodichiarazione (quali, ad esempio, l’omessa produzione di copia del documento di identità sottoscritto e del “curriculum” formativo/professionale con dichiarazione sostitutiva - cfr. Consiglio di Stato, Sezione Quinta, 17.01.2018, n. 257, che ha sancito l’ammissibilità del soccorso istruttorio, peraltro, nel caso ivi in esame, in applicazione di apposita e specifica disposizione del bando): ciò in quanto, nella fattispecie di che trattasi, la menzionata omissione, sanzionata ai sensi del citato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, concreta un vizio -con ogni evidenza- sostanziale e non già meramente formale dell’autodichiarazione, non veritiera al riguardo.
8. - Orbene,
la predetta norma (art. 75 del D.P.R. n. 445/2000), intesa alla stregua dell’illustrato “diritto vivente”, nel suo meccanico automatismo legale (del tutto decontestualizzato dal caso specifico) e nella sua assoluta rigidità applicativa (che non conosce eccezioni), sembra al Collegio incostituzionale, per violazione dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e uguaglianza sostanziale, sanciti dall’art. 3 della Costituzione.
9. - Ed invero, “
il giudizio di ragionevolezza, lungi dal comportare il ricorso a criteri di valutazione assoluti e astrattamente prefissati, si svolge attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti. Sicché, … l’impossibilità di fissare in astratto un punto oltre il quale scelte di ordine quantitativo divengono manifestamente arbitrarie e, come tali, costituzionalmente illegittime, non può essere validamente assunta come elemento connotativo di un giudizio di merito, essendo un tratto che si riscontra … anche nei giudizi di ragionevolezza. Del resto,……, le censure di merito non comportano valutazioni strutturalmente diverse, sotto il profilo logico, dal procedimento argomentativo proprio dei giudizi valutativi implicati dal sindacato di legittimità, differenziandosene, piuttosto, per il fatto che in quest’ultimo le regole o gli interessi che debbono essere assunti come parametro del giudizio sono formalmente sanciti in norme di legge o della Costituzione” (Corte Costituzionale, 22.12.1988, n. 1130).
In conclusione:
   - per un verso,
il giudizio di ragionevolezza della norma di legge deve essere necessariamente ancorato al criterio di proporzionalità, rappresentando quest’ultimo “diretta espressione del generale canone di ragionevolezza (ex art. 3 Cost.) (Corte Costituzionale, 01.06.1995, n. 220);
   - per altro verso,
la ragionevolezza va intesa come forma di razionalità pratica (tenuto conto, appunto, “delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti - Corte Costituzionale, cit., n. 1130/1988), non riducibili alla mera (e sola) astratta razionalità sillogistico-deduttiva e logico-formale, laddove (invece) la ragione (pratica e concreta) deve essere aperta all’impatto che su di essa esplica il caso, il fatto, il dato di realtà (che diventa esperienza giuridica), solo così potendo (doverosamente) valutarsi l’adeguatezza del mezzo al fine, la ragionevolezza “intrinseca”, in uno agli (eventuali) esiti ed effetti sproporzionati e/o paradossali che possono concretamente derivare da una regola generale apparentemente ed astrattamente logica.
In tal senso,
il giudizio di ragionevolezza, lungi dal limitarsi alla (sola) valutazione della singola situazione oggetto della specifica controversia da cui sorge il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, si appalesa idoneo (traendo spunto da quest’ultima) a vagliare gli effetti della Legge sull’intera realtà sociale che la Legge medesima è chiamata a regolare, anche in funzione dell’<<“esigenza di conformità dell’ordinamento a valori di giustizia e di equità” ... ed a criteri di coerenza logica, teleologica …. , che costituisce un presidio contro l’eventuale manifesta irrazionalità o iniquità delle conseguenze della stessa» (sentenza n. 87 del 2012)>> (Corte Costituzionale, sentenza 10.06.2014, n. 162).
E tanto anche confrontando i benefici che derivano dall’adozione, per dir così, “neutra” del provvedimento con i suoi “costi”, e valutando l’eventuale inadeguata penalizzazione degli altri diritti e interessi di rango costituzionale contestualmente in gioco (bilanciamento).
10. - Orbene,
l’illustrata fattispecie di “automatismo legislativo” di cui all’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, intesa alla stregua del “diritto vivente”, non sfugge, ad avviso meditato del Collegio, a forti dubbi di incostituzionalità per violazione dei principi di proporzionalità, ragionevolezza e uguaglianza sostanziale, di cui all’art. 3 della Costituzione.
10.1 - Ed invero,
le conseguenze decadenziali/impeditive (definitive e in alcun modo “rimediabili”) dal beneficio (peraltro, “lato sensu” sanzionatorie), legate alla non veridicità obiettiva della dichiarazione, e, “a fortiori”, l’impedimento a conseguire il beneficio medesimo, ai sensi del citato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, appaiono al Tribunale irragionevoli e incostituzionali, contrastando con il principio di proporzione, che è alla base della razionalità che, a sua volta, informa il principio di uguaglianza sostanziale, ex art. 3, comma 2 della Costituzione.
E tanto ove si considerino (innanzitutto e in via dirimente) il meccanico automatismo legale (del tutto “slegato” dalla fattispecie concreta) e l’assoluta rigidità applicativa della norma in questione, che (da un lato) impone “tout court” (senza alcun distinguo, né gradazione) la decadenza dal beneficio (o l’impedimento al conseguimento dello stesso), a prescindere dall’effettiva gravità del fatto contestato (sia per le fattispecie in cui la dichiarazione non veritiera riveste un’incidenza del tutto marginale rispetto all’interesse pubblico perseguito dalla P.A., sia per quelle nelle quali tale dichiarazione risulta in netto contrasto con tale interesse, riservando, quindi, il medesimo trattamento a situazioni di oggettiva diversa gravità), e (dall’altro) non consente di escludere nemmeno le ipotesi di non veridicità delle autodichiarazioni su aspetti di minima rilevanza concreta (come, appunto, nel caso di cui al presente giudizio), con ogni possibile (e finanche prevedibile) abnormità e sproporzione delle relative conseguenze, rispetto al reale disvalore del fatto commesso.
10.2 - Sotto altro profilo, inoltre, l’assoluta rigidità applicativa dell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 appare eccessiva, in quanto non consente (parimenti irragionevolmente e inadeguatamente) di valutare l’elemento soggettivo (dolo -la c.d. coscienza e volontà di immutare il vero- ovvero colpa -grave o meno- nell’ipotesi di fatto dovuto a mera leggerezza o negligenza dell’agente) della dichiarazione (oggettivamente) non veritiera, nella naturale (e contestuale) sede del procedimento amministrativo (o anche, laddove la P.A. lo ritenga, nell’ambito del pertinente giudizio penale).
10.3 - Né può ritenersi che i suddetti dubbi di costituzionalità possano essere superati facendo leva sulla “ratio” sottesa alla disposizione di che trattasi, rinvenibile, secondo il diritto “vivente” (cfr., “ex plurimis”, Consiglio di Stato, Sezione Quinta, cit., n. 2447/2012), nel principio generale di semplificazione amministrativa (cui si accompagna l’affermazione dell’autoresponsabilità - “oggettiva” - del dichiarante, in uno -anche- all’interruzione “ex lege” del rapporto di fiducia tra P.A. e cittadino).
E’ ben vero, infatti, che l’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 debba qualificarsi quale norma generale di semplificazione amministrativa.
Tuttavia, proprio in quanto tale, la suddetta norma, se, da un lato, è sicuramente volta a rendere più efficiente ed efficace l’azione dell’Amministrazione pubblica (buon andamento, ai sensi dell’art. 97 della Costituzione), dall’altro è (altrettanto inequivocabilmente) finalizzata a garantire i diritti dei singoli costituzionalmente tutelati e di volta in volta coinvolti nel procedimento amministrativo attivato (e nell’ambito del quale sono state rese le autodichiarazioni medesime): si pensi, ad esempio, al diritto allo studio (art. 34), al diritto alla salute (art. 32), al diritto al lavoro (artt. 4 e 35), al diritto all’assistenza sociale (art. 38), al diritto di iniziativa economica privata (art. 41, come nel caso di specie).
Sicché, anche nella prospettiva del necessario bilanciamento degli interessi costituzionali coinvolti (nonché della massima espansione possibile delle relative tutele), il rigido automatismo applicativo (in uno ai correlati e definitivi effetti preclusivi e/o decadenziali, non emendabili) si rivela, in concreto, lesivo del doveroso equilibrio fra le diverse esigenze in gioco, e persino tale da pregiudicare definitivamente proprio quei diritti costituzionali del singolo alla cui migliore e più rapida realizzazione la norma di semplificazione “de qua” è, in definitiva, finalizzata.
E tanto vieppiù allorché si consideri che l’art. 40 (“Certificati”) del D.P.R. 28.12.2000, n. 445 (“Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa”), come modificato dall’art. 15, comma 1, lett. a), L. 12.11.2011, n. 183, ha disposto che “01. Le certificazioni rilasciate dalla pubblica amministrazione in ordine a stati, qualità personali e fatti sono valide e utilizzabili solo nei rapporti tra privati. Nei rapporti con gli organi della pubblica amministrazione e i gestori di pubblici servizi i certificati e gli atti di notorietà sono sempre sostituiti dalle dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47” e che <<02. Sulle certificazioni da produrre ai soggetti privati è apposta, a pena di nullità, la dicitura: “Il presente certificato non può essere prodotto agli organi della pubblica amministrazione o ai privati gestori di pubblici servizi”>>: sicché, in definitiva, essendo il privato obbligato, e non più (meramente) facultato, a presentare alle PP.AA. le “dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47”, la semplificazione “de qua” si risolve, in ultima analisi, per un verso, nella (sicura) diminuzione degli adempimenti a carico dell’Amministrazione Pubblica (a fronte dei controlli d’ufficio, “anche a campione”, ai sensi dell’art. 71 del D.P.R. n. 445/2000), e, per altro verso, nell’eccessiva (considerate le conseguenze automatiche derivanti dall’eventuale dichiarazione non veritiera, ex art. 75 del D.P.R. n. 445/2000) autoresponsabilità (“oggettiva”) del privato medesimo.
11. - Pertanto, rispetto ad una disposizione -l’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000-, nel significato in cui essa “vive” nella (costante) applicazione giudiziale, il Collegio non può che sollevare la questione di legittimità costituzionale, tenuto conto, per quanto innanzi esposto, che la stessa appare non superabile in via interpretativa (in ragione, appunto, del “diritto vivente”) e non manifestamente infondata.
12. -
Il Collegio, in conclusione, ritiene che la questione di legittimità costituzionale, per contrasto con i principi di ragionevolezza, proporzionalità e uguaglianza di cui all’art. 3, comma 2 della Costituzione, dell’art. 75 del D.P.R. 28.12.2000, n. 445, sia rilevante (sussistendo, appunto, il nesso di assoluta pregiudizialità tra la soluzione della prospettata questione di legittimità costituzionale e la decisione del presente giudizio) e non manifestamente infondata, e debba, conseguentemente, essere rimessa all’esame della Corte Costituzionale, mentre il giudizio in corso deve essere sospeso fino alla decisione della Consulta.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Terza, pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe,
sospende il giudizio e solleva questione di legittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3, comma 2, della Costituzione, nei sensi e termini di cui in motivazione, dell’art. 75 del D.P.R. 28.12.2000, n. 445.
Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.
Ordina che, a cura della Segreteria, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa, nonché al Presidente del Consiglio dei Ministri, e comunicata ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.

EDILIZIA PRIVATA: Direttore dei lavori presenza/assenza sul cantiere – Onere di vigilare sull’esecuzione delle opere – Responsabilità penale – Sussiste – Assenza dal cantiere – Irrilevanza – Artt. 3, 10 44, D.P.R. n. 380/2001 – Giurisprudenza – Fattispecie.
Il direttore dei lavori è responsabile a titolo di colpa del crollo di costruzioni anche nell’ipotesi di sua assenza dal cantiere, dovendo egli esercitare un’oculata attività di vigilanza sulla regolare esecuzione delle opere edilizie ed in caso di necessità adottare le necessarie precauzioni d’ordine tecnico, ovvero scindere immediatamente la propria posizione di garanzia da quella dell’assuntore dei lavori, rinunciando all’incarico ricevuto (fattispecie: contratto di appalto dei lavori di consolidamento e di restauro).
...
Disastro colposo, per “costruzione” – Identificazione del reato – Distinzione tra violazione dell’art. 434 e dell’art. 676 cod. pen. – Differenza tra crollo colposo e rovina di edifici – Pericolo per un numero indeterminato di persone.
Nel delitto di crollo colposo si richiede che il crollo assuma la fisionomia del disastro, cioè di un avvenimento di tale gravità da porre in concreto pericolo la vita delle persone, indeterminatamente considerate, in conseguenza della diffusività degli effetti dannosi nello spazio circostante; invece, per la sussistenza della contravvenzione di rovina di edifici non è necessaria una tale diffusività e non si richiede che dal crollo derivi un pericolo per un numero indeterminato di persone.
Pertanto, per disastro colposo, per “costruzione” di cui all’art. 434 cod. pen. si intende qualsiasi manufatto tridimensionale, anche diverso da un edificio, che comporti una ben definita occupazione del terreno e dello spazio aereo e che, per la sua natura e per le ripercussioni che la norma di cui all’art. 434 cod. pen. assegna alla sua caduta, sia atto a determinare conseguenze tali da minacciare la vita o l’incolumità fisica di una cerchia indeterminata di persone (in applicazione di tale principio è stato escluso che il crollo di un di un palo della luce possa integrare il delitto previsto dagli artt. 434 e 449 cod. pen.).
Invece, per la sussistenza della contravvenzione di rovina di edifici non è necessaria, una diffusività degli effetti dannosi nello spazio circostante e non si richiede che dal crollo derivi un pericolo per un numero indeterminato di persone
(Corte di Cassazione, Sez. IV, sentenza 29.01.2020 n. 3727 - link a www.ambientediritto.it).

INCARICHI PROGETTUALIAl progettista nonché direttore dei lavori, è stato contestato di avere falsamente attestato, nella dichiarazione allegata alla richiesta di agibilità, la conformità di opere edili di manutenzione straordinaria al progetto e alle successive varianti, l'avvenuta asciugatura dei muri e la salubrità degli ambienti.
Si tratta di condotta certamente qualificabile ai sensi dell'art. 481 cod. pen., in quanto tale attestazione, provenendo da soggetto qualificato, ha la funzione di fornire un'esatta informazione alla pubblica amministrazione (circa la conformità al progetto di quanto realizzato e la salubrità dei luoghi), pur non trattandosi di un'attestazione obbligatoriamente prevista dal procedimento amministrativo di riferimento, essendo comunque destinata a provare la verità di quanto in essa rappresentato, cosicché essa risulta destinata a svolgere la funzione certificativa (dello stato dei luoghi e della loro salubrità) richiesta dalla norma incriminatrice, con la conseguente correttezza della affermazione della configurabilità del delitto di falsità ideologica in certificato di cui all'art. 481 cod. pen..
---------------

1. Con sentenza del 06.03.2019 la Corte d'appello di Trieste, provvedendo sulla impugnazione proposta dall'imputato nei confronti della sentenza del 27.05.2016 del Tribunale di Udine, con cui Gi.Po. era stato condannato alla pena di 300,00 euro di multa in relazione al reato di cui agli artt. 481 cod. pen., 76 d.P.R. 445/2000, 23 e 29 d.P.R. 380/2001 (ascrittogli per avere, quale progettista e direttore dei lavori, attestato, contrariamente al vero, la conformità di opere edilizie al progetto approvato e alle successive varianti), ha ridotto la pena a 200,00 euro di multa, ha revocato il beneficio della sospensione condizionale della pena e riconosciuto quello della non menzione della condanna, confermando nel resto la sentenza impugnata.
2. Avverso tale sentenza l'imputato ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi.
2.1. Con un primo motivo ha lamentato, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l'errata applicazione dell'art. 481 cod. pen., sulla base del rilievo che la attestazione sottoscritta dal ricorrente, di cui era stata contestata la falsità, non poteva essere qualificata come certificato, con la conseguente erronea affermazione della configurabilità del delitto di cui all'art. 481 cod. pen.
...
2. Il primo motivo, mediante il quale è stata denunciata l'errata applicazione dell'art. 481 cod. pen., a causa della affermazione della qualificabilità come certificato della attestazione sottoscritta dal ricorrente, non è fondato.
Va premesso che al ricorrente è stato contestato di avere, quale progettista e direttore dei lavori, falsamente attestato, nella dichiarazione allegata alla richiesta di agibilità, la conformità di opere edili di manutenzione straordinaria al progetto e alle successive varianti, l'avvenuta asciugatura dei muri e la salubrità degli ambienti: si tratta di condotta certamente qualificabile ai sensi dell'art. 481 cod. pen., in quanto tale attestazione, provenendo da soggetto qualificato, ha la funzione di fornire un'esatta informazione alla pubblica amministrazione (circa la conformità al progetto di quanto realizzato e la salubrità dei luoghi), pur non trattandosi di un'attestazione obbligatoriamente prevista dal procedimento amministrativo di riferimento, essendo comunque destinata a provare la verità di quanto in essa rappresentato (v. Sez. F, n. 39699 del 02/08/2018, Orlando, Rv. 273811; Sez. 3, n. 15228 del 31/01/2017, Cucino, Rv. 269579; Sez. 5, n. 39513 del 11/05/2012, Brentel, Rv. 253733), cosicché essa risulta destinata a svolgere la funzione certificativa (dello stato dei luoghi e della loro salubrità) richiesta dalla norma incriminatrice, con la conseguente correttezza della affermazione della configurabilità del delitto di falsità ideologica in certificato di cui all'art. 481 cod. pen. e l'insussistenza della violazione di tale disposizione lamentata dal ricorrente (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.01.2020 n. 3461).

ESPROPRIAZIONELa cessione volontaria di beni immobili rientra nel genus dei cd. contratti ad oggetto pubblico.
---------------
Espropriazione per pubblica utilità – Cessione volontaria – Individuazione.
La cessione volontaria di beni immobili rientra nel più ampio genus dei cd. contratti ad oggetto pubblico, che si diversifica dai normali contratti di compravendita di diritto privato per una serie di imprescindibili elementi costitutivi, che vanno individuati nell’inserimento del negozio nell’ambito di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità, nel cui contesto la cessione assolve alla peculiare funzione dell’acquisizione del bene da parte dell’espropriante, quale strumento alternativo all’ablazione d’autorità mediante decreto di esproprio; nella preesistenza non solo di una dichiarazione di pubblica utilità ancora efficace, ma anche di un subprocedimento di determinazione dell’indennità e delle relative offerte ed accettazione, con la sequenza e le modalità previste dall’art. 12, l. n. 865 del 1971; nel prezzo di trasferimento volontario correlato ai parametri di legge stabiliti, inderogabilmente, per la determinazione dell’indennità di espropriazione (1).
---------------
   (1) Ha chiarito la Sezione che la peculiarità di tale tipologia di accordo ha comportato oscillazioni giurisprudenziali rivenienti dall’accentuato valore solo civilistico degli stessi (Cass., SS.UU. 06.12.2010, n. 24687), ovvero, al contrario, sull’enfatizzato rilievo attribuito al potere autoritativo comunque sotteso alla relativa stipula, con conseguente assegnazione al giudice amministrativo della giurisdizione esclusiva anche per le controversie che attengono alla loro esecuzione (Cons. St. sez. V, 20.08.2013, n. 4179).
Il Giudice delle leggi (Corte cost. nn. 204 del 2004 e 191 del 2006), ha chiarito che l'utilizzo dello strumento degli accordi presuppone l'esistenza in capo alla p.a. di un potere autoritativo: l'accordo sostituisce l'atto unilaterale, ma non può essere utilizzato se non in sostituzione di un provvedimento espressione di potere autoritativo.
Traendo spunto dalle coordinate offerte dalla Consulta in sede di valutazione della costituzionalità dell'art. 53, d.P.R. n. 327 del 2001, si è dunque affermato che, attratta la cessione volontaria sotto il più duttile ombrello dell’accordo sostitutivo o integrativo di provvedimento, sia pure nei limiti della tipicità dei provvedimenti autoritativi che va a sostituire, le controversie relative alla sua esecuzione, diverse da quelle in tema di indennità, devono essere conosciute dal giudice amministrativo (Cons. St., sez. VI. 14.09.2005, n. 4735).
L’inserimento della cessione nell’ambito di un accordo integrativo o sostitutivo di provvedimento ex art. 11, l. n. 241 del 1990 non si palesa dunque neutra rispetto all’individuazione del giudice chiamato a decidere le relative controversie, con ciò dequotando l’accordo a vuoto simulacro formale.
Gli accordi sostitutivi di provvedimento, disciplinati a livello generale nell’art. 11 della l. n. 241 del 1990, costituiscono la formale consacrazione della legittimazione negoziale delle pubbliche amministrazioni. Trattasi di un istituto che attinge egualmente alla natura di patto o convenzione, ma anche di fonte di situazioni giuridiche patrimoniali diverse dalle obbligazioni civilistiche, che non esaurisce, come ha evidenziato la dottrina più accorta, il previgente modello del contratto ad oggetto pubblico, proprio in ragione della molteplicità di funzioni cui può assolvere.
Esso si connota per la sostanziale equivalenza o sovrapponibilità fra funzione economico sociale e cura dell’interesse pubblico e “sostituisce” il provvedimento anche in senso finalistico, consentendo cioè attraverso il modulo della negoziazione di ottenere un risultato più conveniente di quello ottenibile con il primo da parte dell’amministrazione.
La previsione, all’interno della disciplina del procedimento amministrativo, di un istituto generale quale l’accordo integrativo o sostitutivo di provvedimento, quest’ultimo originariamente circoscritto ai soli casi previsti dalla legge (v. la novella apportata con la l. 11.02.2005, n. 15, che ha eliminato il relativo inciso dalla norma), ha definitivamente sancito la legittimazione negoziale delle pubbliche amministrazioni.
L’istituto, tuttavia, in quanto nel contempo patto o convenzione, ma anche fonte di situazioni giuridiche patrimoniali diverse dalle obbligazioni civilistiche, non esaurisce, come ha evidenziato la dottrina più accorta, il previgente modello del contratto ad oggetto pubblico, proprio in ragione della molteplicità di funzioni cui può assolvere, pur connotandosi per la sostanziale equivalenza o sovrapponibilità fra funzione economico sociale e cura dell’interesse pubblico.
L’accordo, dunque, “sostituisce” il provvedimento anche in senso finalistico, consentendo cioè attraverso il modulo della negoziazione di ottenere un risultato più conveniente di quello ottenibile con il primo da parte dell’amministrazione. Laddove, cioè, il responsabile del procedimento valuti che esso costituisce lo strumento più idoneo per la composizione degli interessi coinvolti nell’azione amministrativa, può addivenire alla stipula di un contratto cui l’ordinamento giuridico ricollega determinati effetti, ciascuno dei quali a sua volta conseguibile anche con provvedimenti.
La significatività dell’istituto sta pertanto proprio nel suo mutuare aspetti necessariamente civilistici mischiandoli a contenuti tipicamente autoritativi, con ciò realizzando un’efficace sintesi -rectius, la miglior sintesi possibile, secondo la valutazione del soggetto pubblico agente- tra l’interesse pubblico sotteso all’intervento, complessivamente inteso, e il necessario incontro tra le volontà, quale metodologia per il suo perseguimento (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 28.01.2020 n. 705 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
---------------
SENTENZA
4. La cessione volontaria dell’immobile oggetto di procedura di esproprio all’epoca dei fatti di cui è causa risultava ancora regolamentata dall’art. 12 della l. 22.10.1971, n. 865. La norma, infatti, è stata formalmente abrogata dall’art. 58 del d. P.R. n. 327/2001, entrato in vigore tuttavia solo il 30.06.2003, giusta le reiterate proroghe di efficacia intervenute al riguardo, da ultimo con il d.lgs. 27.12.2002, n. 302. Inconferente appare pertanto il richiamo, da parte della difesa della società appellata, ai fini dell’individuazione del giudice competente, al combinato disposto degli artt. 45 e 53, comma 2 (che comunque, utilizzando la clausola «Resta fermo», ha carattere meramente ricognitivo dell’assetto preesistente) del medesimo Testo unico.
L’istituto può essere ricondotto al genus dei cd. contratti ad oggetto pubblico, che si diversifica dai normali contratti di compravendita di diritto privato per una serie di imprescindibili elementi costitutivi che la giurisprudenza ha individuato:
   - nell’inserimento del negozio nell’ambito di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità, nel cui contesto la cessione assolve alla peculiare funzione dell’acquisizione del bene da parte dell’espropriante, quale strumento alternativo all’ablazione d’autorità mediante decreto di esproprio;
   - nella preesistenza non solo di una dichiarazione di pubblica utilità ancora efficace, ma anche di un subprocedimento di determinazione dell’indennità e delle relative offerte ed accettazione, con la sequenza e le modalità previste dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971;
   - nel prezzo di trasferimento volontario correlato ai parametri di legge stabiliti, inderogabilmente, per la determinazione dell’indennità di espropriazione.
Ove non siano riscontrabili tutti i ridetti requisiti, non potendosi astrattamente escludere che l’amministrazione abbia inteso perseguire una finalità di pubblico interesse tramite un ordinario contratto di compravendita, al negozio traslativo non possono collegarsi gli effetti tipici della cessione volontaria disciplinata dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971, ossia l’estinzione dei diritti reali o personali gravanti sul bene acquisito dall’amministrazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.10.2019, n. 7445; id., 27.07.2016, n. 3391; Cass. 22.01.2018, n. 1534; id., 22.05.2009, n. 11955).
4.1. Presupposto necessario, ma non sufficiente, dunque, perché si possa configurare la cessione volontaria, e perché si possano produrre i suoi effetti tipici, è il collegamento tra il rapporto contrattuale ed il procedimento amministrativo di espropriazione per pubblica utilità che vi ha dato origine, il quale funge da essenziale momento genetico e fondamentale presupposto del trasferimento immobiliare. Senza l’apertura di una formale procedura espropriativa non può esserci spazio per la cessione volontaria, e ciò per la semplice ragione che essa non potrebbe in tale caso espletare la sua funzione tipica di strumento di acquisizione della proprietà immobiliare in capo all’amministrazione espropriante alternativo rispetto al provvedimento amministrativo autoritativo costituito dal decreto di esproprio (cfr. Cass. 29.03.2007, n. 7779).
La causa del contratto pubblicistico di cessione va quindi ricondotta a tale modalità alternativa di realizzazione del procedimento espropriativo mediante l’utilizzo di uno strumento privatistico, peraltro soggetto per taluni aspetti -tra cui la determinazione del prezzo di cessione- alla disciplina contenuta in norme di legge imperative (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 07.04.2015, n. 1768; id. 03.03.2015, n. 1035; Cass., SS.UU. 13.02.2007, n. 3040, quest’ultima richiamata anche dal giudice di prime cure).
5. Ora, nel caso di specie, senza neppure entrare nella concreta indagine dei contenuti dell’accordo di cui è causa, il giudice di prime cure, attraverso il semplice richiamo all’art. 12 della l. n. 865/1971 ne ha operato la qualificazione giuridica, depauperando di qualsivoglia significato aggiuntivo o interpretativo il riferimento all’accordo di cui all’art. 11 della l. n. 241/1990.
5.1. Il Collegio non ignora al riguardo che nell’ambito della giurisprudenza della Corte di Cassazione si sia talora affermato il carattere esclusivamente civilistico degli accordi in questione, considerati in quanto tali ontologicamente incompatibili col paradigma generale di cui all’art. 11 della l. n. 241/1990, necessariamente pubblicistico (cfr. al riguardo Cass., SS.UU. 06.12.2010, n. 24687).
La cessione volontaria degli immobili assoggettati ad espropriazione quale modo tipico di chiusura del relativo procedimento in forza di una relazione legale e predeterminata di alternatività, non di mera sostituzione, rispetto al decreto ablatorio, si caratterizzerebbe per una discrezionalità limitata all’an, laddove gli accordi ex art. 11 della l. n. 241/1990 si connotano per la sussistenza della stessa anche nel quomodo.
Orientamento peraltro presente anche nella giurisprudenza amministrativa, che tuttavia finisce poi per enfatizzare l’aspetto contenutistico del pagamento del corrispettivo quale elemento tipico dell’accordo, tale da orientare ex se l’attribuzione della controversia al giudice ordinario giusta la previsione in tal senso dell’art. 133, comma 1, lett. g) c.p.a. (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. IV, 03.03.2015, n. 1035).
Il che corrisponde esattamente al percorso ermeneutico seguito dal giudice di prime cure, che fa seguire all’inquadramento dello schema contrattuale utilizzato come cessione volontaria del bene l’affermazione della giurisdizione del giudice civile; salvo poi precisare che ciò avverrebbe non tanto (o non solo) in ragione della stessa, quanto più propriamente per -e limitatamente al- il suo contenuto indennitario.
5.2. La complessità dogmatica della questione trova altresì riscontro negli opposti orientamenti che hanno diversamente qualificato la cessione volontaria o semplicemente facendo leva sul carattere autoritativo del potere di esproprio che comunque si va a sostituire; ovvero, in maniera più articolata, facendo leva sugli ulteriori possibili effetti che anche tale tipologia di contratto può conseguire, avuto riguardo al suo concreto atteggiarsi nel contesto locale nel quale è destinato ad incidere.
Il rapporto con il più generale paradigma dell’accordo sostitutivo è stato a seconda dei casi attinto o meno, facendo leva sulle prerogative dell’uno per ascriverle all’altro, attraendolo nel relativo quadro definitorio e regolatorio, e viceversa (cfr. ancora Cass., SS.UU. 06.12.2010, n. 24687, ove si invoca il combinato disposto dei commi 1 e 5 dell’art. 11 della l. n. 241/1990 per ribadire la giurisdizione del giudice amministrativo).
Nella prima direzione, si è dunque genericamente affermato che la cessione volontaria del bene, in quanto sostitutiva del decreto di espropriazione di cui produce i medesimi effetti, non perde la connotazione di atto autoritativo, implicando, più semplicemente, la confluenza in un unico testo del provvedimento e del negozio e senza che la presenza del secondo snaturi l'attività dell'Amministrazione (ex multis Cons. Stato, sez. V, 20.08.2013, n. 4179; sez. VI; 14.09.2005, n. 4735); da ciò la sua riconducibilità sub art. 11, l. 07.08.1990 n. 241, avuto riguardo all'ampia duttilità che la caratterizza, sia pure nei limiti della tipicità dei provvedimenti autoritativi che va a sostituire.
Nella seconda, particolarmente significativa si rivela la casistica delle cessioni volontarie che in qualche modo implicano anche riferimenti alla destinazione urbanistica delle aree interessate, direttamente o indirettamente, dall’esproprio. Atteso, infatti, che la convenzione stipulata, ad esempio, «nel corso di una procedura espropriativa, con cui l'espropriato cede al Comune l'area necessaria per la realizzazione dell'opera pubblica ed il Comune si obbliga a trasferire al privato la proprietà di altra area da destinare a parcheggio, viene conclusa in funzione della programmata espropriazione in corso e, quindi, dell'attuazione della relativa attività di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, così realizzando l'individuazione convenzionale del contenuto di uno o più provvedimenti che l'amministrazione avrebbe dovuto emettere a conclusione del procedimento in atto, nel caso di mancata esecuzione dell'accordo, la relativa controversia rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, sia perché la convenzione rientra tra quelle di cui all'art. 11 della legge n. 241 del 1990 sia perché la stessa attiene alla materia urbanistica ai sensi dell'art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998, come modificato dalla legge n. 205 del 2000, senza che abbia incidenza la parziale illegittimità costituzionale (sent. n. 204 del 2004), giacché nella specie l'uso del territorio consegue ad atti della P.A. e non a meri comportamenti» (v. Cass., 30.01.2008, n. 2029).
5.3. Il Giudice delle leggi (Corte Cost., nn. 204/2004 e 191/2006), ha chiarito che l'utilizzo dello strumento degli accordi presuppone l'esistenza in capo alla p.a. di un potere autoritativo: l'accordo sostituisce l'atto unilaterale, ma non può essere utilizzato se non in sostituzione di un provvedimento espressione di potere autoritativo. Da qui l'impossibilità di ricondurre sic et simpliciter l'accordo allo schema del contratto di diritto privato e la conseguente giustificazione dell'assegnazione al giudice amministrativo della giurisdizione esclusiva anche per quelle controversie che attengono alla sua esecuzione.
Traendo spunto, cioè, dalle coordinate offerte dalla Consulta in sede di valutazione della costituzionalità dell'art. 53 del d.P.R. n. 327/2001, si è dunque affermato che: «La dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 53 comma 1, del d.lgs. 08.06.2001, n. 325, trasfuso nell'art. 53, comma 1, del d.P.R. 08.06.2001, n. 327, ad opera della sentenza n. 191 del 2006 della Corte costituzionale, riguarda soltanto la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie relative ai comportamenti delle pubbliche amministrazioni, conseguenti all'applicazione delle disposizioni del testo unico, non riconducibili, nemmeno mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere e, dunque, tenuti in carenza di potere od in via di mero fatto; conseguentemente appartengono alla giurisdizione del giudice amministrativo quelle controversie in tema di risarcimento del danno derivante da provvedimenti che, benché impugnati per illegittimità od illiceità, sono comunque riconducibili ai poteri ablatori riconosciuti alla P.A. dagli artt. 43 e 44 del T.U. n. 327 e dall'art. 3» (Cass., SS.UU.,Ord. 22.12.2011, n. 28343; Cons. Stato, sez. V, 20.08.2013, n. 4179).
In definitiva, come pure questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di chiarire, attraendo la cessione volontaria sotto il più duttile ombrello dell’accordo sostitutivo o integrativo di provvedimento, sia pure nei limiti della tipicità dei provvedimenti autoritativi che va a sostituire, in ragione del riconosciuto mantenimento della sua connotazione di atto autoritativo, caratterizzato semplicemente dalla confluenza in un unico testo di provvedimento e negozio, si è comunque potuto affermare che le controversie relative alla sua esecuzione, diverse da quelle in tema di indennità, devono essere conosciute dal giudice amministrativo (Cons. St., Sez. VI; 14.09.2005, n. 4735),
6. La previsione, all’interno della disciplina del procedimento amministrativo, di un istituto generale quale l’accordo integrativo o sostitutivo di provvedimento, quest’ultimo originariamente circoscritto ai soli casi previsti dalla legge (v. la novella apportata con la l. 11.02.2005, n. 15, che ha eliminato il relativo inciso dalla norma), ha definitivamente sancito la legittimazione negoziale delle pubbliche amministrazioni.
L’istituto, tuttavia, in quanto nel contempo patto o convenzione, ma anche fonte di situazioni giuridiche patrimoniali diverse dalle obbligazioni civilistiche, non esaurisce, come ha evidenziato la dottrina più accorta, il previgente modello del contratto ad oggetto pubblico, proprio in ragione della molteplicità di funzioni cui può assolvere, pur connotandosi per la sostanziale equivalenza o sovrapponibilità fra funzione economico sociale e cura dell’interesse pubblico.
L’accordo, dunque, “sostituisce” il provvedimento anche in senso finalistico, consentendo cioè attraverso il modulo della negoziazione di ottenere un risultato più conveniente di quello ottenibile con il primo da parte dell’amministrazione. Laddove, cioè, il responsabile del procedimento valuti che esso costituisce lo strumento più idoneo per la composizione degli interessi coinvolti nell’azione amministrativa, può addivenire alla stipula di un contratto cui l’ordinamento giuridico ricollega determinati effetti, ciascuno dei quali a sua volta conseguibile anche con provvedimenti.
La significatività dell’istituto sta pertanto proprio nel suo mutuare aspetti necessariamente civilistici mischiandoli a contenuti tipicamente autoritativi, con ciò realizzando un’efficace sintesi -rectius, la miglior sintesi possibile, secondo la valutazione del soggetto pubblico agente- tra l’interesse pubblico sotteso all’intervento, complessivamente inteso, e il necessario incontro tra le volontà, quale metodologia per il suo perseguimento.
6.1. La natura complessa dell’accordo sostitutivo di provvedimento, pertanto, non ne consente la dequotazione a vuoto simulacro formale, così come di fatto affermato dal giudice di prime cure, che ne ritiene del tutto neutro l’utilizzo ai fini dell’individuazione del riparto di giurisdizione: ciò peraltro non contestando il mero ricorso al nomen iuris, senza rilevata corrispondenza sostanziale con il modello evocato; bensì semplicemente in ragione della sua incapacità di incidere sulla qualificazione civilistica della cessione di immobili.
6.2. Rileva al contrario la Sezione che proprio il fervore del dibattito dottrinario e giurisprudenziale insorto sulla tematica evidenzia la necessità di non risolvere la questione sul piano delle mere astrazioni dogmatiche, dovendo la categoria concettuale generale del contratto ad oggetto pubblico essere ulteriormente vagliata e scrutinata in concreto onde valutare l’atteggiarsi del modello utilizzato, pur se normativamente già previsto, in un senso piuttosto che nell’altro.
E’ dunque rimessa al giudice, a fronte di una fattispecie consensuale pubblica, una precisa operazione ermeneutica che non può prescindere dalla disamina della fase formativa dell’accordo, della sua struttura e dei suoi effetti, senza partire da categorizzazioni preconcette: solo all’esito di tale specifica analisi, è infatti possibile non tanto e non solo l’inquadramento concettuale della singola fattispecie, ma anche e soprattutto l’individuazione degli strumenti rimediali alla stessa applicabili.
7. Da tutto quanto sopra, rileva la Sezione, emerge che la linea di demarcazione stabilita dall’art. 133, comma 1, lettera g), per separare la giurisdizione del giudice amministrativo da quella del giudice ordinario, in necessario combinato disposto con le indicazioni rivenienti anche dalla lett. a), n. 2) della medesima norma, non possa essere fatta cadere sulla sola affermazione della natura giuridica degli atti adottati astrattamente intesa, ma debba essere riguardata dall’ottica del collegamento eziologico che gli stessi, pur intercorsi pattiziamente tra le parti, hanno con l’esercizio del potere pubblico, in primo luogo di esproprio e, soprattutto, analizzandone nello specifico gli effetti.
8. Quale che sia la cornice definitoria nella quale si colloca l’accordo, tuttavia, certo è che fuoriescono dalla stessa le questioni “solo” indennitarie, in quanto rientranti ratione materiae nella giurisdizione del giudice ordinario.
8.1. Costituisce infatti ius receptum, dalle cui conclusioni non è ragione di discostarsi, che qualsiasi domanda attinente alla determinazione o al pagamento della indennità di esproprio rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, perfino se proposta dall’amministrazione per recuperare quella indebitamente versata ad un privato ovvero connessa a quella risarcitoria da perdita del terreno spettante al giudice amministrativo (cfr. ex multis, Cass. civ., SS.UU., 19.02.2019, n. 4880).
Quanto detto è stato riconosciuto finanche ove coesistano contestazioni che investono sia la legittimità del decreto ex art. 42-bis del Testo unico sull’espropriazione, sia la quantificazione dell'indennizzo: invero, salvo eccezioni normative espresse, vige nell'ordinamento processuale il principio generale dell'inderogabilità della giurisdizione per motivi di connessione, potendosi risolvere i problemi di coordinamento posti dalla concomitante operatività della giurisdizione ordinaria e di quella amministrativa su rapporti diversi, ma interdipendenti, secondo le regole della sospensione del procedimento pregiudicato (Cons. Stato, sez. IV, 01.03.2017, n. 941; id., 12.05.2016, n. 1910, che si sono poste sulla scia di Cass., SS.UU., ord. 19.04.2013, n. 9534).

EDILIZIA PRIVATA: Distinzione tra tettoie e meri pergolati.
In ordine alla distinzione tra tettoie e meri pergolati, secondo la giurisprudenza, il pergolato è una struttura realizzata al fine di adornare e ombreggiare giardini o terrazze, costituita da un'impalcatura formata da montanti verticali ed elementi orizzontali che li connettono ad una altezza tale da consentire il passaggio delle persone.
Di contro, il pergolato stesso, quando sia coperto superiormente, anche in parte, con una struttura non facilmente amovibile, diventa una tettoia, ed è soggetto alla disciplina relativa, e, in particolare, deve ritenersi intervento “senz’altro asservito a permesso di costruire”
.

---------------
MASSIMA
8. Entrando in medias res, il Collegio ritiene privo di fondamento il primo motivo di ricorso.
8.1. Dalla documentazione fotografica versata in atti risulta con evidenza come le tre strutture costituiscano delle tettoie e non dei meri pergolati, come sostenuto da parte ricorrente.
Difatti, anche secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato,
il pergolato è “una struttura realizzata al fine di adornare e ombreggiare giardini o terrazze, costituita da un'impalcatura formata da montanti verticali ed elementi orizzontali che li connettono ad una altezza tale da consentire il passaggio delle persone (Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.08.2018, n. 5008; cfr., inoltre, Consiglio di Stato, Sez. VI, 07.05.2018, n. 2701; Id., Sez. VI, 25.01.2017, n. 306).
Di contro, il pergolato stesso, quando sia coperto superiormente, anche in parte, con una struttura non facilmente amovibile, diventa una tettoia, ed è soggetto alla disciplina relativa”, e, in particolare, deve ritenersi intervento “senz’altro asservito a permesso di costruire (cfr., ancora, Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.08.2018, n. 5008).
8.2. Nel caso di specie, si tratta di tettoie munite di coperture non agevolmente amovibili come dimostra la già richiamata copiosa documentazione fotografica depositata dall’Amministrazione comunale.
8.3. Inoltre, come evidenziato dalla Sezione nell’ordinanza n. 322/2019, la previsione di cui all’articolo 3, comma 1, lettera e.5), del d.P.R. n. 380 del 2001 considera interventi di nuova costruzionel'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee o siano ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore”.
La successiva previsione di cui all’articolo 6, comma 1, lettera e-bis), del medesimo articolato normativo inserisce nella c.d. edilizia libera le sole “opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni, previa comunicazione di avvio lavori all'amministrazione comunale”.
8.4. La maquillage normativa apportata dal legislatore con il d.lgs. 25.11.2016, n. 222 non innova le elaborazioni fornite dalla giurisprudenza amministrativa nella vigenza delle precedenti edizioni del disposto legale.
In particolare, si afferma che “
in ordine ai requisiti che deve avere un'opera edilizia per essere considerata precaria, possono essere ipotizzati in astratto due criteri discretivi: 1) criterio strutturale, in virtù del quale è precario ciò che non è stabilmente infisso al suolo; 2) il criterio funzionale, in virtù del quale è precario ciò che è destinato a soddisfare un'esigenza temporanea. La giurisprudenza è concorde nel senso che per individuare la natura precaria di un'opera si debba seguire non il criterio strutturale, ma il criterio funzionale, per cui un'opera può anche non essere stabilmente infissa al suolo, ma se essa presenta la caratteristica di essere realizzata per soddisfare esigenze non temporanee, non può beneficiare del regime delle opere precarie” (Consiglio di Stato, Sez. V, 27.03.2013, n. 1776).
E’, pertanto, necessario un titolo edilizio –secondo la sentenza ora richiamata– per la realizzazione di “tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e non meramente occasionale, [...] ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato”.
Ne consegue che “la natura “precaria” di un manufatto, non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi all'intrinseca destinazione materiale di essa a un uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, non essendo sufficiente che si tratti eventualmente di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo”.
Nello stesso senso, viene chiarito che “
la precarietà dell’opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera e.5), D.P.R. n. 380 del 2001, postula infatti un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di esigenze (non eccezionali e contingenti, ma) permanenti nel tempo. Non possono, infatti, essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a un'utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante (in tal senso: Consiglio di Stato, VI, 03.06.2014, n. 2842)” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 04.09.2015, n. 4116; v. anche: Consiglio di Stato, 01.04.2016, n. 1291; nella giurisprudenza della Sezione si veda: TAR per la Lombardia - sede di Milano, sez. II, 28.07.2017, n. 1705; TAR per la Lombardia - sede di Milano, Sez. II, 14.02.2019, n. 204; Id., 28.02.2019, n. 259).
8.5. Nel caso di specie, le tettoie consistono in strutture di dimensioni non esigue (5,20 m x 3,40 m con altezza da 2,40 m a 2,50 m, la prima; 5,10 m x 3,55 m con altezza da 2,40 m a 2,50 m, la seconda: 6,50 m x 6,00 m con altezza di 3,50 m, la terza) ed assumono un’autonomia funzionale rispetto all’edificio principale che esclude la possibilità di qualificare le stesse come mere
pertinenze, categoria applicabile soltanto “a opere di modesta entità e accessorie rispetto a un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici “et similia”, ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si caratterizzino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, di tal che ne risulti possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica (Consiglio di Stato, sez. VI, 06.02.2019, n. 904).
8.6. In definitiva, il primo motivo di ricorso deve ritenersi infondato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.01.2020 n. 179 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
).

EDILIZIA PRIVATAIl vincolo assoluto di inedificabilità, di cui all’articolo 338 del testo unico delle leggi sanitarie - r.d. 24.07.1934, n. 1265, “non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, che di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che possono enuclearsi nelle esigenze di natura igienico-sanitaria, nella salvaguardia della pecuniarie sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento di un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale”.
---------------

9. L’esatta qualificazione dell’intervento consente, inoltre, di acclarare l’infondatezza dei rilievi contenuti nel secondo motivo di ricorso.
9.1. In particolare, la ricorrente contesta l’operatività della previsione di cui all’articolo 10 del P.d.S. del P.G.T. ritenendo l’opera un intervento di manutenzione straordinaria. Tuttavia, come spiegato in precedenza, si tratta di un nuovo intervento che necessità di permesso di costruire o S.C.I.A. alternativa al p.d.c. con la conseguente applicazione del disposto indicato dall’Amministrazione comunale.
9.2. Parimenti infondati sono i rilievi relativi alla non operatività della disposizione di cui all’articolo 28 della Legge n. 166/2002.
Invero, simile disposizione modifica le previsioni di cui all’articolo 338 del testo unico delle leggi sanitarie, di cui al regio decreto 24.07.1934, n. 1265, e successive modificazioni, apportando una serie di modificazioni tra le quali rileva, in questa sede, quella relativa al comma 7. Si prevede, in particolare, che “all’interno della zona di rispetto per gli edifici esistenti sono consentiti interventi di recupero ovvero interventi funzionali all'utilizzo dell'edificio stesso, tra cui l'ampliamento nella percentuale massima del 10 per cento e i cambi di destinazione d'uso, oltre a quelli previsti dalle lettere a), b), c) e d) del primo comma dell'articolo 31 della legge 05.08.1978, n. 457”.
9.3. Oltre agli interventi di recupero funzionale sono, quindi, ammessi: “a) interventi di manutenzione ordinaria, quelli che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti;
b) interventi di manutenzione straordinaria, le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso;
c) interventi di restauro e di risanamento conservativo, quelli rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo edilizio;
d) interventi di ristrutturazione edilizia, quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistemativo di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, la eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti
”.
9.4. Gli interventi in esame costituiscono nuove costruzioni e non rientrano, pertanto, nelle previsioni indicate. Opera, pertanto, quel vincolo assoluto di inedificabilità “che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, che di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che possono enuclearsi nelle esigenze di natura igienico-sanitaria, nella salvaguardia della pecuniarie sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento di un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale” (TAR per il Lazio – sede di Roma, sez. III, 26.09.2019, n. 11339) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.01.2020 n. 179 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
).

EDILIZIA PRIVATAMentre l’ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (art. 33, co. 2, d.P.R. 380/2001) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine (indirizzato ai competenti uffici dell’Amministrazione) di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso.
Soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l’ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, sempre se vi sia stata la richiesta dell'interessato in tal senso.
---------------

Il quarto motivo, con il quale la ricorrente contesta che un eventuale ripristino dei luoghi non sarebbe stato possibile, perché avrebbe inciso anche strutturalmente con i sottotetti di terzi confinanti con quello della ricorrente, che il Comune di Milano ha negli anni tutti autorizzati a sanatoria, è infondato.
La giurisprudenza ha infatti chiarito che, mentre l’ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (art. 33, co. 2, d.P.R. 380/2001) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine (indirizzato ai competenti uffici dell’Amministrazione) di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso; soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l’ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, sempre se vi sia stata la richiesta dell'interessato in tal senso (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 14.11.2016 n. 5248) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.01.2020 n. 178 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Diniego di permesso di costruire in sanatoria di bene legittimamente acquisito in buona fede.
Il TAR Milano, in merito all’interferenza del diniego di permesso di costruire in sanatoria con il libero godimento di un bene legittimamente acquisito in buona fede, specifica che “la giurisprudenza ha recentemente chiarito che le sanzioni civili ed amministrative contro l’abusivismo edilizio sono solo parzialmente coincidenti.
Infatti, in costanza di una dichiarazione reale e riferibile all'immobile, il contratto sarà in conclusione valido, e tanto a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo in esso menzionato (purché esistente), e ciò per la decisiva ragione che tale profilo esula dal perimetro della nullità prevista dalla normativa civilistica.
Tuttavia il diniego di permesso di costruire in sanatoria non costituisce un’interferenza illecita nel diritto di proprietà, in quanto tale diritto è conformato dalla legge allo scopo di assicurarne la funzione sociale (art. 42 Cost.) mentre l’ordine di demolizione di un bene legittimamente acquisito, al quale fa più specificamente riferimento il motivo di ricorso, tende alla riparazione effettiva di un danno al corretto sviluppo del territorio e non è rivolta nella sua essenza ad infliggere una punizione per impedire la reiterazione di trasgressioni a prescrizioni stabilite dalla legge”
.
---------------
L’ordine di demolizione è un atto ‘rigidamente vincolato’, che va emesso anche se –per una qualsiasi ragione– non sia stato emesso in precedenza: non occorre una specifica motivazione sull’interesse pubblico attuale e non sussiste un affidamento tutelabile, in ragione dell’illecito commesso in violazione delle regole sulla tutela del territorio”
---------------
2.3 Anche il terzo motivo aggiunto e del ricorso introduttivo sono infondati.
In merito all’interferenza del diniego di permesso di costruire in sanatoria con il libero godimento di un bene legittimamente acquisito in buona fede, occorre specificare che la giurisprudenza ha recentemente chiarito che le sanzioni civili ed amministrative contro l’abusivismo edilizio sono solo parzialmente coincidenti. Infatti, in costanza di una dichiarazione reale e riferibile all'immobile, il contratto sarà in conclusione valido, e tanto a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo in esso menzionato (purché esistente), e ciò per la decisiva ragione che tale profilo esula dal perimetro della nullità prevista dalla normativa civilistica (Cass. Civile, Sez. Un., n. 8230/2019).
Tuttavia il diniego di permesso di costruire in sanatoria non costituisce un’interferenza illecita nel diritto di proprietà, in quanto tale diritto è conformato dalla legge allo scopo di assicurarne la funzione sociale (art. 42 Cost.) mentre l’ordine di demolizione di un bene legittimamente acquisito, al quale fa più specificamente riferimento il motivo di ricorso, tende alla riparazione effettiva di un danno al corretto sviluppo del territorio e non è rivolta nella sua essenza ad infliggere una punizione per impedire la reiterazione di trasgressioni a prescrizioni stabilite dalla legge.
In merito poi alla mancata motivazione dell’interesse pubblico al diniego di sanatoria ed alla demolizione, resa necessaria, secondo la ricorrente, per il lungo tempo trascorso, visto che l’esecuzione di opere interne all’unità risale almeno al 1991, occorre precisare che l’accertamento di conformità non richiede alcuna motivazione specifica in merito all’interesse pubblico in quanto si limita ad accertare la conformità della situazione di fatto a quella di diritto e quindi non costituisce un atto di volontà finalizzato alla modifica di una situazione di fatto che richieda una comparazione con l’interesse privato.
Con riferimento poi all’ordine di demolizione la giurisprudenza (Consiglio di Stato sez. IV, 25/03/2019, n. 1942) ha da ultimo affermato che “l’Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 9 del 2017, ha ribadito come l’ordine di demolizione sia un atto ‘rigidamente vincolato’, che va emesso anche se –per una qualsiasi ragione– non sia stato emesso in precedenza: non occorre una specifica motivazione sull’interesse pubblico attuale e non sussiste un affidamento tutelabile, in ragione dell’illecito commesso in violazione delle regole sulla tutela del territorio” (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.01.2020 n. 178 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Necessita del permesso di costruire il balcone chiuso con vetri mobili del tipo "a libro".
La posa in opera di infissi in alluminio e vetro, scorrevoli e richiudibili “a libro”, assume inequivocabilmente le caratteristiche di una veranda, determinando la chiusura totale o parziale di un elemento edilizio aperto verso l'esterno, quale un terrazzo, un balcone o un portico, e dando così luogo a un elemento diverso, che comporta una trasformazione in termini di volume, superficie e sagoma dell'edificio cui appartiene, e pertanto richiede il rilascio di idoneo titolo abilitativo.
Né in contrario rileva l’uso che di tale struttura avviene solo in via di mero di fatto, perché ai fini edilizi deve aversi riguardo alle caratteristiche oggettive dell'opera e all'idoneità degli infissi a realizzare un locale stabilmente chiuso, con conseguente estensione delle possibilità di godimento dell'immobile, ivi compresa quella di mantenere gli infissi aperti all'occorrenza o comunque secondo necessità.
Invero, una veranda è realizzabile unicamente su balconi, terrazzi, attici o giardini, ed è caratterizzata da ampie superfici vetrate che all'occorrenza si aprono tramite finestre scorrevoli o a libro, determinando così un aumento della volumetria dell'edificio e una modifica della sua sagoma, e necessitando, quindi, del permesso di costruire.
---------------

Viene impugnato il provvedimento con cui è stata ordinata la demolizione delle opere abusive realizzate dalla ricorrente, consistenti in: “realizzazione, su un balcone di proprietà, di una chiusura a vetri mobili del tipo “a libro” per tutta la lunghezza di circa 8 m del parapetto e altezza di circa 2,00 m fino all’intradosso del solaio superiore, trasformando così il balcone in veranda”.
Per la ricorrente, le descritte vetrate sarebbero legittime perché “non sono in alcun modo ancorate alle preesistenti opere in muratura ma si limitano a scorrere in dei binari installati con alcuni bulloni”, per cui sono “facilmente rimovibili”.
Inoltre, la struttura in questione “non può considerarsi tale da avere garantito alla ricorrente alcun nuovo locale”, perché “non garantisce infatti alcuna nuova copertura (essendo il solaio preesistente) né alcuna nuova possibilità di utilizzo che non sia quella propria di un balcone che può essere temporaneamente protetto da intemperie e reso più godibile anche in giornate fredde, grazie all’applicazione di vetri panoramici facilmente rimovibili e ancora più facilmente richiudibili ai lati del parapetto, in modo da restituire alla facciata il proprio status quo ante, come da allegata documentazione fotografica, che dimostra anche che sarebbe semmai la rimozione delle vetrate a rendere disomogenea l’estetica dell’edificio, caratterizzata dalla presenza di vetrate sui balconi di ogni appartamento, in ordine alle quali non risulta siano pendenti provvedimenti di demolizione”.
...
Il ricorso è infondato, e va pertanto rigettato.
Infatti, la posa in opera di infissi in alluminio e vetro, scorrevoli e richiudibili “a libro”, assume inequivocabilmente le caratteristiche di una veranda, determinando la chiusura totale o parziale di un elemento edilizio aperto verso l'esterno, quale un terrazzo, un balcone o un portico, e dando così luogo a un elemento diverso, che comporta una trasformazione in termini di volume, superficie e sagoma dell'edificio cui appartiene, e pertanto richiede il rilascio di idoneo titolo abilitativo.
Né in contrario rileva l’uso che di tale struttura avviene solo in via di mero di fatto, perché ai fini edilizi deve aversi riguardo alle caratteristiche oggettive dell'opera e all'idoneità degli infissi a realizzare un locale stabilmente chiuso, con conseguente estensione delle possibilità di godimento dell'immobile, ivi compresa quella di mantenere gli infissi aperti all'occorrenza o comunque secondo necessità (TAR Toscana, sez. III, 11/01/2019 n. 64; vedi anche Cons. St., sez. VI, 25/01/2017 n. 306, per la precisazione che una veranda è realizzabile unicamente su balconi, terrazzi, attici o giardini, ed è caratterizzata da ampie superfici vetrate che all'occorrenza si aprono tramite finestre scorrevoli o a libro, determinando così un aumento della volumetria dell'edificio e una modifica della sua sagoma, e necessitando, quindi, del permesso di costruire) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 23.01.2020 n. 911 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICA: DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Misure cautelare reale – Sequestro finalizzato alla confisca – Facoltà d’uso del bene – Natura del provvedimento cautelare reale – Sequestro c.d. impeditivo – Caso dei beni immobili e mobili registrati – Tutela dei terzi di buona fede – Art. 104 disp. att. cod. proc. pen. – Art. 321, c. 2, cod. proc. pen..
Il sequestro preventivo finalizzato dalla necessità di evitare il pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso, ovvero agevolare la commissione di altri reati è pacificamente incompatibile con la cosiddetta facoltà d’uso, poiché, si pone in evidente contraddizione con le finalità proprie della misura cautelare.
Sicché, anche, in assenza di specifiche esigenze preventive, quando il sequestro è esclusivamente finalizzato alla successiva confisca, la possibilità di utilizzare il bene deve essere preclusa.
Infatti, lo scopo della misura è quello di sottrarre fisicamente la disponibilità del bene al destinatario della stessa e consentirne l’utilizzazione renderebbe il sequestro efficace nella forma e non anche nella sostanza, senza contare la possibile dispersione del bene, come nel caso in cui sia alienato, ovvero un suo deterioramento.
Infine, a nulla rileva il fatto, nel caso dei beni immobili e mobili registrati, che la confisca sarebbe comunque assicurata dalla trascrizione del provvedimento imposta dall’art. 104 disp. att. cod. proc. pen., atteso che la finalità di tale disposizione è esclusivamente quella di consentire la pubblicità del provvedimento cautelare a garanzia della sua efficacia ed a tutela dei terzi di buona fede e non già quella di salvaguardare la conservazione fisica del bene, che può evidentemente essere assicurata dal giudice con modalità diverse secondo, le esigenze del caso concreto.

...
Reato di lottizzazione abusiva – Sequestro finalizzato alla confisca – Principio di proporzionalità ed adeguatezza – Sequestro senza alcuna finalità impeditiva – art. 275 cod. proc. pen. – Artt. 30, 44, d.P.R. 380/2001.
Il principio di proporzionalità ed adeguatezza, dettato dall’art. 275 cod. proc. pen. per le misure cautelari personali, è ritenuto applicabile anche alle misure cautelari reali.
Tale assunto, generalmente riferito alla fase genetica del provvedimento cautelare, è stato ribadito anche avendo riguardo alle modalità di esecuzione della misura cautelare reale, osservandosi, con riferimento ad un provvedimento di sgombero di immobile abusivo sottoposto a sequestro preventivo disposto dal Pubblico Ministero, che salvaguardati gli effetti che la cautela assolve, non sono indifferenti le diverse modalità con le quali il provvedimento deve essere eseguito, soprattutto quando l’esecuzione di esso incide su diritti fondamentali, dei quali gli organi della giurisdizione penale sono garanti.
Invero, nel dare applicazione a tale principio, si è specificato che il fine è quello di evitare un’esasperata compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica privata, con la conseguenza che si richiede al giudice di motivare sulla impossibilità di conseguire lo stesso risultato con modalità meno invasive, in maniera tale da non compromettere la funzionalità del bene sottoposto a vincolo anche oltre le effettive necessità dettate dall’esigenza cautelare che si intende arginare.
Occorre, tuttavia, osservare che l’esigenza di contemperare le esigenze cautelari con una adeguata e non eccessivamente gravosa compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica trova comunque un limite nel fatto che l’esercizio di tali diritti conseguenti all’applicazione del principio di proporzionalità avvenga lecitamente e senza incidere negativamente su altri diritti altrettanto meritevoli di tutela.
Nella valutazione che il giudice è chiamato ad effettuare, dunque, dovrà tenersi conto del fatto che la salvaguardia dei diritti del soggetto che subisce il sequestro, con conseguente modulazione delle modalità di esecuzione della misura, non può giustificare il sostanziale mantenimento in essere di una situazione di illiceità (come nel caso della facoltà d’uso di un immobile abusivo) o la compressione di altri diritti o interessi garantiti dalla legge.
Con specifico riferimento al sequestro di immobili abusivi, ad esempio, dovrà considerarsi, in primo luogo, se le esigenze personali da salvaguardare siano effettivamente rilevanti e se non sia possibile ovviarvi facendo ricorso a soluzioni alternative; che non incidano negativamente su diritti di terzi altrettanto meritevoli di tutela o che non comportino situazioni di rischio per la salute e l’incolumità delle persone (come nel caso di immobili non dotati di agibilità o abitabilità, realizzati senza il rispetto della normativa antisismica o sulle opere in cemento armato).
Il tutto considerando che la utilizzazione del bene sequestrato, qualora si risolva nella sostanziale libera disponibilità dello stesso è, di regola, incompatibile con le finalità del sequestro non soltanto impeditivo (il che è evidente) ma anche, per le ragioni innanzi dette, di quello finalizzato alla confisca
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.01.2020 n. 2296 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 31, comma 4-bis, del DPR n. 380/2001 pari ad € 20.000,00 [introdotto dall'art. 17, lettera q-bis), del decreto legge 12.09.2014 n. 133 convertito con modificazioni dalla legge 11.11.2014 n. 164] può essere applicata esclusivamente alle vicende in cui il termine di esecuzione spontanea all’ordine di demolizione si è consumato successivamente alla sua entrata in vigore, in coerenza con il generale principio di irretroattività delle norme sanzionatorie.
Il Collegio è consapevole dell’esistenza di un orientamento giurisprudenziale secondo il quale la sanzione pecuniaria introdotta dall’art. 17, comma 1, lett. q-bis), del decreto legge 12.09.2014 n. 133, convertito, con modificazioni, in legge 11.11.2014 n. 164, attraverso l’introduzione del comma 4-bis dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, troverebbe applicazione anche nell’ipotesi in cui l’ordine di demolizione, e il decorso del termine previsto per la sua ottemperanza, siano precedenti all’introduzione della norma, ma non ritiene condivisibile tale orientamento.
Invero la norma richiamata introduce un autonomo illecito amministrativo, concernente la mancata tempestiva ottemperanza all’ordine di demolizione, sostanzialmente autonomo, seppur correlato, con l’illecito relativo alla commissione dell’abuso edilizio, oggetto del provvedimento di demolizione.
Il punto centrale, per individuare il suo perimetro di applicazione, è la corretta ricostruzione dell’obbligo di adempimento all’ordine di demolizione, e in particolare se tale obbligo permanga nel tempo, anche dopo il decorso del termine, previsto dalla legge, di 90 giorni, per dare spontanea esecuzione al provvedimento demolitorio.
Invero solo nel caso in cui si giunga alla conclusione che l’obbligo permane nel tempo, potrebbe ritenersi che il privato abbia mantenuto un comportamento illecito –passibile della sanzione pecuniaria per cui è causa– dopo l’entrata in vigore dell’art. 17, comma 1, lett. q-bis), sopra richiamato, pur essendosi in precedenza consumato il termine di legge per la spontanea esecuzione all’ordine di demolizione.
Ciò posto, ritiene il Collegio che, dalla lettura sistematica delle norme che vengono in rilievo, si deve giungere alla conclusione che l’illecito consistente nella mancata demolizione dell’abuso edilizio realizzato, dopo l’adozione di un ordine di demolizione, non ha carattere permanente, ma istantaneo, e si consuma al momento del decorso del termine previsto dalla legge –e talvolta riprodotto negli atti di demolizione- per la demolizione spontanea.
Infatti poiché al decorso del termine previsto per la demolizione spontanea da parte del privato il Comune che ha ingiunto la demolizione acquista l’area in cui ricade l’abuso commesso (art. 31, comma 3, D.P.R. n. 380/2001), sarebbe irragionevole ritenere che il privato rimanga obbligato a demolire un bene ormai di proprietà del Comune, che potrebbe anche motivatamente decidere di non demolire, ai sensi del comma quinto dell’art. 31 D.P.R. n. 380/2001.
Ciò considerato l’unica ricostruzione aderente al testo della norma che viene in rilievo, oltre che alla complessiva disciplina in cui è inserita, è quella di ritenere che l’illecito sanzionato con il comma 4-bis dell’art. 31 sia un illecito istantaneo, e non permanente, che si perfeziona e si definisce nel momento in cui è decorso il termine di esecuzione spontanea all’ordine di demolizione ricevuto.
Conseguentemente la norma sanzionatoria che viene in rilievo -introdotta con una legge del 2014- deve essere interpretata nel senso che può essere applicata esclusivamente alle vicende in cui il termine di esecuzione spontanea all’ordine di demolizione si è consumato successivamente alla sua entrata in vigore, in coerenza con il generale principio di irretroattività delle norme sanzionatorie.
---------------

... per l’annullamento dell’ordinanza n. 22 del 06/08/2018 emessa dal responsabile dell’Area Assetto ed Utilizzazione del Territorio del Comune di Santa Flavia (PA) e notificata in data 27/08/2018 con la quale viene ingiunto ai ricorrenti il pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 31, comma 4-bis, del DPR n. 380/2001, pari ad € 20.000,00, entro il termine massimo di giorni 30 dalla notifica stessa, per la inottemperanza all’ordinanza di demolizione n. 8/2012;
...
FATTO
Con ricorso notificato in data 28.10.2018, e depositato il successivo 11 novembre, i ricorrenti hanno impugnato il provvedimento impugnato articolando le censure di:
   A) Illegittimità e/o nullità e/o annullabilità dell'ordinanza per violazione di legge, e, in particolare, dell'art. 1, comma secondo, della l. n. 689 del 1981, e del comma 4-bis dell'art. 31 d.p.r. n. 380/2001, introdotto dall'art. 17, lettera q-bis), del decreto legge 12.09.2014 n. 133 convertito con modificazioni dalla legge 11.11.2014 n. 164;
   B) Illegittimità e/o nullità dell'ordinanza per violazione dell’art. 7 e dell’art. 21-bis della legge 07.08.1990 n. 241 - omessa comunicazione di avvio del procedimento;
   C) Illegittimità e/o nullità dell'ordinanza per violazione dell’art. 31, comma 4, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, mancata notifica atto presupposto;
   D) Illegittimità e/o nullità dell'ordinanza per violazione di legge, e in particolare, del comma 4-bis dell'art. 31 D.P.R. n. 380/2001, introdotto dall'art. 17, lettera q-bis), del decreto legge 12.09.2014 n. 133 convertito con modificazioni dalla legge 11.11.2014 n. 164 e del comma 2 dell'articolo 27 D.P.R. n. 380/2001;
   E) Illegittimità e/o nullità dell'ordinanza per violazione del principio di proporzionalità delle sanzioni amministrative - Illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 e ss.mm.ii., in combinato disposto con l’art. 27, comma 2, dello stesso testo unico;
   F) Illegittimità e/o nullità e/o annullabilità dell'ordinanza per violazione di legge, e, in particolare, dell'art. 1, comma secondo, della l. n. 689 del 1981, e del comma 4-bis dell'art. 31 D.P.R.. n. 380/2001, introdotto dall'art. 17, lettera q-bis), del decreto legge 12.09.2014 n. 133, convertito con modificazioni in legge 11.11.2014 n. 164, sotto altro profilo, applicabilità dei principi e delle regole procedimentali della legge n. 689/1981 - Eccesso di potere.
Sostengono i ricorrenti che il provvedimento impugnato sarebbe illegittimo in quanto:
   - applica retroattivamente una sanzione pecuniaria introdotta nel nostro ordinamento dopo che l’illecito a cui consegue -mancata demolizione dell’abuso edilizio realizzato nei termini di legge- è stato compiuto ed accertato;
   - sarebbe mancata la doverosa comunicazione di avvio del procedimento;
   - non risulta adottato il verbale di accertamento di inottemperanza all’ordine di demolizione adottato dall’amministrazione;
   - sarebbe privo di adeguata motivazione; la sanzione pecuniaria irrogata –nella misura massima prevista per legge– sarebbe del tutto sproporzionata rispetto all’entità dell’illecito edilizio commesso; l’amministrazione avrebbe errato nel non prevedere la possibilità di pagare la sanzione irrogata in misura ridotta, a norma dell’art. 16 della legge n. 689/1981.
Non si è costituito il Comune intimato e alla pubblica udienza fissata per la sua discussione, il ricorso è stato posto in decisione.
DIRITTO
Il ricorso è fondato in ragione della fondatezza del primo motivo.
Il Collegio è consapevole dell’esistenza di un orientamento giurisprudenziale secondo il quale la sanzione pecuniaria introdotta dall’art. 17, comma 1, lett. q-bis), del decreto legge 12.09.2014 n. 133, convertito, con modificazioni, in legge 11.11.2014 n. 164, attraverso l’introduzione del comma 4-bis dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, troverebbe applicazione anche nell’ipotesi in cui l’ordine di demolizione, e il decorso del termine previsto per la sua ottemperanza, siano precedenti all’introduzione della norma, ma non ritiene condivisibile tale orientamento.
Invero la norma richiamata introduce un autonomo illecito amministrativo, concernente la mancata tempestiva ottemperanza all’ordine di demolizione, sostanzialmente autonomo, seppur correlato, con l’illecito relativo alla commissione dell’abuso edilizio, oggetto del provvedimento di demolizione.
Il punto centrale, per individuare il suo perimetro di applicazione, è la corretta ricostruzione dell’obbligo di adempimento all’ordine di demolizione, e in particolare se tale obbligo permanga nel tempo, anche dopo il decorso del termine, previsto dalla legge, di 90 giorni, per dare spontanea esecuzione al provvedimento demolitorio.
Invero solo nel caso in cui si giunga alla conclusione che l’obbligo permane nel tempo, potrebbe ritenersi che il privato abbia mantenuto un comportamento illecito –passibile della sanzione pecuniaria per cui è causa– dopo l’entrata in vigore dell’art. 17, comma 1, lett. q-bis), sopra richiamato, pur essendosi in precedenza consumato il termine di legge per la spontanea esecuzione all’ordine di demolizione.
Ciò posto, ritiene il Collegio che, dalla lettura sistematica delle norme che vengono in rilievo, si deve giungere alla conclusione che l’illecito consistente nella mancata demolizione dell’abuso edilizio realizzato, dopo l’adozione di un ordine di demolizione, non ha carattere permanente, ma istantaneo, e si consuma al momento del decorso del termine previsto dalla legge –e talvolta riprodotto negli atti di demolizione- per la demolizione spontanea.
Infatti poiché al decorso del termine previsto per la demolizione spontanea da parte del privato il Comune che ha ingiunto la demolizione acquista l’area in cui ricade l’abuso commesso (art. 31, comma 3, D.P.R. n. 380/2001), sarebbe irragionevole ritenere che il privato rimanga obbligato a demolire un bene ormai di proprietà del Comune, che potrebbe anche motivatamente decidere di non demolire, ai sensi del comma quinto dell’art. 31 D.P.R. n. 380/2001.
Ciò considerato l’unica ricostruzione aderente al testo della norma che viene in rilievo, oltre che alla complessiva disciplina in cui è inserita, è quella di ritenere che l’illecito sanzionato con il comma 4-bis dell’art. 31 sia un illecito istantaneo, e non permanente, che si perfeziona e si definisce nel momento in cui è decorso il termine di esecuzione spontanea all’ordine di demolizione ricevuto.
Conseguentemente la norma sanzionatoria che viene in rilievo -introdotta con una legge del 2014- deve essere interpretata nel senso che può essere applicata esclusivamente alle vicende in cui il termine di esecuzione spontanea all’ordine di demolizione si è consumato successivamente alla sua entrata in vigore, in coerenza con il generale principio di irretroattività delle norme sanzionatorie.
Il provvedimento impugnato è pertanto illegittimo in quanto ha applicato retroattivamente la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001 (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 22.01.2020 n. 189 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTI: Decorrenza del termine di impugnazione del provvedimento di aggiudicazione
Il TAR Milano, in materia di decorrenza del termine di impugnazione dell’aggiudicazione di un appalto pubblico, precisa che:
   - sul punto, il Tribunale condivide e ribadisce il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa a mente del quale l’art. 76 del d.l.vo 2016 n. 50 –così come il previgente art. 79 del d.lgs. 12.04.2006. n. 163, come novellato dal d.lgs. 20.03.2010, n. 53– detta sicuramente una disciplina tesa a garantire la piena conoscenza e la certezza della data di conoscenza in relazione agli atti di gara, segnatamente esclusioni e aggiudicazioni, sicché sono state previste forme puntuali di comunicazione;
   - tuttavia, l’art. 76 del d.l.vo 2016 n. 50 –così come il previgente art. 79 del d.lgs. n. 163 del 2006- da un lato, non prevede le forme di comunicazione come “esclusive” e “tassative”, dall’altro, non incide sulle regole processuali generali del processo amministrativo, in tema di decorrenza dei termini di impugnazione dalla data di notificazione, di comunicazione o, comunque, di piena conoscenza dell’atto;
   - le norme citate conservano il principio per cui la piena conoscenza dell’atto, al fine del decorso del termine di impugnazione, può essere acquisita con altre forme, ovviamente con onere della prova a carico di chi eccepisce la avvenuta piena conoscenza con forme diverse da quelle di cui all’art. 76 cit.;
   - parimenti, l’art. 120, comma 5, cpa, si riferisce all’impugnazione di tutti gli atti delle procedure di affidamento e fissa plurime decorrenze dei termini, o dalla ricezione della comunicazione di cui all’art. 76 del codice dei contratti, o, per i bandi, dalla pubblicazione, ovvero, in ogni altro caso, dalla conoscenza dell’atto;
   - l’espressione “in ogni altro caso” non va riferita ad “atti diversi” da quelli delle procedure di affidamento, e specificamente da quelli di cui all’art. 76 del d.l.vo 2016 n. 50, ma va riferita a “diverse forme” di conoscenza dell’atto, ossia diverse dalle forme previste dalla disciplina specifica del codice dei contratti;
   - così inteso, l’art. 120, comma 5, cpa, è coerente con la regola generale dettata dal precedente art. 41, comma 2, secondo cui il termine di impugnazione del provvedimento amministrativo decorre dalla notificazione, dalla comunicazione o dalla piena conoscenza dell’atto da impugnare;
   - ne deriva che l’art. 120, comma 5, cpa non ha inteso fissare forme tassative di comunicazione degli atti di gara al fine della decorrenza del termine di impugnazione, ma ha inteso ribadire la regola generale secondo cui il termine di impugnazione decorre o dalla comunicazione nelle forme di legge, o comunque dalla piena conoscenza dell’atto;
   - quindi, se la comunicazione non avviene con le forme poste dall’art. 76 del d.lgs 2016 n. 50, il termine decorre dalla piena conoscenza altrimenti acquisita
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 22.01.2020 n. 134 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
In particolare, va osservato che:
   - l’art. 120, comma 5, cpa dispone che “salvo quanto previsto al comma 6-bis, per l'impugnazione degli atti di cui al presente articolo il ricorso, principale o incidentale e i motivi aggiunti, anche avverso atti diversi da quelli già impugnati, devono essere proposti nel termine di trenta giorni, decorrente, per il ricorso principale e per i motivi aggiunti, dalla ricezione della comunicazione di cui all'articolo 79 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, o, per i bandi e gli avvisi con cui si indice una gara, autonomamente lesivi, dalla pubblicazione di cui all'articolo 66, comma 8, dello stesso decreto; ovvero, in ogni altro caso, dalla conoscenza dell'atto. Per il ricorso incidentale la decorrenza del termine è disciplinata dall'articolo 42”;
   - nel caso di specie, la documentazione in atti evidenzia che: a) dal giorno 03.10.2019 la ricorrente è stata informata dell’esito della procedura, dell’aggiudicazione e della graduatoria definitiva mediante pec; b) in data 17.10.2019, alle ore 13.21, la ricorrente ha ricevuto una comunicazione via pec dalla piattaforma Sintel contenente, in allegato, il verbale di gara comprensivo di tutte le sedute compresa l’aggiudicazione definitiva e l’avviso che lo stesso era esposto anche sul profilo del committente; c) sempre in data 17.10.2019 sono stati pubblicati, sul sito del committente, i verbali di gara e la determina di aggiudicazione n. 2110, datata 16.10.2019; d) l’istanza di accesso presentata dalla ricorrente in data 07.10.2019 è stata accolta dall’Ente, sicché dal 28.10.2019 la ricorrente ha avuto piena e completa conoscenza di tutti gli atti e i documenti inerenti la posizione dell’aggiudicataria e la procedura di gara;
   - nondimeno, il ricorso è stato notificato all’Ente Nazionale Risi via PEC solo in data 30.12.2019;
   - ne deriva che il ricorso è stato proposto dopo il decorso del termine perentorio di 30 giorni decorrente dalla piena conoscenza degli atti impugnati ed è, pertanto, irricevibile, come eccepito dall’amministrazione resistente;
   - sul punto,
il Tribunale condivide e ribadisce il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa (cfr. Consiglio di Stato sez. VI, 13/12/2011, n. 6531; Consiglio di Stato, sez. V, 14/05/2013, n. 2614; TAR Puglia-Lecce, sez. II, 31/05/2017, n. 875; Consiglio di Stato, sez. V, 02/09/2019, n. 6064; TAR Campania-Napoli, sez. I, 13/06/2019, n. 3225) a mente del quale l’art. 76 del d.l.vo 2016 n. 50 –così come il previgente art. 79 del d.lgs. 12.04.2006. n. 163, come novellato dal d.lgs. 20.03.2010, n. 53– detta sicuramente una disciplina tesa a garantire la piena conoscenza e la certezza della data di conoscenza in relazione agli atti di gara, segnatamente esclusioni e aggiudicazioni, sicché sono state previste forme puntuali di comunicazione;
   - tuttavia, l’art. 76 del d.l.vo 2016 n. 50 –così come il previgente art. 79 del d.lgs. n. 163 del 2006- da un lato, non prevede le forme di comunicazione come “esclusive” e “tassative”, dall’altro, non incide sulle regole processuali generali del processo amministrativo, in tema di decorrenza dei termini di impugnazione dalla data di notificazione, di comunicazione o, comunque, di piena conoscenza dell’atto;
   - le norme citate conservano il principio per cui la piena conoscenza dell’atto, al fine del decorso del termine di impugnazione, può essere acquisita con altre forme, ovviamente con onere della prova a carico di chi eccepisce la avvenuta piena conoscenza con forme diverse da quelle di cui all’art. 76 cit.;
   - parimenti, l’art. 120, comma 5, cpa, si riferisce all’impugnazione di tutti gli atti delle procedure di affidamento e fissa plurime decorrenze dei termini, o dalla ricezione della comunicazione di cui all’art. 76 del codice dei contratti, o, per i bandi, dalla pubblicazione, ovvero, in ogni altro caso, dalla conoscenza dell’atto;
   - l’espressione “in ogni altro caso” non va riferita ad “atti diversi” da quelli delle procedure di affidamento, e specificamente da quelli di cui all’art. 76 del d.l.vo 2016 n. 50, ma va riferita a “diverse forme” di conoscenza dell’atto, ossia diverse dalle forme previste dalla disciplina specifica del codice dei contratti;

   - così inteso,
l’art. 120, comma 5, cpa, è coerente con la regola generale dettata dal precedente art. 41, comma 2, secondo cui il termine di impugnazione del provvedimento amministrativo decorre dalla notificazione, dalla comunicazione o dalla piena conoscenza dell’atto da impugnare;
   - ne deriva che
l’art. 120, comma 5, cpa non ha inteso fissare forme tassative di comunicazione degli atti di gara al fine della decorrenza del termine di impugnazione, ma ha inteso ribadire la regola generale secondo cui il termine di impugnazione decorre o dalla comunicazione nelle forme di legge, o comunque dalla piena conoscenza dell’atto;
   - quindi,
se la comunicazione non avviene con le forme poste dall’art. 76 del d.lgs. 2016 n. 50, il termine decorre dalla piena conoscenza altrimenti acquisita;
   - nel caso di specie, al di là dell’effettuazione della comunicazione ex art. 76 –fatto contestato dalla ricorrente– resta fermo che, almeno dall’ostensione dei documenti di gara, avvenuta in data 28.10.2019, la ricorrente ha avuto piena conoscenza degli atti impugnati, con conseguente decorso del termine perentorio di 30 giorni per la loro impugnazione;
   - le considerazioni ora espresse non sono superabili considerando che l’art. 25 del disciplinare di gara prevede che “Tutte le comunicazioni e tutti gli scambi di informazioni tra l’Ente e gli operatori economici si intendono validamente ed efficacemente effettuati per mezzo della funzionalità “Comunicazioni procedura” nell’interfaccia “Dettaglio”;
   - invero, la previsione del disciplinare individua come devono essere effettuate le comunicazioni degli atti della gara, ma non introduce una deroga -peraltro neppure giuridicamente configurabile in termini di legittimità– alla disciplina processuale della decorrenza del termine di impugnazione, che rimane fissata dalle richiamate disposizioni del codice del processo amministrativo;
   - né la norma del disciplinare consente di configurare un errore scusabile in capo alla ricorrente;
   - invero, come riconosciuto pacificamente in giurisprudenza,
l’errore scusabile rappresenta un istituto inteso a garantire l’effettività della tutela giurisdizionale, suscettibile di trovare applicazione sia quando siano ravvisabili situazioni di obiettiva incertezza normativa, connesse a difficoltà interpretative o ad oscillazioni giurisprudenziali, sia quando si sia di fronte a comportamenti, indicazioni o avvertenze fuorvianti provenienti dalla medesima amministrazione, da cui possa conseguire difficoltà nella domanda di giustizia ed un’effettiva diminuzione della tutela giustiziale (così già Cons. Stato, IV, 22.05.2006, n. 3026; VI, 17.10.1988, n. 1140);
   - si tratta di un istituto di carattere eccezionale (Cons. Stato, IV, 30.12.2008, n. 6599), che delinea una deroga al principio cardine della perentorietà dei termini di impugnazione;
   - l’art. 37 cpa non presenta elementi per una differente conclusione, dal momento che
un uso eccessivamente ampio del riconoscimento, lungi dal rafforzare l’effettività della tutela giurisdizionale, potrebbe risolversi in un vulnus del principio di parità delle parti (art. 2, comma 1, cpa), quanto al rispetto dei termini perentori stabiliti dalla legge processuale (sul punto, Cons. Stato, Ad. plen., 02.12.2010, n. 3);

EDILIZIA PRIVATA: Muri di cinta – Dislivello di origine artificiale – Funzione di sostegno e contenimento – Natura di “costruzione” – Osservanza delle distanze ex art. 9 D.M. 1444/1968.
In tema di muri di cinta, qualora l'andamento altimetrico di due fondi limitrofi sia stato artificialmente modificato, così da creare tra essi un dislivello che prima non esisteva, il muro di cinta viene ad assolvere, oltre alla funzione sua propria di delimitazione tra le proprietà, anche quella di sostegno e contenimento del terrapieno creato dall'opera dell'uomo; conseguentemente, esso va equiparato ad una costruzione in senso tecnico-giuridico agli effetti delle distanze legali (senza che abbia rilievo chi, tra i proprietari confinanti, abbia in via esclusiva o prevalente realizzato tale intervento) ed è assoggettato al rispetto delle distanze stesse.
---------------
Requisiti essenziali del muro di cinta, che a norma dell'art. 878 c.c. non va considerato nel computo delle distanze legali, sono costituiti dall'isolamento delle facce, dall'altezza non superiore a metri tre e dalla sua destinazione alla demarcazione della linea di confine e alla separazione e chiusura della proprietà.
Nel caso, però, di fondi a dislivello, adempiendo il muro anche ad una funzione di sostegno e contenimento del terrapieno o della scarpata, una faccia non si presenta di norma come isolata e l'altezza può anche superare i tre metri, se tale è l'altezza del terrapieno o della scarpata.
Pertanto, non può essere considerato come costruzione, ai fini dell'osservanza delle distanze legali, il muro che, nel caso di dislivello naturale, oltre a delimitare il fondo, assolve anche alla funzione di sostegno e contenimento del declivio naturale per evitare smottamenti o frane; il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale, in particolare, non può considerarsi "costruzione", agli effetti della disciplina di cui all'art. 873 c.c., per la parte che adempie alla sua specifica funzione, e, quindi, dalle fondamenta al livello del fondo superiore, qualunque sia l'altezza della parete naturale o della scarpata o del terrapieno cui aderisce, impedendone lo smottamento, mentre la parte del muro che si innalza oltre il piano del fondo sovrastante, in quanto priva della funzione di conservazione dello stato dei luoghi, è soggetta alla disciplina giuridica propria delle sue oggettive caratteristiche di costruzione in senso tecnico giuridico.
All'inverso, nel caso di dislivello di origine artificiale (che è poi la situazione contemplata nel medesimo art. 45 del regolamento edilizio comunale), deve essere considerato costruzione in senso tecnico-giuridico, ai fini della normativa sulle distanze legali, il muro di fabbrica che assolve in modo permanente e definitivo anche alla funzione di contenimento del terrapieno creato dall'opera dell'uomo, o che questa abbia pure soltanto accentuato rispetto a quello già esistente per la natura dei luoghi.
Basta, dunque, che l'andamento altimetrico del piano di campagna -originariamente livellato sul confine tra due fondi- sia stato artificialmente modificato per opera dell'uomo (come accertato nella specie dai giudici del merito) a far ritenere che il muro di cinta abbia la funzione di contenere il terrapieno creato "ex novo" con l'apporto di terra e pietrame, e vada, per l'effetto, equiparato a un muro di fabbrica, come tale assoggettato al rispetto delle distanze legali tra costruzioni.

---------------
Anche ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali tra edifici, la nozione di costruzione deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazioni dell'opera.
---------------
I muri di contenimento di terrapieni artificiali sono qualificati opere di nuova costruzione, necessitanti, pertanto, di permesso di costruire.
Invero, “Si deve qualificare l'intervento edilizio quale nuova costruzione quante volte abbia l'effettiva idoneità di determinare significative trasformazioni urbanistiche e edilizie. Sulla base di tale approccio, la realizzazione di muri di cinta di modesti corpo e altezza è generalmente assoggettabile al solo regime della denuncia di inizio di attività. Per converso, il muro di contenimento che crei un nuovo dislivello o aumenti quello esistente costituisce una nuova costruzione, soggetta al rilascio del permesso di costruire, allorquando, avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area relativa, lo stesso sia tale da modificare l'assetto urbanistico del territorio, così rientrando nel novero degli interventi di “nuova costruzione”. Quest'ultimo concetto è infatti comprensivo di qualunque manufatto autonomo ovvero modificativo di altro preesistente, che sia stabilmente infisso al suolo o ai muri di quello preesistente, ma comunque capace di trasformare in modo durevole l'area coperta, ovvero ancora le opere di qualsiasi genere con cui si operi nel suolo e sul suolo, se idonee a modificare lo stato dei luoghi”.
Altresì, “anche ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali tra edifici, la nozione di costruzione deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazioni dell'opera”.
---------------
Il Collegio ritiene che la nozione di costruzione e di muro di cinta rilevante ai fini della disciplina delle distanze legali tra edifici sia utilizzabile anche ai fini dell’art. 9 D.M. 1444/1968, nonostante testualmente esso si riferisca alle distanze tra muri finestrati e “pareti di edifici antistanti”, tenuto conto della comune funzione della prescritta disciplina di impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario.
Invero,  “l'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, ricadenti, come nella fattispecie, in zona diversa dalla zona A, va rispettato in modo assoluto, trattandosi di norma finalizzata non alla tutela della riservatezza, bensì a impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile. Conseguentemente, la disposizione va applicata indipendentemente dall'altezza degli edifici antistanti e dall'andamento parallelo delle loro pareti, purché sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento. Indi, le distanze fra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale e astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia per equo contemperamento degli opposti interessi. La prescrizione di distanza in questione è assoluta e inderogabile”.
Essendo, almeno in parte, comune alle due discipline la finalità igienico-sanitaria (che si somma a quella di assicurare un ordinato assetto del territorio comunale propria delle disposizioni del D.M. 1444/1968), anche gli elementi costruttivi ai quali la suddetta disciplina deve applicarsi non possono che essere interpretati in modo uniforme.
Per tale ragione, il Collegio ritiene preferibile l’orientamento tradizionale alla stregua del quale l’art. 9 D.M. 1444/1968 è applicabile a qualunque manufatto avente “i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene e che, proprio in considerazione della possibilità di dar vita a intercapedini contrarie alla finalità della norma, ... anche i muri di contenimento che producano un dislivello o aumentano quello già esistente per la natura dei luoghi, costituiscono nuove costruzioni idonee ad incidere sull'osservanza delle norme in tema di distanza dal confine".
---------------

3. E’ fondato il terzo motivo del ricorso introduttivo, identico al secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti, con il quale la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 9 D.M. 1444/1968, poiché l’edificio in progetto è destinato ad essere realizzato ad una distanza di m. 1,5 dal muro di contenimento del dislivello artificiale che insiste tra i due fondi.
In punto di fatto, occorre premettere che risulta incontestato tra le parti che il muro, posto sul confine tra i fondi, ha un’altezza di m. 1,50 ed assolve ad una parziale funzione di contenimento del dislivello di circa 30 cm sussistente tra le due proprietà.
La costante giurisprudenza della Corte di cassazione afferma che: “In tema di muri di cinta, qualora l'andamento altimetrico di due fondi limitrofi sia stato artificialmente modificato, così da creare tra essi un dislivello che prima non esisteva, il muro di cinta viene ad assolvere, oltre alla funzione sua propria di delimitazione tra le proprietà, anche quella di sostegno e contenimento del terrapieno creato dall'opera dell'uomo; conseguentemente, esso va equiparato ad una costruzione in senso tecnico-giuridico agli effetti delle distanze legali (senza che abbia rilievo chi, tra i proprietari confinanti, abbia in via esclusiva o prevalente realizzato tale intervento) ed è assoggettato al rispetto delle distanze stesse” (Cassazione civile sez. II, 03/05/2018, n. 10512).
Ed ancora (Cassazione civile sez. II, 29/05/2019, (ud. 26/02/2019, dep. 29/05/2019), n. 14710) “Requisiti essenziali del muro di cinta, che a norma dell'art. 878 c.c. non va considerato nel computo delle distanze legali, sono costituiti dall'isolamento delle facce, dall'altezza non superiore a metri tre e dalla sua destinazione alla demarcazione della linea di confine e alla separazione e chiusura della proprietà. Nel caso, però, di fondi a dislivello, adempiendo il muro anche ad una funzione di sostegno e contenimento del terrapieno o della scarpata, una faccia non si presenta di norma come isolata e l'altezza può anche superare i tre metri, se tale è l'altezza del terrapieno o della scarpata. Pertanto, non può essere considerato come costruzione, ai fini dell'osservanza delle distanze legali, il muro che, nel caso di dislivello naturale, oltre a delimitare il fondo, assolve anche alla funzione di sostegno e contenimento del declivio naturale per evitare smottamenti o frane; il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale, in particolare, non può considerarsi "costruzione", agli effetti della disciplina di cui all'art. 873 c.c., per la parte che adempie alla sua specifica funzione, e, quindi, dalle fondamenta al livello del fondo superiore, qualunque sia l'altezza della parete naturale o della scarpata o del terrapieno cui aderisce, impedendone lo smottamento, mentre la parte del muro che si innalza oltre il piano del fondo sovrastante, in quanto priva della funzione di conservazione dello stato dei luoghi, è soggetta alla disciplina giuridica propria delle sue oggettive caratteristiche di costruzione in senso tecnico giuridico. All'inverso, nel caso di dislivello di origine artificiale (che è poi la situazione contemplata nel medesimo art. 45 del regolamento edilizio comunale), deve essere considerato costruzione in senso tecnico-giuridico, ai fini della normativa sulle distanze legali, il muro di fabbrica che assolve in modo permanente e definitivo anche alla funzione di contenimento del terrapieno creato dall'opera dell'uomo, o che questa abbia pure soltanto accentuato rispetto a quello già esistente per la natura dei luoghi. Basta, dunque, che l'andamento altimetrico del piano di campagna -originariamente livellato sul confine tra due fondi- sia stato artificialmente modificato per opera dell'uomo (come accertato nella specie dai giudici del merito) a far ritenere che il muro di cinta abbia la funzione di contenere il terrapieno creato "ex novo" con l'apporto di terra e pietrame, e vada, per l'effetto, equiparato a un muro di fabbrica, come tale assoggettato al rispetto delle distanze legali tra costruzioni (tra le tante, Cass. Sez. 2, 13/05/2013, n. 11388; Cass. Sez. 2, 04/06/2010, n. 13628; Cass. Sez. 2, 10/01/2006, n. 145; Cass. Sez. 2, 24/06/2003, n. 9998; Cass. Sez. 2, 15/06/2001, n. 8144; Cass. Sez. 2, 21/05/1997, n. 4511; Cass. Sez. 2, 11/07/1995, n. 7594; Cass. Sez. 2, 14/02/1994, n. 1467; Cass. Sez. 2, 06/05/1987, n. 4196; si veda anche Cass. Sez. 2, 24/11/2015, n. 23934).”
D’altronde anche la giurisprudenza amministrativa fa propria la nozione di costruzione elaborata dalla corte di cassazione, avendo affermato che “anche ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali tra edifici, la nozione di costruzione deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazioni dell'opera” (Consiglio di Stato sez. IV, 02/03/2018, n. 1309).
Inoltre, alla stregua della prevalente giurisprudenza amministrativa, i muri di contenimento di terrapieni artificiali sono qualificati opere di nuova costruzione, necessitanti, pertanto, di permesso di costruire (cfr. Consiglio di Stato sez. VI, 09/07/2018, n. 4169: “Si deve qualificare l'intervento edilizio quale nuova costruzione quante volte abbia l'effettiva idoneità di determinare significative trasformazioni urbanistiche e edilizie. Sulla base di tale approccio, la realizzazione di muri di cinta di modesti corpo e altezza è generalmente assoggettabile al solo regime della denuncia di inizio di attività. Per converso, il muro di contenimento che crei un nuovo dislivello o aumenti quello esistente costituisce una nuova costruzione, soggetta al rilascio del permesso di costruire, allorquando, avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area relativa, lo stesso sia tale da modificare l'assetto urbanistico del territorio, così rientrando nel novero degli interventi di “nuova costruzione”. Quest'ultimo concetto è infatti comprensivo di qualunque manufatto autonomo ovvero modificativo di altro preesistente, che sia stabilmente infisso al suolo o ai muri di quello preesistente, ma comunque capace di trasformare in modo durevole l'area coperta, ovvero ancora le opere di qualsiasi genere con cui si operi nel suolo e sul suolo, se idonee a modificare lo stato dei luoghi.”).
Il Consiglio di Stato, infatti, afferma che “anche ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali tra edifici, la nozione di costruzione deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazioni dell'opera” (Consiglio di Stato sez. IV, 02/03/2018, n. 1309).
Il Collegio ritiene che la nozione di costruzione e di muro di cinta rilevante ai fini della disciplina delle distanze legali tra edifici sia utilizzabile anche ai fini dell’art. 9 D.M. 1444/1968, nonostante testualmente esso si riferisca alle distanze tra muri finestrati e “pareti di edifici antistanti”, tenuto conto della comune funzione della prescritta disciplina di impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario (Cons. Stato Sez. V, Sent., (ud. 20/05/2019) 11.09.2019, n. 6136: “l'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, ricadenti, come nella fattispecie, in zona diversa dalla zona A, va rispettato in modo assoluto, trattandosi di norma finalizzata non alla tutela della riservatezza, bensì a impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile (Cass. civ., II, 26.01.2001, n. 1108; Cons. Stato, V, 19.10.1999, n. 1565; Cass. civ., II, ordinanza 03.10.2018, n. 24076).
Conseguentemente, la disposizione va applicata indipendentemente dall'altezza degli edifici antistanti e dall'andamento parallelo delle loro pareti, purché sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento (Cass., n. 24076/2017, cit.).
Indi, le distanze fra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale e astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia per equo contemperamento degli opposti interessi (Cass. civ., II, 16.08.1993, n. 8725). La prescrizione di distanza in questione è assoluta e inderogabile (Cass. civ., II, 07.06.1993, n. 6360; 09.05.1987, n. 428
”, ma cfr. anche Cons. Stato, sez. IV, 04.09.2013, n. 4451, Cons. Stato Sez. IV 12.06.2009 n. 3094).
Essendo, almeno in parte, comune alle due discipline la finalità igienico-sanitaria (che si somma a quella di assicurare un ordinato assetto del territorio comunale propria delle disposizioni del D.M. 1444/1968), anche gli elementi costruttivi ai quali la suddetta disciplina deve applicarsi non possono che essere interpretati in modo uniforme.
Per tale ragione, all’orientamento del Consiglio di Stato richiamato dalla parte controinteressata (Consiglio di Stato n. 3510/2015) il Collegio ritiene preferibile l’orientamento tradizionale alla stregua del quale l’art. 9 D.M. 1444/1968 è applicabile a qualunque manufatto avente “i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene (cfr. ad es. Consiglio di Stato, Sez. V, 19.03.1996, n. 268, Tar Liguria 1406 cit.) e che, proprio in considerazione della possibilità di dar vita a intercapedini contrarie alla finalità della norma, ... anche i muri di contenimento (cfr. ex multis Cass. civ. 15391/2012 e 15972/2011 e Consiglio di Stato 7731/2010, Consiglio di Stato sez. IV, 02/03/2018, n. 1309) che producano un dislivello o aumentano quello già esistente per la natura dei luoghi, costituiscono nuove costruzioni idonee ad incidere sull'osservanza delle norme in tema di distanza dal confine" (TAR Genova, (Liguria) sez. I, 13/12/2016, (ud. 30/11/2016, dep. 13/12/2016), n. 1231).
Appare, pertanto, rilevante, nella specie, la verifica della natura artificiale o naturale del dislivello esistente tra i fondi. Tale verifica non è stata compiuta dall’amministrazione, atteso che negli elaborati grafici il muro non è stato riportato.
Il motivo deve ritenersi, pertanto, fondato nei limiti del denunciato vizio di eccesso di potere per difetto di istruttoria ed erroneità del presupposto. Dovrà, pertanto, l’amministrazione verificare la reale natura del terrapieno al fine di valutare il rispetto dell’art. 9 D.M. 1444/1968 (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 22.01.2020 n. 67 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per quanto riguarda i controlli che competono all’amministrazione, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, in sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio sussiste l’obbligo per il Comune di verificare il rispetto da parte dell’istante dei limiti privatistici, a condizione che tali limiti siano effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili e/o non contestati, di modo che il controllo da parte dell’Ente locale si traduca in una semplice presa d’atto dei limiti medesimi senza necessità di procedere ad un’accurata e approfondita disanima dei rapporti civilistici, sicché l’amministrazione normalmente non è tenuta a svolgere indagini particolari in presenza di una richiesta edificatoria, salvo che sia manifestamente riconoscibile l’effettiva insussistenza della piena disponibilità del bene oggetto dell’intervento edificatorio in relazione al tipo di intervento richiesto;
L’accertamento demandato all’Ente locale va compiuto con “serietà e rigore”, e “la più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, superando l'indirizzo più risalente, è oggi allineata nel senso che l'Amministrazione, quando venga a conoscenza dell'esistenza di contestazioni sul diritto del richiedente il titolo abilitativo, debba compiere le necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza delle contestazioni, senza però sostituirsi a valutazioni squisitamente civilistiche (che appartengono alla competenza dell’A.G.O.), arrestandosi dal procedere solo se il richiedente non sia in grado di fornire elementi prima facie attendibili”.
---------------

2. Con riferimento al primo motivo occorre precisare che, per quanto riguarda i controlli che competono all’amministrazione, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa (da ultimo TAR Lombardia, Milano, II, 23/12/2019 n. 2728; TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, 21.01.2019 n. 70), in sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio sussiste l’obbligo per il Comune di verificare il rispetto da parte dell’istante dei limiti privatistici, a condizione che tali limiti siano effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili e/o non contestati, di modo che il controllo da parte dell’Ente locale si traduca in una semplice presa d’atto dei limiti medesimi senza necessità di procedere ad un’accurata e approfondita disanima dei rapporti civilistici, sicché l’amministrazione normalmente non è tenuta a svolgere indagini particolari in presenza di una richiesta edificatoria, salvo che sia manifestamente riconoscibile l’effettiva insussistenza della piena disponibilità del bene oggetto dell’intervento edificatorio in relazione al tipo di intervento richiesto (Consiglio di Stato, sez. VI – 05/04/2018 n. 2121); l’accertamento demandato all’Ente locale va compiuto con “serietà e rigore”, e “la più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, superando l'indirizzo più risalente, è oggi allineata nel senso che l'Amministrazione, quando venga a conoscenza dell'esistenza di contestazioni sul diritto del richiedente il titolo abilitativo, debba compiere le necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza delle contestazioni, senza però sostituirsi a valutazioni squisitamente civilistiche (che appartengono alla competenza dell’A.G.O.), arrestandosi dal procedere solo se il richiedente non sia in grado di fornire elementi prima facie attendibili” (Consiglio di Stato, sez. IV – 20/04/2018 n. 2397).
Nel caso di specie nessuna contestazione in merito alla legittimità dei lavori ed alla legittimazione attiva della società controinteressata è stata mai sollevata dai ricorrenti prima del ricorso, con la conseguenza che deve escludersi che il Comune dovesse effettuare ulteriori indagini.
A ciò si aggiunge che gli atti notarili forniti dalla controinteressata costituivano elementi prima facie attendibili in merito alla legittimazione a chiedere il permesso in sanatoria (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.01.2020 n. 117 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
).

EDILIZIA PRIVATA: Calcolo della distanza tra fabbricati.
Come chiarito dalla giurisprudenza, la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9, D.M. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati rispetto ai quali si denuncia la violazione delle distanze e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
---------------
I montanti di una tettoia/pergolato rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze trattandosi di elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili).
---------------

3. Anche il secondo motivo è infondato.
In merito, assorbite le questioni relative alla qualificazione della tettoia/pergolato come costruzione, deve ritenersi che i ricorrenti non abbiano dato sufficiente prova delle violazione delle distanze.
Come chiarito dalla giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.11.2013 n. 5557) la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9, D.M. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati rispetto ai quali si denuncia la violazione delle distanze e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
E’ chiaro quindi che occorre considerare come punto di riferimento, secondo quanto correttamente affermato dal Comune, la linea esterna della parete ideale della tettoia/pergolato (interna al terrazzo) e non il limite esterno del terrazzo stesso, trattandosi di verificare le distanze dalla tettoia/pergolato e non dal terrazzo.
Né a tal fine possono valere i montanti della tettoia/pergolato in quanto essi rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, trattandosi di elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili) (in tal senso Corte di Cassazione, Sez. II civile, 19.01.2018 n. 1365).
Va poi considerato che, se è pur vero che il processo amministrativo secondo il tradizionale modello impugnatorio è retto, dal punto di vista istruttorio, dal principio dispositivo con metodo acquisitivo, ciò non può essere inteso nel senso che la parte ricorrente, la quale si dolga di un atto dell’Autorità, possa limitarsi alla mera contestazione dei presupposti di fatto e di diritto sui quali si è radicata l’azione amministrativa e attendere che sia il giudice ad acquisire il materiale probatorio necessario al giudizio, dovendo essa, invece, offrire –a sostegno della pretesa azionata in giudizio– adeguati riscontri probatori quantomeno rispetto agli elementi dei quali ha una disponibilità pressoché piena (v., tra le altre, TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 02/07/2018 n. 4375).
Spettava dunque ai ricorrenti fornire elementi di prova univoci circa l’effettiva violazione della distanza di dieci metri, per essere in realtà la doglianza non assistita da dati obiettivi idonei a superare la contestazione delle controparti, proprio sotto il profilo della misurazione puntuale del distacco tra i manufatti in esame.
E analoga carenza probatoria si riscontra anche con riferimento alla questione della volumetria residua che il lotto può esprimere. Infatti si adduce genericamente un difetto di istruttoria, quando invece sarebbe stato necessario allegare quanto meno un principio di prova circa l’ipotizzata violazione dei relativi parametri di zona (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.01.2020 n. 117 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
).

EDILIZIA PRIVATALa pergotenda è una struttura destinata a rendere meglio vivibili gli spazi esterni delle unità abitative (terrazzi o giardini) ed è volta a soddisfare esigenze non precarie; non si connota, pertanto, per la temporaneità della sua utilizzazione, ma costituisce un elemento di migliore fruizione dello spazio esterno, stabile e duraturo.
Essa “è qualificabile come mero arredo esterno quando è di modeste dimensioni, non modifica la destinazione d'uso degli spazi esterni ed è facilmente ed immediatamente rimovibile, con la conseguenza che la sua installazione si va ad inscrivere all'interno della categoria delle attività di edilizia libera e non necessita quindi di alcun permesso”.
In particolare, la giurisprudenza amministrativa, “con riferimento a strutture tipo “gazebo”, ne ha ritenuto l’inquadramento nel regime pertinenziale e di manutenzione straordinaria solo con riferimento a manufatti di modeste dimensioni e consistenza, aventi funzioni di riparo dagli agenti atmosferici, costituenti semplici arredi, mentre ha escluso i manufatti che, per le apprezzabili dimensioni strutturali, per l'impatto visivo, il non trascurabile "carico urbanistico", la loro conformazione e destinazione all'attività imprenditoriale, la rilevante alterazione della sagoma esterna dell'immobile, implicano una incidenza significativa sull'assetto urbanistico ed una consistente trasformazione del tessuto edilizio”.
Per configurare una pergotenda, in quanto tale non necessitante di titolo abilitativo, pur non essendo destinata a soddisfare esigenze precarie, occorre che l’opera principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole o dagli agenti atmosferici, mentre la struttura deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della tenda; non è invece configurabile una pergotenda se la struttura principale è solida e permanente e, soprattutto, tale da determinare una evidente variazione di sagoma e di prospetto dell'edificio.
Va altresì esclusa la connotazione di pergotenda quando la copertura e/o la chiusura perimetrale presentino elementi di fissità, stabilità e permanenza, anche per una limitata porzione; in tal caso, pur non potendosi parlare di organismo edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o superficie, il titolo edilizio deve ritenersi comunque necessario.
---------------

2.1. La pergotenda è una struttura destinata a rendere meglio vivibili gli spazi esterni delle unità abitative (terrazzi o giardini) ed è volta a soddisfare esigenze non precarie; non si connota, pertanto, per la temporaneità della sua utilizzazione, ma costituisce un elemento di migliore fruizione dello spazio esterno, stabile e duraturo (Cons. Stato, sez. VI, 25.01.2017, n. 306 e 27.04.2016, n. 1619).
Essa “è qualificabile come mero arredo esterno quando è di modeste dimensioni, non modifica la destinazione d'uso degli spazi esterni ed è facilmente ed immediatamente rimovibile, con la conseguenza che la sua installazione si va ad inscrivere all'interno della categoria delle attività di edilizia libera e non necessita quindi di alcun permesso” (Consiglio di Stato, sez. VI, 11.04.2014, n. 1777).
In particolare, la giurisprudenza amministrativa, “con riferimento a strutture tipo “gazebo”, ne ha ritenuto l’inquadramento nel regime pertinenziale e di manutenzione straordinaria solo con riferimento a manufatti di modeste dimensioni e consistenza, aventi funzioni di riparo dagli agenti atmosferici, costituenti semplici arredi, mentre ha escluso i manufatti che, per le apprezzabili dimensioni strutturali, per l'impatto visivo, il non trascurabile "carico urbanistico", la loro conformazione e destinazione all'attività imprenditoriale, la rilevante alterazione della sagoma esterna dell'immobile, implicano una incidenza significativa sull'assetto urbanistico ed una consistente trasformazione del tessuto edilizio” (Cons Stato, sez. IV, 01.07.2019, n. 4472).
Per configurare una pergotenda, in quanto tale non necessitante di titolo abilitativo, pur non essendo destinata a soddisfare esigenze precarie, occorre che l’opera principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole o dagli agenti atmosferici, mentre la struttura deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della tenda; non è invece configurabile una pergotenda se la struttura principale è solida e permanente e, soprattutto, tale da determinare una evidente variazione di sagoma e di prospetto dell'edificio (Cons. Stato, sez. IV, 01.07.2019, n. 4472; Cons. Stato, sez. VI, 05.10.2018, n. 5737).
Va altresì esclusa la connotazione di pergotenda quando la copertura e/o la chiusura perimetrale presentino elementi di fissità, stabilità e permanenza, anche per una limitata porzione; in tal caso, pur non potendosi parlare di organismo edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o superficie, il titolo edilizio deve ritenersi comunque necessario (TAR Lombardia Brescia, sez. II, 02.07.2018, n. 646).
2.2. Ciò premesso in termini generali, nella fattispecie, ad avviso del Collegio, l’opera realizzata, come si evince già dalla documentazione fotografica agli atti, non rientra propriamente nella nozione di pergotenda (pur essendo la stessa caratterizzata dalla presenza di tende retrattili in materiale PVC); essa, infatti, ha una consistenza (per dimensioni e per struttura) ben più rilevante di una mera tenda, incidendo sul prospetto e sulla sagoma dell’edificio cui è agganciata, risulta ancorata stabilmente al suolo e, nella parte più alta, addirittura integrata all’adiacente locale (di conseguenza non qualificabile come di facile rimovibilità), è destinata ad uso di somministrazione di alimenti e bevande dell’attività commerciale esercitata nel medesimo locale (attività della quale, come correttamente evidenziato dal Comune nell’atto impugnato, costituisce un ampliamento) e non, quindi, a semplice ornamento o riparo dagli agenti atmosferici.
Peraltro, essa presenta degli elementi di fissità nelle tamponature laterali della parte superiore (come si può verificare dalle fotografie che ritraggono la struttura con le tende aperte) e non è del tutto separata o facilmente separabile dall’edificio cui accede.
Tali caratteristiche escludono che possa parlarsi di un manufatto rientrante tra quelli realizzabili in regime di edilizia libera
(TAR Marche, sentenza 20.01.2020 n. 46 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICA: “Col decorso del termine (di dieci anni, per il piano di lottizzazione), diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con le prescrizioni del piano attuativo (anche sugli allineamenti), che per questa parte ha efficacia ultrattiva.
In altri termini, l'art. 17 della legge n. 1150 del 1942 si ispira al principio secondo cui, mentre le previsioni del piano regolatore rientrano in una prospettiva dinamica della utilizzazione dei suoli (e determinano ciò che è consentito e ciò che è vietato nel territorio comunale sotto il profilo urbanistico ed edilizio, con la devoluzione al piano attuativo delle determinazioni sulle specifiche conformazioni delle proprietà), le previsioni dello strumento attuativo hanno carattere di tendenziale stabilità (perché specificano in dettaglio le consentite modifiche del territorio, in una prospettiva in cui l'attuazione del piano esecutivo esaurisce la fase della pianificazione, determina l'assetto definitivo della parte del territorio in considerazione e inserisce gli edifici in un contesto compiutamente definito).
In considerazione della stabilità delle previsioni del piano attuativo, va affermato dunque il principio per il quale le prescrizioni urbanistiche di un piano attuativo rilevano a tempo indeterminato, anche dopo la sua scadenza…. L'imposizione del termine suddetto, infatti, va inteso nel senso che le attività dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico, sia convenzionale che autoritativo, non possono essere attuate ai sensi di legge oltre un certo termine, scaduto il quale l'autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione.
Con la conseguenza che, se, e fino a quando, tale potere non viene esercitato, l'assetto urbanistico dell'area rimane definito nei termini di cui alla convenzione di lottizzazione” o degli altri strumenti attuativi.

---------------

3.1. La giurisprudenza del Consiglio di Stato, in tema di ultrattività dei piani attuativi dopo la scadenza, si è soffermata sul significato del principio generale contenuto nell’art. 17, primo comma, della legge n. 1150 del 1942, a mente del quale, “decorso il termine stabilito per l'esecuzione del piano particolareggiato, questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l'obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso”.
In particolare, per quel che qui interessa, la norma va intesa nel senso che “col decorso del termine (di dieci anni, per il piano di lottizzazione), diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con le prescrizioni del piano attuativo (anche sugli allineamenti), che per questa parte ha efficacia ultrattiva.
In altri termini, l'art. 17 della legge n. 1150 del 1942 si ispira al principio secondo cui, mentre le previsioni del piano regolatore rientrano in una prospettiva dinamica della utilizzazione dei suoli (e determinano ciò che è consentito e ciò che è vietato nel territorio comunale sotto il profilo urbanistico ed edilizio, con la devoluzione al piano attuativo delle determinazioni sulle specifiche conformazioni delle proprietà), le previsioni dello strumento attuativo hanno carattere di tendenziale stabilità (perché specificano in dettaglio le consentite modifiche del territorio, in una prospettiva in cui l'attuazione del piano esecutivo esaurisce la fase della pianificazione, determina l'assetto definitivo della parte del territorio in considerazione e inserisce gli edifici in un contesto compiutamente definito).
In considerazione della stabilità delle previsioni del piano attuativo, va affermato dunque il principio per il quale le prescrizioni urbanistiche di un piano attuativo rilevano a tempo indeterminato, anche dopo la sua scadenza…. L'imposizione del termine suddetto, infatti, va inteso nel senso che le attività dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico, sia convenzionale che autoritativo, non possono essere attuate ai sensi di legge oltre un certo termine, scaduto il quale l'autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione.
Con la conseguenza che, se, e fino a quando, tale potere non viene esercitato, l'assetto urbanistico dell'area rimane definito nei termini di cui alla convenzione di lottizzazione
” o degli altri strumenti attuativi (cfr. Cons. Stato, sez. V, 30.04.2009, n. 2768, richiamata da Cons. Stato, sez. IV, 22.01.2019, n. 563)
(TAR Marche, sentenza 20.01.2020 n. 46 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ESPROPRIAZIONEPer la Plenaria, nelle ipotesi dell’art. 42-bis TUEs, l’illecito della p.a. viene meno nei casi da esso previsti e non è ravvisabile la rinuncia abdicativa.
Secondo l’Adunanza plenaria per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis del d.P.R. 08.06.2001, n. 327, recante il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità, l’illecito permanente dell’amministrazione viene meno nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva, mentre la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata.
---------------
Espropriazione per pubblico interesse – Acquisizione sanante – Rinuncia abdicativa – Esclusione
Per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis TUEs., l’illecito permanente dell’Autorità viene meno nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva e la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata. (1)
---------------
   (1) I. – Con la sentenza in rassegna (analogamente alla n. 3 resa in pari data), l’Adunanza plenaria ha ritenuto che, per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001, l’illecito permanente dell’amministrazione viene meno nei casi da esso previsti (acquisizione o restituzione del bene), salva la conclusione di un contratto traslativo di natura transattiva tra le parti, e non può essere ravvisata la rinuncia abdicativa.
   II. – Nel caso esaminato dal collegio, l’appellante aveva proposto ricorso al Tar deducendo che il decreto ministeriale, in base al quale erano stati approvati i lavori di costruzione di un’opera pubblica e fissati i termini per la realizzazione dei lavori e l’emanazione dei decreti di esproprio, era stato annullato con sentenza del Consiglio di Stato.
Rappresentava, quindi, che, nel frattempo, l’opera pubblica era stata integralmente realizzata e il terreno di sua proprietà era irreversibilmente trasformato in assenza di un decreto di esproprio. Chiedeva la condanna dell’amministrazione resistente al risarcimento del danno derivante dalla illecita e illegittima apprensione del bene, essendo impossibile la sua restituzione. Il Tar per la Puglia, Lecce, con sentenza 25.09.2007, n. 3373, ravvisando un’ipotesi di occupazione acquisitiva, ha accolto l’eccezione, sollevata dall’amministrazione, di prescrizione del diritto del ricorrente al risarcimento del danno da occupazione acquisitiva, ritenendo decorso il termine quinquennale previsto dall’art. 2947 c.c. tra la data in cui l’occupazione d’urgenza sarebbe divenuta illegittima e la data di notifica del ricorso di primo grado.
La parte ricorrente proponeva appello contestando la prescrizione del diritto e deducendo che avrebbe perso il diritto di proprietà sul bene interessato dall’occupazione, con contestuale acquisizione a titolo originario della proprietà del suolo in capo alla p.a. Con sentenza parziale e contestuale ordinanza del 30.07.2019, n. 5391 (richiamata nella News US n. 104 del 25.09.2019, alla quale si rinvia per ulteriori approfondimenti, ma sulla quale si veda infra § h), il Consiglio di Stato, dopo aver ritenuto che il Tar avesse erroneamente accolto l’eccezione di prescrizione e aver individuato le ulteriori statuizioni da emanare per definire la controversia (ordine all’amministrazione che utilizza il bene pubblico di emanare un provvedimento che disponga l’acquisizione del bene al suo patrimonio indisponibile o, in alternativa, la sua restituzione), ha rimesso all’Adunanza plenaria due questioni giuridiche pregiudiziali alla decisione dell’appello: se la domanda risarcitoria vada qualificata come dichiarazione di rinuncia abdicativa del bene in questione; se, in caso affermativo, una tale rinuncia abbia giuridica rilevanza.
   III. – La plenaria ha osservato quanto segue:
      a) la questione di diritto sottoposta al suo esame riguarda esclusivamente la configurabilità, nella materia della espropriazione, della rinuncia abdicativa quale atto implicito e implicato nella proposizione, da parte di un privato illegittimamente espropriato, della domanda di risarcimento del danno per equivalente monetario derivante dall’illecito permanente, costituito dall’occupazione di un suolo da parte della p.a., a fronte dell’irreversibile trasformazione del suolo;
      b) la questione non riguarda, invece, l’ammissibilità in generale dell’istituto della rinuncia abdicativa nell’ordinamento giuridico:
         b1) la rinuncia abdicativa è un negozio giuridico unilaterale, non recettizio, con il quale il rinunciato dismette una situazione giuridica di cui è titolare, senza che ciò comporti il trasferimento del diritto in capo ad altro soggetto, né l’automatica estinzione del diritto;
         b2) gli ulteriori effetti, estintivi o modificativi del rapporto, che possono incidere sui terzi, sono conseguenze riflesse del negozio rinunziativo, non direttamente collegabili all’intento negoziale e non correlate al contenuto causale dell’atto;
         b3) la rinuncia abdicativa si differenzia dalla rinuncia traslativa proprio in considerazione della mancanza del carattere traslativo-derivativo dell’acquisto e per la mancanza di natura contrattuale, con la conseguenza che l’effetto in capo al terzo si produce ipso iure, a prescindere dalla volontà del rinunciante, quale effetto di legge;
         b4) per il suo perfezionamento non è quindi richiesto l’intervento o l’espressa accettazione del terzo, né che lo stesso ne sia a conoscenza;
      c) la tesi della ammissibilità della rinuncia abdicativa nella materia espropriativa è stata sostenuta sia dalla giurisprudenza amministrativa che da quella civile di legittimità, si fonda su vari argomenti e presenta effetti positivi per il privato sul piano pratico in quanto:
         c1) valorizza il principio di concentrazione della tutela ricavabile dall’art. 111 Cost., quale corollario del principio di ragionevole durata del processo, che sarebbe pregiudicato dalla sua segmentazione in una fase amministrativistica relativa al giudizio sulla legittimità degli atti espropriativi e in una fase civilistica per la determinazione del quantum da corrispondere al soggetto espropriato;
         c2) offre maggiori garanzie di compensare integralmente il privato per il bene perduto, in quanto l’utilità deve essere a questo corrisposta a titolo di risarcimento del danno e non a titolo di indennizzo;
         c3) poiché il risarcimento del danno è connesso alla proposizione della domanda da parte del privato in giudizio, che implica rinuncia abdicativa, è da tale momento che si verifica un debito di valore, con tutte le implicazioni in tema di interessi legali e rivalutazione;
      d) la tesi della rinuncia abdicativa in materia espropriativa non appare, tuttavia, condivisibile per diverse ragioni;
      e) in primo luogo, non spiega esaurientemente la vicenda traslativa in capo all’autorità espropriante:
         e1) se l’atto abdicativo è astrattamente idoneo a determinare la perdita della proprietà privata, non è altrettanto idoneo a determinare l’acquisto della proprietà in capo all’ente espropriante;
         e2) nel diritto privato è discusso se l’art. 827 c.c., in base al quale gli immobili che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato, possa essere la base legale di una dichiarazione di rinuncia del proprietario di un diritto reale immobiliare, a parte i casi previsti dalla legge.
In ogni caso, tale acquisto, a titolo originario e non derivativo, si realizzerebbe in capo allo Stato e non in capo all’autorità espropriante, che sarebbe del tutto esclusa dalla vicenda giuridica pur avendone costituito la causa efficiente tramite l’illecita apprensione del bene del privato. “La spiegazione dell’effetto traslativo, pertanto, sarebbe del tutto eccentrica rispetto al rapporto amministrativo che viene innescato dall’Amministrazione espropriante, rendendo evidente l’artificiosità della soluzione teorica proposta”;
         e3) l’effetto traslativo non può essere recuperato attraverso l’ordine di trascrizione della sentenza di condanna al risarcimento del danno (e, quindi, della sua rinuncia abdicativa implicita a favore dell’amministrazione espropriante), in quanto le vicende della trascrizione si pongono solo sul piano dell’opponibilità verso terzi degli atti giuridici dispositivi di diritti reali, ma non disciplinano la validità e l’efficacia giuridica degli stessi. Pertanto, se l’atto non è idoneo a determinare il passaggio del bene in capo all’amministrazione espropriante non potrà essere trascrivibile e l’ordine del giudice contenuto nella sentenza non potrebbe avere adeguata base legale;
      f) in secondo luogo, la rinuncia viene ricostruita quale atto implicito senza averne le caratteristiche essenziali, in quanto:
         f1) la rinuncia abdicativa, se riferita al ricorso giurisdizionale, non viene effettuata dalla parte, né personalmente, né attraverso un soggetto dotato di idonea procura;
         f2) nel diritto amministrativo è ammessa la sussistenza del provvedimento implicito quando l’amministrazione, pur non adottando formalmente un provvedimento, ne determina univocamente i contenuti sostanziali, o attraverso un comportamento conseguente, ovvero determinandosi in una direzione, anche con riferimento a fasi istruttorie coerentemente svolte, a cui non può essere ricondotto altro volere che quello equivalente al contenuto del provvedimento formale corrispondente, congiungendosi tra loro i due elementi di una manifestazione chiara di volontà dell’organo competente e della possibilità di desumere in modo non equivoco una specifica volontà provvedimentale, nel senso che l’atto implicito deve essere l’unica conseguenza possibile della presunta manifestazione di volontà.
Nella dogmatica degli atti impliciti nel diritto amministrativo emerge la sussistenza di un atto formale, perfetto e validamente emanato che contiene per implicito un’ulteriore volontà provvedimentale, oltre a quella espressa nel testo del provvedimento medesimo.
In questa ricostruzione non si riscontrano violazioni del principio di legalità dell’azione amministrativa perché la volontà amministrativa esiste ed è contenuta in un atto avente tutte le caratteristiche previste dalla legge per conferirle validità, con la peculiarità che detta volontà è ricavabile da una interpretazione non meramente letterale dell’atto. Nel caso di specie, la rinuncia abdicativa è totalmente estranea alla teorica degli atti impliciti che riguarda solo gli atti amministrativi e non quelli del privato;
         f3) non sembra possibile utilizzare lo stesso paradigma dei provvedimenti amministrativi impliciti per ricondurre la volontà di chiedere il risarcimento del danno alla volontà di abdicare alla proprietà privata.
Sul piano sostanziale non sembra che da una domanda risarcitoria sia possibile univocamente desumere la rinuncia del privato al diritto sul bene. Sul piano formale la domanda di risarcimento del danno contenuta nel ricorso giurisdizionale amministrativo è una domanda redatta e sottoscritta dal difensore e non dalla parte proprietaria del bene che ne ha la disponibilità e che è l’unico soggetto avente la legittimazione ad abdicarvi.
D’altro canto, nel mandato difensivo della parte al proprio difensore non può rinvenirsi una procura a rinunciare alla proprietà del bene;
     g) in terzo luogo, in senso decisivo e assorbente, la ricostruzione della rinuncia abdicativa non è provvista di base legale in ambito espropriativo, dove il rispetto del principio di legalità è richiamato con forza a vari livelli;
         g1) ai sensi dell’art. 42, commi 2 e 3, Cost. la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i modi di acquisto e può essere, nei casi previsti dalla legge e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale. La rinuncia abdicativa non costituisce uno dei casi previsti dalla legge;
         g2) l’istituto sembra inoltre presentare gli stessi problemi e dubbi interpretativi che avevano caratterizzato l’occupazione acquisitiva, di cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha evidenziato la contrarietà alla convenzione europea. In particolare, la c.d. occupazione appropriativa o acquisitiva, istituto di origine pretoria, determinava l’acquisizione della proprietà del fondo a favore della pubblica amministrazione per accessione invertita in caso di irreversibile trasformazione dell’area.
L’istituto risulta peraltro privo di base legale ed è stato pertanto ritenuto illegittimo dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, con la conseguenza che, attualmente, il mero fatto dell’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica non costituisce titolo di acquisto del diritto, non determina il trasferimento della proprietà e non fa venire meno l’obbligo dell’amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso;
         g3) nel delineato contesto il legislatore nazionale è intervenuto per regolare la fattispecie in esame, fornendo una base legale, sistematica e coerente, dapprima con l’art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001 e, quindi, dopo la dichiarazione di incostituzionalità della disposizione per eccesso di delega, con l’art. 42-bis, il quale, tra l’altro: prevede che l’autorità che utilizza sine titulo un bene immobile per scopi di interesse pubblico, dopo aver valutato,
con un procedimento d’ufficio, gli interessi in conflitto, adotta un provvedimento conclusivo del procedimento con cui sceglie se acquisire il bene o restituirlo, al fine di adeguare la situazione di diritto a quella di fatto; comporta che, nel caso di occupazione sine titulo, l’Autorità commette un illecito di carattere permanente; esclude che il giudice possa decidere la sorte del bene nel giudizio di cognizione instaurato dal proprietario; non può che escludere che la ‘sorte’ del bene sia decisa dal proprietario e che l’Autorità acquisti coattivamente il bene, solo perché il proprietario dichiari di averlo perso o di volerlo perdere, o di volere il controvalore del bene;
         g4) “l’art. 42-bis ha, quindi, definito in maniera esaustiva la disciplina della fattispecie, con una normativa autosufficiente, rispetto alla quale non trovano spazio elaborazioni giurisprudenziali che, se forse giustificate in assenza di una base legale, non si giustificano più una volta che intervenga un’esplicita disciplina normativa, ritenuta conforme al diritto europeo e alla Costituzione, che viene a costituire la base legale espressa della fattispecie in questione”.
La disposizione non obbliga l’amministrazione ad acquisire il bene, ma impone che la stessa eserciti il potere di valutare se apprendere il bene definitivamente o restituirlo al soggetto privato, secondo una concezione di doverosità delle funzioni amministrative che discende dai principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione;
         g5) pertanto, per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis, una rigorosa applicazione del principio di legalità richiede una base legale certa perché si determini l’effetto dell’acquisto della proprietà in capo all’espropriante;
         g6) nessuna norma attribuisce al soggetto espropriato, pur a fronte dell’illegittimità del titolo espropriativo, un diritto, sostanzialmente potestativo, di determinare il trasferimento della proprietà all’amministrazione espropriante, previa corresponsione del risarcimento del danno. Al contrario, è stato introdotto nell’ordinamento giuridico un istituto che attribuisce all’amministrazione una funzione autoritativa in forza della quale essa può scegliere tra restituzione e acquisizione del bene nel rispetto dei requisiti sostanziali e secondo le modalità ivi previste;
         g7) inoltre, poiché la disposizione in esame prevede che il titolo di acquisto sia un atto espressione di scelta dell’autorità, alcun rilievo può essere attribuito a tal fine a un atto diverso, ossia al successivo atto di liquidazione del danno, peraltro emanato in esecuzione di una sentenza; “né dall’art. 42-bis né da altra norma può ricavarsi l’attribuzione dell’effetto giuridico di rinuncia abdicativa alla fattispecie complessa derivante dalla coesistenza della sentenza di condanna e dell’atto di liquidazione del danno”;
      h) pertanto, con riferimento alle scelte del privato e dell’amministrazione:
         h1) nel caso in cui l’amministrazione non adotti l’atto discrezionale, il privato potrà esperire gli ordinari rimedi di tutela, compreso quello restitutorio, non residuando alcuno spazio per giustificare la perdurante inerzia dell’amministrazione;
         h2) la scelta tra acquisizione e restituzione va effettuata dall’amministrazione (o dal commissario ad acta nominato dal giudice amministrativo, all’esito del giudizio di cognizione o del giudizio di ottemperanza ai sensi dell’art. 34 o dell’art. 114 c.p.a.). In sede di giurisdizione di legittimità, né il giudice amministrativo né il proprietario possono sostituire le proprie valutazioni a quelle attribuite alla competenza e alla responsabilità dell’autorità individuata dalla norma.
Il giudice amministrativo, in caso di inerzia dell’amministrazione e di ricorso avverso il silenzio ai sensi dell’art. 117 c.p.a., può nominare il commissario ad acta che provvederà a esercitare i poteri previsti dalla disposizione o nel senso della acquisizione o nel senso della restituzione del bene illegittimamente espropriato;
         h3) qualora sia invocata la sola tutela risarcitoria o restitutoria prevista dal codice civile, senza richiamare l’art. 42-bis, il giudice deve pronunciarsi tenuto conto del quadro normativo delineato e del carattere doveroso della funzione attribuita dalla disposizione in esame all’amministrazione. Non sarebbe, quindi, ammissibile una richiesta solo risarcitoria in quanto essa si porrebbe al di fuori dello schema legale tipico previsto dalla legge per disciplinare la materia ponendosi anzi in contrasto con lo stesso, anche se il giudice potrà, ove ne ricorrano i presupposti, accogliere la domanda.
La domanda risarcitoria consiste essenzialmente nell’accertamento della illegittimità degli atti della procedura espropriativa e nella scelta del rimedio previsto dalla legge. Nel caso di espropriazione senza titolo valido, la legge speciale prevede che il trasferimento del bene non avvenga, per carenza di titolo, e il bene vada restituito al privato. La restituzione può essere impedita dall’amministrazione, la quale è tenuta, nell’esercizio di una funzione doverosa, a valutare se procedere alla restituzione del bene, previa riduzione in pristino, o all’acquisizione del bene nel rispetto di tutti i presupposti declinati dall’art. 42-bis e con la corresponsione di un’indennità pari al valore del bene maggiorato del 10 per cento;
         h4) in ogni caso il diritto processuale amministrativo offre un adeguato strumentario per evitare, nel corso del giudizio, che le domande proposte in primo grado, congruenti con quello che allora appariva il vigente quadro normativo e l’orientamento giurisprudenziale di riferimento siano di ostacolo alla formulazione di istanze adeguate al diverso contesto normativo e giurisprudenziale vigente al momento della decisione, quali la conversione della domanda, la rimessione in termini per errore scusabile, l’invito alla precisazione della domanda in relazione al definito quadro giurisprudenziale, in tutti i casi previa sottoposizione della relativa questione processuale, in ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3, c.p.a., a garanzia del diritto di difesa di tutte le parti processuali.
   IV. – Per completezza si segnala quanto segue: i) con riferimento al rapporto tra rinuncia abdicativa e art. 42-bis:
        i1) Cons. Stato, Ad. plen., 20.01.2020, n. 4 (oggetto di coeva News US) ha pronunciato il seguente principio di diritto “Per le fattispecie rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 la rinuncia abdicativa del proprietario del bene occupato sine titulo dalla pubblica amministrazione, anche a non voler considerare i profili attinenti alla forma, non costituisce causa di cessazione dell’illecito permanente dell’occupazione senza titolo”, restituendo per il resto gli atti alla sezione rimettente ai sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a.;
         i2) le questioni esaminate dalle citate decisioni dell’Adunanza plenaria sono state oggetto di tre rimessioni: Cons. Stato, sez. IV, 30.07.2019, n. 5400 (oggetto della citata News US n. 104 del 25.09.2019, alla quale si rinvia specie con riferimento ai precedenti giurisprudenziali sul tema, § t), con riferimento alla sentenza n. 4 del 2020), nonché le nn. 5399 (sulla quale è intervenuta la citata sentenza n. 3 del 2020 dell’Adunanza plenaria) e 5391 (sulla quale è intervenuta la decisione in commento n. 2 del 2020) emesse in pari data, che hanno deferito all’Adunanza plenaria le seguenti questioni:
a) se per le fattispecie sottoposte all’esame del giudice amministrativo e disciplinate dall’art. 42-bis del testo unico sugli espropri, l’illecito permanente dell’Autorità viene meno solo nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva;
b) se, pertanto, la ‘rinuncia abdicativa’, salve le questioni concernenti le controversie all’esame del giudice civile, non può essere ravvisata quando sia applicabile l’art. 42-bis;
c) se, ove sia invocata la sola tutela restitutoria e/o risarcitoria prevista dal codice civile e non sia richiamato l’art. 42-bis, il giudice amministrativo può qualificare l’azione come proposta avverso il silenzio dell’Autorità inerte in relazione all’esercizio dei poteri ex art. 42-bis;
d) se, in tale ipotesi, il giudice amministrativo può conseguentemente fornire tutela all’interesse legittimo del ricorrente applicando la disciplina di cui all’art. 42-bis e, eventualmente, nominando un Commissario ad acta già in sede di cognizione;
e) se, nella specie, l’atto di acquisizione emesso da Roma Capitale in data 23.11.2018 vada considerato giuridicamente rilevante (ciò che dovrebbe ammettersi, qualora si dovesse ritenere che l’Amministrazione solo con l’emanazione dell’atto di data 23.11.2018 ha fatto venire meno l’illecito permanente conseguente alla occupazione sine titulo)
”;
      j) sempre con riferimento all’art. 42-bis, Cons. Stato, sez. IV, ordinanza 15.07.2019, n. 4950 (oggetto della News US n. 100 del 10.09.2019, alla quale si rinvia per ulteriori approfondimenti, specie con riferimento al tema dell’overruling processuale, § q)), ha deferito all’Adunanza plenaria le seguenti questioni: “a) se il giudicato civile, sull’obbligo di restituire un’area al proprietario da parte dell’Amministrazione occupante sine titulo, precluda o meno l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù di passaggio, col mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare; b) se la formazione del giudicato interno -sulla statuizione del TAR per cui il giudicato civile consente l’attivazione di un ordinario procedimento espropriativo– imponga nella specie di affermare che sussiste anche il potere dell’Amministrazione di imporre la servitù di passaggio ex art. 42-bis, comma 6; c) se la preclusione del ‘giudicato restitutorio’ sussista anche quando la sentenza (nella specie, del giudice civile) non abbia espressamente precluso l’esercizio dei poteri previsti dall’art. 42-bis per adeguare lo stato di fatto a quello di diritto; d) se la preclusione del ‘giudicato restitutorio’ sussista solo in relazione ai giudicati formatisi dopo la pubblicazione della sentenza della Adunanza Plenaria n. 2 del 2016, ovvero anche in relazione ai giudicati formatisi in precedenza”.
In particolare, con la citata ordinanza, il collegio ha deferito all’Adunanza plenaria alcune questioni relative alla interpretazione dell’art. 42-bis del TUEs, con particolare riferimento alla possibilità di adottare un decreto di acquisizione sanante per la costituzione, in favore di un Comune, di una servitù pubblica di passaggio per l’accesso ad un parco pubblico, in presenza di un giudicato civile di restituzione del terreno, conseguente non ad una procedura espropriativa illegittima ma alla declaratoria di nullità di un contratto di compravendita con immissione immediata nel possesso in favore del Comune resistente dinanzi al Tar;
      k) di recente, Cass. civ., sez. un., 12.11.2019, n. 29466, secondo un percorso logico antitetico a quello intrapreso dalla Plenaria in commento, ha dato per assodato: l’esistenza dell’istituto della rinuncia abdicativa sia per occupazione usurpativa che acquisitiva; l’eccezionalità dello strumento previsto dall’art. 42-bis; l’inapplicabilità in ambito espropriativo degli artt. 2058 e 2033 c.c.; che il giudicato sul risarcimento del danno, anche per equivalente monetario, blocca l’emanazione del provvedimento previsto dall’art. 42-bis ispirato a una logica indennitaria; la necessità di una motivazione rafforzata per giustificare l’adozione di una delle scelte di cui all’art. 42-bis da parte dell’amministrazione; l’applicabilità dell’art. 21-octies al provvedimento ex art. 42-bis. La Corte ha, in particolare, ritenuto che:
        k1) il provvedimento di acquisizione sanante, disciplinato dall’art. 42-bis, “costituisce l'esercizio di uno speciale, autonomo ed eccezionale potere espropriativo, che è innestato su un precedente procedimento espropriativo irrimediabilmente viziato o, comunque, fondato su titolo astrattamente annullabile sub judíce, e che è teso a sostituire il regolare procedimento ablativo, in quanto contiene uno actu sia la dichiarazione di pubblica utilità, sia il decreto di esproprio”;
         k2) “nel caso in esame, a differenza che in quelli oggetto di tale orientamento, il giudicato attiene bensì all'illegittimità della condotta della parte pubblica, ma non comprende alcuna statuizione di risarcimento del danno per equivalente, statuizione che presuppone, pur sempre, una rinuncia -espressa o implicita nella richiesta risarcitoria- al diritto dominicale da parte del proprietario”;
      l) sul carattere permanente dell’illecito dell’amministrazione in caso di utilizzo sine titulo di un bene immobile per scopi di interesse pubblico, si veda tra le altre: Cons. Stato, Ad. plen., 09.02.2016, n. 2 (in Foro it., 2016, III, 185; Corr. giur., 2016, 4, 498, con nota di CARBONE; Giur. it., 2016, 5, 1212, con nota di URBANI), secondo cui “in linea generale, quale che sia la sua forma di manifestazione (vie di fatto, occupazione usurpativa, occupazione acquisitiva), la condotta illecita dell'amministrazione incidente sul diritto di proprietà non può comportare l'acquisizione del fondo e configura un illecito permanente ex art. 2043 c.c., con decorrenza del termine di prescrizione quinquennale dalla proposizione della domanda basata sull'occupazione contra ius, ovvero, dalle singole annualità per quella basata sul mancato godimento del bene. Tale illecito viene a cessare solo in conseguenza:
a) della restituzione del fondo;
b) di un accordo transattivo;
c) della rinunzia abdicativa da parte del proprietario implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte dell'irreversibile trasformazione del fondo;
d) di una compiuta usucapione, ma solo a condizione che: - sia effettivamente configurabile il carattere non violento della condotta; - si possa individuare il momento esatto della interversio possesionis; - si faccia decorrere la prescrizione acquisitiva dalla data di entrata in vigore del D.P.R. n. 327/2001 (30.06.2003), per evitare che sotto mentite spoglie (alleviare gli oneri finanziari altrimenti gravanti sull'Amministrazione responsabile), si reintroduca una forma surrettizia di espropriazione indiretta in violazione dell'art. 1 del Protocollo addizionale della Cedu;
e) di un provvedimento emanato ex art. 42-bis del D.P.R. n. 327/2001
”;
      m) sulla teoria dell’atto implicito nel diritto amministrativo, si veda, tra le altre, Cons. Stato, sez. VI, 27.11.2014, n. 5887 (in Quotidiano giuridico, 2014) secondo cui “deve ammettersi, seppure in via restrittiva, la sussistenza di un provvedimento implicito, quando l'Amministrazione pur non adottando formalmente un provvedimento, ne determina univocamente i contenuti sostanziali, o attraverso un comportamento conseguente, ovvero determinandosi in una direzione, anche con riferimento a fasi istruttorie coerentemente svolte, a cui non può essere ricondotto altro volere che quello equivalente al contenuto del provvedimento formale corrispondente. Si congiungono, infatti, i due elementi di una manifestazione chiara di volontà dell'organo competente e della possibilità di desumerne in modo non equivoco una specifica volontà provvedimentale nel senso che l'atto implicito deve essere l'unica conseguenza possibile della presunta manifestazione di volontà”;
      n) la rassegna monotematica di giurisprudenza, sia civile che amministrativa, a cura dell’Ufficio Studi, massimario e formazione dal titolo “L’occupazione abusiva di immobili da parte della pubblica amministrazione” (aggiornata al 02.09.2019, cui si rinvia per ogni approfondimento anche di dottrina); ivi si mette in luce la maggiore efficienza economica sottesa alla scelta del privato di rinunciare alla proprietà del bene occupato nonché l’abbattimento del contenzioso invece incrementato dalla attivazione del procedimento di cui all’art. 42-bis (che potrà essere contestato innanzi al G.A. per i profili di legittimità e davanti alla Corte d’appello per tutti i profili indennitari), specie se emanato a seguito di un giudicato che accerti il silenzio-inadempimento dell’Amministrazione sulla istanza del privato rivolta all’amministrazione; è evidente che a fronte della possibilità, offerta dall’istituto della rinuncia abdicativa, di definire in un unico giudizio innanzi al giudice amministrativo (per le occupazioni comunque collegate ad una dichiarazione di pubblica utilità) ovvero a quello civile (per le occupazioni ab origine sine titulo c.d. usurpative pure) l’intera vicenda contenziosa, il percorso procedimentale e processuale prescelto dalle Plenarie nn. 2, 3 e 4 dilata i tempi della definizione stabile dell’assetto dei contrapposti interessi (sul punto cfr. in particolare i paragrafi 11 e da 14 a 21 della Rassegna e la citata News US n. 100 del 10.09.2019 relativa a Cons. Stato, sez. IV, ordinanza 15.07.2019, n. 4950 sull’interpretazione dell’art. 42-bis del T.U. espropriazione in presenza di un giudicato restitutorio del g.o.);
      o) sui limiti alla conversione d’ufficio della domanda risarcitoria in azione contro il silenzio per l’adozione del provvedimento ex art. 42-bis, si vedano i principi in materia di conversione dell’azione di annullamento in azione risarcitoria affermati da Cons. Stato, Ad. plen., 13.04.2015, n. 4 (in Foro it., 2015, III, 265, con nota di TRAVI; Urbanistica e appalti, 2015, 917, con nota di MANGANARO, MAZZA LABOCCETTA; Giur. it., 2015, 1693, con nota di COMPORTI; Guida al dir., 2015, fasc. 20, 92, con nota di MASARACCHIA; Foro amm., 2015, 2206 (m), con nota di SILVESTRI; Corriere giur., 2015, 1596, con nota di SCOCA; Dir. proc. amm., 2016, 173, con nota di TURRONI), secondo cui posto che il processo amministrativo è soggetto al principio della domanda, il giudice amministrativo non può emettere d'ufficio una pronuncia di risarcimento del danno, in presenza di una domanda di annullamento della parte ricorrente; si veda altresì Cons. Stato, Ad. plen., 27.04.2015, n. 5 (in Foro it., 2015, III, 265, con nota di TRAVI; Urbanistica e appalti, 2015, 1177, con nota di VAIANO; Riv. neldiritto, 2015, 2084, con nota di COLASCILLA NARDUCCI; Riv. dir. proc., 2015, 1256, con nota di FANELLI; Giur. it., 2015, 2192, con nota di FOLLIERI; Dir. proc. amm., 2016, 205, con nota di PERFETTI, TROPEA; Dir. proc. amm., 2016, 830, con nota di BERTONAZZI);
      p) nel senso della improcedibilità della domanda di risarcimento del danno (per equivalente) o di restituzione, se sopravviene nel corso del giudizio il provvedimento ex art. 42-bis, è unanime la giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 25.05.2018, n. 3148; Cons. Stato, sez. IV, 09.05.2018, n. 2765; Cass. civ., sez. I, 31.05.2016, n. 11258; sul punto si rinvia al § 9 della citata rassegna monotematica);
      q) sulla immanenza del principio dispositivo che caratterizza la giurisdizione amministrativa di legittimità, dovendosi escludere per tale via suggestive ricostruzioni incentrate sull’indole oggettiva di tale giurisdizione, cfr. da ultimo Corte cost., 13.12.2019, n. 271 (oggetto della News US n. 2 dell’08.01.2020 cui si rinvia per ogni approfondimento sul punto) (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza 20.01.2020 n. 2 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATASulla presunta formazione del silenzio-assenso del richiesto permesso di costruire, secondo un granitico orientamento della giurisprudenza amministrativa, il provvedimento tacito non si può ritenere formato se mancano i presupposti per la realizzazione dell’intervento edilizio, in quanto l’eventuale inerzia della p.a. non può consentire al richiedente di ottenere un’utilità che gli sarebbe invece preclusa da un provvedimento espresso.
---------------

Considerato che:
   - con il ricorso in esame la società istante ha impugnato il provvedimento indicato in epigrafe –di cui ha chiesto l’annullamento, vinte le spese– con il quale il Comune di Agrigento ha respinto l’istanza di permesso di costruire presentata dalla predetta per la costruzione di un complesso commerciale polivalente, in via ..., in Agrigento, nel lotto individuato in catasto al foglio 165, particella 1318 del C.T.;
   - ha dedotto avverso tale atto le censure di:
1) Violazione e falsa applicazione dell’art. 20, comma 8, T.U. 06.06.2001 n. 380 e dell’art. 20, comma 3, della legge n. 241 del 1990;
2) Violazione degli artt. 17, 3° comma, e 18 della Legge n. 765/1967 (c.d. Legge Ponte, che ha integrato l’art. 41-quinques legge n. 1150/1942) – Violazione degli artt. 1, 5 e 7 del D.M. 02/04/1968 n. 1444 – Violazione e falsa applicazione delle norme Tecniche di Attuazione (N.T.A.) del vigente PRG di Agrigento - Falsa applicazione del principio giurisprudenziale sancito dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 2215/2019 – Difetto di motivazione;
   - con lo stesso mezzo ha chiesto il risarcimento del danno asseritamente subito a causa dell’illegittimità del provvedimento negativo, nonché per il ritardo nell’adozione del provvedimento finale;
   - si è costituito in giudizio il Comune di Agrigento, chiedendo il rigetto del ricorso, in quanto infondato; con replica di parte ricorrente;
   - alla camera di consiglio del giorno 13.01.2020, presenti i difensori delle parti come da verbale, il Presidente del Collegio ha dato avviso della possibilità di definizione del giudizio con sentenza in forma semplificata; la difesa di parte ricorrente ha insistito per l’accoglimento dell’istanza istruttoria e la causa è stata posta in decisione;
...
Ritenuto che il ricorso non è fondato;
Ritenuto in particolare che:
   - con riferimento al primo motivo, sulla presunta formazione del silenzio-assenso, secondo un granitico orientamento della giurisprudenza amministrativa, il provvedimento tacito non si può ritenere formato se mancano i presupposti per la realizzazione dell’intervento edilizio, in quanto l’eventuale inerzia della p.a. non può consentire al richiedente di ottenere un’utilità che gli sarebbe invece preclusa da un provvedimento espresso (Consiglio di Stato Sez. II, 29.07.2019, n. 5333; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 16.10.2019, n. 1743; 30.05.2019, n. 1106; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 02.07.2018, n. 1640; TAR Puglia, Bari, Sez. III, 12.05.2017, n. 492; TAR Campania, Napoli, 29.02.2016, n. 110; TAR Puglia, Lecce, 19.01.2015, n. 3342) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 17.01.2020 n. 133 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa e dovendosi considerare irrilevanti i frazionamenti delle proprietà private medio tempore intervenuti.
Al riguardo, risulta irrilevante la mancanza di un formale atto di asservimento del precedente fabbricato.

---------------

Considerato che:
   - con il ricorso in esame la società istante ha impugnato il provvedimento indicato in epigrafe –di cui ha chiesto l’annullamento, vinte le spese– con il quale il Comune di Agrigento ha respinto l’istanza di permesso di costruire presentata dalla predetta per la costruzione di un complesso commerciale polivalente, in via ..., in Agrigento, nel lotto individuato in catasto al foglio 165, particella 1318 del C.T.;
   - ha dedotto avverso tale atto le censure di:
1) Violazione e falsa applicazione dell’art. 20, comma 8, T.U. 06.06.2001 n. 380 e dell’art. 20, comma 3, della legge n. 241 del 1990;
2) Violazione degli artt. 17, 3° comma, e 18 della Legge n. 765/1967 (c.d. Legge Ponte, che ha integrato l’art. 41-quinques legge n. 1150/1942) – Violazione degli artt. 1, 5 e 7 del D.M. 02/04/1968 n. 1444 – Violazione e falsa applicazione delle norme Tecniche di Attuazione (N.T.A.) del vigente PRG di Agrigento - Falsa applicazione del principio giurisprudenziale sancito dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 2215/2019 – Difetto di motivazione;
   - con lo stesso mezzo ha chiesto il risarcimento del danno asseritamente subito a causa dell’illegittimità del provvedimento negativo, nonché per il ritardo nell’adozione del provvedimento finale;
   - si è costituito in giudizio il Comune di Agrigento, chiedendo il rigetto del ricorso, in quanto infondato; con replica di parte ricorrente;
   - alla camera di consiglio del giorno 13.01.2020, presenti i difensori delle parti come da verbale, il Presidente del Collegio ha dato avviso della possibilità di definizione del giudizio con sentenza in forma semplificata; la difesa di parte ricorrente ha insistito per l’accoglimento dell’istanza istruttoria e la causa è stata posta in decisione;
...
Ritenuto che il ricorso non è fondato;
...
   - con riguardo al secondo motivo, la motivazione del rigetto si pone in linea con il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui “…un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa e dovendosi considerare irrilevanti i frazionamenti delle proprietà private medio tempore intervenuti (v. Cons. Stato, Sez. III, parere 28.04.2009, n. 965/2009; Cons. Stato, IV, 29.01.2008, n. 255; Cons. Stato, Sez. V, 12.07.2004, n. 5039);…” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 26.01.2018, n. 545; nello stesso senso: Cons. Stato, VI, 03.04.2019, n. 2215; IV, 07.08.2017, n. 3949; 22.05.2012, n. 2941, che ritiene irrilevante la mancanza di un formale atto di asservimento del precedente fabbricato; Adunanza Plenaria n. 3/2009, citata da Consiglio di Stato n. 545/2018);
   - nel caso in esame, dalla documentazione in atti si evince che nell’area contraddistinta oggi come particella 1318 (foglio 165) –derivante dal frazionamento dell’originaria particella 29, lotto unico al momento della costruzione dell’albergo realizzatovi- è stato realizzato un parcheggio a servizio dell’albergo (v. licenza di costruzione n. 1029, in atti), per il quale, del resto, la ricorrente ha chiesto l’autorizzazione allo spostamento di tale vincolo all’interno della particella 29 (quale oggi risultante dal frazionamento successivo); e in tale area, nella quale è presente un cancello con strada interna che conduce all’albergo, vi insiste un boschetto e una piscina aperta al pubblico (v. osservazioni presentate dalla ricorrente al Comune; v. anche provvedimento impugnato);
   - il lotto originario è stato, pertanto, unitariamente utilizzato, con conseguente irrilevanza del successivo frazionamento del lotto; e non è contestato che, in base ai parametri edilizi vigenti, il volume della struttura esistente (l’albergo) non consentirebbe la realizzazione del volume dell’immobile oggetto dell’istanza (complesso commerciale polivalente);
   - la domanda di annullamento deve, pertanto, essere respinta (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 17.01.2020 n. 133 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Per la risarcibilità del danno da ritardo, secondo una giurisprudenza consolidata, oltre alla constatazione della violazione dei termini del procedimento, l’accertamento che l’inosservanza è imputabile a dolo o colpa dell’amministrazione medesima, che il danno è conseguenza diretta del ritardo, si richiede anche una valutazione sulla spettanza del bene della vita all’interessato, ossia che il risarcimento del danno da ritardo, relativo ad un interesse pretensivo, non sia avulso da una valutazione positiva sul titolo del privato al rilascio del provvedimento.
---------------

Ritenuto, quanto alla domanda risarcitoria, che:
   - dalla reiezione della domanda di annullamento consegue il rigetto della domanda di risarcimento del danno, attesa la ritenuta legittimità del diniego impugnato;
   - va, altresì, respinta la domanda di risarcimento del danno da ritardo, in ordine alla quale –in disparte il peculiare evolversi, in concreto, dell’iter amministrativo sull’istanza della ricorrente– va richiamato il consolidato orientamento, anche del Giudice di appello, secondo cui “…Per la risarcibilità del danno da ritardo, secondo una giurisprudenza consolidata, oltre alla constatazione della violazione dei termini del procedimento, l’accertamento che l’inosservanza è imputabile a dolo o colpa dell’amministrazione medesima, che il danno è conseguenza diretta del ritardo, si richiede anche una valutazione sulla spettanza del bene della vita all’interessato, ossia che il risarcimento del danno da ritardo, relativo ad un interesse pretensivo, non sia avulso da una valutazione positiva sul titolo del privato al rilascio del provvedimento (Cons. St. sez. IV, n. 4580/2016)…” (cfr. C.G.A., 10.09.2018, n. 490; v. anche Consiglio di Stato, Sez. V, 12.11.2018, n. 6342; TAR Sicilia, Sez. III, 16.10.2018, n. 2113) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 17.01.2020 n. 133 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuto di atti d'ufficio per il sindaco che non si occupa dello smaltimento dell'amianto.
Rifiuto di atti d'ufficio per il sindaco pro-tempore che non si attiva per far smaltire le lastre di eternit accatastate alla rinfusa sul terreno di un privato.

Lo ha confermato la Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 16.01.2020 n. 1657 in linea con i precedenti gradi di giudizio.
La vicenda si incardina sulla decisone della Corte d'appello di Milano che aveva ribadito la responsabilità, affermata in primo grado dal Tribunale di Pavia, in ordine al reato di rifiuto di atti d'ufficio (articolo 328 del codice penale) per il sindaco pro tempore di un Comune.
L'uomo, a fronte di reiterate denunce di organi pubblici nonché di privati cittadini, in un arco temporale di alcuni anni (maggio 2010-marzo 2014), aveva omesso di assumere qualunque iniziativa atta a imporre al proprietario dell'area lo smaltimento del materiale di amianto accatastato alla rinfusa e all'aperto su un terreno. Iniziativa, invece, immediatamente assunta dal sindaco a lui subentrato con un'ordinanza contingibile e urgente che aveva risolto il problema ed evitato il pericolo di contaminazione delle aree limitrofe.
Contro questa sentenza, il sindaco imputato ha proposto ricorso per cassazione. La Suprema corte ha confermato quanto deciso nei precedenti gradi di giudizio. Il reato di rifiuto, esplicito 0 implicito, di un atto d'ufficio, imposto da una delle ragioni espressamente indicate dalla legge (giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico, igiene e sanità), può manifestarsi come reato continuato quando -come si legge nella sentenza- «a fronte di formali sollecitazioni a agire rivolte al pubblico ufficiale e rimaste senta esito, la situazione potenzialmente pericolosa continui a esplicare i suoi effetti negativi e l'adozione dell'atto dovuto sia suscettibile di farla cessare».
La precisazione dei giudici è, poi, che nella fattispecie considerata, il reato si è consumato ogni volta che l'imputato ha rifiutato di intervenire a fronte di tutti i solleciti ricevuti che rendevano indifferibile l'adozione dell'atto d'ufficio (nella specie, un'ordinanza contingibile e urgente) imposto da esigenze di protezione sanitaria (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.01.2020).
---------------
MASSIMA
3. Possono ora essere esaminati congiuntamente il secondo, il terzo e parzialmente il quarto motivo di ricorso che, al di là dell'impropria individuazione dei bersagli oggetto di censura, investono tutti la questione centrale del presente giudizio e vale a dire la struttura dell'illecito penale contestato al ricorrente ai sensi dell'art. 328 cod. pen.
Dalla lettura coordinata della sentenza impugnata e degli atti delle parti private si ricava che a seguito del rigetto dell'iniziale richiesta di archiviazione e della imposizione coattiva di procedere ex art. 409, comma 5, cod. proc. pen., il PM ha configurato il delitto di cui all'art. 328 cod. pen. come reato permanente a partire dalla prima segnalazione dell'esistenza del problema sanitario (l'abbandono a cielo aperto di rifiuti contaminati da amianto in un'area privata) da parte del Corpo Forestale dello Stato nel maggio 2010 fino al marzo 2014, epoca in cui ancora una volta lo stesso Corpo segnalava la persistenza della situazione pericolosa.
Nella motivazione della sentenza impugnata, la Corte d'Appello dà conto di sei inviti formali rivolti al Sindaco, il primo il 21/05/2010 e l'ultimo il 21/03/2014 da parte di organi pubblici o da privati cittadini, tra cui la parte offesa Gi.Al. nonché lo stesso proprietario dell'area su cui era stata riscontrata la presenza dei rifiuti (Gu.Gi.), tutti rimasti senza effetto, tanto che la vicenda avrebbe trovato soluzione solo con l'insediamento del nuovo Sindaco che, non appena insediato, emanava ordinanza urgente, tra l'altro prontamente ottemperata dall'interessato, di provvedere allo smaltimento controllato dei rifiuti in questione.
Ciò premesso riguardo alla ricostruzione della fattispecie concreta, vanno svolte le seguenti considerazioni in diritto.
Risultano infondate le doglianze concernenti la presunta genericità ed imprecisione del capo d'imputazione nonché la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza.
Come anticipato, la mancata indicazione nel capo d'imputazione delle specifiche sollecitazioni a dispetto delle quali il ricorrente omise di adottare atti del suo ufficio non ha inciso affatto sul nucleo fondamentale dell'accusa, rappresentata per l'appunto dalla mancata adozione di provvedimenti al configurarsi di quella particolare situazione di fatto da cui scaturiva l'obbligo giuridico di agire.
La giurisprudenza di questa Corte di legittimità, infatti, ha più volte affermato il principio che il delitto di cui all'art. 328, comma 1, cod. pen. è integrato, ogni qualvolta si configuri una situazione di fatto che qualifichi l'atto omesso come dovuto (v. oltre per la giurisprudenza).
Risulta, inoltre, infondata anche la doglianza relativa alla mancata correlazione tra accusa e sentenza, dal momento che l'imputazione è rimasta anche formalmente inalterata e le specifiche occasioni prese in considerazione dalla Corte di merito per valutare la sussistenza dell'omissione penalmente rilevante (pag. 7 sent.) erano tutte a conoscenza dell'imputato fin dalla fase successiva all'articolazione formale dell'accusa e da cui ha potuto ampiamente difendersi.
E' noto, infatti, che una o meglio la ragione fondamentale che sostanzia il principio di cui all'art. 521 cod. proc. pen. è quella di consentire all'imputato il pieno dispiegarsi del suo diritto a difendersi, che sarebbe vanificato ove la condanna intervenisse per un fatto non contestato e su cui non si è instaurato contraddittorio nel corso del giudizio (ex pluribus v. Sez. 2, sent. n. 11459 del 10/03/2015, Tribuzio, Rv. 263306; Sez. 3, sent. n. 15655 del 27/02/2008, Fontanesi, Rv. 239866; Sez. 6, sent. n. 34879 del 10/01/2007, Sartori e altri, Rv. 237415).
Come parimenti anticipato,
il tema che viene veramente in rilievo riguarda la struttura del reato di cui all'art. 328, comma 1 cod. pen. di rifiuto di atti d'ufficio.
La giurisprudenza di questa Corte di Cassazione è ferma nel ritenerlo reato a consumazione istantanea (Sez. 6, sent. n. 43903 del 13/07/2018, Mango, Rv. 274574; Sez. 6, sent. n. 27044 del 19/02/2008, Mascia, Rv. 240979; Sez. 6, sent. n. 35837 del 26/04/2007, Civisca, Rv. 237706; Sez. 6, sent. n. 12238 del 27/01/2004, PG in proc. Bruno ed altri, Rv. 228277), che può, tuttavia, palesarsi sotto forma di rifiuto implicito ovvero di persistente inerzia omissiva (Sez. 6, sent. n. 47531 del 20/11/2012, Cambria, Rv. 254039; Sez. 6, n. 10051 del 20/11/2012, dep. 2013, Nolè, Rv. 255717; Sez. 6, sent. n. 7766 del 09/12/2002, dep. 2003, PM in proc. Masi, Rv. 223955) a fronte di un'urgenza sostanziale (Sez. 4, sent. n. 17069 del 16/02/2012, Ranasinghe Arachchige Samudri e altri, Rv. 253067) o di una situazione che qualifichi l'atto omesso come dovuto (Sez. 6, n. 33857/2014 cit.; Sez. 6, n. 13519 del 29/01/2009, Gardali e altri, Rv. 243684).
Non v'è dubbio, tuttavia, che l'affermazione dell'eguale rilevanza penalistica della persistente inerzia omissiva rispetto al rifiuto formale può suscitare incertezze interpretative circa la struttura dell'illecito penale, con la possibilità per taluni di consideralo reato eventualmente permanente, atteso che solo la relativamente recente Sez. 6 sent. n. 43903/2018 cit. ha espressamente stabilito che esso rimane istantaneo anche ove si palesi sotto forma di inerzia omissiva.
Questa è verosimilmente una delle ragioni che ha indotto il Pubblico Ministero, a fronte dell'ordine di formulazione coattiva dell'imputazione da parte del GIP, a contestare il reato come permanente, ferma restando, però, la primaria esigenza di fotografare con l'imputazione la peculiare fattispecie emersa dalle indagini.
Tanto premesso,
il Collegio non intende discostarsi dalla concezione e dalla affermazione giurisprudenziale tradizionali che quello di cui all'art. 328, comma 1, cod. pen. costituisce reato di natura istantanea, ma deve confrontarsi con la fattispecie in esame che ha visto il pubblico ufficiale reiteratamente e formalmente sollecitato ad adottare un atto del proprio ufficio, da intendersi come atto dovuto per le più volte segnalate esigenze di tutela sanitaria.
Pur essendovi, dunque, la possibilità di rifarsi a specifici precedenti giurisprudenziali circa la configurabilità del reato in caso di mancata adozione da parte del Sindaco di atti del suo ufficio in situazioni <potenzialmente pregiudizievoli per l'igiene e la salute pubblica> (Sez. 6, sent. n. 12147 del 12/02/2009, Sodano, Rv. 242937; Sez. 6, n. 13519/2009, Gardali e altri cit.), sembra opportuno affermare con nettezza che
nella fattispecie considerata il reato si è consumato ogni volta che l'imputato ha rifiutato di intervenire a fronte di formali sollecitazioni prospettanti la sussistenza di quella particolare situazione concreta (la presenza di rifiuti di amianto accatastati a cielo aperto in prossimità di abitazioni limitrofe) che rendeva indifferibile l'adozione dell'atto d'ufficio (nella specie: ordinanza contingibile e urgente) imposto dalle più volte ricordate esigenze di protezione sanitaria.
Conclusivamente
il reato istantaneo di rifiuto, esplicito o implicito, di un atto dell'ufficio, imposto da una delle ragioni espressamente indicate dalla legge (giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico, igiene e sanità), può manifestarsi come reato continuato (concorso materiale omogeneo) quando, a fronte di formali sollecitazioni ad agire rivolti al pubblico ufficiale rimaste senza esito, la situazione potenzialmente pericolosa continui ad esplicare i suoi effetti negativi e l'adozione dell'atto dovuto sia suscettibile di farla cessare.
Alla luce delle precedenti considerazioni, deve escludersi che la Corte territoriale abbia ravvisato la sussistenza di una pluralità di reati, limitandosi unicamente a precisare le modalità di manifestazione del reato.
La qualificazione come reato continuato comporterebbe a rigore, ai sensi dello art. 158, comma 1, cod. pen., la necessità di dichiararne la prescrizione in relazione alle condotte omissive manifestatesi prima del 12/05/2012 (termine di prescrizione massima: la data odierna del 12/11/2019) e concretamente al rifiuto implicito maturato dopo la prima segnalazione dell'abbandono all'aperto delle lastre di eternit da parte del Corpo Forestale dello Stato del 21/05/2010, ma l'irrogazione della pena minima di quattro mesi di reclusione rende priva di effetto sul piano sanzionatorio tale pur doverosa precisazione.

URBANISTICAIl rapporto di vicinitas, ossia di stabile collegamento con l'area interessata dall'intervento contestato, è idoneo a fondare tanto la legittimazione (ossia la titolarità di una posizione giuridica qualificata e differenziata rispetto a quella di quisque de populo) quanto l'interesse a ricorrere (ossia la sussistenza di una lesione concreta e attuale alla detta situazione giuridica per effetto del provvedimento amministrativo impugnato), solo nella ipotesi di impugnazione di titoli edilizi, mentre nel caso di impugnazione di strumenti urbanistici, anche particolareggiati, o di loro varianti, il semplice rapporto di vicinitas vale al più a dimostrare la sussistenza di una generica legittimazione ma non è, invece, sufficiente a fondare anche l'interesse a ricorrere, occorrendo l'allegazione e la prova della insorgenza di uno specifico e concreto pregiudizio a carico dei suoli in proprietà della parte ricorrente per effetto degli atti di pianificazione che siano impugnati, dai quali, per definizione, quei suoli non sono incisi direttamente.
---------------

Preliminarmente occorre esaminare le eccezioni processuali formulate dalla Provincia autonoma e dalla controinteressato G.A.. Le parti eccepiscono l’inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione ed interesse ad agire, non avendo l’istante dimostrato –al di là del rapporto della vicinitas– di patire uno specifico e concreto pregiudizio dagli atti impugnati.
...
L’eccezione è fondata.
Il ricorrente prospetta di essere leso dalla modifica PUC in quanto la zona individuata quale nuova zona produttiva D2 è soggetta a frequenti inondazioni e –come riportato a pag. 5 del ricorso- “per ridurre la propria esposizione al pericolo, chi costruisce nella zona produttiva dovrebbe alzare il livello del proprio terreno scaricando il rischio suoi terreni circostanti fra cui quello dell’odierno ricorrente”.
Secondo costante giurisprudenza il rapporto di vicinitas, ossia di stabile collegamento con l'area interessata dall'intervento contestato, è idoneo a fondare tanto la legittimazione (ossia la titolarità di una posizione giuridica qualificata e differenziata rispetto a quella di quisque de populo) quanto l'interesse a ricorrere (ossia la sussistenza di una lesione concreta e attuale alla detta situazione giuridica per effetto del provvedimento amministrativo impugnato), solo nella ipotesi di impugnazione di titoli edilizi, mentre nel caso di impugnazione di strumenti urbanistici, anche particolareggiati, o di loro varianti, il semplice rapporto di vicinitas vale al più a dimostrare la sussistenza di una generica legittimazione ma non è, invece, sufficiente a fondare anche l'interesse a ricorrere, occorrendo l'allegazione e la prova della insorgenza di uno specifico e concreto pregiudizio a carico dei suoli in proprietà della parte ricorrente per effetto degli atti di pianificazione che siano impugnati, dai quali, per definizione, quei suoli non sono incisi direttamente (Cons. Stato n. 6938/2019) (TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 16.01.2020 n. 16 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il cambio della destinazione d'uso (con opere) da chiesa sconsacrata ad immobile direzionale-bancario sostanzia un intervento di ristrutturazione edilizia.
In via generale <<ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), T.U. Edilizia, le opere di ristrutturazione edilizia necessitano di permesso di costruire se consistenti in interventi che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche del volume, dei prospetti ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso (ristrutturazione edilizia), anche se di dimensioni modeste. In via residuale, la SCIA assiste, invece, i restanti interventi di ristrutturazione c.d. leggera (compresi gli interventi di demolizione e ricostruzione che non rispettino la sagoma dell'edificio preesistente)>>.
Più precisamente, <<gli interventi edilizi che alterino l'originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l'inserimento di nuovi impianti o la modifica e ridistribuzione dei volumi, non possono configurarsi né come manutenzione straordinaria né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano nell'ambito della ristrutturazione edilizia. Non può essere ascritto, pertanto, al restauro o risanamento conservativo un intervento edilizio implicante un incremento di superficie o un mutamento di sagome o di destinazione d'uso che devono essere, in ogni caso, preceduti dall'acquisizione del relativo titolo edilizio, ravvisabile nel c.d. permesso di costruire>>.
In questo stesso senso, <<per la normativa edilizia [art. 3 comma 1, lettere a) e c) del T.U. n. 380 del 2001, in combinato disposto con l'art. 10, comma 1, lett. c) e con l'art. 23-ter del medesimo T.U.], le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qualvolta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome>>.
---------------
La modificazione della destinazione d'uso e la trasformazione di una chiesa sconsacrata in una banca, con l'esecuzione di lavori edilizi, necessita del permesso di costruire poiché trattasi non di restauro o risanamento conservativo ma di ristrutturazione edilizia.
---------------

In via generale <<ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), T.U. Edilizia, le opere di ristrutturazione edilizia necessitano di permesso di costruire se consistenti in interventi che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche del volume, dei prospetti ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso (ristrutturazione edilizia), anche se di dimensioni modeste. In via residuale, la SCIA assiste, invece, i restanti interventi di ristrutturazione c.d. leggera (compresi gli interventi di demolizione e ricostruzione che non rispettino la sagoma dell'edificio preesistente)>> (TAR Campania, sez. IV, 05/02/2019, n. 6209).
Più precisamente, <<gli interventi edilizi che alterino l'originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l'inserimento di nuovi impianti o la modifica e ridistribuzione dei volumi, non possono configurarsi né come manutenzione straordinaria né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano nell'ambito della ristrutturazione edilizia. Non può essere ascritto, pertanto, al restauro o risanamento conservativo un intervento edilizio implicante un incremento di superficie o un mutamento di sagome o di destinazione d'uso che devono essere, in ogni caso, preceduti dall'acquisizione del relativo titolo edilizio, ravvisabile nel c.d. permesso di costruire>> (TAR Campania, sez. III, 03/04/2018, n. 2141).
In questo stesso senso, <<per la normativa edilizia [art. 3 comma 1, lettere a) e c) del T.U. n. 380 del 2001, in combinato disposto con l'art. 10, comma 1, lett. c) e con l'art. 23-ter del medesimo T.U.], le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qualvolta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome>> (TAR Lazio, sez. II, 04/04/2017, n. 4225).
Applicando i principi giurisprudenziali predetti alla fattispecie in esame, quindi, l’intervento edilizio per il quale è causa rientra certamente tra le ipotesi di cui all’art. 10, comma 1, lett. c), trattandosi di modificazione di destinazione dell’immobile sito in zona A (centro storico di Verona), attuata mediante opere che, per vero, non possono nemmeno qualificarsi “minime”, non essendo tali né la realizzazione di un servizio igienico per disabili prima inesistente, né l’installazione degli impianti, opere queste assolutamente necessarie per consentire l’utile modificazione della destinazione dell’immobile che in tal modo è venuto ad assumere una “struttura funzionale” del tutto diversa, determinando, peraltro, come si dirà più avanti, un evidente aumento del carico urbanistico.
Con riferimento, in particolare, alla modificazione della destinazione d’uso, nel caso di specie tale presupposto di fatto è evidente se solo si considera che l’immobile in esame era un edificio di culto e che solo in seguito alla “sconsacrazione” è divenuto suscettibile di diverso utilizzo: si tratta di un caso estremo di passaggio di categoria funzionale, ricorrendo l’ipotesi di un edificio che, prima della sconsacrazione, aveva una funzione “pubblica”, quale luogo di culto, divenuto, ora, sede di un’attività privata con funzione direzionale-bancaria.
Ulteriore argomento ostativo alla qualificazione dell’opera in termini di “restauro conservativo” come asserito in giudizio da parte ricorrente è dato dal fatto che solo a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 65-bis, d.l. n. 50 del 2017, convertito in l. 21.06.2017, n. 96, l’art. 3, comma 1, lettera c), d.p.r. 06.06.2001, n. 380, è stato modificato nel senso che all’espressione <<ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili>> è stata sostituita quella secondo la quale <<ne consentano anche il mutamento delle destinazioni d'uso purché con tali elementi compatibili, nonché conformi a quelle previste dallo strumento urbanistico generale e dai relativi piani attuativi>>.
In tal senso, solo con la predetta modifica legislativa è possibile porsi il problema se il mutamento di destinazione d’uso con opere non integri un’ipotesi di ristrutturazione edilizia ex art. 10, comma 1, lett. c), laddove siano rispettati i presupposti indicati dalla norma così “novellata” (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 15.01.2020 n. 40 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opere di scavo in area vincolata – Sbancamento e livellamento del terreno per uso non agricolo – Autorizzazione paesaggistica – Permesso di costruire – Necessità – Art. 181 d.lgs. n. 42/2004 – Artt. 3, 10 44, D.P.R. n. 380/2001.
In tema di reati urbanistici, le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidono sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio.
Così come per la realizzazione di una stradina di accesso al fondo, è del pari evidente la necessità del permesso di costruire, essendo la costruzione di reti viarie, sia pur in terra battuta, riconducibile agli interventi di urbanizzazione (art. 3, comma 1, lett. e.2, T.U.E.) ovvero infrastrutturali che comportano la trasformazione in via permanente di suolo inedificato (art. 3, comma 1, lett. e.3, T.U.E.), come pure si è ritenuto nel caso di interventi finalizzati a realizzare un piazzale mediante apporto di terreno e materiale inerte e successivo sbancamento e livellamento del terreno, in quanto tale attività determina una modificazione permanente dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio.
Del resto, il permesso di costruire (come pure l’autorizzazione paesaggistica, se si tratti di area vincolata) è necessario anche nel caso di mera modificazione o allargamento di una strada preesistente
(Cass. Sez. 3, n. 26193 del 28/03/2019, Vullo).

...
Interventi in zone protette e/o vincolate – Titoli abilitativi – Autonomia dei profili paesaggistici ed ambientali da quelli urbanistici – Interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata – Individuazione – Evidente insignificante impatto paesaggistico – D.P.R. n. 31/2017 – Art. 149 d.lgs. n. 42/2004.
Le previsioni contenute nel d.P.R. 13.02.2017, n. 31 (“Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata”), avendo natura regolamentare rispetto alle disposizione di legge di cui al d.lgs. 42/2004, individuano, tra l’altro, interventi che non richiedono la necessità dell’autorizzazione paesaggistica, o per loro riconducibilità alle tre categorie delineate dall’art. 149 d.lgs. 42/2004, ovvero perché, già in astratto, ne è evidente l’insignificante impatto paesaggistico.
Tenendo, comunque, presente che la realizzazione di interventi in zone protette e/o vincolate deve di regola essere sottoposta al preventivo rilascio di distinti provvedimenti, ciascuno dei quali segue regole proprie, vale a dire il permesso di costruire (o altro titolo edilizio) disciplinato dal T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 e l’autorizzazione paesaggistica di cui al d.lgs. 22.01.2004 n. 42 (eventualmente, se ne ricorrano le condizioni, il nulla osta dell’ente parco, di cui alla L. 06.12.1991 n. 394), stante l’autonomia dei profili paesaggistici ed ambientali da quelli urbanistici
(Corte di Cassazione, Sez. III poenale, sentenza 14.01.2020 n. 1053 - link a www.ambientediritto.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO L'azione ex art. 53, comma 7, d.lgs. n. 165 del 2001 promossa dal Procuratore della Corte dei Conti nei confronti di dipendente della P.A., che abbia omesso di versare alla propria Amministrazione i corrispettivi percepiti nello svolgimento di un incarico non autorizzato, rimane attratta alla giurisdizione del giudice contabile, anche se la percezione dei compensi si è avuta in epoca precedente all'introduzione del comma 7-bis del medesimo art. 53, giacché tale norma non ha portata innovativa, vertendosi in ipotesi di responsabilità erariale, che il legislatore ha tipizzato non solo nella condotta ma altresì annettendo valenza sanzionatoria alla predeterminazione legale del danno, al fine di tutelare la compatibilità dell'incarico extraistituzionale in termini di conflitto di interesse, dovendo privilegiarsi il proficuo svolgimento di quello principale e l'adeguata destinazione di energie lavorative al rapporto pubblico.
L'obbligo di versamento ex art. 53, comma 7, d.lgs. n. 165 del 2001 si configura dunque come una particolare sanzione ex lege, volta a rafforzare la fedeltà del pubblico dipendente. E la giurisdizione contabile è ravvisabile solo se alla violazione del dovere di fedeltà o all'omesso versamento della somma pari al compenso indebitamente percepito dal dipendente si accompagnino specifici profili di danno.
Altresì,
allorquando non sia la P.A. ad agire per il recupero dei compensi erogati al dipendente pubblico per incarichi espletati in assenza di autorizzazione e per fatti antecedenti alla introduzione del comma 7-bis dell'art. 53 ma l'azione nei confronti di soggetto legato alla P.A. da un rapporto d'impiego o di servizio venga promossa dal Procuratore contabile, questa trova giustificazione nella violazione del dovere di chiedere l'autorizzazione allo svolgimento degli incarichi extralavorativi e del conseguente obbligo di riversare all'Amministrazione i compensi ricevuti, trattandosi di prescrizioni -come detto- volte a garantire il corretto e proficuo svolgimento delle mansioni attraverso il previo controllo dell'Amministrazione sulla possibilità per il dipendente d'impegnarsi in un'ulteriore attività senza pregiudizio dei compiti d'istituto.
Ed ancora,
la disposizione di cui all'art. 53, comma 7-bis, d.lgs. n. 165 del 2001 (introdotta dalla L. n. 190 del 2012) non riveste carattere innovativo ma si pone in rapporto di continuità con l'orientamento giurisprudenziale in precedenza venuto a delinearsi, essendosi dal legislatore attribuita natura di fonte legale alla precedente regola di diritto effettivo di fonte giurisprudenziale.
A tale stregua,
l'azione di responsabilità erariale non interferisce con l'eventuale azione di responsabilità amministrativa della P.A. contro il soggetto tenuto alla retribuzione, l'azione ex art. 53, comma 7, d.lgs. n. 165 del 2001 ponendosi rispetto ad essa in termini di indefettibile alternatività.
Non si è d'altro canto mancato di sottolineare che
laddove la P.A. di appartenenza del dipendente percipiente il compenso in difetto di autorizzazione non si attivi (anche) in via giudiziale per far valere l'inadempimento degli obblighi del rapporto di lavoro, e il Procuratore contabile abbia viceversa promosso azione di responsabilità contabile in relazione alla tipizzata fattispecie legale ex art. 53, commi 7 e 7-bis, d.lgs. n. 165 del 2001, alla detta P.A. rimane precluso promuovere la detta azione, essendo da escludere
-stante il divieto del bis in idem- una duplicità di azioni attivate contestualmente che, seppure con la specificità di ciascuna di esse propria, siano volte a conseguire, avanti al giudice munito di giurisdizione, lo stesso identico petitum (predeterminato dal legislatore) in danno del medesimo soggetto obbligato in base ad un'unica fonte (quella legale), e cioè i compensi indebitamente percepiti in difetto di autorizzazione allo svolgimento dell'incarico che li ha determinati e non riversati, al fine di effettivamente destinarli al bilancio dell'Amministrazione di appartenenza del pubblico dipendente.
---------------
Il motivo è infondato.
Come queste Sezioni Unite hanno già avuto modo di porre in rilievo, all'esito della pronunzia Cass., Sez. Un., n. 19072 del 2016 si è consolidato il principio in base al quale la controversia avente ad oggetto la domanda della P.A. volta a ottenere dal proprio dipendente il versamento dei corrispettivi percepiti nello svolgimento di un incarico non autorizzato appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario anche dopo l'inserimento, nell'art. 53 d.lgs. n. 165 del 2001, del comma 7-bis ad opera dell'art. 1, comma 42, lett. b), L. n. 190 del 2012 (in base al quale l'«omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti»), attesa la natura sanzionatoria dell'obbligo di versamento previsto dal comma 7, che prescinde dalla sussistenza di specifici profili di danno richiesti per la giurisdizione del giudice contabile (v. Cass., Sez. Un., 19/01/2018, n. 1415; Cass., Sez. Un., 10/01/2017, n. 8688; Cass., Sez. Un., 19/01/2018, n. 16722; Cass., Sez. Un., 16/04/2018, n. 1415; Cass., Sez. Un., 09/03/2018, n. 5789; Cass., Sez. Un., 28/05/2018, n. 13239; Cass., Sez. Un., 03/08/2018, n. 20533).
Queste Sezioni Unite hanno peraltro al riguardo da ultimo diversamente ritenuto che l'azione ex art. 53, comma 7, d.lgs. n. 165 del 2001 promossa dal Procuratore della Corte dei Conti nei confronti di dipendente della P.A., che abbia omesso di versare alla propria Amministrazione i corrispettivi percepiti nello svolgimento di un incarico non autorizzato, rimane attratta alla giurisdizione del giudice contabile, anche se la percezione dei compensi si è avuta in epoca precedente all'introduzione del comma 7-bis del medesimo art. 53, giacché tale norma non ha portata innovativa, vertendosi in ipotesi di responsabilità erariale, che il legislatore ha tipizzato non solo nella condotta ma altresì annettendo valenza sanzionatoria alla predeterminazione legale del danno, al fine di tutelare la compatibilità dell'incarico extraistituzionale in termini di conflitto di interesse, dovendo privilegiarsi il proficuo svolgimento di quello principale e l'adeguata destinazione di energie lavorative al rapporto pubblico (v., da ultimo, Cass., Sez. Un., 26/06/2019, n. 17124).
L'obbligo di versamento ex art. 53, comma 7, d.lgs. n. 165 del 2001 si configura dunque come una particolare sanzione ex lege, volta a rafforzare la fedeltà del pubblico dipendente. E la giurisdizione contabile è ravvisabile solo se alla violazione del dovere di fedeltà o all'omesso versamento della somma pari al compenso indebitamente percepito dal dipendente si accompagnino specifici profili di danno (v. Cass., Sez. Un., 26/06/2019, n. 17124).
Queste Sezioni Unite hanno ulteriormente posto in rilievo come allorquando non sia la P.A. ad agire per il recupero dei compensi erogati al dipendente pubblico per incarichi espletati in assenza di autorizzazione e per fatti antecedenti alla introduzione del comma 7-bis dell'art. 53 ma l'azione nei confronti di soggetto legato alla P.A. da un rapporto d'impiego o di servizio venga promossa dal Procuratore contabile, questa trova giustificazione nella violazione del dovere di chiedere l'autorizzazione allo svolgimento degli incarichi extralavorativi e del conseguente obbligo di riversare all'Amministrazione i compensi ricevuti, trattandosi di prescrizioni -come detto- volte a garantire il corretto e proficuo svolgimento delle mansioni attraverso il previo controllo dell'Amministrazione sulla possibilità per il dipendente d'impegnarsi in un'ulteriore attività senza pregiudizio dei compiti d'istituto.
Hanno altresì sottolineato che la disposizione di cui all'art. 53, comma 7-bis, d.lgs. n. 165 del 2001 (introdotta dalla L. n. 190 del 2012) non riveste carattere innovativo ma si pone in rapporto di continuità con l'orientamento giurisprudenziale in precedenza venuto a delinearsi, essendosi dal legislatore attribuita natura di fonte legale alla precedente regola di diritto effettivo di fonte giurisprudenziale (v. Cass., Sez. Un., 22/12/2015, n. 25769; Cass., Sez. Un., 02/11/2011, n. 22688, e, da ultimo, Cass., Sez. Un., 26/06/2019, n. 17124).
A tale stregua, l'azione di responsabilità erariale non interferisce con l'eventuale azione di responsabilità amministrativa della P.A. contro il soggetto tenuto alla retribuzione, l'azione ex art. 53, comma 7, d.lgs. n. 165 del 2001 ponendosi rispetto ad essa in termini di indefettibile alternatività (v. Cass., Sez. Un., 26/06/2019, n. 17124).
Non si è d'altro canto mancato di sottolineare che laddove la P.A. di appartenenza del dipendente percipiente il compenso in difetto di autorizzazione non si attivi (anche) in via giudiziale per far valere l'inadempimento degli obblighi del rapporto di lavoro, e il Procuratore contabile abbia viceversa promosso azione di responsabilità contabile in relazione alla tipizzata fattispecie legale ex art. 53, commi 7 e 7-bis, d.lgs. n. 165 del 2001, alla detta P.A. rimane precluso promuovere la detta azione, essendo da escludere -stante il divieto del bis in idem- una duplicità di azioni attivate contestualmente che, seppure con la specificità di ciascuna di esse propria, siano volte a conseguire, avanti al giudice munito di giurisdizione, lo stesso identico petitum (predeterminato dal legislatore) in danno del medesimo soggetto obbligato in base ad un'unica fonte (quella legale), e cioè i compensi indebitamente percepiti in difetto di autorizzazione allo svolgimento dell'incarico che li ha determinati e non riversati, al fine di effettivamente destinarli al bilancio dell'Amministrazione di appartenenza del pubblico dipendente (v. Cass., Sez. Un., 26/06/2019, n. 17124).
Si è infine posto in rilievo che, rientrando l'accertamento delle condizioni di insorgenza della tipizzata responsabilità erariale (e in particolare la necessità o meno di autorizzazione per lo svolgimento dello specifico incarico extralavorativo) nei limiti interni della giurisdizione contabile, il richiamo alla differente violazione prevista dal comma 9 dello stesso art. 53, punita come illecito amministrativo  di cui all'art. 6 D.L. n. 79 del 1997, convertito L. n. 140 del 1997, risulta inconferente ai fini della questione di giurisdizione, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario sull'opposizione all'ordinanza ingiunzione di pagamento della relativa sanzione pecuniaria (v. Cass., 29/04/2008, n. 10852) (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, ordinanza 14.01.2020 n. 415).

EDILIZIA PRIVATAVa ricordato il consolidato orientamento giurisprudenziale in ordine all’impugnativa dei titoli edilizi.
Invero, si è detto che la decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi all’edificazione deve essere collegata, per i soggetti diversi da quelli cui l’atto è rilasciato, al momento in cui l’interessato sia in grado di percepire la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica. Pertanto, salvo che non venga fornita la prova certa di una conoscenza anticipata del titolo edilizio, il termine decadenziale per l’impugnazione del titolo stesso viene fatto decorrere al più tardi dal completamento dei lavori, che segna il momento in cui è materialmente apprezzabile la portata definitiva dell’intervento assentito.
Il completamento dei lavori è, quindi, considerato indizio idoneo a far presumere la data della piena conoscenza del titolo edilizio, salvo che venga fornita la prova di una conoscenza anticipata.
Peraltro, tali affermazioni vengono contemperate in giurisprudenza con la tutela delle esigenze di certezza dell’ordinamento, per cui il terzo non può essere considerato libero di decidere, se e quando attivarsi per accedere agli atti al fine di valutarne la legittimità.
La giurisprudenza, nel ricostruire la tutela del terzo alla luce dei principi di effettività e satisfattività, ha, infatti, cercato un punto di equilibrio tra i menzionati principi e quello della certezza degli atti amministrativi ritenendo equo fissare il dies a quo del termine decadenziale, al momento in cui, in relazione allo stato dei lavori, sia oggettivamente apprezzabile lo scostamento dal paradigma legale.
Così, se ha un senso l’attesa, da parte del terzo, del completamento dell’opera quando questi non sia in condizione, in un precedente stadio d’avanzamento, di apprezzare l’illegittimità del titolo abilitante, se lo stato di avanzamento dei lavori sia già tale da indurre il sospetto di una possibile violazione della normativa urbanistica, il ricorrente ha l’onere di documentarsi in ordine alle previsioni progettuali, al fine di verificare la sussistenza di un vizio del titolo ed inibire l’ulteriore attività realizzativa. Non può, quindi, limitarsi ad attendere il completamento dell’opera omettendo di esercitare il diritto di accesso.
Quindi, se il termine di impugnazione inizia a decorrere in linea di principio dal completamento dei lavori o, comunque, dal momento in cui la costruzione realizzata è tale che non si possono avere dubbi in ordine alla portata dell’intervento, al contempo, il principio di certezza delle situazioni giuridiche e di tutela di tutti gli interessati comporta che non si possa lasciare il soggetto titolare di una concessione edilizia nell’incertezza circa la sorte del proprio titolo oltre una ragionevole misura, poiché, nelle more, il ritardo dell’impugnazione si risolverebbe in un danno aggiuntivo connesso all’ulteriore avanzamento dei lavori che, ex post, potrebbero essere dichiarati illegittimi.
Infatti, se da un lato deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall’altro lato deve parimenti essere salvaguardato l’interesse del titolare della concessione edilizia a che l’esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente o colposamente differito nel tempo, determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche in contrasto con gli evidenziati principi ordinamentali.
In conclusione, la “piena conoscenza”, ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione di un titolo edilizio viene individuata nell’inizio dei lavori, nel caso si sostenga che nessun manufatto poteva essere edificato sull’area. Laddove si contesti invece il quomodo dell’attività edilizia autorizzata (distanze, consistenza ecc.) il dies a quo per la tempestiva proposizione del ricorso coincide con il completamento dei lavori o, in relazione al grado di sviluppo degli stessi, nel momento in cui si renda comunque palese l’esatta dimensione, consistenza, finalità, del manufatto in costruzione.
In questo quadro la vicinitas di un soggetto rispetto all’area su cui insistono le opere edilizie contestate, oltre ad incidere sull’interesse ad agire, induce a ritenere che lo stesso abbia potuto avere più facilmente conoscenza della loro entità anche prima della conclusione dei lavori. In ogni caso chi intende contestare adeguatamente un titolo edilizio ha l’onere di esercitare sollecitamente l’accesso documentale.
---------------

56. Al fine di decidere la pregiudiziale e dirimente eccezione di irricevibilità per tardività dell’impugnazione delle concessioni edilizie n. 108/2016, n. 231/2016, n. 290/2016, n. 333/2016, n. 176/2018 e n. 301/2018, va ricordato il consolidato orientamento giurisprudenziale (ex multis, Cons. Stato, Sezione IV, 20.08.2018, n. 4969; TRGA, Trento, 01.04.2019, n. 56 e 27.02.2019, n. 42; TAR Lombardia, Brescia, Sezione I, 21.01.2019, n. 70), anche di questo Tribunale (da ultimo TRGA Bolzano 04.03.2019, n. 55) in ordine all’impugnativa dei titoli edilizi.
Si è detto nelle citate pronunce che la decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi all’edificazione deve essere collegata, per i soggetti diversi da quelli cui l’atto è rilasciato, al momento in cui l’interessato sia in grado di percepire la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica. Pertanto, salvo che non venga fornita la prova certa di una conoscenza anticipata del titolo edilizio, il termine decadenziale per l’impugnazione del titolo stesso viene fatto decorrere al più tardi dal completamento dei lavori (cfr. Cons. Stato, Sezione IV, 23.06.2017, n. 3067, 15.11.2016, n. 4701 e 21.03.2016, n. 1135), che segna il momento in cui è materialmente apprezzabile la portata definitiva dell’intervento assentito.
57. Il completamento dei lavori è, quindi, considerato indizio idoneo a far presumere la data della piena conoscenza del titolo edilizio, salvo che venga fornita la prova di una conoscenza anticipata (Cons. Stato, Sezione II, 11.11.2019, n. 7692; Cons. Stato, Sezione IV, 20.01.2014, n. 264 e Cons. Stato, Sezione VI, 10.12.2010, n. 8705).
58. Peraltro, tali affermazioni vengono contemperate in giurisprudenza con la tutela delle esigenze di certezza dell’ordinamento, per cui il terzo non può essere considerato libero di decidere, se e quando attivarsi per accedere agli atti al fine di valutarne la legittimità.
La giurisprudenza, nel ricostruire la tutela del terzo alla luce dei principi di effettività e satisfattività, ha, infatti, cercato un punto di equilibrio tra i menzionati principi e quello della certezza degli atti amministrativi ritenendo equo fissare il dies a quo del termine decadenziale, al momento in cui, in relazione allo stato dei lavori, sia oggettivamente apprezzabile lo scostamento dal paradigma legale.
59. Così, se ha un senso l’attesa, da parte del terzo, del completamento dell’opera quando questi non sia in condizione, in un precedente stadio d’avanzamento, di apprezzare l’illegittimità del titolo abilitante, se lo stato di avanzamento dei lavori sia già tale da indurre il sospetto di una possibile violazione della normativa urbanistica, il ricorrente ha l’onere di documentarsi in ordine alle previsioni progettuali, al fine di verificare la sussistenza di un vizio del titolo ed inibire l’ulteriore attività realizzativa. Non può, quindi, limitarsi ad attendere il completamento dell’opera omettendo di esercitare il diritto di accesso.
60. Quindi, se il termine di impugnazione inizia a decorrere in linea di principio dal completamento dei lavori o, comunque, dal momento in cui la costruzione realizzata è tale che non si possono avere dubbi in ordine alla portata dell’intervento, al contempo, il principio di certezza delle situazioni giuridiche e di tutela di tutti gli interessati comporta che non si possa lasciare il soggetto titolare di una concessione edilizia nell’incertezza circa la sorte del proprio titolo oltre una ragionevole misura, poiché, nelle more, il ritardo dell’impugnazione si risolverebbe in un danno aggiuntivo connesso all’ulteriore avanzamento dei lavori che, ex post, potrebbero essere dichiarati illegittimi (Cons. Stato, IV Sez., 28.10.2015, n. 4909).
61. Infatti, se da un lato deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall’altro lato deve parimenti essere salvaguardato l’interesse del titolare della concessione edilizia a che l’esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente o colposamente differito nel tempo, determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche in contrasto con gli evidenziati principi ordinamentali.
62. La richiesta di accesso, invero, non è idonea ex se a far differire i termini di proposizione del ricorso (cfr. Cons. Stato, Sezione II, 26.06.2019, n. 4390; Sezione IV, 23.05.2018, n. 3075), in quanto il terzo ha l’onere di attivare il diritto alla piena conoscenza della documentazione amministrativa, non appena abbia contezza od anche il ragionevole sospetto che l’attività materiale pregiudizievole, che si compie sotto i suoi occhi, sia sorretta da un titolo amministrativo abilitante, non conosciuto o non conosciuto sufficientemente (Cons. Stato, Sez. IV, 21.01.2013, n. 322). Diversamente opinando la disciplina dei motivi aggiunti non avrebbe alcun significato, se non meramente residuale.
63. In conclusione, la “piena conoscenza”, ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione di un titolo edilizio viene individuata nell’inizio dei lavori, nel caso si sostenga che nessun manufatto poteva essere edificato sull’area. Laddove si contesti invece il quomodo dell’attività edilizia autorizzata (distanze, consistenza ecc.) il dies a quo per la tempestiva proposizione del ricorso coincide con il completamento dei lavori o, in relazione al grado di sviluppo degli stessi, nel momento in cui si renda comunque palese l’esatta dimensione, consistenza, finalità, del manufatto in costruzione (Cons. Stato, Sezione II, 11.11.2019, n. 7692, Sezione II, 12.08.2019, n. 5664; Sezione IV, 26.07.2018, n. 4583; id., 23.05.2018, n. 3075).
In questo quadro la vicinitas di un soggetto rispetto all’area su cui insistono le opere edilizie contestate, oltre ad incidere sull’interesse ad agire, induce a ritenere che lo stesso abbia potuto avere più facilmente conoscenza della loro entità anche prima della conclusione dei lavori. In ogni caso chi intende contestare adeguatamente un titolo edilizio ha l’onere di esercitare sollecitamente l’accesso documentale (Cons. Stato, Sezione II, 26.06.2019, n. 4390)
(TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 10.01.2020 n. 4 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: La condizione di mera vicinitas non è di per sé sola sufficiente a radicare la legittimazione ad impugnare i titoli edilizi rilasciati dall’amministrazione con riguardo ad ambiti confinanti con quello che è nella disponibilità del soggetto proponente il ricorso.
Se, invero, la vicinitas assume principale rilievo per qualificare e differenziare l’interesse fatto valere, è tuttavia altrettanto indiscutibile come detta circostanza debba essere valutata nel caso concreto con riferimento alla situazione di fatto e alle caratteristiche dell’intervento da realizzare nell’area confinante con quella dei ricorrenti, onde accertare quale sia il reale pregiudizio che il rilascio del titolo autorizzatorio produrrebbe sulla vicina proprietà dei ricorrenti.
In altre parole, il requisito della vicinitas rappresenta uno dei criteri, indubbiamente il primo, per qualificare una posizione differenziata, necessaria per radicare l’interesse e la legittimazione a ricorrere, ma non è di per sé solo sufficiente a rendere ammissibile la proposizione del gravame.
Occorre, infatti, che la posizione del vicino risulti qualificata e quindi emerga dalla mera posizione di quisque de populo, qualificazione che dovrà essere caratterizzata dal pregiudizio che, anche se in termini astratti o possibilistici, il rilascio del titolo edilizio impugnato e la realizzazione dell’intervento assentito potrebbe produrre a carico dell’area posta nelle vicinanze di quella dell’intervento.
In tali termini, il mero principio della vicinitas è stato interpretato ed integrato in rapporto alla dimostrazione da parte del soggetto che intende ottenere l’annullamento del titolo edilizio rilasciato al vicino, del vulnus da tale atto derivante alla propria sfera giuridica, quale deminutio economica e patrimoniale del bene di proprietà.

---------------

89. Orbene, osserva il Collegio che la condizione di mera vicinitas non è di per sé sola sufficiente a radicare la legittimazione ad impugnare i titoli edilizi rilasciati dall’amministrazione con riguardo ad ambiti confinanti con quello che è nella disponibilità del soggetto proponente il ricorso.
90. Se, invero, in termini di principio (cfr. TRGA Bolzano, 06.06.2019, n. 134 e 06.03.2019, n. 60), la vicinitas assume principale rilievo per qualificare e differenziare l’interesse fatto valere, è tuttavia altrettanto indiscutibile come detta circostanza debba essere valutata nel caso concreto con riferimento alla situazione di fatto e alle caratteristiche dell’intervento da realizzare nell’area confinante con quella dei ricorrenti, onde accertare quale sia il reale pregiudizio che il rilascio del titolo autorizzatorio produrrebbe sulla vicina proprietà dei ricorrenti.
91. In altre parole, il requisito della vicinitas rappresenta uno dei criteri, indubbiamente il primo, per qualificare una posizione differenziata, necessaria per radicare l’interesse e la legittimazione a ricorrere, ma non è di per sé solo sufficiente a rendere ammissibile la proposizione del gravame.
92. Occorre, infatti, che la posizione del vicino risulti qualificata e quindi emerga dalla mera posizione di quisque de populo, qualificazione che dovrà essere caratterizzata dal pregiudizio che, anche se in termini astratti o possibilistici, il rilascio del titolo edilizio impugnato e la realizzazione dell’intervento assentito potrebbe produrre a carico dell’area posta nelle vicinanze di quella dell’intervento.
93. Ritiene il Collegio che, stante l’impossibilità dell’annullamento per violazioni inerenti la quota zero, l’altezza e la cubatura delle precedenti concessioni edilizie per l’accertata tardività delle relative censure, nel caso di specie si deve esigere con riguardo al gravame proposto contro il titolo edilizio afferente le sole sistemazioni del terreno esterno del fabbricato, la dimostrazione del pregiudizio derivante a carico dei ricorrenti, costituito dall’incidenza negativa che il nuovo progetto assentito potrà avere sul bene di proprietà o in godimento dei vicini.
94. In tali termini (cfr. Cons. Stato, Sezione IV, 30.11.2010, n. 8364), il mero principio della vicinitas è stato interpretato ed integrato in rapporto alla dimostrazione da parte del soggetto che intende ottenere l’annullamento del titolo edilizio rilasciato al vicino, del vulnus da tale atto derivante alla propria sfera giuridica, quale deminutio economica e patrimoniale del bene di proprietà (cfr. TRGA Bolzano, 22.11.2018, n. 336)
(TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 10.01.2020 n. 4 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICA: Il principio di omogeneità della zona non costituisce un limite alla pianificazione comunale.
Il principio di omogeneità della zona (criterio ordinariamente invocabile nella pianificazione generale) non costituisce un limite all’attività pianificatoria del Comune, il quale resta libero di imprimere alle varie parti del territorio la destinazione urbanistica che ritiene più confacente ai bisogni della collettività.
Secondo una giurisprudenza condivisibile il modello della zonizzazione del territorio ha assunto forme flessibili nella prassi applicativa, sino a pervenire, nell’ambito della stessa zona omogenea, alla microzonizzazione o alla previsione di sottozone distinte da ulteriori peculiarità strutturali o funzionali, sicché il processo di conformazione del territorio non esclude che a livello di pianificazione generale possano essere previsti differenti regimi urbanistici all’interno della stessa zona omogenea.
Il principio di tipicità degli strumenti urbanistici, che riflette il limite di legalità dell’azione amministrativa, non esclude infatti che il pianificatore comunale, stante la progressiva espansione degli interessi affidati al governo di prossimità, introduca un sistema di “lettura” del territorio diverso o ulteriore rispetto al modello per zone, purché al pari di questo sia iscritto nel medesimo referente normativo, nazionale e regionale, e ad esso si conformi.
Se così non fosse infatti l’azione amministrativa sarebbe non discrezionale, ma del tutto arbitraria e il nuovo modello di conformazione del territorio risulterebbe sostanzialmente abrogativo del sistema delineato dalla l. 1150/1942, il cui nucleo essenziale inderogabile, tanto da costituire principio fondamentale per la legislazione regionale concorrente, esige che siano identificate previamente le categorie generali e astratte ove iscrivere le porzioni di territorio, sulla base di descrittori anch’essi previamente definiti, in funzione degli obiettivi che l’azione pianificatrice si prefigge.
Allora sarà del tutto irrilevante che la conformazione del territorio, come detto funzionale alla dislocazione dei servizi di interesse generale, sia concepita per zone, contesti, ambiti, comparti, zone miste o microzone, purché –qualunque essa sia– corrisponda a categorie prefissate ex ante, tali cioè da costituire il parametro di legittimità della successiva azione amministrativa
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.01.2020 n. 63 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
2. Venendo al primo motivo di merito, occorre precisare che le contestazioni relative alla disparità di trattamento ed al mancato rispetto della vocazione naturale delle aree saranno esaminate con riferimento alle singole aree. In merito invece alla contestata assenza di una disciplina omogenea il motivo è infondato.
Il principio di omogeneità della zona (criterio ordinariamente invocabile nella pianificazione generale), infatti, non costituisce un limite all’attività pianificatoria del Comune, il quale resta libero di imprimere alle varie parti del territorio la destinazione urbanistica che ritiene più confacente ai bisogni della collettività (v., tra le altre, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 23.09.2008 n. 4102).
Secondo una giurisprudenza condivisibile (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 23.04.2015 n. 651) il modello della zonizzazione del territorio ha assunto forme flessibili nella prassi applicativa, sino a pervenire, nell’ambito della stessa zona omogenea, alla microzonizzazione o alla previsione di sottozone distinte da ulteriori peculiarità strutturali o funzionali, sicché il processo di conformazione del territorio non esclude che a livello di pianificazione generale possano essere previsti differenti regimi urbanistici all’interno della stessa zona omogenea.
Il principio di tipicità degli strumenti urbanistici, che riflette il limite di legalità dell’azione amministrativa, non esclude infatti che il pianificatore comunale, stante la progressiva espansione degli interessi affidati al governo di prossimità, introduca un sistema di “lettura” del territorio diverso o ulteriore rispetto al modello per zone, purché al pari di questo sia iscritto nel medesimo referente normativo, nazionale e regionale, e ad esso si conformi.
Se così non fosse infatti l’azione amministrativa sarebbe non discrezionale, ma del tutto arbitraria e il nuovo modello di conformazione del territorio risulterebbe sostanzialmente abrogativo del sistema delineato dalla l. 1150/1942, il cui nucleo essenziale inderogabile, tanto da costituire principio fondamentale per la legislazione regionale concorrente, esige che siano identificate previamente le categorie generali e astratte ove iscrivere le porzioni di territorio, sulla base di descrittori anch’essi previamente definiti, in funzione degli obiettivi che l’azione pianificatrice si prefigge.
Allora sarà del tutto irrilevante che la conformazione del territorio, come detto funzionale alla dislocazione dei servizi di interesse generale, sia concepita per zone, contesti, ambiti, comparti, zone miste o microzone, purché –qualunque essa sia– corrisponda a categorie prefissate ex ante, tali cioè da costituire il parametro di legittimità della successiva azione amministrativa.

URBANISTICA: Secondo consolidata giurisprudenza, “le osservazioni formulate dai proprietari interessati nei confronti di uno strumento urbanistico generale costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative; pertanto, il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione”.
---------------
In sede di previsioni di zona di piano urbanistico, la valutazione dell'idoneità delle aree a soddisfare, con riferimento alle possibili destinazioni, specifici interessi urbanistici, rientra nei limiti dell'esercizio del potere discrezionale, rispetto al quale, a meno che non siano riscontrabili errori di fatto o abnormi illogicità, non è neppure configurabile il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con la destinazione impressa agli immobili adiacenti.
Con riferimento al fatto che (nel caso di specie) si tratterebbe di una piccola area inserita in un complesso urbanizzato, la giurisprudenza ha affermato che le evenienze che, invece, giustificano una più incisiva e singolare motivazione nelle scelte pianificatorie degli strumenti urbanistici generali sono state ravvisate nel superamento degli standards urbanistici ed edilizi, nella lesione dell’affidamento qualificato del privato basato su precedenti determinazioni dell’amministrazione o su provvedimenti giurisdizionali (ad es., derivante dall’avvenuta stipula di convenzioni di lottizzazione, da accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, da sentenze passate in giudicato di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione), o nella modificazione in zona agricola della destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.

---------------
Con riferimento alla vocazione funzionale dell’area agricola occorre rammentare che la giurisprudenza ha riconosciuto che la sua funzione non è solo quella di valorizzare l’attività agricola vera e propria, ma anche quella di garantire ai cittadini l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando loro quella quota di valori naturalistici necessaria a compensare gli effetti dell’espansione dell'aggregato urbano.
Ne consegue che la previsione di aree agricole che non siano intercluse in ambito limitrofo a nucleo di antica formazione non pare macroscopicamente irragionevole.
-----------------
In sede di previsioni di zona di piano regolatore, la valutazione dell'idoneità delle aree a soddisfare, con riferimento alle possibili destinazioni, specifici interessi urbanistici, rientra nei limiti dell'esercizio del potere discrezionale, rispetto al quale, a meno che non siano riscontrabili errori di fatto o abnormi illogicità, non è neppure configurabile il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con la destinazione impressa agli immobili adiacenti.

---------------

3. Venendo al punto 1.1 del ricorso, con il quale i ricorrenti contestano la reiezione dell’osservazione presentata con riferimento ai terreni siti in via per Cabiate, occorre rilevare che l’osservazione è stata respinta in quanto “la richiesta comporterebbe ulteriore consumo di suolo in aree attualmente libere in rete ecologica provinciale da PTCP e altrettante verifiche VAS, anche a livello provinciale, determinando quindi sostanziali innovazioni al PGT, tali da mutare le caratteristiche del piano stesso a livello strategico. Si veda anche il parere provinciale di compatibilità tra PTCP e PGT. L'AC ritiene comunque apprezzabile l'interesse pubblico contenuto nella proposta dell'osservante (permuta edificabilità contenuta con aree a servizi zona centro sportivo di via per Cabiate), tenendolo in debita attenzione”.
In merito alla genericità della motivazione occorre rilevare che, secondo una consolidata giurisprudenza (da ultimo TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.10.2019 n. 2176), “le osservazioni formulate dai proprietari interessati nei confronti di uno strumento urbanistico generale costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative; pertanto, il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione”.
Nel caso di specie la controdeduzione non pare generica in quanto diversa dalle altre versate in giudizio ed ancorata ad elementi concreti e precisi quali l’effetto di determinare ulteriore consumo di suolo in aree attualmente libere in rete ecologica provinciale prevista dal PTCP.
Con riferimento poi al fatto che il PGT abbia introdotto ulteriori ambiti di trasformazione, non sussiste prova che ciò abbia comportato un aumento del consumo di suolo complessivo, rendendo così irragionevole la motivazione della controdeduzione.
Circa invece la circostanza che le osservazioni dei vicini siano state accolte, il motivo è infondato in quanto va ricordato il principio per cui, in sede di previsioni di zona di piano urbanistico, la valutazione dell'idoneità delle aree a soddisfare, con riferimento alle possibili destinazioni, specifici interessi urbanistici, rientra nei limiti dell'esercizio del potere discrezionale, rispetto al quale, a meno che non siano riscontrabili errori di fatto o abnormi illogicità, non è neppure configurabile il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con la destinazione impressa agli immobili adiacenti (v. Consiglio Stato sez. IV, 21.04.2010, n. 2264; Consiglio di Stato, Sez. IV, 06.08.2013 n. 4150).
Con riferimento al fatto che si tratterebbe di una piccola area inserita in un complesso urbanizzato, la giurisprudenza ha affermato che le evenienze che, invece, giustificano una più incisiva e singolare motivazione nelle scelte pianificatorie degli strumenti urbanistici generali sono state ravvisate (v. sul punto, per tutte, Cons. Stato, Ad. Plen., 22.12.1999, n. 24) nel superamento degli standards urbanistici ed edilizi, nella lesione dell’affidamento qualificato del privato basato su precedenti determinazioni dell’amministrazione o su provvedimenti giurisdizionali (ad es., derivante dall’avvenuta stipula di convenzioni di lottizzazione, da accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, da sentenze passate in giudicato di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione), o nella modificazione in zona agricola della destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16.05.2013 n. 2653).
Nel caso di specie non risulta provato che l’area abbia i caratteri del lotto intercluso. Sotto il profilo fattuale l’area appare inserita in zona a bassa densità abitativa, nella quale rientra nella discrezionalità dell’amministrazione stabilire se assegnarle i caratteri dell’area di completamento o mantenerla ad edificazione rada.
Neppure il riferimento alla disciplina provinciale può valere a dimostrare l’irragionevolezza delle scelte comunali in quanto la controdeduzione fa riferimento alla presenza della rete ecologica provinciale, di cui i ricorrenti non fanno menzione, ed inoltre non risulta che la disciplina del PTCP escluda la possibilità del Comune di dettare una disciplina dell’edificazione più restrittiva di quella prevista in sede provinciale.
4. Con riferimento alle aree site nel compendio di via Matteotti (motivo 1.2), i ricorrenti non contestano le controdeduzioni alle osservazioni presentate, bensì direttamente la disciplina di zona “AG1” agricola assegnata.
Con riferimento alla vocazione funzionale dell’area agricola occorre rammentare che la giurisprudenza ha riconosciuto che la sua funzione non è solo quella di valorizzare l’attività agricola vera e propria, ma anche quella di garantire ai cittadini l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando loro quella quota di valori naturalistici necessaria a compensare gli effetti dell’espansione dell'aggregato urbano (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.04.2013 n. 1882). Ne consegue che la previsione di aree agricole che non siano intercluse in ambito limitrofo a nucleo di antica formazione non pare macroscopicamente irragionevole.
Neppure rientra tra i poteri del giudice ritenere più confacente ai caratteri dell’area la destinazione R5, ovvero di zona di espansione a bassa intensità, in quanto si tratta di scelta di merito sottratta ai poteri del giudice.
Con riferimento poi al fatto che le osservazioni dei vicini siano state accolte, il motivo è infondato in quanto va ribadito il principio per cui in sede di previsioni di zona di piano regolatore, la valutazione dell'idoneità delle aree a soddisfare, con riferimento alle possibili destinazioni, specifici interessi urbanistici, rientra nei limiti dell'esercizio del potere discrezionale, rispetto al quale, a meno che non siano riscontrabili errori di fatto o abnormi illogicità, non è neppure configurabile il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con la destinazione impressa agli immobili adiacenti (v. Consiglio Stato sez. IV, 21.04.2010, n. 2264; Consiglio di Stato, Sez. IV, 06.08.2013 n. 4150) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.01.2020 n. 63 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: L’applicazione della tecnica della perequazione urbanistica è preclusa per le aree agricole dall’art. 11 della L.R. 12/2005, il quale al comma 2 (ed al comma 2-bis che richiama il comma 2) prevede che sono escluse dalla perequazione urbanistica le aree destinate all’agricoltura e quelle non soggette a trasformazione urbanistica.
-----------------

5. Anche il secondo profilo di ricorso è infondato.
L’applicazione della tecnica della perequazione urbanistica è infatti preclusa per le aree agricole dall’art. 11 della L.R. 12/2005 invocato dai ricorrenti, il quale al comma 2 (ed al comma 2-bis che richiama il comma 2) prevede che sono escluse dalla perequazione urbanistica le aree destinate all’agricoltura e quelle non soggette a trasformazione urbanistica (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.01.2020 n. 63 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASotto il primo profilo, è pacifico che non è necessario comunicare l’avvio del procedimento per i provvedimenti sanzionatori degli abusi edilizi, aventi natura vincolata (cfr. per tutte, specificamente, la sentenza della Sezione del 28/10/2019 n. 5094: “poiché il provvedimento di acquisizione costituisce un atto dovuto senza alcun contenuto discrezionale, subordinato unicamente all'accertamento dell'inottemperanza, non è necessario che venga preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 L. 241/1990”).
Sotto l’ulteriore profilo, resta parimenti esclusa la doverosità della notifica del verbale con cui è accertato che il destinatario dell’ordine di demolizione non vi ha ottemperato (cfr. la sentenza della Sezione del 26/03/2019 n. 1683: “Posto che il verbale di accertamento dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione non ha alcun contenuto dispositivo, essendo unicamente finalizzato alla rilevazione in via ricognitiva e vincolata dell'inottemperanza dell'ingiunzione di demolizione, è da escludere che la notifica dello stesso al responsabile dell'abuso sia un presupposto necessario per l’emanazione della dichiarazione di acquisizione gratuita”).
---------------

2. - Il ricorso è infondato.
2.1. Sono destituite di fondamento le censure con cui si intende far valere che occorreva la comunicazione di avvio del procedimento e dovevano essere notificati i verbali di accertamento dell’inottemperanza.
Sotto il primo profilo, è pacifico che non è necessario comunicare l’avvio del procedimento per i provvedimenti sanzionatori degli abusi edilizi, aventi natura vincolata (cfr. per tutte, specificamente, la sentenza della Sezione del 28/10/2019 n. 5094: “poiché il provvedimento di acquisizione costituisce un atto dovuto senza alcun contenuto discrezionale, subordinato unicamente all'accertamento dell'inottemperanza, non è necessario che venga preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 L. 241/1990 (da ultimo, TAR Lazio, sez. II-quater, 08.10.2018, n. 9799)”).
Sotto l’ulteriore profilo, resta parimenti esclusa la doverosità della notifica del verbale con cui è accertato che il destinatario dell’ordine di demolizione non vi ha ottemperato (cfr. la sentenza della Sezione del 26/03/2019 n. 1683: “Posto che il verbale di accertamento dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione non ha alcun contenuto dispositivo, essendo unicamente finalizzato alla rilevazione in via ricognitiva e vincolata dell'inottemperanza dell'ingiunzione di demolizione, è da escludere che la notifica dello stesso al responsabile dell'abuso sia un presupposto necessario per l’emanazione della dichiarazione di acquisizione gratuita”; conf., 13/06/2019 n. 3232 e 16/10/2019 n. 4927) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 07.01.2020 n. 53 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sottoposizione di un manufatto abusivo a sequestro penale non costituisce impedimento assoluto ad ottemperare all’ordine di demolizione.
Pertanto l’indisponibilità derivante da tale misura non può essere invocata quale causa di forza maggiore all’emanazione o all’esecuzione dell’ingiunzione, dal momento che il soggetto interessato ha la facoltà (e l’onere) di attivarsi, nei tempi strettamente necessari, presso l'Autorità Giudiziaria, secondo la procedura prevista dall'art. 85 disp. att. c.p.p., al fine di ottenere il dissequestro, se intende ottemperare all’ingiunzione amministrativa.
È solo a seguito dell’eventuale reiezione dell’istanza di dissequestro da parte del Giudice penale che è possibile configurare una effettiva impossibilità ad adempiere, sicché è solo la prova del comportamento attivo dell’interessato che può escludere l’inottemperanza.
---------------

2.3. Relativamente all’addotta sottoposizione a sequestro penale (che, nella prospettazione del ricorrente, avrebbe impedito la demolizione ed escluderebbe di poter procedere all'acquisizione), va osservato che tale circostanza non può essere invocata per sottrarsi alle conseguenze scaturenti dalla realizzazione dell’abuso, in mancanza di un comportamento attivo dell’interessato.
Nella specie, il ricorrente lamenta che il Giudice penale non avrebbe acconsentito al dissequestro per effettuare il rispristino, senza fornire alcuna dimostrazione di ciò (cfr. la sentenza della Sezione del 27/06/2019 n. 3526: “La sottoposizione di un manufatto abusivo a sequestro penale non costituisce impedimento assoluto ad ottemperare all’ordine di demolizione. Pertanto l’indisponibilità derivante da tale misura non può essere invocata quale causa di forza maggiore all’emanazione o all’esecuzione dell’ingiunzione, dal momento che il soggetto interessato ha la facoltà (e l’onere) di attivarsi, nei tempi strettamente necessari, presso l'Autorità Giudiziaria, secondo la procedura prevista dall'art. 85 disp. att. c.p.p., al fine di ottenere il dissequestro, se intende ottemperare all’ingiunzione amministrativa (cfr. Cons. St., sez. VI, 28/01/2016, n. 335; Cass. pen., sez. III, 26/09/2013, n. 42637). È solo a seguito dell’eventuale reiezione dell’istanza di dissequestro da parte del Giudice penale che è possibile configurare una effettiva impossibilità ad adempiere, sicché è solo la prova del comportamento attivo dell’interessato che può escludere l’inottemperanza”) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 07.01.2020 n. 53 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’acquisizione del bene abusivamente realizzato configura l’esercizio del potere ricompreso nei compiti di gestione affidati al Dirigente dell’Ente, al pari dell’ordine di demolizione da cui promana se l’interessato non vi adempie (cfr. la sentenza della Sezione del 16/10/2019 n. 4927, cit.: “l’art. 31, comma 2, d.p.r. 380/2001, una volta accertata l’esecuzione di interventi privi di titolo o in difformità dallo stesso, affida espressamente al dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale il potere di ingiungere, con ordinanza, al responsabile la rimozione o la demolizione delle opere abusive. L’ordinanza deve contenere anche la previsione di eventuale acquisizione del bene in ipotesi di inottemperanza. E’ quindi evidente che, trattandosi di atto vincolato e successivo al mero verificarsi dell’inadempimento, la competenza non possa che essere dello stesso organo che ha adottato la presupposta ordinanza di demolizione”).
---------------

2.4. Infine, è priva di fondamento la censura contenuta nell’ultimo motivo, secondo cui l’emanazione del provvedimento di acquisizione spetterebbe al Consiglio comunale, ai sensi dell’art. 42 del T.U.E.L. (poiché ricompresa nella competenza del Consiglio relativa agli acquisti e alle alienazioni immobiliari).
Contrariamente a tale assunto, l’acquisizione del bene abusivamente realizzato configura l’esercizio del potere ricompreso nei compiti di gestione affidati al Dirigente dell’Ente, al pari dell’ordine di demolizione da cui promana se l’interessato non vi adempie (cfr. la sentenza della Sezione del 16/10/2019 n. 4927, cit.: “l’art. 31, comma 2, d.p.r. 380/2001, una volta accertata l’esecuzione di interventi privi di titolo o in difformità dallo stesso, affida espressamente al dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale il potere di ingiungere, con ordinanza, al responsabile la rimozione o la demolizione delle opere abusive. L’ordinanza deve contenere anche la previsione di eventuale acquisizione del bene in ipotesi di inottemperanza. E’ quindi evidente che, trattandosi di atto vincolato e successivo al mero verificarsi dell’inadempimento, la competenza non possa che essere dello stesso organo che ha adottato la presupposta ordinanza di demolizione”) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 07.01.2020 n. 53 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: 1.- Processo amministrativo – ordine di trattazione dei ricorsi cd. escludenti – orientamenti espressi dalla Corte UE – necessario esame di entrambi i ricorsi – si impone.
   2.- Processo amministrativo – rito appalti – abrogazione del cd rito super accelerato – conseguenze.
   3.- Appalti pubblici – requisiti - requisito del fatturato specifico – ricomprensione nel novero di quelli economico finanziari – va affermata.
   4.- Appalti pubblici – avvalimento – caratteristiche generali.
   5.- Appalti pubblici – avvalimento – nullità – limiti.
   6.- Appalti pubblici – avvalimento – causa – tipicità – sussiste.
   1. In base alla più recente giurisprudenza della Corte di Giustizia il ricorso principale non può essere dichiarato irricevibile in applicazione di prassi giudiziarie nazionali in tema di ricorsi cd escludenti e va esaminato in ogni caso, quale che sia il numero di partecipanti e/o di ricorrenti.
Se ne deve dedurre che per la Corte di Giustizia vada predicato il massimo rilievo all’interesse strumentale alla riedizione della gara: pertanto non può interpretarsi la sentenza Fastweb come una mera deroga, in presenza di specifici presupposti, al generale principio di ordine di esame sancito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, che aveva continuato a dare priorità al ricorso incidentale escludente.
Ne consegue che, in applicazione di tali principi, ove si presentano due ricorsi reciprocamente escludenti, pur in presenza di più offerenti, che non hanno tutti partecipato al presente giudizio (anche se alcuni hanno proposto separata impugnativa) è doveroso l’ esame di entrambi i ricorsi.
   2. Va processualmente preso atto che è mutato il quadro normativo di riferimento a seguito dell’avvenuta abrogazione del cosiddetto rito super accelerato di cui all’articolo 120, comma 2-bis cpa, con effetto a partire dal 19.04.2019, secondo il disposto del D.L: n. 32 del 2019, convertito in legge numero 55 del 14.06.2019.
In particolare il legislatore, eliminando l’onere di immediata impugnazione delle ammissioni di altre imprese concorrenti alla gara, ha assunto quale riferimento temporale non già la pubblicazione del bando di gara o la spedizione dell’invito(secondo i consueti criteri adottati allo scopo nella materia, che guardano al momento dell’avvio della procedura di affidamento) bensì l’inizio del processo.
Pertanto, per processi “iniziati dopo la data di entrata in vigore del decreto” devono intendersi, nell’ottica di chi agisce in giudizio ovvero di chi lo ha “iniziato”, quelli in cui il ricorso introduttivo venga notificato dopo il 19 aprile 2019 , fattispecie in cui rientra il presente giudizio.
Conseguentemente le censure relative all’ammissione alla gara dei concorrenti per carenza di requisiti soggettivi ovvero economico finanziari e tecnico professionali ,vanno attivate nelle forme ordinarie, e per quanto riguarda la reazione dell’aggiudicataria, nelle forme del ricorso incidentale, ai sensi dell’articolo 42 CPA, che prevede il termine di 60 giorni (nella specie dimezzato in virtù del rito appalti ) dalla notifica del ricorso principale.
Invero l’impugnazione delle ammissioni di altre ditte, in virtù della disposizione abrogante, ritorna a dover essere posticipata al momento dell’aggiudicazione definitiva ovvero a quello in cui (per la prima volta) l’interesse a ricorrere da parte del concorrente, insoddisfatto dall’esito della gara, diventa concreto ed attuale - nella specie - la notifica del ricorso principale da parte della seconda graduata.
   3. Benché sia stata particolarmente controversa in giurisprudenza la questione se il requisito relativo al fatturato specifico sia inerente alla capacità economico finanziaria, ovvero a quella tecnico operativa, la disposizione di cui all’articolo 83 comma 4 lettera a) del decreto legislativo 50/2016 è intervenuta a chiarire che ai fini del possesso dei requisiti di capacità economica e finanziaria le stazioni appaltanti possono richiedere “che gli operatori economici abbiano un fatturato minimo annuo, compreso un determinato fatturato minimo nel settore di attività oggetto dell’ appalto“, con ciò evidentemente includendo anche il requisito del fatturato specifico nel novero di quelli economico finanziari: ne deriva che il fatturato specifico assume il ruolo di elemento indicativo della solidità finanziari a del concorrente, e qualora non sia direttamente posseduto, può essere acquisito in avvalimento nelle forme e modi del cd. avvalimento di garanzia.
   4. L’avvalimento è un istituto di derivazione comunitaria che consente all’operatore economico privo dei requisiti necessari per la partecipazione ad una gara di soddisfare quanto richiesto dalla stazione appaltante avvalendosi di risorse, mezzi e strumenti di altri operatori economici. La finalità̀ di segno pro-concorrenziale dell’istituto è quella di ampliare la platea dei possibili contraenti della pubblica amministrazione.
A livello comunitario si è parlato per la prima volta di “avvalimento” con la sentenza del 14 aprile 1994 in Causa - 389/92 (cd. Ballast), con cui la Corte di Giustizia Europea ha stabilito che una holding può dimostrare la sussistenza dei requisiti di qualificazione tramite una società del suo gruppo di appartenenza.
Successivamente, i principi elaborati dai giudici comunitari sono stati recepiti a livello normativo nelle Direttive UE 2004/17 e 2004/18. A mente della norma contenuta nell’art. 47 della Direttiva 2004/18/CE, infatti, «Un operatore economico può, se del caso e per un determinato appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi». Il successivo art. 48 aggiunge, inoltre, che: «In tal caso deve dimostrare all’amministrazione aggiudicatrice che disporrà dei mezzi necessari, ad esempio mediante presentazione dell’impegno a tal fine di questi soggetti».
Le prime direttive comunitarie del 2004 sono state poi recepite nel nostro ordinamento con l’art. 49 del d.lgs. n. 163 del 2006. Di recente, nel 2016, con il d.lgs. n. 50, nel recepire le seconde direttive del 2014, si è assistito ad una specificazione dell’istituto, per ciò che concerne i requisiti essenziali del contratto: la norma contenuta nell’art. 89, co. 1, ult. cpv prevede, infatti, che “…il contratto di avvalimento contiene, a pena di nullità, la specificazione dei requisiti forniti e delle risorse messe a disposizione dall’impresa ausiliaria”.
   5. La “sanzione” della nullità, assente nella previgente normativa, è il risultato di un percorso giurisprudenziale consacrato con la pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato il 04.11.2016 n. 23 pubblicata sotto la vigenza del d.lgs. n. 163 del 2006, ove si era evidenziato che l’articolo 88 del d.p.r. 207/2010, per la parte in cui prescrive che il contratto di avvalimento deve riportare “in modo compiuto, esplicito ed esauriente (…) le risorse e i mezzi prestati in modo determinato e specifico”, deve essere interpretato nel senso che esso osta a configurare la nullità̀ del contratto di avvalimento in ipotesi in cui una parte dell’oggetto del contratto, pur non essendo puntualmente determinata, sia tuttavia agevolmente determinabile dal tenore complessivo del documento, e ciò̀ anche in applicazione degli articoli 1346, 1363 e 1367 del codice civile.
   6. Sotto l’aspetto strutturale, l’avvalimento è un contratto causalmente orientato a colmare le carenze dell’impresa partecipante, proprio al fine di integrare i requisiti di partecipazione alla gara.
Discussa la sua ascrivibilità o meno alla categoria dei contratti tipici o atipici, anche ai fini dell’indagine sulla meritevolezza della causa, va tuttavia superata l’impostazione che ascrive il contratto di avvalimento nello schema del contratto atipico, ravvisandosi elementi ordinamentali di novità tali da indurre ad un ripensamento della definizione, sì da poter qualificare il contratto di avvalimento come contratto tipico: in particolare, il contratto in esame trova oggi nell’ordinamento una specifica disciplina legale nell’art. 89 del d.lgs. n. 50 del 2016, così descrivendosi dettagliatamente il contenuto del contratto e prescrivendo i requisiti al ricorrere dei quali un contratto di avvalimento possa essere considerato valido ed efficace.
Ne deriva che il contratto di avvalimento rientra a pieno titolo nella categoria del “tipo”contrattuale, laddove per “tipo” si intende una figura o un modello di contratto, avente determinate caratteristiche e volto a realizzare una operazione economica.
Sebbene il Codice civile dedichi il Titolo III del Libro IV ai “singoli contratti”, descrivendo e disciplinando un ampio numero di “tipi” contrattuali, quali la vendita, la locazione, l’appalto, il deposito e tutti gli altri schemi che si trovano ivi menzionati (artt. 1470 ss. del C.C.), non v’è una previsione normativa in forza della quale un contratto è tipico solo se trova una specifica disciplina nel codice civile.
Sul punto, ai fini della definizione del contratto atipico , non rileva la limitata frequenza della sua stipulazione o la peculiarità del suo oggetto, ma solo l'elemento negativo della non rispondenza a nessuno degli schemi predisposti dal legislatore.
Pertanto, il contratto di avvalimento, che trova una sua compiuta definizione nell’art. 89 del d.lgs. n. 50 del 2016, deve ritenersi “tipico”.
L’autonomia contrattuale, nel caso di specie è peraltro condizionata dagli obiettivi fissati dalla norma e che le parti contrattuali devono perseguire all’atto della stipula del contratto di avvalimento.
Da ciò consegue che lo schema contrattuale definito dalla norma contenuta nell’art. 89 del d.lgs. n. 50 del 2016 non può essere in alcun modo alterato. È necessario, infatti, che attraverso il contenuto specifico del contratto di avvalimento prescritto dal Codice dei contratti pubblici, si offra alla Stazione appaltante una garanzia di solidità del concorrente oltre che di corretta esecuzione dell’appalto; ed in determinati casi, anche di un particolare standard di qualità dell’esecuzione dello stesso.
Ai fini della valutazione della causa in concreto, va quindi affermato che il controllo di legittimità si attua verificando l’effettiva realizzabilità della causa concreta, da intendersi come obiettivo specifico perseguito dal procedimento
(massima free tratta da e link a www.giustamm.it - TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 07.01.2020 n. 51).
---------------
Al riguardo si legga anche:
  
G. Gabriele, Il contratto di avvalimento incontra la causa in concreto - nota a sentenza a TAR Campania, III Sez., 07.01.2020 n. 51 (07.02.2020 - link a www.giustamm.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo consolidata giurisprudenza, “l'abuso edilizio costituisce illecito permanente e l'ordinanza di demolizione ha carattere ripristinatorio, non richiedente l'accertamento del dolo o della colpa grave del soggetto cui si imputa la trasgressione. Pertanto, l'ordine di demolizione di opere abusive è legittimamente notificato al proprietario catastale dell'area, il quale fino a prova contraria è quantomeno corresponsabile dell'abuso”.
E’ pur vero che altra condivisibile giurisprudenza ha osservato che "è illegittima l'ingiunzione di demolizione che non venga notificata al responsabile dell'abuso né al proprietario dell'opera abusiva, ma solo al proprietario dell'area sulla quale è stata realizzata la stessa opera".
---------------
E' noto come, per giurisprudenza costante, la sola sanzione dell’acquisizione del bene e dell’area di sedime al patrimonio comunale prevista dall’art. 31 D.P.R. 380/2001, -e dunque non l’ordinanza di demolizione delle opere abusive- a determinate condizioni, non possa trovare applicazione nei confronti del proprietario del bene incolpevole dell’abuso edilizio realizzato da altri.
In particolare, “il proprietario incolpevole di abuso edilizio commesso da altri, che voglia sfuggire all’effetto sanzionatorio di cui all’art. 31 del testo unico dell’edilizia della demolizione o dell’acquisizione come effetto della inottemperanza all’ordine di demolizione, deve provare la intrapresa di iniziative che, oltre a rendere palese la sua estraneità all’abuso, siano però anche idonee a costringere il responsabile dell’attività illecita a ripristinare lo stato dei luoghi nei sensi e nei modi richiesti dall’autorità amministrativa. Perché vi siano misure concretanti le “azioni idonee” ad escludere l’esclusione di responsabilità o la partecipazione all’abuso effettuato da terzi, prescindendo dall’effettivo riacquisto della materiale disponibilità del bene, si ritiene necessario un comportamento attivo, da estrinsecarsi in diffide o in altre iniziative di carattere ultimativo nei confronti del conduttore (“che si sia adoperato, una volta venutone a conoscenza, per la cessazione dell’abuso”), al fine di evitare l’applicazione di una norma che, in caso di omessa demolizione dell’abuso, prevede che l’opera abusivamente costruita e la relativa area di sedime siano, di diritto, acquisite gratuitamente al patrimonio del Comune, non bastando invece a tal fine un comportamento meramente passivo di adesione alle iniziative comunali”.
---------------
Posto che primaria finalità del provvedimento impugnato è l’ingiunzione dell’ordine di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi nel termine di giorni 90, la mancata esatta indicazione delle aree da acquisire al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine impartito non comporta da sola l’illegittimità del provvedimento impugnato, considerato che l’acquisizione gratuita delle opere e relativa area di sedime al patrimonio comunale costituisce una conseguenza ex lege dell’inottemperanza all’ordine impartito, e ben può essere operata “con un successivo e separato atto”, come affermato da condivisibile giurisprudenza.
---------------
Condivisibile giurisprudenza ha da tempo osservato che “l’adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive presuppone soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso -che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato- ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi”, atteso che “al Comune compete, ai sensi dell'art. 27 del D.P.R. 380/2001, l'esercizio della vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio comunale e, pertanto, una volta accertata l'esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso di costruire l'amministrazione comunale deve disporne senz'altro la demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente la sanabilità delle stesse”.
Tale orientamento evidenzia infatti come la verifica della sanabilità di un’opera non costituisca onere dell'Amministrazione comunale, essendo per legge rimessa ogni iniziativa al riguardo all'impulso del privato interessato.
---------------
Parimenti infondate si palesano le doglianze inerenti l’asserita violazione degli artt. 3 e 7 della legge n. 241/1990, posto che, come è stato chiarito da condivisibile giurisprudenza in tema di D.I.A., con principio pacificamente applicabile anche al caso di interventi di nuova costruzione realizzati in assenza o difformità dal titolo edilizio, "i provvedimenti repressivi di abusi edilizi non devono essere preceduti dall’avviso di inizio del relativo procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati emessi all’esito di una mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime che, in quanto tali, non richiedono neppure una specifica motivazione. Pertanto, in caso di adozione di misure sanzionatorie conseguenti alla violazione di disposizioni in materia di denuncia di inizio di attività -trattandosi di provvedimenti vincolati e basati su presupposti verificabili in modo immediato- non sussistono le esigenze di garanzia e trasparenza cui sovviene il principio di partecipazione del privato al procedimento amministrativo".
---------------
Qualora il Comune disponga ai sensi dell'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'opera abusiva, tale acquisizione -in assenza di motivazioni che ne giustifichino l'estensione ad un'area ulteriore- deve essere limitata all'area su cui insistono le sole opere abusive e non all'intera e più ampia area in cui tali opere sono ricomprese, in quanto l'automatismo dell'effetto acquisitivo rende superflua ogni motivazione solo con riguardo all'area di su cui poggia l'opera abusiva.
---------------

Invero, quanto al ricorso principale, il Tribunale evidenzia come sia in primo luogo infondato il primo motivo, in cui la ricorrente Cr., proprietaria del suolo ed asseritamente non responsabile dell’abuso, lamenta che l’ordinanza di demolizione sia stata emessa anche nei suoi confronti, pur essendo la medesima totalmente estranea alla costruzione delle opere abusive, e però, destinata a subire le conseguenze dell’altrui condotta, anche in termini di eventuale successiva acquisizione gratuita del suolo al patrimonio comunale per il caso di inottemperanza alla demolizione.
Al riguardo, il Tribunale evidenzia in primo luogo come, secondo consolidata giurisprudenza, “l'abuso edilizio costituisce illecito permanente e l'ordinanza di demolizione ha carattere ripristinatorio, non richiedente l'accertamento del dolo o della colpa grave del soggetto cui si imputa la trasgressione. Pertanto, l'ordine di demolizione di opere abusive è legittimamente notificato al proprietario catastale dell'area, il quale fino a prova contraria è quantomeno corresponsabile dell'abuso” (cfr. C.d.S. Sez.VI n. 6148 del 15.12.2014).
E’ pur vero che altra condivisibile giurisprudenza ha osservato che "è illegittima l'ingiunzione di demolizione che non venga notificata al responsabile dell'abuso né al proprietario dell'opera abusiva, ma solo al proprietario dell'area sulla quale è stata realizzata la stessa opera" (cfr. TAR Lazio, Roma n. 5968 del 03.07.2007).
Tuttavia, nel caso di specie, si osserva che l’ordinanza di demolizione impugnata risulta notificata non solo alla ricorrente in qualità di proprietaria dell’opera abusiva, ma altresì all’altro ricorrente Ru.Gi. nella qualità di responsabile dell’abuso.
Sotto tale profilo, pertanto, le doglianze spiegate nel primo motivo di ricorso risultano infondate, considerato non solo che l’ordinanza di demolizione risulta notificata anche al responsabile dell’abuso, ma che la ricorrente Cr. è sicuramente proprietaria, oltre che dell’area di sedime, anche dello stesso fabbricato realizzato in assenza di titolo edilizio.
Ed invero, è noto come, per giurisprudenza costante, la sola sanzione dell’acquisizione del bene e dell’area di sedime al patrimonio comunale prevista dall’art. 31 D.P.R. 380/2001, -e dunque non l’ordinanza di demolizione delle opere abusive- a determinate condizioni, non possa trovare applicazione nei confronti del proprietario del bene incolpevole dell’abuso edilizio realizzato da altri.
In particolare, secondo il Consiglio di Stato “il proprietario incolpevole di abuso edilizio commesso da altri, che voglia sfuggire all’effetto sanzionatorio di cui all’art. 31 del testo unico dell’edilizia della demolizione o dell’acquisizione come effetto della inottemperanza all’ordine di demolizione, deve provare la intrapresa di iniziative che, oltre a rendere palese la sua estraneità all’abuso, siano però anche idonee a costringere il responsabile dell’attività illecita a ripristinare lo stato dei luoghi nei sensi e nei modi richiesti dall’autorità amministrativa. Perché vi siano misure concretanti le “azioni idonee” ad escludere l’esclusione di responsabilità o la partecipazione all’abuso effettuato da terzi, prescindendo dall’effettivo riacquisto della materiale disponibilità del bene, si ritiene necessario un comportamento attivo, da estrinsecarsi in diffide o in altre iniziative di carattere ultimativo nei confronti del conduttore (“che si sia adoperato, una volta venutone a conoscenza, per la cessazione dell’abuso”, tra tante, si veda Cassazione penale, 10.11.1998, n. 2948), al fine di evitare l’applicazione di una norma che, in caso di omessa demolizione dell’abuso, prevede che l’opera abusivamente costruita e la relativa area di sedime siano, di diritto, acquisite gratuitamente al patrimonio del Comune, non bastando invece a tal fine un comportamento meramente passivo di adesione alle iniziative comunali” (cfr. Cons. Stato sent. n. 2211 del 04.05.2015, Cons. Stato sent. n. 3897 del 07.08.2015).
Tuttavia appare evidente come tale giurisprudenza mal si attagli alla fattispecie oggetto del presente giudizio, non solo perché in tal caso risulta impugnata la sola ordinanza di demolizione delle opere abusivamente realizzate che, per le ragioni anzidette, risulta legittimamente notificata anche all’odierna ricorrente, ma anche perché, in ogni caso, il comportamento concretamente assunto dalla ricorrente, -che appare piuttosto preordinato ad evitare l’abbattimento dell’immobile abusivo che a ripristinare la legalità violata- non è tale da integrare le condizioni richieste dalla condivisibile giurisprudenza amministrativa per evitare gli effetti riconnessi all’eventuale inottemperanza all’ordinanza di demolizione, ed in particolare l’acquisizione del bene al patrimonio comunale.
Peraltro, non è nemmeno ravvisabile la dedotta violazione dell'art. 31, II comma, D.P.R. n. 380/2001, a cagione dell’erronea indicazione, nel provvedimento in oggetto, dell'area che verrebbe acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all'ordine impartito; ed invero, posto che primaria finalità del provvedimento impugnato è l’ingiunzione dell’ordine di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi nel termine di giorni 90, la mancata esatta indicazione delle aree da acquisire al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine impartito non comporta da sola l’illegittimità del provvedimento impugnato, considerato che l’acquisizione gratuita delle opere e relativa area di sedime al patrimonio comunale costituisce una conseguenza ex lege dell’inottemperanza all’ordine impartito, e ben può essere operata “con un successivo e separato atto”, come affermato da condivisibile giurisprudenza (cfr. TAR Napoli Campania, Sez. VI, 05.06.2012 n. 2635).
Parimenti infondato si palesa il secondo motivo di gravame del ricorso principale in cui i ricorrenti si dolgono che il Comune non abbia previamente valutato l’eventuale sanabilità dell’intervento edilizio realizzato; al riguardo, il Tribunale si limita ad evidenziare come condivisibile giurisprudenza abbia da tempo osservato che “l’adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive presuppone soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso -che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato- ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi”, atteso che “al Comune compete, ai sensi dell'art. 27 del D.P.R. 380/2001, l'esercizio della vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio comunale e, pertanto, una volta accertata l'esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso di costruire l'amministrazione comunale deve disporne senz'altro la demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente la sanabilità delle stesse” (cfr. ad es. TAR Campania, II Sezione, n. 3645 del 12.07.2013); tale orientamento evidenzia infatti come la verifica della sanabilità di un’opera non costituisca onere dell'Amministrazione comunale, essendo per legge rimessa ogni iniziativa al riguardo all'impulso del privato interessato (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. VI, 03.08.2015 n. 4190; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 24.09.2002 n. 5556)” (cfr. TAR Campania, Napoli, VI Sez., n. 942 del 16.02.2018).
Parimenti infondate si palesano le doglianze inerenti l’asserita violazione degli artt. 3 e 7 della legge n. 241/1990, posto che, come è stato chiarito da condivisibile giurisprudenza in tema di D.I.A., con principio pacificamente applicabile anche al caso di interventi di nuova costruzione realizzati in assenza o difformità dal titolo edilizio, "i provvedimenti repressivi di abusi edilizi non devono essere preceduti dall’avviso di inizio del relativo procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati emessi all’esito di una mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime che, in quanto tali, non richiedono neppure una specifica motivazione. Pertanto, in caso di adozione di misure sanzionatorie conseguenti alla violazione di disposizioni in materia di denuncia di inizio di attività -trattandosi di provvedimenti vincolati e basati su presupposti verificabili in modo immediato- non sussistono le esigenze di garanzia e trasparenza cui sovviene il principio di partecipazione del privato al procedimento amministrativo" (TAR Campania, sez. V, 15.01.2015, n. 225).
Per tutte le suesposte ragioni il ricorso principale è infondato.
...
Al contrario, risultano fondati e meritevoli di accoglimento i motivi aggiunti notificati in data 03.05.2013, nella sola parte in cui i ricorrenti lamentano che l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale, disposta con l’impugnata determinazione del Dirigente dell'Area tecnica – Settore Urbanistica n. 10/13 del 21.02.2013 notificata il 26.02.2013, riguardi non solo l’edificio di 100 mq. realizzato in assenza di titolo edilizio ed oggetto dell’ingiunta demolizione, ma altresì l'intera area di sedime e l'area circostante, corrispondente a mq. 415 della particella n. 193 del foglio 34, pur risultando la stessa occupata da immobili regolarmente assentiti, in assenza di qualsivoglia motivazione in ordine alle ragione sottese alla disposta acquisizione dell’intera area di sedime (e non solo di quella occupata dal manufatto abusivo di cui è stato –legittimamente per le ragioni anzidette– disposto l’abbattimento).
Al riguardo, occorre evidenziare come, secondo la condivisibile giurisprudenza, qualora il Comune disponga ai sensi dell'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'opera abusiva, tale acquisizione -in assenza di motivazioni che ne giustifichino l'estensione ad un'area ulteriore- deve essere limitata all'area su cui insistono le sole opere abusive e non all'intera e più ampia area in cui tali opere sono ricomprese, in quanto l'automatismo dell'effetto acquisitivo rende superflua ogni motivazione solo con riguardo all'area di su cui poggia l'opera abusiva (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VII, n. 4259/2011 e sez. VI, n. 4336/2005, TAR Sicilia-Catania, Sez. I, n. 2268/2016) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 07.01.2020 n. 49 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia edilizia, ai fini della legittimazione e dell’interesse a ricorrere o a intervenire in giudizio, è sufficiente la mera vicinitas, ossia la dimostrazione di uno stabile collegamento materiale tra l’immobile del soggetto istante e quello interessato dalle opere abusive (nella specie, come visto, palesemente sussistente), escludendosi in linea di principio la necessità di comprovare l’esistenza di un pregiudizio specifico ed ulteriore, atteso che tale pregiudizio deve ragionevolmente ritenersi integrato in re ipsa, in quanto conseguenza ineludibile della minore qualità urbanistica, panoramica, ambientale e paesaggistica dell’area compromessa dall’illecita edificazione.
---------------

2. In via preliminare, occorre soffermarsi sull’eccezione di inammissibilità dell’intervento ad opponendum formulata dal ricorrente, fondata sul rilievo della carenza di interesse all’attivazione di tale mezzo processuale, atteso che il terzo “non subirebbe alcun pregiudizio all’interno della propria sfera giuridica dall’annullamento dei provvedimenti gravati”.
L’eccezione va disattesa in virtù del dato pacifico che il Sig. Sa. è proprietario di un’unità immobiliare situata nello stesso fabbricato interessato dall’attività edilizia sanzionata, più precisamente di una porzione immobiliare posta nelle immediate vicinanze del manufatto abusivo.
Invero in materia edilizia, ai fini della legittimazione e dell’interesse a ricorrere o a intervenire in giudizio, è sufficiente la mera vicinitas, ossia la dimostrazione di uno stabile collegamento materiale tra l’immobile del soggetto istante e quello interessato dalle opere abusive (nella specie, come visto, palesemente sussistente), escludendosi in linea di principio la necessità di comprovare l’esistenza di un pregiudizio specifico ed ulteriore, atteso che tale pregiudizio deve ragionevolmente ritenersi integrato in re ipsa, in quanto conseguenza ineludibile della minore qualità urbanistica, panoramica, ambientale e paesaggistica dell’area compromessa dall’illecita edificazione (orientamento consolidato: cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. II, 30.09.2019 n. 6519; Consiglio di Stato, Sez. VI, 23.05.2019 n. 3386; TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 17.09.2019 n. 4515) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 07.01.2020 n. 46 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La veranda realizzata su un terrazzo e/o su un balcone facenti parte di un immobile principale, essendo materialmente incorporata all’immobile principale di cui costituisce parte integrante e zona di ampliamento volumetrico, non può essere ricondotta alla nozione di pertinenza urbanisticamente rilevante, la quale, invece, postula indefettibilmente l’individualità fisica e strutturale del manufatto destinato a servizio od ornamento di quello principale, con conseguente assoggettabilità dell’intervento al regime del permesso di costruire ed al corrispondente sistema sanzionatorio di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001.
Invero, è principio consolidato che l’opera pertinenziale è collegata alla costruzione preesistente in termini non di integrazione ma di asservimento, per cui deve renderne più agevole e funzionale l’uso, ma non deve divenire parte essenziale della costruzione stessa, come avvenuto nel caso di specie.
Ad ogni modo, il Collegio ritiene che il manufatto in questione, in sé considerato ed indipendentemente dalla denegata qualificazione di pertinenza, sia stato correttamente inquadrato quale nuova costruzione soggetta al trattamento sanzionatorio contemplato dal succitato art. 31, poiché la ristrutturazione edilizia sussiste solo quando viene modificato un immobile già esistente nel rispetto delle caratteristiche fondamentali dello stesso, mentre nel caso di specie è stata aggiunta alla precedente unità abitativa una nuova struttura verandata di due vani, adibita a cucina e servizio igienico, con conseguente creazione non solo di un non trascurabile aumento di volume ma anche di un disegno sagomale con connotati alquanto diversi da quelli dell’edificio originario.
Invero, pur consentendo l’art. 10, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380/2001 di qualificare come interventi di ristrutturazione edilizia anche le attività volte a realizzare un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, implicanti modifiche della volumetria complessiva, della sagoma o dei prospetti, tuttavia occorre conservare sempre una identificabile linea distintiva tra le nozioni di ristrutturazione edilizia e di nuova costruzione, potendo configurarsi la prima solo quando le modifiche volumetriche e di sagoma siano di portata limitata e comunque riconducibili all’organismo preesistente.
---------------

3. Passando allo scrutinio del merito della causa, vale cominciare dalle censure articolate avverso l’ordinanza di demolizione n. 6/2013, le quali possono essere così riassunte:
   a) il provvedimento demolitorio, in violazione del principio del ne bis in idem e del collegato principio del previo intervento in autotutela, è stato indebitamente adottato, in costanza di identità di parti e di fatti già sanzionati, “in difetto di un preventivo provvedimento di revoca o annullamento ex artt. 21-quinquies e nonies della L. n. 241/1990 e s.m.i. ovvero di qualsivoglia menzione della precedente ordinanza n. 48/2003, mercé la quale il Comune di Arzano aveva qualificato l’opera realizzata dal sig. Se. quale intervento di ristrutturazione edilizia edificato in assenza di permesso di costruire o in totale difformità, per tal via irrogando l’ammenda ai sensi e per gli effetti dell’art. 33, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, poi pagata dall’odierno ricorrente nel termine assegnato dal Dirigente”;
   b) la veranda posta in essere non è riconducibile al regime del permesso di costruire per nuova costruzione ed al relativo corredo sanzionatorio, ma viceversa è assoggettabile, per la sua natura pertinenziale, alla disciplina dell’attività di ristrutturazione edilizia, connotata dall’eventuale applicazione del più mite sistema sanzionatorio pecuniario di cui all’art. 33 del d.P.R. n. 380/2001.
Le prefate doglianze non meritano condivisione per le ragioni di seguito esplicitate.
4. Come correttamente eccepito dalla difesa comunale, gli abusi sanzionati con l’ordinanza di demolizione n. 6/2013 e con la precedente ordinanza n. 48/2003 non sono tra loro sovrapponibili in quanto, come si evince dall’esame testuale delle stesse, sono rinvenibili le seguenti incolmabili differenze di contenuto:
   i) l’ordinanza di demolizione del 2013 sanziona l’edificazione di una struttura verandata adibita a cucina e servizio igienico, con conseguente creazione di due nuovi vani abitabili, mentre l’ordinanza del 2003 si occupa della realizzazione di un locale per servizi tecnologici, che viceversa è destinato ad ospitare la dotazione impiantistica dell’unità immobiliare di riferimento senza creare nuovi spazi abitabili;
   ii) l’opera abusiva sanzionata nel 2013 insiste sia sul terrazzo che sul balcone dell’appartamento di proprietà del ricorrente, mentre il manufatto colpito dall’ordinanza del 2003 trova collocazione esclusivamente sul predetto terrazzo.
Ne deriva che, trattandosi di attività illecite di diversa consistenza, non può affatto ritenersi che l’amministrazione comunale avesse duplicato per la stessa fattispecie il trattamento sanzionatorio applicabile, addirittura aggravandolo in seconda battuta mediante l’irrogazione della più incisiva misura demolitoria.
5. La veranda realizzata su un terrazzo e/o su un balcone facenti parte di un immobile principale, essendo materialmente incorporata all’immobile principale di cui costituisce parte integrante e zona di ampliamento volumetrico, non può essere ricondotta alla nozione di pertinenza urbanisticamente rilevante, la quale, invece, postula indefettibilmente l’individualità fisica e strutturale del manufatto destinato a servizio od ornamento di quello principale, con conseguente assoggettabilità dell’intervento al regime del permesso di costruire ed al corrispondente sistema sanzionatorio di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001.
Invero, è principio consolidato che l’opera pertinenziale è collegata alla costruzione preesistente in termini non di integrazione ma di asservimento, per cui deve renderne più agevole e funzionale l’uso, ma non deve divenire parte essenziale della costruzione stessa, come avvenuto nel caso di specie (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 16.05.2013 n. 2678; Cass. Pen., Sez. III, 08.04.2015 n. 20544; TAR Liguria, Sez. I, 13.02.2014 n. 269; TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 07.02.2014 n. 883; TAR Trentino Alto Adige Trento, Sez. I, 11.02.2012 n. 264; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 16.12.2011 n. 5912).
5.1 Ad ogni modo, il Collegio ritiene che il manufatto in questione, in sé considerato ed indipendentemente dalla denegata qualificazione di pertinenza, sia stato correttamente inquadrato quale nuova costruzione soggetta al trattamento sanzionatorio contemplato dal succitato art. 31, poiché la ristrutturazione edilizia sussiste solo quando viene modificato un immobile già esistente nel rispetto delle caratteristiche fondamentali dello stesso, mentre nel caso di specie è stata aggiunta alla precedente unità abitativa una nuova struttura verandata di due vani, adibita a cucina e servizio igienico, con conseguente creazione non solo di un non trascurabile aumento di volume ma anche di un disegno sagomale con connotati alquanto diversi da quelli dell’edificio originario.
Invero, pur consentendo l’art. 10, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380/2001 di qualificare come interventi di ristrutturazione edilizia anche le attività volte a realizzare un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, implicanti modifiche della volumetria complessiva, della sagoma o dei prospetti, tuttavia occorre conservare sempre una identificabile linea distintiva tra le nozioni di ristrutturazione edilizia e di nuova costruzione, potendo configurarsi la prima solo quando le modifiche volumetriche e di sagoma siano di portata limitata e comunque riconducibili all’organismo preesistente (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. II, 09.01.2017 n. 189; TAR Emilia Romagna Bologna, Sez. II, 25.02.2010 n. 1613).
6. Pertanto, resistendo la gravata ordinanza di demolizione a tutte le censure prospettate, l’impugnativa mossa nei suoi confronti deve essere respinta per infondatezza (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 07.01.2020 n. 46 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio osserva, alla luce della circostanza pacifica della comunione insistente sull’area cortilizia tra i comproprietari del fabbricato, che il meccanismo sanzionatorio predisposto dal testo unico sull’edilizia in caso di mancata ottemperanza all’ordine demolitorio, esclude assolutamente che l’acquisizione gratuita possa determinare il sacrificio di diritti reali di terzi su beni diversi da quello abusivo o da quelli ad esso strettamente pertinenziali di proprietà dei destinatari dell’ingiunzione a demolire: tanto nell’ovvio rispetto delle garanzie costituzionali poste a presidio della proprietà privata, le quali non consentono che un soggetto possa rispondere con i propri beni dell’attività illecita commessa da altri.
Ne discende che la gravata ordinanza di acquisizione gratuita, determinando l’acquisto di una porzione immobiliare, adibita ad area cortilizia, appartenente a soggetti non coinvolti nella realizzazione dell’abuso e non interessati dalla precedente sanzione demolitoria, si palesa illegittima per violazione dell’art. 42 della Costituzione e dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, con la conseguenza che merita di essere annullata in parte qua.
---------------

8. Rimangono da esaminare le ulteriori censure, formulate nei motivi aggiunti, con cui il ricorrente mira ad infirmare l’ordinanza acquisitiva nella parte in cui ha disposto l’acquisizione gratuita di quota parte dell’area del cortile di pertinenza del fabbricato.
Con una prima doglianza, dedotta in via principale, parte ricorrente denuncia che tale porzione di area è stata indebitamente acquisita pur appartenendo in comunione ai comproprietari del fabbricato, con conseguente violazione del principio di tutela della proprietà privata di cui all’art. 42 della Costituzione e dello stesso art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, che impediscono che la misura repressiva in questione possa incidere su beni appartenenti ad altri soggetti totalmente estranei all’abuso.
La censura è fondata e merita accoglimento.
Il Collegio osserva, alla luce della circostanza pacifica della comunione insistente sull’area cortilizia tra i comproprietari del fabbricato, che il meccanismo sanzionatorio predisposto dal testo unico sull’edilizia in caso di mancata ottemperanza all’ordine demolitorio, esclude assolutamente che l’acquisizione gratuita possa determinare il sacrificio di diritti reali di terzi su beni diversi da quello abusivo o da quelli ad esso strettamente pertinenziali di proprietà dei destinatari dell’ingiunzione a demolire: tanto nell’ovvio rispetto delle garanzie costituzionali poste a presidio della proprietà privata, le quali non consentono che un soggetto possa rispondere con i propri beni dell’attività illecita commessa da altri (cfr. Cass. Civ. Sez. III, 04.06.2013 n. 14022; TAR Lazio Roma, Sez. II, 08.10.2018 n. 9799).
Ne discende che la gravata ordinanza di acquisizione gratuita, determinando l’acquisto di una porzione immobiliare, adibita ad area cortilizia, appartenente a soggetti non coinvolti nella realizzazione dell’abuso e non interessati dalla precedente sanzione demolitoria, si palesa illegittima per violazione dell’art. 42 della Costituzione e dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, con la conseguenza che merita di essere annullata in parte qua (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 07.01.2020 n. 46 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La chiusura di un terrazzo con dei pannelli trasparenti frangivento scorrevoli senza telai e montanti non richiede alcuna licenza edilizia.
Il manufatto in contestazione viene descritto nel verbale di sopralluogo, e nell'ordinanza di demolizione, come segue: “chiusura di due balconi di pertinenza dell’unità immobiliare delle dimensioni, rispettivamente, di mt. 7,00 x 1,00 e mt. 5,00 x 1,00, con struttura composta di pannelli in plexiglass che scorrono su guide.”.
Negli atti non vi è alcuna ulteriore precisazione circa le caratteristiche effettivamente rilevanti per ascrivere il manufatto piuttosto ad una veranda (disciplinata dal regolamento edilizio e necessitante di titolo edilizio), ovvero a semplici tende; non si comprende infatti, dagli atti del procedimento, se la struttura contestata sia movibile o meno e tanto meno si comprende se essa implichi la presenza di elementi fissi oppure no.
Nel contraddittorio procedimentale l’amministrazione ha apoditticamente sostenuto che per le “consuetudini applicative” del Comune i manufatti sarebbero inquadrabili nelle verande che l’art. 122.2 del regolamento edilizio comunale definisce “costruzioni accessorie alle abitazioni costituite da pareti e copertura vetrate e da struttura in legno o metallo strettamente limitata alla funzione portante…”.
Confrontando la definizione del regolamento edilizio con la scarna descrizione riportata nel verbale di sopralluogo non si comprende dove l’amministrazione abbia individuato una struttura portante in legno o metallo e con quali caratteristiche tali da giustificare l’assimilazione ad una veranda piuttosto che ad una semplice tenda, che pure necessita quantomeno di una guida per l’installazione, e che la stessa amministrazione colloca in regime di edilizia libera.
Secondo la descrizione fornita in ricorso, e comunque non smentita dall’amministrazione (su cui grava l’onere di provare il fondamento del provvedimento adottato), i pannelli in plexiglass non sono tra loro “accostati” e lasciano passare l’aria, limitandosi, appunto, a scorrere su guide e potendosi interamente ripiegare, sicché in pratica alcuna struttura o elemento rimane visibile sul balcone; non è presente alcun montante laterale e il manufatto è interamente trasparente; tanto meno si realizza una chiusura tale da rendere il balcone potenzialmente idoneo ad essere utilizzato come locale abusivo.
---------------

Il manufatto in contestazione viene descritto nel verbale di sopralluogo come segue: “chiusura di due balconi di pertinenza dell’unità immobiliare delle dimensioni, rispettivamente, di mt. 7,00 x 1,00 e mt. 5,00 x 1,00, con struttura composta di pannelli in plexiglass che scorrono su guide.” La medesima frase è riporta nell’ordinanza di demolizione.
Negli atti non vi è alcuna ulteriore precisazione circa le caratteristiche effettivamente rilevanti per ascrivere il manufatto piuttosto ad una veranda (disciplinata dal regolamento edilizio e necessitante di titolo edilizio), ovvero a semplici tende; non si comprende infatti, dagli atti del procedimento, se la struttura contestata sia movibile o meno e tanto meno si comprende se essa implichi la presenza di elementi fissi oppure no.
Nel contraddittorio procedimentale l’amministrazione ha apoditticamente sostenuto che per le “consuetudini applicative” del Comune i manufatti sarebbero inquadrabili nelle verande che l’art. 122.2 del regolamento edilizio comunale definisce “costruzioni accessorie alle abitazioni costituite da pareti e copertura vetrate e da struttura in legno o metallo strettamente limitata alla funzione portante…”.
Confrontando la definizione del regolamento edilizio con la scarna descrizione riportata nel verbale di sopralluogo non si comprende dove l’amministrazione abbia individuato una struttura portante in legno o metallo e con quali caratteristiche tali da giustificare l’assimilazione ad una veranda piuttosto che ad una semplice tenda, che pure necessita quantomeno di una guida per l’installazione, e che la stessa amministrazione colloca in regime di edilizia libera.
Secondo la descrizione fornita in ricorso, e comunque non smentita dall’amministrazione (su cui grava l’onere di provare il fondamento del provvedimento adottato), i pannelli in plexiglass non sono tra loro “accostati” e lasciano passare l’aria, limitandosi, appunto, a scorrere su guide e potendosi interamente ripiegare, sicché in pratica alcuna struttura o elemento rimane visibile sul balcone; non è presente alcun montante laterale e il manufatto è interamente trasparente; tanto meno si realizza una chiusura tale da rendere il balcone potenzialmente idoneo ad essere utilizzato come locale abusivo.
Le fotografie prodotte dai ricorrenti non aiutano in modo specifico, limitandosi a proporre il balcone vuoto; le fotografie allegate al sopralluogo da parte dell’amministrazione, se pure sembrano rappresentare i pannelli in apertura, non consentono in alcun modo di individuare strutture portanti che giustificherebbero il più severo inquadramento scelto dall’amministrazione.
In definiva, a fronte di un manufatto nuovo che non presenta le caratteristiche standard né della veranda né della semplice tenda, è evidente che la contestazione avrebbe richiesto a supporto la puntuale analisi degli elementi discriminanti (quali ad esempio la presenza di strutture portanti verticali, ancorché leggere, inamovibili) che possano giustificare l’addebito.
Per contro, e mentre la parte ha ampiamente prodotto documentazione e descritto il manufatto, l’amministrazione si è limitata all’apodittica affermazione che una non meglio chiarita “consuetudine applicativa” porterebbe ad assimilare la struttura ad una veranda senza neppure farsi carico, visto che la descrizione che ne offre lo stesso verbale di sopralluogo non collima esattamente con quella prevista per le verande dal regolamento comunale, di giustificare in concreto il proprio assunto.
Il primo motivo di ricorso deve quindi trovare accoglimento, con annullamento del provvedimento impugnato (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 07.01.2020 n. 18 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Impugnazione di una variante ad un permesso di costruire già oggetto di gravame.
L'omessa impugnazione di una variante non essenziale di un permesso di costruire, che si innesta su un precedente titolo edilizio, non determina l’improcedibilità del ricorso avverso il permesso edilizio originario, restando infatti caducata dall'annullamento del permesso originario, in considerazione del rapporto di presupposizione e continuità intercorrente fra i titoli edilizi succedutisi nel tempo (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 07.01.2020 n. 13 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
I.2) Sotto altro profilo, la difesa comunale deduce l’improcedibilità del ricorso in relazione alla mancata impugnazione del permesso di costruire in variante n. 4025/2009, rilasciato nelle more del giudizio.
Anche tale eccezione va respinta.
Successivamente alla presentazione del ricorso, il controinteressato si è infatti limitato a chiedere ed ottenere una variante per la realizzazione di talune opere marginali, quali la riduzione di un intercapedine mediante la realizzazione di c.d. “bocche di lupo”, ed altre interne, finalizzate al mero consolidamento della struttura, che non hanno alterato in modo significativo il progetto originario.
Per giurisprudenza costante, l’omessa impugnazione di una variante non essenziale, che si innesta su un precedente titolo edilizio, non determina l’improcedibilità del ricorso, restando infatti caducata dall'annullamento del permesso originario, in considerazione del rapporto di presupposizione e continuità intercorrente fra i titoli edilizi succedutisi nel tempo (C.S., Sez. VI, 12.11.2014, n. 5552, che ha confermato TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 1956/2012).

EDILIZIA PRIVATA: Nelle controversie che hanno ad oggetto i titoli edilizi, la vicinitas, intesa come situazione di stabile collegamento con l'immobile interessato dalle opere, costituisce infatti elemento di per sé sufficiente a fondare l'interesse ad agire
---------------

I.3) Infine, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa comunale, va pacificamente riconosciuta la legittimazione ad agire dei ricorrenti, in quanto proprietari di immobili contigui a quello oggetto del provvedimento impugnato.
Nelle controversie che hanno ad oggetto i titoli edilizi, la vicinitas, intesa come situazione di stabile collegamento con l'immobile interessato dalle opere, costituisce infatti elemento di per sé sufficiente a fondare l'interesse ad agire (TAR Campania, Salerno, Sez. II, 06.11.2017, n. 1580) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 07.01.2020 n. 13 - link a www.giustizia-amministrativa
.it).

EDILIZIA PRIVATA: La volumetria del piano interrato non è computabile solo qualora i relativi locali siano destinati ad usi episodici o meramente complementari, diversamente da quanto accade se gli stessi, come nel caso di specie, siano adibiti ad attività di tipo continuativo, in cui occorre invece considerarli a tutti gli effetti.
---------------

II.2) In ogni caso, le specifiche censure indirizzate avverso l’attività del verificatore risultano inconsistenti.
In particolare, secondo il tecnico nominato dal Comune, il verificatore sarebbe giunto al calcolo dei volumi applicando criteri errati, in quanto contrastanti con quanto previsto dall’art. 4.14 delle Norme Tecniche di Attuazione vigenti al momento del rilascio del permesso di costruire impugnato, la cui corretta interpretazione, avrebbe invece reso necessario escludere la parte interrata del manufatto.
Osserva il Collegio che, come sostenuto dallo stesso resistente nella sua memoria finale, in base a quanto previsto nella L.R. 11.3.2005 n. 12, la “quantità di volumetria o superficie abitabile”, va calcolata con riferimento alla c.d. SLP, che costituisce “l’unico parametro che deve essere utilizzato ai fini del rispetto dell’indice di utilizzazione fondiaria”.
A sua volta, l’art 4.3 delle NTA vigenti al momento della realizzazione dell’intervento oggetto del presente giudizio, prevedeva che la Superficie Lorda di Pavimento consistesse nella “somma delle superfici dei singoli piani abitabili o agibili, eventualmente anche interrati”, ciò che pertanto conferma la correttezza del criterio seguito dal verificatore.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla resistente e dalla controinteressata, l’art. 4.14 non consente di escludere dal computo della SLP la superficie dei locali adibiti a seminterrato. Malgrado la lettera B) di tale disposizione preveda il computo della SLP dei soli “piani fuori terra”, ciò vale solo per i locali con le destinazioni ivi menzionate, e pertanto, per quelli “con funzione di disimpegno interno all’appartamento o con funzione accessoria, come ad esempio le scale, i disimpegni, i ripostigli, i servizi igienici, i locali da gioco per uso famigliare, le cantine, le lavanderie, le stirerie, ecc.”.
Nel caso di specie, come accertato dal verificatore, il piano seminterrato è attualmente occupato da “bovini ed attrezzature”, essendo sostanzialmente destinato a stalla, ciò che rappresenta la funzione principale dell’edificio in cui si trova, non potendo pertanto essere considerata “accessoria”, ciò che, come detto, è invece richiesto dall’art. 4.14.B cit., ai fini dello scorporo dalla relativa SLP da quella complessiva.
Quanto precede, oltre a risultare dall’interpretazione letterale delle NTA, trova inoltre conferma nella giurisprudenza consolidata, secondo cui la volumetria del piano interrato non è computabile solo qualora i relativi locali siano destinati ad usi episodici o meramente complementari, diversamente da quanto accade se gli stessi, come nel caso di specie, siano adibiti ad attività di tipo continuativo, in cui occorre invece considerarli a tutti gli effetti (Cass. Civ. Sez. Trib., 18.05.2016, n. 10191, TAR Lazio, Roma, Sez. I, 09.12.2011, n. 9646, TAR Puglia, Lecce, Sez. I, 11.03.2009, n. 475)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 07.01.2020 n. 13 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIAssociazioni di categoria in giudizio, ma con giudizio. Sono legittimate a stare in giudizio solo in caso di lesione di un interesse omogeneo comune all’intera categoria. Lo ha precisato il Tar per la Lombardia.
Le associazioni di categoria sono legittimate a stare in giudizio solo in caso di lesione di un interesse omogeneo comune all'intera categoria.

Lo ha precisato il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, con la sentenza 02.01.2020 n. 2.
La controversia verte sulla delibera della Regione Lombardia con la quale era stata riorganizzata la rete di offerta e modalità di presa in carico dei pazienti cronici e fragili. A seguito di tale delibera i medici di medicina generale non avrebbero più potuto assumere il ruolo di clinical manager del proprio assistito e redigere il Piano di assistenza individuale in modo autonomo, ma lo avrebbero fatto solo in forma associata, previa iscrizione in un apposito elenco di idonei, con altri medici generici o assumendo il ruolo di co-gestore.
Il sindacato Italiano medici del territorio aveva, quindi, impugnato la delibera lamentando la lesione e la dequotazione del ruolo del medico di medicina generale nella presa in carico del paziente cronico.
Il Tribunale amministrativo regionale dichiara il difetto di legittimazione ad agire del sindacato.
Il collegio premette, infatti, che il sistema di tutela giurisdizionale amministrativa ha «il carattere di giurisdizione soggettiva e non di difesa dell'oggettiva legittimità dell'azione amministrativa, alla stregua di un'azione popolare». Non è concesso, pertanto, un ampliamento della legittimazione attiva al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge.
Detto ciò, le associazioni di categoria sono legittimate a stare in giudizio solo in caso di lesione di un interesse omogeneo comune all'intera categoria e non anche quando si verta su questioni capaci di dividere la categoria in posizioni contrastanti.
L'interesse collettivo dell'associazione, infatti, deve identificarsi con l'interesse di tutti gli appartenenti alla categoria unitariamente considerata non potendo l'associazione agire dove vi sia disomogeneità delle posizioni al suo interno.
Ora, nel caso di specie va osservato che diversi medici iscritti al sindacato ricorrente hanno aderito, fin dall'esordio, al nuovo modello gestionale, manifestando dunque un interesse contrario a quello tutelato con il presente ricorso dal sindacato di appartenenza.
In altri termini i giudici rilevano l'eterogeneità delle posizioni assunte dal sindacato e da alcuni medici appartenenti allo stesso e il conflitto di interessi tra l'associazione e alcuni dei suoi iscritti.
Tale circostanza porta inevitabilmente all'inammissibilità del ricorso
(articolo ItaliaOggi dell'11.01.2020).

EDILIZIA PRIVATAL'individuazione della superficie dell'area di sedime da acquisire al patrimonio del Comune in caso di inottemperanza dell'ordinanza di demolizione non deve essere contenuta necessariamente in quest'ultimo provvedimento, bensì, a pena d'illegittimità, nel successivo atto d'acquisizione gratuita del bene, costituendo quest'ultimo il titolo per l'immissione in possesso dell'opera e per la trascrizione nei registri immobiliari.
---------------

9. Il primo motivo va respinto alla luce dei consolidati principi giurisprudenziali, più volte affermati anche da questo Tribunale, secondo cui “l'individuazione della superficie dell'area di sedime da acquisire al patrimonio del Comune in caso di inottemperanza dell'ordinanza di demolizione non deve essere contenuta necessariamente in quest'ultimo provvedimento, bensì, a pena d'illegittimità, nel successivo atto d'acquisizione gratuita del bene, costituendo quest'ultimo il titolo per l'immissione in possesso dell'opera e per la trascrizione nei registri immobiliari” (ex multis: TAR Torino, sez. II, 05.04.2019, n. 405; TAR Torino, sez. II, 14/11/2018, n. 1246; Consiglio di Stato, sez. VI, 06/02/2018, n. 755) (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 02.01.2020 n. 1 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell'art. 27, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 deve sempre essere disposta la rimozione delle opere abusive che risultino essere state realizzate in difformità dalle previsioni delle norme e prescrizioni edilizie ed urbanistiche, ancorché, in ipotesi, soggette a mero regime autorizzativo, dovendosi applicare la sola pena pecuniaria alle opere abusivamente realizzate soggette a d.i.a. o s.c.i.a. ma che non siano difformi dallo strumento urbanistico, e per le quali non sia stata tempestivamente presentata istanza per il rilascio di sanatoria ex art. 36, cit. d.P.R. n. 380 del 2001.
Altresì, le opere edilizie abusive, anche qualora abbiano natura pertinenziale o precaria e, quindi, siano assentibili con mera Dia, se realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico, debbono considerarsi comunque eseguite in totale difformità dalla concessione, laddove non sia stata ottenuta alcuna preventiva autorizzazione paesaggistica e, conseguentemente, deve essere applicata la sanzione demolitoria
.
---------------

10. L’affermazione del ricorrente, secondo cui le opere abusivamente realizzate sarebbero state soggette a d.i.a., e non già a permesso di costruire, risulta destituita di fondamento: infatti, secondo quanto emerge dalla descrizione dei manufatti effettuata dai tecnici che hanno eseguito il sopralluogo il -OMISSIS-, non smentita dal ricorrente, i manufatti sanzionati hanno comportato una rilevante modificazione del territorio, con la realizzazione di un terrapieno, prima inesistente, eseguito mediante riporto di oltre 1000 mc di terreno, e di un nuovo fabbricato chiaramente destinato ad uso antropico. Si tratta, all’evidenza, di opere edilizie integranti “nuova costruzione”, come tali soggette a preventivo rilascio del permesso di costruire.
10.1. Peraltro occorre rammentare che “Ai sensi dell'art. 27, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 deve sempre essere disposta la rimozione delle opere abusive che risultino essere state realizzate in difformità dalle previsioni delle norme e prescrizioni edilizie ed urbanistiche, ancorché, in ipotesi, soggette a mero regime autorizzativo, dovendosi applicare la sola pena pecuniaria alle opere abusivamente realizzate soggette a d.i.a. o s.c.i.a. ma che non siano difformi dallo strumento urbanistico, e per le quali non sia stata tempestivamente presentata istanza per il rilascio di sanatoria ex art. 36, cit. d.P.R. n. 380 del 2001” (TAR Piemonte, sez. II, 09/06/2016, n. 780), e che “Le opere edilizie abusive, anche qualora abbiano natura pertinenziale o precaria e, quindi, siano assentibili con mera Dia, se realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico, debbono considerarsi comunque eseguite in totale difformità dalla concessione, laddove non sia stata ottenuta alcuna preventiva autorizzazione paesaggistica e, conseguentemente, deve essere applicata la sanzione demolitoria” (C.d.S. sez. IV, 26/09/2018, n. 5524): nel caso di specie non risulta che le opere fosse conformi alle norme urbanistiche vigenti per la zona; anche l’insistenza, sul fondo, di ben due vincoli, uno dei quali (quello di rispetto stradale) comportante inedificabilità assoluta, imponeva in ogni caso la demolizione (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 02.01.2020 n. 1 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura abusiva delle opere edilizie, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto e, in quanto tale, non deve essere preceduto dall'avviso ex art. 7 della L. 07.08.1990, n. 241, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge.
Pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia l'abuso, di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo.
---------------
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha definitivamente acclarato che il decorso del tempo non incide sull’obbligo, delle Amministrazioni, di perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, affermando che, nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione, la mera inerzia da parte dell’amministrazione non consuma il potere di reprimere l’abuso, non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo, realizzando una forma di sanatoria automatica o praeter legem, e neppure può radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario dell’abuso.
---------------

12. Il quarto motivo, volto al lamentare l'omissione della comunicazione di avvio del procedimento, va respinto in applicazione della giurisprudenza secondo cui l'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura abusiva delle opere edilizie, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto e, in quanto tale, non deve essere preceduto dall'avviso ex art. 7 della L. 07.08.1990, n. 241, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge; pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia l'abuso, di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo (Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.06.2017, n. 2681; V, 28.04.2014, n. 2194).
13. Per la medesima ragione, ovvero per la natura vincolata della sanzione demolitoria, conseguente al rilievo della abusività delle opere, va respinto il quinto motivo, con il quale il ricorrente invoca a proprio favore il lungo lasso di tempo trascorso dalla realizzazione delle opere abusive.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 9 del 17.10.2017, ha infatti definitivamente acclarato che il decorso del tempo non incide sull’obbligo, delle Amministrazioni, di perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, affermando che, nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione, la mera inerzia da parte dell’amministrazione non consuma il potere di reprimere l’abuso, non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo, realizzando una forma di sanatoria automatica o praeter legem, e neppure può radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario dell’abuso (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 02.01.2020 n. 1 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAIl vincolo cimiteriale ha ulteriori finalità, quali quella di assicurare il “decoro del luogo di culto” e, soprattutto, la funzione di assicurare una cintura sanitaria attorno a luoghi insalubri.
Quest’ultima finalità costituisce la principale ratio delle zone di rispetto dei cimiteri, che per tale motivo di superiore interesse pubblico è stata fissata dall’art. 338 del TU n. 1265/1934 in 200 metri dai centri abitati, una fascia di rispetto nella quale è vietato costruire nuovi edifici o ampliare quelli preesistenti, salvo deroghe ed eccezioni normativamente previste.
Successivamente, il disposto normativo è stato completato con la precisazione “salvo deroghe ed eccezioni normativamente previste”, dall'art. 28 della l. 01.08.2002, n. 166, che ha ripreso alcune previsioni previgenti (art. 57, co. 3-4, DPR 285/1990 Regolamento di polizia mortuaria, art. 1 Legge n. 983/1957- DPR n. 803/1975) –che consentivano, in determinate circostanze, la possibilità di ridurre tale distanza– che sono state abrogate dall'art. 28 della l. 01.08.2002, n. 166 e sostituiti dai commi quarto, quinto e settimo dell'art. 338 del r.d. 1265 del 1934, novellato dalla stessa legge, a partire dalla sua entrata in vigore.
Va da subito ricordato che, secondo la lettura della giurisprudenza in materia l'istituto della riduzione della fascia di rispetto, derivante dal combinato disposto dell'art. 338, quarto comma, del r.d. 1265 del 1934 e dell'art. 57, comma 4, del d.P.R. 285 del 1990, “attiene solo ed esclusivamente alle predette ipotesi di estensione dell'area cimiteriale, e non contempla una correlativa facoltà del privato di insediarsi in deroga alla fascia vigente. L'istituto stesso risulta infatti essenzialmente deputato a soddisfare il pubblico interesse al reperimento di aree per le sepolture anche in deroga all'ordinario limite dei duecento metri nei "casi di speciali condizioni locali", ferma restando la necessità della tutela dell'igiene pubblica e della sacralità dei luoghi. In questo senso, quindi, l'istituto assolve a necessità che trascendono l'interesse del singolo, che non può per certo sostenerne la correlativa applicabilità uti singuli”.
Inoltre, per quanto attiene al quinto comma dell'art. 338 del r.d. 1265 del 1934 come sostituito dall'art. 1 della l. 983 del 1957, si ribadiva che la riduzione della fascia di rispetto su richiesta del Consiglio Comunale per "gravi e giustificati motivi" poteva a sua volta avvenire soltanto per esigenze di interesse pubblico, come del resto accade a tutt'oggi nell'attuale vigenza della corrispondente disciplina novellata dello stesso art. 338, quinto comma e “sempre ad esclusiva iniziativa del pubblico potere a ciò competente, e non già ad iniziativa del privato (…). In questo caso, quindi, la mera previsione da parte del legislatore di una possibile azione amministrativa finalizzata alla riduzione dell'estensione della fascia di rispetto non identificava, e non identifica, un mutamento della natura intrinsecamente e indefettibilmente assoluta del vincolo, ma consentiva e consente ai pubblici poteri di disporre, nel contesto delle proprie funzioni di pianificazione del territorio e mediante il procedimento speciale inderogabilmente al riguardo contemplato, la localizzazione di opere pubbliche o di pubblico interesse e di standard e, in genere, la realizzazione di opere edilizie e l'insediamento di attività reputate compatibili, sotto il profilo sia igienico-sanitario, sia del mantenimento della sacralità del luogo, con la perdurante insistenza del vincolo. Pertanto si tratta di una possibilità riservata all’iniziativa dei pubblici poteri, nelle particolari circostanze e con le finalità previste dalla normativa.”
La prescrizione della fascia di inedificabilità in contestazione, ribadita dalla legge soprarichiamata, è stata da sempre considerata, indipendentemente dal livello della fonte, come norma che ha rango superiore agli strumenti urbanistici comunali per cui opera con efficacia diretta ed immediata a prescindere dal recepimento in questi ultimi, che non sono idonei ad incidere sull’esistenza o sui limiti di tale vincolo, e prevale su eventuali previsioni difformi dello strumento urbanistico, ed il limite all’attività costruttiva in tale fascia è stato sempre considerato, specie nella giurisprudenza recente, come “vincolo che ha carattere assoluto” e non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale”, confermando “il vincolo, d'indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica, esso si impone di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti”.
La deroga prevista per il caso in cui, per accertate particolari condizioni locali, non sia possibile una localizzazione diversa per rispettare tale distanza nella costruzione del nuovo cimitero, per cui un tempo il Prefetto ed ora il Comune può ridurla, seguendo un apposito procedimento che prevede il coinvolgimento anche dell’autorità sanitaria locale, entro il limite fissato inderogabilmente a minimo 50 metri dall’art. 57 del DPR n. 285/1990), la struttura cimiteriale oppure qualora esistano ostacoli naturali o artificiali che risultino idonei a creare un “cordone sanitario” (strade pubbliche, fiumi, laghi, dislivelli etc.).
Tale norma introduce una deroga ispirata alla ratio di interesse pubblico di assicurare il servizio obbligatorio cimiteriale nel Comune in cui questo altrimenti non potrebbe essere espletato e non può essere invocata, stante la sua natura, a tutela dell’interesse privato del proprietario a costruire nella fascia di rispetto. Ed in tale prospettiva, la pretesa del ricorrente ad applicare la norma, a contrario, per consentirgli di edificare –o ampliare edifici preesistenti- in zona inedificabile non è compatibile né con la lettera, né con la finalità della norma derogatoria in esame.
Al riguardo la giurisprudenza in materia ha sottolineato che si tratta di una deroga eccezionale, ispirata a finalità di interesse pubblico, per cui tale istituto va usato con particolare cautela, qualora non sia possibile fronteggiare altrimenti le esigenze emergenti, chiarendo che tale norma “non opera certamente al fine di consentire l'edificazione da parte di privati derogando al limite generale (ed al vincolo di in edificabilità assoluta così posto) contemplato dal primo comma dell'articolo 338".
---------------
L’art. 338 al comma 7 del TU n. 1265/1934 prevede che “All'interno della zona di rispetto per gli edifici esistenti sono consentiti interventi di recupero ovvero interventi funzionali all'utilizzo dell'edificio stesso, tra cui l'ampliamento nella percentuale massima del 10 per cento e i cambi di destinazione d'uso, oltre a quelli previsti dalle lettere a), b), c) e d) del primo comma dell'art. 31 della legge 05.08.1978, n. 457”.
Il Collegio, pur riconoscendo che la genericità della formulazione testuale della disposizione in esame -che non specifica quali destinazioni d’uso possano ritenersi ammissibili– si presti a fraintendimenti, dando origine a pretese di interpretazioni “estensive”, quali quella avanzata dalla parte ricorrente, che però non sono condivisibili.
La vaghezza ed incompletezza di tale norma è dovuta alla frettolosità della sua formulazione, trattandosi di un emendamento al Disegno di Legge n. 2032/2002, apportato all’ultimo ad uno provvedimenti collegati alla manovra finanziaria per il 2002, ed al fatto che essa è stata inserita in un contesto normativo totalmente diverso (volto a disciplinare una materia “infrastrutture e trasporti”), innovando, senza operare un coordinamento con la previgente disciplina del vincolo cimiteriale, sollevando i rilievi, in merito a carenze di tecnica normativa e scarsa “progettazione” dell’intervento normativo, segnalati già nel corso dei lavori parlamentari da parte degli organi chiamati a rendere il parere sulla ammissibilità e formulazione dell’emendamento (nonché dai commentatori esterni).
Ciò impone di coordinare i risultati di una lettura meramente letterale della norma in parola con le esigenze dell’interpretazione logico-sistematica per ricostruirne il significato e la portata della stessa in modo da scegliere, tra le diverse opzioni interpretative, quella che meglio s’accorda con i principi fondamentali e la ratio dell’art. 338 del TULS, che non sono rimessi in discussione, nel loro valore fondamentale, dall’intervento normativo in contestazione.
In tale prospettiva la giurisprudenza ha sottolineato l’esigenza di un’interpretazione “restrittiva” delle norme derogatorie ai limiti delle distanze previste per le opere d’interesse pubblico, sottolineando che tale esigenze vale anche -ed a maggior ragione- per la deroga, intesa a salvaguardia dell’interesse meramente privato del proprietario, prevista dal comma 7 dell’art. 338 sopra richiamato –introdotta dall’articolo 28, comma 1, lettera b), della legge 01.08.2002, n. 166– che ha natura ancora più eccezionale.
Pertanto è stato ribadito che il comma 7 dell’art. 338 in quanto tale norma eccezionale va interpretata con “particolare rigore”, operando con particolare cautela nell’individuare portata e limiti delle modifiche apportate all'art. 338 cit. dalla novella del 2002 rispetto a richieste di privati.
Il Collegio condivide appieno le ragioni e le preoccupazioni del Supremo Consesso nell’evidenziare come tale comma introduca nel sistema un elemento di stridente contrasto nel momento in cui, oltre a consentire interventi di manutenzione, ristrutturazione ed adeguamento funzionale dell’edificio pre-esistente –in fondo comprensibili in quanto trovano “giustificazione” nella salvaguardia di uno stato di fatto dell’edificato storico già presente da tempo in loco– ne permette addirittura il “cambio di destinazione d’uso”, con conseguente possibilità di utilizzare il manufatto per finalità diverse da quelle cui era destinato inizialmente, per un uso abitativo del tutto incompatibile con i valori tutelati dal vincolo, consentendo un “nuovo insediamento” che infrange il principio cardine del sistema della separazione del camposanto (spazio chiuso destinato ad ospitare esclusivamente salme) dai luoghi di vita e dagli spazi dedicati ad ospitare stabilmente l’uomo (abitazioni, scuole, ospedali), che costituisce -sin dall’epoca napoleonica– un principio di “civiltà urbanistica” per evidenti ragioni di dignità tanto dei defunti quanto dei viventi (ragioni riconosciute anche da quella giurisprudenza che ha ritenuto “non assoluto” il vincolo cimiteriale e che però ha ribadito limite della destinazione abitativa dell’immobile sito nella fascia di rispetto cimiteriale.
Il Collegio, condividendo tale impostazione ermeneutica, ritiene che si debba dare un’interpretazione ragionevole alla disposizione sopra richiamata, evitando di incorrere nell’equivoco cui potrebbe indurre la vaghezza della sua formulazione testuale, che, potrebbe, ad una prima lettura, in mancanza di ulteriori precisazioni, indurre a ritenere ammissibile qualunque “cambio di destinazione”, incluso quello volto a creare nuove abitazioni in prossimità del cimitero.
In realtà tale apparente “lacuna”, scaturente dall’interpretazione meramente letterale, può essere meglio compresa ricorrendo alla lettura logico-sistematica del comma 7 dell’art. 338 in contestazione e facendo riferimento al contesto testuale in cui è inserito, che è evidentemente inteso ad autorizzare interventi “funzionali” all’edificio (per cui, ad esempio, si potrebbe convertire un locale magazzino preesistente in garage o servizio igienico o locale per impianti) con esclusione totale di qualunque nuovo intervento, volto alla creazione di un’abitazione, in violazione del divieto, sancito dal comma 1 dello stesso art. 338, di costruirvi di nuovi edifici.
In tale prospettiva, si deve ritenere che il cambio di destinazione d’uso previsto dalla norma in parola è solo quello compatibile con il vincolo (assoluto) in questione, per cui va escluso quello volto a trasformare in abitazione un edificio preesistente destinato ad uso diverso da quello abitativo; altrimenti, finirebbe per consentire non solo la sanatoria generalizzata dei manufatti esistenti, ma anche l’ulteriore trasformazione della loro destinazione, legittimandone l’uso abitativo in contrasto con la natura assoluta del vincolo e la finalità di interesse generale dallo stesso perseguita.
Ciò condurrebbe a risultati inaccettabili in quanto finirebbe per consentire l’autorizzazione generalizzata, proprio a partire dal nuovo millennio, alla creazione di nuovi insediamenti umani in prossimità del cimitero, segnando un notevole arretramento rispetto agli elementari principi di civiltà consacrati due secoli prima dalla legislazione cimiteriale dell’età napoleonica.
Pertanto, siccome nel caso in esame, l’intervento abusivo non consiste solo nel mero ampliamento del manufatto pre-esistente, ma anche nel cambio di destinazione d’uso, con la trasformazione in abitazione di un manufatto costruito per uso non abitativo (deposito e tettoia) -quindi eventualmente allora compatibile con le esigenze di igiene pubblica tutelate dal vincolo– la sanatoria non si limiterebbe a legittimare solo il mantenimento in loco dell’opera realizzata sine titulo nella fascia di rispetto cimiteriale, ma anche il suo utilizzo abusivo per finalità che sono invece incompatibili con il vincolo cimiteriale, qual è l’attuale destinazione residenziale dell’immobile.
Né assume rilievo l’eventuale illegittima adozione di provvedimenti di sanatoria di altri fabbricati siti nella medesima area, dato che la natura inderogabile del vincolo deve semmai giustificare l’adozione di provvedimenti di ritiro dei condoni concessi contra legem.
---------------
La giurisprudenza in materia che ha da tempo chiarito che la natura insuperabilmente ostativa della collocazione dell’abuso all’interno della zona di rispetto cimiteriale obbliga l’Amministrazione a rifiutarne la sanatoria, senza che sia necessario effettuare alcuna “valutazione di compatibilità” dell’opera con i valori tutelati dal vincolo, dato che la legge stessa configurando tale vincolo come assoluto implicitamente esclude tale accertamento, in quanto assegna priorità agli interessi pubblici da salvaguardare nelle zone contigue al cimitero.
---------------

Con il primo motivo il ricorrente, premesso un richiamo alla disciplina sulla fascia di rispetto cimiteriale ed alle possibilità di deroga previste, sostiene che l’autorità pubblica possa “modularne” l’ampiezza, in base alla valutazione dell'ente locale; comunque la natura assoluta del vincolo mira essenzialmente ad impedire l'ulteriore addensamento edilizio dell'area al fine di garantire la futura espansione del cimitero (esigenza che nel caso di specie non ricorre dato che il Cimitero si trova proprio sulla strada pubblica in cui è sito il manufatto, che costituisce “un limite visto che al di là di tale strada il cimitero non potrà mai espandersi”) e non esclude che siano mantenuti nella medesima area edifici preesistenti o che ad essi vengano assegnate destinazioni compatibili con il vincolo.
La prospettazione del ricorrente non può essere condivisa.
Lo stesso ricorrente riconosce che oltre alla ratio del vincolo cimiteriale dallo stesso menzionata, e da lui ritenuta superabile nel caso di specie, detto vincolo ha anche ulteriori finalità, quali quella di assicurare il “decoro del luogo di culto” e, soprattutto, la funzione di assicurare una cintura sanitaria attorno a luoghi insalubri.
Il Collegio ricorda che quest’ultima finalità costituisce la principale ratio delle zone di rispetto dei cimiteri, che per tale motivo di superiore interesse pubblico è stata fissata dall’art. 338 del TU n. 1265/1934 in 200 metri dai centri abitati, una fascia di rispetto nella quale è vietato costruire nuovi edifici o ampliare quelli preesistenti, salvo deroghe ed eccezioni normativamente previste.
Successivamente, il disposto normativo è stato completato con la precisazione “salvo deroghe ed eccezioni normativamente previste”, dall'art. 28 della l. 01.08.2002, n. 166, che ha ripreso alcune previsioni previgenti (art. 57, co. 3-4, DPR 285/1990 Regolamento di polizia mortuaria, art. 1 Legge n. 983/1957- DPR n. 803/1975) –che consentivano, in determinate circostanze, la possibilità di ridurre tale distanza– che sono state abrogate dall'art. 28 della l. 01.08.2002, n. 166 e sostituiti dai commi quarto, quinto e settimo dell'art. 338 del r.d. 1265 del 1934, novellato dalla stessa legge, a partire dalla sua entrata in vigore.
Va da subito ricordato che, secondo la lettura della giurisprudenza in materia l'istituto della riduzione della fascia di rispetto, derivante dal combinato disposto dell'art. 338, quarto comma, del r.d. 1265 del 1934 e dell'art. 57, comma 4, del d.P.R. 285 del 1990, “attiene solo ed esclusivamente alle predette ipotesi di estensione dell'area cimiteriale, e non contempla una correlativa facoltà del privato di insediarsi in deroga alla fascia vigente. L'istituto stesso risulta infatti essenzialmente deputato a soddisfare il pubblico interesse al reperimento di aree per le sepolture anche in deroga all'ordinario limite dei duecento metri nei "casi di speciali condizioni locali", ferma restando la necessità della tutela dell'igiene pubblica e della sacralità dei luoghi. In questo senso, quindi, l'istituto assolve a necessità che trascendono l'interesse del singolo, che non può per certo sostenerne la correlativa applicabilità uti singuli”.
Inoltre, per quanto attiene al quinto comma dell'art. 338 del r.d. 1265 del 1934 come sostituito dall'art. 1 della l. 983 del 1957, si ribadiva che la riduzione della fascia di rispetto su richiesta del Consiglio Comunale per "gravi e giustificati motivi" poteva a sua volta avvenire soltanto per esigenze di interesse pubblico, come del resto accade a tutt'oggi nell'attuale vigenza della corrispondente disciplina novellata dello stesso art. 338, quinto comma (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 06.10.2017, n. 4656 e Sez. VI, 17.03.2014, n. 131) e “sempre ad esclusiva iniziativa del pubblico potere a ciò competente, e non già ad iniziativa del privato (…). In questo caso, quindi, la mera previsione da parte del legislatore di una possibile azione amministrativa finalizzata alla riduzione dell'estensione della fascia di rispetto non identificava, e non identifica, un mutamento della natura intrinsecamente e indefettibilmente assoluta del vincolo, ma consentiva e consente ai pubblici poteri di disporre, nel contesto delle proprie funzioni di pianificazione del territorio e mediante il procedimento speciale inderogabilmente al riguardo contemplato, la localizzazione di opere pubbliche o di pubblico interesse e di standard e, in genere, la realizzazione di opere edilizie e l'insediamento di attività reputate compatibili, sotto il profilo sia igienico-sanitario, sia del mantenimento della sacralità del luogo, con la perdurante insistenza del vincolo. Pertanto si tratta di una possibilità riservata all’iniziativa dei pubblici poteri, nelle particolari circostanze e con le finalità previste dalla normativa.”
La prescrizione della fascia di inedificabilità in contestazione, ribadita dalla legge soprarichiamata, è stata da sempre considerata, indipendentemente dal livello della fonte, come norma che ha rango superiore agli strumenti urbanistici comunali per cui opera con efficacia diretta ed immediata a prescindere dal recepimento in questi ultimi (Cons. st., sez. V, n. 1006/1999; TAR Lazio, II-quater, 6896/2015; Cons. St., n. 2405/2014), che non sono idonei ad incidere sull’esistenza o sui limiti di tale vincolo, e prevale su eventuali previsioni difformi dello strumento urbanistico (Cons. st., sez. IV, n. 4415/2007; CdS, sez. IV, 05/12/2018 n. 6891), ed il limite all’attività costruttiva in tale fascia è stato sempre considerato, specie nella giurisprudenza recente, come “vincolo che ha carattere assoluto” (Cons. Stato Sez. II, n. 4587/2019) e non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale”, confermando “il vincolo, d'indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica, esso si impone di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti” (Consiglio di Stato, sez. IV, 08/07/2019, n. 4692)..
La deroga prevista per il caso in cui, per accertate particolari condizioni locali, non sia possibile una localizzazione diversa per rispettare tale distanza nella costruzione del nuovo cimitero, per cui un tempo il Prefetto ed ora il Comune può ridurla, seguendo un apposito procedimento che prevede il coinvolgimento anche dell’autorità sanitaria locale, entro il limite fissato inderogabilmente a minimo 50 metri dall’art. 57 del DPR n. 285/1990), la struttura cimiteriale oppure qualora esistano ostacoli naturali o artificiali che risultino idonei a creare un “cordone sanitario” (strade pubbliche, fiumi, laghi, dislivelli etc.).
Tale norma introduce una deroga ispirata alla ratio di interesse pubblico di assicurare il servizio obbligatorio cimiteriale nel Comune in cui questo altrimenti non potrebbe essere espletato e non può essere invocata, stante la sua natura, a tutela dell’interesse privato del proprietario a costruire nella fascia di rispetto. Ed in tale prospettiva, la pretesa del ricorrente ad applicare la norma, a contrario, per consentirgli di edificare –o ampliare edifici preesistenti- in zona inedificabile non è compatibile né con la lettera, né con la finalità della norma derogatoria in esame.
Al riguardo la giurisprudenza in materia ha sottolineato che si tratta di una deroga eccezionale, ispirata a finalità di interesse pubblico, per cui tale istituto va usato con particolare cautela, qualora non sia possibile fronteggiare altrimenti le esigenze emergenti (Cons. St., sez. V, n. 52/1987), chiarendo che tale norma “non opera certamente al fine di consentire l'edificazione da parte di privati derogando al limite generale (ed al vincolo di in edificabilità assoluta così posto) contemplato dal primo comma dell'articolo 338" (Consiglio di Stato, sez. VI, 09/03/2016, n. 949).
La parte ricorrente, tuttavia, ritiene che l’Amministrazione comunale abbia illegittimamente negato il rilascio del permesso di costruire in sanatoria per condonare l’intervento abusivo in contestazione ed illegittimamente ne abbia precluso la sua trasformazione in edificio ad uso abitativo, ritenendo del tutto ininfluente che il manufatto sia stato o meno realizzato negli anni '60, incorrendo in tal modo nella violazione dell’art. 338, comma 7, del TU n. 1265/1934, come sostituito dall’articolo 28, comma 1, lettera b), della legge 01.08.2002, n. 166.
L’art. 338 al comma 7 invocato dal ricorrente, in effetti, prevede che “All'interno della zona di rispetto per gli edifici esistenti sono consentiti interventi di recupero ovvero interventi funzionali all'utilizzo dell'edificio stesso, tra cui l'ampliamento nella percentuale massima del 10 per cento e i cambi di destinazione d'uso, oltre a quelli previsti dalle lettere a), b), c) e d) del primo comma dell'art. 31 della legge 05.08.1978, n. 457”.
Secondo la parte ricorrente sarebbe stato in tal modo superato, a seguito dell’intervento del legislatore, quell’orientamento della giurisprudenza in materia, che ha costantemente ribadito che il divieto di costruire attorno ai cimiteri comporta anche quello di ampliare gli edifici preesistenti e si applica anche alle sopraelevazioni (Cons. st., IV, n. 222/1996), che l’esigenza di tutela perseguita mediante l’apposizione del vincolo cimiteriale comporta sia il diniego di approvazione di un intervento edilizio (anche solo di mera ristrutturazione dell’edificio pre-esistente: Cons. St., sez. V, n. 275/1987), sia il rigetto dell’istanza di sanatoria del manufatto abusivamente realizzato all’interno della fascia di rispetto (Cons. St., sez. V, n. 4256/2008) e di conseguenza esclude la possibilità di condonare opere abusive realizzate all'interno della fascia di rispetto cimiteriale, dato che il vincolo cimiteriale determina “una situazione di inedificabilità ex lege ed integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto” (CdS, sez. VI, 15/10/2018 n. 5911).
In tale ottica la giurisprudenza aveva ritenuto che la natura insuperabilmente ostativa della collocazione dell’abuso all’interno della zona predetta obbliga l’Amministrazione a rifiutarne il condono, senza che sia necessario effettuare alcuna “valutazione di compatibilità” dell’opera con i valori tutelati dal vincolo (Cons. St., sez. V, n. 4256/2008).
Il Collegio, pur riconoscendo che la genericità della formulazione testuale della disposizione in esame -che non specifica quali destinazioni d’uso possano ritenersi ammissibili– si presti a fraintendimenti, dando origine a pretese di interpretazioni “estensive”, quali quella avanzata dalla parte ricorrente, che però non sono condivisibili.
La vaghezza ed incompletezza di tale norma è dovuta alla frettolosità della sua formulazione, trattandosi di un emendamento al Disegno di Legge n. 2032/2002, apportato all’ultimo ad uno provvedimenti collegati alla manovra finanziaria per il 2002, ed al fatto che essa è stata inserita in un contesto normativo totalmente diverso (volto a disciplinare una materia “infrastrutture e trasporti”), innovando, senza operare un coordinamento con la previgente disciplina del vincolo cimiteriale, sollevando i rilievi, in merito a carenze di tecnica normativa e scarsa “progettazione” dell’intervento normativo, segnalati già nel corso dei lavori parlamentari da parte degli organi chiamati a rendere il parere sulla ammissibilità e formulazione dell’emendamento (nonché dai commentatori esterni).
Ciò impone di coordinare i risultati di una lettura meramente letterale della norma in parola con le esigenze dell’interpretazione logico-sistematica per ricostruirne il significato e la portata della stessa in modo da scegliere, tra le diverse opzioni interpretative, quella che meglio s’accorda con i principi fondamentali e la ratio dell’art. 338 del TULS, che non sono rimessi in discussione, nel loro valore fondamentale, dall’intervento normativo in contestazione.
In tale prospettiva la giurisprudenza ha sottolineato l’esigenza di un’interpretazione “restrittiva” delle norme derogatorie ai limiti delle distanze previste per le opere d’interesse pubblico, sottolineando che tale esigenze vale anche -ed a maggior ragione- per la deroga, intesa a salvaguardia dell’interesse meramente privato del proprietario, prevista dal comma 7 dell’art. 338 sopra richiamato –introdotta dall’articolo 28, comma 1, lettera b), della legge 01.08.2002, n. 166– che ha natura ancora più eccezionale.
Pertanto è stato ribadito che il comma 7 dell’art. 338 in quanto tale norma eccezionale va interpretata con “particolare rigore”, operando con particolare cautela nell’individuare portata e limiti delle modifiche apportate all'art. 338 cit. dalla novella del 2002 rispetto a richieste di privati (Cons. Stato sez. IV n. 4656 del 2017; sez. VI, n. 3667 del 2015; nn. 3410 e 1317 del 2014; Consiglio di Stato, sez. VI, 09/03/2016, n. 949).
Il Collegio condivide appieno le ragioni e le preoccupazioni del Supremo Consesso nell’evidenziare come tale comma introduca nel sistema un elemento di stridente contrasto nel momento in cui, oltre a consentire interventi di manutenzione, ristrutturazione ed adeguamento funzionale dell’edificio pre-esistente –in fondo comprensibili in quanto trovano “giustificazione” nella salvaguardia di uno stato di fatto dell’edificato storico già presente da tempo in loco– ne permette addirittura il “cambio di destinazione d’uso”, con conseguente possibilità di utilizzare il manufatto per finalità diverse da quelle cui era destinato inizialmente, per un uso abitativo del tutto incompatibile con i valori tutelati dal vincolo, consentendo un “nuovo insediamento” che infrange il principio cardine del sistema della separazione del camposanto (spazio chiuso destinato ad ospitare esclusivamente salme) dai luoghi di vita e dagli spazi dedicati ad ospitare stabilmente l’uomo (abitazioni, scuole, ospedali), che costituisce -sin dall’epoca napoleonica– un principio di “civiltà urbanistica” per evidenti ragioni di dignità tanto dei defunti quanto dei viventi (ragioni riconosciute anche da quella giurisprudenza che ha ritenuto “non assoluto” il vincolo cimiteriale e che però ha ribadito limite della destinazione abitativa dell’immobile sito nella fascia di rispetto cimiteriale (TAR Lombardia, sez. III, n. 2295/2011; TAR Umbria, n. 470/2004).
Il Collegio, condividendo tale impostazione ermeneutica, ritiene che si debba dare un’interpretazione ragionevole alla disposizione sopra richiamata, evitando di incorrere nell’equivoco cui potrebbe indurre la vaghezza della sua formulazione testuale, che, potrebbe, ad una prima lettura, in mancanza di ulteriori precisazioni, indurre a ritenere ammissibile qualunque “cambio di destinazione”, incluso quello volto a creare nuove abitazioni in prossimità del cimitero.
In realtà tale apparente “lacuna”, scaturente dall’interpretazione meramente letterale, può essere meglio compresa ricorrendo alla lettura logico-sistematica del comma 7 dell’art. 338 in contestazione e facendo riferimento al contesto testuale in cui è inserito, che è evidentemente inteso ad autorizzare interventi “funzionali” all’edificio (per cui, ad esempio, si potrebbe convertire un locale magazzino preesistente in garage o servizio igienico o locale per impianti) con esclusione totale di qualunque nuovo intervento, volto alla creazione di un’abitazione, in violazione del divieto, sancito dal comma 1 dello stesso art. 338, di costruirvi di nuovi edifici.
In tale prospettiva, si deve ritenere che il cambio di destinazione d’uso previsto dalla norma in parola è solo quello compatibile con il vincolo (assoluto) in questione, per cui va escluso quello volto a trasformare in abitazione un edificio preesistente destinato ad uso diverso da quello abitativo; altrimenti, finirebbe per consentire non solo la sanatoria generalizzata dei manufatti esistenti, ma anche l’ulteriore trasformazione della loro destinazione, legittimandone l’uso abitativo in contrasto con la natura assoluta del vincolo e la finalità di interesse generale dallo stesso perseguita.
Ciò condurrebbe a risultati inaccettabili in quanto finirebbe per consentire l’autorizzazione generalizzata, proprio a partire dal nuovo millennio, alla creazione di nuovi insediamenti umani in prossimità del cimitero, segnando un notevole arretramento rispetto agli elementari principi di civiltà consacrati due secoli prima dalla legislazione cimiteriale dell’età napoleonica.
Pertanto, siccome nel caso in esame, l’intervento abusivo non consiste solo nel mero ampliamento del manufatto pre-esistente, ma anche nel cambio di destinazione d’uso, con la trasformazione in abitazione di un manufatto costruito per uso non abitativo (deposito e tettoia) -quindi eventualmente allora compatibile con le esigenze di igiene pubblica tutelate dal vincolo– la sanatoria non si limiterebbe a legittimare solo il mantenimento in loco dell’opera realizzata sine titulo nella fascia di rispetto cimiteriale, ma anche il suo utilizzo abusivo per finalità che sono invece incompatibili con il vincolo cimiteriale, qual è l’attuale destinazione residenziale dell’immobile.
Né assume rilievo l’eventuale illegittima adozione di provvedimenti di sanatoria di altri fabbricati siti nella medesima area (circostanza verbalmente dedotta, ma senza supporto documentale), dato che la natura inderogabile del vincolo deve semmai giustificare l’adozione di provvedimenti di ritiro dei condoni concessi contra legem (vedi, nel senso dell’annullamento di titoli edilizi rilasciati in violazione delle distanze di rispetto dal cimitero, Cons. st., sez. V 379/1991; cfr., Cons. St., sez. 7329/2019-sull’impossibilità di invocare la disparità di trattamento per superare l’illegittimità dell’operato dell’Amministrazione che ha permesso costruzione in violazione del vincolo di inedificabilità nella fascia cimiteriale, anche successivamente alla modifica dell’art. 338 operata dalla legge n. 166/2002).
Il primo motivo va quindi respinto.
Con il secondo motivo il ricorrente lamenta il difetto di motivazione del provvedimento impugnato, sostenendo che, a seguito della riforma dell'articolo 338 T.U. leggi sanitarie il vincolo cimiteriale comporta un’inedificabilità relativa, con conseguente onere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo di specificare i motivi ostativi alla sanatoria; motivazione che, comunque, risultava necessaria anche in considerazione del pregresso operato dell'amministrazione comunale resistente che aveva rilasciato concessione edilizia in sanatoria ed anche dalla presenza di altre unità immobiliari, nonché dall'esclusione dell’esigenza di salvaguardare l’estensione del cimitero, che trova confine naturale nella strada pubblica.
La prospettazione del ricorrente non merita condivisione in quanto si pone in contrasto con la giurisprudenza in materia che ha da tempo chiarito che la natura insuperabilmente ostativa della collocazione dell’abuso all’interno della zona predetta obbliga l’Amministrazione a rifiutarne la sanatoria, senza che sia necessario effettuare alcuna “valutazione di compatibilità” dell’opera con i valori tutelati dal vincolo, dato che la legge stessa configurando tale vincolo come assoluto implicitamente esclude tale accertamento, in quanto assegna priorità agli interessi pubblici da salvaguardare nelle zone contigue al cimitero (Cons. St., sez. VI, n. 4692/2019; n. 949/2016; sez. V, n. 6671/2010; n. 4256/2008; n. 1935/2007).
Il ricorso va pertanto respinto (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 24.12.2019 n. 14866 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costruzioni in cemento armato in zone sismiche – Deposito degli elaborati progettuali “a sanatoria” dopo la realizzazione delle opere – Effetti sulle contravvenzioni urbanistiche e sulle contravvenzione antisismica – Estinzione dei reati previsti dalle norme urbanistiche ma non quelli previsti dalla normativa antisismica.
Il deposito allo sportello unico, dopo la realizzazione delle opere e, quindi, “a sanatoria”, della comunicazione richiesta dall’art. 93 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 e degli elaborati progettuali non estingue la contravvenzione antisismica, che punisce l’omesso deposito preventivo di detti elaborati, in quanto l’effetto estintivo è limitato dall’art. 45 del d.P.R. 380 del 2001 alle sole contravvenzioni urbanistiche.
Tale principio è certamente estensibile anche ai reati previsti dagli artt. 71 e ss. del T.U.E. per la violazione della disciplina delle opere in conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica.
Diversamente dalla previsione di cui all’art. 45, comma 3, d.P.R. 380 del 2001, non v’è, di fatti, alcuna disposizione che preveda l’estinzione di detti reati nel caso di tardivo adempimento degli obblighi omessi, o, più in generale, di “sanatoria” amministrativa delle violazioni e, in forza della citata disposizione, lo stesso accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 comporta l’estinzione dei reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non di quelli previsti dalla normativa antisismica e sulle opere di conglomerato cementizio
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.12.2019 n. 51652 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi – Aumento di volume rispetto al progetto autorizzato e variazione della sagoma – Permesso di costruire – Totale difformità – Qualificazione del reato urbanistico in mera parziale difformità – Esclusione – Artt. 44, 71, 72 e 95 d.P.R. n. 380/2001.
L’art. 31, comma 1, prima parte, T.U.E. prevede che, la totale difformità ricorre quando gli interventi «comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche… planivolumetriche… da quello oggetto del permesso stesso».
Sicché, un significativo aumento di volume rispetto al progetto (in specie, pari quasi al doppio di quello consentito) e la descritta variazione della sagoma (perimetrale ed in altezza) integra certamente gli estremi di quell’allud pro alio che rende corretta la qualificazione giuridica in termini di totale difformità ed impedisce invece di ritenere la mera parziale difformità
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.12.2019 n. 51652 - link a www.ambientediritto.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARITelecamere in azienda: intesa sindacale o sì dell’Ispettorato. Per la Corte di cassazione non basta l'unanimità dei lavoratori interessati.
Per le telecamere in azienda, l'unanimità dei lavoratori non basta. Anche dopo il regolamento Ue sulla privacy (Gdpr) ci vuole o l'accordo con i sindacati oppure, in mancanza, l'autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro.
È quanto deciso dalla Corte di Cassazione, Sez. III penale, (
sentenza 17.12.2019 n. 50919).
Il consenso dei lavoratori non fa evitare la condanna penale per videosorveglianza illecita. La pronuncia ha ritenuto che il Gdpr non ha modificato il quadro normativo e che non c'è spazio per giustificare la condotta del datore di lavoro, anche quando tutti i suoi i dipendenti abbiano acconsentito alle telecamere.
In particolare, non ha rilevanza l'assenso dei lavoratori, in quanto la disposizione di riferimento, e cioè l'articolo 4 dello Statuto dei lavoratori (legge 300 del 1970), non assegna alcun rilievo alla volontà dei singoli lavoratori; viene, invece, considerata la volontà manifestata dal sindacato o, in secondo piano, l'autorizzazione da parte dell'autorità amministrativa.
La Cassazione è esplicita nell'affermare che il consenso in qualsiasi forma (scritta od orale, preventiva o successiva all'installazione) prestato dai singoli lavoratori non valga a scriminare la condotta del datore di lavoro, che abbia installato gli impianti di videosorveglianza in violazione delle prescrizioni dettate dall'articolo 4 dello Statuto dei lavoratori.
Non ha significato assolutorio neppure il fatto che il datore di lavoro non abbia visionato le riprese eventualmente effettuate.
La trafila che l'imprenditore deve seguire per installare telecamere, da cui possa derivare un controllo indiretto dei lavoratori, anche dopo il Gdpr, prevede, in prima battuta, un accordo con i sindacati aziendali. Il rapporto, in relazione all'installazione, non si sviluppa, infatti, tra datore di lavoro e singoli lavoratori, ma tra imprenditore e ente rappresentativo dei lavoratori.
La norma presuppone che il singolo lavoratore sia succube del proprio datore di lavoro e che, nel rapporto uno a uno, la parte debole finisca per acconsentire solo per il timore delle conseguenze negative in caso di dissenso.
La spersonalizzazione dei rapporti dovrebbe riequilibrare le posizioni.
Così l'impostazione della legge 300/1970. Tutto questo non deve però fare dimenticare che, in relazione, non all'installazione, ma all'esercizio dei diritti relativi alle registrazioni il protagonista è il singolo lavoratore, che può agire individualmente, senza obbligo di intermediazione dell'organizzazione sindacale. È al lavoratore, in quanto soggetto ripreso e quindi «interessato», ai sensi delle norme sulla privacy, che è dovuta l'informazione su installazione e condizioni di utilizzo della telecamere; è il singolo lavoratore che può esercitare i diritti previsti dal Gdpr: ad esempio accesso alle registrazione, cancellazione, opposizione al trattamento.
Quindi, nella fase dell'installazione il lavoratore, parte debole del rapporto, è, nel suo interesse, spogliato del potere di acconsentire, ma dopo l'installazione sorgono diritti individuali del singolo dipendente.
Può, però, capitare che il datore di lavoro e i sindacati non trovino un accordo. A questo punto l'impresa non deve fare l'errore di rivolgersi ai singoli dipendenti: anche se tutti concordano e, magari, lo fanno spontaneamente senza subire pressioni, questo non elimina il reato commesso.
Il datore di lavoro, prima dell'installazione, deve rivolgersi all'ispettorato del lavoro, sede territoriale, spiegare bene come e perché si installano le telecamere e come funzionano e ottenere l'autorizzazione. Solo dopo si possono montare i dispositivi e si possono far funzionare.
Da non dimenticare che l'accordo sindacale o l'autorizzazione dell'ispettorato non eliminano gli obblighi previsti dal Gdpr. Quindi, oltre ad accordo/autorizzazione, si deve dare l'informativa ai lavoratori, si devono programmare e applicare le misure di sicurezza, si deve fare la valutazione di impatto privacy (nei casi dell'articolo 35 Gdpr), si devono nominare i fornitori del servizio quali responsabili esterni del trattamento.
Tra i due profili (quello dello Statuto e quello del Gdpr) c'è, però, sempre un collegamento: la mancanza dell'accordo/autorizzazione compromette anche la liceità del trattamento dei dati (articolo ItaliaOggi del 07.01.2020).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Telecamere, iter inderogabile. Necessario l’accordo sindacale o l’autorizzazione dell’Itl. Per la Corte di cassazione non basta il consenso dei lavoratori alla videosorveglianza.
Il consenso espresso dai lavoratori non elimina la illiceità del comportamento datoriale che ha installato un impianto di videosorveglianza senza il prescritto accordo sindacale o, in alternativa, senza l'autorizzazione dell'Itl. Infatti, ai fini del corretto rispetto della procedura prevista dall'art. 4 della legge 300/1970 (cosiddetto «Statuto dei lavoratori») è sempre necessario ottenere l'accordo sindacale (Rsa o Rsu) o, se non presenti, l'autorizzazione dell'Itl. Solo le rappresentanze dei lavoratori o, in alternativa, l'Itl, attraverso il proprio provvedimento, sono deputati a esprimere il consenso, in quanto i lavoratori interessati sono «parte debole» nel rapporto, e ciò impone di ritenere inderogabile quanto previsto dal predetto articolo.

A stabilirlo è la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 17.12.2019 n. 50919.
Il caso. La vicenda portata all'attenzione dei giudici della Suprema corte riguarda un datore di lavoro, condannato alla pena di 1.000 euro di ammenda, per avere installato, in violazione degli artt. 114 e 171 del dlgs 196/2003 e dell'art. 4, comma 1 della legge 300/1970, all'interno della propria azienda, n. 16 telecamere di un impianto di videosorveglianza, senza aver ottenuto un preventivo accordo sindacale ovvero un'autorizzazione della sede locale dell'Itl.
Nonostante lo scopo delle telecamere fosse di controllare l'accesso al locale e fungere da deterrente per eventi criminosi, le stesse, in realtà, finivano per controllare i lavoratori nell'atto di espletare le loro mansioni.
Sul punto, affermava il tribunale di Milano, sebbene il datore di lavoro avesse rimosso l'impianto in questione una volta che la sua installazione gli era stata contestata, non aveva provveduto al pagamento della somma determinata a titolo di oblazione amministrativa, ritenendo che il fatto da lui compiuto non fosse penalmente rilevante.
Inoltre, ad avviso dei giudici, a nulla poteva valere la circostanza che l'imputato avesse depositato una liberatoria sottoscritta da tutti i propri dipendenti, e precedentemente inviata all'Ispettorato, posto che il documento in questione non solo era stato formato successivamente alla materiale realizzazione della condotta a lui ascritta ed alla constatazione della sua esistenza, ma, in ogni caso, esso non poteva fungere da sostituto o dell'esistenza dell'accordo sindacale ovvero della autorizzazione rilasciata dall'organo pubblico.
La difesa. Avverso tale pronuncia ricorreva il datore di lavoro, lamentando che i giudici non avessero considerato il tipo di attività svolta dall'imputato, gestione di un locale pubblico, tale da giustificare, nell'interesse stesso delle maestranze, una forma di controllo volto a evitare il verificarsi di possibili eventi avversi all'interno del locale.
Inoltre, sottolineava il ricorrente, la circostanza che le eventuali parti offese del reato contestato avessero prestato il loro assenso, doveva intendersi come elemento atto a escludere la rilevanza penale della condotta datoriale.
La sentenza. I giudici della Suprema corte ritengono manifestamente infondato il ricorso del datore di lavoro.
Secondo gli Ermellini, non ha alcun rilievo la circostanza, dedotta dal ricorrente, secondo la quale l'impianto di registrazione visiva era stato installato onde garantire la sicurezza degli stessi dipendenti, posto che la finalità di garantire la sicurezza sul lavoro è uno dei fattori che, in linea astratta, rendono possibile l'attivazione di tale tipo di impianti.
Così come irrilevante è, ai fini della possibile integrazione della contravvenzione contestata, la circostanza che il datore di lavoro non abbia avuto personalmente accesso al contenuto delle videoriprese essendo l'impianto attraverso il quale esse vengono effettuate gestito da un soggetto terzo rispetto al datore di lavoro.
Pertanto, il consenso dei lavoratori che operano nell'impresa non risulta idoneo a sanare l'illecito, anche in considerazione del ruolo di «parte debole» che connota il lavoratore rispetto alla parte datoriale.
In definitiva, conclude la Cassazione, il consenso o l'acquiescenza che il lavoratore potrebbe, in ipotesi, prestare o avere prestato, non svolge alcuna funzione esimente, atteso che, in tal caso, l'interesse collettivo tutelato, quale bene di cui il lavoratore non può validamente disporne, rimane fuori della teoria del consenso dell'avente diritto
(articolo ItaliaOggi Sette del 23.12.2019).

TRIBUTIICI, per l'edificabilità di un terreno si tiene conto anche del piano paesaggistico regionale.
In tema di Ici, ai fini della valutazione dell'area come edificabile, non va preso in considerazione soltanto l'inserimento del fondo nel piano regolatore generale, ma si deve aver riguardo anche alle previsioni del piano paesaggistico regionale che possono prevedere dei limiti di inedificabilità, rendendo di fatto il pagamento dell'imposta non dovuto.

Lo afferma la Sez. V civile della Corte di Cassazione con la sentenza 14.12.2019 n. 33012.
Il caso
Oggetto della controversia è il regime fiscale da attribuire a un terreno, edificabile secondo il piano regolatore generale del Comune, ma al tempo stesso gravato da numerosi vincoli di inedificabilità sia nazionali che regionali, come risulta dal certificato di destinazione urbanistica.
In particolare, per via delle caratteristiche naturalistiche proprie, il fondo era inserito in "Zona parco pubblico" G2, venendo perciò assoggettato ai vincoli del Dlgs 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) e della Legge regionale 24/1998, oltre che dallo stesso regolamento comunale in materia. Per l'amministrazione locale però, così come per i giudici delle Commissioni tributarie provinciale e regionale, il pagamento dell'Ici era dovuto per via dell'inserimento del fondo nel piano regolatore generale.
Il piano paesaggistico prevale sul Prg
Il contribuente si è rivolto in Cassazione, sottolineando in buona sostanza l'incongruenza logico-giuridica del dover pagare l'imposta per l'edificabilità di un terreno ritenuto inedificabile da un piano paesaggistico inderogabile.
La Suprema corte ha riconosciuto l'errore dei giudici di merito e rinviato la decisione ad altra sezione della Commissione tributaria regionale, ricordando che è sì vero che l'edificabilità dell'area ai fini Ici discende dalla inclusione del fondo, in quanto tale, nel piano regolatore generale, ma ciò non significa che «disposizioni contenute negli atti di pianificazione territoriale diversi dal piano regolatore comunale» siano irrilevanti.
Anzi, puntualizza il Collegio, nel rapporto tra piano regolatore generale e piano paesaggistico regionale, c'è la netta prevalenza di quest'ultimo, con la conseguenza che i vincoli di inedificabilità posti dalla Regione sono «idonei ad escludere la natura edificabile dell'area». Ciò d'altra parte, chiosano i giudici di legittimità, è ribadito dall'articolo 145 del Dlgs 24/2004, secondo cui le previsioni dei piani paesaggistici regionali non possono in alcun modo essere derogate da disposizioni urbanistiche comunali, prevalendo in ogni caso su quest'ultime (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.12.2019).
-------------------
MASSIMA
Con riferimento in particolare al primo ed al terzo motivo, fermo restando il principio espresso dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 25506 del 2006 -secondo il quale la edificabilità dell'area ai fini ICI discende dalla sua inclusione, come tale, nel PRG, indipendentemente dalla adozione di strumenti attuativi, salva la rilevanza dei vincoli di destinazione in sede di commisurazione del valore venale del terreno e, dunque, della base imponibile (Cass. SU, 30/11/2006, n. 25506, Rv. 593375 - 01)- questa Corte ha in altre occasioni anche precisato che da tale affermazione "non discende l'irrilevanza delle disposizioni contenute negli atti di pianificazione territoriale diversi dal piano regolatore comunale".
Come ben posto in evidenza dalla sentenza n. 23106/2019, riguardante altra controversia con lo stesso Comune, la citata sentenza delle Sezioni Unite n. 25506 del 2006 si è limitata ad individuare il momento temporale, inteso come stato di avanzamento dell'iter procedimentale di approvazione dell'atto di pianificazione urbanistica o territoriale, in relazione al quale un'area può considerarsi come edificabile dal punto di vista dell'imposizione fiscale, ma non è intervenuta sul tema della relazioni tra piani paesistici e piani urbanistici.
Per quanto concerne, in particolare, il rapporto tra PRG e piano paesaggistico regionale, è stata evidenziata, con orientamento al quale il Collegio intende dare continuità, "l'assoluta prevalenza delle prescrizioni del piano paesaggistico regionale, comunque denominato, sulla pianificazione urbanistica comunale", ne deriva che la regola secondo cui «la presenza sull'area di vincoli di destinazione influisce unicamente sulla maggiore o minore potenzialità edificatoria, ma non sulla natura edificabile ex se dell'area ai fini tributari», non concerne la diversa ipotesi in cui l'area, ancorché edificabile secondo il PRG, tale non sia all'esito della valutazione complessiva ed integrata di quest'ultimo con lo strumento di pianificazione paesaggistica ed ambientale regionale (cfr. Cass. sez. 6, 09.07.2014, n. 15729, non massimata, e, da ultimo, Cass., sez. 5, 19.04.2019, n. 11080, non massimata).
Nella sentenza impugnata non si fa alcun riferimento concreto al certificato di destinazione urbanistica che pure viene citato come prodotto nel prologo del provvedimento e dal quale, a tenore delle puntuali notazioni del ricorrente, emergerebbe che il terreno del contribuente è radicalmente inedificabile (e non semplicemente gravato da più o meno intensi vincoli di destinazione), dal momento che sull'area insiste il perimetro di inedificabilità imposto dalla Regione Lazio.
Il provvedimento impugnato, nel dare prevalenza esclusiva all'inserimento del terreno in PRG, non ha valutato la presenza di vincoli più o meno limitanti la potenzialità edificatoria, considerando la diversità tra vincoli di inedificabilità assoluta (nella specie derivanti dallo strumento regionale, avente portata prevalente sul piano regolatore comunale), come tali idonei ad escludere la natura edificabile dell'area interessata (Cass., sez. 5, 28/12/2017, n. 31048, Rv. 646686 — 01, che ha affermato analogo principio in tema di imposta di registro), ancorché posti da strumenti regionali, i quali prevalgono sulla pianificazione urbanistica comunale, e vincoli di inedificabilità specifica, i quali, invece, possono incidere unicamente sul valore venale dell'immobile.
Il principale riferimento normativo a sostegno di questo indirizzo va individuato nel Codice dei beni culturali e dell'ambiente di cui al d.lgs. n. 42 del 2004, che nell'art. 145 cit. stabilisce (3° co.): «Le previsioni dei piani paesaggistici di cui agli articoli 143 e 156 non sono derogabili da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico, sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province, sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici, stabiliscono norme di salvaguardia applicabili in attesa dell'adeguamento degli strumenti urbanistici e sono altresì vincolanti per gli interventi settoriali. Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette».
Va ancora rilevato che non risulta corretta l'affermazione riguardante la necessità della "...dichiarazione prescritta dagli artt. 136 e sgg. D.Lgs. n. 42/2004 non viene altresì fornita dal contribuente alcuna prova che tale dichiarazione sia trascritta nei registri immobiliari...".
L'articolo 136 del D.Lgs. n. 42 del 2004 definisce ed enumera gli immobili ed aree di notevole interesse pubblico stabilendo che sono definibili come aree di notevole interesse pubblico:
   a) le cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità geologica;
   b) le ville, i giardini e i parchi, non tutelati dalle disposizioni della Parte seconda del presente codice, che si distinguono per la loro non comune bellezza;
   c) i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale;
   d) le bellezze panoramiche considerate come quadri e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze.
L'articolo 140 dello stesso decreto stabilisce presupposti e procedura della dichiarazione di notevole interesse pubblico e relative misure di conoscenza, prevedendo che:
   1. La regione, sulla base della proposta della commissione, esaminate le osservazioni e tenuto conto dell'esito dell'eventuale inchiesta pubblica, emana il provvedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico degli immobili indicati alle lettere a) e b) e delle aree indicate alle lettere c) e d) dell'articolo 136.
   2. Il provvedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico degli immobili indicati alle lettere a) e b) dell'articolo 136 è altresì notificato al proprietario, possessore o detentore, depositato presso il comune, nonché trascritto a cura della regione nei registri immobiliari.
   3. I provvedimenti di dichiarazione di notevole interesse pubblico sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana e nel Bollettino Ufficiale della regione.
Come si evince chiaramente dalle disposizioni normative su riportate non tutti i beni di notevole interesse pubblico richiedono la procedura di notifica, rimanendone esclusi quelli indicati alle lettere c) e d) dell'art. 136 D.Lgs. n. 42/2004, ai quali si ascrive il terreno in questione.

EDILIZIA PRIVATALa decadenza del permesso edilizio per mancato inizio dei lavori entro il termine normativamente prescritto di per sé si verifica ope legis e per quanto attiene all’oggettiva circostanza del decorso del termine medesimo non è rimessa a valutazioni discrezionali dell’Amministrazione, trattandosi di riscontrare l’inerzia materiale del soggetto privato, peraltro con la precisazione che la circostanza medesima, pur costituendo un effetto discendente direttamente dalla legge, necessita comunque di un provvedimento dell’Amministrazione comunale (nella presente fattispecie –per l’appunto– regolarmente adottato) che dichiari l’intervenuta decadenza.
Nondimeno, l’accertamento dell’avvenuto inizio dei lavori entro l’anno dal rilascio del permesso di costruire, necessario ad evitarne la decadenza, è questione di fatto, da valutarsi caso per caso con riguardo al complesso delle circostanze concrete.
Non va pertanto sottaciuto che quella di effettivo inizio dei lavori è una nozione -per così dire– “elastica”, posto che il rispetto del surriferito termine annuale si desume dagli indizi rilevati sul sito dell’intervento, che devono essere di entità tale da scongiurare il rischio che il termine legale di decadenza venga invero ad essere eluso attraverso opere fittizie e simboliche, fermo in tal senso restando che l’onere della prova del mancato inizio dei lavori assentiti incombe comunque sull’Amministrazione comunale che ne dichiara la decadenza: e ciò alla stregua del principio generale in forza del quale i presupposti del provvedimento adottato devono essere accertati dall’autorità emanante.
Si ritiene comunque che l’“inizio lavori” deve intendersi riferito a concreti lavori edilizi che possono desumersi dagli indizi rilevati sul posto e che i lavori possano ritenersi “iniziati” quando consistano nella compiuta organizzazione del cantiere, nell’innalzamento di elementi portanti, nell’elevazione di muri, nell’esecuzione di scavi preordinati al gettito delle fondazioni del costruendo edificio, e non, ad esempio, in presenza di soli lavori di livellamento del terreno o di sbancamento.
La mera esecuzione di lavori di sbancamento è, infatti, di per sé inidonea per ritenere soddisfatto il presupposto dell’effettivo inizio dei lavori, essendo necessario che lo sbancamento medesimo sia accompagnato dalla “compiuta organizzazione del cantiere” e da altri indizi idonei a confermare l’effettivo intendimento del titolare del permesso di costruire di realizzare l’opera assentita.
---------------
La giurisprudenza afferma l’illegittimità dell’eventuale provvedimento dell’Amministrazione comunale di declaratoria di decadenza del permesso di costruire allorquando l’impedimento non sia riferibile alla condotta del destinatario del titolo edilizio e sia tale da costituire causa di forza maggiore.
---------------

3.1. Tutto ciò premesso, l’appello in epigrafe va respinto.
Come è ben noto, l’art. 15, comma 2, del t.u. approvato con d.P.R. 06.06.2001, n. 380, disponeva, nel testo vigente all’epoca dei fatti di causa, che “il termine per l’inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l’opera deve essere completata non può superare i tre anni dall’inizio dei lavori. Entrambi i termini possono essere prorogati, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza venga richiesta una proroga. La proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, esclusivamente in considerazione della mole dell’opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari”.
A sua volta l’art. 60, comma 8, della l.r. 12.04.1983, n. 18, recante “Norme per la conservazione, tutela, trasformazione del territorio della Regione Abruzzo” dispone che “le concessioni relative ai singoli edifici non possono avere validità complessiva superiore a tre anni dall’inizio dei lavori, i quali devono, comunque, essere iniziati entro un anno dal rilascio della concessione. Nei casi di edifici mono e bifamiliari costruiti in economia dal concessionario per uso proprio, consentito un ulteriore periodo di due anni per la ultimazione dei lavori”; inoltre il susseguente comma 9 dispone che “un periodo più lungo per la ultimazioni dei lavori può essere consentito dal Sindaco in relazione alla mole delle opere da realizzare ed alle sue particolari caratteristiche costruttive”, e il comma 10 dispone –altresì– che “qualora entro i termini suddetti i lavori non siano stati iniziati o ultimati, il concessionario deve richiedere una nuova concessione”).
Il terzo comma dell’art. 9 del Regolamento edilizio del Comune di Vasto, all’epoca vigente e peraltro alquanto risalente nel tempo in quanto adottato con deliberazione del Consiglio Comunale n. 160 dd. 24.07.1971, disponeva che “il titolare della licenza (edilizia) può iniziare i lavori autorizzati entro e non oltre un anno dalla data di autorizzazione”, nel mentre il comma successivo precisava che “trascorso tale periodo di tempo senza che i lavori stessi abbiano avuto inizio, la licenza di costruzione sarà considerata decaduta”.
La decadenza del permesso edilizio per mancato inizio dei lavori entro il termine normativamente prescritto di per sé si verifica ope legis e per quanto attiene all’oggettiva circostanza del decorso del termine medesimo non è rimessa a valutazioni discrezionali dell’Amministrazione, trattandosi di riscontrare l’inerzia materiale del soggetto privato (così, recentemente, Cons. Stato, Sez. IV, 27.08.2019, n. 5899), peraltro con la precisazione che la circostanza medesima, pur costituendo un effetto discendente direttamente dalla legge, necessita comunque di un provvedimento dell’Amministrazione comunale (nella presente fattispecie –per l’appunto– regolarmente adottato) che dichiari l’intervenuta decadenza (così, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 19.04.2019, n. 2546).
Nondimeno, l’accertamento dell’avvenuto inizio dei lavori entro l’anno dal rilascio del permesso di costruire, necessario ad evitarne la decadenza, è questione di fatto, da valutarsi caso per caso con riguardo al complesso delle circostanze concrete (Cons. Stato, Sez. IV, 20.12.2013, n. 6151).
Non va pertanto sottaciuto che quella di effettivo inizio dei lavori è una nozione -per così dire– “elastica”, posto che il rispetto del surriferito termine annuale si desume dagli indizi rilevati sul sito dell’intervento, che devono essere di entità tale da scongiurare il rischio che il termine legale di decadenza venga invero ad essere eluso attraverso opere fittizie e simboliche (così, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 24.01.2018, n. 467), fermo in tal senso restando che l’onere della prova del mancato inizio dei lavori assentiti incombe comunque sull’Amministrazione comunale che ne dichiara la decadenza: e ciò alla stregua del principio generale in forza del quale i presupposti del provvedimento adottato devono essere accertati dall’autorità emanante (cfr. sul punto Cons. Stato, Sez. V, 11.04.1990, n. 343).
Si ritiene comunque che l’“inizio lavori” deve intendersi riferito a concreti lavori edilizi che possono desumersi dagli indizi rilevati sul posto e che i lavori possano ritenersi “iniziati” quando consistano nella compiuta organizzazione del cantiere, nell’innalzamento di elementi portanti, nell’elevazione di muri, nell’esecuzione di scavi preordinati al gettito delle fondazioni del costruendo edificio, e non, ad esempio, in presenza di soli lavori di livellamento del terreno o di sbancamento (cfr., ad es., Cons. Stato, sez. IV, 24.01.2018, n. 467).
La mera esecuzione di lavori di sbancamento è, infatti, di per sé inidonea per ritenere soddisfatto il presupposto dell’effettivo inizio dei lavori, essendo necessario che lo sbancamento medesimo sia accompagnato dalla “compiuta organizzazione del cantiere” e da altri indizi idonei a confermare l’effettivo intendimento del titolare del permesso di costruire di realizzare l’opera assentita (così, puntualmente, Cons. Stato, Sez. VI, 19.09.2017, n. 4381).
Venendo al caso di specie, il controllo della Polizia Municipale è avvenuto in data 21.10.2009, ossia sei giorni dopo la scadenza del termine annuale decorrente dalla data in cui l’attuale appellante aveva dato notizia all’Amministrazione comunale dell’avvenuto inizio dei lavori (15.10.2008).
Lo stesso appellante -come si è visto innanzi, al § 1.1 della presente sentenza- descrive le opere complessivamente sino a quel momento realizzate nella “recinzione e messa in sicurezza del sito attraverso palificazione metallica con rete di cantiere”, nella “realizzazione di un muro di sostegno della scarpata superiore”, nell’“eliminazione della vegetazione olivicola”, nello “sbancamento dell’area per l’intera estensione del corpo di fabbrica progettato, per una profondità di m. 2,50 circa ed un’ampiezza di ml. 40 x ml, 15 = mq. 600, creando lo spazio idoneo a contenere le fondazioni e il posizionamento del piano seminterrato”, nel “picchettamento degli ingombri massi per le travi di fondazione” e nell’“asportazione del terreno risultante da tali operazioni”.
Tale descrizione comprende, quindi, anche quelle opere –segnatamente costituite dall’avvenuta realizzazione del muretto di contenimento della scarpata superiore e dalla recinzione dell’area di cantiere– che non erano state menzionate nel verbale redatto dalla Polizia Municipale al momento dell’accesso al cantiere e che, comunque, l’Amministrazione comunale non ha avuto difficoltà di sorta ad ammettere poi, in corso di causa, come effettivamente esistenti alla stessa data in cui era stato compiuto l’accertamento.
Tuttavia, l’insieme delle opere testé menzionate dallo stesso Ma., e pur probatamente realizzate nel corso dell’anno intercorrente tra la data del 15.10.2008 e quella dell’accertamento compiuto dall’Amministrazione comunale, non può comunque ricondursi ad un effettivo “inizio dei lavori”, così come presupposto dall’art. 15, comma 2, del t.u. approvato con d.P.R. 06.06.2001, n. 380, e dalle anzidette e concorrenti fonti legislative regionali e regolamentari locali, nonché così come inteso dalla giurisprudenza dianzi menzionata.
In tal senso va infatti rilevato che l’edificazione del muro di contenimento della scarpata intuitivamente si configura –di per sé– quale opera certamente funzionale per l’assetto del sedime del costruendo edificio e, allo stesso tempo, come del tutto prioritaria per la stessa sicurezza del cantiere, ma non determinante agli effetti dell’accertamento del concreto avvio dei lavori di costruzione dell’edificio assentito.
Alle stesse conclusioni si perviene con riguardo alla recinzione dell’area di cantiere, allo sbancamento dell’area destinata a contenere le fondazioni e il seminterrato del corpo di fabbrica, all’asporto del materiale rinveniente dallo scavo e alla rimozione della vegetazione ivi insistente e incompatibile con la realizzazione dell’edificio.
Anche tali opere risultano infatti -all’evidenza- meramente preliminari rispetto al concreto avvio dei lavori di costruzioni; e ciò –si badi– anche a prescindere dal divergente apprezzamento da parte dell’appellante e da parte dell’Amministrazione comunale circa la congruità dello sbancamento fino a quel momento realizzato rispetto alle dimensioni dell’edificio progettato, posto che –come dianzi affermato– i lavori di sbancamento risultano in ogni caso irrilevanti se non accompagnati anche dalla “compiuta organizzazione del cantiere”: circostanza, quest’ultima, in alcun modo documentata agli atti di causa.
Va da ultimo evidenziato che presumibilmente la volontà dell’attuale appellante non era preordinata alla realizzazione di opere fittizie o comunque meramente simboliche, posto che egli ammette nell’atto introduttivo del presente grado di giudizio che il ritardo nel concreto inizio dei lavori è stato nella specie determinato dalla difficile congiuntura che a decorrere da quello stesso periodo di tempo ha interessato la maggior parte delle attività economiche, con particolare riguardo a quella delle imprese edili.
L’esistenza di tale crisi è fatto notorio che non necessita di particolari prove (cfr. art. 39 c.p.a. con riferimento all’art. 115, secondo comma, c.p.c.): e, pur tuttavia, ai fini del mancato inizio dei lavori normativamente assunto a presupposto per la dichiarazione di decadenza del titolo edilizio rileva di per sé l’avvenuto decorso del termine annuale unitamente all’oggettiva insufficienza delle opere realizzate.
Ma, se così è, il medesimo appellante imputet sibi la circostanza di non aver chiesto prima della scadenza annuale la proroga del termine medesimo “per fatti sopravvenuti estranei alla (propria) volontà”, come già a quel tempo innovativamente previsto dall’art. 15, comma 2, seconda parte, del t.u. approvato dal d.P.R. n. 380 del 2001 rispetto alla surriferita e pro-tempore concorrente disciplina di fonte regionale e comunale: e ciò anche in considerazione che la giurisprudenza afferma l’illegittimità dell’eventuale provvedimento dell’Amministrazione comunale di declaratoria di decadenza del permesso di costruire allorquando l’impedimento non sia riferibile alla condotta del destinatario del titolo edilizio e sia tale da costituire causa di forza maggiore (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. V, 29.01.2003, n. 453) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 12.12.2019 n. 8448 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Zonizzazione acustica del territorio e pianificazione urbanistica.
In materia di zonizzazione acustica del territorio, le scelte dell’Amministrazione non possono sovrapporsi meccanicamente alla pianificazione urbanistica, ma devono tener conto del disegno urbanistico voluto dal pianificatore, ovverosia delle preesistenti destinazioni d’uso del territorio.
Ciò rileva sotto un duplice aspetto. Da un lato, rileva l’interesse pubblico generale alla conservazione del disegno di governo del territorio programmato dal pianificatore, il quale riflette un ben preciso interesse della comunità ad un certo utilizzo del proprio territorio, sul quale la medesima è stanziata. Da un altro lato, rileva l’interesse dei privati alla conservazione delle potenzialità edificatorie connesse alla titolarità dei diritti sui beni immobili e derivanti dalle pregresse e già effettuate scelte di pianificazione, le quali devono poter essere attuate pro futuro, avendo una natura tipicamente programmatoria
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.12.2019 n. 8443 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
l) La Sezione condivide il ragionamento logico-giuridico seguito dal primo giudice, il quale si è sostanziato nei seguenti principali snodi argomentativi:
   - l’attività di “omogeneizzazione” è soggetta a determinati limiti, in presenza dei quali essa rimane comunque attività non dovuta, in quanto espressione di discrezionalità amministrativa, tendente a contemperare opposte esigenze, e non già a fare applicazione di norme tecniche o di regole scientifiche: il soggetto che deduce l’illegittimità della “omogeneizzazione” per l’insussistenza delle condizioni in presenza delle quali essa può essere effettuata, ha l’onere di dimostrare in modo compiuto l’assenza delle condizioni legittimanti, non potendo limitarsi a darne enunciazione;
   - l’inserimento delle fasce cuscinetto tra aree completamente urbanizzate ad “accostamento critico” non è obbligatoria e non è prevista, né a livello legislativo, né dalle linee guida regionali; di converso, le linee guida fanno carico ai Comuni, nell’attività di zonizzazione acustica, di procedere all’individuazione delle suddette “fasce cuscinetto”, a fronte di accostamenti critici tra aree che non siano entrambe completamente urbanizzate;
   - il concetto di “urbanizzazione” di un’area, ai fini della applicazione del divieto di accostamenti critici, è enucleata in base al concetto di “densità urbanistica” (si afferma che “un’area si considera non completamente urbanizzata qualora la densità urbanistica sia inferiore al 12.5% della sua superficie”; ciò equivale a dire che, se l’area è caratterizzata da una percentuale di “densità urbanistica” superiore al 12,5%, si dovrà affermare che tale area è completamente urbanizzata, mentre laddove non sia apprezzabile alcuna “densità urbanistica” si potrà affermare che l’area non è urbanizzata);
   - i concetti di “densità fondiaria” e di “densità edilizia territoriale” fanno riferimento al rapporto tra il volume realizzato e la superficie di una data particella fondiaria o di una data zona o maglia urbanistica; il concetto di “rapporto di copertura” indica il rapporto tra la superficie coperta per effetto di edificazione e la superficie del fondo edificato o della intera area urbanistica considerata. Il concetto di “densità urbanistica”, invece, allude al rapporto tra la superficie dell’area interessata e la superficie di essa sulla quale le previsioni del piano regolatore generale abbiano già ricevuto attuazione (l’attuazione può avvenire anche con modalità diverse dall’edificazione).
La Sezione aggiunge, a queste condivisibili osservazioni, le seguenti ulteriori.
In materia di zonizzazione acustica del territorio, le scelte dell’Amministrazione non possono sovrapporsi meccanicamente alla pianificazione urbanistica, ma devono tener conto del disegno urbanistico voluto dal pianificatore, ovverosia delle preesistenti destinazioni d’uso del territorio.
Ciò rileva sotto un duplice aspetto.
Da un lato, rileva l’interesse pubblico generale alla conservazione del disegno di governo del territorio programmato dal pianificatore, il quale riflette un ben preciso interesse della comunità ad un certo utilizzo del proprio territorio, sul quale la medesima è stanziata.
Da un altro lato, rileva l’interesse dei privati alla conservazione delle potenzialità edificatorie connesse alla titolarità dei diritti sui beni immobili e derivanti dalle pregresse e già effettuate scelte di pianificazione, le quali devono poter essere attuate pro futuro, avendo una natura tipicamente programmatoria.
Pertanto, contrariamente a quanto sostenuto dalla società ricorrente, ai fini dell’esegesi del concetto di “densità urbanistica” (e, a valle, di quello di “urbanizzazione”), non può essere dato rilievo agli usi effettivi in atto sul territorio (nell’ambito dei quali, peraltro, la ricorrente parrebbe anche dare preminente, se non esclusivo rilievo, al solo stato dell’edificazione privata), perché essi si limitano a rappresentare (staticamente) la realtà dell’uso del territorio, trascurando l’aspetto dinamico del suo governo.
Ed è su tale dinamicità che si regge, invece, la ratio della disciplina legislativa statale e di quella regionale, entrambe sostanzialmente rivolte a perseguire l’obiettivo del contemperamento tra due interessi generali: quello della pianificazione urbanistica e quello della tutela dall’inquinamento acustico.
Questi due interessi generali, che potrebbero entrare materialmente in conflitto nel momento in cui al pianificatore comunale venissero imposti limiti troppo stringenti, vengono per l’appunto regolati, dall’astratta previsione legislativa, col dare rilievo alle preesistenti destinazioni urbanistiche.
Laddove, invece -come prospetta la società ricorrente- tale meccanismo regolatorio e di composizione del conflitto dovesse essere esteso alla considerazione dello stato effettivo e reale dell’edificazione, si verrebbe a creare -in via esegetica e senza una base legale legittimante- una duplice limitazione: quella a carico dello strumento urbanistico già adottato e approvato, il quale non potrebbe più essere attuato secondo le originarie previsioni; quella a carico dei privati, che vedrebbero inevitabilmente ridotte le capacità edificatorie espresse dai propri fondi, attraverso l’imposizione di fasce cuscinetto.

EDILIZIA PRIVATALa legnaia realizzata è identificabile come edificio, in quanto si tratta di costruzione completamente chiusa da muri perimetrali, pur destinata ad attività di servizio (quali deposito, ricovero attrezzi, legnaie etc.); pertanto essa è computabile in termini volumetrici ed è rilevante ai fini delle distanze e, come tale, è perciò realizzabile solo in quelle aree ove sono consentite nuove costruzioni.
In via generale, la giurisprudenza amministrativa è univoca nell’affermare che la realizzazione di una tettoia necessita di permesso di costruire quale “nuova costruzione”, comportando una trasformazione del territorio e dell’assetto edilizio anteriore; essa arreca, infatti, un proprio impatto volumetrico e, se e in quanto priva di connotati di precarietà, è destinata a soddisfare esigenze non già temporanee e contingenti, ma durevoli nel tempo, con conseguente incremento del godimento dell’immobile cui inerisce e del relativo carico urbanistico.
E’ evidente che occorre sempre esaminare ogni intervento, caso per caso, considerando dimensioni, struttura, materiali e finalità dell’opera.
Ad esempio, è stata esclusa la rilevanza volumetrica di una tettoia in legno ad una sola falda, di forma rettangolare, avente dimensioni di mq. 31,42 e altezza in gronda di m. 2,50 ed alla gronda di m. 2,65, realizzata sul terrazzo di proprietà, ad esclusivo servizio di detto piano, poggiante per un lato direttamente sulla struttura esistente del fabbricato e per l’altro su pilastrini in legno: e ciò in quanto, come affermato già in precedenza dalla giurisprudenza, detto manufatto è aperto su tre lati. In questo caso la tettoia è aperta su tre lati e non viene considerata nuova costruzione.
Nel caso di tettoie chiuse, come quella di specie, la giurisprudenza amministrativa è ferma nel ritenerle nuove costruzioni, con applicazione del relativo regime giuridico, in considerazione del fatto che, se sono chiuse, non possono più definirsi soltanto “tettoie”, bensì veri e propri edifici.
---------------

2. Ritiene il Collegio, in conformità alla corretta sentenza del TAR qui impugnata, che la legnaia realizzata dall’attuale appellante è identificabile come edificio, in quanto si tratta di costruzione completamente chiusa da muri perimetrali, pur destinata ad attività di servizio (quali deposito, ricovero attrezzi, legnaie etc.); pertanto essa è computabile in termini volumetrici ed è rilevanti ai fini delle distanze e, come tale, è perciò realizzabili solo in quelle aree ove sono consentite nuove costruzioni (nel caso di specie, nell’area in esame non sono consentite nuove costruzioni).
In via generale, la giurisprudenza amministrativa è univoca nell’affermare che la realizzazione di una tettoia necessita di permesso di costruire quale “nuova costruzione”, comportando una trasformazione del territorio e dell’assetto edilizio anteriore; essa arreca, infatti, un proprio impatto volumetrico e, se e in quanto priva di connotati di precarietà, è destinata a soddisfare esigenze non già temporanee e contingenti, ma durevoli nel tempo, con conseguente incremento del godimento dell’immobile cui inerisce e del relativo carico urbanistico (Tar Piemonte, sez. II, n. 435 dell’08.04.2016; Tar Salerno, sez. II, n. 9 del 07.01.2015; Tar Lazio, sez. I Roma, n. 13449 del 27.11.2015; Tar Napoli, sez. II, n. 4959 del 22.10.2015; Tar Perugia, sez. I, n. 377 dell’11.09.2015; Tar Pescara, sez. I, n. 276 del 01.07.2015; Tar Ancona, sez. I, n. 469 del 05.06.2015; Tar Genova, sez. I, n. 1367 dell’11.07.2007 e, ancor più di recente, Consiglio di Stato, sez. II, 13/06/2019, n. 3991)”.
E’ evidente che occorre sempre esaminare ogni intervento, caso per caso, considerando dimensioni, struttura, materiali e finalità dell’opera.
Ad esempio, è stata esclusa la rilevanza volumetrica di una tettoia in legno ad una sola falda, di forma rettangolare, avente dimensioni di mq. 31,42 e altezza in gronda di m. 2,50 ed alla gronda di m. 2,65, realizzata sul terrazzo di proprietà, ad esclusivo servizio di detto piano, poggiante per un lato direttamente sulla struttura esistente del fabbricato e per l’altro su pilastrini in legno: e ciò in quanto, come affermato già in precedenza dalla giurisprudenza, detto manufatto è aperto su tre lati (Tar Campania, sez. I Salerno, n. 109 del 16.01.2017).
In questo caso la tettoia è aperta su tre lati e non viene considerata nuova costruzione.
3. Nel caso di tettoie chiuse, come quella di specie, la giurisprudenza amministrativa è ferma nel ritenerle nuove costruzioni, con applicazione del relativo regime giuridico, in considerazione del fatto che, se sono chiuse, non possono più definirsi soltanto “tettoie”, bensì veri e propri edifici (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 11.12.2019 n. 8417 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTIAppalti, chi fa parte della commissione non può approvare gli atti di gara.
Chi fa parte della commissione di gara, anche se responsabile del servizio interessato dall'appalto, non può approvare gli atti di gara. Nel procedimento d'appalto, a differenza di quanto accade in generale nel procedimento amministrativo, esiste un principio di terzietà tra i soggetti che hanno predisposto gli atti e il soggetto chiamato a effettuare il controllo sulla regolarità delle operazioni compiute e quindi ad adottare la determinazione di aggiudicazione.

È questa, in sintesi, la riflessione statuita con la sentenza 06.12.2019 n. 2926 del TAR Sicilia-Catania, Sez. III.
La censura
Il ricorrente, come secondo motivo di ricorso, ha sollevato la questione della incompatibilità tra funzioni di commissario di gara e funzioni di controllo e conseguente approvazione della proposta di aggiudicazione.
L'organo che ha provveduto all'approvazione degli atti di gara (la proposta di aggiudicazione) era anche il responsabile del servizio presente in commissione come uno degli esperti. La commissione è stata nomina dal responsabile del servizio gare della centrale unica che ne assumeva anche la presidenza.
Il ricorrente ha censurato anche questo aspetto ritenendo che, tanto la nomina quanto il ruolo di presidente dovevano ritenersi di competenza del responsabile del servizio interessato (del comune richiedente la gara).
Quest'ultima doglianza è stata respinta in quanto inammissibile considerato che queste modalità risultavano disciplinate nei regolamenti della Cuc con cui sono stati fissati i «criteri di nomina dei componenti le commissioni giudicatrici interne alla centrale unica di committenza nel periodo transitorio», non tempestivamente impugnati.
L'aspetto interessante della pronuncia, quindi, è quello relativo alla pretesa incompatibilità di ruoli tra organo controllato e soggetto deputato al controllo.
La sentenza
La paventata incompatibilità, e quindi la censura di illegittimità, è ritenuta fondata dal giudice. Il fatto che la proposta di aggiudicazione sia stata approvata dal responsabile del servizio del Comune richiedente la gara, anche commissario del collegio giudicatore, rende gli atti illegittimi.
Il giudice siciliano non ha ravvisato ragioni per discostarsi «dal condivisibile orientamento della giurisprudenza amministrativa secondo cui sussisterebbe incompatibilità all'approvazione degli atti di gara da parte del membro della commissione (Consiglio di Stato sentenza n. 6135/2019)».
Questa incompatibilità esprime l'esigenza di terzietà tra «amministrazione attiva ed amministrazione di controllo, essendo l'alterità presupposto della imparzialità».
Esisterebbe, pertanto, nella materia degli appalti un principio di terzietà in realtà estraneo al diritto amministrativo in generale. Estraneità che emerge con palese evidenza nell'articolo 6, comma 1, della legge 241/1990, laddove si precisa che il responsabile del procedimento, solo se ne ha la competenza (ovvero dispone dei poteri gestionali e può adottare atti che impegnano l'ente all'esterno) può adottare il provvedimento definitivo.
Questa possibilità, invece, deve rienersi preclusa nel diritto degli appalti: pertanto chi valuta/giudica le offerte non può pretendere, legittimamente, anche di approvare gli atti conclusivi del procedimento.
Non c'è dubbio che questa sia una affermazione di grande implicazione pratico/operativa se si considera quanto avviene negli enti locali dove il responsabile del servizio, normalmente presidente della commissione di gara, procede anche all'approvazione degli atti e all'adozione della determinazione di affidamento.
In virtù anche della consolidata fictio iuris secondo cui nel momento del controllo sulle operazioni compiute dalla commissione, il responsabile del servizio, anche se presidente/componente del collegio, si porrebbe in posizione di terzietà.
L'accoglimento del secondo motivo ha determinato l'annullamento degli atti della commissione e della determinazione di aggiudicazione con rimessione alla stazione appaltante degli stessi atti per l'esigenza di rinnovare il controllo e procedere con un nuovo provvedimento (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.12.2019).

PUBBLICO IMPIEGOAl dipendente assolto niente rimborso delle spese di difesa se i fatti non sono connessi con il servizio.
L'articolo 18, comma 1, del Dl 67/1997, convertito dalla legge 135/1997, prevede la possibilità per l'Amministrazione statale di rimborsare le spese legali sostenute dal proprio dipendente per la difesa, tra l'altro, nel giudizio penale, come nel caso in esame, solamente in presenza di due presupposti.
Il primo, costituito dalla pronuncia di un provvedimento del Giudice che abbia escluso in via definitiva la responsabilità del dipendente; il secondo, se sussiste una connessione tra i fatti oggetto del giudizio e l'espletamento del servizio e/o l'assolvimento degli obblighi istituzionali.
Se, però, come nel caso di specie, la condotta oggetto di contestazione è stata posta in essere unicamente in occasione dell'attività d'istituto, non sorge alcun interesse legittimo al rimborso.

Lo ha ribadito il Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.11.2019 n. 8137.
Il caso
Un finanziere, imputato nel procedimento penale per il reato di rivelazione di segreto d'ufficio, previsto e punito dall'articolo 326 Cp, per avere nell'ipotesi d'accusa rivelato telefonicamente al titolare di un night che la sera stessa si sarebbe svolto anche nel suo locale un controllo della Guardia di finanza, è stato assolto in primo grado per insussistenza del fatto.
A seguita di tale sentenza, egli ha chiesto alla propria Amministrazione l'applicazione dell''articolo 18, comma 1, del Dl 67/1997, che gli è però stata negata dalla Pa competente, perché ... i fatti valutati non erano connessi all'espletamento del servizio o con l'assolvimento di compiti istituzionali, in quanto solo casualmente legati allo status di militare della Guardia di finanza. Il giudizio di primo grado Avverso il diniego, l'interessato ha ricorso al Tar che lo ha respinto, rilevando che:
   - con la condotta oggetto di contestazione il ricorrente non ha agito nell'interesse dell'Amministrazione;
   - l'assoluzione è stata disposta perché i fatti sono stati solo parzialmente provati, risultando infatti ambigua per il Giudice penale la frase occhio stasera pronunciata dal finanziere al titolare del locale.
Il ricorso in appello
Il ricorrente ha quindi impugnato la sentenza del Giudice di Prime Cure, deducendo che:
   - in sede penale, è risultato che presso il locale del destinatario della telefonata non sono stati effettuati controlli per la data prevista;
   - la telefonata ha riguardato un'attività di prevenzione di reati;
   - il fatto contestato, per il quale egli è stato assolto non con la formula dubitativa, va considerato connesso al servizio svolto.
La sentenza di secondo grado
Il Consiglio di Stato ha respinto il gravame, provvedendo ad un'accurata ricognizione della giurisprudenza formatasi sui presupposti legittimanti l'accoglimento della richiesta di rimborso delle spese legali in questione, ed osservato preliminarmente che:
   - la norma scrutinata ... attribuisce un peculiare potere valutativo all'Amministrazione con riferimento all'an ed al quantum, poiché essa deve verificare in concreto i presupposti per disporre il rimborso, nonché quando sussistano tali presupposti se siano congrue le spese di cui sia chiesto il rimborso con l'ausilio dell'Avvocatura dello Stato, il cui parere di congruità ha natura obbligatoria e vincolante (Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 3593/2013). 
I presupposti per l'applicazione della norma sono due:
   - una pronuncia giurisdizionale definitiva che escluda la responsabilità del dipendente e non per ragioni diverse, quale, ad esempio, l'estinzione del reato per prescrizione;
   - la ravvisabilità nella condotta oggetto del giudizio del nesso di immedesimazione organica tra agente e Pa.
In ordine al secondo presupposto, i Giudici di Palazzo Spada ne hanno rilevato la non ricorrenza nel caso esaminato, dal momento che la condotta ascritta al finanziere risulta del tutto estranea allo svolgimento del lavoro istituzionale e del tutto irriferibile all'Amministrazione di appartenenza, in quanto non espressione della sua volontà e non finalizzata all'adempimento dei suoi fini istituzionali.
Conclusioni
In conclusione, l'articolo 18, comma 1, Dl 67/1997 è di stretta applicazione e si applica quando il dipendente sia stato coinvolto nel processo per aver svolto il proprio lavoro e non anche quando la condotta sia stata posta in essere in occasione dell'attività lavorativa o quando sia di per sé meritevole di una sanzione disciplinare (cfr., per tutti, Consigli di Stato, Sezione VI, sentenza 1154/2017 e Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 1190/2013) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.12.2019).
---------------
MASSIMA
6. Ritiene la Sezione che l’appello vada respinto, perché infondato.
7. Per comodità di lettura, va riportato il contenuto dell’art. 18, comma 1, del decreto legge n. 67 del 1997, come convertito nella legge n. 135 del 1997.
Le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall'Avvocatura dello Stato. Le amministrazioni interessate, sentita l'Avvocatura dello Stato, possono concedere anticipazioni del rimborso, salva la ripetizione nel caso di sentenza definitiva che accerti la responsabilità”.
Per i casi in cui sussiste la giurisdizione amministrativa esclusiva, rilevano i principi generali per i quali, in presenza di un potere valutativo dell’Amministrazione, la posizione del dipendente va qualificata come interesse legittimo (pur se è stata talvolta definita come di ‘diritto condizionato’ all’accertamento dei relativi presupposti: Cons. Stato, Sez. III, 29.12.2017, n. 6194; Sez. VI, 21.01.2011, n. 1713).
L’art. 18 sopra riportato attribuisce un peculiare potere valutativo all’Amministrazione con riferimento all’an ed al quantum, poiché essa deve verificare se sussistano in concreto i presupposti per disporre il rimborso delle spese di giudizio sostenute dal dipendente, nonché –quando sussistano tali presupposti -se siano congrue le spese di cui sia chiesto il rimborso– con l’ausilio della Avvocatura dello Stato, il cui parere di congruità ha natura obbligatoria e vincolante (Cons. Stato, Sez. II, 31.05.2017, n. 1266; Sez. IV, 08.07.2013, n. 3593).
Di per sé il parere –per la sua natura tecnico-discrezionale– non deve attenersi all’importo preteso dal difensore (Cons. Stato, Sez. II, 20.10.2011, n. 2054/2012), o a quello liquidato dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati per quanto rileva nei rapporti tra il difensore e l’assistito (Cons. Stato, Sez. II, 31.05.2017, n. 1266; Sez. VI, 08.10.2013, n. 4942), ma deve valutare quali siano state le effettive necessità difensive (Cass. Sez. Un., 06.07.2015, n. 13861; Cons. Stato, Sez. IV, 07.10.2019, n. 6736; Sez. II, 31.05.2017, n. 1266; Sez. II, 20.10.2011, n. 2054/12) ed è sindacabile in sede di giurisdizione di legittimità per errore di fatto, illogicità, carenza di motivazione, incoerenza, irrazionalità o per violazione delle norme di settore (Cons. Stato, Sez. II, 30.06.2015, n. 7722).
Qualora il diniego (totale o parziale) di rimborso risulti illegittimo, il suo annullamento non comporta di per sé l’accertamento della spettanza del beneficio, dovendosi comunque pronunciare sulla questione l’Amministrazione, in sede di emanazione degli atti ulteriori.
8.
Per quanto riguarda i presupposti indefettibili per l’applicazione dell’art. 18, si è formata una univoca e convergente giurisprudenza della Corte di Cassazione e di questo Consiglio di Stato.
Tali presupposti sono due:
   a) la pronuncia di una sentenza o di un provvedimento del giudice, che abbia escluso definitivamente la responsabilità del dipendente;
   b) la sussistenza di una connessione tra i fatti e gli atti oggetto del giudizio e l’espletamento del servizio e l’assolvimento degli obblighi istituzionali.

9.
Quanto alla pronuncia definitiva sull’esclusione della responsabilità del dipendente, qualora si tratti di una sentenza penale si deve trattare di un accertamento della assenza di responsabilità, anche quando –in assenza di ulteriori specificazioni contenute nell’art. 18- sia stato applicato l’art. 530, comma 2, del codice di procedura penale (Cons. Stato, Sez. IV, 04.09.2017, n. 4176, cit.; Ad. Gen., 29.11.2012, n. 20/13; Sez. IV, 21.01.2011, n. 1713, cit.).
L’art. 18, invece, non può essere invocato quando il proscioglimento sia dipeso da una ragione diversa dalla assenza della responsabilità, cioè quando sia stato disposto a seguito dell’estinzione del reato, ad esempio per prescrizione, o quando vi sia stato un proscioglimento per ragioni processuali, quali la mancanza delle condizioni di promovibilità o di procedibilità dell’azione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 04.09.2017, n. 4176, cit.; Sez. VI, 2005, n. 2041).
10. Oltre alla pronuncia del giudice che espressamente abbia escluso la responsabilità del dipendente,
l’art. 18 ha disciplinato un ulteriore presupposto per la spettanza del beneficio, e cioè la sussistenza di una connessione tra i fatti e gli atti oggetto del giudizio e l’espletamento del servizio e l’assolvimento degli obblighi istituzionali: l’art. 18 si applica a favore del dipendente che abbia agito in nome e per conto, oltre che nell’interesse della Amministrazione (e cioè quando per la condotta oggetto del giudizio sia ravvisabile il ‘nesso di immedesimazione organica’).
10.1.
Tale connessione sussiste –sia pure in modo peculiare- qualora sia stata contestata al dipendente la violazione dei doveri di istituto e, all’esito del procedimento, il giudice abbia constatato non solo l’assenza della responsabilità, ma che esso sia sorto in esclusiva conseguenza di condotte illecite di terzi, di natura diffamatoria o calunniosa, oppure qualificabili come un millantato credito (si pensi al funzionario, al dirigente o al magistrato accusato di corruzione, ma in realtà del tutto estraneo ai fatti, perché vittima di una orchestrata attività calunniosa o di un millantato credito emerso dopo l’attivazione del procedimento penale).
Sotto tale profilo, l’art. 18 tutela senz’altro –col rimborso delle spese sostenute- il dipendente statale che sia stato costretto a difendersi, pur innocente, nel corso del procedimento penale nel quale –esclusivamente in ragione del suo status e non per l’aver posto in essere specifici atti- sia stato coinvolto nel procedimento penale perché sostanzialmente vittima di illecite condotte altrui, che per un qualsiasi motivo illecito hanno coinvolto il dipendente, a maggior ragione se è stato designato come vittima proprio quale appartenente alle Istituzioni e per il servizio prestato.
Qualora in tali casi il giudice penale disponga il proscioglimento del dipendente statale, non rileva pertanto la natura attiva od omissiva della condotta oggetto della contestazione, perché ciò che conta è l’accertamento da parte del giudice penale dell’estraneità del dipendente ai fatti contestati, nonché il carattere diffamatorio o calunnioso delle dichiarazioni altrui.

10.2.
A parte l’ipotesi del coinvolgimento del dipendente estraneo ai fatti, ma vittima di una illecita condotta altrui, quanto alla ‘connessione’ tra i fatti e gli atti oggetto del giudizio e l’espletamento del servizio e l’assolvimento degli obblighi istituzionali, la giurisprudenza ha più volte chiarito che si deve trattare di condotte (estrinsecatesi in atti o comportamenti) che di per sé siano riferibili all’Amministrazione di appartenenza e che, di conseguenza, comportino a questa l’imputazione dei relativi effetti (Cons. Stato, Sez. IV, 07.06.2018, n. 3427; Sez. IV, 05.04.2017, n. 1568; Sez. IV, 26.02.2013, n. 1190): la condotta oggetto della contestazione deve essere espressione della volontà della Amministrazione di appartenenza e finalizzata all’adempimento dei suoi fini istituzionali.
L’art. 18 è di stretta applicazione e si applica quando il dipendente sia stato coinvolto nel processo per l’aver svolto il proprio lavoro, e cioè quando si sia trattato dello svolgimento dei suoi obblighi istituzionali e vi sia un nesso di strumentalità tra l’adempimento del dovere ed il compimento dell’atto o del comportamento (e dunque quando l’assolvimento diligente dei compiti specificamente lo richiedeva), e non anche quando la condotta oggetto della contestazione sia stata posta in essere ‘in occasione’ dell’attività lavorativa (Cass., 03.01.2008, n. 2; Cons. Stato, Sez. VI, 13.03.2017, n. 1154; Sez. III, 08.04.2016, n. 1406; Sez. IV, 26.02.2013, n. 1190; Sez. IV, 14.04.2000, n. 2242) o quando sia di per sé meritevole di una sanzione disciplinare (Cons. Stato, Sez. IV, 26.02.2013, n. 1190).
Invece, esso non si applica quando la contestazione in sede penale si sia riferita ad un atto o ad un comportamento, in ipotesi, che:
   a) di per sé costituisca una violazione dei doveri d’ufficio
(cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 07.06.2018, n. 3427);
   b) sia stato comunque posto in essere per ragioni personali, sia pure durante e ‘in occasione’ dello svolgimento del servizio, e dunque non sia riferibile all’Amministrazione (Cass. civ., Sez. I, 31.01.2019, n. 3026; Sez. lav., 06.07.2018, n. 17874; Sez. lav., 03.02.2014, n. 2297; Sez. lav., 30.11.2011, n. 25379; Sez. lav., 10.03.2011, n. 5718; Cons. Stato, Sez. V, 05.05.2016, n. 1816; Sez. III, 2013, n. 4849; Sez. IV, 26.02.2013, n. 1190), ad esempio, quando la contestazione si sia riferita a una condotta che riguardi la propria vita di relazione, ancorché nell’ambiente di lavoro (Cons. Stato, Sez. V, 2014, n. 6389; Sez. II, 15.05.2013, n. 3938/13), o che non sia riconducibile strettamente alla attività istituzionale, quale l’accettazione di un regalo o il coinvolgimento in un alterco con colleghi, ma che all’esito del giudizio non sia stata qualificata come reato.
   c) sia potenzialmente idoneo a condurre ad un conflitto con gli interessi dell’Amministrazione (ad esempio quando, malgrado l’assenza di una responsabilità penale, sussistano i presupposti per ravvisare un illecito disciplinare e per attivare il relativo procedimento
: cfr. Cons. Stato, Sez. II, 27.08.2018, n. 2055; Sez. IV, 04.09.2017, n. 4176, cit.; Sez. IV, 2013, n. 1190; Sez. IV, 2012, n. 423).
Infatti, la ratio della regola del rimborso delle spese –per i giudizi conseguenti alle condotte attinenti al servizio- è quella di ‘evitare che il dipendente statale tema di fare il proprio dovere’: occorre uno specifico nesso causale tra il fatto contestato e lo svolgimento del dovere d’ufficio (Cons. Stato, Sez. II, 21.11.2018, n. 2735; Sez. IV, 11.04.2007, n. 1681) e il rimborso non spetta per il solo fatto che in sede penale vi sia il proscioglimento per un reato proprio (commesso per la qualità di dipendente dello Stato).
10.3.
In materia non rilevano di per sé le disposizioni del codice civile sul contratto di mandato, proprio perché l’art. 18 sopra riportato ha indicato i presupposti –sostanziali e procedimentali– indefettibili per la spettanza del rimborso.
11. Tenuto conto dei principi sopra evidenziati, vanno integralmente confermate le statuizioni della sentenza appellata.

APPALTIIl bando deve pubblicare come si dà il punteggio. Attribuzione all'offerta economica.
La formula per l'attribuzione dei punteggi nell'offerta economica deve essere indicata negli atti di gara e non nella piattaforma telematica.
Lo ha affermato il TAR Toscana -Sez. I- con la sentenza 27.11.2019 n. 1617 con la quale era stata eccepita la mancata pubblicizzazione della formula di assegnazione del punteggio, che, si diceva nel ricorso, non sarebbe stata individuata nemmeno per relationem dal bando, posto che il mero rinvio agli atti della piattaforma telematica usata per la gestione della procedura di gara non sarebbe idoneo ad individuare quali delle diverse formule previste l'amministrazione avrebbe poi utilizzato.
La vicenda riguardava una gara per l'esecuzione dei lavori di ristrutturazione di una scuola, da aggiudicarsi con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa. Il Tar ha accolto il ricorso affermando che «la giurisprudenza nazionale e comunitaria ha stabilito che i criteri che determinano l' attribuzione dei punteggi devono essere pubblicizzati nel bando o nella lettera di invito».
Per i giudici la stazione appaltante non poteva legittimamente «saltare» il passaggio delle informazioni attraverso gli atti di gara, sostituito dalla pubblicazione sul portale della piattaforma perché «i dati contenuti nella pagina del portale non possono surrogare tale fondamentale atto (bando o lettera di invito) in quanto si tratta di mezzo avente diversa finalità e soprattutto non soggetto alle medesime forme di pubblicità della lex specialis».
Per i giudici, quindi, l'omessa pubblicazione «viola il fondamentale canone di pubblicità e trasparenza che preside allo svolgimento delle gare pubbliche la cui rilevanza è stata sottolineata anche dalla richiamata giurisprudenza della Corte di giustizia Ue».
Va oltretutto rilevato, secondo i giudici, che il rinvio alla disciplina regionale di Start non potrebbe assolutamente colmare la lacuna in quanto «il manuale della piattaforma prevede una pluralità di formule matematiche utilizzabili per assegnare il punteggio alla offerta economica» e, come sottolineato dal ricorrente, sarebbe difficile l'individuazione, al punto che, nella sostanza, il ricorrente è stato edotto della formula matematica utilizzata per la assegnazione del punteggio soltanto in corso di giudizio
(articolo ItaliaOggi del 27.12.2019).

INCARICHI PROFESSIONALIServizi analoghi, non identici. Sufficiente rientrare nello stesso settore dell'appalto. Tar Veneto sull'esclusione di uno studio legale da una gara di un'azienda ospedaliera.
Nelle gare pubbliche, qualora il bando di gara richieda quale requisito il pregresso svolgimento di «servizi analoghi», tale nozione non può essere assimilata a quella di «servizi identici».
Lo ha precisato il TAR Veneto, Sez. III con la sentenza 27.11.2019 n. 1290.
La controversia ha per oggetto l'esclusione di uno studio legale da una gara di appalto indetta dall'Azienda Ospedaliera di Padova per l'affidamento «del servizio di supporto e assistenza legale specialistica nell'attività di redazione e sottoscrizione di un Accordo di Programma». Le ragioni dell'esclusione sono state ricondotte alla mancata dimostrazione di aver svolto nell'ultimo triennio servizi analoghi a quelli oggetto della gara (accordi di programma) per l'importo complessivo a base di gara.
Lo studio legale aveva lamentato che pur avendo allegato alla domanda di partecipazione lo stesso elenco di servizi analoghi svolti nel corso dell'ultimo triennio, come già presentato in occasione dell'indagine di mercato e grazie al quale la stazione appaltante aveva ritenuto di invitarlo alla gara, l'amministrazione aveva attivato prima il soccorso istruttorio al fine di accertare lo svolgimento da parte dei partecipanti di servizi per attività analoga a quella oggetto di gara, salvo disporre con successivo provvedimento l'esclusione dello studio dalla gara.
Il Tar accoglie il ricorso.
La nozione di «servizi analoghi», infatti, non deve essere assimilata a quella di «servizi identici» e la prescrizione della legge di gara deve ritenersi soddisfatta tutte le volte in cui il concorrente abbia dimostrato lo svolgimento di servizi rientranti nel medesimo settore imprenditoriale o professionale che riguarda l'appalto.
Il concetto di «servizio analogo» deve essere inteso non come identità, ma come mera similitudine tra le prestazioni richieste, tenendo conto che l'interesse pubblico sottostante non è certamente la creazione di una riserva a favore degli imprenditori già presenti sul mercato ma, al contrario, l'apertura del mercato attraverso l'ammissione alle gare di tutti i concorrenti per i quali si possa raggiungere un giudizio complessivo di affidabilità
 (articolo ItaliaOggi Sette del 23.12.2019).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è fondato e meritevole di accoglimento per le seguenti considerazioni.
La tesi, sostenuta dalla difesa resistente a supporto della decisione di non ammettere lo studio ricorrente alla gara per l’affidamento del servizio di assistenza legale in vista della redazione dell’accordo di programma tra i soggetti pubblici coinvolti nella realizzazione del nuovo ospedale padovano, argomenta in ordine alla specificità dell’attività richiesta, specificità riconducibile alla complessità e peculiarità insite nel modulo procedimentale che caratterizza la predisposizione dell’accordo di programma, istituto riconducibile al genus più ampio degli accordi ex art. 11 della Legge n. 241/1990.
Se quindi –secondo la resistente– risulta imprescindibile la conoscenza delle materie appartenenti al diritto amministrativo, con specifico riferimento ai settori dell’urbanistica, dell’ambiente, delle espropriazioni, della contrattualistica, in quanto profili che verranno ad essere oggetto dei vari passaggi per addivenire alla conclusione e sottoscrizione dell’accordo di programma, la specificità delle competenze richieste nel caso in esame non può prescindere da una esperienza maturata e documentata proprio in ordine alla specifica attività di redazione/sottoscrizione di accordi di programma o più in generale di accordi ex art. 11 della L. 214/1990.
Ciò, quindi, senza voler intendere la richiesta in termini di servizi identici, ma ribadendo la necessità che le precedenti esperienze siano tali da essere ricondotte, quali servizi analoghi, a tale specifica attività di assistenza legale.
Ritiene il Collegio che l’assunto difensivo della resistente non possa essere condiviso.
Come noto e costantemente affermato dalla giurisprudenza,
la nozione di “servizi analoghi” non deve essere assimilata a quella di “servizi identici”, dovendo ritenersi soddisfatta la prescrizione della legge di gara tutte le volte in cui il concorrente abbia dimostrato lo svolgimento di servizi rientranti nel medesimo settore imprenditoriale o professionale cui afferisce l’appalto: il concetto di “servizio analogo”, deve essere inteso non come identità, ma come mera similitudine tra le prestazioni richieste, tenendo conto che l’interesse pubblico sottostante non è certamente la creazione di una riserva a favore degli imprenditori già presenti sul mercato ma, al contrario, l’apertura del mercato attraverso l’ammissione alle gare di tutti i concorrenti per i quali si possa raggiungere un giudizio complessivo di affidabilità.
E’ stato così ribadito che “
nelle gare pubbliche, laddove il bando di gara richieda quale requisito il pregresso svolgimento di «servizi analoghi», tale nozione non può essere assimilata a quella di «servizi identici» dovendosi conseguentemente ritenere, in chiave di favor partecipationis, che un servizio possa considerarsi analogo a quello posto a gara se rientrante nel medesimo settore imprenditoriale o professionale cui afferisce l'appalto in contestazione, cosicché possa ritenersi che grazie ad esso il concorrente abbia maturato la capacità di svolgere quest'ultimo” (cfr. da ultimo, Cons. Stato, sez. V, 18.12.2017 n. 5944).
Analogamente, “
quando la lex specialis di gara richiede, come nella fattispecie, di dimostrare il pregresso svolgimento di servizi simili, non è consentito alla stazione appaltante di escludere i concorrenti che non abbiano svolto tutte le attività rientranti nell'oggetto dell'appalto, né le è consentito di assimilare impropriamente il concetto di servizi analoghi con quello di servizi identici, considerato che la ratio di siffatte clausole è proprio quella di perseguire un opportuno contemperamento tra l'esigenza di selezionare un imprenditore qualificato ed il principio della massima partecipazione alle gare pubbliche” (Cons. Stato, V, 25.06.2014, n. 3220)”; cfr. anche TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 18.11.2014, n. 2892.
In buona sostanza, sulla base di tali principi ermeneutici,
la valutazione che l’amministrazione procedente è chiamata a fare ai fini dell’ammissione alla partecipazione alla gara deve essere ricondotta in termini complessivi, valutando tutti i servizi resi dal concorrente, a comprova delle proprie esperienze professionali, di talché possa essere considerata quale indice della idoneità tecnica e professionale alla corretta esecuzione del servizio oggetto dell’appalto.
Laddove la lex specialis chieda ai partecipanti di documentare il pregresso svolgimento di “servizi analoghi”, la stazione appaltante non è legittimata ad escludere i concorrenti che non abbiano svolto tutte le attività oggetto dell'appalto né ad assimilare impropriamente il concetto di “servizi analoghi” con quello di “servizi identici”, atteso che la ratio sottesa alla succitata clausola del bando è il contemperamento tra l'esigenza di selezionare un imprenditore qualificato ed il principio della massima partecipazione alle gare pubbliche, dal momento che la locuzione “servizi analoghi” non s'identifica con “servizi identici (C.d.S, Sez. V, n. 5040/2018 e n. 3267/2018).
Naturalmente dovrà essere valorizzata la contestuale ricerca di elementi di similitudine tra i servizi presi in considerazione, che possono scaturire solo dal confronto tra le prestazioni oggetto dell'appalto da affidare e le prestazioni oggetto dei servizi indicati dai concorrenti.

EDILIZIA PRIVATA: Sulla precisazione del concetto di “piena conoscenza” del provvedimento, vale a dire di quella conoscenza idonea a far decorrere il termine perentorio di sessanta giorni per l’impugnazione.
La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che la “piena conoscenza” non deve essere intesa quale “conoscenza piena ed integrale” del provvedimento stesso, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità sia idonea a viziare, in via derivata, il provvedimento finale, dovendosi invece ritenere che sia sufficiente ad integrare il concetto la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere riconoscibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso.
La norma intende per “piena conoscenza”, quindi, la consapevolezza dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività e tale consapevolezza determina la sussistenza di una condizione dell’azione, l’interesse al ricorso, mentre la conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi.
Con specifico riferimento alla impugnazione dei titoli edilizi, va innanzitutto rilevato che la vicinitas, come nella fattispecie in esame, di un soggetto rispetto all’area e alle opere edilizie contestate induce a ritenere che lo stesso abbia potuto avere più facilmente conoscenza della loro entità anche prima della conclusione dei lavori.
Ai fini della decorrenza del termine di impugnazione di un permesso di costruire da parte di terzi, l’effetto lesivo si atteggia diversamente a seconda che si contesti l’illegittimità del titolo per il solo fatto che esso sia stato rilasciato (ad esempio, per contrasto con l’inedificabilità assoluta dell’area) ovvero che si contesti il contenuto specifico del permesso (ad esempio, per eccesso di volumetria o per violazione delle distanze minime tra fabbricati).
Il momento da cui computare i termini decadenziali di proposizione del ricorso, nell’ambito dell’attività edilizia, è infatti individuato, secondo la giurisprudenza, nell’inizio dei lavori, nel caso si sostenga che nessun manufatto poteva essere edificato sull’area; ovvero, laddove si contesti il quomodo (distanze, consistenza ecc.), dal completamento dei lavori o dal grado di sviluppo degli stessi, se si renda comunque palese l’esatta dimensione, consistenza, finalità, dell’erigendo manufatto, ferma restando:
   a) la possibilità, da parte di chi solleva l’eccezione di tardività, di provare, anche in via presuntiva, la concreta anteriore conoscenza del provvedimento lesivo in capo al ricorrente (ad esempio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 20, comma 6, e 27, comma 4, t.u. edilizia, avuto riguardo alla presenza in loco del cartello dei lavori [specie se munito di rendering e indicazione puntuale del titolo edilizio] ovvero alla effettiva comunicazione all’albo pretorio del comune del rilascio del titolo edilizio; alla consistenza del tempo trascorso fra l’inizio dei lavori e la proposizione del ricorso; alla effettiva residenza del ricorrente in zona confinante con il lotto su cui sono in corso i lavori; ecc. ecc.);
   b) l’onere di chi intende contestare adeguatamente un titolo edilizio di esercitare sollecitamente l’accesso documentale.
In altri termini, la giurisprudenza di questo Consiglio ha sistematizzato i seguenti principi sulla verifica della piena conoscenza dei titoli edilizi, al fine di ponderare il rispetto del termine decadenziale per proporre l’azione di annullamento:
   - il termine per impugnare il permesso di costruire decorre dalla piena conoscenza del provvedimento, che ordinariamente s'intende avvenuta al completamento dei lavori, a meno che sia data prova di una conoscenza anticipata da parte di chi eccepisce la tardività del ricorso anche a mezzo di presunzioni semplici;
   - l’inizio dei lavori segna il dies a quo per la tempestiva proposizione del ricorso laddove si contesti l’an dell’edificazione;
   - dal momento della constatazione della presenza dello scavo, è ben possibile ricorrere enucleando le censure (ivi comprese quelle in ordine all'asserito divieto di nuova edificazione) senza differire il termine di proposizione del ricorso all'avvenuto positivo disbrigo della pratica di accesso agli atti avviata né, a monte, che si possa differire quest'ultima;
   - la richiesta di accesso non è idonea ex se a far differire i termini di proposizione del ricorso, perché se, da un lato, deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall'altro lato, deve parimenti essere salvaguardato l'interesse del titolare del permesso di costruire a che l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente differito nel tempo, determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche contraria ai principi ordinamentali.
---------------

3.1. La statuizione di irricevibilità dell’azione di annullamento del permesso di costruire n. 27 del 10.04.2014 e delle altre censure ad esso concernenti deve essere confermata.
L’art. 41, comma 2, c.p.a. dispone che, qualora sia stata proposta azione di annullamento, il ricorso deve essere notificato, a pena di decadenza, alla pubblica amministrazione e ad almeno uno dei controinteressati che sia individuato nell’atto stesso entro il termine previsto dalla legge, decorrente dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza, ovvero, per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione se questa sia prevista dalla legge o in base alla legge.
Ne consegue che la decisione della presente controversia impone di precisare il concetto di “piena conoscenza” del provvedimento, vale a dire di quella conoscenza idonea a far decorrere il termine perentorio di sessanta giorni per l’impugnazione.
La giurisprudenza (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, 23.05.2018, n. 3075) ha avuto modo di chiarire che la “piena conoscenza” non deve essere intesa quale “conoscenza piena ed integrale” del provvedimento stesso, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità sia idonea a viziare, in via derivata, il provvedimento finale, dovendosi invece ritenere che sia sufficiente ad integrare il concetto la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere riconoscibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso.
La norma intende per “piena conoscenza”, quindi, la consapevolezza dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività e tale consapevolezza determina la sussistenza di una condizione dell’azione, l’interesse al ricorso, mentre la conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi.
Con specifico riferimento alla impugnazione dei titoli edilizi, va innanzitutto rilevato che la vicinitas, come nella fattispecie in esame, di un soggetto rispetto all’area e alle opere edilizie contestate induce a ritenere che lo stesso abbia potuto avere più facilmente conoscenza della loro entità anche prima della conclusione dei lavori.
Ai fini della decorrenza del termine di impugnazione di un permesso di costruire da parte di terzi, l’effetto lesivo si atteggia diversamente a seconda che si contesti l’illegittimità del titolo per il solo fatto che esso sia stato rilasciato (ad esempio, per contrasto con l’inedificabilità assoluta dell’area) ovvero che si contesti il contenuto specifico del permesso (ad esempio, per eccesso di volumetria o per violazione delle distanze minime tra fabbricati).
Il momento da cui computare i termini decadenziali di proposizione del ricorso, nell’ambito dell’attività edilizia, è infatti individuato, secondo la giurisprudenza (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, n. 5754 del 2017; Sez. VI, n. 4830 del 2017; Sez. IV, n. 3067 del 2017; Sez. IV, 15.11.2016, n. 4701; Sez. IV, n. 1135 del 2016; Sez. IV, nn. n. 4909 e 4910 del 2015; Sez. IV, 22.12.2014 n. 6337; Sez. V, 16.04.2013, n. 2107; Sez. VI, 18.04.2012, n. 2209, che si conformano sostanzialmente all’insegnamento dell'Adunanza Plenaria n. 15 del 2011 sviluppandone i logici corollari): nell’inizio dei lavori, nel caso si sostenga che nessun manufatto poteva essere edificato sull’area; ovvero, laddove si contesti il quomodo (distanze, consistenza ecc.), dal completamento dei lavori o dal grado di sviluppo degli stessi, se si renda comunque palese l’esatta dimensione, consistenza, finalità, dell’erigendo manufatto, ferma restando:
   a) la possibilità, da parte di chi solleva l’eccezione di tardività, di provare, anche in via presuntiva, la concreta anteriore conoscenza del provvedimento lesivo in capo al ricorrente (ad esempio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 20, comma 6, e 27, comma 4, t.u. edilizia, avuto riguardo alla presenza in loco del cartello dei lavori [specie se munito di rendering e indicazione puntuale del titolo edilizio] ovvero alla effettiva comunicazione all’albo pretorio del comune del rilascio del titolo edilizio; alla consistenza del tempo trascorso fra l’inizio dei lavori e la proposizione del ricorso; alla effettiva residenza del ricorrente in zona confinante con il lotto su cui sono in corso i lavori; ecc. ecc.);
   b) l’onere di chi intende contestare adeguatamente un titolo edilizio di esercitare sollecitamente l’accesso documentale.
In altri termini, la giurisprudenza di questo Consiglio (ex multis: Cons. Stato, Sez. IV; n. 5675 del 2017; Sez. IV, n. 4701 del 2016; Sez. IV, n. 1135 del 2016) ha sistematizzato i seguenti principi sulla verifica della piena conoscenza dei titoli edilizi, al fine di ponderare il rispetto del termine decadenziale per proporre l’azione di annullamento:
   - il termine per impugnare il permesso di costruire decorre dalla piena conoscenza del provvedimento, che ordinariamente s'intende avvenuta al completamento dei lavori, a meno che sia data prova di una conoscenza anticipata da parte di chi eccepisce la tardività del ricorso anche a mezzo di presunzioni semplici;
   - l’inizio dei lavori segna il dies a quo per la tempestiva proposizione del ricorso laddove si contesti l’an dell’edificazione;
   - dal momento della constatazione della presenza dello scavo, è ben possibile ricorrere enucleando le censure (ivi comprese quelle in ordine all'asserito divieto di nuova edificazione) senza differire il termine di proposizione del ricorso all'avvenuto positivo disbrigo della pratica di accesso agli atti avviata né, a monte, che si possa differire quest'ultima;
   - la richiesta di accesso non è idonea ex se a far differire i termini di proposizione del ricorso, perché se, da un lato, deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall'altro lato, deve parimenti essere salvaguardato l'interesse del titolare del permesso di costruire a che l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente differito nel tempo, determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche contraria ai principi ordinamentali (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.11.2019 n. 7966 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO«No» alla decadenza dall'azione disciplinare fuori tempo se l'Ente deve accertare la violazione.
Il termine per l'avvio dell'azione disciplinare, in caso di una infrazione ai doveri d'ufficio che preveda il licenziamento del dipendente, non è automaticamente e rigidamente connesso alla momento della segnalazione o della denuncia del fatto, perché se lo fosse l'amministrazione non avrebbe i necessari margini di tempo e l'autonomia di valutazione per sondare la fondatezza della denuncia e l'attendibilità della fonte della notitia criminis.

Questo il principio formulato dalla Corte d'appello di Ancona, Sez. lavoro, con la sentenza 22.11.2019 n. 370.
La massima è importante perché dà tempo e modo all'amministrazione di valutare al meglio l'infrazione del dipendente per le conseguenti misure del caso, senza il rischio di incorrere nella decadenza dall'azione disciplinare per inottemperanza del termine previsto dall'articolo 55-bis, comma 4, del Dlgs 165/2001, fissato in massimo 40 giorni, articolato in più fasi, tra la data in cui l'ufficio abbia acquisito notizia dell'infrazione e la data della contestazione dell'addebito.
Secondo questo disposto, nel caso di infrazione che preveda l'irrogazione di sanzioni superiori al rimprovero verbale «il responsabile della struttura presso cui presta servizio il dipendente, segnala immediatamente, e comunque entro 10 giorni, all'ufficio competente per i procedimenti disciplinari i fatti ritenuti di rilevanza disciplinare di cui abbia avuto conoscenza. L'ufficio competente per i procedimenti disciplinari, con immediatezza e comunque non oltre 30 giorni decorrenti dal ricevimento della predetta segnalazione (…) provvede alla contestazione scritta dell'addebito e convoca l'interessato, con un preavviso di almeno 20 giorni, per l'audizione in contraddittorio a sua difesa».
Il fatto
Un dipendente comunale, con profilo di istruttore responsabile del servizio cimiteri, ha presentato appello contro la decisione con cui il Tribunale di Urbino ha rigettato l'opposizione all'ordinanza che, in fase sommaria, aveva respinto l'impugnativa del licenziamento disciplinare comminato al ricorrente dal Comune con provvedimento del 27.04.2016.
Alla base della grave sanzione inflitta c'era un episodio di indebita appropriazione di circa 20 mila euro da parte del dipendente de quo, che aveva trattenuto i corrispettivi pagati dagli utenti anziché riversarli nelle casse dell'ente.
Senza considerare i profili connessi all'azione penale esperita in seguito all'evento, la Corte d'appello si è occupata della doglianza del lavoratore in ordine alla presunta tardività dell'azione disciplinare intrapresa dal Comune nei suoi riguardi.
Secondo il ricorrente, il tribunale avrebbe errato nel non ritenere decaduta l'azione disciplinare dell'amministrazione, in relazione alla cronologia dei fatti in causa e tenuto conto dei termini imposti dal suddetto articolo 55-bis del Dlgs 165/2001.
Il Comune era venuto a conoscenza dell'infrazione del dipendente nel novembre del 2013, mentre il procedimento disciplinare era stato avviato dall'ente con una comunicazione del 02.02.2015, e quindi ben oltre il termine perentorio dei 40 giorni prescritto dal disposto di cui sopra.
Il ricorrente ha osservato che l'ente locale nel novembre 2014 aveva attuato un piano di rotazione dei dipendenti assegnati al ruolo di responsabili dei servizi cimiteriali, da cui si poteva agevolmente dedurre la piena consapevolezza del Comune circa l'elevato rischio di commissione di fatti di corruzione nell'ambito dell'ufficio in questione.
La decisione
Tutte le ragioni addotte dal lavoratore sono state ritenute infondate dalla Corte, che ha invece confermato la legittimità del licenziamento disposto dalla Pa, ancorché avvenuto senza il puntuale rispetto dei termini prescritti dall'articolo 55-bis sopra richiamato.
I giudici hanno osservato, in primo luogo, che «lo sviluppo storico dei fatti di causa è incontestato tra le parti», dato che «il reclamante ha prestato totale acquiescenza all'accertamento di merito compiuto dal primo giudice in ordine alla sussistenza dell'illecito disciplinare e alla proporzionalità e adeguatezza, rispetto a esso, della massima sanzione espulsiva».
Il collegio ha chiarito che la sequenza procedimentale prevista dall'articolo 55-bis del Dlgs 165/2001 non può applicarsi alla lettera senza tenere conto «della possibilità, anzi della necessità, per la pubblica amministrazione datrice di lavoro di compiere gli accertamenti più opportuni, onde ricostruire l'ipotizzato illecito in tutti i suoi elementi costitutivi, verificando la sussistenza non solo dell'elemento materiale o oggettivo, ma anche e soprattutto dell'elemento soggettivo».
In caso contrario, hanno scritto ancora i giudici, l'interpretazione normativa incorrerebbe in «un aberrante automatismo tra qualsiasi segnalazione o denuncia del terzo e l'avvio dell'azione disciplinare» che finirebbe per tradire lo spirito della legge.
La necessità di superare un'interpretazione letterale, che si giustifica in rapporto a chiare finalità di interesse pubblico, ha peraltro trovato un'autorevole conferma da parte della Corte di cassazione, la quale ha asserito che «la contestazione dell'addebito deve essere effettuata entro 40 giorni dall'acquisizione della notizia dell'infrazione da parte dell'ufficio competente, sempre che si tratti di notizia che contenga gli elementi sufficienti a dare un corretto avvio al procedimento disciplinare, mentre il termine non può decorrere se la notizia, per la sua genericità, non consenta la formulazione dell'incolpazione, ma richieda accertamenti di carattere preliminare, volti ad acquisire i dati necessari per circostanziare l'addebito» (Cassazione lavoro, sentenza n. 16706/2018) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.12.2019).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti, classificazione rigorosa. Analisi mirate. Nel dubbio, scarti da qualificare pericolosi. Cassazione e Corte di giustizia Ue allineate sui metodi per l’identificazione dei residui.
Al fine di classificare correttamente un rifiuto il detentore deve acquisire una conoscenza sufficiente della sua composizione, utilizzando metodologie di raccolta informazioni previste da norme Ue e verificando la presenza delle sostanze pericolose che possono ragionevolmente trovarvisi.
Laddove l'esito delle indagini lasci però dubbi, il rifiuto deve sempre essere classificato come pericoloso.

Questi, in sintesi, i principi di diritto da osservare nella procedura di identificazione di un residuo di produzione o consumo accolti dalla Corte di Cassazione -Sez. III penale- con la sentenza 21.11.2019 n. 47288, pronunciata sulla base dell'interpretazione delle norme comunitarie offerta dalla Corte di Giustizia Ue mesi addietro con sentenza del 28.03.2019.
Il contesto processuale. Il giudice nazionale di legittimità, investito di un caso relativo alla classificazione di rifiuti con «codici a specchio», e ritenendo sussistere un ragionevole dubbio sull'ambito di operatività delle norme Ue da applicarsi, aveva nel 2017 sospeso il processo rimettendo gli atti alla Corte di Lussemburgo interrogandola sull'interpretazione da dare alle regole di interesse.
Giunta dall'Ue con sentenza del marzo 2019 la risposta ai quesiti formulati dall'Italia e ripreso il procedimento nazionale, con la sentenza del novembre 2019 la Cassazione ha quindi dato conto dei principi di diritto espressi dal giudice comunitario (vincolanti ai fini della soluzione della controversia interna).
Il contesto normativo. I rifiuti con i c.d. «codici a specchio» sono i residui per i quali l'Elenco europeo dei rifiuti («Eer», decisione 2000/532/Ce) prevede due potenziali voci di classificazione, una pericolosa (quella accompagnata da asterisco) e una non pericolosa; la corretta attribuzione dell'una o dell'altra voce è rimessa al soggetto responsabile della classificazione del rifiuto (il detentore), che deve scegliere il codice appropriato all'esito di una valutazione che accerti la pericolosità o meno del residuo in base alle sostanze in esso contenute.
Sotto tale profilo classificatorio, i rifiuti con codici speculari si distinguono così dalle altre due tipologie di rifiuti previsti dall'Eer, quali: i rifiuti a monte seccamente individuati come non pericolosi e per i quali non sono necessarie ulteriori valutazioni; i rifiuti, invece, definiti univocamente pericolosi (attraverso un unico codice con asterisco), in relazione ai quali ultimi occorre procedere direttamente alla ricerca delle specifiche caratteristiche di pericolo da associarvi (identificate dalle diverse categorie «Hp» ex direttiva 2008/98/Ce).
Sebbene dettata in relazione ad una fattispecie vertente sulla classificazione di rifiuti a specchio, l'interpretazione delle norme comunitarie offerta dalle Corti assume respiro di carattere generale, poiché interessa le regole cardine del delicato procedimento di identificazione dei residui.
I principi di diritto: individuazione della composizione. Punto di partenza, si evince dalle indicazioni della recente giurisprudenza, è l'articolo 7 della direttiva 2008/98/Ce che impone al detentore del rifiuto di individuarne origine e composizione nonché, ove necessario, valori limite di concentrazione delle eventuali sostanze pericolose contenute.
Qualora la composizione del rifiuto non risulti però immediatamente nota (come il caso, appunto, dei rifiuti con codici speculari) occorre raccogliere informazioni idonee al fine di acquisirne una conoscenza «sufficiente».
Raccolta delle informazioni necessarie. La collezione dei dati relativi alla composizione del rifiuto deve esser condotta secondo metodi specifici.
Le metodologie di prova imposte dall'ordinamento giuridico sono quelle previste dall'allegato III della direttiva 2008/98/Ce, il quale indica al riguardo:
   - i metodi descritti dal regolamento 440/2008/Ce (relativo alla disciplina delle sostanze chimiche meglio nota come «Reach»);
   - le pertinenti note del Comitato europeo di normazione (c.d. «Cen»);
   - altri metodi di prova e linee guida riconosciuti a livello internazionale.
Alla suddetta metodologia sono utilmente affiancabili, secondo le indicazioni dei sommi giudici:
   - le informazioni su processo chimico o di fabbricazione che genera il rifiuto da indentificare;
   - le informazioni sulle relative sostanze in ingresso e intermedie, inclusi i pareri di esperti;
   - le informazioni fornite dal produttore originario del bene da cui rifiuto è derivato (dati rintracciabili nelle schede dati di sicurezza, nelle etichette e nelle schede di prodotto);
   - banche dati su analisi dei rifiuti disponibili a livello di Stati Ue;
   - campionamento e analisi chimiche.
Le analisi chimiche. Dalle pronunce delle Corti si evince come le analisi chimiche del rifiuto, in particolare, devono:
   - sempre offrire (al pari del campionamento) garanzie di efficacia e rappresentatività;
   - consentire una conoscenza sufficiente della composizione del residuo al fine di verificare l'eventuale presenza di caratteristiche di pericolo (ex allegato III, direttiva 2008/98/Ce);
   - comprendere come minimo (alla luce del necessario bilanciamento tra tutela dell'ambiente, fattibilità tecnica e praticabilità economica) la ricerca delle «sostanze pericolose che possono ragionevolmente trovarvisi», non essendovi alcun margine di discrezionalità al riguardo.
Valutazione e classificazione. All'esito della raccolta delle informazioni sulla composizione del rifiuto, occorre infine procedere alla valutazione della sua (eventuale) pericolosità, secondo le istruzioni recate dal punto 1 («Valutazione e classificazione») della decisione 2000/532/Ce (ossia, sulla base del calcolo delle concentrazioni di sostanze pericolose indicate dall'allegato III alla direttiva del 2008 o sulla base di prove).
Alla valutazione, lo ricordiamo, deve seguire l'attribuzione del corretto codice previsto dalla decisione 2000/532/Ce e, per i pericolosi, la relativa categoria «Hp» ex direttiva 2008/98/Ce.
Qualora, però dopo una valutazione dei rischi «quanto più possibile completa» tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie ci si trovi nell'impossibilità pratica (non dovuta a comportamento del detentore dei rifiuti) di determinare la presenza di sostanze pericolose o di valutare le caratteristiche di pericolo che il residuo presenta, quest'ultimo, precisano la Corte Ue e la Corte di Cassazione nazionale, deve essere classificato come pericoloso (articolo ItaliaOggi Sette del 02.12.2019).

PUBBLICO IMPIEGODirigenti (non tutti) trasparenti. Patrimoni sul web? Obbligo solo per ministeri e fiduciari. Il Tar del Lazio accoglie il ricorso del sindacato avverso una decisione dell’Asl di Matera.
L'obbligo di pubblicare sul web la situazione patrimoniale vale solo per la dirigenza di vertice dei ministeri e per chi ricopre incarichi fiduciari. Esso non si estende dunque a tutta la dirigenza pubblica.
Per questo motivo il TAR Lazio-Roma, Sez. I, con ordinanza 21.11.2019 n. 7579, ha accolto il ricorso presentato dal sindacato Cosmed avverso un provvedimento dell'azienda sanitaria locale di Matera, sospendendone l'efficacia e rinviando la trattazione del merito al prossimo 20 giugno. Con questa delibera l'Asl aveva imposto ai propri dirigenti la pubblicazione su Internet della propria situazione patrimoniale, in attuazione della deliberazione dell'Autorità anticorruzione n. 586 del 26.06.2019.
Le tesi dell'Anac, volte ad estendere all'intera dirigenza pubblica incombenze gravanti solo sulla dirigenza di vertice dei ministeri o fiduciaria, risultano dunque ancora una volta soccombenti. L'art. 14, comma 1-bis, lett. c) e f), del dlgs 33/2013 ha esteso ai dirigenti pubblici obblighi di pubblicità incombenti, prima, solo sugli organi di governo. Il Garante della privacy nel 2017 adottò una delibera attuativa delle linee guida Anac 241/2017, attuative della norma, avverso la quale i dirigenti dell'Autorità presentarono ricorso al Tar Lazio: l'ordinanza 02.03.2017, n. 1030 accolse il ricorso cautelare. A seguito di questa, l'Anac con delibera 382/2017 sospese le proprie linee guida e quindi l'obbligo per i dirigenti pubblici di rendere noto il proprio patrimonio. Con successiva ordinanza collegiale 9828/2017 il Tar Lazio sollevò la questione di legittimità costituzionale dell'art. 14, comma 1, lettere c) e f).
Tale articolo è stato dichiarato incostituzionale, nella parte che impone a tutta la dirigenza e non solo a quella apicale dei ministeri, dalla Corte costituzionale con sentenza 20/2019, ove si sottolinea che «è corretto l'insistito rilievo del giudice rimettente, che sottolinea come la mancanza di qualsivoglia differenziazione tra dirigenti risulti in contrasto, ad un tempo, con il principio di eguaglianza e, di nuovo, con il principio di proporzionalità, che dovrebbe guidare ogni operazione di bilanciamento tra diritti fondamentali antagonisti. Il legislatore avrebbe perciò dovuto operare distinzioni in rapporto al grado di esposizione dell'incarico pubblico al rischio di corruzione e all'ambito di esercizio delle relative funzioni».
La sentenza ha dichiarato «l'illegittimità costituzionale dell'art. 14, comma 1-bis, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 (...), nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all'art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo anche per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall'organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall'art. 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165».
Sebbene secondo la Consulta spetti solo al legislatore intervenire sul tema per eventualmente distinguere, in rapporto al grado di esposizione al rischio di corruzione, gli incarichi soggetti all'intenso obbligo di pubblicare i dati patrimoniali, rispetto a quelli non soggetti, l'Anac è tornata sul tema con deliberazione 26.06.2019, n. 586, la quale, in aperto contrasto con la sentenza della Consulta, ha di fatto esteso nuovamente l'applicazione della norma dichiarata incostituzionale all'intera dirigenza pubblica e non solo ai dirigenti ministeriali di prima fascia, indicando alle varie amministrazioni pubbliche di stabilire con propri regolamenti interni quali dirigenti, considerati apicali, siano tenuti all'obbligo.
La sospensione cautelare della delibera dell'azienda sanitaria di Matera da parte del Tar Lazio rende evidente che l'attuazione della deliberazione 586/2019 (non intaccata dall'ordinanza del giudice amministrativo), estendendo a tutta la dirigenza gli obblighi di pubblicazione, espone gli enti a decisioni fortemente a sospetto di illegittimità, perché ripristinano «il pregiudizio immediato e irreparabile alla riservatezza» posto a base del ricorso presentato dalla Cosmed e considerato come elemento decisivo dalla Consulta per l'incostituzionalità dell'articolo 14, comma 1-bis, del dlgs 33/2013 (articolo ItaliaOggi del 22.11.2019).

CONDOMINIOAvvisi, responsabilità condivisa. Il presidente verifica la regolarità della convocazione. La Cassazione: non è solo l’amministratore condominiale il soggetto che risponde degli errori.
In caso di omessa convocazione del condomino all'assemblea la responsabilità dell'amministratore può concorrere con quella del soggetto chiamato a presiedere la riunione, il quale in tale veste dovrebbe controllare la regolarità degli avvisi spediti agli aventi diritto che risultino assenti.
Questo il principio di diritto desumibile dalla recente sentenza 18.11.2019 n. 29878 della Corte di Cassazione, Sez. II civile.
Il caso concreto. Nella specie un condominio aveva citato in giudizio il proprio amministratore per sentirlo dichiarare responsabile di inadempimento contrattuale e condannarlo al risarcimento dei danni subiti. Questi ultimi erano stati individuati nell'ammontare delle spese processuali che la compagine condominiale era stata condannata a versare a un condomino che aveva vittoriosamente impugnato una deliberazione assembleare per errata convocazione.
I condomini imputavano infatti all'amministratore di avere sbagliato nello svolgimento della procedura di indizione dell'assemblea e di avere quindi dato causa al vizio di legittimità della volontà comune successivamente contestata dal condomino risultato vittorioso in sede giudiziale.
La domanda era stata accolta dal tribunale, ma la sentenza era stata prontamente appellata dall'amministratore, il quale sosteneva che, in base all'art. 1136 c.c., sarebbe spettato all'assemblea, dunque ai condomini, verificare l'avvenuta regolare convocazione di tutti gli aventi diritto. Inoltre l'amministratore aveva evidenziato come la convocazione del condomino impugnante fosse avvenuta a mezzo di posta ordinaria, e non tramite raccomandata, per espressa richiesta di quest'ultimo.
La Corte di appello aveva però confermato la sentenza impugnata, evidenziando come il procedimento di convocazione dell'assemblea fosse uno dei compiti assegnati dalla legge all'amministratore e, quindi, rientrasse a pieno titolo fra i suoi obblighi contrattuali di mandatario della compagine condominiale, da svolgere secondo i canoni di diligenza di cui agli artt. 1176 e 1710 c.c.. Di qui il ricorso in Cassazione.
La procedura di convocazione dell'assemblea condominiale. Il primo passo da compiere per procedere all'adozione di una deliberazione assembleare è quello di provvedere alla regolare convocazione della riunione condominiale, avvertendo i soggetti legittimati a parteciparvi del giorno, del luogo e dell'ora della stessa. Il soggetto generalmente deputato alla convocazione dell'assemblea, come anticipato, è l'amministratore. Questi, oltre ad avere la possibilità di riunire i condomini in via straordinaria nei casi in cui lo ritenga opportuno e/o necessario, è altresì obbligato convocarli negli specifici casi previsti dal codice civile.
Ai sensi del comma 3 dell'art. 66 disp. att. c.c. l'avviso di convocazione deve essere comunicato agli aventi diritto almeno cinque giorni prima della data fissata per l'adunanza in prima convocazione. Si tratta di una disposizione finalizzata a garantire ai condomini la possibilità di organizzare i propri impegni in modo da poter presenziare alla riunione e prepararsi in modo adeguato alla discussione dei singoli argomenti posti all'ordine del giorno.
Il computo del termine in questione si effettua a partire dalla data fissata per l'assemblea (che non deve essere conteggiata) e procedendo a ritroso nel tempo. Se, tanto per fare un esempio, l'assemblea è stata convocata per il 27 marzo, la comunicazione ai condomini dovrà essere effettuata entro e non oltre il 22 marzo. In caso di avviso che contenga la data sia della prima che della seconda convocazione, il termine in questione dovrà quindi essere calcolato sulla prima, anche se sia già certo che la stessa andrà deserta.
La decisione della Suprema corte. Nel ricorrere in Cassazione l'amministratore condominiale aveva evidenziato come l'obbligo a suo carico in ordine alla convocazione dell'assemblea non esimesse quest'ultima dalla verifica della regolarità dei relativi avvisi spediti agli aventi diritto. Per l'amministratore la sua responsabilità doveva quindi essere giudicata quantomeno concorrente con quella dell'assemblea.
A questo proposito i giudici di legittimità hanno evidenziato come, pur essendo di regola l'amministratore a essere onerato della convocazione dell'assemblea ex art. 66 disp. att. c.c., è vero anche che l'art. 1136 c.c. prescrive che l'assemblea non possa deliberare ove non consti che tutti gli aventi diritto siano stati preventivamente invitati e dunque messi in condizione di partecipare alla riunione.
Nella sentenza in questione si legge infatti che è «compito dell'assemblea, e per essa del suo presidente, controllare la regolarità degli avvisi di convocazione e darne conto tramite la verbalizzazione, sulla base dell'elenco degli aventi diritto a partecipare alla riunione eventualmente compilato dall'amministratore (elenco che può essere a sua volta allegato al verbale o inserito tra i documenti conservati nell'apposito registro), trattandosi di una delle prescrizioni di forma richieste dal procedimento collegiale (avviso di convocazione, ordine del giorno, costituzione, discussione, votazione ecc.), la cui inosservanza importa l'annullabilità della delibera, in quanto non presa in conformità alla legge».
Per tale motivo la Suprema corte ha accolto il ricorso dell'amministratore, cassando la sentenza impugnata e rinviando ad altra sezione della Corte di appello per riesaminare la questione alla luce dei predetti rilievi e uniformandosi ai predetti principi. A proposito di quanto sopra occorre quindi evidenziare come sia buona norma che il soggetto chiamato a presiedere l'assemblea si premuri, una volta effettuato l'appello, di verificare se gli assenti siano stati correttamente convocati.
Il presidente, tuttavia, per poter svolgere questo compito, deve necessariamente poter contare sulla collaborazione dell'amministratore, il quale dovrà quindi avere portato con sé la documentazione relativa alle convocazioni effettuate e metterla a sua disposizione. Ove si riscontrasse che qualcuno degli aventi diritto non sia stato convocato si dovrebbe pertanto aggiornare la riunione ad altra data per dare al medesimo la possibilità di partecipare ed evitare per converso che vengano impugnate le eventuali deliberazioni che sarebbero adottate in quella sede, con conseguente richiesta di annullamento giudiziale e condanna del condominio alle spese di lite. È tuttavia evidente come la responsabilità connessa all'individuazione degli aventi diritto alla partecipazione all'assemblea, che sottende la corretta tenuta del registro dell'anagrafe condominiale, sia invece specifica dell'amministratore.
Occorrerà quindi valutare caso per caso l'effettivo comportamento tenuto dall'amministratore condominiale e dal presidente dell'assemblea per stabilire se il primo risponda in via esclusiva o concorrente dei danni subiti dal condominio per l'omessa o errata convocazione degli aventi diritto
(articolo ItaliaOggi Sette del 23.12.2019).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIAppalti e revisione dei prezzi, l'affidatario deve fornire la prova degli eventi sopravvenuti e imprevedibili.
L'evento sopravvenuto e imprevedibile legittima la richiesta di revisione dei prezzi da parte dell'aggiudicatario. Il diritto alla revisione dei prezzi, infatti, inteso come diritto alla rinegoziazione degli stessi consegue alla sopravvenienza di fattori imprevedibili che hanno alterato l'originario equilibrio sinallagmatico. È onere dell'aggiudicatario compulsare la stazione appaltante rappresentando e documentando le proprie sopraggiunte necessità di aspirare ad un diverso bilanciamento delle reciproche posizioni economiche, che verranno valutate avuto riguardo alla comparazione con l'interesse pubblico alla qualità della fornitura. 

Lo stabilisce il Consiglio di Stato, Sez. II, con la sentenza 18.11.2019 n. 7859.
Il caso
Il caso si riferisce ad una gara di servizi. La ricorrente è risultata aggiudicataria di una procedura ad evidenza pubblica del servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani. Alla scadenza del contratto l'Amministrazione prorogava reiteratamente l'affidamento originario, così che il servizio continuava ad essere effettuato dalla società senza soluzione di continuità. L'affidataria in ragione di ciò chiedeva la revisione del corrispettivo.
La Pa tuttavia non rispondeva alle istanze cosicché l'impresa agiva in giudizio contro il silenzio serbato alle proprie richieste e per ottenere la modifica del prezzo contrattualizzato. Ma il Giudice amministrativo territoriale rigettava il ricorso sostenendo che la natura eccezionale del rimedio, finalizzato a fronteggiare situazioni e criticità imprevedibili, lo rende ontologicamente incompatibile con la possibilità di rivedere le condizioni economiche dello stesso, per l'intrinseca immodificabilità delle condizioni date, incorrendo al contrario nella elusione delle regole dell'evidenza pubblica.
Dello stesso avviso si è detto il Consiglio di Stato ribadendo l'inammissibilità del gravame avverso il silenzio serbato dall'Amministrazione sulle diffide della parte ritenendo non ricorrenti nella specie i requisiti perché possa operare l'istituto, e giudicando l'adeguamento richiesto dall'impresa in larga misura come una contestazione ex post delle condizioni contrattuali.
La decisione
A proposito dell'istituto della revisione dei prezzi il Consiglio di Stato chiarisce chela determinazione viene effettuata dalla stazione appaltante all'esito di un'istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell'acquisizione di beni e servizi, secondo un modello procedimentale volto al compimento di un'attività di preventiva verifica dei presupposti necessari per il riconoscimento del compenso revisionale, che sottende l'esercizio di un potere autoritativo tecnico-discrezionale dell'Amministrazione nei confronti del privato contraente (in termini anche Consiglio di Stato, Sezione III, 09.01.2017, n. 25).
Dal canto suo l'operatore economico deve provare la sussistenza di eventuali circostanze imprevedibili che abbiano determinato aumenti o diminuzioni nel costo dei materiali o della mano d'opera (non riconducibili alle mere oscillazioni dei prezzi al consumo determinati dall'Istat). Tali non potendo essere la mera proroga del termine finale del contratto.
Inoltre risultati del procedimento di revisione dei prezzi sono comunque espressione di una facoltà discrezionale, che sfocia in un provvedimento autoritativo. La stazione appaltante, cioè, deve effettuare un bilanciamento tra l'interesse dell'aggiudicatario alla revisione e l'interesse pubblico connesso sia al risparmio di spesa, sia alla regolare esecuzione del contratto aggiudicato.
Il Consiglio di Stato già in passato ha chiarito che «la finalità dell'istituto è da un lato quella di salvaguardare l'interesse pubblico a che le prestazioni di beni e servizi alle pubbliche amministrazioni non siano esposte col tempo al rischio di una diminuzione qualitativa, a causa dell'eccessiva onerosità sopravvenuta delle prestazioni stesse, e della conseguente incapacità del fornitore di farvi compiutamente fronte (si veda Consiglio di Stato, Sezione VI, 07.05.2015 n. 2295; Consiglio di Stato, Sezione V, 20.08.2008 n. 3994), dall'altro di evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la stipulazione del contratto» (si veda Consiglio di Stato, n. 25 del 2017) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.12.2019).
---------------
MASSIMA
12. Il giudice di prime cure ha escluso l’applicabilità dell’istituto della revisione prezzi in toto, avuto riguardo alla natura del rapporto conseguito alle proroghe successive alla scadenza, avvenuta il 31.03.2005: esso, infatti, non troverebbe fondamento nel precedente contratto ad efficacia periodica e continuativa, siccome richiesto dalla legge per la sua operatività, ma in una relazione di mero fatto tra il Comune e l’impresa.
Ciò peraltro dopo aver affermato che la differenza tra rinegoziazione e proroga consisterebbe esclusivamente nell’oggetto della modifica, esteso agli elementi essenziali (in tutto o in parte) del negozio, nel primo caso; limitato al termine di durata del rapporto, invariato per tutto il resto, nel secondo.
13.
L’istituto del rinnovo dei contratti pubblici ha subito alterne vicende a seguito di differenti interventi normativi susseguitisi nel tempo, fino alla più recente disciplina di cui al d.lgs. n. 50/2016, cd. “Codice dei contratti pubblici”.
A fronte di una volontà del legislatore, soprattutto comunitario, di volerne limitare al massimo l’applicabilità, vi è da sempre una spinta della prassi a volerlo conservare con discreti margini di discrezionalità nell’utilizzo.
Le definizioni degli esatti confini di rinnovo, da un lato, e proroga, dall’altro, date dalla migliore dottrina e giurisprudenza, hanno dunque risentito delle alterne vicende normative susseguitesi nel tempo. La proroga, tuttavia, intesa quale mera prosecuzione dell’efficacia del rapporto contrattuale, consegue di regola ad un patto accessorio, che lascia immutato il contratto originario, salvo che per il termine di scadenza che viene spostato in avanti.
Essa comporta pertanto una mera ultrattività degli effetti del contratto.
Soprattutto in passato, veniva distinta in “contrattuale” o “tecnica”, intendendosi con la prima quella prevista ab origine nel bando di gara e nel successivo contratto, allo scopo di consentire alla stazione appaltante, nell’ambito di accordi potenzialmente di lunga durata, di valutare medio termine l’affidabilità e l’efficienza del contraente, così da lasciarsi aperta la possibilità di confermarlo (attivando la proroga) o di avviare una nuova gara per la scelta di un nuovo contraente in caso di scarsa soddisfazione nei confronti del medesimo; con la seconda, un prolungamento del rapporto ammesso –in via eccezionale e per brevi periodi– per garantire la continuità delle prestazioni contrattuali nelle more della conclusione delle procedure per la scelta del nuovo contraente, laddove il ritardo di tale conclusione non sia imputabile alla stazione appaltante.

Ed è di quest’ultima che si tratta nell’odierna controversia, come confermato dall’utilizzo, da parte del Comune di Matera, di una serie di provvedimenti, talvolta neppure sottoscritti per accettazione da controparte, ma condivisi per facta concludentia, tutti connotati dal breve lasso di tempo di riferimento, da ultimo perfino inferiore al mese, all’evidente scopo di garantire senza soluzione di continuità un servizio pubblico di tale rilevanza quale la raccolta dei rifiuti.
13.1. La natura eccezionale del rimedio, finalizzato a fronteggiare situazioni e criticità imprevedibili, non a cauterizzare, come sovente accaduto, mancate programmazioni ed errori gestionali della P.A., unitamente al richiamato contenuto immutato del rapporto sottostante, lo rende proprio per questo ontologicamente incompatibile con la possibilità di rivedere le condizioni economiche dello stesso, come sinteticamente affermato dal TAR per la Basilicata.
Ciò non tanto o non solo perché, come affermato dal TAR per la Basilicata, il rapporto tra le parti sarebbe derubricato a relazione di mero fatto, non formalizzata in un contratto formale, necessario ad substantiam; quanto piuttosto (anche) per l’intrinseca immodificabilità delle condizioni date, la cristallizzazione delle quali consente quanto meno di bilanciare l’avvenuta elusione delle regole dell’evidenza pubblica.
In sintesi, ove l’impresa aggiudicataria non intenda rispettare l’accordo originario, per esigenze sopravvenute che ne rendono inadeguato il compenso, deve ipotizzarne la rinegoziazione, ammesso e non concesso la stessa possa trovare spazio in ipotesi di sostanziale aggiudicazione -recte, mantenuta aggiudicazione- diretta.
14. Ma anche ammettendo di estendere ex post l’efficacia nel tempo del contratto sottoscritto il 06.04.2004, ascrivendo allo stesso la nascita del rapporto di gestione continuata e periodica del servizio,
perché possa operare l’istituto della revisione dei prezzi si rendono necessari una serie di requisiti, insussistenti nel caso di specie (cfr. al riguardo Cons. Stato, sez. III, 02.05.2019, n. 2841).
15.
La disciplina della revisione del prezzo dei contratti pubblici di appalto di fornitura di beni e di servizi era originariamente prevista dall’art. 6 della l. 24.12.1993, n. 537, come sostituito dall’art. 44 della l. 23.12.1994, n. 724, che introduce la necessità che i contratti con le pubbliche amministrazioni ad esecuzione periodica o continuata contemplassero la relativa clausola.
Successivamente l’art. 115 del d.lgs. n. 163/2006
, sopravvenuto in corso di rapporto tra Comune di Matera e società ricorrente, ha recepito tale indicazione, introducendo la necessità di attivare ridetta revisione a seguito di apposita istruttoria condotta dai dirigenti responsabili sulla base dei costi standardizzati per tipo di servizio e fornitura pubblicati annualmente a cura dell’Osservatorio dei contratti pubblici.
Metodica comunque non seguita dalla parte, che solo a rapporto cessato ha inteso avanzare le proprie rimostranze sulla non remuneratività del servizio a condizioni date.
16.
La determinazione della revisione prezzi viene dunque effettuata dalla stazione appaltante all’esito di un’istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi, secondo un modello procedimentale volto al compimento di un’attività di preventiva verifica dei presupposti necessari per il riconoscimento del compenso revisionale, che sottende l’esercizio di un potere autoritativo tecnico-discrezionale dell’amministrazione nei confronti del privato contraente (cfr. al riguardo Consiglio di Stato, Sez. III, 09.01.2017, n. 25).
Da ciò consegue che perfino la prevista periodicità non implica affatto che si debba azzerare o neutralizzare l’alea sottesa a tutti i contratti di durata, che impone alle parti di provare la sussistenza di eventuali circostanze imprevedibili che abbiano determinato aumenti o diminuzioni nel costo dei materiali o della mano d’opera (non riconducibili certo alle mere oscillazioni dei prezzi al consumo determinati dall’ISTAT).
Risulterebbe pertanto ben singolare un’interpretazione che esentasse del tutto, in via eccezionale, l’appaltatore dall’alea contrattuale, sottomettendo in via automatica ad ogni variazione di prezzo solo le stazioni appaltanti pubbliche, pur destinate a far fronte ai propri impegni contrattuali con le risorse finanziarie provenienti dalla collettività.

17.
Allo stesso modo, alla luce della descritta finalità di contenimento delle conseguenze economiche derivanti dall’alea gravante su entrambe le parti dell’appalto pubblico in caso di variazione dei prezzi, a tutela del loro reciproco affidamento, non apparirebbe conforme né ai principi di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 della Costituzione, né ai criteri di ragionevolezza e proporzionalità sanciti dall’ordinamento nazionale e comunitario, un’interpretazione che, una volta riconosciuta la revisione dei prezzi, dovesse parametrare i conseguenti effetti economici al dato del tutto astratto e teorico, ad esempio, dell’aumento del prezzo delle materie prime, anziché al dato concreto e puntuale della spesa oggettivamente sostenuta per il loro acquisto nel periodo di riferimento, quali risultanti dalla relativa fatturazione del produttore o dell’intermediario: anche di tali oggettive circostanze incrementali sopravvenute non è traccia in atti.
I risultati del procedimento di revisione dei prezzi sono comunque espressione di una facoltà discrezionale, che sfocia in un provvedimento autoritativo, il quale deve essere impugnato nel termine decadenziale di legge (Cons. Stato, Sez. V, 27.11.2015, n. 5375; Sez. IV, 06.08.2014, n. 4207; Sez. V, 24.01.2013, n. 465; id., 03.08.2012 n. 4444; Corte di Cassazione, SS.UU. 30.10.2014, n. 23067).
La stazione appaltante, cioè, deve effettuare un bilanciamento tra l’interesse dell’aggiudicatario alla revisione e l’interesse pubblico connesso sia al risparmio di spesa, sia alla regolare esecuzione del contratto aggiudicato. Ciò in quanto “la finalità dell’istituto è da un lato quella di salvaguardare l’interesse pubblico a che le prestazioni di beni e servizi alle pubbliche amministrazioni non siano esposte col tempo al rischio di una diminuzione qualitativa, a causa dell’eccessiva onerosità sopravvenuta delle prestazioni stesse, e della conseguente incapacità del fornitore di farvi compiutamente fronte (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 07.05.2015 n. 2295; Consiglio di Stato, Sez. V, 20.08.2008 n. 3994), dall’altro di evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la stipulazione del contratto (ancora Cons. Stato, n. 25/2017).
13.
Il diritto alla revisione dei prezzi, inteso come diritto alla rinegoziazione degli stessi, a prescindere dai relativi esiti, consegue alla sopravvenienza di fattori imprevedibili che hanno alterato l’originario equilibrio sinallagmatico. E’ onere dell’aggiudicatario compulsare la stazione appaltante rappresentando e documentando le proprie sopraggiunte necessità di aspirare ad un diverso bilanciamento delle reciproche posizioni economiche, che verranno valutate avuto riguardo alla comparazione con l’interesse pubblico alla qualità della fornitura, siccome sopra precisato.
Nel caso di specie, tuttavia, tale paradigma normativo non si è affatto realizzato: l’adeguamento richiesto si palesa piuttosto in larga misura come una contestazione ex post delle condizioni condivise, invocando mutamenti che, se mai, avrebbero dovuto precludere suddetto assenso.
14. Ciò vale anche per la distinta pretesa di rivedere il costo del personale, avuto riguardo sia alla retribuzione base, erroneamente parametrata al livello di accesso alla funzione, e non a quello effettivo, conseguente a progressioni economiche; sia con specifico riferimento a maggiorazioni correlate all’effettuazione della prestazione lavorativa in giornate festive. La valutazione delle stesse, cristallizzata ineludibilmente nel bando di gara e nel successivo contratto siglato tra le parti, non consente di accedere a modifiche, per quanto astrattamente perfino condivisibili: esse, infatti, avrebbero dovuto se mai essere oggetto di doglianza avverso gli atti di indizione della gara, non di contestazione postuma dell’attuazione degli stessi.
Né a tale riguardo assume rilievo, come correttamente rilevato dal giudice di prime cure, l’avvenuta effettuazione di incontri con amministratori e dirigenti dell’Ente comprensibilmente preoccupati della salvaguardia dei livelli occupazionali rispetto alla precedente gestione, così da verbalizzare un impegno in tal senso da parte delle imprese aggiudicatarie: la decisione di aderire a siffatte richieste, inerenti le politiche del lavoro seguite dall’Ente, non è confluita nell’(unico) accordo siglato all’esito dell’aggiudicazione formale, ovvero quello sottoscritto il 06.04.2004, cioè in data successiva anche ai ridetti incontri (del 19.03.2004 e 27.03.2004), necessariamente conforme agli atti di gara.
15. In sintesi, non può parlarsi di un incremento dei costi successivo alla condivisione di quello in precedenza pattuito, tale dunque da implicarne la richiesta revisione; né la società ha formalmente compulsato il Comune affinché attivasse il contradditorio con gli uffici necessario a concordare l’eventuale variazione, una volta verificatasi la relativa condizione, provvedendo in tal senso solo a partire dalla fine del 2008, limitatamente allo spostamento della discarica, ovvero a rapporto ampiamente esaurito.
16.
La qualificazione in termini autoritativi del potere di verifica dei presupposti per il riconoscimento della revisione prezzi comporta -in ipotesi di condotta inerte dell’amministrazione compulsata- la necessità di avvalersi dei rimedi previsti a tutela dell’interesse legittimo nella forma del silenzio-rifiuto conseguente ad istanza formale (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 24.01.2013, n. 465), ovvero, in ipotesi di esplicito provvedimento di diniego, l’impugnativa dello stesso. Il rimedio impugnatorio, pertanto, è egualmente ammesso a fronte del silenzio dell’amministrazione, ovvero a fronte di un suo diniego espresso, pur nell’invarianza sia della potestà discrezionale che nell’uno e nell’altro caso viene in considerazione, sia, conseguentemente, della posizione giuridica soggettiva che rispetto ad essa può profilarsi in capo al richiedente.
Correttamente, tuttavia, il giudice di prime cure ha ritenuto inammissibile il gravame avverso il silenzio serbato dall’Amministrazione sulle diffide della parte, trattandosi non di istanze volte a compulsare la ridefinizione dell’assetto economico di un contratto di durata in corso; bensì a richiedere spettanze economiche autonomamente determinate, salvo quanto di seguito precisato.
In sintesi, la società ha rivendicato un credito riveniente da un rapporto contrattuale esaurito, non ha richiesto in corso di rapporto la rivalutazione delle ragioni delle proprie spettanze.
16. Chiarita nei termini di cui sopra l’inconsistenza in fatto e in diritto della pretesa vantata dalla parte in relazione alla rettifica delle condizioni economiche dell’accordo, con particolare riguardo al costo del lavoro, restano da esaminare le pretese risarcitorie, ovvero indennitarie, a seconda della qualificazione del comportamento del Comune di Matera come illecito, ovvero di indebito arricchimento.
Non essendosi ravvisato alcun comportamento illegittimo da parte dell’Ente, non può che confermarsi l’assunto del TAR laddove ha evidenziato come “le dinamiche contrattuali tra le parti sono state numerose, ma tutte però caratterizzate da esplicita accettazione, senza riserva alcuna da parte della società ricorrente”.
La formazione magmatica dei ricorsi di prime cure, che hanno via via investito anche i provvedimenti di proroga, da ultimo ravvicinati nel tempo e circoscritti per durata, dell’affidamento originario, non consente infatti di ravvisare nel concatenarsi degli stessi tale ipotetica scorrettezza procedurale: se, infatti, la reiterazione degli affidamenti diretti si palesa di dubbia legittimità ove riguardata nell’ottica, già richiamata, della conseguente deroga alle regole sull’evidenza pubblica, con conseguenti ipotetiche responsabilità di altro genere concernenti le modalità di organizzazione e gestione del servizio, anche in ragione del ritardo nell’istituzione dell’apposito A.T.O., ciò non impatta sulle ragioni della ricorrente, che non solo non le contesta sotto tale profilo, ma ne è altresì la beneficiaria, avendo di fatto mantenuto la gestione del servizio ben oltre l’originaria annualità di affidamento.
17. A ciò consegue anche la mancanza di qualsivoglia indebito arricchimento da parte del Comune di Matera, in quanto esso si è sì giovato del servizio di gestione dei rifiuti solidi urbani per la parte di territorio e nei limiti di cui al lotto l della gara originaria; ma ha regolarmente corrisposto le previste spettanze all’azienda, che le ha a sua volta introitate, senza dolersi degli importi ovvero dei loro criteri di determinazione.
18. Resta infine da scrutinare l’ultima richiesta della società appellante, ovvero quella inerente la rideterminazione del prezzo del servizio in ragione dell’avvenuto sequestro del sito di discarica originariamente individuato come destinazione finale dei rifiuti raccolti.
Al riguardo, il TAR per la Basilicata ha ritenuto dirimente la mancata integrazione, da parte della società, della richiesta presentata in data 17.12.2008, laddove risulta effettivamente chiaro, e riferito in atti dallo stesso Comune di Matera, che ciò ha comportato l’aumento del chilometraggio necessario all’accesso, essendo il nuovo sito ubicato a 24 km. e non a 12, come il precedente.
Da quanto sopra, discende che tale pretesa costituiva l’unica ascrivibile al concetto di evento sopravvenuto e imprevedibile, tale da legittimare l’avanzata richiesta di valutare una revisione del prezzo, approfondendo in tale sede l’entità della spettanza, oggi ampliata da parte ricorrente fino a ricomprendere nuovamente i costi del personale (in relazione ai quali in verità il tempo impiegato per i viaggi appare neutro rispetto alla durata complessiva e astrattamente immutabile della giornata lavorativa, siccome previsto dalla vigente contrattazione di settore), ma sicuramente individuabile nel maggiore esborso per carburante.
Il diritto alla revisione dei prezzi, infatti, inteso come diritto alla rinegoziazione degli stessi, a prescindere dai relativi esiti, consegue alla sopravvenienza di fattori imprevedibili che hanno alterato l’originario equilibrio sinallagmatico. E’ onere dell’aggiudicatario compulsare la stazione appaltante rappresentando e documentando le proprie sopraggiunte necessità di aspirare ad un diverso bilanciamento delle reciproche posizioni economiche, che verranno valutate avuto riguardo alla comparazione con l’interesse pubblico alla qualità della fornitura, siccome sopra precisato.
18.1. Per il limitato aspetto dell’incremento dei costi conseguiti allo spostamento della discarica –e dunque per il periodo successivo allo stesso- la società ha compulsato il Comune chiedendo la revisione del prezzo.
Il Collegio ritiene che tale richiesta andasse doverosamente vagliata nell’ambito del procedimento delineato dall’art. 115 del d.lgs. n. 163/2006 in contraddittorio con la parte, onerata di documentare l’effettivo aumento dei costi conseguitine dalla data di temporanea chiusura della discarica di destinazione originaria dei rifiuti sulla base degli intercorsi accordi contrattuali al 24.10.2009, di cessazione definitiva del servizio da parte della società ricorrente.
19. Per tutto quanto sopra, gli appelli devono essere accolti limitatamente alla richiesta valutazione di revisione del prezzo in conseguenza del verificarsi dell’evento imprevedibile ed eccezionale costituito dall’avvenuto sequestro della discarica; respinti, per tutti gli ulteriori profili, con conseguente conferma delle sentenze del TAR per la Basilicata nn. 64 e 65 del 10.02.2012.

APPALTIIscrizione camerale requisito di idoneità. Se c'è congruenza con l'appalto in gara.
In una gara di appalto non è necessaria la piena sovrapponibilità dell'oggetto sociale con le attività indicate nel certificato camerale dell'impresa concorrente.

Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez V, con la sentenza 15.11.2019 n. 7846 in relazione a una gara di appalto per l'affidamento di un accordo quadro di una manutenzione in merito a una esclusione dettata dalla mancata corrispondenza del certificato alle attività da affidare.
Nel riprendere precedenti orientamenti della stessa sezione, i giudici hanno permesso che, nell'impostazione del nuovo codice appalti, l'iscrizione camerale è assurta a requisito di idoneità professionale anteposto ai più specifici requisiti attestanti la capacità tecnico professionale ed economico-finanziaria dei partecipanti alla gara. Quasi un «filtro». Di qui la necessità di una congruenza o corrispondenza contenutistica, tendenzialmente completa, tra le risultanze descrittive della professionalità dell'impresa, come riportate nell'iscrizione alla camera di commercio, e l'oggetto del contratto d'appalto, evincibile dal complesso di prestazioni in esso previste.
Eventuali imprecisioni della descrizione dell'attività risultanti dal certificato camerale non possono determinare l'esclusione della concorrente che ha dimostrato l'effettivo possesso dei requisiti soggettivi di esperienza e qualificazione richiesti dal bando. Ma non si può anche negare la legittimità del comportamento della stazione appaltante che richieda l'iscrizione alla Cciaa per l'attività oggetto dell'appalto, poiché tale iscrizione è finalizzata a dar atto dell'effettivo ed attuale svolgimento di tale attività, laddove le indicazioni dell'oggetto sociale individuano solamente i settori, potenzialmente illimitati, nei quali la stessa potrebbe astrattamente venire ad operare, esprimendo soltanto ulteriori indirizzi operativi dell'azienda, non rilevanti ove non attivati.
I giudici hanno precisato che la corrispondenza contenutistica, sebbene non debba intendersi nel senso di una perfetta e assoluta sovrapponibilità tra tutte le singole componenti dei due termini di riferimento, va accertata secondo un criterio di rispondenza alla finalità di verifica della richiesta idoneità professionale (articolo ItaliaOggi del 22.11.2019).
---------------
MASSIMA
7. Come chiarito dalla recente giurisprudenza di questo Consiglio, che la Sezione condivide e alla quale intende dare continuità,
nell’impostazione del nuovo codice appalti l’iscrizione camerale è assurta a requisito di idoneità professionale [art. 83, comma 1, lett. a), e 3, d.lgs. n. 50/2016], anteposto ai più specifici requisiti attestanti la capacità tecnico professionale ed economico-finanziaria dei partecipanti alla gara di cui alle successive lettere b) e c) del medesimo comma: la sua utilità sostanziale è infatti quella di filtrare l’ingresso in gara dei soli concorrenti forniti di una professionalità coerente con le prestazioni oggetto dell’affidamento pubblico (in tal senso Cons. di Stato, III, 08.11.2017, n. 5170; Cons. di Stato, V, 25.07.2019, 5257).
Pertanto,
da tale ratio delle certificazioni camerali, nell’ottica di una lettura del bando che tenga conto della funzione e dell’oggetto dell’affidamento, si è desunta la necessità di una congruenza o corrispondenza contenutistica, tendenzialmente completa, tra le risultanze descrittive della professionalità dell’impresa, come riportate nell’iscrizione alla Camera di Commercio, e l’oggetto del contratto d’appalto, evincibile dal complesso di prestazioni in esso previste: l’oggetto sociale viene così inteso come la “misura” della capacità di agire della persona giuridica, la quale può validamente acquisire diritti ed assumere obblighi solo per le attività comprese nello stesso, come riportate nel certificato camerale (Cons. di Stato, V, 07.02.2012, n. 648; IV, 23.09.2015, n. 4457).
Quando, dunque, il bando richiede il possesso di una determinata qualificazione dell’attività e l’indicazione nel certificato camerale dell’attività stessa, quest’ultima va intesa in senso strumentale e funzionale all’accertamento del possesso effettivo del requisito soggettivo di esperienza e fatturato, costituente il requisito di interesse sostanziale della stazione appaltante: pertanto, sebbene eventuali imprecisioni della descrizione dell’attività risultanti dal certificato camerale non possono determinare l’esclusione della concorrente che ha dimostrato l’effettivo possesso dei requisiti soggettivi di esperienza e qualificazione richiesti dal bando, nondimeno non può ritenersi irragionevole o illogica la previsione della legge di gara che richieda l’iscrizione alla CCIAA per l’attività oggetto dell’appalto, poiché tale iscrizione è finalizzata a dar atto dell’effettivo ed attuale svolgimento di tale attività, laddove le indicazioni dell’oggetto sociale individuano solamente i settori, potenzialmente illimitati, nei quali la stessa potrebbe astrattamente venire ad operare, esprimendo soltanto ulteriori indirizzi operativi dell’azienda, non rilevanti ove non attivati.
La su indicata corrispondenza contenutistica, sebbene non debba intendersi nel senso di una perfetta e assoluta sovrapponibilità tra tutte le singole componenti dei due termini di riferimento (il che porterebbe ad ammettere in gara i soli operatori aventi un oggetto pienamente speculare, se non identico, rispetto a tutti i contenuti del servizio da affidarsi, con conseguente ingiustificata restrizione della platea dei partecipanti), va accertata secondo un criterio di rispondenza alla finalità di verifica della richiesta idoneità professionale, in virtù di una considerazione non già atomistica, parcellizzata e frazionata, ma globale e complessiva delle prestazioni dedotte in contratto.
L’interesse pubblico tutelato da tale disciplina normativa non è, infatti, la creazione e il rafforzamento di riserve di mercato in favore di determinati operatori economici, ma piuttosto quello di assicurare l’accesso al mercato (nel contemperamento con i principi della massima partecipazione e concorrenzialità) anche ai concorrenti per i quali è possibile pervenire ad un giudizio di globale affidabilità professionale (cfr. Cons. di Stato, III, 08.11.2017, n. 5170; III, 10.11.2017, n. 5182; V, 07.02.2018, n. 796).
In definitiva,
se è vero che la recente giurisprudenza ha affermato che l’identificazione dell’attività prevalente non può essere basata solo sui codici ATECO (aventi “preminente funzione statistica, in quanto finalizzati ad indicare l’attività nella domanda di iscrizione nel Registro delle imprese senza alcun rilievo sulla connotazione come attività prevalente o accessoria: così Cons. di Stato, V, 17.01.2018, n. 262) -specie allorquando (come nella fattispecie in esame) la lex specialis non ne abbia prescritto uno specifico come requisito di idoneità professionale ai fini della partecipazione alla gara- è anche vero che l’accertamento della concreta coerenza della descrizione delle attività riportate nel certificato camerale con i requisiti di ammissione richiesti dalla lex specialis e con l’oggetto del contratto di appalto complessivamente considerato va svolto sulla base del confronto tra tutte le risultanze descrittive del certificato camerale e l’oggetto del contratto di appalto (cfr. Cons. di Stato, V, 25.09.2019, n. 6431; V, 25.07.2019, n. 5257).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAIn generale, l'autore di un esposto o di una segnalazione all'Amministrazione non assume necessariamente la veste di controinteressato nel giudizio contro l'annullamento di un provvedimento amministrativo a seguito di esso adottato, anche se all'esposto e al suo autore la Pubblica amministrazione faccia esplicito riferimento nel provvedimento impugnato; vanno quindi considerati estranei al processo amministrativo i soggetti autori di esposti o di segnalazioni, i quali possono semmai intervenire volontariamente ad opponendum nel giudizio, non quali titolari di un interesse sostanziale alla conservazione dell'atto impugnato, ma quali portatori di un interesse di mero fatto, mediato, e riflesso.
---------------
Più specificamente, “Nel giudizio di impugnazione del provvedimento di annullamento della concessione edilizia, assume la veste di controinteressato non il generico "vicino", ma quello che ha un interesse qualificato a difendere la propria posizione giuridica di titolare di un diritto di proprietà”, ovvero che “Il vicino confinante, che sia anche autore della segnalazione o dell'esposto che ha determinato l'esercizio del potere, assume la qualità di controinteressato formale rispetto all'impugnazione dei provvedimenti sanzionatori o di autotutela in materia edilizia a condizione che sia titolare di una situazione giuridica soggettiva che trae diretto ed immediato vantaggio dal provvedimento impugnato e che si presenta come contrapposta e speculare a quella del destinatario dell'atto e a condizione che la sua posizione sia stata considerata dall'Amministrazione nello svolgimento dell'attività finalizzata all'esercizio del potere in modo riconoscibile da parte del destinatario del provvedimento”.
---------------

Ciò posto, osserva in via preliminare il Tribunale che, in generale, l'autore di un esposto o di una segnalazione all'Amministrazione non assume necessariamente la veste di controinteressato nel giudizio contro l'annullamento di un provvedimento amministrativo a seguito di esso adottato, anche se all'esposto e al suo autore la Pubblica amministrazione faccia esplicito riferimento nel provvedimento impugnato; vanno quindi considerati estranei al processo amministrativo i soggetti autori di esposti o di segnalazioni, i quali possono semmai intervenire volontariamente ad opponendum nel giudizio, non quali titolari di un interesse sostanziale alla conservazione dell'atto impugnato, ma quali portatori di un interesse di mero fatto, mediato, e riflesso (cfr. TAR Campania-Salerno n. 882 del 28.5.2019; TAR Marche n. 533 del 27.09.2016); e, più specificamente, che “Nel giudizio di impugnazione del provvedimento di annullamento della concessione edilizia, assume la veste di controinteressato non il generico "vicino", ma quello che ha un interesse qualificato a difendere la propria posizione giuridica di titolare di un diritto di proprietà” (così TAR Sicilia-Palermo n. 616 del 15.03.2018), ovvero che “Il vicino confinante, che sia anche autore della segnalazione o dell'esposto che ha determinato l'esercizio del potere, assume la qualità di controinteressato formale rispetto all'impugnazione dei provvedimenti sanzionatori o di autotutela in materia edilizia a condizione che sia titolare di una situazione giuridica soggettiva che trae diretto ed immediato vantaggio dal provvedimento impugnato e che si presenta come contrapposta e speculare a quella del destinatario dell'atto e a condizione che la sua posizione sia stata considerata dall'Amministrazione nello svolgimento dell'attività finalizzata all'esercizio del potere in modo riconoscibile da parte del destinatario del provvedimento” (così TAR Lombardia-Milano n. 1606 del 12.08.2016; nonché cfr. TAR Abruzzo-Pescara, n. 34 del 25.1.2012)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIIII, sentenza 13.11.2019 n. 5352 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia edilizia, l'ordinanza di demolizione di un'opera abusiva può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell'abuso, considerato che l'abuso edilizio costituisce illecito permanente e che l'ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione.
In sostanza, affinché il proprietario di una costruzione abusiva possa essere destinatario dell'ordinanza di demolizione, non occorre stabilire se egli sia responsabile dell'abuso, poiché la stessa normativa nazionale si limita a prevedere la legittimazione passiva del proprietario all'esecuzione dell'ordine di demolizione, senza richiedere l'effettivo accertamento di una qualche sua responsabilità: il presupposto per l'adozione di un'ordinanza di ripristino non è l'accertamento di responsabilità storiche nella commissione dell'illecito, ma l'esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella codificata nella normativa urbanistica ed edilizia e l'individuazione di un soggetto che abbia la titolarità ad eseguire l'ordine ripristinatorio e, quindi, il proprietario in virtù del suo diritto dominicale. In considerazione di ciò, la misura ripristinatoria è posta a carico non solo dell'autore dell'illecito, ma anche del proprietario del bene e dei suoi aventi causa.
Più specificamente, in materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal proprietario, perché quest'ultimo possa andare esente dalla misura consistente nell'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene (ai sensi dell' art. 31, comma 3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380), occorre che risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone lo stesso venuto a conoscenza, si sia poi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento. Il proprietario incolpevole, se è ancora pendente il termine fissato nella ordinanza di demolizione, deve dunque provare la intrapresa di iniziative idonee a ripristinare lo stato dei luoghi nei sensi e nei modi richiesti dall'autorità amministrativa. Tale assunto vale a maggior ragione nelle ipotesi in cui il nuovo proprietario sia subentrato iure hereditatis nella sfera giuridica del responsabile dell'abuso, continuandone la personalità.
In definitiva, quindi, le norme sanzionatorie del DPR 380/2001 (in particolare il comma 3 dell’art. 31) si riferiscono non solo all’”autore”, ma anche al “responsabile” di un abuso, tale dovendo intendersi non solo lo stesso esecutore materiale, ma anche il proprietario dell’immobile o chi abbia titolo per disporne al momento dell’emissione della misura repressiva, essendo il fine ultimo perseguito quello di pervenire alla rimessa in pristino ad opera dei soggetti che abbiano la proprietà o, comunque, la disponibilità del bene.

---------------

Va premesso che, in materia edilizia, l'ordinanza di demolizione di un'opera abusiva può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell'abuso, considerato che l'abuso edilizio costituisce illecito permanente e che l'ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione (cfr. TAR Campania-Napoli n. 1915 del 5.4.2019; TAR Emilia Romagna–Parma n. 340 dell’11.12.2018; TAR Lombardia-Milano n. 2098 del 18.9.2018; TAR Campania-Napoli n. 5149 dell’01.08.2018).
In sostanza, affinché il proprietario di una costruzione abusiva possa essere destinatario dell'ordinanza di demolizione, non occorre stabilire se egli sia responsabile dell'abuso, poiché la stessa normativa nazionale si limita a prevedere la legittimazione passiva del proprietario all'esecuzione dell'ordine di demolizione, senza richiedere l'effettivo accertamento di una qualche sua responsabilità: il presupposto per l'adozione di un'ordinanza di ripristino non è l'accertamento di responsabilità storiche nella commissione dell'illecito, ma l'esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella codificata nella normativa urbanistica ed edilizia e l'individuazione di un soggetto che abbia la titolarità ad eseguire l'ordine ripristinatorio e, quindi, il proprietario in virtù del suo diritto dominicale. In considerazione di ciò, la misura ripristinatoria è posta a carico non solo dell'autore dell'illecito, ma anche del proprietario del bene e dei suoi aventi causa (così TAR Lazio-Roma n. 10933 del 02.11.2017).
Più specificamente, in materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal proprietario, perché quest'ultimo possa andare esente dalla misura consistente nell'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene (ai sensi dell' art. 31, comma 3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380), occorre che risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone lo stesso venuto a conoscenza, si sia poi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento. Il proprietario incolpevole, se è ancora pendente il termine fissato nella ordinanza di demolizione, deve dunque provare la intrapresa di iniziative idonee a ripristinare lo stato dei luoghi nei sensi e nei modi richiesti dall'autorità amministrativa. Tale assunto vale a maggior ragione nelle ipotesi in cui il nuovo proprietario sia subentrato iure hereditatis nella sfera giuridica del responsabile dell'abuso, continuandone la personalità (così Cons. di Stato sez. VI, n. 755 del 06.02.2018).
In definitiva, quindi, le norme sanzionatorie del DPR 380/2001 (in particolare il comma 3 dell’art. 31) si riferiscono non solo all’”autore”, ma anche al “responsabile” di un abuso, tale dovendo intendersi non solo lo stesso esecutore materiale, ma anche il proprietario dell’immobile o chi abbia titolo per disporne al momento dell’emissione della misura repressiva, essendo il fine ultimo perseguito quello di pervenire alla rimessa in pristino ad opera dei soggetti che abbiano la proprietà o, comunque, la disponibilità del bene (cfr. Cons. di Stato sez. VI, n. 1517 del 31.03.2014; TAR Campania-Napoli n. 5909 del 15.12.2017)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIIII, sentenza 13.11.2019 n. 5352 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia urbanistico-edilizia, il potere sanzionatorio di cui all’art. 31 D.P.R. n. 380/2001, tenuto conto della relativa natura non già afflittiva bensì meramente ripristinatoria, è correttamente indirizzato non soltanto nei confronti del “responsabile dell’abuso” ma anche del “proprietario”, indipendentemente dal fatto di aver quest’ultimo concorso o meno nella realizzazione dell’abuso medesimo.
---------------
L’incidenza del vincolo paesaggistico sull’area oggetto di intervento obbliga il comune, ai sensi degli artt. 27 e art. 31 D.P.R. n. 380/2001, a sanzionare gli abusi edilizi mediante l’irrogazione della più grave delle misure ripristinatorie, ossia quella di cui all’art. 31 citato D.P.R. ed art. 167 D.lgs. n. 42/2004, e ciò a prescindere dal regime autorizzatorio in concreto applicabile, sia esso coincidente con il permesso di costruire ovvero con la d.i.a./s.c.i.a.
---------------

6. Deve, innanzitutto, essere rigettata la censura che si appunta sulla pretesa estraneità dell’odierno ricorrente all’edificazione delle opere edilizie oggetto di demolizione, a suo dire risalenti ad epoca antecedente al 1967, in relazione alle quali si sarebbe limitato a porre in essere delle mere attività manutentive, di adeguamento funzionale alle esigenze degli animali domestici ivi ricoverati, rientranti, a suo dire, nella cd. attività edilizia libera, al più qualificabili in termini di “risanamento e restauro conservativo”, per i quali non sarebbe stata necessaria alcuna preventiva autorizzazione né di natura urbanistico-edilizia né di natura paesaggistico-ambientale.
6.1 Ed invero, il ricorrente non ha supportato, dal punto di vista probatorio, le suddette affermazioni ricorsuali, non avendo comprovato, neanche in forma indiziaria, né l’epoca di costruzione di siffatte opere né l’effettiva natura dell’attività edilizia allo stesso imputabile.
Costituiva, infatti, onere dell’odierno istante comprovare, in modo adeguato, la risalenza dei manufatti in questione, nell’attuale consistenza plano-volumetrica, ad epoca anteriore alla c.d. legge ponte n. 765 del 1967, con la quale venne esteso l'obbligo di previa licenza edilizia alle costruzioni realizzate al di fuori del perimetro del centro urbano.
7. Dal mancato assolvimento del suddetto onus probandi discende la legittimità dell’ordine demolitorio oggetto di gravame, indirizzato al ricorrente quale attuale proprietario dei beni in questione (cfr. TAR Campania, Salerno, sez. II, 24/07/2019, n. 14711; Napoli, sez. VII, 15/01/2015, n. 292).
Ciò in quanto, in materia urbanistico-edilizia, il potere sanzionatorio di cui all’art. 31 D.P.R. n. 380/2001, tenuto conto della relativa natura non già afflittiva bensì meramente ripristinatoria, è correttamente indirizzato non soltanto nei confronti del “responsabile dell’abuso” ma anche del “proprietario”, indipendentemente dal fatto di aver quest’ultimo concorso o meno nella realizzazione dell’abuso medesimo (cfr. TAR Campania, Salerno, sez. II, 04/11/2019, n. 1886; Calabria, Catanzaro, sez. II, 21.01.2019, n. 89; TAR Lazio Roma, sez. II, 04/01/2019, n. 126; Consiglio di Stato sez. VI, 23/11/2017, n. 5472; Cons. Stato, Ad. Pl., 17.10.2017 n. 9, Cons. Stato, sez. VI, 21.03.2017 n. 1267; Id., sez. VI, 06.03.2017 n. 1060; TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 24.12.2018, n. 2186; TAR Campania, Napoli, sez. II, 12/11/2018, n. 6555; TAR, Milano, sez. II, 18/09/2018, n. 2098).
...
8. Parimenti infondata risulta la censura relativa alla pretesa incoerenza tra il potere in questione e la natura degli abusi sanzionati.
8.1 Ed invero, tutte le opere edilizie in contestazione risultano edificate in zona soggetta a vincolo paesaggistico-ambientale di cui al D.lgs. 42/2004.
L’incidenza di siffatto vincolo sull’area oggetto di intervento ha obbligato il comune, ai sensi degli artt. 27 e art. 31 D.P.R. n. 380/2001, a sanzionare gli abusi in questione mediante l’irrogazione della più grave delle misure ripristinatorie, ossia quella di cui all’art. 31 citato D.P.R. ed art. 167 D.lgs. n. 42/2004, e ciò a prescindere dal regime autorizzatorio in concreto applicabile, sia esso coincidente con il permesso di costruire ovvero con la d.i.a./s.c.i.a (cfr. TAR Campania, Salerno, sez. II, 23/08/2019, n. 1481; Napoli, sez. VII, 03/08/2017, n. 4032; sez. VI, 12/09/2013, n. 4254) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 12.11.2019 n. 1986 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli interventi pertinenziali di cui alla lettera e.6) dell’art. 3 del D.P.R. n. 380/2001, differenti rispetto alle cd. pertinenze “civilistiche”, devono non soltanto rispettare il limite dimensionale del 20% del volume dell'edificio principale ma anche presentare specifiche caratteristiche “funzionali” e “strutturali”.
Sul punto, la giurisprudenza ha più volte chiarito che per poter qualificare un’opera edilizia in termini di “pertinenza” occorre avere riguardo a “tre ordini di parametri: il primo, positivo, di tipo funzionale, dovendo esso avere un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione; il secondo ed il terzo, negativi, ossia ricollegati, rispettivamente, all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse e ad un rapporto di necessaria proporzionalità che deve sussistere fra le esigenze edilizie e il volume realizzato.
Quest'ultimo deve essere completamente privo di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto esclusivamente destinato a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale, che non possono essere ubicati all'interno di essa. L'applicazione di tali criteri induce a concludere che i volumi tecnici degli edifici, per essere esclusi dal calcolo della volumetria, non devono assumere le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità”.
Ed ancora: “a differenza della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale ed è funzionalmente inserito al suo servizio, ma anche allorquando è sfornito di un autonomo valore di mercato e non comporta un cosiddetto "carico urbanistico" proprio in quanto esaurisce la sua finalità nel rapporto funzionale con l'edificio principale”.
---------------

9. Né è possibile sostenere che gli interventi de quibus non siano soggetti alla preventiva autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 D.lgs. n. 42/2004.
Trattasi, invero, di manufatti che, per dimensioni (pari a complessivi 35 mq. circa), caratteristiche costruttive e materiali impiegati (lapillo, cemento e calcestruzzo), appaiono al Collegio idonei ad alterare in modo permanente lo stato dei luoghi, così rimanendo sottratti al regime di esenzione dall’autorizzazione paesaggistica previsto dall’art. 149 D.lgs. n. 42/2004 (“Interventi non soggetti ad autorizzazione") e dal relativo Regolamento attuativo (D.P.R. n. 31/2017).
9.1 Tenuto conto del mancato rilascio dell’autorizzazione de qua, il Comune di Tramonti non avrebbe potuto far altro che ingiungere la demolizione, secondo quanto disposto dagli artt. 27, 31 D.P.R. n. 380/2001 e 167 D.lgs. n. 42/2004.
10. Le superiori considerazioni circa il carattere dovuto e vincolato del potere sanzionatorio attivato dall’ente locale a fronte del mancato preventivo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 D.lgs. n. 42/2004, consentirebbero al Collegio di ritenere superata la censura relativa alla pretesa natura pertinenziale delle opere oggetto di causa.
11. In ogni caso, il Collegio ritiene che siffatta censura sia infondata.
Diversamente da quanto affermato in ricorso, le caratteristiche costruttive e dimensionali, la tipologia dei materiali utilizzati -per come sopra precisati- nonché la strumentalità dei manufatti in contestazione al soddisfacimento di esigenze non già temporanee e transitorie bensì stabili e durevoli nel tempo, consentono di escluderne la natura pertinenziale, avendo gli stessi determinato una permanente alterazione dell’assetto edilizio e urbanistico del territorio, con conseguente aggravio del carico urbanistico.
11.1 Ed invero gli interventi pertinenziali di cui alla lettera e.6) dell’art. 3 del D.P.R. n. 380/2001, differenti rispetto alle cd. pertinenze “civilistiche”, devono non soltanto rispettare il limite dimensionale del 20% del volume dell'edificio principale ma anche presentare specifiche caratteristiche “funzionali” e “strutturali”.
Sul punto, la giurisprudenza ha più volte chiarito che per poter qualificare un’opera edilizia in termini di “pertinenza” occorre avere riguardo a “tre ordini di parametri: il primo, positivo, di tipo funzionale, dovendo esso avere un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione; il secondo ed il terzo, negativi, ossia ricollegati, rispettivamente, all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse e ad un rapporto di necessaria proporzionalità che deve sussistere fra le esigenze edilizie e il volume realizzato. Quest'ultimo deve essere completamente privo di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto esclusivamente destinato a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale, che non possono essere ubicati all'interno di essa. L'applicazione di tali criteri induce a concludere che i volumi tecnici degli edifici, per essere esclusi dal calcolo della volumetria, non devono assumere le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità” (così TAR Campania, Napoli, IV, 02.04.2015, n. 1927; III, 09.12.2014, n. 6431; VI, 06.02.2014, n. 785; TAR Molise, 31.03.2014, n. 225; Cons. Stato, IV, 04.05.2010, n. 2565)” (così TAR Campania, Napoli, sez. II, 23/06/2017, n. 3439).
Ed ancora: “a differenza della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale ed è funzionalmente inserito al suo servizio, ma anche allorquando è sfornito di un autonomo valore di mercato e non comporta un cosiddetto "carico urbanistico" proprio in quanto esaurisce la sua finalità nel rapporto funzionale con l'edificio principale” (così Consiglio di Stato sez. II, 22/07/2019, n. 5130; cfr. anche TAR Lazio, Roma, sez. II, 11/07/2019, n. 9223; Consiglio di Stato sez. II, 04/07/2019, n. 4586).
11.2 L’operazione di verifica dei parametri sopra indicati non può che avere, nel caso in esame, esito negativo, giacché le opere edilizie oggetto di demolizione non sono legate né al fondo agricolo del ricorrente né all’abitazione di quest’ultimo da un rigido rapporto di strumentalità “necessaria”, essendo al contrario dotate di una propria autonomia funzionale, oltre che strutturale tali da comportare un’evidente alterazione dell’assetto urbanistico-edilizio del territorio (cfr. TAR Campania, Salerno, sez. II, 11/10/2019, n. 1728; 04/09/2019, n. 1508; 18.06.2019, n. 1061).
12. In conclusione, il ricorso è infondato e, come tale, deve essere rigettato (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 12.11.2019 n. 1986 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTILe cave estrattive sono soggette al pagamento delle imposte locali.
Il terreno destinato ad attività estrattiva, adibito a cava di travertino debitamente autorizzata, non può essere considerato agricolo perché ha una destinazione industriale. Il terreno anche se finalizzato solo alla realizzazione di fabbricati strumentali, è soggetto al pagamento delle imposte locali come area edificabile, con un valore modesto, tenuto conto della sua destinazione a attività estrattiva.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza 28.10.2019 n. 27558.
Per la Cassazione, il terreno è adibito a cava di travertino ed è «suscettibile di potenzialità edificatoria, ancorché limitata perché strumentalmente finalizzata all'attività estrattiva». Dunque è soggetto a Ici, e alle altre imposte locali, poiché l'area adibita a attività estrattiva secondo il regolamento urbanistico è suscettibile «di edificazione, ancorché limitata alla realizzazione di fabbricati strumentali». Ciò «induce ad escludere la sua natura agricola ai fini della determinazione della base imponibile». Naturalmente, il valore di mercato è ridotto, tenuto conto della sua destinazione.
Va ricordato che sempre la Cassazione (ordinanza 6431/2019) ha chiarito che un'area è edificabile e soggetta al pagamento dell'Ici, dell'Imu, della Tasi e dell'imposta di registro, anche se sussiste un vincolo d'inedificabilità che interrompe il procedimento di trasformazione urbanistica. Allo stesso modo va considerata fabbricabile qualora sia previsto un vincolo paesaggistico che subordini l'edificabilità concreta dell'area al parere della Sovraintendenza ai beni culturali e ambientali. Un vincolo temporaneo, infatti, non può avere alcuna incidenza sull'assoggettamento a imposizione del terreno.
Tuttavia, in presenza di vincoli, il contribuente è tenuto a pagare le imposte su un valore dell'immobile notevolmente ridotto. In base all'articolo 2 del decreto legislativo 504/1992, per area fabbricabile si intende quella utilizzabile a scopo edificatorio in base agli strumenti urbanistici generali o attuativi oppure in base alle possibilità effettive di edificazione determinate secondo i criteri previsti agli effetti delle indennità di espropriazione per pubblica utilità.
Il valore di un'area edificabile deve essere calcolato in base ai seguenti criteri: zona territoriale di ubicazione, indice di edificabilità, destinazione d'uso consentita, oneri per eventuali lavori di adattamento del terreno necessari per la costruzione e, infine, prezzi medi rilevati sul mercato di aree aventi le stesse caratteristiche (articolo ItaliaOggi del 23.11.2019).

EDILIZIA PRIVATASecondo la giurisprudenza prevalente, “i provvedimenti sanzionatori di abusi edilizi non abbisognano di particolare motivazione, posto che l’esercizio del potere repressivo-sanzionatorio risulta sufficientemente giustificato, quanto al presupposto, dalla mera (oggettiva) descrizione delle opere abusivamente realizzate (in assenza di titolo edilizio) e dalla assoggettabilità di queste ultime al regime del permesso di costruire, stante la previsione legislativa della conseguente misura sanzionatoria.
---------------

1. - La ricorrente deduce (prima censura) la contraddittorietà degli atti gravati, che sostiene essere “resa evidente dalla mera lettura del verbale di accertamento della Polizia Locale in data 14.05.2013”, laddove “dapprima si afferma che la superficie coperta dell’immobile asseritamente abusivo sia pari a mq. 125, per poi affermare che il medesimo sarebbe costituito da tre ambienti”, la cui superficie complessiva “è pari a mq. 100,29”.
1.1 - La doglianza va disattesa.
Ed invero, in linea generale, secondo la giurisprudenza prevalente e condivisa da questo Tribunale, “i provvedimenti sanzionatori di abusi edilizi non abbisognano di particolare motivazione, posto che l’esercizio del potere repressivo-sanzionatorio risulta sufficientemente giustificato, quanto al presupposto, dalla mera (oggettiva) descrizione delle opere abusivamente realizzate (in assenza di titolo edilizio) e dalla assoggettabilità di queste ultime al regime del permesso di costruire, stante la previsione legislativa della conseguente misura sanzionatoria (ex multis, TAR Puglia, Lecce, III, 05.03.2018, n. 367; TAR Puglia, Lecce, III, 29.03.2018, n. 524; TAR Puglia, Lecce, III, 25.05.2018, n. 889; TAR Puglia, Lecce, III, 16/08/2018, n. 1302)” (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 15.10.2018, n. 1507).
1.2 - Ciò premesso, nella fattispecie concreta in esame, le opere edilizie abusive di che trattasi sono sufficientemente descritte negli atti impugnati e inequivocamente individuabili; né si ravvisa la denunciata discrasia tra la superficie complessiva del fabbricato di (“circa”) mq 125 e la sommatoria della superficie analiticamente indicata dei tre vani, che è “superficie utile” (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 24.10.2019 n. 1635 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza amministrativa ha affermato che il titolo edilizio è necessario in presenza di opere che implicano una stabile, benché non irreversibile, trasformazione del territorio, preordinata a soddisfare esigenze non precarie.
Infatti, costituisce «principio consolidato in giurisprudenza che la precarietà dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico ma temporalmente limitato del bene: infatti, ai fini della ricorrenza del requisito della precarietà di una costruzione, che esclude la necessità del rilascio di un titolo edilizio, si deve prescindere dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data dal manufatto dal costruttore e si deve, invece, valutare l'opera alla luce della sua obiettiva ed intrinseca destinazione naturale, con la conseguenza che rientrano nella nozione giuridica di costruzione, per la quale occorre la concessione edilizia, tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo o pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e non meramente occasionale.
Per individuare la natura precaria di un'opera, si deve quindi seguire «non il criterio strutturale, ma il criterio funzionale», per cui un'opera se è realizzata per soddisfare esigenze che non sono temporanee non può beneficiare del regime proprio delle opere precarie anche quando le opere sono state realizzate con materiali facilmente amovibili.
La giurisprudenza consolidata ha inoltre evidenziato che produce trasformazione urbanistica ogni intervento che alteri in maniera rilevante e duratura lo stato del territorio, a nulla rilevando l’eventuale precarietà strutturale e l’amovibilità, ove ad essa non si accompagni un uso assolutamente temporaneo e per fini contingenti e specifici».
---------------

2. - La ricorrente lamenta, poi (secondo motivo di gravame), che, con riferimento al “vano posto a nord ... coperto da lastre ondulate in fibrocemento”, della “superficie utile di mq 14,49”, “la precarietà della copertura non consente di computare tale vano ai fini della individuazione della superficie coperta”.
2.1 - La doglianza è infondata.
Ricorda il Collegio che “La giurisprudenza amministrativa ha affermato che il titolo edilizio è necessario in presenza di opere che implicano una stabile, benché non irreversibile, trasformazione del territorio, preordinata a soddisfare esigenze non precarie (Cons. Stato, sez. IV, 24.07.2012, n. 4214)” (ex multis, Consiglio di Stato, Sezione Sesta, 03.06.2019, n. 3735).
Infatti, costituisce <<costituisce «principio consolidato in giurisprudenza che la precarietà dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico ma temporalmente limitato del bene: infatti, ai fini della ricorrenza del requisito della precarietà di una costruzione, che esclude la necessità del rilascio di un titolo edilizio, si deve prescindere dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data dal manufatto dal costruttore e si deve, invece, valutare l'opera alla luce della sua obiettiva ed intrinseca destinazione naturale, con la conseguenza che rientrano nella nozione giuridica di costruzione, per la quale occorre la concessione edilizia, tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo o pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e non meramente occasionale (ex multis TAR Campania-Napoli 10.06.2011 n. 3114).
Per individuare la natura precaria di un'opera, si deve quindi seguire «non il criterio strutturale, ma il criterio funzionale», per cui un'opera se è realizzata per soddisfare esigenze che non sono temporanee non può beneficiare del regime proprio delle opere precarie anche quando le opere sono state realizzate con materiali facilmente amovibili (fra le decisioni più recenti cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 1291 del 01.04.2016).
La giurisprudenza consolidata ha inoltre evidenziato (TAR Puglia, Bari, Sez. III, 10.06.2010, n. 2406) che produce trasformazione urbanistica ogni intervento che alteri in maniera rilevante e duratura lo stato del territorio, a nulla rilevando l’eventuale precarietà strutturale e l’amovibilità, ove ad essa non si accompagni un uso assolutamente temporaneo e per fini contingenti e specifici» (TAR Puglia, Lecce, Sezione I, 17/07/2018, n. 1174)
>> (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 04.02.2019, n. 171; in termini, TAR Puglia, Lecce, Sezione Prima, 17.07.2018, n. 1180).
2.2 - Nella specie, le caratteristiche del manufatto in questione, come oggettivamente risultanti dagli stessi atti impugnati (e non contestate), comportano una evidente e rilevante trasformazione edilizia dell’area (urbanisticamente rilevante), con la conseguente assoggettabilità al regime del permesso di costruire (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 24.10.2019 n. 1635 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo il prevalente e condivisibile indirizzo della giurisprudenza amministrativa “l’indicazione dell’area di sedime, così come di quella necessaria per opere analoghe a quelle abusive, da acquisire al patrimonio comunale, non deve considerarsi requisito dell’ordinanza di demolizione -e dunque la mancanza non ne inficia la legittimità- giacché siffatta specificazione è elemento essenziale del distinto provvedimento con cui l’Amministrazione accerta la mancata ottemperanza alla demolizione da parte dell’ingiunto”.
Trattasi, quindi, “di precisazione che l’Amministrazione è tenuta a fare in seguito, ovvero all’atto dell’adozione (eventuale) del successivo provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale”.
---------------

3. - La ricorrente deduce, ancora, la violazione dell’art. 31, comma 3, del D.P.R. 380/2001, stante l’erroneità dell’indicazione, contenuta nella gravata ordinanza di demolizione, “dell’ulteriore area” da acquisire gratuitamente al patrimonio comunale, “pari a mq. 1.250”.
3.1 - Anche tale doglianza va disattesa, atteso che, nella specie, non rileva la pretesa erroneità dell’indicazione della superficie utile da acquisire gratuitamente, ai sensi dell’art. 31, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, considerato che nell’ordinanza di demolizione non occorre -comunque- l’indicazione dell’area esatta da acquisire (successivamente) in caso di (eventuale) inottemperanza.
Ed invero, ricorda questa Sezione che, <<secondo il prevalente e condivisibile indirizzo della giurisprudenza amministrativa, <<(… TAR Campania Napoli, VII, 13.01.2012, n. 143) “l’indicazione dell’area di sedime, così come di quella necessaria per opere analoghe a quelle abusive, da acquisire al patrimonio comunale, non deve considerarsi requisito dell’ordinanza di demolizione -e dunque la mancanza non ne inficia la legittimità- giacché siffatta specificazione è elemento essenziale del distinto provvedimento con cui l’Amministrazione accerta la mancata ottemperanza alla demolizione da parte dell’ingiunto” (Tar Puglia Lecce, III, 15.12.2011, n. 2172; Tar Puglia Lecce, III, 28.07.2011, n. 1461)>> (TAR Puglia, Sezione Terza, 27.03.2012, n. 558; in termini, Consiglio di Stato, Sezione Quarta, 26.09.2008, n. 4659; TAR Campania, Napoli, Sezione Seconda, 20.04.2009, n. 2035; TAR Campania, Napoli, Sezione Sesta, 04.12.2013, n. 5509 e giurisprudenza ivi citata - “TAR Napoli Campania sez. II, 06.09.2013, n. 4199; v., anche, TAR Napoli Campania sez. VI, 04.07.2013, n. 3492; Tar Campania, … sesta sezione, 16.06.2011, n. 3194, 11.05.2011, n. 2624; Tar Lazio, Roma, sez. I, 07.03.2011, n. 2031; Tar Puglia, Lecce, sez. III, 09.12.2010, n. 2809”)>> (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 27.06.2018, n. 1075).
Trattasi, quindi, “di precisazione che l’Amministrazione è tenuta a fare in seguito, ovvero all’atto dell’adozione (eventuale) del successivo provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale” (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 19.11.2018, n. 1710) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 24.10.2019 n. 1635 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIWhatsApp è sacro. No ai licenziamenti causa chat. Tribunale Firenze sulle offese rivolte ai superiori.
I messaggi dal contenuto offensivo e diffamatorio, scambiati tra alcuni colleghi di lavoro in una chat privata, aventi ad oggetto i superiori di lavoro, non costituiscono una giusta causa di licenziamento. Essi devono più correttamente qualificarsi come uno scambio di corrispondenza privata tra colleghi di lavoro, ovvero un'espressione del diritto di corrispondenza privata, senza che il contenuto dei messaggi, proprio a causa del contesto chiuso e non suscettibile di diffusione all'esterno, possa avere alcun rilievo sul piano disciplinare. Proprio la circolazione ristretta ed esclusiva tra pochi soggetti della chat fa venire meno la portata diffamatoria allargata.

È quanto ha stabilito il TRIBUNALE di Firenze, Sez. lavoro, con sentenza 16.10.2019.
Secondo il tribunale, l'invio su una chat di whatsApp tra colleghi di lavoro di messaggi dal contenuto offensivo nei confronti di un superiore gerarchico non ha rilievo sul piano disciplinare, stante il carattere riservato della comunicazione.
Il caso era sorto a seguito di un'impugnazione del licenziamento per giusta causa deciso dalla sua azienda per l'invio, all'interno di un gruppo su chat creato con i colleghi, di messaggi vocali riferiti al superiore gerarchico e ad altri dipendenti dal contenuto offensivo, denigratorio, minatorio e razzista. Secondo il lavoratore, proprio perché diffusi nell'ambito esclusivo di un gruppo ristretto di soggetti e non pubblico, veniva a mancare la rilevanza esterna dei giudizi espressi dal lavoratore e, con esso, il licenziamento.
Mentre il lavoratore deduceva l'irrilevanza disciplinare di tali messaggi, essendo stati registrati in una chat privata, la società datrice sosteneva di aver legittimamente intimato il licenziamento mirato a tutelare l'integrità fisica e morale dei dipendenti oggetto delle espressioni offensive e minacciose del ricorrente.
Il tribunale ha escluso la sussistenza di una giusta causa di licenziamento proprio in quanto la circolazione ristretta dei commenti era incompatibile con i requisiti propri della condotta diffamatoria, che richiede quale destinazione delle comunicazioni la divulgazione nell'ambiente sociale. «I messaggi vocali indirizzati a un gruppo chiuso sono equiparabili a corrispondenza privata e non possono configurare atti idonei a comunicare pubblicamente affermazioni offensive, discriminatorie o minatorie, con conseguente insussistenza di fatto connotato dal carattere di illiceità», spiega il tribunale.
Da ciò consegue l'insussistenza del fatto addebitato al dipendente disponendo, per l'effetto, la propria reintegra nel posto di lavoro (articolo ItaliaOggi del 07.01.2020).

EDILIZIA PRIVATAOpere abusive, multe carissime. Irrilevante che al rogito non si individuino irregolarità. Ricognizione della giurisprudenza: l’attività del notaio non esclude il potere di accertamento.
Se il comune scopre opere abusive nell'immobile, scatta la multa pari al doppio dell'incremento di valore realizzato grazie alla violazione della normativa edilizia e urbanistica. E il proprietario è costretto a pagare anche se il notaio non ha rilevato irregolarità al momento di stipulare l'atto di acquisto del cespite: l'attività compiuta dall'ufficiale rogante, infatti, non esclude il potere di accertamento dell'amministrazione, che può essere esercitato anche anni dopo il compimento degli interventi realizzati senza il titolo edilizio.
È quanto emerge dalla sentenza 15.10.2019 n. 775, pubblicata dalla I Sez. del TAR Liguria.
Il caso. Niente da fare per il privato: pagherà all'ente locale oltre 56 mila euro perché i lavori non autorizzati hanno incrementato di circa 23 mila euro il valore dell'immobile, almeno secondo le stime dell'Agenzia delle entrate. Pesano sulla sanzione la recinzione, il cancello pedonale e carrabile, l'area di parcheggio e il pavimento impermeabile della piscina.
Inutile invocare un preteso affidamento di mero fatto che sarebbe stato indotto nell'acquirente dalla condotta del notaio, il quale non individua alcuna difformità edilizia o urbanistica al momento del rogito: l'attività del professionista non interferisce con i poteri del comune, che non sono soggetti ad alcun termine di decadenza. E ciò perché sanzionare gli abusi edilizi costituisce un atto dovuto e vincolato alla ricognizione dei presupposti.
Non giova contestare che il manufatto incriminato sia una vera e propria piscina, per quanto piccola: lo dimostra la scaletta, mentre non è credibile che si tratti di una vasca per l'acqua piovana.
Ricognizione sui precedenti. Il rimedio contro gli atti dell'amministrazione, comunque, non può sempre essere impugnato. È escluso che possa essere proposto dal privato il ricorso al giudice amministrativo contro il verbale della Municipale che verifica l'inottemperanza all'ordine di demolire l'opera abusiva e ne dispone la restituzione al comune: l'atto della polizia non è di per sé impugnabile in quanto costituisce un mero accertamento dello stato dei luoghi, privo di valore provvedimentale e dunque di efficacia lesiva. L'amministrazione locale deve poi far proprio il cespite con un atto ad hoc ed è contro la una misura acquisitiva che la parte privata dovrà rivolgere l'impugnazione.
È quanto stabilito dalla sentenza 12.04.2019 n. 2083, pubblicata dalla III Sez. del TAR Campania-Napoli.
Il responsabile dell'abuso, a parere dei giudici, precorre i tempi. Il verbale dei vigili urbani non cambia la situazione giuridica dell'interessato ma serve a certificare che il manufatto contro legge non è stato abbattuto; il tutto con la fede privilegiata tipica dell'atto redatto dai funzionari pubblici: si attesta unicamente che è passato il tempo ma l'interessato non ha provveduto da sé a demolire l'opera.
Né può essere impugnato in modo autonomo l'ordine di restituzione del manufatto al sindaco del comune in esecuzione della sentenza penale di condanna: costituisce invero un atto endoprocedimentale che ha una mera funzione preparatoria e strumentale; il comune, infatti, ne deve far proprio l'esito con un atto formale che determina l'immissione nel possesso e la trascrizione nei registri immobiliari, possibile solo con la notifica del verbale che accerta l'inottemperanza.
Insomma: il privato che vuole contestare l'acquisizione del manufatto da parte dell'ente locale deve impugnare l'atto successivo e soltanto per i vizi di quest'ultimo mentre non può più contestare l'ordinanza di demolizione.
Di più. L'immobile abusivo va abbattuto anche se è sotto sequestro penale. È il privato che deve farsi parte diligente per adempiere l'ordine di demolizione notificato dal comune chiedendo all'autorità giudiziaria la restituzione del fabbricato: altrimenti paga le sanzioni e comunque dopo 90 giorni il manufatto contro-legge è acquisito al patrimonio dell'ente locale.
Lo prevede la sentenza 10.07.2019 n. 1409, pubblicata dalla II Sez. del TAR Calabria-Catanzaro.
Per i destinatari dell'ordinanza emessa dal responsabile del settore urbanistica del comune, il sequestro penale che grava sui fabbricati abusivi non costituisce un impedimento assoluto a eseguire l'ingiunzione a demolire emessa dall'amministrazione locale. Anzi, è il privato che deve chiedere al giudice penale il dissequestro dell'immobile, secondo la procedura ex articolo 85 disp. att. cpp, per poi abbattere a proprie spese il fabbricato; il tutto per non incorrere nelle sanzioni previste dall'articolo 31 del Testo unico dell'edilizia: va infatti escluso che l'interessato possa addurre a sua esimente la misura cautelare cui egli stesso ha dato causa.
Il comune, fra l'altro, è consapevole che sugli immobili incriminati penda il sequestro: i termini per effettuare la demolizione, spiega l'ordinanza dell'ente, decorrono dal dissequestro dei manufatti che gli interessati devono ottenere dal giudice e comunicare all'amministrazione locale (nel frattempo sulla misura cautelare interviene peraltro l'annullamento senza rinvio della Cassazione).
Quando poi l'abuso edilizio lo compie il vicino, bisogna denunciare subito altrimenti si rischia di dover tacere per sempre. L'istanza affinché il comune verifichi la regolarità delle opere, infatti, deve essere presentata entro sessanta giorni da quando si ha conoscenza della segnalazione certificata di inizio attività del confinante: dopo scatta la decadenza perché la soggezione al termine generale deve ritenersi necessaria ai fini della certezza degli effetti prodotti dalla Scia.
È quanto emerge dalla sentenza 15.10.2018 n. 302, pubblicata dalla I Sez. del TAR Abruzzo-Pescara.
Notizie amare per la proprietaria dell'edificio, anche se il rivale sta costruendo una mansarda tale da oscurare una finestra che dà luce e aria all'immobile: dopo la sopraelevazione il bagno della signora si trova ad affacciare nel locale di nuova costruzione. E nei locali scatta il sopralluogo dell'Asl, benché l'ordinanza contingibile e urgente del sindaco del comune sia stata poi annullata dal Tar perché mancano i presupposti di urgenza e rischi per l'igiene pubblica per ingiungere i lavori al proprietario. Contro le opere realizzate, peraltro, pende una causa al Tribunale civile.
Ma attenzione: la Scia non è direttamente impugnabile e in caso di inerzia il controinteressato può soltanto agire contro il silenzio dell'amministrazione, come avviene nella specie. Il punto è che deve farlo in modo tempestivo: l'osservanza del termine di 60 giorni risulta necessaria per l'interesse pubblico e priva ad assicurare la certezza degli effetti all'azione amministrativa.
Ancora. Non va al condominio ma ai singoli proprietari l'ordine di demolire gli abusi sulle parti comuni dell'edificio. Va annullato perché illegittimo l'ordine di demolizione degli abusi edilizi compiuti nel sottotetto. E ciò perché il comune emette il provvedimento repressivo nei confronti del condominio, che è un mero ente di gestione privo di legittimazione: la misura va invece rivolta nei confronti dei singoli condomini in quanto unici comproprietari delle parti comuni del fabbricato.
È quanto si legge nella sentenza 29.07.2019 n. 1764, pubblicata dalla II Sez. del TAR Lombardia-Milano, che ha accolto il ricorso del condominio: non deve provvedere alla rimessa in pristino entro novanta giorni disposta dal responsabile del servizio edilizia privata.
Il punto è che in base all'articolo 1117 Cc le parti comuni del fabbricato appartengono ai singoli proprietari esclusivi mentre il condominio non vanta alcun diritto reale su di esse. Quest'ultimo costituisce un mero ente di gestione privo di personalità giuridica, una condizione confermata dalla riforma contenuta nella legge 120/2012 che attribuisce al condominio un attenuato grado di soggettività
(articolo ItaliaOggi Sette del 30.12.2019).

TRIBUTIIMU a carico della società di leasing anche con la risoluzione anticipata del contratto
La società di leasing è tenuta a pagare l'Imu anche se non ha ancora acquisito la materiale disponibilità dell'immobile per mancata riconsegna da parte dell'utilizzatore.

Lo ha deciso la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la sentenza 09.10.2019 n. 25249, segnando un punto a favore per i Comuni dopo la posizione contraria assunta dalla stessa sezione tributaria con la sentenza n. 19166/2019 (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 29 luglio).
Il quadro normativo e le prime due sentenze della Cassazione
Per comprendere i termini della questione, occorre preliminarmente evidenziare che in ordine agli immobili concessi in leasing la normativa sull'Imu prevede uno spostamento della soggettività passiva dal proprietario (locatore) all'utilizzatore (locatario).
In particolare, l'articolo 9, comma 1, del Dlgs 23/2011 stabilisce che per gli immobili concessi in locazione finanziaria «soggetto passivo è il locatario a decorrere dalla data della stipula e per tutta la durata del contratto». Mentre sulla data di inizio dell'obbligazione tributaria non sussistono problemi, sorge invece il dubbio sulla data finale dell'obbligazione in caso di risoluzione anticipata del contratto di leasing senza riconsegna dell'immobile.
La giurisprudenza di merito si è mostrata piuttosto oscillante, ma a dirimere il contrasto ci ha pensato la Cassazione con la sentenza n. 13793/2019, accogliendo il ricorso del Comune evidenziando che con la risoluzione del contratto di leasing la soggettività passiva ai fini Imu si determina in capo alla società di leasing, anche se essa non ha ancora acquisito la materiale disponibilità del bene per mancata riconsegna da parte dell'utilizzatore.
Ciò in quanto l'articolo 9 del Dlgs 23/2011 ha ritenuto rilevante non già la consegna del bene -e quindi la detenzione materiale dello stesso- bensì l'esistenza di un vincolo contrattuale che legittima la detenzione qualificata dell'utilizzatore. Tuttavia dopo appena due mesi è nuovamente intervenuta la Cassazione con la sentenza n. 19166 che in maniera del tutto inaspettata perviene a un'opposta conclusione rispetto alla decisione n. 13793 ritenendo che, in caso di risoluzione anticipata del contratto di leasing senza riconsegna dell'immobile, l'Imu va pagata dal locatario-utilizzatore e non dalla società di leasing.
La sentenza di ieri
Con la sentenza in commento, la Cassazione è tornata per la terza volta sulla questione riprendendo il filone originario favorevole ai Comuni, ritenuto «maggiormente rispettoso delle esigenze di certezza dei rapporti giuridici e dei rapporti tributari, dovendo l'ente impositore fare riferimento a dati certi e conoscibili come la risoluzione del contratto».
La Cassazione ha evidenziato peraltro che la ritardata riconsegna può al più essere oggetto di una pretesa risarcitoria all'interno del rapporto obbligatorio tra locatore e locatario, ma non può assolutamente interferire nel rapporto tra l'ente impositore e il soggetto passivo come individuato per legge. Una sentenza condivisibile e persuasiva.
Non altrettanto condivisibile è invece la decisione n. 19166 che -oltre a basarsi sul quadro normativo e giurisprudenziale civilistico (non tributario)- mette sullo stesso piano l'Imu e la Tasi che, com'è noto, sono due tributi diversi sotto il profilo della soggettività passiva. Pertanto trarre argomenti dal comma 672 della legge 147/2013 (riguardante solo la Tasi) ci sembra del tutto inappropriato oltre che in contrasto con il principio di riserva di legge sancito dall'articolo 23 della Costituzione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.10.2019).

APPALTIOve si lamenta la violazione del divieto di commistione tra offerta tecnica ed economica occorre ricordare che il suddetto divieto risponde alla finalità di garantire la segretezza dell’offerta economica fino al completamento della valutazione delle offerte tecniche ed è perciò funzionale a evitare che l’offerta tecnica contenga elementi che consentano di ricostruire, nel caso concreto, l’entità dell’offerta economica.
Coerentemente con tale finalità, “l’applicazione del divieto di commistione va effettuata in concreto (e non in astratto), con riguardo alla concludenza degli elementi economici esposti o desumibili dall'offerta tecnica, che debbono essere tali da consentire di ricostruire in via anticipata l'offerta economica nella sua interezza ovvero, quanto meno, in aspetti economicamente significativi, idonei a consentire potenzialmente al seggio di gara di apprezzare “prima del tempo” la consistenza e la convenienza di tale offerta"..
Non è escluso, di conseguenza, che possano essere inserite nell’offerta tecnica voci a connotazione (anche) economica o elementi tecnici declinabili in termini economici, se rappresentativi di soluzioni realizzative dell’opera o del servizio oggetto di gara.
Il divieto di commistione non è quindi violato ove nell’offerta tecnica siano presenti “alcuni elementi economici, resi necessari dagli elementi qualitativi da fornire, purché tali elementi economici non consentano di ricostruire la complessiva offerta economica”
---------------

18. Va infine scrutinato il motivo E, ove si lamenta la violazione del divieto di commistione tra offerta tecnica ed economica.
18.1. Al riguardo, occorre ricordare che, secondo i principi, il suddetto divieto risponde alla finalità di garantire la segretezza dell’offerta economica fino al completamento della valutazione delle offerte tecniche (Cons. Stato, Sez. VI, 22.11.2012, n. 5928) ed è perciò funzionale a evitare che l’offerta tecnica contenga elementi che consentano di ricostruire, nel caso concreto, l’entità dell’offerta economica (Cons. Stato, Sez. V, 21.11.2017, n. 5392).
Coerentemente con tale finalità, “l’applicazione del divieto di commistione va effettuata in concreto (e non in astratto), con riguardo alla concludenza degli elementi economici esposti o desumibili dall'offerta tecnica, che debbono essere tali da consentire di ricostruire in via anticipata l'offerta economica nella sua interezza ovvero, quanto meno, in aspetti economicamente significativi, idonei a consentire potenzialmente al seggio di gara di apprezzare “prima del tempo” la consistenza e la convenienza di tale offerta” (Cons. Stato, Sez. III, 03.04.2017, n. 1530).
Non è escluso, di conseguenza, che possano essere inserite nell’offerta tecnica voci a connotazione (anche) economica o elementi tecnici declinabili in termini economici, se rappresentativi di soluzioni realizzative dell’opera o del servizio oggetto di gara (Cons. Stato, Sez. V, 22.02.2016, n. 703).
Il divieto di commistione non è quindi violato ove nell’offerta tecnica siano presenti “alcuni elementi economici, resi necessari dagli elementi qualitativi da fornire, purché tali elementi economici non consentano di ricostruire la complessiva offerta economica” (Cons. Stato, III, 20.01.2016, n. 193).
18.2. In applicazione dei suddetti principi, il motivo va respinto, atteso che la mera indicazione dei vantaggi derivanti dall’impiego di un mezzo di trasporto dotato di targa CRI non è da ritenere idoneo a determinare una commistione indebita tra offerta tecnica e offerta economica, e ciò anche in quanto, contrariamente alle allegazioni della ricorrente, le spese di gestione non sono le uniche spese suscettibili di ribasso da parte dell’operatore, atteso che anche gli altri costi, tra i quali quelli di personale, risentono significativamente dell’organizzazione aziendale.
18.3. Non può neppure accedersi alla tesi secondo la quale l’impiego di un mezzo di trasporto con targa CRI e la presenza di operatori con abbigliamento e protezioni adeguate agli interventi tipici di un servizio di emergenza avrebbero dovuto essere considerati idonei a indurre in errore gli utenti in ordine alla titolarità del servizio e le sue caratteristiche.
L’attività che il concorrente si candida a svolgere è, infatti, quella oggetto di affidamento, mentre le specifiche modalità di erogazione, come descritte nell’offerta tecnica dell’aggiudicataria, corrispondono a una scelta dell’operatore, che è stata valutata positivamente dalla Commissione, il cui giudizio non presenta profili di manifesta arbitrarietà o illogicità sotto i profili dedotti dalla ricorrente (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 07.10.2019 n. 11594 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAAbitabilità, la Cila non basta. Titolo insufficiente per cambiare destinazione dei locali. Secondo il Tar Lazio la nozione di restauro impone di rispettare forma e struttura degli edifici.
Non basta la Cila a trasformare la cantina in cucina nell'immobile del centro storico. E ciò anche dopo lo Sblocca Italia e la manovra correttiva del 2017: la nuova definizione di restauro e risanamento conservativo, infatti, presuppone che si rispettino gli elementi formali e strutturali che identificano l'organismo edilizio, il che è escluso quando vani accessori diventano abitabili nel fabbricato a uso residenziale.
È quanto emerge dalla sentenza 20.09.2019 n. 11155, pubblicata dalla Sez. II-quater del TAR Lazio-Roma.
Il caso. Legittimo lo stop ai lavori da parte del comune dopo che il dirigente dell'ufficio ha dichiarato inefficace la comunicazione di lavori asseverata. Non basta la relazione tecnica allegata al progetto che fa riferimento al risanamento leggero di cui al punto 5 della tabella A allegato al decreto Scia 2, il dlgs 222/2016, a salvare i comproprietari dell'immobile, uno dei quali è anche direttore dei lavori.
L'intervento è comunicato in corso di esecuzione ai sensi dell'articolo 6-bis, comma quinto, del testo unico dell'edilizia: si punta a trasformare in una cucina di 17 metri quadrati un ambiente composto da due vani destinati in precedenza a deposito o cantina, con il ripristino del collegamento preesistente con il fabbricato principale, un'ex caserma dei carabinieri.
In realtà, secondo il progetto approvato dal comune, i locali dovrebbero essere destinati a uffici, mentre l'iniziativa del privato è fondata sulle risultanze catastali e lo stato di fatto dell'immobile. Ma non è questo che fa scattare l'alt ai lavori. Il mutamento di destinazione d'uso con realizzazione di opere, infatti, va inquadrato nell'ambito della ristrutturazione edilizia «pesante» o «maggiore» alla quale fa riferimento l'articolo 33 del testo unico per l'edilizia. E ciò perché si tratta di un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi obiettivi di interesse pubblico, a partire dalla pianificazione territoriale. L'intervento progettato dal privato nell'ex caserma, dunque, può essere realizzato soltanto se prima si chiede il permesso di costruire e si paga il contributo di costruzione previsto dalla diversa destinazione d'uso.
In generale vanno evidenziati i punti di contatto fra gli interventi di ristrutturazione edilizia e quelli di manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo: agli uni come agli altri serve il permesso di costruire quando comportano un cambio di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico; fuori dai centri storici devono possono essere realizzati soltanto con la denuncia di attività quando il mutamento avviene all'interno di una stessa categoria omogenea, mentre dentro il cuore antico della città la segnalazione non è sufficiente anche quando la destinazione varia all'interno della medesima categoria.
Non conta poi che con lo Sblocca Italia si possano frazionare o accorpare unità immobiliari con opere che implicano la variazione di superfici dei locali oltre che del carico urbanistico. La nuova nozione di restauro e risanamento conservativo impone il rispetto degli elementi formali e strutturali dell'organismo edilizio: i primi riguardano la disposizione dei volumi, i secondi lo scheletro che vi è sotteso ma entrambi esprimono l'identità del fabbricato a uso residenziale e vanno non giustapposti ma considerati insieme. Nella specie, poi, il permesso di costruire è richiesto a maggior ragione perché l'immobile si trova nel centro storico e dunque il titolo edilizio risulta necessario anche per il mutamento di destinazione d'uso all'interno della categoria.
I precedenti. Attenzione, però: se il comune non ha titolo per sindacare la Cila, può sempre reprimere gli abusi edilizi. La comunicazione di inizio attività asseverata è un atto di natura privatistica e l'amministrazione non può valutare l'ammissibilità o meno dell'intervento ma conserva comunque il potere di controllare che l'immobile sia conforme alle prescrizioni delle leggi vigenti. È escluso, poi, che il privato possa ottenere dal giudice un accertamento sulla regolarità del fabbricato: la verifica spetta all'amministrazione e la prima autorità non può sconfinare nella sfera riservata alla seconda.
Lo ha stabilito la sentenza 2052/2018, pubblicata dalla seconda sezione del Tar Calabria, con cui è accolto solo in parte il ricorso del proprietario del manufatto.
La Cila introdotta dal decreto legislativo Scia 2 ha carattere residuale: si applica agli interventi non riconducibili all'edilizia libera, alle opere che richiedono il permesso di costruire e alle iniziative sottoposte a Scia. A differenza di quest'ultima la comunicazione di inizio lavori asseverata non è soggetta a un controllo sistematico: il comune deve soltanto verificare che le opere progettate implicano un modesto impatto sul territorio. E ha in proposito un potere soltanto sanzionatorio.
Il diniego della Cila, dunque, è nullo perché espressione di un potere non tipizzato dall'articolo 6-bis del testo unico dell'edilizia, fermo restando che l'amministrazione deve vigilare contro i manufatti contro legge. Il motivo di ricorso che chiede l'accertamento di regolarità del fabbricato è bocciato perché la sentenza richiesta dal privato sarebbe un'invasione di campo nei poteri dell'amministrazione al di fuori delle ipotesi tassative di giurisdizione di merito previste dall'articolo 134 Cpa.
L'inerzia, tuttavia, può costare cara all'amministrazione. Rischia che arrivi il commissario dalla prefettura a far abbattere l'abuso edilizio il comune che fa finta di non vederlo dopo la comunicazione di inizio lavori asseverata: la presentazione della Cila, infatti, non dispensa l'ente locale dall'esercitare i suoi poteri repressivi contro le irregolarità, mentre risulta illecita la condotta dell'amministrazione che non riscontra entro 30 giorni la diffida del vicino, il quale punta alla demolizione della veranda.
È quanto si legge nella sentenza 522/2017, pubblicata dalla settima sezione del Tar Campania, «Accolto il ricorso del condomino, atto che va qualificato come soggetto al rito del silenzio ex articoli 31 e 117 Cpa».
Sbaglia l'ente locale a non compiere entro un mese le verifiche sulla Cila richieste nella diffida perché il parere della Soprintendenza allegato parla chiaro: va ridimensionato il terrazzo che costituisce la copertura della veranda. Soltanto così si può ottenere la sanatoria. Risulta quindi illegittimo il silenzio serbato dal comune perché dai documenti emerge che il manufatto è abusivo, mentre l'ente locale è deputato al controllo del territorio in base all'articolo 27 del Testo unico sull'edilizia e doveva dunque controllare la sussistenza dei requisiti per la Cila. Insomma: non soltanto l'amministrazione deve riscontrare la diffida entro trenta giorni, ma nello stesso termine deve ordinare la demolizione della veranda e del terrazzo soprastante. E se non provvederà sarà «commissariato» da un funzionario della prefettura.
Il comune, comunque, non può bloccare i lavori avviati con Cila per dividere in tre l'appartamento in centro invocando la contrarietà al regolamento urbanistico dell'ente: l'attività edilizia libera, infatti, rientra ormai nella manutenzione ordinaria e straordinaria che soltanto in casi eccezionali risulta soggetta alle prescrizioni degli strumenti urbanistici. D'altronde il frazionamento dell'immobile non incrementa il carico urbanistico ammesso nella zona né incide sull'aspetto esteriore dell'edificio.
È quanto emerge dalla sentenza 1625/2016, pubblicata dalla terza sezione del Tar Toscana, che ha accolto il ricorso proposto dal proprietario dell'appartamento da suddividere: è annullato il regolamento urbanistico del comune nella parte in cui vieta l'aumento di unità immobiliari nell'ambito di operazioni di frazionamento che costituiscono manutenzione straordinaria ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera c), del testo unico dell'edilizia.
Non si capisce, osservano dunque i giudici, quali siano le superiori ragioni di interesse pubblicano che spingono il comune a stoppare di fatto la Cila
(articolo ItaliaOggi Sette del 02.12.2019).

TRIBUTIImposta sulla Pubblicità ridotta sui cartelli a due facce nei carrelli della spesa se il messaggio è lo stesso.
La pubblicità effettuata tramite messaggi pubblicitari di identico contenuto e riferiti al medesimo soggetto, riportati sui cartelli mobili bifacciali posti fronte-retro su ogni carrello della spesa presso supermercati o centri commerciali, va considerata come se effettuata su un unico mezzo pubblicitario.

Con l'ordinanza 18.09.2019 n. 23240, la Corte di Cassazione -Sez. V civile- è intervenuta in tema di imposta sulla pubblicità per chiarire che ogni cartello pubblicitario esposto sui carrelli della spesa non ha autonoma rilevanza ai fini del calcolo della superficie imponibile ma che vi siano invece i presupposti per l'applicazione del Dlgs 507/1993, articolo 7, comma 5, in quanto la pluralità dei cartelli assolve a un'unitaria funzione pubblicitaria di un determinato soggetto.
È quindi irrilevante che il messaggio pubblicitario sia apposto su differenti carrelli, ove questi siano nei pressi di un medesimo supermercato o centro commerciale e riguardino il medesimo soggetto, in quanto in questo caso possono considerarsi un unico messaggio pubblicitario.
La controversia
La questione da chiarire alla base della controversia è se la pubblicità realizzata attraverso cartelli mobili bifacciali posti fronte-retro in ogni carrello della spesa presso supermercati o centri commerciali sia o meno da considerarsi quale diffusione di messaggi collocati in connessione tra loro e se, quindi, agli effetti del calcolo della superficie pubblicitaria, i cartelli debbano o meno intendersi come un unico mezzo pubblicitario.
La decisione
Nell'affrontare la questione i giudici aderiscono all'orientamento consolidato della Suprema Corte secondo cui: «In tema di imposta sulla pubblicità, il D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 7, comma 5, considera come un unico mezzo pubblicitario, agli effetti del calcolo della superficie imponibile, una pluralità di messaggi che presentino un collegamento strumentale inscindibile fra loro ed abbiano identico contenuto, anche se non siano tutti collocati in un unico spazio o in un'unica sequenza».
Secondo questo orientamento, l'intento del legislatore è quello di evitare che l'imposta colpisca singolarmente pluralità di messaggi che ne integrano funzionalmente uno solo.
Il collegio ha condiviso il principio secondo cui il requisito del collegamento funzionale tra i vari messaggi non richieda necessariamente la contiguità fisica dei mezzi pubblicitari che, al limite, lo può solo testimoniare ma non condizionare. Per l'applicazione dell'imposta in forma ridotta è necessario, in primo luogo, che i mezzi pubblicitari siano di identico contenuto o riferiti a un medesimo soggetto e, in secondo luogo, che siano in collegamento funzionale tra loro, indipendentemente dall'allocazione dei mezzi utilizzati (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'11.10.2019).

APPALTIICI, la pianificazione urbanistica regionale prevale sul Prg.
Lo strumento di pianificazione urbanistica regionale prevale sulle prescrizioni del piano regolatore generale. Di conseguenza, se un terreno è sottoposto ad un vincolo regionale di inedificabilità assoluta, in quanto destinato a verde pubblico, lo stesso non sarà assoggettabile a Ici, anche se risulta inserito nel piano regolatore generale quale terreno edificabile.

Questo è quanto emerge dalla sentenza 18.09.2019
n. 23206 della Sez. V civile della Corte di Cassazione.
Il caso
La controversia ha preso le mosse dall'impugnazione di un avviso di accertamento con cui la società concessionaria delle entrate tributarie del Comune di Pomezia ha chiesto il pagamento dell'imposta Ici per l'annualità 2004, in relazione a un terreno edificabile inserito nel piano regolatore generale. Il ricorrente ha sostenuto l'esistenza di un vincolo regionale di inedificabilità assolutache, in quanto terreno con destinazione a «verde pubblico», in conseguenza del quale il pagamento dell'imposta non è dovuto.
In primo grado la Commissione tributaria ha accolto il ricorso, mentre in appello i giudici tributari hanno ritenuto che la mera circostanza dell'inserimento nel piano regolatore generale rende tale terreno assoggettabile all'Ici, restando irrilevante il vincolo regionale.
La decisione
Giunta la questione in Cassazione, il ricorrente ha sottolineato l'illogicità di assoggettare a Ici un terreno inedificabile per l'esistenza di un vincolo regionale. La Suprema corte condivide tale tesi e accoglie il ricorso originariamente proposto dal contribuente. Ebbene, i giudici di legittimità ricordano come è sì vero che ai fini Ici è sufficiente l'inclusione del terreno nel piano regolatore generale, ma è altrettanto necessario raffrontare quest'ultimo provvedimento con il piano paesaggistico regionale. Per il Collegio, infatti, le prescrizioni regionali prevalgono sempre sulla pianificazione urbanistica comunale, come si desume chiaramente dall'articolo 145 del Dlgs 42/2004.
Pertanto, un'area ancorché edificabile secondo il piano regolatore comunale, può non esserlo «all'esito della valutazione complessiva ed integrata di quest'ultimo con lo strumento di pianificazione paesaggistica e ambientale regionale. In altri termini, spiega la Corte, l'errore dei giudici di merito è stato quello di affermare genericamente l'irrilevanza di qualsiasi vincolo, senza dare rilevanza ai vincoli di inedificabilità assoluta, nella specie derivanti dallo strumento regionale, avente portata prevalente sul piano regolatore comunale, come tali idonei ad escludere la natura edificabile dell'area interessata» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.09.2019).

TRIBUTITARI sul garage anche senza luce.
I box auto sono soggetti al pagamento della tassa sui rifiuti, indipendentemente dal loro allaccio alla rete elettrica. Ciò che conta infatti è la potenziale utilizzabilità del locale o dell'area.

Questo è quanto ha recentemente affermato la Corte di Cassazione, Sez. V civile, nella sentenza 17.09.2019 n. 23058.
La questione esaminata
La Corte di cassazione ha esaminato la vicenda relativa all'applicabilità della Tarsu sui garage delle abitazioni. In particolare, il contribuente oggetto di accertamento da parte del comune sosteneva che il box auto non fosse da assoggettare al prelievo in quanto non produttivo di rifiuti, non essendo peraltro allacciato alla rete elettrica.
La Corte di cassazione ha sconfessato tale tesi, in aderenza al consolidato orientamento in base al quale "non si vede sotto quale profilo la destinazione di locali a cantine o a garages potrebbe farli considerare esclusi dalla possibilità di produrre rifiuti, in quanto le aree adibite a parcheggio di autovetture o quelle utilizzate come deposito, quali le cantine, sono aree frequentate da persone e, quindi, produttive di rifiuti in via presuntiva" (Cass. 2634/2017; Cass. n. 14770/2000; Cass. n. 5047/2015; Cass. n. 2202/2011; Cass. 11351/ 2012).
La potenzialità a produrre rifiuti
Ciò che conta, ai fini dell'applicazione del tributo, è la potenzialità di produzione dei rifiuti nei locali e nelle aree possedute o detenute. Quanto sopra valeva nella tarsu, così come oggi nella tari ai sensi dell'art. 1, comma 641, della L. 147/2013 il quale stabilisce: "il presupposto della TARI è il possesso o la detenzione a qualsiasi titolo di locali o di aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti urbani".
La Corte ha ritenuto che non sia una prova idonea a dimostrare l'oggettiva impossibilità di produrre rifiuti il fatto che il garage non è allacciato alla rete elettrica. Circostanza che potrebbe limitare il suo utilizzo alle sole ore diurne, ma non impedisce di per se che nel locale possano generarsi rifiuti.
Decisione in linea col passato
La decisione della Corte è conforme a numerose altre della Cassazione.
Peraltro la Corte ha anche ritenuto che non fosse valida la giustificazione fornita dal contribuente relativa al fatto che la superficie mancante del garage, non inserita nella dichiarazione del tributo, rientrava nella "tolleranza" contenuta nell'art. 70 del D.Lgs. 507/1993. Tale norma stabiliva che la superficie di riferimento non poteva in ogni caso essere inferiore all'80 per cento della superficie catastale determinata secondo i criteri stabiliti dal regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23.03.1998, n. 138. Tuttavia, l'osservazione è irrilevante poiché la superficie tassabile della tarsu rimaneva quella calpestabile dei locali e delle aree, rappresentando l'80% della superficie catastale solo un limite minimo da dichiarare.
Oggi nella tari la superficie tassabile è ancora quella calpestabile, almeno fino a quando non sarà completato il processo di allineamento tra dato catastale e dato toponomastico di ogni singola unità immobiliare (art. 1, comma 645, L. 147/2013). Ferma restando la facoltà per il comune di utilizzare il dato catastale in sede di accertamento, seppure con valenza presuntiva.
Omessa o infedele denuncia?
Nella sentenza viene anche affrontata la questione relativa alla tipologia di violazione commessa dal contribuente che non ha inserito il garage nella dichiarazione del tributo, insieme all'abitazione. Infatti, il contribuente lamentava il fatto che si trattasse in questo caso di denuncia incompleta e non di una dichiarazione omessa. La Corte ha invece evidenziato che "non si tratta di una dichiarazione incompleta non sanzionabile in quanto relativa a superficie inferiore al limite di tolleranza, ma, come sopra chiarito, di una omessa denuncia di autonoma unità immobiliare tassabile".
In altri termini, al fine di valutare l'omissione o l'infedeltà della denuncia la Corte fa riferimento alla singola unità immobiliare, seguendo un principio già consolidato nell'ICI (Cassazione, n. 932 del 16/01/2009 – 5927/2010- 8849 del 14/04/2010). Occorre però considerare che, almeno fino ad alcuni anni fa, era prassi degli uffici tributi far inserire nella dichiarazione dell'abitazione anche le superfici delle pertinenze, quantomeno fino a quando non ha avuto rilievo anche nella tarsu il dato catastale dell'immobile. Dato oggi invece obbligatorio nella dichiarazione della TARI (art. 1, comma 685, L. 147/2013), nella quale quindi l'unità impositiva minima, anche ai fini dell'individuazione della violazione di omessa denuncia, è senz'altro l'unità immobiliare.
Conclusioni
La decisione della Corte è in linea con il dettato normativo della tarsu, peraltro del tutto analogo nella tari, ed ha il pregio di chiarire che nel caso dei box auto la prova dell'improduttività potenziale dei rifiuti non deriva dal semplice mancato allacciamento alle utenze (specie elettrica), ma richiede una situazione di sostanziale inutilizzabilità del locale, per motivazioni di carattere oggettivo (ad esempio inagibilità, inaccessibilità, degrado, ecc.).
In altri termini, non basta che il locale non sia utilizzato dal contribuente, ma occorre che lo stesso si presenti in una situazione di obiettiva inutilizzabilità, il cui onere probatorio grava sul contribuente (da ultimo, Cassazione, ordinanza n. 22705 del 11/09/2019) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.09.2019).

EDILIZIA PRIVATALe «tensostrutture» sono opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera, senza necessità del preventivo rilascio del permesso di costruire, solo quando sono funzionali a soddisfare esigenze contingenti e temporanee e destinate ad essere immediatamente rimosse entro un termine non superiore ai novanta giorni.
Ciò posto,
è irrilevante, ai fini del giudizio sulla temporaneità o stabilità della «tensostruttura», la tipologia dei materiali utilizzati. Costituisce, infatti, principio assolutamente consolidato in giurisprudenza quello secondo cui, in materia edilizia, ai fini del riscontro del connotato della precarietà e della relativa esclusione della modifica dell'assetto del territorio, non sono rilevanti le caratteristiche costruttive, i materiali impiegati e l'agevole rimovibilità, ma le esigenze temporanee alle quali l'opera eventualmente assolva.
---------------
L'ignoranza della legge penale incriminatrice, a norma dell'art. 5 cod. pen., a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 364 del 1988, rileva solo se «inevitabile».
Nella specie,
non può invocarsi l'ignoranza inevitabile della legge penale con riferimento alla realizzazione di una «tensostruttura» da parte di chi è titolare di una ditta specializzata nella realizzazione di opere di tale natura.
Ed invero,
ad identiche conclusione è pervenuta la giurisprudenza in fattispecie analoghe. In particolare, si può richiamare il precedente relativo al caso di realizzazione abusiva di un impianto di serra che, per le sue caratteristiche, necessiti di concessione edilizia: si è affermato che in tale ipotesi non può essere escluso il reato sotto il profilo soggettivo, per errore sulla non necessità della concessione edilizia, perché nemmeno in virtù del criterio della ignoranza inevitabile, teorizzato nella sentenza 24.03.1988, n. 364, della Corte costituzionale, è lecito scusare chi eserciti una impresa agricola, ancorché piccola (cioè una attività professionale assistita anche da organizzazioni di categoria) senza informarsi delle leggi penali che disciplinano la materia.
---------------

1. Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito precisate.
2. Infondate sono le censure formulate nel primo motivo, che contestano la qualificazione del fatto come illecito penale, deducendo che l'opera realizzata ha natura non definitiva, è facilmente rimuovibile, e consiste in una «tensostruttura», ossia in un manufatto espressamente indicato come oggetto di attività edilizia libera nel D.M. Ministero Infrastrutture 02.03.2018, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 07.04.2018.
2.1. Ai fini della soluzione della questione appena indicata, occorre preliminarmente chiarire quale sia il significato della previsione delle opere qualificabili come «tensostruttura» da parte del D.M. cit. tra quelli oggetto di attività edilizia libera.
Il D.M. Ministero Infrastrutture 02.03.2018, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 07.04.2018, riporta il «glossario» relativo alle opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera «in fase di prima attuazione dell'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 25.11.2016, n. 222», il quale aveva previsto la formazione di un «glossario unico, che contiene l'elenco delle principali opere edilizie, con l'individuazione della categoria di intervento a cui le stesse appartengono e del conseguente regime giuridico a cui sono sottoposte».
Di conseguenza, è ragionevole ritenere che le opere previste nelle tipologie elencate nel glossario si individuano non in astratto, ma solo se sussumibili nella «categoria di intervento a cui le stesse appartengono», ossia in una delle categorie previste dalla legge. Del resto, deve considerarsi, da un lato, che un decreto ministeriale non può derogare a disposizioni di legge, salvo il caso di delegificazione espressa, e, dall'altro, che lo stesso «glossario» si cura di abbinare analiticamente le opere edilizie da esso previste alle categorie di intervento contemplate dall'art. 6 del d.lgs. n. 380 del 2001 come oggetto di attività edilizia libera.
In particolare, per quanto di specifico interesse in questa sede, il «glossario» prevede sì le «tensostrutture» come opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera, ma in riferimento alla categoria di intervento di cui alla lett. e-bis) dell'art. 6 d.P.R. n. 380 del 2001, la quale, riformulata proprio dalla legge n. 222 del 2016, ha riguardo alle «opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni, previa comunicazione di avvio lavori all'amministrazione comunale».
Sembra quindi corretto concludere che le «tensostrutture» sono opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera, senza necessità del preventivo rilascio del permesso di costruire, solo quando sono funzionali a soddisfare esigenze contingenti e temporanee e destinate ad essere immediatamente rimosse entro un termine non superiore ai novanta giorni.
Ciò posto, poi, è irrilevante, ai fini del giudizio sulla temporaneità o stabilità della «tensostruttura», la tipologia dei materiali utilizzati. Costituisce, infatti, principio assolutamente consolidato in giurisprudenza quello secondo cui, in materia edilizia, ai fini del riscontro del connotato della precarietà e della relativa esclusione della modifica dell'assetto del territorio, non sono rilevanti le caratteristiche costruttive, i materiali impiegati e l'agevole rimovibilità, ma le esigenze temporanee alle quali l'opera eventualmente assolva (cfr. tra le tante, Sez. 3, n. 966 del 26/11/2014, dep. 2015, Manfredini, Rv. 261636-01, relativa ad una stalla costruita con pali in legno saldamente ancorati al suolo e copertura in lamiera per soddisfare esigenze permanenti e durature nel tempo, e Sez. 3, n. 22054 del 25/02/2009, Frank, Rv. 243710-01).
2.2. Nel caso di specie, la sentenza impugnata ha evidenziato che la «tensostruttura», realizzata in difetto di permesso di costruire, aveva caratteristiche di stabilità e non certo di temporaneità o di transitorietà, in considerazione delle sue caratteristiche tipologiche e funzionali.
In particolare, si è evidenziato che l'opera: a) era realizzata con tubolari in metallo ed aveva copertura con tendone plastificato retrattile; b) "copriva" una superficie di 30 metri per 9,30, con altezza variabile tra 2,40 metri e 3,85 metri; c) era addossata ed imbullonata alla parete esterna di un fabbricato nella parte superiore; d) era inoltre appoggiata a piantane metalliche nella parte inferiore, le quali, a loro volta, erano in attesa di essere stabilmente fissate su di una sottostante platea di cemento; e) necessitava dell'ancoraggio stabile al suolo e del fissaggio definitivo a parete per le sue «poderose» dimensioni; f) era funzionale allo svolgimento dell'attività di ristorazione esercitata nei contigui locali in muratura.
2.3. Le conclusioni della sentenza impugnata sono correttamente motivate.
Invero, si è osservato che le «tensostrutture» sono opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera, senza necessità del preventivo rilascio del permesso di costruire, solo quando sono funzionali a soddisfare esigenze contingenti e temporanee e destinate ad essere immediatamente rimosse entro un termine non superiore ai novanta giorni, e che, ai fini del giudizio sulla precarietà delle stesse, è irrilevante la tipologia dei materiali impiegati. Si è dato conto, inoltre, della consistenza e delle funzioni dell'opera indicata in contestazione, nei termini puntualmente descritti dal giudice di merito.
Sulla base di queste premesse, non può dirsi certo lacunosa o manifestamente illogica la conclusione secondo cui la «tensostruttura» in questione non è inquadrabile tra gli interventi di cui alla lett. e-bis) dell'art. 6 d.P.R. n. 380 del 2001, ma poteva essere realizzata solo dopo l'acquisizione del permesso di costruire; di conseguenza, è immune da vizi l'affermazione della sussistenza del reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001.
3. Manifestamente infondate sono le censure che contestano l'affermazione della sussistenza dell'elemento soggettivo del reato, deducendo la bassissima scolarità del ricorrente e la sua fiducia nelle indicazioni ricevute dall'architetto del committente.
Invero, l'ignoranza della legge penale incriminatrice, a norma dell'art. 5 cod. pen., a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 364 del 1988, rileva solo se «inevitabile».
Nella specie, come correttamente osservato dalla sentenza impugnata, non può invocarsi l'ignoranza inevitabile della legge penale con riferimento alla realizzazione di una «tensostruttura» da parte di chi è titolare di una ditta specializzata nella realizzazione di opere di tale natura.
Ed invero, ad identiche conclusione è pervenuta la giurisprudenza in fattispecie analoghe. In particolare, si può richiamare il precedente relativo al caso di realizzazione abusiva di un impianto di serra che, per le sue caratteristiche, necessiti di concessione edilizia: si è affermato che in tale ipotesi non può essere escluso il reato sotto il profilo soggettivo, per errore sulla non necessità della concessione edilizia, perché nemmeno in virtù del criterio della ignoranza inevitabile, teorizzato nella sentenza 24.03.1988, n. 364, della Corte costituzionale, è lecito scusare chi eserciti una impresa agricola, ancorché piccola (cioè una attività professionale assistita anche da organizzazioni di categoria) senza informarsi delle leggi penali che disciplinano la materia (Sez. 3, n. 6968 del 02/05/1988, Cecere, Rv. 178593-01) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.09.2019 n. 38473).

APPALTI SERVIZI: Società in house, decide la Corte dei Conti anche senza affidamento diretto.
La giurisdizione della Corte dei conti si estende alla società in house, anche se essa ha ottenuto la gestione del servizio non già in base a un affidamento diretto, bensì in forza di un contratto d'appalto stipulato in esito a una procedura di gara.
Questo il principio affermato dalle Sezz. unite civili della Corte di Cassazione con la sentenza 30.08.2019 n. 21871, che ha confermato il danno erariale, per l'importo di 200 mila euro oltre accessori, a carico di una società in house titolare della gestione del servizio rifiuti sul territorio comunale, a causa della prolungata omissione della raccolta differenziata dei rifiuti.
Il fatto
Il danno emerso in relazione a questa fattispecie era stato configurato dalla Corte dei conti I sezione giurisdizionale centrale d'appello sotto il duplice profilo del mancato raggiungimento delle percentuali minime prescritte e del mancato introito della vendita di materiale riciclabile, tenuto conto altresì dei maggiori costi di smaltimento dei rifiuti conferiti in discarica.
La società in house ha impugnato la sentenza con ricorso in Cassazione sollevando un'eccezione connessa al titolo che legittimava la gestione del servizio pubblico svolto a favore del Comune, che non era costituito da un affidamento diretto in base all'articolo 16 del Dlgs 175/2016 e articolo 5 del Dlgs 50/2016, bensì dall'aggiudicazione di un appalto al quale la società aveva partecipato in qualità di mandataria in Ati con un'altra impresa del settore.
Sotto questo profilo, la difesa della società ha argomentato in giudizio che la Corte d'appello avrebbe erroneamente desunto la sussistenza di un rapporto di servizio «senza tenere conto che nella specie il rapporto tra [la società] e il Comune (…) avrebbe natura contrattuale privatistica essendo derivato da un contratto di appalto pubblico, non da un provvedimento amministrativo di concessione».
La sentenza
L'argomentazione non è stata condivisa dalla Cassazione che ha rigettato il ricorso proposto confermando in toto il verdetto di condanna.
Il punto è che la giurisdizione contabile nei confronti delle società in house non si radica, sotto il profilo giuridico, esclusivamente in base al «controllo analogo» e al disposto di cui all'articolo 12, comma 1, del Dlgs 175/2016, che fa «salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house».
Infatti, secondo i principi generali il presupposto che legittima la giurisdizione contabile permane il rapporto di servizio con un soggetto terzo legato da un vincolo giuridico con la Pubblica amministrazione.
Si osserva che la responsabilità amministrativa si configura, di norma, in relazione a una condotta dolosa o gravemente colposa, posta in essere da un soggetto collegato da un rapporto di servizio con la Pa, che abbia causato un danno risarcibile quale conseguenza diretta della condotta stessa.
Ciò che rileva, ai fini della responsabilità amministrativa, non è tanto la violazione di legittimità in cui sia incorso un atto o di un comportamento posto in essere da pubblici funzionari e/o amministratori, quanto il fatto che da un loro comportamento sia sostanzialmente derivato un danno patrimoniale per l'ente.
Rispetto al danno erariale emerso si rileva, per inciso, che esso può essere diretto o indiretto, a seconda che l'ente pubblico abbia subito direttamente il danno da un proprio amministratore o dipendente, oppure, nel caso di danno indiretto, allorché l'ente debba risarcire soggetti terzi, in ragione del danno cagionato da propri amministratori o dipendenti.
Ricollegandosi alla nozione del rapporto di servizio, i giudici sostengono che questo presupposto ricorre «allorché un ente privato esterno all'amministrazione venga incaricato di svolgere, nell'interesse di quest'ultima e con risorse pubbliche, un'attività o un servizio pubblico in sua vece, in tal modo inserendosi pur temporalmente nell'apparato organizzativo della Pa».
Da questo punto di vista, sottolinea il collegio, «resta irrilevante il titolo in base al quale la gestione è svolta, che può consistere in un rapporto di pubblico impiego o di servizio, in una concessione amministrativa, in un contratto e perfino mancare del tutto».
Da quanto sopra esposto deriva che, integrando certamente un rapporto di servizio con la Pa lo svolgimento continuativo del servizio di raccolta rifiuti sul territorio, la condanna alla società in house è stata confermata (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 13.09.2019).

EDILIZIA PRIVATAIn via generale, per consolidata giurisprudenza, la posa di una recinzione -manufatto essenzialmente destinato a delimitare una determinata proprietà allo scopo di separarla dalle altre, di custodirla e difenderla da intrusioni- è solo diretta a far valere lo ius excludendi alios che costituisce il contenuto tipico del diritto dominicale, di talché anche la presenza di un vincolo dello strumento pianificatorio non può incidere (di per sé) negativamente sulla potestà del dominus di chiudere in qualunque tempo il proprio fondo ai sensi dell' art. 841 c.c..
Il titolo abilitativo edilizio non risulta quindi necessario per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie e cioè per la mera recinzione con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno, priva di muretti di sostegno, in quanto entro tali limiti il manufatto rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà.
Una specifica autorizzazione risulta necessaria solo nell’ipotesi in cui sull’area sia imposto un vincolo paesaggistico e comunque solo se sia accertato che non si tratti della mera sostituzione di un’opera preesistente, nel qual caso non è richiesto il rilascio di alcuna autorizzazione, in quanto riconducibile, ai sensi dell'art. 149, comma 1, d.lgs. n. 42/2004, nell'alveo degli interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria.
---------------

Deduce in proposito la ricorrente che debba essere escluso che per la recinzione e le opere connesse fosse necessario il rilascio del permesso di costruire, attesa l’assenza di rilevanza edilizia delle medesime.
In dettaglio si lamenta che la recinzione in pali di ferro infissi direttamente nel terreno e la rete metallica con il relativo cancello in legno vanno annoverate nell’ambito dell’attività edilizia libera ex artt. 137, comma 1, n. 7, e 136, comma 1, lett. g) l.reg. n. 65/2014.
Si assume, inoltre, che gli elementi infissi nel suolo sul lato strada della proprietà si sono resi necessari all’esclusivo fine di contenimento del rialzo del piano stradale per circa 50 cm. eseguito dal Comune a ridosso della recinzione stessa.
La tesi merita condivisione.
In via generale, per consolidata giurisprudenza, la posa di una recinzione -manufatto essenzialmente destinato a delimitare una determinata proprietà allo scopo di separarla dalle altre, di custodirla e difenderla da intrusioni- è solo diretta a far valere lo ius excludendi alios che costituisce il contenuto tipico del diritto dominicale, di talché anche la presenza di un vincolo dello strumento pianificatorio non può incidere (di per sé) negativamente sulla potestà del dominus di chiudere in qualunque tempo il proprio fondo ai sensi dell' art. 841 c.c..
Il titolo abilitativo edilizio non risulta quindi necessario per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie e cioè per la mera recinzione con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno, priva di muretti di sostegno, in quanto entro tali limiti il manufatto rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà (TAR Lombardia, Brescia, sez. II , 25/09/2018, n. 907; TAR Lazio, sez. II, 04/09/2017, n. 9529; TAR Campania, Salerno, sez. II, 11/09/2015 n. 1902; TAR Umbria, 18/08/2016 n. 571).
Una specifica autorizzazione risulta necessaria solo nell’ipotesi in cui sull’area sia imposto un vincolo paesaggistico (titolo che tuttavia, come si è visto, è stato nel frattempo richiesto dalla ricorrente) e comunque solo se sia accertato che non si tratti della mera sostituzione di un’opera preesistente, nel qual caso non è richiesto il rilascio di alcuna autorizzazione, in quanto riconducibile, ai sensi dell'art. 149, comma 1, d.lgs. n. 42/2004, nell'alveo degli interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria (TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 25/09/2018, n. 907).
Peraltro è la stessa amministrazione a rilevare che “le sanzioni paesaggistiche … sono assorbite dall’ingiunzione di demolizione prevedendo entrambe le norme il ripristino… dovendosi ritenere prevalente la più severa sanzione edilizia”.
Priva di pregio, giacché sfornita di supporto normativo, si palesa poi l’affermazione del Comune secondo cui l’assenza di rilevanza edilizia delle recinzioni sarebbe ammissibile a condizione che esse delimitino giardini e spazi pertinenziali.
E’ sufficiente in proposito rinviare a quanto disposto dall’art. 137, co. 1, n. 7, l.reg. n. 65/2014 secondo cui “Sono privi di rilevanza urbanistico-edilizia …7) le recinzioni realizzate in rete con sostegni semplicemente infissi al suolo senza opere murarie e le staccionate in legno semplicemente infisse al suolo”.
Quanto a quello che nel provvedimento viene definito un “piccolo cordolo di cemento lato strada” la relazione depositata dall’amministrazione non reca alcun ulteriore apporto conoscitivo così che pare ragionevole ritenere confermata la tesi di parte secondo cui si tratti in realtà di “elementi prefabbricati in calcestruzzo, semplicemente appoggiati per far fronte all’esigenza di contenere lo smottamento del terreno”.
Ciò comporta, in relazione al materiale utilizzato e alla facile amovibilità dello stesso, che anche per tale aspetto dell’opera non fosse necessario il rilascio di uno specifico titolo edilizio.
Segue da quanto esposto che il ricorso va accolto per quanto ancora di interesse, per l’effetto annullando in parte qua il provvedimento impugnato (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 22.08.2019 n. 1208 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

SEGRETARI COMUNALISegretari comunali, niente risarcimento danni per la revoca delle funzioni senza fatti specifici.
Impostata per rigettare il ricorso con il quale un segretario comunale chiedeva di essere reintegrato a seguito di revoca per violazione dei doveri di ufficio, la sentenza 02.08.2019 n. 20842 della Sez. lavoro della Corte di Cassazione offre spunti importanti sulla disciplina del rapporto di lavoro dei segretari.
Il rapporto di lavoro
La vicenda ha coinvolto un segretario comunale il cui incarico è stato revocato prima della scadenza per violazione dei doveri d'ufficio. Il Tribunale, a cui ha fatto ricorso, ha annullato il provvedimento di revoca, respinto la domanda di reintegra e accolto parzialmente quella risarcitoria. La decisione è stata confermata in appello. È stata quindi chiamata in causa la Suprema Corte che, nell'esaminare il primo motivo relativo al coinvolgimento del ministero dell'Interno nel processo, ripercorre i principi che regolano il rapporto di lavoro dei segretari comunali:
   a) il rapporto di impiego è caratterizzato dalla non coincidenza dell'amministrazione datrice di lavoro (Agenzia) con quella che ne utilizza le prestazioni (Comune o Provincia);
   b) in ragione di questa distinzione, nelle controversie giudiziarie non sussiste una situazione di litisconsorzio necessario con l'Agenzia;
   c) tutti gli atti di gestione del rapporto di lavoro rappresentano manifestazione di poteri propri del privato datore di lavoro;
   d) la non coincidenza dell'amministrazione datrice di lavoro con quella presso la quale il segretario presta servizio può tuttavia avere quale conseguenza che entrambi i soggetti siano stati tenuti a cooperare per consentire al dipendente di riprendere la propria prestazione lavorativa e che l'inadempimento di ciascuna delle proprie e specifiche obbligazioni generi l'obbligazione risarcitoria.
La fiduciarietà
La Cassazione ha rilevato che tra cessazione del mandato sindacale e cessazione dell'incarico non vi è alcun automatismo. Ricorda in particolare che la dipendenza funzionale del segretario dall'organo di vertice dell'ente locale si traduce nella configurazione di un rapporto caratterizzato dall'elemento fiduciario, che si esprime nella regola secondo cui la nomina ha durata corrispondente a quella del mandato del sindaco o del presidente della provincia che lo ha nominato, con cessazione automatica dall'incarico con la fine del mandato. Il procedimento di nomina, come la revoca, ha natura negoziale di diritto privato.
Non sussiste dunque alcun diritto soggettivo alla riconferma, posto che il segretario è destinato a cessare automaticamente al mutare del sindaco/presidente, ma c'è la garanzia della stabilità del suo status giuridico ed economico e del suo rapporto d'ufficio restando iscritto all'albo nazionale anche dopo la mancata conferma.
Danno alla professionalità
I giudici poi hanno esaminato il motivo secondo cui la perdita delle mansioni e il collocamento in disponibilità fossero già significativi del danno alla professionalità affermando che, se è vero che il demansionamento può essere foriero di danni alla dignità professionale del lavoratore, è del pari vero che non lo sono di per sé e devono essere dimostrati da chi si ritiene danneggiato.
Il risarcimento del danno professionale non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può per questo prescindere da una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio. Non è allora sufficiente a fondare una corretta inferenza presuntiva il semplice richiamo di categorie generali (nel caso di specie la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la gravità del demansionamento, la sua durata), ma occorre una precisa individuazione dei fatti idonei e rilevanti.
La retribuzione
Circa il mancato riconoscimento della maggiorazione della retribuzione di posizione, la Cassazione ha ricordato che il contratto fa riferimento anche a ulteriori condizioni che devono ricorrere affinché possa essere pretesa, con rinvio alla contrattazione decentrata integrativa nazionale in modo che la disposizione contrattuale non può far sorgere il diritto soggettivo a una equiparazione che prescinda del tutto dalla disponibilità delle risorse, perché ciò equivarrebbe a legittimare spese non compatibili con le capacità dell'ente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 13.09.2019).
---------------
MASSIMA
E' comunque opportuno ricordare che
la disciplina del rapporto di lavoro dei segretari comunali è stata ripetutamente interpretata dalla giurisprudenza di questa Corte (v. in particolare Cass. 15.05.2012, n. 7510) che ha delineato i seguenti principi:
   a)
il rapporto di impiego di questi dipendenti è sempre stato caratterizzato dalla non coincidenza dell'amministrazione datrice di lavoro con quella che ne utilizza le prestazioni (così Cass., Sez. Un., 20.06.2007, n. 14288); con l'importante riforma del relativo ordinamento introdotta dalla l. n. 127 del 1997 e dal d.P.R. n. 465 del 1997 (le cui norme sono state, poi, trasfuse nel d.lgs. 18.08.2000, n. 267 Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, contenente il regime definitivo), l'amministrazione datrice di lavoro dei segretari è diventata l'Agenzia autonoma per la gestione dell'albo dei segretari comunali e provinciali, avente personalità giuridica di diritto pubblico (d.lgs. n. 267 del 2000, art. 102, oggi abrogato a seguito dell'intervenuta soppressione dell'Agenzia per effetto del d.l. n. 78 del 2010, convertito con legge n. 122 del 2010);
   b)
è rimasta confermata la peculiarità della non coincidenza -di regola, salvo i pochi casi di permanenza in disponibilità, con utilizzazione diretta da parte dell'Agenzia, ai sensi del d.P.R. n. 465 del 1997, art. 7, comma 1,- dell'amministrazione datrice di lavoro (Agenzia) con quella che ne utilizza le prestazioni (Comune o Provincia);
   c)
in ragione di tale distinzione, nelle controversie giudiziarie relative al rapporto tra segretario comunale ed ente utilizzatore non sussiste una situazione di litisconsorzio necessario con la predetta Agenzia (v. Cass. 16.07.2010, n. 16698; Cass. 11.08.2016, n. 17065);
   d)
tutti gli atti di gestione del rapporto di lavoro del segretario comunale, compresi quelli posti in essere dall'amministrazione locale nell'ambito del rapporto di lavoro con la stessa instaurata (tra cui la revoca dall'incarico ai sensi della l. 15.05.1997, n. 127, art. 17, comma 71), rappresentano manifestazione di poteri propri del privato datore di lavoro (così Cass., Sez. Un., 24.05.2006 n. 12224);
   e)
la non coincidenza dell'amministrazione datrice di lavoro con quella presso la quale il segretario presta servizio può tuttavia avere quale conseguenza che entrambi tali soggetti, ciascuno per la propria parte, siano stati tenuti a cooperare per consentire al dipendente di riprendere la propria prestazione lavorativa e che l'inadempimento di ciascuna di tali proprie e specifiche obbligazioni generi l'obbligazione risarcitoria di cui all'art. 1218 cod. civ. (questa Corte, infatti, ha da tempo affermato che è da riconoscere al privato una tutela piena nei confronti di un atto che appartiene alla gestione di un rapporto di lavoro assunto dalla PA con le capacità e i poteri del datore di lavoro privato: vedi, per tutte: Cass., Sez. Un., 19.10.1998, n. 10370; Cass., Sez. Un., 16.02.2009, n. 3677; Cass. 03.03.2012, n. 3419).
...

4. Il motivo è infondato.
Va innanzitutto ricordato che
la dipendenza funzionale del segretario dall'organo di vertice dell'ente locale (competente per la nomina e la revoca) si traduce nella configurazione di un rapporto caratterizzato dall'elemento fiduciario, che si esprime nella regola secondo cui la nomina ha durata corrispondente a quella del mandato del sindaco o del presidente della provincia che lo ha nominato, con cessazione automatica dall'incarico con la fine del mandato, pur dovendo il titolare della carica continuare ad esercitare le funzioni sino alla nomina del nuovo segretario (d.lgs. n. 267/2000, art. 99, comma 2).
La nomina è disposta non prima di sessanta giorni e non oltre centoventi giorni dalla data di insediamento del sindaco e del presidente della provincia, decorsi i quali il segretario già in carica è confermato (art. 99, comma 3). A tal fine il sindaco, o il presidente della provincia, individua il nominativo del segretario prescelto, a norma delle disposizioni contenute nell'articolo 11, e ne chiede l'assegnazione al competente consiglio di amministrazione dell'Agenzia, il quale provvede entro sessanta giorni dalla richiesta.

Quanto al procedimento di nomina del segretario comunale o provinciale questa Corte ha affermato che lo stesso (al pari di quello di revoca) ha natura negoziale di diritto privato, in quanto posto in essere dall'ente locale con la capacità e i poteri del datore di lavoro (v. Cass. 31.10.2017, n. 25960; Cass. 15.05.2012, n. 7510; Cass. 09.02.2007, 25969; Cass., Sez. Un., 20.06.2005, n. 16876; Cass., Sez. Un., 12.08.2005, n. 166876).
La natura fiduciaria dell'incarico, che termina con la scadenza dell'organo amministrativo elettivo di riferimento, è stata, in particolare, affermata da questa Corte con riferimento alla tipologia e alla varietà dei compiti di collaborazione e di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi comunali in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti in piena coerenza con il ruolo del segretario quale controllore di legalità (art. 97, comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000) nonché alle funzioni consultive, referenti e di assistenza alle riunioni del consiglio e della giunta (art. 97, comma 4, lett. a, del d.lgs. n. 267 del 2000) -v. Cass. 23.08.2008, n. 12403; Cass. 01.07.2008, n. 17974 e da ultimo Corte Costituzionale n. 23 del 22.02.2019-.
Peraltro le indicate funzioni si sono anche arricchite con la legislazione successiva: in particolare, con la l. n. 190 del 2012 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione), nonché con il d.lgs. n. 33 del 2013 (Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni) che attribuiscono al segretario comunale, di norma, il ruolo di responsabile della prevenzione della corruzione e quello di responsabile della trasparenza.
Né, in ragione di detta fiduciarietà, che evidentemente non si esaurisce con l'atto di nomina, può dirsi che sussista un diritto soggettivo alla riconferma.
Il segretario comunale è, infatti, destinato a cessare automaticamente dalle proprie funzioni al mutare del sindaco (salvo conferma), eppure anche in tal caso è garantito nella stabilità del suo status giuridico ed economico e del suo rapporto d'ufficio, restando iscritto all'Albo dopo la mancata conferma e restando perciò a disposizione per successivi incarichi.
La legge è chiara nello stabilire che il segretario decade "automaticamente dall'incarico con la cessazione del mandato del sindaco", tuttavia lo stesso è chiamato a continuare nelle sue funzioni per un periodo non inferiore a due e non superiore a quattro mesi, in attesa di  eventuale conferma, a garanzia della stessa continuità dell'azione amministrativa.

Tale essendo il quadro in cui si colloca la pretesa reintegratoria del ricorrente, va detto che, anche a voler ritenere applicabile (per l'analoga fiduciarietà che caratterizza l'affidamento dell'incarico dirigenziale) il principio affermato da Cass. n. 3677/2009 cit. con riferimento alla revoca dell'incarico dirigenziale in ipotesi di non sussistenza della giusta causa per il recesso anticipato dal contratto a tempo determinato ed al diritto del dirigente alla riassegnazione di tale incarico precedentemente revocato, per il tempo residuo di durata (che, nel caso in esame, comprenderebbe anche quello dell'automatica obbligatoria prosecuzione in attesa di eventuale conferma), detratto il periodo di illegittima revoca, tuttavia la stessa non è decisiva perché sconta la circostanza, pacifica agli atti, che la Fr. a far data dal 03/01/2012 (e dunque ben prima della pronuncia di primo grado) prestava servizio presso la Prefettura di Bergamo ed era stata cancellata dall'Albo dei Segretari Comunali (v. pag. 6 del ricorso per cassazione).
Dunque aveva perso uno dei requisiti necessari perché si potesse ricostituire il rapporto.
5. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 97, 99, 100 e 101 del d.lgs. n. 267/2000, dell'art. 19 del d.lgs. n. 165/2001, dell'art. 2103 cod. civ., degli artt. 1218, 1223 e 2059 cod. civ. nonché omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione al rigetto della domanda di risarcimento del danno alla professionalità.
Sostiene che la perdita delle mansioni e il collocamento in disponibilità fossero già significativi del danno alla professionalità.
6. Il motivo è infondato.
Se è vero che il demansionamento ben può essere foriero di danni al bene immateriale della dignità professionale del lavoratore, è del pari vero che -per costante giurisprudenza di questa S.C.- essi non sono in re ipsa e devono pur sempre essere dimostrati (seppure, eventualmente, a mezzo presunzioni e/o massime di esperienza) da chi si assume danneggiato (cfr., ex aliis, Cass., Sez. Un., 24.03.2006, n. 6572).
Il principio è stato ulteriormente precisato in successive decisioni in particolare evidenziandosi che
il risarcimento del danno professionale, non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo (così Cass. 14.11.2016, n. 23146; Cass. 17.11.2016, n. 23432) e che, se la relativa prova può essere acquisita in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo precipuo rilievo quella per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) potendosi, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno (così Cass. 19.12.2008, n. 29832 e negli stessi termini Cass. 18.09.2015, n. 18431), tuttavia il ricorso alle presunzioni è consentito a condizione che sia stata allegata la natura del pregiudizio e che il ricorrente abbia dedotto e provato circostanze diverse ed ulteriori rispetto al mero inadempimento, che possano essere valorizzate per risalire dal fatto noto a quello ignoto (v. Cass. 19.08.2016, n. 17214).
In tema di prova del danno da dequalificazione professionale ex art. 2729 cod. civ., non è allora sufficiente a fondare una corretta inferenza presuntiva il semplice richiamo di categorie generali (come la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la gravità del demansionamento, la sua durata e altre simili), dovendo il giudice di merito procedere, pur nell'ambito di tali categorie, ad una precisa individuazione dei fatti che assume idonei e rilevanti ai fini della dimostrazione del fatto ignoto, alla stregua di canoni di probabilità e regole di comune esperienza (v. Cass. 18.08.2016, n. 17163).
Nella specie, il giudice di merito, facendo corretta applicazione degli indicati principi, con accertamento di fatto non surrogabile in questa sede, ha ritenuto che la Fr. si fosse limitata a prospettare un danno in re ipsa senza dedurre una sola circostanza concreta atta a dimostrare la sussistenza di un danno risarcibile e così omettendo di fornire al giudicante i parametri necessari per giungere ad una valutazione seppure presuntiva.
Alle suddette considerazioni la ricorrente oppone, in modo inammissibile, una diversa lettura delle risultanze di cause.
Né del resto è sostenibile che la perdita dell'incarico, proprio per il peculiare funzionamento e per la dinamica professionale del segretario comunale, possa identificare un fatto ex se generatore di un danno alla professionalità.

PUBBLICO IMPIEGOIl patteggiamento legittima il licenziamento disciplinare.
Ai fini della responsabilità disciplinare e del conseguente licenziamento intimato al dipendente pubblico, la sentenza di patteggiamento divenuta irrevocabile equivale a una pronuncia di condanna.

Sulla base di questo principio la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la sentenza 31.07.2019 n. 20721 ha rigettato il ricorso del tecnico di un Comune, addetto al settore lavori pubblici, contro la decisione del Tribunale che aveva respinto l'impugnativa del licenziamento disciplinare intimato al dipendente, quale conseguenza della sentenza penale di patteggiamento per i reati di turbativa d'asta e corruzione pronunciata dal medesimo Tribunale, in sede penale.
La Corte d'Appello adita dal tecnico comunale aveva respinto il gravame avverso la sentenza di primo grado, e la Suprema Corte ha confermato la linea di giudizio, anche perché l'ha ritenuta coerente con il tenore letterale dell'articolo 445 del codice di procedura penale, che prevede, per quanto riguarda gli effetti dell'applicazione della pena su richiesta, che la sentenza sia equiparata a una pronuncia di condanna (comma 1-bis).
Il presupposto per il licenziamento disciplinare
Non è la prima volta che la giurisprudenza si occupa della questione per il fatto che, nella generalità dei casi, le norme della contrattazione collettiva afferente il pubblico impiego citano, quale presupposto per attivare il licenziamento disciplinare, la sentenza penale di condanna passata in giudicato, mentre sul punto si è sostenuto che l'applicazione della pena su richiesta dell'imputato non sarebbe tecnicamente configurabile come una sentenza di condanna.
Il dubbio è stato risolto dall'orientamento dominante, secondo cui il giudice di merito, nell'interpretare la clausola contrattuale frutto della volontà delle parti collettive, può ben ritenere che queste, nell'usare l'espressione «sentenza di condanna» abbiano inteso evocare il concetto in senso lato, tenuto conto che nell'ipotesi di patteggiamento, articolo 444 del codice di procedura penale, l'imputato non nega la propria responsabilità ma esonera l'accusa dell'onere della relativa prova in cambio di una riduzione di pena.
Ne deriva che la sentenza di patteggiamento assume efficacia di sentenza irrevocabile di condanna nel procedimento disciplinare, con riguardo all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e dell'affermazione che l'imputato lo ha commesso.
L'orientamento della giurisprudenza
A onor del vero, non è mancata qualche pronuncia fuori dal coro, che ha osservato come «la sentenza pronunciata a norma dell'articolo 444 del Cpc non è una vera e propria sentenza di condanna (…) con la conseguenza che, dovendosi escludere che siffatta sentenza possa acquisire autorità di giudicato, la stessa non può rilevare ai fini della definizione di un processo civile avente a oggetto la legittimità di un licenziamento fondato esclusivamente su una disposizione del contratto collettivo che consente la risoluzione del rapporto di lavoro nell'ipotesi di condanna a pena detentiva comminata al lavoratore con sentenza passata in giudicato» (Cassazione sentenza n. 7196/2006).
Si tratta però di pronunce isolate, che nel corso del tempo sono state superate da un orientamento di segno opposto.
L'analisi della Corte
La Cassazione ha avallato l'indirizzo dominante sostenendo che, a fronte di un chiaro orientamento normativo, «non vi è ragione di trasporre, sul piano disciplinare, distinguo e varianti fondate sulle caratteristiche intrinseche della sentenza di patteggiamento che sono proprie dell'ambito penale in senso stretto».
Di qui il principio secondo cui la sentenza di patteggiamento divenuta irrevocabile produce effetti di giudicato nel giudizio sulla responsabilità disciplinare del dipendente pubblico quanto all'accertamento del fatto, della sua illiceità penale e riferibilità al dipendente stesso (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 04.09.2019).

ATTI AMMINISTRATIVI: In materia di risarcimento del danno.
Il principio generale dell’onere della prova previsto nell’art. 2697 cod. civ. si applica anche all’azione di risarcimento per danni proposta dinanzi al giudice amministrativo, con la conseguenza che spetta al danneggiato dare in giudizio la prova di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria, e quindi del danno di cui si invoca il ristoro per equivalente monetario, con la conseguenza che, laddove la domanda di risarcimento manchi dalla prova del danno da risarcire, la stessa deve essere respinta.
Pertanto, il danno ingiusto va dimostrato sia sotto il profilo dell’esistenza, sia sotto il profilo dell’ammontare, sicché in mancanza di idonea allegazione e di prova da parte di colui che assume di essere stato danneggiato, non può essere accordato alcun risarcimento.
Né al riguardo può sopperire la liquidazione equitativa del giudice, che ha natura sussidiaria e non sostitutiva dell’onere di allegazione e di prova della parte: essa interviene laddove l’impossibilità o l’estrema difficoltà di una stima esatta dei danni patiti dal danneggiato dipenda da fattori oggettivi e non dalla negligenza di questi nell’adempiere all’onere su di esso incombente
---------------

La domanda di risarcimento dei danni avanzata dal ricorrente, deve essere respinta, in quanto assolutamente generica e sfornita di prova, atteso che il ricorrente si limita a chiedere il risarcimento di € 50.000, ovvero della somma “che sarà per risultare ovvero ritenuta per equità”.
Per costante giurisprudenza, invero, il principio generale dell’onere della prova previsto nell’art. 2697 cod. civ. si applica anche all’azione di risarcimento per danni proposta dinanzi al giudice amministrativo, con la conseguenza che spetta al danneggiato dare in giudizio la prova di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria, e quindi del danno di cui si invoca il ristoro per equivalente monetario, con la conseguenza che, laddove la domanda di risarcimento manchi dalla prova del danno da risarcire, la stessa deve essere respinta (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. VI, 19/11/2018 n. 6506).
Pertanto, il danno ingiusto va dimostrato sia sotto il profilo dell’esistenza, sia sotto il profilo dell’ammontare, sicché in mancanza di idonea allegazione e di prova da parte di colui che assume di essere stato danneggiato, non può essere accordato alcun risarcimento; né al riguardo può sopperire la liquidazione equitativa del giudice, che ha natura sussidiaria e non sostitutiva dell’onere di allegazione e di prova della parte: essa interviene laddove l’impossibilità o l’estrema difficoltà di una stima esatta dei danni patiti dal danneggiato dipenda da fattori oggettivi e non dalla negligenza di questi nell’adempiere all’onere su di esso incombente (v. TAR Lombardia, Sez. II, 06/02/2019 n. 269) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 15.07.2019 n. 1629 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAA) ai sensi dell'art. 37, ult. comma, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, “la mancata denuncia di inizio dell'attività non comporta l'applicazione delle sanzioni previste dall'articolo 44. Resta comunque salva, ove ne ricorrano i presupposti in relazione all'intervento realizzato, l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 31, 33, 34, 35 e 44 e dell'accertamento di conformità di cui all'articolo 36”;
   B) secondo la costante giurisprudenza, “in presenza di abusivismo edilizio, ai sensi degli artt. 22 e 37, comma 1, d.p.r. n. 380/2001 (T.U. Edilizia), l'applicabilità della sanzione pecuniaria è limitata ai soli interventi astrattamente realizzabili previa denuncia d'inizio attività che siano, altresì, conformi agli strumenti urbanistici vigenti”;
   C) pertanto, laddove manchino i presupposti per l'intervento, come, per l'appunto, nel caso in cui l'opera sia stata posta in essere in violazione del norme edilizie, è ammessa l'adozione dell'ordinanza di demolizione.
Da ciò ne consegue che, sebbene l'intervento in esame possa dirsi sottoposto a DIA, lo stesso, in ragione della descritta contrarietà alla normativa comunale (per quanto si è detto e quindi che l’opera in concreto realizzata non può considerarsi organismo edilizio completamente interrato, come invece il proprietario aveva rappresentato di voler realizzare presentando la d.i.a iniziale e quella in variante e che la predetta opera è stata costruita grazia ad un innalzamento del piano di campagna oltre i limiti consentiti dall’art. 4, comma 3, punto 5, delle N.T.A. al vigente P.R.G.), rientra nelle ipotesi eccezionali che, in considerazione della gravità dell'illecito, giustificano l'adozione della massima sanzione della demolizione, così derogando alla regola che prevede per tali casi l'applicazione della sola sanzione pecuniaria.
---------------

8. – Quanto poi alle rimanenti censure (ri)proposte nei motivi di appello, non resta che rammentare che:
   A) ai sensi dell'art. 37, ult. comma, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, “la mancata denuncia di inizio dell'attività non comporta l'applicazione delle sanzioni previste dall'articolo 44. Resta comunque salva, ove ne ricorrano i presupposti in relazione all'intervento realizzato, l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 31, 33, 34, 35 e 44 e dell'accertamento di conformità di cui all'articolo 36”.
   B) secondo la costante giurisprudenza, “in presenza di abusivismo edilizio, ai sensi degli artt. 22 e 37, comma 1, d.p.r. n. 380/2001 (T.U. Edilizia), l'applicabilità della sanzione pecuniaria è limitata ai soli interventi astrattamente realizzabili previa denuncia d'inizio attività che siano, altresì, conformi agli strumenti urbanistici vigenti” (così Cons. Stato, Sez. VI, 24.05.2013 n. 2873);
   C) pertanto, laddove manchino i presupposti per l'intervento, come, per l'appunto, nel caso in cui l'opera sia stata posta in essere in violazione del norme edilizie come è stato evidenziato dalla sentenza che qui viene appellata e come è confermato dall’esame della documentazione depositata (anche) nella sede di appello, è ammessa l'adozione dell'ordinanza di demolizione.
Da ciò ne consegue che, sebbene l'intervento in esame possa dirsi sottoposto a DIA, lo stesso, in ragione della descritta contrarietà alla normativa comunale (per quanto si è sopra detto e quindi che l’opera in concreto realizzata non può considerarsi organismo edilizio completamente interrato, come invece il proprietario aveva rappresentato di voler realizzare presentando la d.i.a iniziale e quella in variante e che la predetta opera è stata costruita grazia ad un innalzamento del piano di campagna oltre i limiti consentiti dall’art. 4, comma 3, punto 5, delle N.T.A. al vigente P.R.G.), rientra nelle ipotesi eccezionali che, in considerazione della gravità dell'illecito, giustificano l'adozione della massima sanzione della demolizione, così derogando alla regola che prevede per tali casi l'applicazione della sola sanzione pecuniaria (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.05.2019 n. 3110 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL'Amministrazione che abbia richiesto e ottenuto un parere, sia pure solo facoltativo, non può adottare determinazioni in contrasto con l'avviso dell'organo consultato, senza esternare, mediante congrua motivazione, le ragioni che la inducono a disattendere le considerazioni e le conclusioni contenute nel parere medesimo.
Altresì, "Quando la pubblica amministrazione ha volontariamente acquisito un parere non obbligatorio, essa ha autonomamente vincolato la formazione della propria volontà alla acquisizione di chiarimenti o conoscenze non in suo possesso e dunque non può, successivamente, non tenerne conto".
Alla luce di quanto appena riportato consegue che l'amministrazione, allorché richieda sia pure facoltativamente un dato parere ad un organo tecnico-amministrativo (ai sensi dell'art. 16, comma 1, secondo periodo, della legge n. 241 del 1990), deve successivamente tenerne conto in sede di decisione definitiva. Con l'ulteriore obbligo di specificare i motivi per cui ritenga eventualmente di discostarsene.
E ciò anche in ossequio ad un principio di coerenza dell'azione amministrativa che risiede nel più generale canone della certezza e della sicurezza giuridica, in particolare laddove taluni interessi dei singoli cittadini e delle singole imprese siano affidati, proprio come nel caso di specie, alle cure di una pubblica amministrazione.
---------------

Analogamente deve essere disattesa l’ulteriore censura, a mezzo della quale si lamenta l’allegata incongruenza tra la richiesta di parere all’avvocatura comunale e la delibera tutoria impugnata, essendo sufficiente, in proposito, rilevare che, con la richiesta di un parere facoltativo l'amministrazione richiedente non opera una sorta di autolimitazione, nel senso che non può certamente procedere all'adozione dell'atto provvedimentale se non dopo che l'organo consultato si sia espresso.
In tal senso si è, del resto, espressa nel tempo la prevalente giurisprudenza amministrativa: "L'Amministrazione che abbia richiesto e ottenuto un parere, sia pure solo facoltativo, non può adottare determinazioni in contrasto con l'avviso dell'organo consultato, senza esternare, mediante congrua motivazione, le ragioni che la inducono a disattendere le considerazioni e le conclusioni contenute nel parere medesimo" (TAR Marche, sez. I, 13.12.2005, n. 1646); ed ancora: "Quando la pubblica amministrazione ha volontariamente acquisito un parere non obbligatorio, essa ha autonomamente vincolato la formazione della propria volontà alla acquisizione di chiarimenti o conoscenze non in suo possesso e dunque non può, successivamente, non tenerne conto" (Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 21.11.2007, n. 1049).
Alla luce di quanto appena riportato consegue che l'amministrazione, allorché richieda sia pure facoltativamente un dato parere ad un organo tecnico-amministrativo (ai sensi dell'art. 16, comma 1, secondo periodo, della legge n. 241 del 1990), deve successivamente tenerne conto in sede di decisione definitiva. Con l'ulteriore obbligo di specificare i motivi per cui ritenga eventualmente di discostarsene. E ciò anche in ossequio ad un principio di coerenza dell'azione amministrativa che risiede nel più generale canone della certezza e della sicurezza giuridica, in particolare laddove taluni interessi dei singoli cittadini e delle singole imprese siano affidati, proprio come nel caso di specie, alle cure di una pubblica amministrazione
(TAR Lazio-Latina, sentenza 24.08.2018 n. 465 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: L’onere motivazionale, gravante sull’amministrazione nel caso di annullamento in autotutela di un piano attuativo in precedenza adottato, deve ritenersi comunque attenuato in ragione della natura generale dell’atto e della rilevanza degli interessi pubblici tutelati.
Pertanto laddove venga in rilievo la tutela di preminenti valori pubblici di carattere ‘autoevidente’, l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate le quali normalmente possano integrare le ragioni di interesse pubblico che depongono nel senso dell’esercizio del ius poenitendi.
---------------
Non possono ritenersi violati i principi di presunzione di legittimità dell’atto amministrativo e di tipicità nominativa dei provvedimenti amministrativi stante, da un lato, che per condivisa giurisprudenza "la legittimità di un atto amministrativo va accertata con riguardo allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo il principio del tempus regit actum. Sicché non si può validare ex post un'azione amministrativa che al momento in cui fu adottata si appalesava illegittima, se non con le regole e nei limiti della autotutela" e dall’altro che l’autotutela d’ufficio rientra a pieno diritto tra i tipi funzionali che il legislatore prevede espressamente per realizzare il fine pubblico.

---------------

Con specifico riguardo alla motivazione, va osservato quanto segue:
   - il commissario straordinario, con la delibera n. 208/2016 impugnata, si è soffermato sulla sussistenza di plurimi profili di illegittimità nei piani attuativi approvati dall’ente regionale per silentium, enucleando le specifiche ragioni ostative ad intraprendere possibili rimedi in chiave conservativa;
   - l'intervento contemplato nel piano attuativo di che trattasi riguarda una superficie estesa di territorio e prevede la realizzazione di una volumetria di rilevante entità che esula dalle previsioni del p.r.g., e perciò non può essere giustificata se non con un intervento volto a variare l’esistente;
   - l’istituto invocato della compensazione/perequazione, a parte il fatto che il relativo regolamento non è stato recepito dagli strumenti di pianificazione generale, non può ragionevolmente costituire un valido correttivo idoneo a sanare il contestato Piano;
   - l'esigenza di evitare la compromissione di una porzione così ampia di territorio non sembra potersi ricondurre al solo ripristino della legalità violata, ma costituisce valida ragione di interesse pubblico che sorregge l'adozione di un provvedimento di autotutela come quello impugnato.
I vizi sostanziali riscontrati dal commissario straordinario -tra cui una decurtazione del 20% della volumetria rilevata che avrebbe consentito una maggiore disponibilità di volumetria realizzabile di circa 277,722 mc oltre a quella di mc 130.388 ancora da realizzare- fanno del piano particolareggiato, solo formalmente tale, un vero e proprio strumento in variante al p.r.g., che avrebbe dovuto essere sottoposto all’adozione del Consiglio Comunale e all’approvazione della Regione.
La società ricorrente richiama norme inconferenti o invoca in modo assai generico lo strumento della perequazione (anzi l’aumento della volumetria privata dimostra il mancato esercizio della perequazione).
Tanto è sufficiente a dare riscontro alla ritenuta illegittimità del P.P.E.
Il metodo seguito è corretto: procedimento analogo a quello compiuto per l’approvazione dell’atto oggetto dell’annullamento d’ufficio, con pubblicità per l’avvio del procedimento (senza comunicazione individuale, dato che non ci sono soggetti nominati nel p.p.e. quali specifici destinatari), raccolta delle osservazioni e loro valutazione, quindi adozione del provvedimento di autotutela.
Va rilevato che l’onere motivazionale, comunque gravante sull’amministrazione nel caso di annullamento in autotutela del strumento attuativo in precedenza adottato, deve ritenersi comunque attenuato in ragione della natura generale dell’atto e della rilevanza degli interessi pubblici tutelati.
Pertanto laddove venga in rilievo la tutela di preminenti valori pubblici di carattere ‘autoevidente’, l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate le quali normalmente possano integrare le ragioni di interesse pubblico che depongono nel senso dell’esercizio del ius poenitendi.
Né possono ritenersi violati i principi di presunzione di legittimità dell’atto amministrativo e di tipicità nominativa dei provvedimenti amministrativi stante, da un lato, che per condivisa giurisprudenza (si veda ancora di recente Consiglio di Stato, Sez. IV, 28.06.2016, n. 2892) "la legittimità di un atto amministrativo va accertata con riguardo allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo il principio del tempus regit actum. Sicché non si può validare ex post un'azione amministrativa che al momento in cui fu adottata si appalesava illegittima, se non con le regole e nei limiti della autotutela" e dall’altro che l’autotutela d’ufficio rientra a pieno diritto tra i tipi funzionali che il legislatore prevede espressamente per realizzare il fine pubblico
(TAR Lazio-Latina, sentenza 24.08.2018 n. 465 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

inizio home-page